romano guardini

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Page 1: Romano Guardini
Page 2: Romano Guardini

• Romano Guardini.• Uno dei valori ai quali deve tendere sempre lo

spirito è l’amore decentrante che fa si che la persona avverta il valore dell’Altro, la sua essenza profonda. Quando questo non accade, quando cioè l’uomo non si apre all’universo delle possibilità dell’Altro, lo spirito si ammala poiché si ritrova concentrato solo su se stesso; “l’esistenza si muta in carcere. Tutto si rinserra. Le cose opprimono. Ogni realtà diviene estranea e nemica nell’intimo. Sparisce il senso ultimo, evidente. L’essere non fiorisce più”.

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• Guardini risolve la relazione Io-Tu specificando che il Tu non può appartenere al mondo delle cose, dal momento che il Tu, finché rimane mero oggetto e non centro autonomo di un proprio orizzonte di senso, non potrà mai assurgere al ruolo di Tu per l’Io. L’Altro, allora, si eleva alla condizione di Tu quando, allontanata la prospettiva fattuale ed esperienziale che lo vuole inglobato nell’Io, nell’Altro finalmente vede la luce ovvero l’Io che gli sta dinanzi.

Page 4: Romano Guardini

• “Il primo passo verso il Tu è quel movimento che ‘ritira le mani’ e lascia libero lo spazio in cui può farsi valere il carattere della persona di servire da fine a se stessa. L’amore personale ha iniziato decisamente non con un movimento che si dirige all’altro, ma che se ne ritrae”. Finché l’Io si relaziona all’Altro come oggetto, come un Esso, non ha la necessità di dis-velarsi completamente, può rompere il legame quando vuole. Ma quando l’Io vive l’Altro come Tu, l’Io allora si trova coinvolto in un impegno diverso, “rischia in un rapporto che può consolidarsi in un destino.

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• La manifestazione del volto: l’Io guarda l’Altro senza volerlo più inglobare nei suoi sistemi di riconoscimento, l’Io finalmente si apre e si mostra nella sua essenzialità di volto disarmato. Ma perché si compia questo movimento fondamentale, è necessario che vi sia come orizzonte di senso la circolarità: solo quando l’Altro consente all’Io di diventare il suo Tu così come è nella sua essenza, la relazione diventa una relazione di senso compiuto.

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• “Nel guardare l’altro, il volto si apre e nasce quel rapporto in cui gli occhi si guardano negli occhi. Solo ora è presente l’atteggiamento pieno di chi è persona… Ora soltanto si annodano anche i destini nel senso personale”.

• La persona ha si bisogno dell’Altro per giungere alla pienezza di sé, ma non per assurgere al ruolo di persona; la persona, in altri termini, non emerge dall’incontro ma, pur trovando in esso attuazione, la sua essenza vive a prescindere dalla dimensione relazionale.

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• La peculiarità propriamente spirituale della persona, allora, si realizza come parola e come linguaggio. Il linguaggio rappresenta una sorta di orizzonte di senso che esiste a prescindere dalla volontà della persona e dal quale la persona viene formata, in quanto l’uomo vive nel linguaggio e dal linguaggio trae la vita. Il Tu, in tale direzione, può risvegliare nell’Io quella dimensione linguistica che l’Io già possiede in potenza.

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• Il termine follia, da un punto di vista etimologico, deriva dal latino follis, un termine che approssimativamente significava: “soffietto, vescica, sacca, pallone, borsa, sacco gonfio d’aria”. Follia indicherà, così, la scarsa profondità d’intelletto di una persona, dimensione simile a quella di un pallone pieno d’aria

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• In questa ottica, riferire il significato semantico di questa parola ai “folli” nel senso comune dell’espressione, risulta una impresa metaforica che, invece, di suggerire risposte riguardo alla complessità dell’animo umano, apre ulteriori interrogativi. Infatti cosa è “pieno d’aria”? La persona nella sua totalità? La sua testa, vista nell’antichità come il fulcro delle facoltà intellettive? Ma, soprattutto, perchè “l’aria” dovrebbe essere assimilata ad una dimensione di anormalità?

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• Nel corso della storia filosofi, psicologi, medici, psichiatri, non sono mai riusciti a stabilire se la follia sia una dimensione esclusivamente corporea o una dimensione legata alla sfera mentale e sociale della persona. In questa prospettiva la follia è stata vista nel corso dei secoli, sia come una condizione patologica, inferiore, e sia come una condizione superiore in quanto aperta a dimensioni “altre” dell’esistere, diverse dallo stato di normalità.

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• In numerose comunità primitive, ancora oggi, colui che è reputato “folle”, ben lungi dall’essere visto come un deviato, viene spesso considerato come un individuo mosso da forze particolari. Nell’età antica la follia si vestiva di abiti simili, in quanto veniva assimilata ad uno stato privilegiato; chi era folle era in diretto contatto con la divinità.

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• Nel periodo storico medievale, molti erano i modi di intendere e raffigurare la follia. Il carnevale medievale, ad esempio, rappresentava una festa del popolo che si contrapponeva alle festività religiose ufficiali. Era una festa in cui vigeva la più assoluta libertà e tutto diveniva lecito: venivano dimenticate le gerarchie sociali per lasciare spazio alle maschere, al riso, allo scherzo e al rovesciamento dei ruoli.

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• La coscienza occidentale ha definito, in molti casi, la follia in modo non medico o patologico ma, anzi, ne è prevalsa una interpretazione della stessa come una sorta di dimensione alternativa, di protesta ad un mondo individuale e sociale per molti versi insoddisfacente; nell’individuo alienato, l’individuo “normale” sembra riconoscere la persona in qualche modo in grado di vivere fuori dal sistema, lontano dalle sue regole.

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• Quando Erasmo da Rotterdam scrive L’elogio della follia (1509), ha in mente una sorta di “interpretazione culturale” della stessa. Nel pensiero di Erasmo la follia non è una patologia ma una diversità rispetto ad una condizione di presunta normalità considerata ingiusta e assurda. La follia erasmiana si definisce, così, come una “ironia smascheratrice” letta nei termini di un pensiero critico rispetto alle condizioni ingiuste e ai costumi corrotti dell’epoca.

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• Con l’avvento dell’Età Classica, la dimensione medioevale di intendere la follia comincia a cambiare volto e la supremazia della ragione comincia a prevalere sull’interpretazione metaforica della follia.

• La follia comincia ad essere relegata ai margini della società, e ben presto i privilegi culturali ed il potere di fascinazione del folle verranno sostituiti da una dimensione della follia letta nei termini minaccia, in quanto il folle è un individuo da allontanare, da cancellare dalla coscienza sociale.

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• Le strutture sanitarie nelle quali venivano rinchiusi i malati, si troveranno ad accogliere tutte quelle persone respinte dalla società, trasformandosi in ospedali e carceri per individui di ogni tipo ed estrazione sociale. Emblema delle nuove strutture di isolamento è l’Hopital General di Parigi, fondato nel 1656 e che Foucault definirà come “il terzo stato della repressione”.

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• l’Hopital General fu uno dei primi ospedali destinati “correggere” la follia e l’alienazione rivelando, fin da subito, la sua natura non di istituzione medica ma di una sorta di “creatura” amministrativa munita sia di poteri autonomi e sia del diritto di giudicare direttamente applicando le sue leggi all’interno dei propri confini. Nasce, così, l’esperienza dell’internamento e le case di correzione cominceranno a diffondersi dappertutto, in Francia ed in Europa, fino a diventare strumento del potere.

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• Con la problematica dell’internamento scompariranno le concezioni etiche e religiose che avevano caratterizzato il Medioevo e si assisterà ad un nuovo atteggiamento della Chiesa riformata nei confronti della dimensione della carità. La povertà e la follia verranno considerate come dimensioni dell’esistere da temere e da allontanare.

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• Povertà e follia saranno ritenute, da una parte come aspetti della vita umana da sottomettere e conformare all’ordine in quanto accettando l’internamento, i poveri e i folli possono trovare la pace, e dall’altra come luoghi del male, come luoghi, cioè, rispetto ai quali emerge quell’aspetto della povertà che tenta di ribellarsi a quest’ordine meritando, quindi, l’internamento.

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• Una diversa interpretazione della follia che si fa avanti nell’Illuminismo, circoscrive questa dimensione esistenziale dell’uomo all’ambito della patologia e del disturbo. E’ nell’Illuminismo, infatti, che comincia a farsi avanti una sorta di “naturalizzazione” dell’uomo; si cominciarono ad accostare fenomeni reputati come “devianti”, al metodo empirico-analitico

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• Il sapere illuministico, in tale senso, ricondurrà gli stati di salute e di sofferenza mentale alla dimensione corporea. Sarà la scienza a ridurre la follia a malattia e a creare pratiche di internamento e di esclusione di tutte quelle manifestazioni “altre” della natura umana.

• Si fa avanti una diversa modalità di intendere la follia, una nuova dimensione che finirà con l’emarginare i folli rinchiudendoli in strutture lontane dalla società.

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• Nella seconda metà del secolo, uno dei padri fondatori della psichiatria moderna, Philippe Pinel, affermerà che l’uomo è un essere materiale e corporeo. Di conseguenza tutte le caratteristiche della vita dipendono dallo stato del suo organismo. Una parte della fama di Pinel è, comunque, legata più che al suo pensiero scientifico, ad un gesto simbolico: liberò i folli dalle catene con le quali erano spesso legati