ritratto di un uomo morto

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altrevie • narrativa straniera

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Sarah Hall

ritratto di un uomo morto

Traduzione di Fiorella Moscatello e Giovanna Scocchera

gran vía

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Questa è un’opera di finzione. I personaggi, gli avvenimenti, e i nomi dei luoghi sono prodotti della fantasia dell’autrice; là dove reali, non sono riportati con accu-ratezza geografica e storica.

Titolo originale: How to Paint a Dead ManCopyright © 2009 by Sarah HallFirst published in 2009 by Faber and Faber Ltd, London

© 2011 gran vía edizioni s.r.l.Tutti i diritti riservati

Prima edizione: novembre 2011isbn 978-88-95492-20-9

Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it

Le citazioni da Il libro dell ’arte o Trattato della pittura di Cennino D’Andrea Cennini sono tratte dall’edizione Le Monnier del 1859.

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Ritratto di un uomo morto

per Jake

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Le cose non sono ciò che sono, ma ciò che diventano.

gaston bachelard

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La crisi allo specchio

Non sei in te. Non lo sei da un po’, ormai, dall’incidente. O me-glio, dal momento in cui ti è stato riferito. Quella mattina, nel preciso istante in cui tenevi il telefono all’orecchio e tuo padre pronunciava quelle parole orribili, hai sentito dentro di te qual-cosa di diverso, fuori fase. Non sai dire con esattezza dove sia il guasto; è difficile da mettere a fuoco, difficile da esprimere. Non si tratta di dolore. Il dolore sarebbe semplice. Qualcosa di intimo, di intrinseco, è cambiato. Ti senti smarrita. Anzi no. Assente. Ti senti assente. È come guardarsi allo specchio e non vederci al-cun riflesso familiare, non riconoscere l’immagine racchiusa nel vetro.

Non sei pazza. Devi insistere su questo punto e tenerlo bene a mente. Tu non sei pazza. Non stai facendo la preziosa, o la diffici-le. Qui non c’entra quell’essere asociali che va così tanto di moda, l’attuale tendenza all’autocommiserazione, o il voler passare per alternativi e distaccati solo perché fa chic. Semplicemente non riesci a vederti vivere la vita, tutto qui. Il tuo corpo non contiene la sua essenza, così come lo specchio ha abdicato al tuo ritratto. Sei altrove.

Hai provato qualcosa di simile da bambina, ma allora ti sentivi meno vuota, meno sola. Tuo fratello era come te. Avevate una strana percezione l’uno dell’altra: non come di individui distinti,

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ma come due sosia, due entità simmetriche, cosa del resto abba-stanza comune fra i gemelli. Non siete nati dalla stessa cellula, non eravate identici né dello stesso sesso, John e Jack, o Ruth e Rita. Eppure eccovi lì, insieme fin dall’inizio. Intrecciavate le dita nell’utero, poggiavate la testa sullo stesso cuscino di placenta, scalciavate in tandem contro il ventre materno. Avete ascoltato simultaneamente la liquida musica da camera del suo corpo, vi siete divisi il nutrimento, e avete fatto gli stessi sogni ermetici. Dopo la nascita, prima fiocco rosa, poi fiocco azzurro, le vostre vite hanno continuato a essere agganciate l’una all’altra, come le cuffiette nuove appese al filo del bucato.

Più avanti, era come se tu fossi accanto a lui sul divano, alle sue stesse coordinate, mentre in realtà ti trovavi dalla parte opposta, seduta al tavolo, a fare stampini di patate con la mamma. A volte ti sembrava di essere più al suo posto che al tuo. Prossimità re-mota, la chiamano. Quando facevi ciao con la mano, in realtà non salutavi tuo fratello, ma te stessa. Non l’ha mai capito nessuno, neanche tua madre, che diceva: Fa’ di nuovo ciao a Danny, tesoro, ti sta salutando. Dormivate in due lettini separati, eppure di notte il suo calore continuava a scaldarti. E quando lui si tirava su la coperta, era come se la portasse via a te. O almeno questa era la sensazione che provavi.

Inevitabilmente, avete imparato a parlare. Ed è stato allora che le cose si sono complicate. Avevi escogitato un metodo per par-lare a nome dell’altra te. Era logico, in un certo senso. All’inizio credevano che parlassi per conto di Danny, come fanno spesso i fratelli o le sorelle più grandi e prepotenti. Vuole il succo di frutta, per favore dicevi, e allora lo davano a Danny nel suo bicchieri-no rosicchiato. Ne vuoi un po’ anche tu, Suzie-Sue? cantilenavano. Hanno un legame stupendo, diceva la gente. Così insolito. In tante foto di voi da piccoli, tu sfoggiavi spesso un’aria perplessa, guar-dando accigliata le cose e gli adulti intorno a te. Tuo fratello era

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tranquillo, più tranquillo di te, e sorrideva sempre, come se custo-disse un segreto.

La situazione divenne preoccupante. L’asilo era un campo mi-nato. Ogni volta che parlavi, nessuno riusciva mai a capire a chi ti riferissi, se a te stessa o a Danny. I soggetti delle tue frasi venivano spesso confusi; tu e tuo fratello confabulavate di nascosto, dando nomi inventati ai ragni, ai mal di pancia, e alla pioggia. All’inizio non avevate fatto amicizia con gli altri bambini; preferivate gio-care per conto vostro, e vi scambiavate i bicchieri del latte: c’era un sistema di colori da rispettare. Si cominciò a parlare di ritardo dell’apprendimento, di disturbi evolutivi, discorsi che scioccarono i tuoi genitori. Ci furono le visite dell’assistente sanitaria, l’infer-miera Lane. Ricordi ancora la sua rigida gonna a triangolo e le pellicine bianchissime delle unghie, scolorite. L’infermiera Lane cercò di interpretare la vostra inseparabilità, il vostro linguaggio in coppia. Si chiese se non fosse anomalo, più che incantevole, possedere un satellite psicologico, e se quello tra te e Danny fosse un rapporto sano.

Poi entrò in scena il dottor Dixon, della clinica pediatrica loca-le. Siccome sembrava che fossi tu a condurre il gioco, e siccome la vostra unione fraterna era eccessiva, avresti seguito delle lezioni speciali con lui, lezioni che ti avrebbero aiutato a «sentirti più a tuo agio». L’edificio aveva un campanello d’ottone, e una vecchia porta girevole in legno da cui le sedie a rotelle non riuscivano a passare: la prima volta che ci andasti, una bambina che portava i tutori or-topedici venne presa in braccio e portata dentro di peso. Sembrò quasi che venisse ingoiata da un tritacarne gigante, e quando fu il tuo turno dovettero fare di tutto per convincerti a superare quelle lame. Dentro, la moquette era formata da tanti minuscoli fili blu di plastica intrecciata. Camminandoci sopra si creava talmente tanta elettricità statica da darti la scossa ogni volta che sfioravi il tavolo. Alle pareti erano appesi i poster inquietanti della campa-

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gna contro il fumo, con nuvole a forma di teschio che incombe-vano su tabagisti incalliti. Nella sala d’attesa il dottor Dixon aveva fatto mettere una vasca per acquari con dentro degli insetti stecco, per intrattenere i bambini. Qualche volta gli insetti cambiavano pelle, lasciando quella vecchia sugli alberi della vasca, dove poi si essiccava arricciandosi come un filo di liquirizia gommosa. Era rivoltante vedere quei gusci marroni che penzolavano dai rami.

Il dottore profumava di trucioli di matita e mentine. Parlava molto lentamente, soppesando ogni parola. Aveva denti bianchi e forti. Per un po’ hai creduto che fosse un dentista, però non ti chiese mai di aprire bene la bocca. Ti teneva invece delicatamente per le spalle e ti faceva domande impossibili. Secondo te qual è il modo migliore di rispondere a questa domanda, Sue? Se ti portassi via tua madre e tuo padre, e poi ti portassi via tuo fratello Danny, tu come verresti chiamata? Quest’ultima parte ti mandava su tutte le furie, e ti imbronciavi fino a farti venire il mal di testa. Poi ti chiedeva di disegnare la tua famiglia. Cosa vedi qui, qui e qui? Ti esortavano a giocare da sola ogni giorno, senza Dan, senza bambole, senza libri. Sembrava che a rimetterci fosse soprattutto tuo fratello, che si rattristava subito ogni volta che la mamma ti ordinava di andare di sopra per la tua «ora speciale». Danny venne alla clinica una volta sola. Vi lasciarono da soli in una stanza, sotto osservazione. Ti toccò sopportare sei mesi con il dottor Dixon. Sembrarono anni. Poi finì tutto quanto. Solo più tardi, ormai adolescente, deci-desti di fare qualche domanda su quel periodo, e loro, mortificati, la definirono «una terapia». Ancora adesso, ogni volta che passi davanti a quella vecchia clinica in periferia, non puoi fare a meno di sentire in lontananza la voce nasale e inesorabile di quell’uomo. Ripeti con me… io sono Sue, io sono Sue.

Ma ha funzionato, a quanto pare. Hai imparato a comunicare in modo normale, come tutti gli altri automi psichicamente limi-tati del mondo. Guardavi il tuo riflesso nello specchio del dottor

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Dixon. Ripetevi le parole fino a fissartele bene in mente. Io, io, io. Me, me, me. Ti sei riavvolta su te stessa, come il rocchetto della macchina per cucire di tua madre. Sei diventata un’unità separata. Sei guarita.

E ora eccoti di nuovo, altrove, lontana, a spargere la tua essenza nel vuoto.

È da un po’ che ci pensi. Ti sei chiesta se sei davvero così diversa da tutti gli altri abitanti di questa gigantesca e stridente città in cui vivi. Osservi le varie facce che incontri sull’autobus; ascolti le conversazioni. Sembrano tutti in crisi. Bisogna proprio uscire da questo casino finanziario dice un uomo in completo grigio al colle-ga in nero. Un adolescente brufoloso urla nel suo cellulare: Come fai a non sentirti un bastardo se le chiedi di abortire! Però è lei che si è scordata di prendere quella cazzo di pillola! Una donna asiatica con un piercing al naso confida a bassa voce all’amica: Sono stufa mar-cia dei suoi malumori. Certe volte mi viene voglia di ammazzarlo. Sul serio.

Oggi la gente non dice io tanto spesso, come se non volesse essere coinvolta in prima persona nel doloroso atto di esistere. Nessuno si accontenta più della propria vita. Nessuno si sente a posto con sé stesso. L’identità si può scegliere. Puoi essere chiun-que desideri, il che significa che bisogna valutare tutte le opzioni prima di scegliere chi vuoi essere. La gente percepisce il cuore come un pezzo di carne viva che sguazza nel torace, un oggetto scomodo che è stato fissato male. Gli viene costantemente ripetu-to che più in là, oltre la linea dell’orizzonte, esiste un’incarnazione migliore; per raggiungere quell’ideale basta la bellezza, il denaro, una dieta dimagrante, la moda, la fiducia in sé stessi, il talento, la chirurgia, la cosmesi, la palestra, una telefonata, un nuovo forno a microonde, più sesso.

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La spietata calibratura del consumismo. Perché se questo è tutto ciò che hai, quest’unica possibilità, questa scimmia insulsa e am-maccata che posa davanti a te nello specchio, allora non sarebbe meglio perfezionarla, romanzarla? Il sé non è più cucito su misu-ra. L’io è semplicemente della taglia sbagliata. Se solo potessimo acquistare e possedere quella versione più bella e felice. E invece se ne va in giro là fuori, seducente e irresistibile, inafferrabile. Nel frattempo Londra si riempie di automi che si accalcano su treni e autobus, parlano lingue diverse, schivano i venditori ambulanti. Aggiustano i loro involucri esterni, lottano con il loro aspetto, e si riformulano a ogni conversazione. Sono intrappolati nei na-scondigli insulsi e imperfetti che la Natura mette inutilmente a disposizione.

Ma tu non aspiri al miglioramento. Non vuoi rinascere da un utero di idealismo materiale. Non desideri emergere, perfetta e splendente, dalla crisalide della modernità occidentale. Non ti in-teressa vivere nella magnificenza assoluta, con la certezza di aver trionfato nella vita. Tutto ciò che vuoi è essere di nuovo te stessa, perché l’identità che un tempo era tua ora è svanita. Anche se lo specchio riflette un viso familiare, la sua anima è scomparsa. Tu sei assente.

Ma non c’è nessun mistero, dietro a tutto questo, nessuna spie-gazione complicata. Il nocciolo, il nodo, il cuore del problema è uno solo: Danny è morto un mese e mezzo fa. E tu hai vissuto sei settimane, quattordici giorni, e qualche minuto più di lui.

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