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Giovanni Lindo Ferretti

Reduce

Mondadori

© 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

IN COPERTINAART DIRECTOR: GIACOMO CALLO

PROGETTO GRAFICO: WANDA LAVI ZZARIGRAPHIC DESIGNER: MANUELE SCALIA

FOTO COPERTINA: FOTO © LORENZO FONTANESI

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Deus in adjutoriummeum intendeDomine adadjuvandum mefestina

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le cose cambiano disse il Dalai Lamaquando il Tibét fu invaso dalla Cinale cose cambiano disse Maddalenaquando le saccheggiarono la cucina.Le cose cambiano disse sconsolatale mani sui fianchi, la vita svilita.

le cose cambiano ecco com’è:quello che c’era adesso non c’è

stasera mi sento come maineanche fossi un agente dell’FBImi sento ebbro mi sento ìlareneanche fossi un cavaliere Tèmplare.

che il mio sì sia sì, no il nonon so quando non so il mio non so

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Reduce

Erano gli anni ’80 in tutto il loro splendore.In Occidente, dove tramonta il giorno, dove le cose

vanno a compimento.Punk? Filosovietico!Decolorati i capelli, tinti blu, verde.Stivali dell’Armata Rossa e militaria varia.Fez turcomanni e qualche gonna nera che il gusto

estetico rendeva onore alla gran Madre Russia,l’Ortodossia.

In transito.Da Kreutzberg/Neukölln in Berlin/BDRa Pankow/DDR, porta dell’Est, d’EurAsia cui si

accedeva tramite U-Bahn.Se ti lascia passare il vopos di turno.Ti incolla gli occhi negli occhi e poi addosso a

penetrarti le viscere in cerca di un’anima altrimentinegata.

Ogni controllo mette in evidenza che la ricerca non èancora conclusa.

Se no a che pro cotanto accanimento?

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Un mondo residuale di un assalto al cielo benspiaccicato per terra.

Ancora commovente all’occhio partecipe di excombattente. Capace di stritolarti il cuore, lo sforzo messoin atto,

il dolore procurato e l’orrore.Verificata la resa crampi allo stomaco in fase

[ulcerosa.E Kabul, vero segno dei tempi a venire dove svaniti i

freakkettoni, gli sfatti, i tossici, gli hippies, gli alternativitutti di tutti gli occidenti del mondo

a riempir gli occhi e le vene, naso e polmoni di altro piùbarbaro e arcaico e futuribile e altro e ancora altro.

Kabul dove tra mujjiaidin risorgenti, apprendististregoni, agenti in loco, muli[dall’Oklahoma, apparati sovieti in marcia allo sbando,cosche mafiose, male belle vite bandite dannate,inconsapevoli corrispondenti,

cronisti dell’ovvio e di dietrologie convenienti, sipreparava, selezionando ed agitando insieme[gli ingredienti il secolo, millennio nuovo nostro terzo.

Più in là la Cina tutta assorbita nell’arricchimento benposizionata nel suo quinto.

Gli Ebrei di nuovo in Israele mille anni innanzi,[nel sesto.

L’Islam giovincello oltrepassata la metà

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[del secondo.Millenni in rotta, a confronto. Millenni in guerra.Tattica confusa e strategia ferrea.

Cantante dei CCCP-Fedeli alla linea in regressionegenetica tornavo a casa, la mia, dei miei, nel natìo borgodove era vissuta da sempre la mia gente.

La disgrazia unita al boom economico, miracolo italianoin dopoguerra,

ci avevano traslocato in città.Gli adulti a lavorare, guadagnare col pane il

companatico e il risparmio.I bimbi a crescere, studiare,farsi ammaliare nella città in grande mutamento.Tutti ad ammodernare il mondo,con zelo, ognuno il suo, negli anni ’60 e ’70.Reduce da cotanto immane sforzo,confuso e stanco,di troppe cose già a noiae d’altre che rifuggono il conto, mi fermo, a rimirar il

cammino e d’intorno.

è stato un tempo il mondo giovane forte…

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Converso

Mia zia Anita e mio zio Clemente, della famiglia quelliche non si erano mossi, vivevano gli ultimi anni della lorovita e mi aspettavano, senza crederci.Fermi nei ricordi.Mio padre forte e in salute d’improvviso appena morto.Mio nonno da fatiche sfinito morto da poco.Lo zio Francesco, da sempre malato e dato per spacciato,si stava riprendendo ogni giorno un po’ meglio. Solo unpo’ troppo nervoso di suo, diceva la nonna, ma moltodolce con me e paterno.Mia nonna Maddalena esausta di guerre, orrendiaccadimenti, disgrazie, avrebbe solo voluto morire eritrovare nell’al di là la pace qui inattuale, ma si èallacciata il grembiule, s’è stretta il fazzoletto in testa e s’èdata da fare. Ce n’era da fare. Tirare avanti la casa, laterra, la stalla. Aiutare mia madre, allevarmi che, contro ilparere di molti, mi ha tenuto. Amava mio padre e noieravamo la famiglia sua, nostra.Mio fratello celava il suo indicibile dolore nella tomba dinostro padre che rifiutava di visitare. Obbligato, si teneva

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in disparte. Occhi bassi, pugni in tasca, nervi scoperti.Io succeduto alla disgrazia sono felice, l’unico, inesuberante crescita. Quando abbandono il lettone di mianonna, il luogo preferito del mio sonno, dormo dalla ziaAnita e lo zio Clemente. Con loro mangio volentieri, siride, si ascolta la radio e si balla. Con lo zio vado permonti, nei boschi, caccia di frodo e pascoli.Mucche, capre, cani, asini, muli e cavalli: il paradiso interra.La zia, sorella di mio padre, ha un fondo di tristezza moltoal fondo degli occhi. Quando lo scopro mi abbraccia. Èforte, dolce, lunghi capelli ramati e mossi e le lentigginisulla pelle candida. È molto bella.Di mia madre non posseggo ancora le parole per dire.Senza mio padre, il suo uomo, il tempo quotidiano perlungo tempo lento solo un dolore ottuso che attanaglia lacarne. Ottenebra la mente. Accadimenti che passano elavoro disperato all’esterno. Dentro il vuoto e losfinimento.E la vita che, lenta ma molto lentamente, tende alsopravvento e ci sarà motivo, comunque, di rendere graziea Dio, nel tempo.Adesso loro contano su di me. Ci vogliamo bene e si ridedi nuovo, la mia presenza li fa sereni e la vita può ancoraessere bella. Dubito abbiano mai colto una inadeguatezzanel mio vestire: mica giravo nudo o impedito. Né lezioso,

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né profumato. Più che sul palco a mio agio nei campi,nella stalla.Mia nonna è morta l’anno dei miei diciotto che ormai erogrande. È morta serena, s’era già confessata e comunicatae in pace, che ricominciava ad andare tutto per il meglio,si è congedata dalla sua famiglia e dalla vita.Ha chiesto del prete e noi pensavamo al dottore, ha fattotre respiri in progressione e s’è immobilizzata, persempre.Resa l’anima a Dio. Nell’anno dei suoi ottantasei. Amezzogiorno.Quella mattina, mia madre e lo zio già usciti al lavoro,passo in camera sua per salutarla come ogni giorno e Leidice: «Non andare a scuola oggi, resta con me. Arriva lamia ora e ho delle cose da dirti».

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un tempo indefinito lungo dodici occhi a scrutarlo

salda la mano destra del Nonno inquieta la mancina delleDonne Francesco ostenta al petto

il moderno del mondo, in atto

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1942 a primaveraper mio Padre, vent’anni

soldato in Albaniasua, d’azzardo, la calligrafia

Lui sa di mia Madrelo sa Tirsi cane di casa

testimone d’incontriabbuiamenti e risa

io sono una promessa sussurrata sogno in un sogno

calore del ritorno

sarò sorpresa

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Il tempo del dolore è un tempo lento, ristagna e affonda.Impedimento.Fugace è il tempo della gioia. Battito d’ali in volo in alto egiù serpeggiar colpo basso. Ti trova impreparato, ti balzail cuore in gola, il corpo e il mondo intorno come una cosasola.Il tempo della Storia è una schermaglia, incontro scontrotenero e violento. Una giumenta in calore, saggiad’esperienza, e un giovane stallone nel primoaccoppiamento.Potenza e istinto. Piacere puro. Può ferire, far male damorire, è vitale. Mortale.Il tempo dell’attualità assoluta mi è estraneo.Si vede d’ogni cosa ciò che, in qualche modo, si possiedee si possiede ciò che si sa, si sapeva, si saprà,riconoscendolo proprio quando succederà. Un percorsoinstabile, a rischio, tra vissuto e memoria.Le azioni del corpo, materia finita, definibile e l’azioneintellettuale, infinibile, spostano interesse e attenzionemutando lo scenario, trasformando l’intenzione.Il divenire personale e storico possiede molti passatipossibili tra mutamenti ed alterazioni.Il futuro è sicuro. Un poco postumo, un poco prematuro.

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Della Storia nostra

Sono generazione su generazione erede di una famiglia dimontagna che, da tempo immemorabile, ha fatto dellapastorizia il suo sostentamento.Mai avuto problemi che non si potessero traversareguardandoli in faccia.Né pesantezza che non si può portare, né pesantezza chesi debba fuggire.Ha combattuto, perso, contati e pianti i suoi morti.Benedicendo il cielo mai è stata sradicata dal suoorizzonte. Sua dimora terre scoscese e aspre sotto i ventidi un valico in faccia alla tramontana che, col gelodell’inverno, tiene lontani pestilenze e miasmi, febbrimalsane e bramosie di razziatori umani.L’estremo Sud delle terre dei Celti prima che la scritturaportasse in dote la Storia.Dispersi nelle gole, nei boschi, quando la Civiltà romanaimperava e ci diceva Liguri.Poche le novità nei secoli dei secoli e quelle che valgonole conti sulle dita di una mano contemplando i millenni.Una buona novella racchiude il mondo intero nello spazio-

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tempo di tutto l’Universo.Nel Regno di Giuda, in terra di Israele, da una Madre vergineImmacolata in eterno, è nato, al tempo dell’Imperatore Augustoin Roma, il Salvatore, il Redentore del Mondo. Figlio di Dio checon Dio e lo Spirito Santo è Trinità.

Mistero che si può solo sfiorare ma fa vibrare nuova ognicosa e tutta l’umanità.Arrivò dal Nord, l’altro estremo dei Celti, le Isole battutedal mare e spazzate dai venti.Arrivò come raggio di sole primaverile. La portava unfiglio dello Spirito rude d’aspetto e ascetico, si dicevamonaco cristiano della Confraternita di San Colombano.Sembrava un Druido, Sacerdote dei nostri, sapiente dellemoltitudini, delle schiere, delle numerazioni, degli esseri.Facile ascoltarlo. Era il nostro meglio. Il più nuovo e ilpiù antico.Aspettavamo da così tanto tempo da essere ormai confusi edisillusi:

verrà un tempo in cui…

era arrivato e tutto torna che la Parola di Dio trasforma econferma.La donna mistica degli anfratti nascosti, degli oscuriboschi, delle gole montane che da Occitania, in cammino,lasciò traccia potente scendendo verso il piano padano,

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aveva ora il suo nome venerato: Maria la Maddalena.Il solitario profeta degli antichi canti, senza dimora,avvolto nelle pelli senza concia che ripeteva da sempre:

purificate il cuore, preparate le vie al Re dei Re del Cielo e dellaTerra, l’Incarnato, nostro solo Signore,

era Giovanni il Battista, Precursore.Tutto torna nei secoli, nei millenni, se si è generazione sugenerazione.Facile ai pastori, semplici, austeri, pochi gesti essenziali emeno ancora parole sempre camminando sulla terra con glianimali. Il cielo sempre in faccia. Al vento, all’acqua, alsole.

Gesù nacque a Betlemme in povero ricovero, grotta capannastalla, sotto una Stella che aveva messo in viaggio i più sapienti esaggi tra i Re d’Oriente, Magi, a portar doni perfetti, oro incensoe mirra, al Bimbo dei bimbi, Povero tra i poveri. Eccelso.Le schiere, le gerarchie celesti scese a rendere onore nellagloria avevano invitato i pastori del luogo a farsi avanti e questitra la gioia e il timore, primi tra gli uomini, avevano adoratol’Incarnato, il Salvatore.

Da che mondo è mondo questa è la sola vera BuonaNovella.Molte le storie, innumerevoli, per ogni uomo e donna.Pochi gli accadimenti degni di nota che sedimentano vitain memoria.

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Nel VI secolo un popolo dalla Pannonia, in Oriente,risalendo le valli si stabilisce sui nostri monti. Costruiscecastelli, smista i guerrieri sulle strade e nei borghi,censisce uomini e donne, i fuochi che fanno dimora, legreggi, gli animali, i campi e i boschi.Noi peniamo disfatta, i Longobardi cantano vittoria. Aparte il lì per lì che è tragedia, non tutto il male viene maiper nuocere. Portano sangue nuovo che è vita, usanzenuove.La legge, poi detta del taglione, è la nostra. La nostra terrache hanno conquistato li conquista. La vita è dura, per tutti,amata e a rischio. Per altre vie sanno la buona novella. Ilresto lo fanno uomini e donne nella loro saggezza, nellaloro bellezza, in quell’attitudine benedetta da Dio cheporta gli esseri umani ad unirsi nel corpo. Unisce più lacarne, l’alcova improvvisata in un fosso, sotto le frasche,di tutta la buona volontà di un intelletto sterile, una purezzatriste.C’è sangue nuovo in giro e si vede, freme la carne, ne godela parola. Ingrossano le pance delle donne a partorire,anche nel dolore, nella gioia. Sorridono sguardi infingardidi amori indicibili e gagliardi. È la vita, non piace aifustigatori dell’umano, ma è quella che il Creatore hacreato.Tra il talamo e l’alcova ci passa una parola e apreall’infinito. O spazio siderale o coazione a ripetere,

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sequenziale. Ognuno sa, se fortunato, di ciò che ha, ma permisericordia divina tanto è possibile quanto l’amore di chiama.Di questa età di mezzo, la antica finita, la nuova nonancora iniziata, pochi conservano labile memoria. Atutt’oggi, anno di grazia 2006, restano indiscutibili i nomi.Il mio è Giovanni, mia nonna è Maddalena, sua madreAldegonda figlia di Beatrice, Ermelinda la levatrice chem’ha fatto nascere. Potenza dei nomi. Fu un tempocontento. Per una volta al centro del mondo.Il solo tempo possibile del favolar nostro fiabesco, del“c’era una volta”.C’era una volta, ci fu davvero, un regno che s’estendevada Mantova a Grosseto.Il Regno di Matilde, Contessa a tutti, a noi Regina.Familiare all’Imperatore e devota al Papa. Ci portò in doteil buon governo, il castagno, la transumanza in terramaremmana.La piana attorno il grande fiume e le colline sotto la Pietra,Sasso del divino Poeta da cui ascese al Cielo in buonacompagnia, la migliore, tra il maestro e l’amore. Più in suil crinale a far da schermo alla vista al di là il mare. LeAlpi di Carrara in parallelo dove Michelangiolo giovanescultore, architetto, pittore, teologo, poeta, s’arrovellaval’occhio, l’intelletto, la carne in tumulto scegliendo il

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marmo che a scalpellar scopre la meraviglia: nella materiail soffio dello spirito.Dopo siamo tornati nell’ombra, in disparte, celati allavista. Tutti indaffarati nei giorni dopo i giorni, stagione sustagione, anni su anni ad allevare figli e seppellire i morti.La cura degli armenti, il coltivare gli orti, i campi, econtenere i boschi.Piccoli traffici e piccoli commerci tra i lupi. Quelli conpelo e zanne ad assalir le greggi e quelli umani a razziache risale la valle coi bandi e con le leggi.Nell’anno liturgico la vita quotidiana al riparo della Storiache scorre più in basso, a valle, nel comodo facile aesaltazione adatto alla conquista.Mai stati santi. Uomini e donne di fede spesso di cadute ed’affanni.A ognuno la piccola avventura spudorata ed assoluta dellapropria vita.L’unica gloria

vense a comparire sull’Ardenza per consolare tutta la Toscana.

La Madre del Signore appare a un pastore, a Montenero,poco sopra Livorno verso la Maremma, a ricordare che lasalvezza è nel Figlio suo, unico Salvatore. A ricordarlo anoi amati figli capaci di bassezze infinite, banditismo erapina ma anche scalzi e contriti batterci il pettoinvocando

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perdono, perdonami, perdonaci: Salve Regina! Matermisericordiae

in processione con le nostre miserie.La ruota dei regnanti e dei sudditi ci lascia sguscianti su unconfine che ora divide i Lombardi dai Toschi. Il crinaledivide il mondo da sempre ma non ne siamo coscienti.Anord e a est la pianura e le steppe. Il regno dellemandrie, dei nomadi, del latte.La porta oscura da cui sgorga ad libitum l’invasionebarbarica.La matrona della mia stalla è una cavallina nata brada suimonti, nera come la pece e poi, crescendo, candida. La suarazza, residuo dei tempi, è agli inizi del secolo XXdecretata estinta. Era detta “furlan” dal Friuli, dall’Est,arrivata più di un millennio prima coi barbari. Lontanaparente dei cavalli di Camargue e di Lipiza.L’EurAsia fa del burro il suo condimento. Un mangiargrasso a far calore dentro a contrastare l’umido ventosogelido intorno.ASud le civiltà del Mediterraneo, il viver dolce per climamite. Le grandi città: Gerusalemme, Atene, l’Urbe primaRoma e la seconda, Bisanzio. Civiltà degli antichi. Loropianta è l’ulivo, condiscono con l’olio il loro cibo.Questo confine è oggi dissolto. Era una confine estetico, unconfine del gusto, confine vero lo riconosce anche uno

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stolto.La terza Roma, Mosca, crea confusione. Spostando iconfini li rende instabili.Lo spazio è esiguo. Le città dell’Evo Moderno, Parigi,Londra, Madrid, Vienna, Berlino, se lo contendono palmoa palmo.Della scoperta d’America, mito smarrito degli antichiCelti, siamo stati informati per via di prolungate carestiequando arrivò, grazie ai Gesuiti, la patata. Non facile. Ciòche fiorisce e cresce, si vede, non si può mangiare, famale. Ci vuole pazienza, aspettare che la pianta secchi,zappare. È sotto terra, a suo tempo, l’abbondanza.Fortificato il corpo, rifiorisce lo spirito in un ordinesociale ormai usurato e ripiegato a languire su se stesso.Così scoprimmo l’America. Verificata, verificabile, in unospazio geografico slargato da non crederci. Di disgrazie efortune come sempre ma molto molto molto più lontano epiù grande. L’Africa australe, l’India, la Cina e ilGiappone, l’Oceanica Australia. Il mondo intero che, orasi sa, è rotondo. È vero!Avanza il tempo della Rivoluzione.Nessuno lo potrà dimenticare. Se ne sussurra da tempo,attorno al fuoco d’inverno, nelle stalle, nei bivacchi deiboschi. Malcelata speranza e timori nascosti.Le colonie inglesi in America si sono ribellate. Stanno

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perdendo. Li massacrano tutti, chi si credono d’essere?Hanno vinto. Sono liberi. Una costituzione repubblicana.Gli Stati Uniti d’America. Terra che si promuovepromessa ai bianchi protestanti anglo sassoni, distruzioneai nativi, abominevole tratta, ma giovane sinceraluminoscura sorprendente per tutti.Parigi, che già valeva una Messa, è insorta.Insorge la Francia in nome di libertà fratellanzauguaglianza. Alza la ghigliottina con l’albero del Maggiocome a primavera. Taglia la testa al Re sovrano, Regina eDelfino. Non l’Apocalisse, la fine dei tempi, è l’alba al dilà delle Alpi. Spezza antiche catene e ci incatena. Tracimae deborda. Inarrestabile come una piena. Avanza.Napoleone al comando, l’imperatore moderno.Il giovane di casa, bello, forte, s’alza un mattino prestocome al solito e fra lo stupore, in fervore, si dichiarapronto alla morte. S’appresta alla rivolta gloriosa efranzosa.La vecchia matrona più volte bisnonna l’accarezza con gliocchi senza contraddirlo. Il discutere e, peggio, il “no”può solo rinvigorirlo. Si fa abbracciare, lo benedice, gliraccomanda ciò che, Lei sa, lui sa. L’umanità del cuore,misericordia, clemenza. Solo Dio è Signore. Tra il bene eil male la scelta fa differenza.Avrà buona sorte, tornerà vivo e intero, cicatrizzato e

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invecchiato soldato.Di questa storia resta, in casa, la sua sciabola e l’elsa inottone della spada in dotazione. Resta, muta memoria diun’epopea, un cippo d’arenaria sul crinale: EMPIREFRANÇAIS reca inciso.Meglio Repubblica, si sa da lungo tempo. Prima e dopoMatilde non c’è monarchia legittima né la si inventa.Il cippo è al limitare d’un bosco familiare costato anni digalera agli uomini.Alle donne, ai vecchi, ai bimbi il compito di tener in vitala casa anche se sfregiata e mutilata.Il duca di Modena pretendeva quel bosco come riservareale.Un impostore illegittimo se lo vuole lo deve conquistare.Combattemmo il Duca, perdemmo e pagammo. Il bosco èancora lì per buona parte nostro. Gli esseri umani, liberiper dettato divino, si inginocchiano solo davanti a Dio contimore. Con reverenza gioiosa, ci si può contare, davantialla Madonna Madre del Salvatore.Dopo Napoleone il mondo è un altro. È fatto obbligoseppellire i propri morti in luogo circoscritto definitodallo Stato. Si traccia una nuova strada comoda alviaggiare degli eserciti, delle merci, dei funzionari, deiprelevamenti, delle tasse.È il mondo moderno e va di fretta. Tutto s’arrabatta.

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Scientifico.Abbiamo ricoperto la casa dopo millenni di tetti in legnopaglia pietra, negli anni ’70 del XX secolo, con l’ultimoritrovato della tecnica edilizia. Eternit si chiamava, ilprogramma nel nome. È durato 20 anni. Negli anni ’90, conignominia, obbligati per il nostro bene e a carissimoprezzo al metro quadro, l’abbiamo dovuto rimuovere.Uno schianto di scienza!Provo a tenere il conto della sostanza negli accadimenti.L’unità d’Italia. Doverosa e giusta per noi che mandavamoa memoria canti su canti della divina Comedia, l’Orlandotanto innamorato che furioso, la Gerusalemme liberata,qualche sonetto del Medici il Magnifico, CeccoAngiolieri, il Petrarca. MichelAngiolo. Leopardi.A cose già fatte, Pascoli e Carducci.Un pastore è poeta nei gesti, nello spaziar degli occhi, nelrimirar percorsi.Accudisce le bestie muovendo i passi negli spazi vuoti.Sempre scostato, un po’ più in là, o prima o dopo gliavvenimenti che fanno cronaca.Vive di poesia. Sedimenta memoria. Rumina pensiericome sue bestie l’erba.Da Londra, città moderna per eccellenza, sogno o incubosecondo chi e come la guarda, arrivano i libri italianimoderni. Raccontano di Roma repubblicana austera e

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virtuosa. Anticlericali non contro Dio ma per conto dellaGiovane Italia chiamano alla lotta per l’Indipendenza.Si emigra, andata e ritorno, a costruire come scalpellinimetropolitana e fogne o a spalare il carbone per mantenerea casa vecchi, spose e bambini che, con l’Unità, arriva lamiseria e la Nazione.L’Italia nasce vecchia, forzata ad una dinastia sabaudaalpina e gretta. Se li guardi in faccia anche un idiotas’accorge che per lo più è feccia.Maria José, triste Regina di un maggio, mi incanta, lariverisco.I Savoia governano l’Italia, Venezia, Firenze, Napoli, laSicilia, neanche fosse una valle umida scura dellaprovincia di Biella.Le razze equine tra le più belle in Europa vengono distruttecon spregio e non se ne conservi memoria.Interrata la rete fluviale che interseca il piano padano.Massacrato il Sud innestando una reazione che contrasta atutt’oggi l’Italia come Paese legittimo e sovrano.La leva d’obbligo dei giovani maschi, per stupidovanaglorioso comando, getta una generazione intera che sivoleva guerriera, brutalizzata e intruppata, come carne almacello in trincea. Imparerà a punire e ne avremo dapenare.Non mi pare ci sia altro, di sostanza, che ci riguarda. Èpassato il secolo ventesimo, quello veloce e breve, dal ’19

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all’89. Doveva decretare nei fatti come da idee chel’hanno prodotto l’alba della libertà, a seguire il soldell’Avvenire, l’uomo nuovo, la nuova umanità.Eccolo: mattatoio abominevole in dimensione industriale,milioni e milioni a decine, di uomini e donne, vecchi ebambini, ridotti a fumo cremoso, fanghiglia viscidaescrementizia e putrida. Tolto il soffio divino a questo siriduce l’uomo. Macello d’ogni speranza, illusioned’umana presupponenza. Su questo costruisce chi s’affida,contro Dio, all’uomo.Nelle due dimensioni in dote alla modernità: ilnazifascismo e il comunismo.Alla post modernità: lo scientismo tecnologico genetico.Ma un po’ per volontà, molto per distrazione, casualità,intrecci interessati in confusione e di necessità avvenneche il Progresso fu, comunque.Com’è come non è comparvero le macchine anche qui, suimonti. Prima la bicicletta silenziosa e austera moltovecchia maniera. Poi scoppiettando la moto e il sidecar.AGenova la nave a vapore per l’America. Andare etornare.La corriera, tutti la prima volta col cuore in gola, tanti avomitare anche a digiuno.La bomba atomica, fine della guerra mondiale in tutto ilmondo, alla buonora!

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Il telefono al posto pubblico per le disgrazie e di servizio.La radio.Il treno si prende in stazione a Reggio, La Spezia, portaveloce lontano ad un lavoro, stipendio mensile, stilecittadino.Ultime le autovetture in serie, per tutti, hanno cambiato ilmondo per davvero e adesso se uno che fu, è morto, tornaindietro non lo conosce più.Io sono tornato a casa e faccio gli stessi passi che facevamio padre, mio nonno, ma ho un Mitsubishi L200 e quandod’inverno fa tormenta viaggio bello asciutto e contento.Cinquanta centimetri di neve per terra e controvento.Se qualcuno sta male lo carico, lo porto al prontosoccorso. Se no, se grave, telefono e la mia ASL me lomanda a prendere, ambulanza e dottore, e son bravi,preparati e di cuore.La casa l’ho rimessa in sesto come adesso si può. Èasciutta, luminosa, calda d’inverno, d’estate fresca. Unoschermo VHS-DVD s’accende il giusto, raramente. Untelefonino odiato e disgustoso anche in modo d’usosilenzioso. Niente TV, la radio non l’ho ancora scoperta,di persona. Niente computer, niente tecnologia di stagione.Per quello che servono, meno di quanto si crede, stiano adistanza.Fuori casa, per servire all’occorrenza.

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La Scienza ha partorito la Tecnica assoggettata e schiava,poi fida consigliera serva all’umanità. Da dove salta fuorila Tecnologia? Interessata a se stessa, ad espandersi senzalimite. Indifferente alla scienza quanto all’umanità.Chi s’azzarda ora, a parte il Santo Padre il Papa, qualchereazionario oscuro e pochi illuminati preoccupati, a volerdefinire confini inviolabili?Tecnologicamente le macchine si attrezzano. Tendono aproliferare autorigenerandosi. Stuoli di servitori umaniaccattivanti servili sfornano propaganda, fanno il lavorosporco. Le macchine perfette neutre intoccabili toccanotutto che è risaputo e ovvio: sono il bene nostro. Noi lebramiamo a costo d’esser pròtesi, definite, smontabili escambiabili di una entità vivente nuova sulla terra chepossiede un codice linguistico e balbetta, ancorautilizzandoci, le sue prime parole. L’intelligenza virtualeimpone per proprio percorso la genetica nostra.All’esser uomo e donna resta tutto il Divino che riesce apenetrare il quotidiano.Resta il sapere arcaico che, obliato, è salvo.Resta la fantaScienza a venire, connubio di vissuta liturgiae spazio siderale della mente.Resta il potere del corpo messo alle strette.Questo la macchina non sa, non crede, intendere non può.Fatevi avanti, monache e monaci, famiglie in carne e

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sangue d’amore.Santi, poeti, eroi, navigatori astrali. La nuova età di mezzoè già in atto.Tocca a voi l’onere e l’onore di traghettarla al poi. Nesarete capaci, di buon grado, se l’amerete per quella che è.La vostra età.Il tempo dell’amore a chi lo fa e della castità per chi incuor suo d’altro interesse sa.Un giorno dopo l’altro e le notti. Il tempo del lavoro e iltempo di preghiera. Sereni.Contenti. Ora et labora.

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La mia geografia

All’inizio è sempre geografia.Parola che mi porta a casa, parola che mi porta via. Bastapensarla, ne nasce storia.È il primo inverno della vita che ricordo. La notte calapresto.In cucina, vicino al fuoco, io e la nonna.Scoppiettio della legna e lenta sonnolenza, dentro. Fuori èil finimondo da tormenta, acqua, grandine, tuoni e fulmini.Il vento si infila tra le piagne del tetto, nelle fessure dellefinestre muove vetri e telai, fa tremare le porte, ulula,fischia e risucchia tra le scale e il solaio.La nonna sta apparecchiando. La sua presenza argina edissolve ogni paura possibile. È la mia forza, la miasicurezza. Sostiene la casa tutta e il mondo intorno.«Bimbo! vai di sopra a prendere due mele che la nonna èstanca e non sta tanto bene.»È una richiesta spaventosa!Si tratta di uscire in corridoio, salire le scale fino al primopiano, aprire la porta cigolante scura e pesante della sala,attraversarla che, nell’angolo, sulle assi del pavimento

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sono conservate le mele dell’orto per l’inverno.Dire no alla nonna non si può. Dire sì come si fa?Di là dalla porta della cucina c’è il buio, gli spifferigelidi, i rumori, le scale che dal fondo non si vede in cima.La paura.«Non avrai mica paura? Questa è la nostra casa e tu sei giàun ometto.»Devo farlo. Non c’è dubbio.«Lascia la porta aperta così ci vedi.»La scala è ripida, gli scalini altissimi, sarà dura. I primiscalini li faccio in ginocchio tirandomi su a fatica.«Come va?» la voce della nonna mi rincuora.«Nonna.»«Sì, bimbo.»«Va bene, nonna.»La voce combatte la paura. Mi alzo in piedi e attaccato alcorrimano salgo.Ogni scalino, prima un piede poi tutti due, un richiamo.«Nonna.»«Sì, bimbo.»«Sono qui.»«Bravo.»«Va bene.»«Bravo.»Dieci scalini, è fatta, spingo la porta e la grande stanza ètutta ombre.

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Solo la voce mi può aiutare. Più forte: «Nonna».«Sì, bimbo.»«Sono qui. Nella sala.»«Bravo. Prendi due mele e portale giù. Attento a noncadere.»Occhi e orecchie sbarrati arrivo alle mele e mi volto. Laluce fioca che sale col tepore del fuoco, adesso in fronte,fa più facile il ritorno, ma le gambe mi tremano e devosedermi sul primo scalino per riprendermi.Due mele nelle mani: «Nonna, ecco».L’eccitazione addosso e l’orgoglio di aver compiutol’impresa.«Bravo bimbo, diventi grande alla svelta e la nonna ècontenta, si può fidare di te. Atavola, adesso, che la cenastasera te la sei guadagnata come un ometto.»Questo è il primo ricordo che lego alla scoperta delmondo. Una scoperta concentrica per allargamento. Lacasa con i fondi e il solaio e le stalle, il fienile, la legnaiahanno assorbito tutte le mie energie d’esploratoresolitario. Più cresce la disinvoltura nel muovermi alcoperto più aumenta la distanza che mi permetto nei campie nei boschi attorno i lavori degli adulti. Così giorno dopogiorno arrampicando e rovinando da armadi, cassettoni,solai, muri, alberi, scivolando nelle scarpate e nei torrentiho preso possesso per conoscenza palmo a palmo della

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mia casa e della valle. Ginocchia sbucciate, lividi e lecroste delle piccole ferite che più diventano secche piùnon si resiste a staccarle e un po’ fa male e molto bene.Un senso di gioia, di forza, mi ha reso la solitudine pienadi sorprese e d’incanto. Anche nel momento più focoso escatenato dell’amicizia, delle bande, dei giochi scapestratie violenti, mai ho abbandonato lo spazio della solitudine.Un legame intimo e motivato nell’esperienza me l’hatenuto caro e prezioso. Un attaccamento profondo tantonella fisicità, nella contemplazione del mondo che poinella lettura e nello studio. Nutro risentimento misto adorrore verso quegli educatori che pretendono di riempirelo spazio della crescita comprimendolo in una maratona diattività organizzate. È la solitudine che apre ai vari regnidella creazione, minerale, vegetale, animale. Apre allamente, al proprio esser conforme. La solitudine è unaricchezza capace di arginare, crescendo, sia la noia che lalogica del branco. Da lì s’ascende e si precipita e cis’allarga intorno. La solitudine è benedetta, fiorisce e fafiorire, se s’accompagna all’amore. Sicuro. Un bimbo puòsopportare e reggere tutto e da tutto trarre profitto se sisente amato. Amato dai grandi e dai piccoli che locircondano. La sua famiglia.Nutro la mia geografia di lacune e mancanze. Ripeto,ribadisco, scopro continuamente lo stesso orizzonte nei

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vari modi in cui si presenta.È una geografia dell’anima e lo spostamentonecessariamente lento, fisiologico, ne è conseguenza epresupposto. Arriva il tempo della verifica, arriva comenecessità, d’urgenza. I piedi vogliono muovere, voglionomuovere i sensi. Un camminare incontro il paesaggio, negliaccadimenti, nei colori, nei profumi, nei suoni. Gliincontri. Ricordi, congetture, coincidenze. Perdersi eritrovarsi per tornare poi ai soliti passi, più coscienti, avolte più complessi a volte semplici. Niente guideturistiche, un unicum sempre lo stesso in ogni angolo delmondo prevede il tutto assicurandoti contro le disgrazieche diventano allora l’unico viaggio possibile, l’unicoaccesso all’estraneo.Viaggio le città e le lande deserte. Viaggio le montagnesenza scalarle ma girandoci intorno sugli antichi sentieri ele strade moderne. Viaggio le montagne abitate dall’uomofino al limite degli eremi, mai oltre. Le vette non sonodegli uomini e doverosi i sacrifici umani che ne propizianoun’effimera conquista. Mi stupisco ancora di comel’arrampicare, le scalate, il conquistar le vette mi lascidisinteressato e insensibile.Che spreco di energia! Le montagne sono state create peressere abitate e vissute da uomini liberi, tendenti allasolitudine, all’essenza. Giorno dopo giorno al cospetto

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della potenza della creazione. Trascendente orizzonte.Lo sport mi è estraneo sempre. Ne ammiro, se l’occasionee il caso, la bellezza delle azioni, dei gesti. La bellezzainfinita dei corpi.Scendo in città a controllare ciò che succede nel mondo.Come cambia e perché. Quali sono i guadagni e cosa ci siperde. Fare spesa, anche. È il mio bel gioco e so che durapoco. Cerco di attraversare schivo quello che incontro. Sol’importanza dei gesti, dei comportamenti, i vestiti e glisguardi. Cammino macinando chilometri e chilometri dimarciapiedi, traverso piazze e giardini. Per riposarmi icaffè, i bar per guardarmi intorno stando seduto.La sera è dedicata alla cucina. La notte si concede, a volte,i luoghi del vizio, il costeggiar del sordido tra il lecito el’illecito che è bene sapere, dove non si sa, com’è comenon è il mondo. A ricordare che lo spazio non ha confininetti e l’incontro può fiorire dove meno l’aspetti. Unattimo d’incanto spesso fa il pari allo sciupìo dei giorni, alfarli empi.Un dono del divino all’umano. Un reso al divinodall’uomo.Il primo viaggio in un mondo altro, di altri, per linguacostumi storia, per senso dell’umano e del divino, è statoil deserto. Sahara algerino. Anni ’70. Un sacco a pelo, unozaino, un ricambio, un biglietto aereo aperto Milano

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Algeri, andata e ritorno.In autostop sulla transahariana. Moazab, El Golea, In Salahe grazie ad un incontro sulle piste a Foggaret Ew Zwa, inun forte abbandonato della Legione Straniera. A scoprire,complice la febbre, il deserto. L’intontimento del giorno el’eccitazione notturna. Le grandi dune, le oasi. La purezzadell’alba, i miraggi, l’angoscia del tramonto.Lisbona l’ho conosciuta di persona per via della“rivoluzione dei garofani”, versione giovanile tardo-romantica.Mi sono ritrovato una sera in una eccitazione forestiera suuna Fiat con due mitragliatrici di ronda in periferia, poi aun posto di blocco in una prova di forza mai esplosa epersa, che ha fatto la fortuna dei socialdemocratici erisparmiato guai al Portogallo. Di guai ne aveva già e inabbondanza. Settimane su settimane a guardarmi intorno,senza soldi in tasca, senza capire bene ma informato degliaccadimenti e felice. Prima ad Alfama, poi al Chado, poiun piccolo appartamento nuovo e vuoto in una palazzina trail mare e l’estuario del Tago. Avanti e indietro in treno dalcentro città al capolinea, un pendolare qualsiasi. Qualchebella mangiata, molta solitudine benedetta per leggere, perguardarmi intorno, per crescere.Marrakesh sarebbe la mia porta d’accesso all’Africa nerasubsahariana, ma resta soglia mai traversata. Continuo ad

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attardarmi in città, accogliente dalla prima volta senzasoldi ed era lo squallore e lo sporco delle bettole e deiricoveri notturni ad indirizzare, di necessità, le mie scelte,all’ultima, ospite nella ricchezza e nel buon gusto. Ungrande letto a baldacchino avvolto in cotone e lino sul tettodi un antico riyad nella medina.In piazza al pomeriggio affitto una carrozza per il girodella palmerie nel tramonto, scegliendo con attenzione icavalli tra i berberi. Fermandomi ad ammirare un vecchiotaxi, un mercedes, l’ho contrattato perché era una bellagiornata, limpida, la neve sulle montagne abbagliante nelsole e sono partito per il deserto.Sono entrato da un sarto povero ed elegante che chinosulla soglia cuciva con una vecchia Necchi da metàmattino al tramonto e mi sono vestito nuovo. Sopra e sotto.La lunga veste, la giacca, lo zuccotto. Tutto bianco.Lui era soddisfatto, a me baluginavano gli occhi.A Durban sono arrivato in cerca della nazione Zulu e delletribù bianche dell’Africa. In corriera sono sceso aCapetown per arrivare in fondo e guardare standodall’altra parte il mondo. A testa in giù?Di notte il cielo è un ammasso confuso di stelledisordinate, gettate alla rinfusa in un firmamento ostico. Ilmare ostile da percepirne coi sensi la profondità gelida, lavastità, la potenza. Alterità assoluta e infinita distanza.

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Dall’altra parte del mondo, il mio mondo, per osservarmi,osservarlo con il dovuto distacco.Il telegiornale dà le notizie in quest’ordine: Africa nera,India, Australia, Anglo America, Asia. Solo alla fine, se ilcaso, l’Europa che è piccola fuori mano e pare, da laggiù,tagliata fuori, al margine. Un po’ rifugio-museo, un po’miraggio.Sul terrazzino all’aperto di un piccolo bar ai margini delWaterfront, in faccia all’oceano, sferzato dal vento eintriso di salmastro ho riorganizzato la mia vita tracciandole poche direttive dei miei giorni nel nuovo millennio.Facile computare i miei vuoti nel mondo. Mancano sia ilnuovo che il nuovissimo.Manca l’Oriente al Centro-Sud, medio ed estremo. Mancal’Africa nera.A parte le città sono le lande poco abitate che m’attirano.Gli animali, le steppe, le foreste. Il deserto. Gli allevatori,i coltivatori, i nomadi. I villaggi, i borghi. Le montagne. Irumori del mondo pre-moderno e gli odori che me loraccontano mentre lo contemplo. I monasteri, gli eremi. Lerovine delle civiltà nel tempo. I luoghi di culto.Il mio viaggiare è lento negli intervalli tra i viaggi e neglispostamenti. Il vero guadagno sta nel perder tempo pertrovare altro, cercando un passaggio, un possibilepercorso. In camion e in corriera. Il treno per le lunghe

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distanze scendendo spesso per scacciare la fretta. Imercati. Le camminate, un giro a cavallo.L’esser per casualità, per dono di Dio, ospite. Cercandod’esser sorpresa e conforto, non sgradevole confronto, nonpeso morto.Algeria e Iugoslavia sono i due paesi che m’hannoinnamorato negli anni ’70, reso felice negli ’80 e mi hannocostretto, nell’orrore e nel dolore, a riconsiderarli ericonsiderarmi negli anni ’90. Frequentati e viaggiati inautostop, senza soldi, in macchina col pieno di benzina, unpane, un pezzo di formaggio. Negli ultimi tempi,nell’agiatezza.Sono stato tentato di comprarvi casa e trasferirmi a vitanuova, altro orizzonte, altra storia.La guerra che li ha avvinti ha vanificato con sarcasmo ilprogetto, il che dimostra, oltre ogni dubbio e buongusto,quanto di società e politica non abbia mai capito niente, nécoltivo illusione a venire nel tempo.Dell’Algeria amavo il Magreb, il dipartimento del Sud. Ildeserto, le oasi, l’Hoggar. L’incontro a gennaio con iTuaregh in risalita dal Mali a commerciare i propri tesoriper scampare la siccità. Soprattutto gioielli in argento epietre dure dalle doti delle donne, barattati con misure dimiglio, di semola, di grano, d’orzo.L’ospitalità. L’indole gentile e pudica dei suoi abitanti.

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Una società di giovanissimi e giovani nata attraverso unalotta di liberazione che aveva stupito il mondo facendo didannati della terra un popolo vittorioso. Ora è evidente,qualcosa non ha funzionato.Un senso di sgomento parte dallo stomaco e cresceannichilendo tutto, tutto l’intorno.Un mattino d’inverno ad Algeri nel blu del cielo e il soleche sta nascendo quando l’aria è più fredda e batti i piedie sbuffi per riscaldarti picchiandoti i palmi addosso tuttofelice che ti hanno detto è giorno di gran festa. Suonoassordante. Terrore belato. Lo strazio s’espande rimbombae sangue ovunque, dalle grondaie, a rivoli sui marciapiedi,tanfo viscido e scuro e denso e puzzolente da migliaia diagnelli sgozzati.È la festa e tu hai male alla testa. Voglia di vomitare.T’hanno educato bene. Respiri lunghi col naso edemissione lenta a bocca leggermente aperta. Un sorrisoforzato, una sigaretta e due passi ciondolando tirestituiscono ospite.Un grumo ripugnante resta, sospeso, dentro. È qui la festa?Sugli spalti della fortezza a Foggaret due chiacchiere altramonto con il giovane maestro algerino. Gentile, educatoe così pieno di livore, di odio che balugina dagli occhi eda qualche sovratono. Un parlare confuso più si confondenelle spiegazioni. Ce l’ha col mondo intero. Un trambustointeriore impossibile da dire, almeno a me quella sera,

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nella sua forma vera.Ho ripensato spesso questi due episodi quando l’Algeria èdiventata il mattatoio in cui sgozzando innocenti, donne,bimbi e vecchi, la guerra santa d’Islam si è fatta forte lamano. Ideologia e slogan, proclami ed esperienza. La jihadmoderna s’è fatta le ossa in famiglia, l’Algeria ne è stataculla e dissanguata balia.Della Iugoslavia amavo il suo destino. Fusione. Scontroincontro. Le razze, le religioni, le lingue. Laconformazione geografica e la storia. L’esser crocevia. Ilsocialismo come terza via. La povertà diffusa e la miseriavinta. Il cambiar repentino degli orizzonti. Dai campaniliaustroungarici che chiamano a raccolta le cittadine e iborghi nelle valli del Nord ai porticcioli dalmati, i paesilastricati dei veneti sulle marine adriatiche. Le forestescure e le isole assolate. La pianura e la montagna deglislavi un po’ parente povera d’una Emilia in disuso e unpo’ Russia in progresso addolcita.Le chiese ortodosse, d’oro, iconostasi, candele, incensi e iminareti sottili sulle moschee d’Occidente. Il Montenegrocome roccaforte montana tutta racchiusa nel nome.Un nome venerato che ha concesso rifugio e salvezza a miopadre fuggito da un campo nazista e nascosto, per mesi, dauna famiglia come la nostra. Una casa di montagna constalle, campi e boschi, lo stesso orizzonte e gli stessi gesti.

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Nell’infuriare della guerra una famiglia di giusti di fronte aDio e agli uomini, capace di accollarsi il rischio delladistruzione per non essere complice. Una di quelle storie,nei momenti di buio senza speranza, capace di illuminareil cammino, fortificare scelte e comportamenti.Dio li abbia in gloria nei secoli dei secoli per sempre. IlKossovo con i suoi monasteri ortodossi così vicini elontani, antichi e venerabili, da arrivarci in processionilente estenuanti.E Makedoni. E vecchi Turcomanni coi larghi turbanti atirar pipe e narghilè sui terrazzini di legno e spiare,dall’alto delle Alpi, Albania, caserma comunista tirata suad angoscia e miseria a selezionare una criminalità permetà burocratica e per metà bandita che si sarebbedimostrata in crudeltà determinata. Capace di reimportarela schiavitù sulle strade d’Italia e d’Europa, a vista.Vincente.Bellezza austera e dolcezza della terra degli Slavi del Sud.Paese residuale in Europa di tutte le maree umane inviaggio da est a ovest e tutti i contraccolpi d’Occidente adOriente. Tutto in atto nel susseguirsi dei paesi, le cittadine,le valli. Un posto per tutti. Bogomili e atei, gnostici,cattolici, ortodossi, protestanti, mussulmani, ebrei ezingari.Un po’ di tutto ciò che li circonda e residui preziosi eunici. Troppi?

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La Iugoslavia non esiste più. Al suo posto una finzione adabuso politico-economico-religioso di staterelli eprotettorati. Uno sperimentar giorno per giorno ildissolversi nella burocrazia sospeso il massacrocasalingo. Ferite sanguinanti per tutti aperte e tamponate.Confini labili. Solo colpevoli nelle diverse gradazioni dicolpa.Più scaltri gli Sloveni ad arricchire tra casinò e casini benpresentabili e presentati nel loro piccolo orto asburgico.Peggiori i croati ateo-cattolici. Più disgraziati, vittimesacrificali tanto dei carnefici che dei salvatori, imussulmani bosniaci. Al contrattacco e in fortuna sfacciatagli albanesi rifugiati nel Kossovo. Più sfortunati i serbi.Una lezione difficile l’ex Iugoslavia.Una guerra sospesa. Una lezione odiosa in una Europamafiosa.Esaurita la loro spinta propulsiva i CCCP-Fedeli allaLinea si sciolgono. Mancanza d’aria la diagnosi. EpicaEtica Etnica e Pathos il loro testamento.Ritirato in isolamento nella mia casa sui monti miriapproprio delle stagioni, del ciclo lunare, del tempoliturgico. Rasi i capelli percepisco la potenza delfirmamento sul cranio e il lavorìo cerebrale sottostante. Lamalattia, ospedale convalescenza fanno il resto.Fluiscono pensieri da troppo tempo impensati. Il vento liscompiglia, la pioggia li lava massaggiandoli, il freddo li

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compatta. Reagiscono.Si avvicina il Santo Natale. Faccio il presepe, l’albero,pulisco e metto in ordine la casa, l’addobbo a festa e sonocapace di prepararmi la cena della vigilia e il pranzo diNatale come la tradizione comanda anche da solo, solo perme.E me la godo che solo non sono. Ci sono i morti, ci sono,molto più imprevedibili e non sai dove collocarli, ma cisono, tanto vale saperlo, i non ancora nati. C’è la casa, cisono gli animali pochi ma ci sono, i campi e i boschi.C’è il Bambino Divino e sua Madre e San Giuseppe. C’èil Vangelo di Matteo con i Nomi e quello di Luca con laStoria. C’è futuro e memoria. È la festa. Il sole rinasceinvitto e, se Dio vuole, la neve. Il 31 dicembre mi fasempre incazzare. Bisogna divertirsi a caro prezzo ebrindare, brindare.Il Cielo mi conceda a Capodanno un tocco d’hascish nontransgenico, ma saporito e grasso che si sbriciola al tatto,nuvola di fumo dal pomeriggio tardo del 31 al mattino delprimo. Poi faccio il giro delle Madonnine che fuori ilpaese fanno protezione e corona e sorridendo chiedograzia e perdono nella convinzione che, se buono, trattasidi erba in coltura benedetta dal Cielo. Un dono.Se no, non fosse vero, sarà applicazione personale dellateoria psico-sociale del minor danno. Il minimo persuperare il Capodanno.

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Grazia odia le festività e quelle di Natale in particolare,comincia ad innervosirsi con la comparsa delle luminarie,le rifugge viaggiando.Per quanto sia restio a muovermi non è impossibileconvincermi. Si parte subito dopo Natale per la Iugoslaviaa zonzo con l’idea d’arrivare a Medjugore che di precisonon sappiamo dov’è ma è Bosnia Erzegovina. Solo stradesecondarie e il paesaggio o gli incontri a definire ilpercorso.La mattina dell’ultimo dell’anno entriamo a Mostar dopouna nevicata ma l’atmosfera è cupa. Non capiamo,percepiamo tensione, timore, eccitazione. Ci s’aspetta chesucceda qualcosa e non pare bello quello che s’attende.Poche ore e torniamo in montagna. In uno dei centomilapassi che svalicano nell’intreccio delle catene montuoseuna casa tra il bosco e i pascoli è un buon rifugio per lanotte di Capodanno. È una giovane famiglia di contadiniallevatori, ha una camera da affittare, bella, calda. La notteè serena, glaciale, incastonata tra il bianco della neve e loscuro del cielo punteggiato da una infinità di vivide stelle.Il risveglio è col sole che illumina le cime e sale veloce.La colazione è in cucina, il padrone in cortile coi bimbi stamacellando una pecora: è festa. Siamo in casa dimussulmani. Una bella casa di montagna, una bellafamiglia, gente per bene. Niente ci fa diversi nellaquotidianità della vita. Siamo giovani europei in pace per

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sempre.Quarantacinque anni di sicuro.Una camminata ci porta su un’antica strada che s’infila nelbosco. Un palmo di neve fresca, vergine di tracce umane,intersecata di piste. Lepri, volpi ed ungulati di variogenere. Camminiamo in silenzio, immersi nel paesaggio,ognuno i propri pensieri. Poi fermi al sole che comincia ascaldare, seduti su un sasso a fumare una sigaretta, leparole incerte ed indecise trovano reciproca conferma.C’è qualcosa di lugubre, di spavento, nell’aria.Incomprensibile, senza ragione apparente, c’è e ciavvolge. La sensazione ci accomuna. Salutiamo i nostriospiti che aspettano parenti per la festa. Ce ne andiamocon l’oppressione nel cuore e una visione beatifica negliocchi. Incapaci di dar voce allo scompenso.Il viaggio continua. Siamo arrivati a Medjugore seguendouna vaga traccia. Siamo tornati al mare, al Sud, siamotornati a casa. Malcontenti. Strano dire: male contenti.Poco tempo dopo il nostro rientro sono cominciati i primitimidi incidenti con qualche morto. La guerra prendedimora nel Paese degli Slavi del Sud. Guerra di rapinatramite razza e religione alla ricerca di confini,compattamenti antichi e nuove divisioni. L’orrore nelladimensione quotidiana. Sgozzamenti tra vicini nellecampagne e cecchinaggio nelle città. Lugubre visione di làdall’Adriatico per un decennio intero.

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Tanfo europeo in sordo brontolio.di colpo si fa notte s’incunea crudo il freddola Città trema, livida trema.Brucia la bibliotecai libri scritti e ricopiati a manoche gli Ebrei Sefarditiportano a Sarajevo in fuga dalla Spagna.S’alzano gli occhi al cielos’alzano i roghi in cupe vampe.Brucia la biblioteca degli Slavi del SudEuropei dei Balcanibruciano i libri, possibili percorsile mappe, le memorie, l’aiuto degli altri.S’alzano i roghi al cielos’alzano i roghi in cupe vampe.Di colpo si fa notte s’incunea crudo il freddola Città trema come Creatura.

Non conosco geografia che non sia storia, letteratura,religione, poesia, economia.Un camminare lento e zigzagante tra l’interiorità e lamagnificenza dell’esterno.La volontà dell’essere e di necessità contingenza. Unviaggio di mesi in Siberia insegna ciò che si può imparared’inverno nelle valli intorno a casa, se lo si cerca. Lostesso nutrimento dello spirito, la stessa eccitazione stancanel corpo. L’osservazione dei rapporti vitali in un piccoloborgo montano, le relazioni residuali tra le casate, le

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famiglie, i singoli, la dice lunga sullo spettacolo che offrela politica nei consessi internazionali.Il macro si riflette nel micro e ne è riflesso.I viaggi alla mia età continuano ad essere necessità perosservare il cammino cambiando prospettiva e mutando losfondo. Tendono al pellegrinaggio. Sono nutrimento,mutazione, conferma. Tappe sempre più distanziate di unatransumanza. Da casa nel mondo per necessità, interesse eritorno.Alcuni oggetti ben posizionati e cari agli occhi a farcontorno nei giorni casalinghi.Un bastone mazza dal Kwa Zulu Natal. Una sella snella daUlaan Baatar comprata per Tancredi, l’indossavaorgoglioso. Una manciata di coltelli, una pila di coperte.Una ciotola d’acciaio e una di legno. Un rosario buddhista,uno ortodosso e diversi cattolici. Una piccola riserva darimpinguare, va scemando, di redini corde intrecciate incrine di cavallo, yak, cammello, molto resistenti, moltobelle, utili a tutto. Una sella comprata a Jaffo in Israele perTre e non ancora messa, la stagione permette poche uscitee brevi e tutti due preferiamo il contatto diretto, a pelo. Unmantello dal Sahara col cappuccio. Un mantello di lanaregalo di Eleonora a ricordare che le persone che incontrinella vita sono, a loro modo, un viaggio e non tutti i viaggisi misurano in chilometri.

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È indubbio che il viaggio più lungo del PonteficePellegrino Santo Padre Giovanni Paolo II l’ha portato, inRoma, dal Vaticano al Lungotevere in Sinagoga.Pochi passi non una passeggiata, due millenni a ritroso,nell’infinito eterno.Avanti, indietro. Qui.

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Del paesaggio familiare

Si incontrano paesaggi camminando nella vita che ciappartengono e paesaggi altri, impossibile ogni legame chenon sia ignota meraviglia.Dei primi è parte la Mongolia, dei secondi il Salento, terradi sole mare vento.Io posso solo vivere in montagna, necessito di crinali e divalli, di boschi e di torrenti e neve nel suo tempo cometranquillante.Declamo il mio rapporto col mare in un detto: “loda’l mare statn’in tera”.Il sole me lo godo davvero oltre i 1000 metri e non dimezzogiorno in solleone che mi sfianca. Il ventom’appartiene in tutte le sue forme, dall’arietta brezza allefolate raffiche. Lo zefiro che viene da ponente e quandoinverno attarda dice che primavera arriva, grecale danord-est, maestrale sotto cui biancheggia il mare da nord-ovest, tramontana signora del gelo e libeccio che strapazzail litorale toscano e investe furioso il mio crinale in unturbinio di nubi dense limacciose. Dopo una libecciata ilmondo è tutto terso, limpido e vicino. Esiste allora alla

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vista non solo sulla carta, come manciata d’isole,l’arcipelago toscano e la Corsica è lì in fronte, lunga lineaincredula.Nato sotto il vento di un valico riconosco nel vento il miolegame profondo col Salento. Tramite con donne e uominiche sanno poesia, fanno la musica, godono piaceri di cuinon sai ben dire quanto è carne e quanto anima, comunquearmonica.Il vento, l’uomo e gli animali m’han fatto innamorare delSalento tanto da prima sottoscrivere e poi far mio il versoda che imparato sempre recitato: «Per quel che appare ilparadiso potrebbe essere una piana, disseminata dispelonche, olivi e radure che presto sboccano a mare».Già, gli ulivi. Al tramonto, sdraiato a pancia in su,strizzando gli occhi, diventa una catena montuosa ognitronco. Crinali e picchi, orridi e impervie valli ariconciliarmi come dose quotidiana di monti e poi lemasserie, i conventi, le chiese a far riparo sereno epossente quando è l’ora di quiete, immobile penombra,silenzio.E asini e cavalli, il vento li spazzola che possanorisplendere. Luccicano i manti come seta dei morelli delleMurge e arieggiano le setole degli stalloni di MartinaFranca, ora i più belli fanno razza in Texas e Oklahoma eche razza! incrociati a giumente di quarter e aviotrasportatianche a ribaltar le sorti delle guerre.

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Che niente è a sé e il Salento è parte delle Puglie, il suddel Sud dell’Italia ma molto nord se visto dal Magreb, suomare è Adriatico, qualcuno lo dice Canale d’Otranto,Ionio, comunque molto Mediterraneo. Questo per stare inbasso. Appena un po’ più su il vento confini non ne ha enon fa differenze ma inutile fargli domande, risposte nonne dà, lui s’alza spazza spezza spinge. Calma e risorge.Il mio paesaggio si snoda in lungo viaggio verso est,Mongolia, a ritroso nel seguire il cammino del sole daltramonto all’alba ed è il viaggio più corto, un percorso nelsolito che conosco, so, e muove intorno casa.Varia la quantità nell’altezza dei monti, le vastità dei pianie delle valli, nei fiumi la portata delle acque, non mutaqualità, stessa sostanza.Posseggo punti di vista che fanno d’una piccola valle unoscorcio degli Urali e d’un giogo d’Appennino uncontrafforte degli Altai e i boschi sono boschi, il cielo ècielo e Dio è Iddio.Bambino orientavo il mio viaggio sull’enciclopediaConoscere e Michele Strogoff, poi una moltitudine ditesti, fotografie e cinema, musiche, dipinti l’hannoarricchito e reso saggio.Un viaggio circolare, al centro un focolare, coniugatonell’infinito molteplice del familiare in questa latitudine.Un grande ventre che fagocita, digerendo, ogni assalto

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violento e muta lento nel progredire della conoscenzasedimentando genialità ed esperienza.Lo diresti scomparso ma è pazienza, un germinar nelprofondo che, miracolo, sboccia se la pressione s’allenta.Il grande freddo prepara primavera, la fioritura delmaggio, l’estate che matura e sfiora nell’abbandono alcolore d’autunno verso il gelo.Semina e raccolta, difesa e cura, questa la scuoladell’obbligo fondamenta di vita.A Mosca sono arrivato quattro volte.La prima imperava lo scientifico socialismo realesull’orlo del crollo. La città era uno spendido lugubre setcinematografico di miserevole fantascienza imperiale.Comparse frettolose sciatte indistinte sospette. A frotte.Movimenti rigidi a scatti.Sulla piazza Rossa non si può fumare e si è rigidamenteintruppati in colonna da militari altezzosi in un tripudio discolaresche, gite, delegazioni internazionalmenteproletarie tutte vestite a festa, costumi tradizionali in bellamostra. Mazzi di fiori rossi.In una compostezza pavida ossequiosa si può percepire,ultima chance, il sacrale demoniaco del Potere, nostrastoria oscura.La camera mortuaria del mausoleo risulta, per tantoventoso spazio fuori, un sottoscala tossico tra l’esalar dei

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fiori, fiati pesanti, umori, l’igiene barbarica, lo strascicardei piedi lenti riverenti. Un Lenin leader maximo cereocostretto da manutenzione imbalsamata ad effetto. È questoal fin di nuova umanità ciò che ci resta. Miseroingombrante ridicolo feticcio tolto alla terra, ad unadignitosa sepoltura. Un impossibile impiccio.Alle spalle, superbo, fuori tempo e intoccato, il Cremlinodei Cesari orientali, Czar.In città non c’è niente, negozi senza merci pieni di gente.Pochi dollari in mano fanno d’ogni straniero un fenomenomarziano.Bella bella bella come può esser disperazione nera in uninverno che attarda e sai che sta per arrivare primavera.Nel secondo viaggio Eltsin regna sovrano, l’odiatoCapitale gli dà una mano.In alto pubblicità sgargianti d’Occidenti invadenti. Inbasso criminalità a dismisura e la paura di chi non saconiugare il mattino alla sera. E macchine di lusso maiviste, negozi straripanti merci vuoti di gente, pochiristoranti privati sempre affollati.Disperazione incontenuta, vodka schiamazzi sbraiti climaviolento e un traffico caotico in clamoroso aumento.Lavori in corso sulle strade, nei palazzi. Nei cuori e neipensieri la consapevolezza gravosa stridente di quanto sisia tribolato per decenni e meno di niente.

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In centro una voragine aperta in forma di cantiere ferved’inedita operosità ininterrotta, postsovietica, volta ariedificare proprio così com’era la Cattedrale del CristoSalvatore, solo raddoppiata in basso, catacombale, peresperienza diretta pluridecennale.Ovunque donne pie scuro vestite all’antica chiedonospiccioli che sia presto finita.Crollata l’URSS, e il crollo fa paura, si ridesta l’animarussa in seno alla gran Madre Ortodossa.Della terza volta non so dire. Tutto un continuo rimuginareche non sbocca e non placa ma focalizza il mio concorsodi colpa. Senza consolazione, senza indulgenza.L’ultima volta con una delegazione della Diocesi diBologna per un meraviglioso gioco del destino. In tutt’altrefaccende, non lontane, affaccendato ho accettato da PadreToschi un invito. Ho ottenuto il visto in una notte e con trescali aerei sono arrivato, ventiquattr’ore in tutto,eternamente grato. Si festeggia a Mosca il compleannoonomastico di Sua Santità Alessio II Patriarca Ortodosso.Noi portiamo in dono la copia della venerabile icona dellaMadonna di San Luca nella Basilica del Cristo Salvatorepronta riedificata.La mia prima Divina Liturgia. Tre, cinque ore in preghiera,canto, genuflessioni e incenso e segni della croce,passaggio di candele. Profondamente a mio agio in un

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unico corpo di fedeli stretti in piedi a vibrare di fronteall’Iconostasi.In giro per la città visito vecchie chiese superstiti, giovanimonaci e monache, giovanissimi fedeli e una gran quantitàdi donne e uomini d’ogni condizione, gli occhi incantati,l’incenso, le candele accese. Ce la può fare la SantaRussia, ce la deve fare.La pestilenza è finita e se non è ancora salute certo èconvalescenza, garantita.Sono arrivato ad Ulaan Baatar con la transiberiana deimongoli, treno bazaar su cui muove il commercio minuto eil contrabbando traverso la Siberia. Scendendo ho messolo zaino in spalla e vacillando sono finito a terra, ridendo.Intorno a me una città nell’accezione sovietico-asiatica,grigia, squadra ma piena di sorprese nella gente povera,affascinante e bella, sopravvissuta stremata alla Storia.Dal piccolo terrazzo della casa in centro lo spaziare degliocchi dall’alto m’ha tramortito e rifatto vacillare, pervertigine, come poco prima rimetter piede, dopo giorni enotti di treno, a terra. L’aria tersa oltremodo limpida dàprofondità allo sguardo, l’avvicina e l’allarga.Le montagne da un lato e dall’altro la steppa iniziano dicolpo con taglio netto tra l’abitato e una natura intatta, apascolo.Le grandi centrali e i tubi che ai lati delle stradetrasportano acqua calda le danno un tocco da fantascienza.

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Le aquile in cielo a volteggiare, i cavalieri al trotto nellepiazze e nel traffico, le gher e le staccionate come tentacolidi legno e feltro a tamponare gli spazi tra gli edifici dicemento, la tengono sospesa nel tempo.Nuovi grattacieli omaggio al gusto cino-americano,potenza economica, ne fanno una città in transito. Non maleper l’unica città moderna nata nomade.Ulaan Baatar significa “eroe rosso” ed è il nome che icomunisti le hanno dato dopo averla distrutta, nel 1937,quando si chiamava Orgoo ed era città santa in Asia, comeLhasa in Tibet, sede del Bogd Ghegheen Buddha vivente.Città di monasteri tra gli accampamenti con un centro studidi filosofia tantrica, uno di medicina e uno di astrologia.Un sapere, una cultura di cui non resta traccia, tuttodistrutto con infinita rabbia. Unici superstiti due templi.Uno risparmiato per farne sede del museo dell’ateismo diStato, l’altro per comodità, avrebbe sempre potuto servirenella convinzione di essere, il comunismo, l’apicescientifico dell’umanità e, in questo, eterno.Cinquant’anni ed è tutto finito. Una pestilenza dell’anima,morbo ideologico e se non muori sei guarito.Ulaan Baatar è città al margine della Storia che da lìsgorga impetuosa ma anziché dipanarsi in progressiones’avviluppa su se stessa.Le steppe e tutta la Russia, l’Europa, il centro Asia,

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l’impero di Mezzo sono stati spezzati e spazzati a piùriprese. Come il vento l’Orda dei Mongoli Sciti UnniprotoTurchiTartari s’alza, s’allarga, spezza e spazza poicalma.Smesse nel tempo le scorrerie sanguinarie, caduto il sognodi un Impero nomade, gli implacabili guerrieri siconvertono al buddhismo lamaista nella contemplazione,nella quiete. Agli inizi del secolo XX metà dellapopolazione mongola, uomini e donne, è in stato monacale.Un comunismo cospirativo gretto sanguinario servileall’URSS in funzione anticinese massacra 1 mongolo ogni3. Azzera memoria religione storia. La tradizione inclusigli abiti, l’alfabeto, viene perseguitata ed abolita. Uccisi iletterati. I Mongoli vincolati alle zone d’appartenenzaetnica senza alcuna possibilità di movimento.Ulaan Baatar è città al margine della geografia checapitale dei nomadi era in origine mobile con i suoi templimontati su enormi piattaforme trainate da yak e cammelli infila interminabili.La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo.Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma puntodi sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciòche, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì horeimparato quello che ero sotto ogni incrostazionecumulata, quello che sono fuor d’ogni dubbio e di buone

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ragioni un sacco.Mi ritrovo a Firenze un sabato di primavera, pomeriggiourbano colmo di tutti i difetti da eccesso di traffico surotaia e su ruote, ad un pubblico incontro: “La via dellaPace”. Le comunità religiose attorno la presenza di SuaSantità il Dalai Lama.Mi siedo e chiudo gli occhi. La vista mi confonde,pretende sé capace di giudicare in autonomia, concatenapensieri inutili e per lo più malevoli. Chiudo gli occhi. Laverità deve fiorire dentro, esigenza del cuore pulsante,respiro che vibra, ascolto. Si forma nelle orecchie unsalmodiare lento dolce rigenerante e fiorisce in preghiera:

nel silenzio possa tutta la sofferenza, violenza e confusione delmondo incontrare la potenza che consola, rinnova ed eleva lospirito umano. Possa questo silenzio essere una forza che apre ilcuore degli uomini e delle donne. Possano tutti coloro chevengono qui, gravati dai problemi dell’umanità, uscireringraziando per la meraviglia della vita umana.

Si riaprono i miei occhi, purificati dall’ascolto, alcomparire di un monaco presenza di potenza: Sua SantitàTenzin Goyatzo XIV Dalai Lama. Per la sua esistenza tratutti noi sia benedetto il Cielo e tutta la terra.“Per quanto mi riguarda il termine Dalai Lama indica lacarica che ricopro. Io non sono altro che un essere umanoe, per caso, un tibetano che ha scelto di diventare monaco

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buddhista.”La preghiera era iniziata con un’assenza. Il Rabbi diFirenze, Rav. Josef Levi, nel sabato non può esserci ma cisono le sue parole.Parole di un inizio che non ha fine, assolute, aprono amiriadi di altre parole antiche e nuove ma tutte quelle cheio conosco sono qua contemplate.

Noi sappiamo che al di sopra di tutto, di ogni essere vivente, diogni manifestazione della natura è presente un’anima uno spiritoinsito dentro di essa, al di là e al di sopra di essa. Ma la strada percogliere con consapevolezza la totalità delle cose, dell’unitàdell’Universo, passa attraverso il particolarismo el’individuazione di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni tribù,di ogni specie del genere umano, attraverso le esperienze e levoci della propria storia. Cercando di collegarci attraverso lameditazione con l’universale dobbiamo trovare la strada che ciconsenta di non profanare la sacralità di ogni esperienzaindividuale e particolare, di ogni esperienza religiosa specifica.Dalla Comunità Ebraica di Firenze Vi mando quindi labenedizione del Sabato, nella quale, secondo tradizione siriuniscono in armonia celeste il lato maschile ed il latofemminile della presenza divina.Da quest’armonia spero potrà nascere l’unità della somiglianza edella diversità, della continua presenza divina in stampi econtenitori diversi tra loro per farci meditare ancora sullagrandezza di Dio che con un solo conio chiamato Adam ha creatotutta la diversità della specie umana.Che sia con Voi la benedizione e la dolcezza di Dio.

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Nel bianco e nel blusalita a Jerusalem

a Grazia con cui hotraversatole turbolenze di unagenerazione

Eccomi in Israele, a Tel Aviv, sul mare mentre col buioche cala veloce si accendono le torri della città moderna.Eccomi salire verso Gerusalemme nel fresco della sera epercepire, nel retrogusto acidulo della paura, l’eccitazionedella bellezza infinita.Consolato dalla presenza di giovanissimi soldati, maschi efemmine, figli di Davide, mi infilo leggero nella porta diDamasco, utero caldo umido speziato della storia, la miastoria nel mondo. Come trasportato, sospinto e trattenuto,ogni senso espanso e un largo sorriso negli occhi e nelcuore attraverso il quartiere mussulmano nella confusionevociante e compatta di una notte di Ramadan e riaffioroper entrare nel sommesso brusio della spianata del MuroOccidentale. Siamo nei giorni di Sukkoth e ondate di ebrei

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religiosi in gruppi familiari straripanti bambini sisusseguono festosi.L’aria è immobile. La luna, calante, quasi adagiata sulmuro.Una profonda commozione mista a un senso di vertigine miblocca sull’invisibile limite che solo la kippa permette dioltrepassare. Chiudo gli occhi e respiro profondamente.Immobile ciondolo per vibrazione interna e il vuoto miattraversa e una benedizione muove le mie labbra.

Benedetto sia il Signore, Dio dell’universo, i cieli e la terranutrono la sua gloria.

Capita, non è la prima volta, che le benedizioni,reminiscenze di gioiosa infanzia, si dicano da sé o che, dasé, la Legge si enunci:

Non avrai altro Dio all’infuori di Me, Io sono il Signore Dio tuo.Non nominarmi invano. Ricordati di santificare le feste. Onora ilpadre e la madre affinché si prolunghino i tuoi giorni nel paeseche ti dà il Signore, tuo Dio.

Apro gli occhi e mentre mi allontano senza voltare lespalle canto, afono ma canto, e le parole del Magnificat edel Te Deum mi rimbombano tra il palato e la scatolacranica. Solo qualche giorno dopo riuscirò ad avvicinarmifino ad appoggiare le labbra e la fronte al Muro del pianto.In un sole accecante tra il bianco delle pietre, il blu delcielo splendente.

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Prima devo passare al Santo Sepolcro e ho tantepreoccupazioni aggrovigliate turbate in merito. Devocamminare la via Dolorosa. Tra la penombra e l’ombradella mia esistenza. “anela il cuore mio ad anastasis.”La città è ormai vuota, qualcuno per la sua strada miassomiglia o pare uscito da uno scarto dei tempi, unguizzo, uno scricchiolio, una svista, uno sbadiglio. Pugnodi pietre stratificate nello spazio, Gerusalemme, condimensione infinita nel tempo. La mia dimora di pellegrinoè il Patriarcato Armeno. Da lì non ho intenzione dimuovermi, ma sarò trasferito, dono inimmaginabile, di làdalla strada oltre il muro da cui svettano cime di alberi acelare un giardino e un terrazzo che paralizza.Dentro le mura Gerusalemme è un catino indolente evibrante. Ardente.Qualche tocco di verde, oro, blu e bianco. Dormo poco,sonno leggero che arriva tardi e finisce sereno con il cieloche schiara. Troppo da camminare, pregare, contemplare estudiare. Il buio eccitato della prima notte canta calmo eprofondo da una liturgia greco-ortodossa che s’allarga egonfia. È molto vicina ma impossibile da raggiungere.Tutto è sprangato. Viviamo tempi difficili.

Santa tra tutte Sion, Santa di Pace in Dio non pace a sé che ne èincapace.

Apro gli occhi e mi sembra di aver perso qualcosa, il sole

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illumina la piccola finestra feritoia. Nella via Dolorosacomincia la vita quotidiana, porte e portoni si aprono esoglie lavate con cura. A Sant’Anna, retta dai PèresBlancs, la Messa è in francese alle 7. Il portoncino sullastrada è socchiuso e i soldati davanti si stiracchiano escaldano al primo sole. Giovanissimi assonnati per nientemarziali fanno tenerezza e incutono rispetto. I primi fedelimusulmani si avviano alla spianata del Tempio, alleMoschee. È venerdì.Entro da una porticina laterale nella chiesa più bella diGerusalemme.Prostrarmi, schiacciare il mio corpo sulle pietre perassorbirne conoscenza, gioia, disperazione, compassione.Confondermi e per un po’ annullarmi nella mia storia.Generazione su generazione. Dice la tradizione che qui erala casa di Anna e Gioacchino, genitori di Maria.Accendo un lume e il pensiero di mia madre micommuove, e mentre prego un sorriso mi pervade, me lavedo davanti.Siamo in cucina, sto bevendo il caffè, pronto ad uscire. Ciguardiamo. Sorridiamo.È vecchia, è bella, è serena. Le sistemo una ciocca dicapelli.«Oggi dove vai?»«A Livorno, mi imbarco per Cagliari ma sto via solo tre

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giorni.»«A Cagliari? e non mi dici niente?»«Mamma te l’ho detto cento volte è che ti dimentichi manon preoccuparti, pensa solo a star bene.»«Fai presto tu! Come faccio a non preoccuparmi con tuttoquello che succede: incidenti, morti, attentati. Oh Gesù!»«Non starò in pace un momento finché non ti rivedo.»«Dai su, vado in Sardegna è sempre Italia e sto via solo tregiorni, piuttosto ti ricordi che poi parto per Israele, vado aGerusalemme?»«Ah beh! lì son tranquilla e ricordati di pregare per te, pertutti e anche per me. Lì son tranquilla. A Gerusalemme soncontenta.»L’abbraccio forte ridendo, fronte contro fronte, di gioia emeraviglia.“Au nom du Père, du Fils et…” la voce del sacerdoteriverberata dalla struttura architettonica, cassa armonica dipietra, mi riporta all’oggi ma è un oggi eterno, nei secolidei secoli. Due officianti anziani, uno europeo e unoafricano come i due giovani che li accompagnano. Entranoalcune suore e vengo invitato a risalire la navata e araggiungerli intorno all’altare.«No grazie, no, va bene così.»Non mi sento degno, non è il caso, la navata è già undono.»

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«Pas des problems, ça va très bien.»Con gentilezza vengo obbligato all’altare, mi mettono inmano tre foglietti con i canti del giorno. È la mia primaMessa in francese, rispondo un po’ in latino e un po’italiano e riesco a seguire, sottovoce, anche il canto lento esolenne.È la mia prima Messa a Gerusalemme. Quando esco sonopronto per il Santo Sepolcro.Mi capiterà una domenica successiva, a Jaffo, di seguireuna Messa in inglese, lingua a me incomprensibile.Intristito da canti di gusto melenso pop accompagnati dachitarra e uno schermo di fianco all’altare, grande comel’altare, su cui scorrono a mo’ di karaoke le strofe.Accettando come scontate le ottime intenzioni che hannoprodotto questa riforma liturgica non posso non pregare,con tutto il cuore, perché si ponga termine a tale decadenzasenza limite.Dio benedica sua Santità Benedetto XVI che ancoraCardinale scrisse, per me illuminante, Liturgia, e prego loSpirito Santo che lo fortifichi e lo sostenga. Se siamoKatolikòs non mi pare impossibile un ordinarium dellaSanta Messa che è semplice e meraviglioso in latinoecclesiastico ben scandito che ci accomuni tutti sulla terratutta. Le letture, le prediche, le intenzioni el’amministrazione delle Chiese in tutte le lingue del

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mondo.Dovremmo recitare il Pater Noster così come ci è statoinsegnato, in aramaico lingua parlata da Gesù, Signorenostro. Parola sacra, preghiera rivelata, perde fascino cheè legame se tradotta. La traduzione serve a capire, fin dovesi può, il senso e come tale è indispensabile ma monca disuono tono ritmo muta il respiro, il soffio e perde potenza.Ogni lingua contiene una parte del senso profondodell’umanità, dell’esser uomini e donne. Ogni lingua è unorganismo vivente, uno specifico, un modo di comprendereil mondo, rifletterlo, organizzarlo e trasformarlo.Se una lingua si perde, muore, è un tassello vuoto, un buconella melodia della terra.Se non ce ne accorgiamo, non sentiamo mancanza, è perchédifettiamo d’attenzione, comprensione e conoscenza.

molte più cose ben più strabilianti dimorano quaggiù.

Il Santo Sepolcro mi intimorisce, mi inquieta la suagestione. Di mio temo la confusione delle Chiese famose,mi innervosisco sempre. Odio i turisti, telefonini,macchine fotografiche, la sciatteria dei comportamenti e lamancanza di rispetto negli abiti. E mi vergogno di mestesso perché mi pare un atteggiamento altezzoso ma nonriesco a non pensare che ho ragione ed è questione eticaprima che religiosa. Insomma è sempre un casino, nonproprio l’atteggiamento propizio. Ben più grave, i

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Francescani di Terra Santa non mi stanno simpatici. Miperdoni San Francesco, la Chiesa tutta. Nel rapporto congli Ortodossi per la gestione dei luoghi santi non vedocarità amore né intelligenza. Una assoluta mancanza dibellezza. Dall’occupazione della basilica della Natività aBetlemme poi non riesco a contenere un sentimento diastio per il loro atteggiamento verso gli Ebrei, versoIsraele.Non che sia semplice il ruolo di Custodi di Terra Santa mail loro modo di intenderlo mi addolora profondamente.Dhimmi consenzienti più realisti del rais adesso morto, intempi difficili ma repubblicani, non succubi, nonclaudicanti, non balbuzienti.Sono fortunato in questo piccolo viaggio. Nelle minuzie,nelle sorprese, nelle conferme. Da subito. Deve essere lafelicità interiore che traspare e mette di buon umore ogniinterlocutore. Sono cosciente che nella fortuna la soglia diattenzione va alzata perché ciò che attira il bene attizza ilmale, nel caso scivolare via sapendo che l’intelligenza diper sé è sempre insufficiente.A Malpensa il controllo di sicurezza dell’El Al è unagiovane donna. Nel suo inappuntabile distacco le mierisposte le stimolano un sorriso che non traspare.Ripensandola dovrei vergognarmi per la mia dabbenagginema il suo è un controllo serio, ne sono sicuro, non serveintelligenza a superarlo. L’aereo è pieno di famiglie e io

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mi ritrovo in prima classe a brindare con vino rossoisraeliano ottimo.L’essere italiano strappa ovunque, nella Israele laica,calorosa simpatia. Un amore per l’Italia storica, culturale,paesaggistica, umana, che mi fa vergognare se penso allamalevolenza diffusa che in Italia suscita Israele. Nelmondo cattolico e nella sinistra: sia chiaro, a fin di bene,nostro loro di tutti. La destra s’erge a paladina di Israelema è contigenza politica. Deve morire ancora qualchegenerazione perché sia dimenticata nella carne l’infamiadelle leggi razziali.È che gli Ebrei, a maggior ragione gli israeliani, devonoessere vittime ma molto per smuovere sentimenti positiviche durano un istante. Subito dopo e per motivi oppostidevono giustificare a chi di turno non il loro operare ma illoro essere. Alla sinistra di cui sono orfano non so chedire: ascolti chi, c’è per quanto inascoltato, sa del passato,di un ipotetico futuro e di un presente che ci accomuna.Quanto ai cattolici: non è vero che “Loro” erano il popolodi Dio con cui Dio aveva stabilito una alleanza antica eadesso lo siamo noi “Cristiani”. Per le poche cose che somi pare più complessa la situazione. Innanzitutto iCristiani non sono un popolo se non in senso metastorico enoi, Katolikòs, tutti i popoli della terra.La Chiesa, nella sua essenza, è gregge, rete, corpo mistico

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di Cristo sulla Terra. Quanto di più lontano ci sia da unpopolo. Impossibilitata per “credo”, di fatto e di pensiero,ad essere struttura democratica. Costituita da tutti i suoimorti, i suoi santi, i suoi peccatori viventi, i suoi giusti, isuoi non ancora nati nei secoli dei secoli, tutti attendendoil ritorno del Salvatore come Giudice, nella gloria. Lademocrazia degli uomini e dei popoli e la giustizia di Dionon sono paragonabili tantomeno comparabili.Democratico, che come attributo di Dio sarebbe insiemefolle beffa ed insulto, è per l’uomo il miglior orizzonte diconvivenza praticabile per quanto problematico. Ma ilgiudizio di Dio è altra cosa e ognuno nel suo cuore puòpercepirlo. Io ne ho timore, conosco le mie colpe, possosolo sperare nella misericordia, nel Suo amore. So, tral’altro, di troppe colpe nostre verso gli Ebrei prima eIsraele ora. Non vado ad aumentarle.Io difendo il dovere che gli Ebrei hanno sulla terra, per ciòche è in potere all’uomo, di organizzare e difendere unostato in cui tutti gli Ebrei possano aspirare a vivere inpace, per quello che si può. Con confini inviolabili achiunque e Gerusalemme capitale. Nella semplicità ecomplessità, tutte le contraddizioni, le cadute e le alzateche contraddistinguono la vita dei singoli e dellecollettività.Con il loro esercito che è il meglio che c’è, unico baluardoe sempre insufficiente ai pogrom, alle persecuzioni, al

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terrorismo di nuova generazione, totale.Shaid bimbi, donne incinte. Ambulanze e carri funebri.Santificazione, premi in denaro e quel quarto d’ora dicelebrità con annesso videoclip che di questi tempi non sinega a nessuno. Mi auguro che l’esercito di Israelecontinui ad essere, e sempre più, dimesso, schivo,patrimonio silenzioso del cuore, del braccio e della mente.Giovane, senza accademie, senza marzialità chel’efficienza non è mai formale ma di sostanza.Per molti versi molti popoli saranno costretti ad impararedall’esercito di Israele ma sarà sempre tardi.Amo Israele per gli Ebrei Ortodossi, anche quelli che nonlo riconoscono come Stato.Per i Kibbutzim atei e collettivisti, per la loro storia e perla crisi che li attanaglia.Per gli ultimi sopravvissuti alla shoah e i bambini cheriempiono le strade, i parchi, i passeggini. Per i suoifreakkettoni, i suoi omosessuali, i giovinastri che affollanole spiagge e i bar di Tel Aviv che la vita è complessa,contraddittoria e c’è posto per tutti. Amo Israele per gliebrei che non vorrebbero esserlo o se nedimenticherebbero volentieri. L’amo con tenerezzacommossa perché so che comunque qualcuno in modotragico glielo ricorderà spulciando le genealogie neisecoli. Perché il Male esiste sulla terra nella sua essenza e

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se non ha altro da fare, ma anche facendo altro, trovatempo e modo di violentarli, perseguitarli, tentarnel’annientamento.Amo Israele per Ben Gurion, Golda Meyr, Begin, Rabin,Sharon. Per la loro imperfezione, il coraggio, la dedizioneal proprio popolo.Amo Israele minuscolo paese un po’ europeo, un po’mediorientale, molto mediterraneo e nonostante tutto moltodemocratico.Mi sono ritrovato in età adulta per contingenze fortuite, perinteresse, studio, attratto e debitore per quanto altro delmondo ebraico. Ogni giorno più cristiano cattolico, ognigiorno più amico fedele ad Israele. Non un percorso ovvioné lineare, molte cadute, rimarchevoli impennate.Il mio ritorno al Cristianesimo cattolico, così sono nato,sono stato allevato, e il mio avvicinamento ad Israele,vivendo in un mondo filo arabo-palestinese, è statopropiziato molto più dalle malevoli ragioni di chi liavversa che dai buoni proponimenti di chi li sostiene.Chi mi ha cresciuto e fortificato nel mio legame profondocon la Chiesa sono i miscredenti e con Israele è statol’antigiudaismo, l’antisemitismo e l’antisionismo. Almenoall’inizio, prima di poter accedere alla ricchezza disapienza, vero scrigno prezioso e insostituibiledell’umanità tutta. Sto parlando del nucleo fondante il

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Cristianesimo racchiuso nella Chiesa Cattolica e dellastoria ebraica incarnata oggi nello stato di Israele.Ho ben presente in ben diversa taratura le colpe, lemancanze, l’inadeguatezza e peggio so del male chealberga in ogni struttura ma niente intacca né può intaccareil valore fondante della Chiesa, di Israele.Ciò che non cessa di stupirmi, nella variegata propagandaanti ebraico-israeliana, è quell’incantevole propensione adusare ogni mezzo, dal più soave al più sanguinario, e lacapacità di falsificazione che trasforma gli assassini invittime a caccia di giustificazione anche dubbiosa macomprensione assicurata.Ciò che mi incanta nella propaganda anticattolica èl’ossequio pedante untuoso di ciò che è conveniente acontingenza politica, già solo per questo falso. Ciò che minevrotizza è il sovratono isterico per ciò che è consideratoscorretto, ma soprattutto la banalizzazione che usa tanto ilporno quanto il sofisma. E poi sono arrabbiati e spessobrutti, molto raramente troppo belli e affascinanti. Algidi.Maschere di un diesirae umano che è il loro unicoorizzonte.Entro nel Santo Sepolcro.Sono fortunato. Non c’è nessuno. La commozione mitravolge e lo percorro lentamente recitando il Rosario.Scendo, salgo, mi inginocchio, prego.

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Per mia madre, la famiglia, i morti, i non ancora nati, perchi ha bisogno, per il Papa.Prego per pregare.Prego per Israele, i suoi figli e le figlie.Grave lento cammino su ieri e domani cammina davanti ame fiorendo il mio giorno. Oggi.Si racconta che quando fu edificato il secondo Tempio, ilbasamento su cui avrebbe poggiato venne suddiviso edassegnata la costruzione alle diverse categorie socialidella città. Tutti coloro che potevano permetterselousarono delle loro ricchezze commissionando il lavoro.Solo i più poveri tra i poveri che non possedevano nullaimpastarono con le lacrime, il sudore, le benedizioni. Dueangeli colpiti da tanta dedizione chiesero all’Altissimo diporsi ai lati del muro così edificato e proteggerlo neltempo.È il pezzo del muro occidentale che noi vediamo. Un murodi gioia oltre che di pianto.Della Città Santa del Dio d’Israele, di Davide, Salomone,dei Profeti, del Cristo, la Sua famiglia, i Suoi Discepoli,solo quel pezzo di muro resiste. Tutto il resto è macerie.Sempre rasa al suolo e distruzione su distruzionericostruita sempre.Ora edifica Israele, era ora. Se l’è meritato, si èguadagnato in pace e in guerra ciò che è suo. Nessun

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essere timorato di Dio avrà di che rimetterci nel propriorapporto con Lui. Oggi nessuno e niente megliodell’esercito di Israele, dei suoi ragazzi e delle sueragazze, può imporre la pace e garantire, per quel che sipuò, la sicurezza per tutti. Chi ci abita, chi sale inpellegrinaggio, i mercanti, i turisti.Israele è un piccolo paese. Così piccolo che pranzando aGerusalemme mi viene voglia di scendere ad Eliat,l’estremo Sud.«Cosa ci vai a fare?» mi dicono «non ti piacerà. Scheggiadi Los Angeles in faccia ad Aqaba.»«Male che vada mi berrò un aperitivo sul mare al tramontoe poi me ne andrò a cena a Mitzpè Ramon nel mezzo deldeserto del Neghev.»Detto, fatto. La maggior parte dei miei giorni di lavoro, inItalia, ha percorsi ben più lunghi. In Israele lo spaziogeografico è minuscolo ma punteggiato da voragini neltempo in caduta libera. L’eternità sempre dietro l’angolo,in atto.Il mio primo viaggio in Israele è finito. Mi manca il Nord,la Galilea, il lago di Tiberiade, Safed, il Golan. Mi mancatornare e ritornare a Gerusalemme, al mar Morto, aldeserto.Lascio un paio di ciabatte, le braghe corte piene di tasche,due magliette di cotone e una vecchia giacca nera che

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sembra elegante e, da lontano, fa la sua figura. Li lascioper tornare e ritornare. Non è casa mia, posso solo esserericonoscente se mi ospita. Non mi appartiene ma dasempre conosco i suoi nomi. Le acque, le colline, i monti,le località, le città. Conosco molto della sua storia. Ilperegrinare dei Patriarchi, la schiavitù in Egitto e laliberazione, i Giudici, i Re, i Profeti. Le sue donne. Letribolazioni e le vampate di gloria. La sua solitudine tra gliuomini.La storia di Israele da duemila anni interseca la mia. Primal’ha preparata. Ora la interroga, la provoca, la consola.Troppe le colpe cumulate ma il tempo fa il suo tempo e lecose possono cambiare. Le cose cambiano. GiovanniXXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, in unaprogressione indubitabile e autorevole, hanno liberato lastrada. Ci si può mettere in cammino. Ognuno col suopasso. Senza clamore. Come tsabar, soldati di Israele,schivi dimessi silenziosi e di valore. Eroici e normali, lacosa che sempre abbisogna. L’amore per Israele, per lasua storia così intrecciata alla nostra nel bene e nel male,potrebbe far fiorire, di ritorno, un amore consapevole perla nostra.Volo con El Al sul Mediterraneo, su bianche nuvolecompatte nel blu splendente. Scendo a Milano nella nebbiae pioggia. Autobus treno macchina e arrivo a casa,

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distanza che racchiude lo Stato di Israele nella sualunghezza. Quello che per me è un noioso viaggio è perogni israeliano un sogno. La tranquillità di muoversi entroconfini definiti sulla propria terra senza sbarramenti postidi blocco controlli, strade che è meglio non fare e luoghida evitare. Poche speranze e domande che non hannorisposta.Ci sono giorni in realtà e vanno ad aumentare che fannointravedere a sguardo cupo un futuro specularmente simileper l’Europa.In Israele vivono gli ebrei sabra lì nati ed ebrei arrivati datutto il mondo. Molti l’hanno scelto, molti non hannopotuto fare altro, troppi sono stati massacrati in paesi checredevano propri o sulla strada che li avrebbe portativerso una patria che andava conquistata e difesa. Sonopresenti cento lingue ma si parla ebraico, unica linguarinata sulla terra a vita quotidiana, a crescere.Gli Ebrei sono un popolo non identificabile come razza.Sono neri, scuri, bianchi, rosa, diafani. Tutti i trattisomatici. Tutte le tipologie di capelli e tutti i colori degliocchi. È capitato che l’immagine di un giovane ebreotedesco sia stata usata per propagandare la purezzabellezza della razza ariana. È capitato che uno non sapesseo non ricordasse, o non volesse sapere, o avesse decisoche – no! non lo era – ma sempre qualcuno perricordarglielo l’ha ucciso. Perché ebreo.

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Credo che, comprensibile, molti ne abbiano piene le pallee semplicemente aspirino ad essere normali uomini edonne. Mica facile, praticamente impossibile. Ci sarebbeda montarsi la testa se non fosse che è sempre la prima acadere: la testa. Gli ebrei, in Israele, non sono gli uniciabitanti. Israeliani sono i beduini, i drusi. In Israele vivonoebrei religiosi che non riconoscono lo Stato ma accettano,beneficiandone, i suoi sussidi. In Israele vivono arabimussulmani e una minoranza arabo cristiana. Una lezionedi storia e geografia che è doveroso fare. Prendersi iltempo di studiare, approfondire, che ogni semplificazioneè solo funzionale alla demagogia politica, al terrorismo.Israele ha subito ininterrottamente guerre e pressioni daparte di tutti i paesi arabi e, meraviglia, ha vinto.Reagendo ha fortificato ed allargato i propri confini. Alcontrario dei suoi aggressori non ha annientato la presenzaaraba. Nessun ebreo vive oggi nei paesi confinanti. InIsraele, che è uno stato democratico, gli arabi mussulmanidiscendenti dell’ultima conquista della patria ebraica erelativa distruzione sono sì vittime ma della contingenzastorico-geografica, dei regimi arabi, dei propri dirigentipolitico-sociali-religiosi, molto più che di Israele.Quanto alla Palestina, se non esistesse Israele, sarebbespartita tra Egitto, Giordania, Siria. Se ha una possibilitàdi costruirsi come piccolo Stato indipendente lo deve aIsraele perché ne è solo il riflesso.

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Se c’è soluzione, non facile, va ricercata con onestà,rispetto, reciprocità, perché la possibilità di vivere inpace è il bene più grande sulla terra.Io credo che la gran parte di Israele abbia metabolizzato latragicità della vita, la sua vacuità in dolente saggezza e unuso contenuto della forza capace di affrontare ognitempesta. Tutto può succedere, è successo, succederà mala vita sopravvive: generazione su generazione. Per quelche si può è meglio essere preparati al peggio, non perderela speranza, fortificare in ogni senso le famiglie, lecomunità. Prendersi cura dei vecchi, crescere i figli. Nonlasciarsi condurre mai più inconsapevoli e impotenti almacello. Dominus Deus Sabaoth, anche.A casa. Notte serena. Tutti dormono tranquilli. Uno deicani in cortile, sul terrazzino, sembra vigilare. I cavallinell’aia mangiano lentamente e si godono un autunnoancora dolce. Immagine di benessere, pace, squarcio disereno tra disgrazie e tribolazioni che hanno infierito, sullacasa, nelle ultime generazioni. Non tanto un dovuto quantoun quotidianamente ricercato secondo le proprie capacità,le possibilità concrete. Sapendo che niente è assolutotranne Dio e la precarietà è radice di ogni affare umano.L’amore, che fa coraggioso chi ama e forte chi è amato,unica consolazione.Perché allora questo tumulto di pensieri, questo sguardo

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circostanziato e circospetto che non trova sollievo nelmodo in cui il mio mondo guarda ciò che lo circonda e sestesso?Eppure contento. Contento di svegliarmi il mattino e nelbuio della notte addormentarmi stanco. Contento di vivere,dono sorprendente in alto in largo in basso e nel profondo.Torno con la mente al mar Morto.Tra il rosso delle rocce, il turchese dell’acqua, il sale, ilsole, il deserto.

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I pensieri del mar Morto

Le parole parlano come abitudine, a confondere,pronunciandosi.A contrastar col chiacchiericcio il silenzio.Il pensiero si lascia pensare incapace di emergere da unflusso a galla su trasparenza effimera in cui tutto siequivale. Bandito il tragico, bandita meraviglia.Il passato è ridotto ad unica valenza negativa. Il nuovo è ilsolo bene. Più nuovo più bene. La morte è notiziaspettacolare pruriginosa o va evitata. Esiste solo io, oggi,primo e ultimo giorno del mondo e un domani pretesogarantito e definito, copia dell’oggi, migliore.Tutto è giustificabile, giustificato.I carnefici riscuotono interesse e simpatia, le vittimeripugnanza. Il male è sempre nuovo, eccitante. Il benesuperato noioso comunque.Molto moderno e indice di ottimi sentimenti altruistici è ilribaltamento dei ruoli.Il colpevole è vittima. La vittima a ben vedere colpevole.Vacante il senso di responsabilità e riconoscere le propriecolpe, caso mai succeda, serve a fare risaltare quelle ben

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più gravi degli altri. Perso il senso dell’onore.Tutto è dovuto e un desiderio formulato ed espressoequivale ad un diritto.All’idea del nuovo si è intrecciata l’idea di totalità comemoderna categoria dell’umano. L’uomo totale, padroneassoluto di tutto, proteso senza limiti tendeall’onnipotenza. Politica, economia, scienza anche inordine inverso sono le tre idolatrie del moderno. Nonparzialità indispensabili alla convivenza degli uomini.Non tensione ad un equilibrio tra l’irriducibileindividualità e l’altrettanto irriducibile esigenza dellacollettività in cui ogni essere nasce, cresce, vive e muore,che niente è a sé né l’uno né i tanti.L’uomo nella sua dimensione di totalità, sicuro di sé invirtù della tecnica, ha dichiarato guerra all’Infinito,l’Indefinibile e lo combatte.Combatte bene. Attacca da ogni parte e in ogni modo, faleva su tutto e il suo contrario. Alle clamorose ingiustizie,ai torti subiti dai molti, offre superstizione in confezionescientifica. Ci aveva già provato il comunismo con altropathos e carnalità e sol dell’avvenire sullo sfondo.L’esperimento non è stato vano: meglio ungenetista/genista di un cekista, rende di più e sporca meno.La nuova confezione è di mercato, igienica a scadenza,modello rinnovabile con bonus rottamabile, sempiterno. Al

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privilegio vende creme pastiglie lozioni impianti etrapianti, pezzi di ricambio, limature infiltrazioni ma offre,e chi compra paga, bellezza successo in esclusiva,l’autorigenerazione.A tutti spaccia l’incubo in forma di sogno.L’uomo totale trasforma la scienza in superstizione e se nefa sacerdote apprendista stregone.Combatte la Chiesa non per i suoi limiti, i torti, lemancanze e le colpe, ma per la verità che la possiede epercuote e la virtù che le è richiesta.La tensione al divino, la presenza anche nell’abbandono diDio, è l’unico baluardo dell’uomo al potere clericale a cuitutto è dovuto e tutto torna perché si sostituisce a Diotrasformandolo in idolo a propria immagine somiglianza.I clericali d’Occidente sostituiscono all’abito talare ilcamice bianco. La loro scienza è stata fortificataoltremisura dall’esperienza dei totalitarismi del XXsecolo dei cui esperimenti senza limiti ha beneficiato,senza scrupoli, avendo contribuito alla loro sconfittapolitica.Perché il gioco del futuro plausibile è il laboratoriogenetico e non quello energetico?Perché decade la ricerca spaziale? Mancano idee,intelligenza, genialità, difetta l’insegnamento. Scuola èparola incolore insapore inodore, sinonimo d’ogni non

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luogo, parcheggio, ipermercato, transito smistamento coda.Manca la scienza, soffocata da una gran quantità dimalvagia esperienza elaborata nei campi diconcentramento, nei gulag, avendo a disposizione cavieumane in quantità industriale. Ecco il gravoso bagagliodella genetica. Quanto al fin di bene c’è molto da fare,innanzitutto un passo indietro. Non affidare il corpotantomeno l’anima alla scienza medica che deve servire,curare quanto serve e basta. Non è suo compito essermaternale.No! Si fanno partorire le nonne e affanculo le generazioni.Con semplice indolore incisione, giusto trapianto organicoe collegamenti, assistenza psico-scientifica, tempiovviamente ridotti e un bel taglio cesareo delocalizzatoanche un uomo, poverino che carino. Ma meglio, moltomeglio, più salubre e igienico offrire a pagamentomutuabile la vita che si desidera pronta finita.Genetica prenatale e uomo virtuale. A che ora comincia equando deve finire. Lo fanno e da mo’ con le galline e ipolli, le pecore, le mucche, i cavalli. Chi ci crediamod’essere?Non è evidente e chiaro? Sei reazionario e oscuro! È per ilbenessere e miglior apparire la geniale manipolazione.Scartando ciò che c’è da scartare e potenziando quello cheè da salvare, io lo so e tu lo sai, se lo vorrai, sarai Dio.

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Clonabile in eterno come t’ho fatto io. A somiglianza discienziato esperto di glamour e comunicazione: unVeronesi qualsiasi tanto per fare un nome intercambiabilecon qualche altro milione. A immagine di belle fighemaschi e femmine, bei culi e cazzoni che debordano dallecopertine dei magazine e dalle televisioni.Giocattolo invidiabile, invidiato, emulato fino allariduzione drastica dell’infinibile molteplice umano ad uno.Il più bello, il più giovane, il più sano, il piùquozientemente intelligente. Mister Miss Mondo,ermafrodito. Uno bisex che non si senta solo.

tra frammenti di tecniche sotto prodigi incertiun affanno continuo, radio accesemutazioni possibili, progenitori falsiun nodo nella gola e schermi accesicome puttana fragile in cerca di occasioniso dove sta il delirio e trema il cuoretrema per un non so che si trova a volte a caso.Ti guardo e non ti vedo, ti ascolto e non ti sentonon chiedermi di crederti non lo farò.Tremo per un non so. Tremo per un non soche ci trova a volte a caso.

Il partigiano dell’Infinito, l’Altro che abita l’esistenza, nonpuò che opporsi all’uomo totale, negazione della realtà.

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L’esistenza è anche disperazione e squarci di gioiaindicibile. È quotidiana, giorni su giorni e notti, sempre arischio, sorprendente, eterna.Irriducibile a scienza che brancolando acchiappa qua e làframmenti di verità, se ne fa totalità, è tragicamente comicaignorante.Irriducibile ad economia che non assicura niente essendola sicurezza il suo presupposto.Irriducibile a politica, inscindibilmente soluzione di ogniproblema e germinazione di tutte le possibilità dellostesso.La scienza, l’economia, la politica servono, oh! seservono.Serve, al servizio, servire l’uomo.L’esistenza è irriducibile all’idea di diritto che non esistedi per sé.Se il valore intrinseco di un diritto dipende dallabenevolenza di altri che possono riconoscerlo o negarlo èun valore ben misero.Ogni essere umano di per sé ha solo doveri.Se fosse solo sulla terra avrebbe comunque doveri rispettoa sé, alla terra.Se fossero in due avrebbero doveri rispetto a sé, alla terra,ognuno all’altro.Il dovere esplicato nei confronti dell’altro è il diritto

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dell’altro.Pensare che ad un diritto corrisponda un dovere è unasciocchezza.Pensare che i diritti esistano di per sé è demagogia. Ilconcetto di dovere e il concetto di diritto appartengono adordini diversi. Il diritto è subordinato al dovere esistendosolo come conseguenza dell’esplicazione dello stesso.Ben triste il tempo che identifica il piacere del vivere, lasua meraviglia, nella fuga da ogni dovere e se quel tempoè anche sciocco glorificherà il diritto.Ben triste il tempo che riduce la vita a colpa, espiazione,eterno lutto.Più facile vivere tra gli sciocchi che tra i fustigatori. Èche, a ben vedere, sono gli sciocchi che preparano iltempo dei fustigatori e i fustigatori allevano gli sciocchi.I doveri fondamentali dell’uomo stanno scolpiti sulletavole della Legge mosaica. Stanno nel cuore di ogniessere umano. Un problema con cui gli esseri umanidevono confrontarsi comunque e ovunque. Non è maifacile. Non albergano nell’uomo solo buoni sentimenti, c’èaltro e fa paura il guardarlo. Il sottile ed insidioso piaceredella vita umana è qui: la capacità di discernimento, illibero arbitrio.L’amore verso il Creatore, la creazione, le creature,sarebbe la soluzione.

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Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a tesarebbe la soluzione. Sempre a portata di mano, sempreirraggiungibile, perché altri stimoli muovono la nostramano.È più facile pensare sia un problema politico economicoscientifico. Autoassolversi e pontificare sulle colpe deglialtri, le inadeguatezze sociali che pure esistono edesisteranno sempre sulla terra.Non c’è soluzione alcuna nelle strutture, anzi più sipensano risolutrici, totali, più ingabbiano comprimonoalienano l’umanità. È necessario accettare la propriacomplessità, le proprie colpe, la propria contraddizionevivente. Amare la propria storia e farsene carico. Èpossibile rifiutarla, passare ad altro, ma il rifiuto deveessere tale, non salvaguardia di previlegi, non ulteriorerivendicazione capace di cavillare all’infinito sullapropria storia, certamente colpevole, combinata ad unaaccettazione supina e disarmante di altri e altrui orrori.L’idea di totalità ci sta ammazzando. La pretesa di totalitàè sempre arrogante che, sulla terra, si esplicano soloparzialità e in una gerarchia costruita sulla tradizione, sulgiudizio, sulla geografia e sulla storia: c’è il meglio, c’è ilpeggio.È meglio ciò che tende ad armonizzare le esigenze delsingolo e quelle della collettività. È peggio ciò che

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idolatra uno dei due.È meglio l’individualità della collettività quale nucleofondante la società. Non fosse altro che il singolo puòessere amorevole e compassionevole dove la collettivitànon può che essere burocratico normativa. È meglio lafamiglia del singolo perché nessuno è a sé e semprequalcuno lo ha preceduto e qualcuno lo seguirà.Generazioni su generazioni, questo siamo.L’essere nella sua pretesa assoluta, totale, è insignificantee insieme coacervo di ogni orrore, speculare allacollettività nella sua pretesa assoluta, totale. Ed esistonosempre e comunque i morti, i non ancora nati, non c’èsperanza alcuna per chi li ha dimenticati.È l’Infinito, l’Indefinibile, che ci salva. Ci obbliga adinterrogarci su vanità, arroganza, potenza e prepotenza.Misericordia, compassione, carità, amore. Cos’è la verità?È l’Infinito, l’Indefinibile e il rapporto che noi instauriamocon Lui a permetterci la meraviglia, la commozione dellabellezza, l’altro da noi esseri finiti.È la tensione ad aprire nel proprio quotidiano squarcitraverso cui un po’ di Infinito possa trapelare fino a noi arendere la vita degna di ogni benedizione.Dono infinibile che nessuno riuscirà mai a finire maognuno può vanificare per proprio libero arbitrio.Alla totalità stanno le Cerimonie, esibizione di qualsiasi

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tipo e forma di umana potenza. Dalla parata militare allospettacolo di beneficenza.L’apparenza fa la potenza verificabile nella quantità dipresenze.All’Infinito sta la Liturgia come livello di benedizionemassimo.Benedetto, benedicimi, Ti benedico. Dire bene, pensarebene, fare bene.È la bellezza della parola, del gesto, delle forme, nellapura essenza che è il contrario dell’abbellimento persovrapposizione a qualificarla. Rifugge la potenza e laricchezza, è gratuita e sembra inutile. Solo la bellezza chelascia senza forza alcuna contiene, di per sé, il timore, ilrapimento, l’estasi. L’annullamento del finito e definibile.L’immagine venerabile della Madre col Bambino è tra leinfinite bellezze la più potente. Così le parole che laraccontano:

Ave Maria, gratia plena, Dominus tecumBenedicta Tu in mulieribus et Benedictus fructusventris Tui Jesus

solo dopo i trenta avvenne che, non contento di me, tornai acasa

poi nel tempo, rendendo grazie a Dio, sereno, in pace nellamia famiglia e con la storia, salii pellegrino aGerusalemme per imparare da Israele.

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Lì dove tutto è cominciato. Lì dove tocca tornare.Generazione su generazione.Nei secoli dei secoli. Amen.

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appurato che ciò che mi serve non lo sipuò comprarenemmeno perorare troppo a lungo checi si incantacome la puntina sull’LP vinile rossoche più non possoripete ad libitum di serenase e valium

campo su un crinale invecchio al ventoe neve nel suo tempo come tranquillante

per quello che è stato sono nominatoper quello che è avvenne che non

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contento di metornai a casae dietro l’angolo vortici, in verticalevoragini

come camminare a Trieste quandos’alza la borae tutto ciò che si muove geme

geme e s’intonalo spazio s’agita m’inquieta m’accora

i miei passi sul passato ciò che era ciòche è stato

l’incedere su ieri con tutti i suoipensieriil futuro è sicuro un poco postumo unpoco prematuro.

Di luce e d’ombra di pioggia e ventovaglio i miei giorni e alle vampe lirendo.

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Il tempo del ritorno

Tornato a casa venti anni fa per un po’ ho continuato avivere come se abitassi una ipotetica città che inglobavaFirenze Bologna Berlino e Amsterdam.Cercavo una comunanza ideale sociale, ma tra ciò cheimmaginavo e la realtà lo scarto era impraticabile. Hocominciato a guardare la realtà tutta per quello che è esono stato travolto dal cielo, dalla terra, dall’umanità edintorni.È la mancanza d’attenzione, nella vita, l’origine di ognidisgrazia.Da bambino volevo essere come mio padre, mio nonno,mio bisnonno, i miei zii, tutti quei Giovanni e Francescoripetuti ad ogni generazione magari con un altro nomevicino per distinguerli. Volevo essere non da meno diquelli che prima di me avevano abitato la mia casa, lafamiglia. Avevano vissuto allevando bestiame in questospazio, su questa terra, sotto questo cielo. Capaci disopravvivere quando va bene, facile, quando va male piùdifficile ma uguale. Capaci di intravedere nuovi spazi, difrequentarli. Ben disposti da sempre ad una transumanza

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annuale, capaci di mettersi in viaggio volentieri e diperdersi, capaci di tornare di buona voglia. Volevopiacere alle donne di famiglia, belle, di grande dignità, dipotenza, in grado di reggere la vita comunque, capaci disdegno e d’amore e amate e rispettate. D’animo nobile,accettate le lacrime mai esibite. Tradizione per gente dimontagna, gente che fa buio avanti sera, gente da basto, dabastone, da galera, plasmata con fatica, nella civiltàeuropea, dal cristianesimo. Non la croce che per i poveri èla vita ed è scandalo solo per i potenti e i sapienti, ladolcezza e la speranza della Madre col bambino invece,dentro le case e sulle aie, ai crocicchi, al limitare di campie boschi. Poi le cose succedono perché devono succedere,c’è un grosso sforzo per seguirle semmai. Costretto adabbandonare la montagna come il novanta percento deimontanari ho avuto accesso al mondo moderno: boomeconomico lo hanno chiamato.Dato il luogo e il tempo sono stato un giovane estremistasciocco stupido e di buon cuore. Non mi rinnego né miconsolo, per quello che oggi sono non posso che accettarequello che sono stato. Infinitesimale irripetibileindividualità, incrocio significante di altri tempi in questospazio essenziale solo un valore aggiunto.Ho tracciato un percorso di memoria e studio, istinto. Èquello che raccontano le pietre dei borghi e delle

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mulattiere, gli alberi nei boschi. Lo gorgoglia l’acqua tral’autunno e il disgelo, lo sussurra il vento, l’amplifical’orrido degli Schiocchi all’imbrunire e lo conferma lanebbia che cresce dalla valle del Secchia.La Storia ricomincia ogni giorno e continua affondando inun tempo, avanti e indietro, che nessuno possiede e ognivincitore momentaneo riscrive a proprio tornaconto. Adipanarla per ciò che serve a vivere la propria esistenza èla verità del cuore, necessità biologica psico-fisica. Laverità, se non praticata, risulta faticosa, insopportabile,tanto nel subirla che nell’esercitarla. Ha effetti dirompentie quasi mai rispetta l’opinione corretta corrente ma se c’èun problema la soluzione non può farne a meno.Il cuore, luogo di ogni forma d’amore, è connaturato allaforza, simbolo di potenza e per questo in un tempo magico-rituale veniva mangiato per far proprio il valore dellapreda.Il cuore è ora un organo muscolo in disuso, rifugiopiagnucoloso d’ogni pochezza, di codardia, necessitàtattica d’ogni inganno.L’azione del cuore è il pulsare, l’azione della verità è losplendere/illuminare.È ciò che cerco.Sul potere della parola non spendo parole. “e Dio disse:‘Luce’. La luce fu.”

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Miliardi di parole per raccontare poi l’ombra.L’unico nemico che possiede la parola è l’abusarne,l’eccesso che la vanifica. Nessuna censura ha mai distruttouna parola, ne ha reso pericoloso l’uso aumentandone ilfascino, l’ha fatta forte. Necessaria e doverosa, dolorosase è il caso, gioiosa e impertinente se se lo può permettere.È la parola che rende necessario e prezioso il silenzio. Laparola si nutre di studio contemplazione ascolto e deveessere coraggiosa, pregna.L’essere perbenisti ammazza la necessità di essere perbene. Il giorno che Zavattini disse: «cazzo» alla radio, tuttigli animali e le anime d’Italia sorrisero in cuor loro.L’aveva detto, meraviglia del suono, già l’immagine cheevoca è confusa. Ognuno sa cosa è e per ognuno è diverso.Se due lo pensano uguale si stanno fregando. Possonoincolpare la società, la Chiesa, chi vogliono e tutti hannole loro colpe, se li consola, ma sono cazzi loro perrimanere in tema.In un decennio è diventato un intercalare senza potenza esenza senso. Chissà cosa vuole dire ora. Anche questo è ilpotere della parola.

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Aprire gli occhi alla bellezza

In alto il cielo.Quando la luna piena scavalca il monte il paesaggio ha unvolto nuovo, illuminato d’antico.Quando la luna si fa nera la profondità dell’universo sisvela.In basso sulla terra succedono colorando il mondo lestagioni.Dal timido verdeggiare lungo i torrenti e il punteggiare deifiori dove si ritrae la neve allo sbocciare rigoglioso delmaggio. Dal verde coprente dell’estate all’esplosione deigialli rossi e amaranto in autunno.Tutte le gradazioni del grigio dall’azzurrino al plumbeo, iruggine, i viola stemperati nei bianchi della stagione delfreddo.

terre battute dai venti infoiati dai montisereno incanto spendente di sole, di biancodense sfumate nuvole di piombo, grigioverde d’intenso blucolpo d’occhio rotondomemorie d’altri passi che io calpesto

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su stanchezze di secoli in alterna cadenzagioia che riannoda e dolore che inchioda

pietre di strade e vie di sasso, pietre di case e muri a

[secco

a vista pungente spaesamento muto e sordofrantuma la cornice, fomenta e instilla il falso.È un vizio senza senso il superfluoè un vizio senza senso la noia, sui monti.

Ho preso a svalicare di frequente. Prima m’affacciavo dalcrinale a rimirar le Apuane, le terre lunigiane e garfagnine,mi concedevo all’uso la Pieve di San Paolo in preghiera ea Fivizzano il giro delle mura, l’aperitivo o il caffè sullapiazza medicea. Ora abbandono la statale per stradeprovinciali e comunali, traverso tre paesi, sfioro treborghi, arrivo dopo una curva di colpo contro le mura eposteggio.Carrara, sogno materico in arenaria e marmo.Scendo canticchiando per Grazzano, traverso la Carriona eil Carrione e s’apre piazza Alberica bianca e nera austerain secentesca maniera. Salgo via Ghibellina e sono infaccia al Duomo, di sbieco, in diagonale in uno slargo chedir piazza affatica. Entro dalla porta di San Giovanni e laChiesa m’accoglie e mi consola, a colpo d’occhio,

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l’anima.Le Cassanelle gotiche, il sarcofago di San Ceccardovescovo di Luni, Santo a furor di popolo e Patrono.Matilde incoronata da Gregorio VII Papa.Il crocefisso della Divina Provvidenza sospeso nelpresbiterio.Bella per sedimentazione nel tempo, gli stili, le usanze eferma giusto prima della decadenza gonfia di stucchivolute prospettive iperboliche mirabolanti, primapaganeggiante poi, col moderno, sciatta e insulsa.Bella che si è permessa di smontare sei altari e ornamentivari per ritornare a sé, pensiero originario, presenza deldivino e dell’uomo benedicente a rendere onore gloria,esserne parte.Il duomo di Carrara, S. Andrea protócletos in liturgiabizantina costruito nel corso di tre secoli dal mille, èperfetto. Romanico-gotico in marmo apuano a blocchi.Intorno la Carrara che amo, da Grazzano e Caffaggio allaporta del Bozzo e fuori in via Vezzala fino alla Cappella.Dall’Accademia al Teatro degli Animosi, sia lode almerito per la scelta del nome che fa pari con gli Impavidia Sarzana.Da questo quadrilatero non esco, già mi spiace scendere aPiazza Farini per il “cavallino” a cui non posso nonrendere omaggio.

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Nella Valle del Magra sotto Bagnone è Filetto, piccologioiello urbano fortificato bizantino del VI e VII secolo sullimes difensivo contro i Longobardi. Tramandagenerazione dopo generazione a chi sa, vuole sapere, dellapotenza imperiale della seconda Roma, l’OrientaleBisanzio. Sta lì a farsi ammirare passo dopo passo.Raccontare, ne ha cose da dire in bene e in male.Le pievi romaniche sono la mia idea di Chiesa, pura,austera. Cassa armonica in mattone o pietra, perfetta per ilculto e la preghiera, l’ascolto, l’abbandono interiore, lacomunità orante, l’accoglienza del corpo e il librarsidell’anima allo Spirito. La gioia.Il gotico contiene già un eccesso, ma di sostanza, capacitàmanuale e intellettuale, ricerca. È il destino dell’uomo e ilgotico è ancora vera gloria. Mi fermo lì, solo eccezionipoi dovute al genio fulminante, Michelangelo sicuro poisempre meno. Un divario crescente tra il rendere culto aDio e il proprio orgoglio, la vana gloria, il sovraccarico,l’orpello che schiaccia e scoraggia. Ai tempi nostri ildegrado, la sciatteria tra sala conferenze e palestra quasisia andata persa l’idea stessa di sacro, delle sue forme eornamenti vivificanti, capaci di parlare né enfatici nébalbuzienti.Purezza, austerità, bellezza di parola, nel gesto, nellaforma. Nella forza.

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Tutta la mia piccola patria è fiorita a suo tempo di pieviromaniche e alcune sono intatte. La più bella è la pievematildica di Toano troppo lontana da casa e normalmentechiusa. La più vicina è pieve San Paolo ricostruita dopo ilterremoto del 1920. Sebbene l’occhio percepisca ilmoderno, la dolcezza delle proporzioni, l’omogeneità deiblocchi di calcare bianco e arenaria, la gentilezza dellepoche costruzioni che l’incorniciano ne conservano unasacralità antica, potente e sopravvissuta.Il pavimento in cotto fa da contrappunto caldo alla freddaprecisione dei muri ricostruiti.Gli arredi poveri eleganti d’ottima qualità artigiana localein altri tempi. Banchi inginocchiatoi panche confessionaliin legno massiccio. Colonne e capitelli, acquasantiera efonte battesimale in arenaria.L’altare alla Madonna di gusto familiare si è arricchito, dapoco, impoverendo il tutto ma vaglielo a dire a chi l’havoluto e ne è inorgoglito, di un portacandele elettricolucido, cromature d’ottone e il filo della corrente passasotto il tappeto alzandolo un poco. Un’intrusione che solotempi scadenti possono non pensare se non blasfema certosconveniente. Il vecchio candeliere è rimasto spostato inavanti e lo rallegro contento e alle fiammelle sorride laMadonna, s’acquietano le fiere bestie dei capitelli. La lucetremolante scalda dove le lampadine immobili crescono ilgelo esterno e interno.

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La statua di San Rocco col cane, in legno dipinto, è prontaper essere portata in processione a salvaguardia dallapestilenza. Pestilenza del corpo che piaga la carnemarcendola. L’anima malata anche putrescente non puzza esi spaccia in forma seducente. Se ne propaga il contagiorivendicando il successo.Nella antica pieve San Rocco, retroguardia, veglia ancoravenerata nel limes dell’oblio. Devozione umile per chidell’umiltà fa via di salvezza.Nella città moderna, Reggio, un San Rocco ligneocinquecentesco deteriorato dall’incuria vegliavadimenticato su un parcheggio del centro, scheggia secolaredi sacro nel quotidiano contemporaneo. Grazie allamaestria di Claudia e Roberta, restauratrici, è tornatomolto bello alla vista, restituito alla città con cerimoniaadesso fa la statua nel museo. Un po’ idolo e un po’ operad’arte. Povero San Rocco nel tempo delle pestilenzedell’anima.Viaggio in questo inverno in cui tutto torna la mia piccolapatria.Le Alpi dell’Appennino e delle Apuane ricoperte di neve,nelle bufere e nelle giornate di sole. I piccoli borghispopolati e facili da censire osservando i camini, di diecispenti va bene se ne è acceso uno.Stagione solitaria, propizia all’avvicinamento lento, al

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riannodare saperi e conoscenze. Scoperte. Il nitoredell’inverno rende leggibili, come mappe, le valli. In bellaevidenza le antiche mulattiere, i sentieri, i confini chedelimitano prati e pascoli.La trama frazionale dei castagneti e dei boschi primadell’abbandono all’incolto. Tutti i dirupi, gli avvallamenti,i torrenti e le macerie nascosti nella bella stagione dallamassa verdeggiante delle fronde.La vita si concentra e addensa in basso, nei piani, sullecoste, in città per gravità sempre più invasiva e pesante.Aumenta a dismisura la leggerezza, per contraccolpo, inalto.

d’oro, giada, bordeaux si tinge il mondobagliori d’amaranto viola la finesegue lo sguardo il montare della sera dal fondo

[delle vallioscura, arresa al buio, la terra penetra il cielo.

Mentre il sole che cala ha già oscurato il fondo delle valliopache per l’inquinamento si può percepire quanto velocee profondo, nel tempo di una generazione, è stato il mutaredel paesaggio nel mondo.Paesaggio non è un dato materiale. Non si può acquistare,né cedere, né tassare.È determinato dalla collettività che lo abitatrasformandolo ma è un patrimonio inalienabile

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dell’essere umano nella sua squisita individualità.È connaturato alla percezione soggettiva, non esiste sel’occhio non lo scruta ma si struttura in processo mentale ediventa realtà fiduciaria. È un’immagine che si fa se si sa,si vede se si vuole vedere. Ispira poesia e se ne nutre.Muta il paesaggio continuamente. Nel volgere dellestagioni o in poche ore.Nel susseguirsi delle civiltà, degli stili di vita, dal fiorireall’abbandono, muta perché lo abita l’uomo.Nel paese delle 100 capitali e piccole patrie conseguentiio bramo il residuale, ciò che permane. Mi tenta e miritenta la bellezza della creazione, la complessità dellosguardo, l’essere a lato per necessità, scelta, per eco disaggezza crollata la speranza dell’avanti tutta e tutti adestra e manca.E in questo osservo con interesse ciò che muta e se neavverte prima necessità e poi urgenza. Non posso essereaffranto, schiacciato dal peso della Storia che m’affrancaper le molteplici possibilità d’intenderla, e geografiainscindibile m’esalta.M’inchino solo a Dio, alla vita sempre definibile maidefinita. A nient’altro.Sono figlio di un mondo irrimediabilmente vinto che fecedell’allevare pascolando la forma quotidiana del suovivere.

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Il transumante è stato l’ultimo nomade d’Occidente. Unnomade a rilento nello scomodo improduttivo del mondosedentario. Figlio d’un compromesso epocale in cui era ilperdente.Il chiodo è ai sedentari, dove lo pianti resta inchiodato,ultima minimale derivazione edile.Il nodo si snoda riannoda all’occorrenza, dice l’arrivo delnomade, ne certifica partenza.Nodo e chiodo dell’uomo è la poesia. Poesia è subire laforza dell’essere combattendo.È un’arma la parola, un’arma il tono, il ritmo. Forma esostanza preziosa.Deve essere forte anche quando leggera quando si fasinuosa.Un rapimento, un’estasi che brucia e fa silenzio intorno.Far fiorire il deserto, fuori, dove acqua evapora.Farlo fiorire dentro dove l’eccesso satura.Non tanto liberare fantasia quanto lo sforzo di penetrarerealtà, rivelandola, è poesia.Tra l’immaginario e il reale c’è il senso del limite, lafinitezza d’esser uomini e donne.L’immaginario comporta espansione illusoria, unappiattimento sulla dimensione orizzontale, ben piùaffascinante il reale si svela se s’accetta il limite.Tensione tra stato di necessità e trascendenza.

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Qui ora s’adora l’apparenza cosmetica idea di bellezza,ma la bellezza è luce brilla di verità e nutre l’ombra.Qui ora l’eccesso satura i sensi, vista, udito, olfatto, gusto,tatto e li esaurisce.Noi siamo saturi quasi esauriti.Spariscono i pascoli valorizzati a parco turisti.Gli allevamenti sono industrie che massimalizzanoprototipi animaloidi brevettati e a scadenza. I contadinicontoterzisti delle multinazionali producono paravegetali esimilcarne. Gli artigiani sono artisti.I pellegrini vanno veloci, non c’è tempo. Il viaggio è atermine, di colpo alla meta, un desiderio pagato eusufruito. Consumatori siamo.Tutti attendendo con ansia il teletrasporto.Di chi gli amici son pochi quegli è viandante quando sulmonte vi è il fuoco quella è sua immagine.Possano i viandanti trovare serenità ovunque e realizzare iloro scopie arrivati sani e salvi alla meta ricongiungersi con gioia ailoro familiariperché sta scritto:

onora il padre e la madreaffinché si prolunghino i tuoi giorninel paese che ti dà il Signore Tuo Dio.

generazione su generazione.

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A me m’ha rovinato il ’68!

avevo 15 anni, convalescenteterapia intensiva ed erezioniscomode d’adolescente

make love not warParis, le maice n’est qu’un deboutviva rivoluzione

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veemenza tra mancina e mancapestilenza self made man single20 anni d’escrescenza, stordimento

a me m’ha rovinato il ’68?m’ha disarticolato, messo in serbomeglio si poteva peggio certo:largo di spalle inalberare meriticurvo strascicare tronfi crediticecati gli occhi sbattere la testain reverenza stolta ad idolainfanzia, incolta seminacontinuò il suo combatgerminandomi

infanzia, colta seminagermoglia disvelandosi.

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Le immagini, pur se poche e volutamente povere, sononecessarie.Sono esplicazione e motivo di riflessione, familiari e benauguranti.Il disegno con i cavalli e la spiga è di Francesca RomanaStabile, amica carissima, in Roma mia colta guida dicamminate, basiliche, vinerie.Il disegno con i graffiti di guerrieri l’ho avuto da ungiovane mongolo allievo all’Accademia di Belle Arti inUlaan Baatar.La Mongolia è, tra l’altro, paese di musicisti e pittori.Le fotografie delle “maestà” che accudisco e venerosono state scattate da James Bragazzi, fotografo inVerrano e Casina (RE). Camminatore solitario nella lucedel mattino.

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