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Seduzione d'autore AA. VV. Il tocco proibito del samurai Pagina Romanzo P AG . 135 P AG . 195 P AG . 245 P AG . 79 P AG . 7 9 ELIZABETH ROLLS Pagina Romanzo 11 1 9 10 11 12 13 Non si sarebbe dovuto trovare lì. Nessun contatto. Perché diavolo allora, dopo aver corrotto il padrone del- la bottega per ottenere l'indirizzo, stava in piedi sotto la pioggia nello Strand, di fronte all'ingresso del vicolo che 14 15 16 17 18 19 20 21 22

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AA. VV.

Seduzione d'autore

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Pagina RomanzoPAG. 7

Una relazione scandalosa

PAG. 79

Sedurre un vichingo

PAG. 135

Un'audace scommessa

PAG. 195

Il tocco proibito del samurai

Notti arabe PAG. 245

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Pagina Romanzo

ELIZABETH ROLLS

Una relazione scandalosa

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Inghilterra, inizio XIX secolo La donna gettò un'occhiata da sopra la spalla, un sorriso sulle labbra, il volto parzialmente nascosto dal cap-puccio del mantello. Non una parola, solo quel sorriso seducente, invitante e innocente nello stesso tempo. Il respiro gli usciva in un ansito mentre lui allungava la mano, sfiorando il mantello gonfiato dal vento. Le sue dita vi passarono attraverso come se fosse una nuvo-la di fumo, dissolvendosi senza un suono e portando via con sé quella visione. Non rimasero che il desiderio e il senso di perdita... Si destò di soprassalto, respirando a fatica mentre bal-zava a sedere. Aveva fatto un sogno incredibile... o, se non altro, supponeva di averlo fatto. Il sudore si stava raffreddando sul suo corpo, il cuore gli martellava in petto. Sì. Qualcosa che riguardava un mantello. Il guaio era che non riusciva a ricordare. Non rammentava che di aver sognato, di aver desiderato qualcosa, che poi era svanito. Era stato il mantello a portarla via, o lui a la-sciarsela sfuggire? Si lasciò ricadere sul cuscino e chiuse gli occhi. Men-

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tre scivolava di nuovo nel sonno un pensiero gli sfrecciò nella mente... Qualcosa? Qualcuno? Evelyn Fitzhugh, Visconte St. Austell, fissò i disegni che presto si sarebbero trasformati in affreschi e avreb-bero ornato le pareti della camera da letto padronale del-la sua dimora di Grosvenor Square. Una frase della let-tera in cui Lionel Trehearne chiedeva di assegnargli l'in-carico gli si affacciò alla memoria. Potreste scoprire, milord, che lo stile di quei dipinti non corrisponde del tutto alle vostre aspettative. Quell'impersonale milord lo aveva talmente sbigottito che aveva notato a stento il resto della missiva. Milord... proveniente da Lionel, figurarsi. E la lettera era firmata con un freddo Trehearne. Tuttavia, sapendo di meritar-selo per ciò che aveva fatto, Evelyn lo aveva accettato con tutta la buona grazia che era riuscito a racimolare e gli aveva assegnato l'incarico. Malgrado la differenza di classe sociale esistente fra loro, il figlio ed erede di un visconte e il figlio di una maestro di scuola, un tempo Lionel era stato come un fratello maggiore per lui. E lui lo aveva ricompensato con un tradimento così ignobile che arrossiva ancora per la vergogna al ricordo. La gioventù poteva giustificare un comportamento sventato, non la mancanza di senso dell'onore. In quel momento, osservando i dipinti che aveva ordi-nato, ricordò il contenuto della lettera. Lo stile di Lionel era cambiato. Radicalmente. Oh, riconosceva la tecnica, le stesse linee essenziali che suggerivano forme e di-mensioni tracciate con il carboncino. Ma sei anni addie-tro le opere di Lionel, sebbene indubbiamente apprezza-

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bili, non lo avevano lasciato senza fiato. Erano state ero-tiche, ma quella... quella struggente sensualità... era completamente nuova. Deglutendo a stento, Evelyn esaminò ancora una volta l'esile ninfa raffigurata sulle pareti della camera da letto. Chi era? Benché fosse ancora disegnata grossolanamen-te, la sua identità sarebbe rimasta un mistero, anche quando fosse stata ultimata. In ognuno dei cinque schizzi il viso era celato. In uno era ombreggiato da un mantello mentre si gettava un'oc-chiata da sopra la spalla... in un addio? Era ritratta di spalle in quello successivo, mentre si abbandonava fra le braccia del suo amante e lui si chinava per catturarle la bocca. Una serica capigliatura le velava il viso nel terzo schizzo... come aveva fatto Lionel con così pochi tratti a riprodurre lo splendore dei suoi capelli? Evelyn deglutì a stento. Lionel lo aveva intitolato La ninfa, in adorazione ai piedi del dio, imita il bacio di Venere ad Apollo. La cascata di riccioli poteva anche nascondere l'atto vero e proprio, ma la testa che il dio aveva rove-sciato nell'imminenza dell'estasi e la mano che aveva in-sinuato fra le morbide ciocche della ninfa per ac-carezzarle la gola non lasciavano dubbi su quello che lei stava facendo. La bocca gli si inaridì e il cuore gli saltò in gola. Si azzardò a malapena a guardare il disegno successivo, la ninfa che cedeva alla passione del suo amante immorta-le. Nell'ultimo, giaceva addormentata e appagata fra le braccia di lui, il volto coperto dalla mano che lo stava accarezzando teneramente. Abbassando le palpebre, Evelyn ebbe l'impressione di

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percepire il freddo fuoco di quella chioma che gli scivo-lava fra le dita, la guancia levigata contro la spalla, la carezza dell'alito fresco. Non aveva intenzione di la-sciarsela sfuggire di nuovo. Non poteva. Lo sferragliare delle ruote di una carrozza nella strada sottostante lo trasse di colpo dal suo sogno a occhi aper-ti, così tornò a fissare la realtà degli affreschi che aveva commissionato. Chi era la ninfa? Maledizione! Lionel era l'ultimo uomo al mondo che avrebbe scelto per eseguire quell'incarico. Sei anni pri-ma aveva accettato il suo ultimatum ed era uscito per sempre dalla loro vita. Solo tramite un amico comune aveva appreso che era partito per l'Italia. Con ogni pro-babilità aveva dubitato della sua capacità di mantenere la promessa fatta. Lui non avrebbe mai saputo che era tornato se non avesse ricevuto quella lettera, a cui erano acclusi diversi schizzi a penna e a matita. Non aveva la più pallida idea di come il pittore fosse venuto a cono-scenza delle sue intenzioni, pur immaginando che fosse di dominio pubblico il fatto che il dissoluto Visconte St. Austell desiderava far affrescare le pareti della sua stan-za per festeggiare la presa di possesso della dimora di Grosvenor Square, dopo che l'ultima delle sue prozie paterne l'aveva lasciata per trasferirsi nella residenza di campagna di una cugina. Ovviamente, avrebbe potuto occuparla anche quando vi abitava la prozia Millicent. Tuttavia, la prospettiva di essere costretto a sorbirsi una lezione di catechismo o-gni volta che avesse trascorso la notte fuori casa, o aves-se fatto qualcosa di sia pur lontanamente scandaloso, era stata sufficiente a indurlo a rimanere nel suo apparta-

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mento in affitto da quando aveva ereditato il titolo di suo padre, quattro anni prima. Come se non bastasse, Millicent aveva apertamente disapprovato il suo interesse per la pittura. Non esatta-mente il suo interesse, a onor del vero, ma i suoi gusti. E quando si era presa la libertà di far passare una mano di vernice rossa su uno dei suoi nudi preferiti, che peraltro era stato appeso in una delle stanze per gli ospiti, ogni limite era stato oltrepassato. Quella, di conseguenza, costituiva la sua vendetta. La prozia, che amava tanto enumerare le eccelse virtù di quel sant'uomo di suo padre, il quarto visconte, avrebbe avuto un colpo apoplettico quando fosse venuta a sapere che cosa ornava adesso le pareti della camera da letto del suddetto sant'uomo. Una mezza dozzina di pittori avevano sottoposto i lo-ro disegni alla sua attenzione. Lui li aveva scartati tutti. Era vero che aveva chiesto dei dipinti espliciti, ma tutti quegli schizzi non erano stati che osceni e volgari. Seb-bene il suo scopo principale fosse quello di mandare la prozia Millicent su tutte le furie, quello non significava che intendesse circondarsi di affreschi disgustosi. Fatta eccezione per le proposte di Lionel, nessun'altra gli aveva suscitato un fremito di eccitazione. Avrebbe potuto rifiutarle, certo. Anche dopo sei anni, strofinare del sale sulla ferita gli avrebbe procurato un notevole bruciore. Ma l'indirizzo del mittente, una bottega nei pressi del Ponte di Westminster, indicava che il pittore navigava in cattive acque. Esisteva un solo modo che gli avrebbe consentito di aiutarlo e, forse, di poter fare ammenda per la sventatezza che aveva messo fine alla loro amicizia.

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O almeno era quello che andava dicendo a se stesso. Scoccò un'altra occhiata alla ninfa adorante e la sua virilità si risvegliò all'istante. Dunque aveva risposto alla lettera, precisando che co-sa desiderava e tralasciando qualunque accenno alla rot-tura dei loro rapporti, limitandosi ad aggiungere in fon-do che si augurava che godessero entrambi di buona sa-lute. Perfino adesso il ricordo di Loveday Trehearne lo riempiva di vergogna. Un rimorso senza fine per la pro-pria egoistica, giovanile condotta. Non si sarebbe mai sognato di nominarla in una lettera indirizzata a suo fra-tello. Specialmente in una lettera che riguardava quel particolare incarico. Nella missiva che gli aveva inviato in seguito anche Lionel non aveva parlato che dell'ordinazione, accettan-dola con un'unica condizione. I loro contatti sarebbero stati esclusivamente epistolari. Il compenso doveva es-sere depositato direttamente in un conto alla Hoare's Bank. Non si sarebbero mai incontrati, il che significava che Loveday viveva ancora con lui. Evelyn riportò lo sguardo sulle pareti. Gli schizzi era-no terminati. Doveva a Lionel del denaro, che avrebbe dovuto depositare prima che lui iniziasse a dipingere gli affreschi veri e propri. E prima lo avesse fatto prima sa-rebbero stati terminati, e lui avrebbe potuto traslocare nella sfarzosa dimora di famiglia. Non si sarebbe dovuto trovare lì. Nessun contatto. Perché diavolo allora, dopo aver corrotto il padrone del-la bottega per ottenere l'indirizzo, stava in piedi sotto la pioggia nello Strand, di fronte all'ingresso del vicolo che

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portava a Little Frenchman's Yard, in procinto di venir meno al loro accordo? Aveva depositato il denaro in banca. Non esisteva alcun motivo che giustificasse la sua presenza in quel posto. Tranne... Voleva vedere Lionel, dannazione! Niente altro. For-se tentare di farsi perdonare. Non aveva la benché mi-nima intenzione di macchiare di nuovo il suo onore. Benché, a giudicare dal vicolo maleodorante che immet-teva nel cortile, sembrasse altamente improbabile che Loveday vivesse lì. Il fratello non le avrebbe mai per-messo di abitare in un luogo del genere. Poteva darsi che lei si fosse sposata o... Sposata. Evelyn si costrinse a distendere i pugni. Non era affar suo se Loveday si era sposata. Anche lui stava prendendo in seria considerazione l'idea di fidanzarsi. Non che avesse ancora incontrato Miss Angaston, ma delle delicate trattative erano in corso fra le sue zie e i genitori di lei. Veniva giudicata un'unione ideale in tutti i sensi. Bella e ricca lei, ricco e titolato lui. Era il tipo di matrimonio che tutti si aspettavano facesse, un concetto che gli era stato inculcato fin dall'infanzia. Nel suo am-biente ci si sposava per elevarsi sulla scala sociale, per denaro, per convenienza, per dovere nei confronti della propria famiglia. Lui non lo aveva mai messo in dubbio, in effetti. Ricordava la voce pacata del padre che gli suggeriva delle probabili candidate, ma gli assicurava che non c'era fretta, che se prima si fosse voluto diverti-re sarebbe stato assolutamente comprensibile. Quelle parole erano sembrate logiche e assennate all'epoca. Era così che si usava. Suo padre, tuttavia, era mancato da quattro anni. A ventotto, anche senza le non troppo velate esortazioni

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delle sue zie, sapeva che era arrivato il momento di si-stemarsi. Alcuni mesi addietro, la mattina del suo com-pleanno, si era svegliato con uno strano sapore in bocca e si era chiesto chi fosse lo sconosciuto che lo stava fis-sando nello specchio, e perfino se lo trovasse simpatico. Aveva delle responsabilità, delle persone che dipende-vano da lui. Per farla breve, era maturato. Adesso... Evelyn esitò all'ingresso del vicolo. Qualcu-no stava russando. Arricciò il naso al fetore che si spri-gionava dallo stretto passaggio. Sei anni prima Lionel aveva occupato un alloggio de-coroso a Bloomsbury insieme a Loveday. Niente di lus-suoso, ma avevano vissuto senza problemi grazie al la-voro di pittore. Perché adesso abitava lì? Si inoltrò nel vicolo e, via via che la vista si abituava all'oscurità, si rese conto che quel sonoro russare prove-niva da un fagotto di stracci e giornali che si trovava all'estremità opposta. Sforzandosi di trattenere il fiato, percorse il vicolo, scavalcò il fagotto che puzzava di gin e uscì nel cortile. Circondato da misere casupole su ogni lato, il cortile ap-pariva repellente nel fioco, grigio chiarore del tardo po-meriggio. Era difficile immaginare che anche nello splendore del mezzogiorno potesse non sembrare umido e squallido. Nella luce morente di una giornata piovosa emanava disperazione. Un bambino lo stava osservando da una soglia. Men-tre lui si avvicinava, i suoi occhi assunsero un'espressio-ne circospetta. Evelyn si avvicinò. «Buon pomeriggio. Sto cercando Lionel Trehearne.» Il bambino scrollò le spalle.

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Un gatto rosso, reduce da molte battaglie, gli sfrecciò davanti, i denti stretti attorno a un topo quasi delle sue stesse dimensioni. Lui si infilò una mano nella tasca della redingote e fe-ce tintinnare alcune monete. «Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Una scrollata del capo. Una traccia di ilarità nei suoi occhi. «No. Ha catturato un topo. Uno grosso.» «Lo vedo. E vedo che sai parlare. Dunque... Mr. Tre-hearne?» Fece tintinnare di nuovo le monete. Raddrizzandosi, il bambino indicò una porta dall'altra parte del cortile, a cui si accedeva da diversi traballanti gradini. «Lassù. O almeno immagino che sia quella la persona che volete vedere. Non c'è nessun altro qui per un elegantone come voi.» Evelyn gli gettò uno scellino. «Grazie.» La moneta scomparve, acchiappata al volo e ficcata fra i luridi stracci. Lui si avviò lungo la scala con estrema cautela. I gra-dini erano traballanti quanto apparivano. Ognuno di essi scricchiolava minacciosamente mentre avanzava, dicen-dosi che probabilmente avrebbero resistito ancora per qualche minuto. La porta sul pianerottolo era malconcia quanto la sca-la. Bussò, augurandosi che Lionel gli permettesse di a-prire bocca prima di gettarlo giù dalla rampa. Attese, tendendo l'orecchio, e infine udì dei passi leggeri dall'al-tra parte del battente. «Chi è?» Lo stomaco gli si contrasse. Non era la profonda voce baritonale che si era aspettato. Non era neppure una vo-ce maschile. Sommessa, melodiosa, la riconobbe all'i-

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stante. Le parole gli morirono sulle labbra, paralizzate al pari della sua mente. Un solo suono, un solo pensiero acquistarono una chiarezza cristallina. Loveday. Un moto di collera lo assalì. «Sono io, Evelyn. Aprite la porta.» Un catenaccio venne fatto scorrere e il battente si di-schiuse. «Vedo che sei anni non vi hanno minimamente priva-to del vostro fascino» dichiarò Loveday Trehearne. Per un istante, lui riuscì soltanto a fissare la donna in piedi sulla soglia sbilenca, tentando di riconciliarla con la ragazza che ricordava. I grandi occhi dorati, i capelli di oro rosso, la postura orgogliosa del mento. Una pic-cola mano arrossata si sollevò in un gesto penosamente familiare per scostare un ricciolo ribelle. Sebbene non fosse molto cambiata, gli occhi dorati che una volta avevano sfavillato di gioia e di gaia inno-cenza esprimevano diffidenza e qualcosa di più oscuro... disperazione? I riccioli fiammeggianti, un tempo raccol-ti in un morbido nodo da cui alcuni riuscivano sempre a sfuggire, ora erano imprigionati in una crocchia severa... con solo una ciocca più corta che le ricadeva sulla fronte per indurre in tentazione le dita di un uomo. E la sua bocca, un tempo così soffice e pronta a sorridere, sem-brava aver dimenticato che cosa fosse un sorriso. «Maledizione, Loveday» borbottò, passandole davan-ti. «Come diavolo è venuto in mente a Lionel di portarvi in questa... topaia?» Lei lo fulminò con un'occhiata. «Vi ho forse invitato a entrare, milord?»

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Quel tono glaciale lo punse sul vivo, riesumando vec-chi dolori che avrebbe preferito dimenticare. «Se non avevate intenzione di invitarmi a entrare, perché avete aperto la porta?» ribatté. Subito dopo a-vrebbe voluto mordersi la lingua. Quella era Loveday, e aveva tutto il diritto di desiderare la sua pelle per farne uno straccio. Lei strinse i pugni lungo i fianchi. «Buona domanda. È più semplice spingervi giù dalle scale con la porta a-perta, non trovate?» Evelyn fece un tremulo respiro e si costrinse a placare il proprio tumulto interiore. Se l'era meritato. «Mi dispiace. Moltissimo. Non ho mai avuto intenzio-ne di farvi del male.» «Non avete mai avuto intenzione di fare niente!» Oh, Signore, quando aveva imparato a usare quel tono sferzante? «Ho commesso un errore. Non avrei mai dovuto toc-carvi.» «Voi avete commesso un errore?» Loveday digrignò i denti e strinse gli occhi. «Un vero peccato per voi.» E alla stessa velocità in cui era divampata, la sua collera si spense in un gelido sorriso. «Vi era stato chiesto di non venire qui. Faceva parte dell'accordo, se la memoria non mi inganna.» «Siete stata voi a mettere quella condizione?» «Perché dovrebbe fare differenza?» Non avrebbe dovuto, in realtà. «Dov'è Lionel? Una volta guadagnava bene. A giudi-care dai disegni che mi ha inviato, potrebbe ancora far-lo. Perché vivete in questo modo?» Lei inarcò le sopracciglia. «Quale modo? In miseria?

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Le mode cambiano, milord. Nell'arte... quanto per le donne.» «Non fatelo!» «Che cosa? Dovrei smettere di dire la verità?» «Piantatela di chiamarmi milord come se fossi un e-straneo. In nome del cielo, Loveday... lasciate che vi aiuti. Lasciate che vi dia del denaro. Posso...» «No!» «Dannazione, Loveday! Non è che denaro. Non ha al-cuna importanza.» «È facile dirlo quando se ne possiede in abbondanza. Denaro per che cosa, comunque? Per quello che abbia-mo fatto sei anni fa?» Denaro per... La collera tornò ad assalirlo allorché il significato di quelle parole lo folgorò e la freddezza del suo sguardo lo ferì in profondità. Chiuse gli occhi per tentare di riacquistare l'autocontrollo. Quando li riaprì, lei lo stava ancora osservando, una maschera impassibile calata sul viso. Digrignò i denti per difendersi dall'ondata di furore che gli si era rove-sciata addosso e fu allora che notò, che vide veramente, le tele accatastate attorno alla squallida stanza. «Quadri» constatò. «Prego?» Grazie al cielo, la maschera aveva lasciato il posto al-la perplessità. «Li comprerò.» Se ne avesse acquistati un numero sufficiente, avrebbe aiutato Lionel a portarla via da quel... quell'inferno senza calpestare il loro orgoglio. Senza darle l'impressione che fosse stata pagata come una prostituta, anche se con notevole ritardo. «Cosa? Non li avete nemmeno guardati.»

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Non era necessario, a onor del vero. Li aveva dipinti Lionel. «Non è difficile porvi rimedio.» Si diresse verso una catasta appoggiata contro un tavolo e si accovacciò, esaminandoli a uno a uno. Paesaggi montani. Italiani, con ogni probabilità. Belli, suggestivi, dipinti dal vec-chio Lionel. Nessuno di essi avrebbe sfigurato nella sua collezione. Ne mise uno da parte... e si sentì mozzare il fiato. La tela successiva sembrava risplendere. Una spiaggia deserta, fatta eccezione per un'unica figura in lontananza, bagnata da una luce dorata mentre stava in piedi sulla riva del mare. Mise da parte anche quella e continuò a esaminare gli altri finché non giunse all'ulti-ma. Un tremito gli percorse le membra. Lo conosceva. Non il quadro, che non aveva mai visto. Ma il sogget-to... la ragazza che stava leggendo rannicchiata nella vecchia poltrona dall'alto schienale tanto amata, una mano che accarezzava un gattino tigrato acciambellato in grembo, i capelli di oro rosso che le ricadevano sulle spalle, spiccando contro il cuoio scuro dello schienale. Lionel doveva averlo dipinto prima o dopo... per non dimenticare? «Quanto per questi tre?» Lei lo fissò. «Desiderate comprarli? Anche la mari-na?» «Sì, soprattutto la marina. Quanto?» La maschera era crollata, sostituita dal terrore che si leggeva nei suoi occhi e nelle sue labbra dischiuse. «Non... non lo so.» «Cinquanta, allora?» «Per tutti e tre?» «Cinquanta sterline per ciascuno.»

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«Ma è troppo!» «No, non lo è. Sono buoni. Più che buoni.» E lo era-no. Specialmente quello che raffigurava la spiaggia, che doveva essere stato eseguito dopo che un qualche cata-clisma aveva modificato lo stile di Lionel. Sprigionava la stessa struggente nostalgia che caratterizzava gli af-freschi. «Che cosa gli è successo, Loveday?» domandò senza distogliere lo sguardo dai quadri. «Che... che cosa intendete dire?» Lui batté un dito sulla marina. «Questo non è stato di-pinto dall'uomo che ricordo.» Lei impallidì. «In che...» «Qualcosa deve averlo cambiato. Oh, la tecnica può anche essere la sua, ma il resto no.» Lei parve rilassarsi un poco. «Oh. Be', niente. Solo... solo l'Italia. Sì, solo l'Italia» si affrettò a ribadire, il viso arrossato quanto le mani, quelle mani così espressive che adesso si stava torcendo. «Siamo tutti cambiati, milord.» «Capisco.» Non era mai stata capace di mentire. E-velyn sorvolò su quella bugia. Per il momento. «Oggi porterò con me questi tre, depositerò il denaro in banca e tornerò domani a prendere gli altri.» «Quali altri?» «Quelli che ho intenzione di acquistare. Darò loro un'occhiata adesso.»