le formiche di piombo

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Enzo D'Andrea, mainstream, anni di piombo

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ENZO D’ANDREA

LE FORMICHE DI PIOMBO

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LE FORMICHE DI PIOMBO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-532-8 Copertina: “Le formiche di piombo” di Enzo D’Andrea (2012)

Prima edizione Maggio 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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Alle tre senza le quali non potrei credere nella vita.

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“Nel cielo di latte e cenere salivano i morsi ferrosi dei tram lungo i viali. Se quel cielo non avesse ricordato una sterminata padella capo-volta, forse sarebbero apparsi, a occidente, i nasi sottili e tormentati delle Alpi, e ad oriente il profilo morbido della collina d'Oltrepo. Ma solo i grandi venti di marzo riuscivano a nettare gli orizzonti, quei venti così bizzarri e vorticosi che spazzavano la città di Torino con turbinii di foglie, di chiome, di sottane, limando abbaini e spigoli di palazzi, trasformando le nubi in bandiere, facendo rilucere le vene dei portici e gli occhi femminili, improvvisamente stretti e taglienti e accesi dalla febbre.”

Giovanni Arpino, Il fratello italiano, 1980

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CAPITOLO I ‹‹Prego signora, dopo di lei!›› dissi all’anziana donna che precedevo al momento di scendere dal tram. Era la mia fermata: corso Re Umberto, all’altezza di Piazza Solferino. Erano quasi le otto, quel mattino. Attesi pazientemente che la donna mi passasse accanto. Doveva avere più di settant’anni, capelli grigi cotonati, cappotto dello stesso colore un po’ spelacchiato con collo di pelliccia scura di un animale morto chissà quanti secoli prima, al collo un ornamento di pacchiana bigiotteria, che faceva mostra di sé insieme a vistosi orecchini. Completava l’insipido ensemble una borsa sdrucita dal troppo uso, al braccio sinistro. La signora mi guardò con uno sguardo che pareva voler dire ‹‹Bravo, ogni tanto si trova qualcuno con un po’ di buona educazione, porco ca-ne!››, ma non aprì bocca, fece solo una smorfia di sufficienza e, soste-nendosi con la mano destra alla sbarra di sostegno, scese lentamente i gradini. Sospirai, nel frattempo, soddisfatto del mio bel gesto da bravo ragazzo, e memore di assurdi e iperbolici cazziatoni ricevuti in passato da gente di una certa età. La porta a soffietto del tram si richiuse precisamente nel momento in cui poggiavo il mio piede per terra. Che tempismo! Roba che, se avessi ritardato un secondo, sarei rimasto incastrato nella porta, avrei dovuto discutere con il conducente del mezzo (che manco a farlo apposta non appariva una persona tanto tollerante) e chissà quante altre perdite di tempo e un sicuro occhio nero. Eh no, proprio quel giorno non volevo altre grane. Era sufficiente non aver quasi chiuso occhio durante la notte, e non sapevo cosa mi aspet-tasse. O meglio, sapevo di essere atteso per un appuntamento. Ma di cosa si trattasse, buio assoluto. Per questo avevo fretta di saperne di più. Mi sentivo più curioso di una scimmia curiosa. Qualche fiocco di neve cominciava a cadere, volteggiando nel vento freddo che soffiava su Torino già da qualche giorno. Quel vento aveva

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spazzato via molta della nebbia che da metà novembre gravava rego-larmente sulla città. Erano le prime serie avvisaglie dell’inverno, che spesso si presentava molto rigido. C’erano già state alcune spolverate di nevischio, nei gior-ni precedenti, ma nulla di preoccupante. Almeno per me, che ero di ori-gine montanara, pochi millimetri di neve raccolti non erano una novità e nemmeno un grande disagio. Provenivo da Mussolano, un piccolissi-mo paese delle Basse Langhe a quasi mille metri di quota, in provincia di Asti. Mille anime in tutto, tra cui quei fieri contadini dei miei genitori, e un fratello che non aveva ancora deciso se tentare la sua strada fuori dal paese o restare lì a tramandare le tradizioni di famiglia. A volte, nelle fredde serate d’inverno, in quel piccolo borgo, veniva da chiedersi veramente se si era nati al momento giusto, se qualcuno si era reso conto che ci si trovava nel nuovo secolo, e non bastava guardare la televisione, fumare sigarette o leggere di tanto in tanto un giornale per sentirsi uomini moderni. Occorreva viverla davvero quella nuova av-ventura, scegliere se lasciare la rassicurante monotonia della propria ca-sa per buttarsi anima e corpo nella nuova vita in città oppure restare con i piedi piantati per terra, in attesa che i giorni, i mesi e gli anni passasse-ro senza sussulti importanti, perdendo significato, sazi solo del proprio dovere e dei propri orizzonti limitati, tra un buon bicchiere di vino e un piatto caldo. Nella casa dove ero nato si assaporava una quiete familiare fatta di cenni e silenzi, come se il parlare fosse un vero e proprio spreco d’iniziativa, e tutto quello che c’era da dire era già stato detto. Le cose importanti non erano quelle già fatte, tantomeno quelle già dette, ma quelle da dire e da fare. Senza il continuo lavoro di ognuno non si sa-rebbe mosso nulla in quel piccolo mondo contadino. Purtroppo io non mi sentivo un contadino, per cui scelsi di lasciare quella realtà. Troppo grande era il mio desiderio di conoscenza, di a-prirmi al nuovo mondo, alla grande città. E fu per questo che mi piac-que l’idea di lasciare il paese per andare a vivere a Torino. E se si debba parlare di pentimento alcuno, vi assicuro che mai, neppu-re dopo i tanti disagi patiti, ebbi un cedimento in quel senso. Mai ho rimpianto di aver messo piede in quella città. Fu così che mi entrò nelle vene il senso di appartenenza a una nuova e più grande realtà, quel desiderio di scoperta e riscoperta di ogni angolo

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della città, come se per ogni mattone e per ogni pietra valesse davvero la pena di osservare, vivere, amare. Di me era difficile capire che ero un “campagnolo” trapiantato in città. Vestivo come molti giovani della mia generazione: maglione dolcevita, spesso con colori improponibili al giorno d’oggi, pantaloni a zampa di elefante così comuni all’epoca. Inoltre, avevo un atteggiamento distac-cato e sicuro, come fossi sempre vissuto in una grande città. Notavo, al contrario, quanto fossero impacciati altri giovani che venivano, come me, dalla provincia. La circolazione, nei punti dove si formava un po’ di ghiaccio, in genere andava in tilt, soprattutto nelle ore di punta. Quel giorno, però, sembra-va essere tutto normale. Mi alzai il bavero del cappotto e, nel farlo, maledissi la fretta perché non mi ero portato appresso la sciarpa di lana. E dire che ne avevo in casa un’intera collezione. Mia madre me ne regalava una ogni anno: puntualmente, il giorno di Natale. Mancava ancora una ventina giorni al Natale. Era il 4 dicembre del 1975. Tutto intirizzito dal freddo, presi a muovermi lungo il marciapiede. Do-vevo raggiungere Via Alfieri. La sera prima la voce del prof. Sibarozzi, ordinario di Scienza delle Co-struzioni presso il Politecnico di Torino, dove ero da poco tempo ricer-catore a contratto, era stata lapidaria. Mi aveva detto, senza esitazioni: «Ho bisogno di parlarle urgentemente, Gulli, per una questione molto importante, per me e per lei. Mi raggiunga domani mattina, alle otto in punto, nello stabile di via Vittorio Alfieri al numero 7, terzo piano, in-terno 2. Cerchi di Berardizzi. E’ fondamentale. Non faccia domande adesso, per cortesia, domani saprà». Tu… Tu… Tu… Tu… ripeteva monotono il ricevitore al mio orecchio. Non riuscii a dirgli altro se non «Va bene, professore, sarò puntuale» visto che, appena ebbi pronunciato queste parole, lui aveva interrotto la comunicazione. Rimasi qualche secondo con la cornetta in mano, perplesso. Erano or-mai cinque anni che conoscevo il prof. Attilio Sibarozzi, insigne rap-presentante dell’ambiente universitario torinese e nazionale. Avevo ot-tenuto grazie a lui una borsa di studio per una ricerca brillantemente portata a conclusione, dopo la quale ero riuscito a superare un concorso per un posto da ricercatore (diciamola tutta, lui aveva mosso un bel po’

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di pedine, ma era così che funzionava quell’ambiente, prendere o la-sciare!), ed era poco più di un anno che lavoravo presso il Politecnico di Torino, nella sede di corso Duca degli Abruzzi. Il nostro rapporto era sempre stato quello “barone-sottoposto”, per cui gli davo sempre del lei. E lui ricambiava. Il mio lei era una forma di ti-more reverenziale misto a quell’ammirazione che si può nutrire nei confronti del maestro. Il suo lei era invece un appellativo di sufficienza, visto che aveva altri “validi” ricercatori al suo servizio, e non mi aveva mai concesso qualche parvenza di predilezione particolare. Ero, per far-la breve, solo uno dei suoi tanti schiavetti. Il concetto di validità nel mondo universitario era pari alla capacità di calarsi le braghe nel momento opportuno, di sopportare e sopportare e sopportare. Quella era la strada, unica e sola, che cominciava come un budello stretto pieno di ostacoli e continuava in un budello, un po’ più largo ma sempre pieno di ostacoli. A meno di diventare un Sibarozzi, la tua vita e la tua “carriera” erano appese a un sì o a un no di chi aveva il potere di decidere, e poco valeva il tuo lavoro e i chili di carte scritte a macchina, i libri letti e rivoltati e la sapienza accumulata. E due palle così che ti facevi nello studiare e studiare e studiare. Ricordo le battaglie degli operai FIAT all’epoca, le dure contestazioni per ribaltare una situazione obiettivamente non più sopportabile, fatta di soprusi e di mancanza di diritti, avallate dal silenzio che qualcuno, qualche anno prima, aveva trovato il coraggio di rompere per far parla-re le anime, anche le più silenziose. Ecco, io in quel senso mi sentivo oppresso come gli uomini in tuta, in una città dove l’impronta industriale era diventata essenziale, dove l’immigrazione dei vent’anni precedenti aveva portato a un’intensa tra-sformazione della vecchia città sabauda. Ogni giorno respiravo anche io l’aria della fabbrica, pur non lavorandoci. A Torino molta gente viveva in funzione delle fabbriche e i ritmi della città si cadenzavano su quelli del lavoro degli operai. Soprattutto nelle zone di nuova costruzione, tut-te uguali e pronte all’uso, strapiene di palazzoni sorti come funghi a partire dagli anni ’50. Io vivevo in un contesto molto diverso, ma nemmeno ero soddisfatto di ciò che mi si parava davanti come un destino all’apparenza ineluttabile. Il mio motto era: per adesso accetto e sopporto, poi si vedrà. Mai era capitato, in cinque anni, che il professore mi avesse cercato per telefono, tantomeno di persona. Tutte le volte che venivo contattato era

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sempre stato per interposta persona, e sempre all’interno dell’ambiente lavorativo. Per quel motivo la sua telefonata, per di più alle dieci di sera, mi era sembrata strana e allarmante. Ero rimasto in silenzio ad ascoltare le poche parole che mi aveva detto, con il suo solito tono chiaro e autoritario, come se stesse presentando i risultati di qualche ricerca a un congresso. Solo dopo che lui ebbe riagganciato venni sommerso da mille interro-gativi senza risposta, e non trovai di meglio da fare se non andarmene a letto e aspettare l’indomani per avere le risposte (forse). Tanto più che non conoscevo alcun contatto telefonico privato del professore; avevo solo il suo numero di stanza al Politecnico. Trascorsi la notte insonne, a fissare il bianco soffitto. Contemplai il gioco d’ombre, percorrendo poi con lo sguardo le trame ripetute della carta da parati, mentre aumentava la curiosità per quell’appuntamento che mi aspettava. Ciò mi aveva messo in uno stato di forte tensione emotiva. E allora, quella mattina del 4 dicembre io, il dott. ing. Michele Gulli, alle sei e mezza, ero già fuori di casa, al bar sottostante, per fare una ra-pida colazione con cornetto e cappuccino, in attesa di prendere il primo mezzo pubblico che mi portasse in via Vittorio Alfieri 7.

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CAPITOLO II Mi trovavo in pieno quartiere Crocetta. Individuai la fermata più vicina alla mia meta, anche se dovetti chiedere a una signora che mi stava vi-cino. Da tempo mi spostavo in auto per le strade di Torino ma, pur abitandoci da più di dieci anni, finivo per frequentare quasi sempre le stesse zone. Per questo motivo, mi capitava di sentirmi disorientato in quelle parti della città che conoscevo poco o niente. In giro c’era già un po’ di gente. Persone frettolose e freddolose che andavano in ufficio, inguaribili mattinieri e spazzini che tiravano su i residui delle foglie, gialle e annerite, cadute lungo i viali alberati. Da Piazza Solferino si riusciva a vedere l’imponente facciata del Teatro Alfieri. Corso Umberto appariva immenso, un viale alberato che disse-cava una delle parti più belle e curate della città. Giunto in via Alfieri, ebbi modo di osservare le maestose facciate dei palazzi del XIX secolo, come il Palazzo delle Poste e Telegrafi, molto vicino al civico del mio appuntamento. Lungo il viale erano state già allestite molte decorazioni luminose per il Natale, anche se mancavano ancora venti giorni. Quell’anno ci sarebbe stato poco da festeggiare: c’era in giro aria di crisi, problemi nelle fab-briche, e saltava fuori ogni giorno qualcosa che non andava per il verso giusto. Avrei dovuto decidermi su cosa regalare a Stefania. La mia ragazza. Stavamo insieme da circa un anno; l’avevo conosciuta a una festa di amici comuni ed era scattato subito il colpo di fulmine. Lei lavorava in un’agenzia di viaggi molto quotata, al centro di Torino. Mi aveva subito colpito la sua bellezza, la sicurezza e la scioltezza nel parlare. Io, da sempre affetto da una certa timidezza nei confronti dell’altro sesso, avevo trovato la strada spianata per una lunga conver-sazione. Nel giro di pochi giorni eravamo già affiatati e facevamo cop-pia fissa.

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Ero intanto giunto davanti al civico 7 di via Alfieri, uno stabile che, come molti altri lì intorno, doveva avere più di cento anni. Mi fermai davanti al grande portone. Ammirando le splendide figure che decoravano il legno, mi avvicinai al citofono cercando quel tale Be-rardizzi. Lo trovai subito, anche se la scritta era in parte sbiadita. Si leggeva infatti: E A DIZZI ELICE Chissà chi era quel Felice Berardizzi. E poi chissà per quale maledetto motivo il professor Sibarozzi mi aveva dato appuntamento in quel po-sto. Le domande tornarono ad affollare la mia mente. Decisi pertanto di non indugiare oltre e premetti il pulsante, aspettando che mi giungesse una voce dall’altra parte del ricevitore a dirmi le fatidiche parole: “Chi è?” Invece, nulla. Davanti a me solo la facciata del portone, muta. All’improvviso, anziché la voce attesa, udii un leggero ronzio seguito dallo scatto meccanico della serratura. Qualcuno dall’altra parte non aveva ritenuto necessario chiedere chi fosse stato a suonare. Evidente-mente, chi mi aspettava era certo del fatto che mi sarei presentato all’appuntamento e della mia puntualità. Aprii lentamente, entrando nell’androne semioscuro del grande palazzo. Dopo che fui entrato, il grosso portone si chiuse automaticamente. Mi ci volle qualche secondo per abituare gli occhi alla poca luce che c’era all’interno. Anche se nella tromba delle scale c’era qualche fine-stra che dava luce all’interno, il chiarore che penetrava era poca cosa, a causa del cielo cupo. Mi colpì quasi subito un lieve ma insistente odore di muffa e di chiuso, tipico dei palazzi vecchi. Davanti a me, una gradinata conduceva su un pianerottolo da cui parti-va una serie di scale che portavano verso l’alto. Dall’androne, alzando la testa, mi era possibile osservare la sommità. Dovevano essere cinque o sei piani. Non c’era ascensore. Mi guardai intorno. Alla mia destra, c’era la postazione del portiere. La guardiola tuttavia era vuota. Non ci feci molto caso, anche se in effetti era strano; in tutti gli stabili, anche quello in cui abitavo, la guardiola, quando presente, non veniva quasi mai lasciata incustodita, se non per pochi minuti. In quel palazzo, al contrario, sembrava non esserci pro-prio nessuno. Nel mio palazzo, la portiera era un’inverosimile pettegola

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e impicciona; una sorta di cavolfiore andato a male e vestito da donna, che aveva come principale occupazione quella di farsi i fatti degli altri un giorno sì e l’altro pure. Rimossi quel pensiero e cominciai a salire, passando davanti alle porte dei vari appartamenti. Mentre facevo le scale, in effetti, non ebbi alcun segno che lo stabile fosse abitato. Almeno non in maniera fissa. Era una sensazione che si andava rafforzando in me. Sembrava quasi che tutto il palazzo, silenzioso e oscuro, fosse stato preparato in anticipo per riser-varmi un appuntamento in un ambiente che trasudava mistero da ogni mattone. Cazzate, pensai. Non potevo credere di essere così importante da meri-tarmi tutta questa attenzione. Certo che il professor Sibarozzi era stato bello e misterioso. Così, perso nei miei pensieri, giunsi finalmente al terzo piano. Al con-trario degli altri due, che avevano due porte sul pianerottolo, a quel pia-no si trovava solo una porta, di legno scuro, posta al centro, proprio di fronte alla rampa delle scale. Ai due lati della porta qualcuno aveva col-locato due piante ornamentali, ben curate e rigogliose. Anche questo era in disaccordo col resto dell’ambiente che, tranne quei piccoli parti-colari, sembrava quasi abbandonato a se stesso. Sulla targhetta fissata al muro lessi, per conferma, il nome: dott. BE-RARDIZZI FELICE. Era proprio il luogo dell’appuntamento. Mi feci coraggio e premetti una volta il pulsante del campanello. Un din-don deciso echeggiò nell’intero palazzo. Dopo qualche secondo, un rumore di passi decisi in direzione della por-ta. Sentii armeggiare intorno allo spioncino. Mi fu aperto. ‹‹Desidera?›› mi chiese un signore di mezza età, pochi capelli grigi, maglione rosso a collo alto e pantaloni di velluto marrone. Chissà per-ché mi aspettavo di trovarmi di fronte a un maggiordomo all’inglese, vestito di tutto punto e impeccabile, magari con una faccia un po’ lugu-bre. Sul vestiario e sull’aspetto era invece molto italiano, sulla faccia diciamo che un po’ ci avevo azzeccato. Notai, inoltre, che quel “Desidera?” era stato pronunciato più per for-malità, come se sapesse chi ero e conoscesse già la risposta. Che co-munque non tardai a fornirgli. ‹‹Mi chiamo Michele Gulli. Ho un appuntamento con il professor Siba-rozzi. ››

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‹‹Entri pure›› mi disse quasi senza scomporsi il maggiordomo. Mi fece entrare e, dopo aver chiuso la porta, mi invitò ad accomodarmi in una stanza poco distante dall’ingresso. Nella stanza, arredata a salotto vecchio stile, c’erano quattro poltrone disposte in modo da dare le spalle a ciascuno dei quattro angoli tra le pareti; mi accomodai su una di queste. Per tre quarti della loro altezza le pareti erano rivestite con carta da parati, i cui arabeschi erano fatti di fili intrecciati color oro. Osservai che sicuramente quella carta era mol-to più costosa di quella che c’era nel mio appartamento. In mezzo alle quattro poltrone, su un tappeto finemente intessuto, era posizionato un tavolino basso in stile antico, con sopra un posacenere e una scatola di color argento, probabilmente un porta sigari. In effetti mi ricordai, nell’istante in cui lo vidi, che il professore fumava di tanto in tanto dei sigari. Io, invece, fumavo roba di più basso livello, le comuni Nazionali esportazione. Mi piaceva tanto il pacchetto su cui campeggiava un veliero nero. Qualche volta ripiegavo sulle Sax o sulle Tre Stelle, ma se le compravo io, avec mon argent, anziché scroccarle a qualche amico, erano le Nazionali Esportazione; mi ero affezionato a quel saporaccio che mi lasciavano in bocca, come di legno bagnato. Nella parete di fronte alla porta del salotto si aprivano due grandi fine-stre, adornate da tendaggi di ottima fattura. Completavano l’arredamento dei quadri di paesaggi e nature morte e un camino in marmo pregiato, all’interno del quale bruciava scoppiettando della le-gna. L’uomo che mi aveva aperto, nel frattempo, si era allontanato. Mentre cercavo di mettermi a mio agio sulla poltrona, sentii sbattere alcune porte. Dopo qualche istante, udii una voce forte e decisa pronunciare le se-guenti parole ‹‹Buongiorno, dott. Gulli!›› arrotando la erre, come era suo segno distintivo e di quelli di un certo ceto sociale. Mi voltai di scatto e vidi la sagoma imponente del professor Sibarozzi passarmi davanti e portarsi al centro della stanza. Era un uomo molto alto, ben piazzato, capelli bianchi ravviati all’indietro con precisione maniacale, barba ben curata e occhiali cer-chiati in oro. Il tutto conferiva alla sua importante figura anche quel tocco di accuratezza, come si conveniva a un uomo di quella importan-za.

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Io portavo i capelli abbastanza lunghi e ondulati, che si arricciavano sul colletto della camicia, e da poco mi stavo facendo crescere una barba spelacchiata con tanto di accenno di baffi, come si usava tra noi giova-ni, soprattutto per darsi un’età. Avevo una leggera miopia, anche se non mettevo mai gli occhiali, perché mi sembrava mi dessero un aspetto un po’ goffo, al contrario di ciò che invece volevo sembrare. Rispondendo a un atteggiamento reverenziale ereditato da una certa parte dell’ambiente universitario, mi stavo alzando in ossequio ma lui, poggiandomi con decisione una mano sulla spalla, mi fece cenno di re-stare seduto. ‹‹Stia comodo›› mi disse, mentre si accomodava a sua volta su una del-le poltrone. Poi, proseguendo: ‹‹La devo ringraziare per essere venuto a questo ap-puntamento… diciamo pure… inconsueto. Immagino che lei si sia po-sto mille domande in merito, e che vorrebbe risposte legittime. Io devo però chiederle tutta la sua comprensione, perché di certo potrò fornir-gliene solo una piccola parte.›› Al sentire quelle parole, il mistero s’infittì sempre più. Tuttavia, il pro-fessore mi lasciò poco tempo per sollevare i miei dubbi, che pure erano tanti. Riattaccò subito, dicendo: ‹‹Lei si sarà chiesto perché l’ho fatta venire qui. Io le rispondo subito che, data la gravità dei motivi che mi hanno spinto a contattarla, ho ritenuto che lei fosse la persona più adatta.›› ‹‹In che senso, professore, mi scusi?›› non potei trattenermi dall’interromperlo. ‹‹Nel senso che nei prossimi giorni potrebbero succedere cose qualche tempo fa inimmaginabili›› continuò con grande tranquillità il professore. Quella pacatezza strideva con la drammaticità di ciò che stava dicendo. ‹‹Ma… Io… Non riesco proprio a capire…›› interloquii ancora più sor-preso. ‹‹Debbo fare una necessaria premessa: lei forse non sa che io, oltre a ricoprire il ruolo di professore ordinario al Politecnico, sono anche tito-lare di una serie di aziende che operano in campo industriale. Il mio pa-trimonio è stato stimato in molte decine di miliardi di lire, per cui a tor-to o a ragione posso ritenermi uno degli uomini più influenti di Italia, almeno in campo accademico e industriale›› proseguì Sibarozzi.

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‹‹Certo non sono molto informato, ma qualcosa mi risulta›› risposi io, con tono vago anche perché non avevo alcuna idea di dove volesse an-dare a parare. ‹‹Lei forse saprà che io ho due figli. Il maggiore, Luca, ha venticinque anni, e si è da poco laureato in Ingegneria Civile, nonché inserito da pochi mesi nell’organico dirigente di una delle mie aziende. Il minore, Giovanni, ha solo un anno in meno, ed è in procinto di laurearsi›› con-tinuò il professor Sibarozzi. “Cazzo me ne frega” avrei voluto rispon-dergli, ma tacqui. Lui, senza interrompersi (non che avessi modo d’interromperlo, anche perché non avevo idea del perché mi stesse di-cendo quelle cose) proseguì ‹‹Purtroppo sono successe alcune cose, nel recente passato dei miei due figli, che hanno comportato un certo disa-gio a me e alla mia famiglia…›› ‹‹Mi deve scusare, professore, ma non riesco a seguirla…›› provai a spingerlo a essere più esplicito. Il professore, nel frattempo, prese il portasigari e me ne offrì uno. Edu-catamente, rifiutai. Prima di riprendere il discorso, temporeggiò pren-dendone uno per sé e accendendoselo. ‹‹Mi spiegherò meglio. Anche se dovrò essere un po’ conciso›› riprese a parlare Sibarozzi, dopo aver aspirato i primi tiri. ‹‹Lei sicuramente avrà avuto modo di sapere, tramite i giornali o la te-levisione, dei fatti gravi che stanno accadendo negli ultimi anni. Mi ri-ferisco a tutta una serie di scontri durante manifestazioni di protesta, rapimenti e omicidi a sfondo politico a opera di organizzazioni estremi-ste spesso non meglio identificate, che si sono verificati in Italia di re-cente.›› ‹‹Sì, professore, diciamo che sono informato in generale, ma… Molto in generale›› glissai io. ‹‹Ebbene, nel recente passato, purtroppo, i miei figli hanno avuto stretti contatti con una di queste organizzazioni. All’inizio, si convinsero ad avvicinarglisi, probabilmente perché affascinati da questo clima di fer-vente cambiamento della nostra società. Non ho mai capito davvero co-sa li abbia spinti a quelle frequentazioni. Gli piaceva atteggiarsi a con-testatori, forse per non sfigurare con gli amici o per far colpo su qual-che ragazza, così per gioco; contestatori di che cosa magari nemmeno lo sapevano. Anche lei, se ben ricordo, era uno di quelli che protestava-no, in passato, o sbaglio?›› mi osservò con sguardo severo, ma non troppo.

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Io, arrossendo, annuii, mentre attendevo che riprendesse. Lui, infatti, non distolse l’attenzione dal tema principale del suo discorso: ‹‹Ma questo è un argomento che esula dal motivo per cui l’ho fatta venire qui. Le basti sapere che, in breve tempo, questa organizzazione rivelò i metodi con cui i suoi capi volevano conseguire i propri risultati. Una cosa era la libera proclamazione dei propri ideali politici, per i quali ci sono luoghi adatti e ci sono partiti e circoscrizioni, in un contesto de-mocratico, quale penso debba sempre essere lo scenario politico del no-stro paese. I metodi violenti e le azioni eversive non li condivido e non li condivisero mai neppure i miei ragazzi. Diciamo che, per farla breve, riuscii, grazie ad amicizie nei posti giusti, a togliere dai guai i miei due figli, prima che fosse troppo tardi e si macchiassero di qualche reato senza rendersene conto›› sentenziò alla fine Sibarozzi. Dopo aver detto quelle cose, fece un’altra piccola pausa, si alzò dalla poltrona e mi guardò negli occhi. ‹‹E’ stato in quel periodo che, probabilmente, sono stato ritenuto un nemico di quella organizzazione. In quel momento, credo che qualcuno me l’abbia giurata, segnandomi all’indice del proprio libro nero.›› A vedermelo eretto davanti, in tutta la sua stazza, provai un certo senso di disagio e inferiorità nei suoi confronti; così mi alzai in piedi, come se obbedissi a un riflesso incondizionato. Lui intanto proseguì: ‹‹Guardi, io ho sempre sostenuto che non si potesse costruire nulla di grande, in questo Paese, senza avere gli opportuni appoggi, soprattutto se di tipo politico. Anche se non sono apparso mai in prima linea, al-meno in modo ufficiale, ho sempre attivamente seguito la storia politica italiana negli ultimi quarant’anni. E, spesso, ho avuto anche un ruolo di primo piano. Purtroppo, siamo entrati in un’epoca in cui molti hanno messo la testa fuori dal sacco. Non che questo non sia un bene, non mi fraintenda. Ho sempre ritenuto che solo le teste vuote restano ferme nel posto in cui vengono collocate. Ma c’è qualcosa, a certi livelli, che non si è disposti a perdere per nulla al mondo. Lei immagina cos’è?›› rivol-se a me quella strana domanda, guardandomi fisso. ‹‹Non saprei, a dire il vero›› risposi io, sempre più confuso. ‹‹E’ il potere. Questa affascinante parola che, una volta entrata nella mente dell’uomo, una volta che ha fatto sentire il suo sapore, non lo la-scia più. Chi ce l’ha, farà di tutto per non perderlo. Chi non ce l’ha, di-venta disposto a tutto pur di raggiungerlo. In entrambi i casi, dia retta a me, si diventerà disposti anche a uccidere o a pagare altri per farlo.››

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Sibarozzi fece una pausa, si recò verso la finestra e si piazzò davanti alla vetrata, a breve distanza da essa. Io rimasi in silenzio, in attesa che riprendesse a parlare. Non dovetti at-tendere molto. ‹‹Non voglio dilungarmi troppo, non è mia abitudine. Le basti sapere, insomma, che nella mia vita ho avuto modo di entrare in contatto con i più disparati personaggi. Gente a volte squallida, infida e cattiva. Ani-me sporche e soggetti al limite della criminalità. Sono sempre riuscito a gestire le situazioni in cui mi trovavo coinvolto. Ero una forte presenza, una presenza ingombrante. Il potere fatto uomo. Fino a quando non ho scoperto di avere anche io dei punti deboli: i miei figli.›› Un sospiro, un’altra lieve pausa, e poi Sibarozzi riprese: ‹‹Come le ho detto, grazie alle mie amicizie sono riuscito non solo ad allontanare i miei figli da questa organizzazione, ma anche a far si che non avessero ulteriori contatti o addirittura minacce da parte di quei delinquenti. I ra-gazzi erano venuti forse a conoscenza di cose importanti, che li avreb-bero messi in serio pericolo…›› fece una pausa per un altro sospiro, prima di riprendere: ‹‹Lei legge i giornali? Avrà avuto modo di capire che le frange armate delle organizzazioni estremiste sono molto perico-lose; molti gruppi ci hanno messo poco a passare dalle contestazioni in piazza agli atti dimostrativi, alla vera e propria guerriglia.›› Altra pausa. ‹‹In alcuni casi si è di fronte al fanatismo vero e proprio. Uccidere di-venta un modo come un altro per raggiungere lo scopo. E poco importa se a farne le spese è uno, oppure dieci o anche cento innocenti. Un tem-po le questioni politiche e sociali si risolvevano in Parlamento, o co-munque seduti tutti intorno a un tavolo. Le discussioni diventavano più o meno accese, soprattutto quando i temi erano scottanti, ma tutto re-stava lì. Si ragionava e si cercava insieme di raggiungere una soluzione comune, anche a costo di perdere qualcosa per strada.›› Quando Sibarozzi disse quelle cose, avrei voluto controbattere che mi pareva di ricordare cose molto differenti da quelle che lui diceva, e che in più di un’occasione chi si batteva per dei diritti era dovuto ricorrere a uno scontro, dal quale spesso usciva bastonato e sconfitto. In quell’istante, decisi di superare il mio silenzio, cominciando a fargli qualche domanda ed entrando di fatto nel vivo della questione. Soprat-tutto sul perché mi avesse convocato.

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‹‹Professor Sibarozzi, ammetto che comprendo la serietà dei fatti di cui lei parla; però deve comprendere anche il mio stato d’animo. Si metta nei miei panni: mi telefona a casa, di sera, senza darmi modo di capire il perché mi convoca qui, in un luogo a me sconosciuto; assume un fare misterioso. Beh, adesso spero vorrà essere più chiaro, perché fino a ora non sono riuscito ancora a capire per quale motivo mi abbia fatto venire qui.›› Lui si voltò verso di me, che gli stavo di fianco, e aprì leggermente le labbra in un sorriso amaro. Si portò la mano destra a lisciarsi pensieroso la barba e rispose alla mia domanda. ‹‹Lei ha ragione, Gulli, e io cercherò di risponderle subito. Nello svi-luppo dei fatti che hanno riguardato i miei figli, sono venuto a cono-scenza di tutta una serie di informazioni su affiliati di spicco di molte organizzazioni terroristiche, soprattutto delle frange più violente; i loro obiettivi principali, la ramificazione delle cellule operative e le identità di quasi tutti i componenti. Queste informazioni, se utilizzate in manie-ra opportuna, possono dare una svolta decisiva alla lotta contro il terro-rismo, prima che diventi un fenomeno incontrollabile. Potrebbero esse-re di enorme aiuto per gli organi di polizia e dell’esercito. Nel giro di poche settimane sarebbe possibile ripulire il Paese da questa gente. Ma mi creda, nei piani alti del Palazzo, oggi, non conviene a nessuno de-stabilizzare la società con una mossa così rapida e decisiva. La strategia della tensione agli occhi dei più è qualcosa di terrificante. Agli occhi di chi gestisce il potere, diventa uno dei metodi per mantenerlo.›› Poi, quasi senza guardarmi, proseguì: ‹‹E questo è il motivo che ha spinto, fino a oggi, me e chi mi è vicino a tenere tutto occultato. Meglio celare il segreto, almeno fino a quando ciò sarà utile alla causa. Perché nulla è definitivo, soprattutto in guerra. E guerra diventerà, fra non mol-to, questo stato di cose, visto che negli ultimi tempi qualcuno si sta la-sciando sfuggire la situazione di mano. Ma a questo motivo, se ne è ag-giunto un altro, non meno valido. Guardi, nella mia esistenza, poche volte mi sono fatto degli scrupoli davanti a una decisione. Ma, come le dicevo prima, tutti abbiamo dei punti deboli. I miei figli lo sono per me. E questo segreto è la mia arma per garantire la loro sopravvivenza.›› Ecco, in quel momento la nebbia nel mio cervello cominciò a diradarsi. Sarebbe stata solo questione di minuti, e avrei saputo anche il perché ero stato convocato per quell’appuntamento ai limiti dell’assurdo; era

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però necessario che il professore terminasse il proprio discorso, poiché sembrava un uomo maledettamente sincero che apriva il suo cuore. Il professor Sibarozzi riprese a parlare: ‹‹Negli ultimi giorni però, fonti molto vicine, mi hanno informato su un cambio di tendenza nella ge-stione del potere. Di conseguenza, la mia incolumità non sembra essere più così sicura come lo era in precedenza; in poche parole, esistono se-rie possibilità che possa essere preso di mira io stesso, nei prossimi giorni.›› Questa rivelazione mi lasciò esterrefatto. Mi stavo quasi alterando a sentire tutti quei discorsi, e fui quasi tentato di guadagnare l’uscita. Ma quelle ultime parole ottennero su di me un effetto devastante, come quando apprendiamo che una persona cara è in pericolo di vita. ‹‹E qui, caro Michele Gulli, entri in gioco tu!›› mi disse il professore, sorprendendomi ancora una volta. Non mi era mai accaduto, da quando lo conoscevo, che si rivolgesse a me dandomi del tu. Come interpretare ciò non mi era chiaro, ma sem-brava palese che quanto mi stava rivelando gli era costato e gli costava molto, anche in termini di autostima. ‹‹Ma… Professore, lei mi sta dicendo cose gravi. Non saprei proprio come potrei esserle d’aiuto›› provai a ribattere io, anche se ero poco convinto. Sibarozzi emise un altro sospiro e, scostandosi dalla finestra, si spostò verso il centro della stanza. Mi fece cenno di sedermi a una poltrona e, avvicinandosi alla porta, la aprì e chiamò l’uomo che mi aveva aperto. Quando l’uomo giunse nei pressi, silenzioso e rapido come una mangu-sta, il professore gli fece solo un cenno d’intesa, e quello si allontanò tornando dopo pochi secondi nella stanza. L’uomo consegnò al profes-sore un plico bianco discretamente voluminoso. Il professor Sibarozzi lo prese, liquidò l’altro e si venne a sedere sulla poltrona di fianco alla mia. Mi porse il plico e io lo presi tra le mani; allora, guardandomi serio, mi disse: ‹‹In quel plico sono contenute le informazioni e tutto quello di cui ti parlavo prima. Vorrei che tu lo custodissi e lo consegnassi a una perso-na di mia fiducia sulla quale ti informerò. Nel caso mi dovesse succede-re qualche cosa, saprà lui come utilizzarlo.›› Rigirai il plico tra le dita, soppesandolo inconsapevolmente e, dopo a-verlo posato sulle ginocchia, ripresi fiato e gli chiesi: ‹‹Ma, professor Sibarozzi, perché proprio io? In fondo, lei non mi conosce quasi. Potrei

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essere il soggetto meno indicato per ricevere questa roba. Potrei essere un estremista anche io, un contestatore o comunque una persona poco affidabile, no?›› Il professore mi guardò, sorrise, e mi disse con gran naturalezza: ‹‹Via… Gulli. Te l’ho detto in precedenza che ho contatti un po’ ovun-que. Mi spiace non averti chiesto prima il permesso, ma ho raccolto tante informazioni su di te, prima di sceglierti per questo compito. Do-vevo essere sicuro di contattare la persona giusta.›› Rimasi attonito nel sentire quelle cose, stavo per ribattere incazzato, quando Sibarozzi riprese a parlare. ‹‹Lo so, non avevo alcun diritto di fare ciò che ho fatto. Mi scuso in ri-tardo per questa mia intrusione nella tua vita privata, ma la questione è grave e, al punto in cui siamo, era necessario che entrasse in gioco una persona insospettabile. Quel materiale che hai tra le mani lo avrei dovu-to consegnare io stesso a questa persona di fiducia, ma lui rientrerà solo tra qualche giorno in Italia e io non posso muovermi, soprattutto per ra-gioni di sicurezza. Allora, fidandomi delle mie impressioni, ho scelto te. Sei serio, preparato, preciso e disponibile. Poi ho provveduto ad ac-certarmi sulle tue frequentazioni, almeno quelle di carattere politico. Il responso che ne è venuto fuori è stato positivo; quindi ho provveduto a contattarti. Ora ti chiedo, con grande speranza, di accettare.›› Allora sbottai alterato: ‹‹Ma si rende conto, professore? Io non so chi siano quelli di cui lei parla… Ma se rappresentano un pericolo per uno come lei, mi scusi, figuriamoci per un piccolo soggetto come me e le persone che mi sono vicine. Non ha pensato a questo? Alle conseguen-ze di questa convocazione? Come potrei accettare?›› ‹‹Ti capisco e mi scuso ancora. Ma è proprio il fatto che tu non sia una persona famosa che ti rende insospettabile. Devi credermi, non sarei ri-corso a questo se le cose non fossero al punto in cui sono. E’ necessario che quelle informazioni vengano custodite da persone estranee a me. Ti chiedo solo di farla pervenire a una persona di mia assoluta fiducia. Non correrai alcun pericolo. Basterà solo attenersi alle mie istruzioni, evitando di parlarne con chiunque. Se dovesse sfuggirti qualcosa, allora sì che la situazione potrebbe complicarsi. Ma ripeto, chi corre pericoli perché rappresenta una seria minaccia per loro sono io, non tu. Credi-mi.›› E aggiunse, quasi prevedendo la mia successiva domanda: ‹‹Davvero, capisco il tuo disagio, ma non posso correre il rischio che quella roba

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cada nelle mani sbagliate o che venga distrutta, rivelandosi inutilizzabi-le. Ho bisogno di alcuni giorni per pianificare meglio le mie mosse, e la cosa più intelligente da fare adesso è quella di mettere quel materiale scottante in mani insospettabili, le tue. Faccio appello alla tua dissiden-za dalle pratiche violente; so che in passato hai manifestato›› queste ul-time parole me le disse guardandomi diritto negli occhi, come se si stesse rivolgendo a uno dei suoi figli; il suo tono diventava sempre me-no distaccato, assumendo sfumature paternalistiche e quasi suppliche-voli, ‹‹so che sei stato un sobillatore nelle contestazioni e negli scioperi; ma so anche che mai ti sei spinto oltre, mai ti sei macchiato di crimini. Sbaglio?›› Io non potevo certo negare che le sue informazioni sul mio conto fosse-ro a dir poco esatte (sembrava quasi ne sapesse più lui di quanto ne po-tessi sapere io, e scusate se era poco); e io che pensavo di avere la visi-bilità di una zanzara nel buio della notte. Quando comprese che stavo cedendo, proseguì con quel tono confiden-ziale, manco fossimo stati compagni di avventure e avessimo condiviso fumo e donne nelle roventi giornate di contestazione di qualche anno prima. ‹‹Quello che ti chiedo è un particolare favore personale. Inutile dirti che questo potrebbe aiutarti anche per la tua futura carriera.›› Eccolo lì! Chissà perché, me lo aspettavo. Profumato e pettinato, ci a-veva messo dentro anche il ricattino, il professore. Ben sapendo di co-gliere nel segno. Quel lavoro era troppo importante per me. Erano tem-pi del cazzo, quelli. In tutti i sensi. Guardai il plico che avevo poggiato sulle ginocchia, maledicendomi per aver risposto a quella telefonata. Poi, dopo alcuni istanti, compresi di essere stato comunque incastrato. La possibilità di carriera nel mondo universitario passava sempre per il benestare di qualche barone. Sibarozzi era uno dei più potenti dell’intero mondo accademico italiano. Era sopravvissuto al ‘68 ed era uscito dalle contestazioni ancora più forte di prima. Anche se a seguito delle lotte del Movimento Studente-sco qualcosa era cambiato, molto era rimasto immutato e tanto ancora era il marcio che infettava la società e quell’ambiente di merda dove lavoravo. In maniera meno palese rispetto al passato, però i pezzi grossi dell’università erano ancora a cavallo; avevano fatto tesoro dell’esperienze precedenti per rafforzare ancor di più il proprio ruolo e

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il proprio ascendente sulla classe studentesca. E in quegli anni di gran-de caos politico e sociale, pochi avevano la forza morale ed economica per sottrarsi a quell’inevitabile giogo. Se volevi assicurarti un futuro, seppur costellato di insidie e fatiche, ingratitudine e sfruttamento, do-vevi piegarti. A novanta gradi o giù di lì. Ero riuscito a malapena a permettermi il diritto allo studio, nella secon-da metà degli anni ’60. La mia famiglia mi doveva mantenere a Torino a costo di duri sacrifici economici, e le battaglie per un diritto allo stu-dio più equo ed esteso anche alle classi sociali meno abbienti trovarono tutto il mio appoggio. Rifuggii solo alla parte più estrema di quelle con-testazioni. Spesso ho dovuto subire colpi di manganello perché, a discapito delle mie intenzioni pacifiste, non potevo evitare in molte occasioni di essere mio malgrado coinvolto nei tafferugli e negli scontri con le forze dell’ordine. Sibarozzi queste cose le sapeva benissimo, lo avevano ben informato. Inoltre, in quei primi anni ‘70, proveniente come ero da una famiglia che di certo non navigava nell’oro, non potevo permettermi di farmi scappare quella opportunità. Mi avevano sempre fatto schifo gli atteg-giamenti da leccapiedi di ex studenti ora miei colleghi. Certo questo era qualcosa di più. Era un ricatto vero e proprio ed ero io a subirlo. Inoltre, non dovevo trascurare l’aspetto legato alle eventuali ripercussioni di quell’incontro. Se qualcuno stava tenendo d’occhio Sibarozzi per decidere se e quando colpirlo, poteva non essergli sfuggito quell’appuntamento e io potevo non essere ritenuto poi tanto insospettabile. Il professore era convincente nel sostenere il contrario; in fondo, poteva anche darsi che avesse ragione e, se devo essere sincero, in quella si-tuazione non riuscii a essere freddo e lucido come avrei dovuto. Tutte le volte che ci ripenso, giungo sempre alla medesima conclusione: sba-gliai ad accettare, ma fu quella la mia decisione, e a poco serve ora ri-mescolare le carte, tanto i fatti andarono così. Dopo essermi arrovellato il cervello, decisi di rispondere: ‹‹Mi ha convinto, professore. Accetto. Spero solo che vorrà fornirmi tutte le informazioni aggiuntive. Non ho alcuna voglia di passare a mi-glior vita. Ha ragione, non nutro certo simpatia per quelle organizza-zioni, come le chiama lei. Almeno sui loro metodi. Penso che sia giusto

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combattere le frange più violente e, se quanto mi chiede di fare può consentire questo, allora sono d’accordo.›› Mentre dicevo quelle cose mi resi conto di essere un gran cazzaro. Sibarozzi sospirò, di sollievo questa volta, dicendomi ‹‹Bene, mi togli un gran peso. Adesso posso fornirti tutte le informazioni che ti servo-no.›› Si alzò dalla poltrona e mi disse: ‹‹Seguimi.›› Mi alzai anche io, seguendolo in un’altra stanza di quell’appartamento. Quel giorno, il destino aveva deciso di dare inizio a un periodo di fatti e situazioni della cui gravità non mi resi conto subito, e che avrebbero segnato per sempre la mia vita.

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CAPITOLO III Fui studente universitario alla Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino, in quel fine anni ’60. Mi ritrovavo spesso e volentieri a discute-re con gli altri ragazzi, senza una vera e propria linea politica. I primi tempi, parlo del 1966, frequentavo persone che simpatizzavano per idee di sinistra. Per me era un modo come un altro per socializzare, cercando di comprendere e confrontare i miei problemi, in quella socie-tà, con quelli dei miei coetanei. La necessità di profondi cambiamenti era quasi esplicita, e noi ragazzi cercavamo di dare ordine alle nostre idee e corpo a tali cambiamenti soprattutto negli ambienti che frequentavamo e meglio conoscevamo. Nelle nostre riunioni, spesso, tra uno spinello e qualche bacio furtivo, tra una scopata e una litigata, si parlava di Vietnam, di diritti delle mi-noranze etniche, di razzismo e antirazzismo, di anticlericalismo e di ri-forme per il diritto allo studio. In quel periodo, quasi ogni giorno ci davamo appuntamento in posti che cambiavano di volta in volta, per sfuggire ai pulotti. Eravamo più che riconoscibili grazie al nostro abbigliamento, che in quegli anni sarebbe diventata un’icona del Movimento studentesco. Ricordo ancora adesso il mio eskimo verde militare, un po’ sdrucito al-le maniche, che mettevo sempre addosso quando, in quelle giornate di fervente attivismo, uscivamo nel freddo clima di una Torino invernale illudendoci di poter cambiare il nostro mondo. L’attivismo culturale e sociale non mi era mai venuto meno. Il mio stimolo principale era la mia condizione sociale, come anni do-po, in una sua canzone, Francesco Guccini avrebbe molto bene sintetiz-zato “… Portavo allora un eskimo innocente, dettato solo dalla pover-tà…” *1 Quando il nostro pensiero, come quello di migliaia di nostri coetanei, varcò i confini dei luoghi isolati, diventando assemblee, la forza delle

1 Francesco Guccini, Eskimo, Amerigo, 1978

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idee iniziò a farsi sempre più insistente, più decisa e più seria; in quei mesi, tutti gli avvenimenti si accavallarono, le situazioni si incrociarono e anche io, convinto sostenitore della causa, mi trovai lì a combattere. Tuttavia, presto cominciai a capire che gli assalti e gli scontri sarebbero diventati il leit-motiv di tutte le nostre manifestazioni. Capii che se vo-levamo ottenere qualcosa dovevamo muoverci in modo più intelligente, studiare il nostro nemico, la società marcia e imborghesita che soffoca-va i nostri diritti e offuscava la nostra visione del mondo. Altrimenti, i nostri sforzi sarebbero stati diretti contro un muro di gomma, che ci re-spingeva senza nemmeno scomporsi più di tanto, ribattendo colpo su colpo e sicuro della propria quasi totale immunità. Avevo anche io i ca-pelli lunghi, fumavo in compagnia e gridavo alle assemblee permanenti. Presi le mie manganellate, ma mai cercai di fare del male a chi, per proprio dovere e perché a casa doveva comunque portare le poche mi-gliaia di lire del proprio stipendio a fine mese, era costretto a essere lì, in prima fila, a fronteggiarci. Atti vandalici, violenza gratuita e un indefinibile parossismo di cattive-ria diventarono sempre più frequenti, sempre più debolmente legati alla motivazione primaria della lotta contro il potere centrale e l’ordine co-stituito, in quanto il degenerare di certi comportamenti allontanava un numero sempre maggiore di dimostranti dall’iniziativa di partenza. Qualcuno prese il volo maledetto, ci dicevano: “La lotta così non si vince, occorre alzare il tiro!”. Alzare il tiro voleva dire prendere parte alle manifestazioni solo per avere una copertura, ma l’intento reale era sperimentare l’uso della violenza, provare il brivido della guerriglia, correre e picchiare in mezzo ai lacrimogeni, schivando i colpi dei que-sturini, colpendoli con calci, pugni e chiavi inglesi. Dovevamo fracassare le vetrine dei negozi, rompere tutto, incendiare auto con le molotov, far vedere agli stronzi che ci volevano fermare quanto eravamo forti, quanta violenza covava dentro di noi e quanto male riuscivamo a fare. Fu in quelle situazioni che decisi, anche a costo di mettere a repentaglio l’apparente solidità delle amicizie conquistate in quei mesi, di virare verso un’altra direzione. Agli occhi di qualcuno era forse un tradimen-to. Molti mi diedero del vigliacco: me ne fottevo, in tutta sincerità. Per me, invece, si trattava di combattere quelle strutture nemiche penetran-dovi e cercando di migliorarle.

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E fu questo anche uno dei miei obiettivi negli anni successivi alla lau-rea, quando riuscii a entrare nel mondo accademico. Quella mattina dell’appuntamento in via Alfieri 7, però, ebbi modo di constatare quanto viscidume era ancora presente nel mondo in cui vive-vo. Quel ricatto del professor Sibarozzi era la più palese testimonianza di come certe persone, per difendere se stessi e il proprio potere, non esitino a mettere in gioco l’esistenza altrui. E pensare che nel nostro Paese già c’erano stati episodi come quello del 12 dicembre 1969, quando si dovettero piangere sedici morti nella Stra-ge della Banca dell’Agricoltura, a Piazza Fontana, oppure episodi come il ritrovamento del corpo di Giangiacomo Feltrinelli su un traliccio dell’alta tensione, oppure anche l’assassinio di Luigi Calabresi nel 1972 o ancora Piazza della Loggia, la strage dell’Italicus e le varie singole esecuzioni, sempre più spregiudicate e crudeli. In particolare, mi colpì molto l’uccisione, a colpi di chiave inglese, di Sergio Ramelli, uno stu-dente mi pare neppure maggiorenne, da parte di un commando degli e-stremisti di sinistra di Avanguardia Operaia, il 13 marzo di quel 1975. Come per una sorta di compensazione degli schieramenti, il 16 aprile di quello stesso anno fu ammazzato Claudio Varalli, anche lui minorenne, da un neofascista, in disperata fuga da un gruppo di estremisti di sini-stra di cui lo stesso Varalli faceva parte. Era da anni ormai un’Italia figlia e madre della strategia della tensione e, volenti e nolenti, eravamo tutti parte di una stessa famiglia, nella qua-le ognuno riteneva giusto, per non precipitare nell’abisso, arrangiarsi con i propri mezzi. Era un periodo in cui si aveva voglia di rompere o cambiare gli schemi consolidati, dei referendum sul divorzio e sull’aborto, due battute d’arresto per il ruolo della Chiesa Cattolica nella vita sociale degli ita-liani, dell’austerity per la crisi petrolifera, della crisi economica genera-le e del declino produttivo; non mancarono grandi tragedie naturali co-me il terremoto del Friuli del giugno 1976, che sarebbe avvenuto appe-na sei mesi dopo i fatti che sto raccontando. Quell’anno se ne era andato, infine, un emblema della cultura di sinistra e della cultura italiana ed europea in generale, Pierpaolo Pasolini. Un mio punto di riferimento letterario e sociale. Me ne fregavo altamente di quello che si diceva sulla sua vita privata, uno sterile esercizio di mo-ralità da parte dei soliti bacchettoni che affollano il nostro paese e che ogni tanto alzano la testa ed escono fuori a pontificare.

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Una vita conclusa in modo tragico, ma un esempio culturale forte che molti giovani, in seguito, hanno dimostrato di sapere cogliere e apprez-zare. In quel clima, nel minimo spazio che le mie vicende personali potevano occupare, anche a me stava succedendo qualcosa di particolare. Il professor Sibarozzi mi aveva consegnato, insieme al plico, una busta in cui erano contenute alcune istruzioni su come mi avrebbe contattato la persona cui dovevo consegnare quel materiale. Si trattava di un giornalista, un certo William Cavenagli, che scriveva per il Corriere della Sera. Non mi aveva fornito altro: sarebbe stato lo stesso giornalista a contattarmi appena possibile. Avevo mentito su un aspetto, al professore. Era vero che ero contrario alle fasi più violente, ma non mi ero del tutto distaccato delle questioni legate al movimento. Un mio amico, Diego Callotti, era un po’ il mio fine dicitore e la mia spalla mentale sull’argomento, in quanto sempre molto informato sulle vicende. Infatti, anche se non prendeva più parte alle fasi violente e agli scontri, si era guadagnato un grande rispetto dai compagni e veniva te-nuto in estrema considerazione. Inoltre, sapeva essere muto come un pesce e questo lo rendeva totalmente affidabile, soprattutto nel caso di iniziative, diciamo così, poco ortodosse. Mentre uscivo dal portone del palazzo di via Alfieri, non pensai mini-mamente ad aprire il plico; sentii solo il bisogno di bere qualcosa di for-te, prima di tornare a casa. Erano circa le undici del mattino. Avevo deciso di non andare in Ate-neo, in quanto non avevo impegni particolari e il lavoro che c’era da sbrigare lo potevo rinviare comodamente al giorno dopo. Per di più, a fronte delle novità enormi che mi erano state comunicate quel giorno, anche il professor Sibarozzi non aveva fatto cenno alla necessità di an-dare al lavoro. Almeno per quel giorno ero libero. Giunto al primo semaforo, vidi sfilare davanti a me pullman, auto e mo-tocicli in un miscuglio di rumori e gas di scarico, prima che scattasse finalmente il rosso. Allora attraversai, insieme ad altri pedoni per rag-giungere un bar che si trovava dall’altra parte della strada. Entrai, mi approssimai al bancone, e chiesi un Martini. Il proprietario, un omone dalla grinta poco raccomandabile, mi osservò, annuì e con fare spiccio mi servì.

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Mentre sorseggiavo il Martini, lasciai che gli interrogativi e le impro-babili risposte si azzuffassero nella mia mente. Decisi che, per acquisire maggiore lucidità, dovevo lasciar sedimentare gli avvenimenti di quella mattinata e, di conseguenza, aspettare per decidere come comportarmi. In quel momento mi stavo rendendo conto di quanto affrettata fosse sta-ta la mia risposta. Avevo commesso una vera e propria fesseria. Stavo bevendo le ultime gocce dal bicchiere, quando si fece strada in me il timore di non poter affrontare la questione da solo. Ricordai quan-to si era raccomandato il professore sul fatto di non rendere partecipe nessuno di quanto mi aveva comunicato. Ma pensai anche che, se que-sta situazione poteva mettermi in pericolo, ero ben padrone di decidere da me se fare da solo o cercare l’aiuto di qualcuno. Non faticai più di tanto a ritenere legittimo questo proposito, e mi ven-nero in mente due nomi: Stefania, la mia ragazza, e Diego, il mio mi-gliore amico. Pagai il Martini e mi feci cambiare mille lire in gettoni, in modo da po-ter subito telefonare. Avvicinatomi all’apparecchio telefonico, attesi che un signore che mi precedeva terminasse la comunicazione. Nell’attesa mi misi a osservare l’interno del locale, in modo meno superficiale di quanto non avrei fatto in altre occasioni. Dietro il bancone del bar c’era una specchiera grande e degli scaffali su cui erano collocate bottiglie e bottigliette di liquori. Poco distante c’era il reparto sigarette e poi ancora le scatole con gli snack, i contenitori con la pasticceria e le pizzette. Nel bar, nel frattem-po, si affollavano avventori per ordinare un caffè o comprare un pac-chetto di sigarette, rapidi e quasi taciturni; quella era una città in cui muoversi di fretta era del tutto normale. Sembrava che tutti stessero fa-cendo una corsa contro il tempo, e ognuno aveva i suoi bravi motivi. Sul muro il proprietario aveva appeso targhe e manifesti pubblicitari con una serie di marche, da Cinzano a Cynar, da Campari soda a S. Pellegrino, dal Crodino alla Birra Peroni, dai gelati Eldorado alla ba-checa nera su cui erano appuntati l’elenco e i prezzi delle consumazio-ni. In fondo nella penombra, dietro un paravento semichiuso, si intravede-va la sagoma di un uomo intento a giocare a biliardo, coordinato e posi-zionato con la stecca in tiro. A destra del paravento, nell’angolo buio tra il muro e il frigorifero, un ragazzo magrolino percuoteva con costanza maniacale i pulsanti laterali

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di un flipper, agitandosi e spingendo con colpetti decisi e chirurgica precisione il bordo del macchinario, in modo da influenzare la traietto-ria della biglia imbizzarrita. Il gioco andava avanti tra sibili ed echi di metallica sonorità fino a quando, esausto, il dispositivo si inceppava ed esalava l’ultimo respiro; allora andava in onda la musichetta fotti-soldi: TILT! Il ragazzo, anche se in preda a un giustificato raptus, si trattenne sag-giamente dallo sferrare un calcione al flipper, cosa che avrebbe fatto senz’altro se fosse stato il solo presente nella sala; la grinta del proprie-tario fece da deterrente. Poco distante da me, collegato al bancone delle consumazioni, c’era il botteghino per le giocate del Totocalcio e del Totip. Mi venne in mente che, la domenica pomeriggio, era in programma il derby tra il Toro e la Juve, era l’ottava giornata di campionato, e la partita era molto sentita dai tifosi delle due squadre. Io tenevo per la Juve, fin da piccolo, anche se quando mi trasferii a Torino mi accorsi che molti la pensavano di-versamente da me. La Juve era la squadra dei padroni, dei proprietari della FIAT, della famiglia Agnelli, ed è per questo che, anche sul piano sportivo, molti sceglievano di contrapporsi al potere, tifando Toro. Quell’anno, poi, c’era molto entusiasmo attorno a Gigi Radice e ai suoi ragazzi, Pulici e Graziani in prima fila. Appena libero il telefono, appoggiai il plico sul vicino tavolino su cui erano accatastati gli elenchi telefonici di Torino e provincia, introdussi il gettone e composi il numero dell’ufficio di Stefania. Dopo due squilli, mi rispose lei, con tono sorpreso per la mia telefonata in quell’orario inconsueto. ‹‹Miki, che c’è?›› ‹‹Scusa se ti chiamo a quest’ora. Volevo solo chiederti se ci possiamo vedere prima questa sera. Magari a casa tua. OK?›› ‹‹Per me va bene. Smonto alle sei. Puoi venire per le otto? Il tempo di farmi una doccia e sono a tua disposizione. Ma c’è qualcosa che non va?›› ‹‹Nulla di preoccupante. Ma ti volevo chiedere una cosa, e voglio farlo al più presto.›› ‹‹D’accord, alors. A stasera, n’est pas?›› ‹‹A stasera. Un bacio.›› Stefania aveva usato, a fine conversazione, il suo intercalare francese. Era un suo tipico modo di fare, era figlia di madre francese, e sfoggiava

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a mo’ di presa in giro quando parlava con me la sua padronanza lingui-stica. D’altra parte, parlava correntemente quattro lingue, e ciò le veni-va naturale. Nonostante il suo tono tranquillo e la sua apparente normalità, ero certo che Stefania non era affatto tranquilla. Avrei atteso con ansia quella sera. Probabilmente, dopo aver ascoltato il mio racconto, la sua preoccupazione mattutina sarebbe sembrata una sciocchezza rispetto a quella che l’avrebbe presa quella sera. Ne ero certo. Uscii dal bar. Il Martini mi aveva un po’ riscaldato corpo e spirito, per-ciò avvertii il contrasto tra il caldo del locale e il freddo pungente dell’esterno. Non nevicava più, per terra c’era qualche residuo di nevi-schio secco, continuamente smosso dalle folate del vento. Alzai il bave-ro del cappotto e presi a camminare in direzione della fermata del tram. Presi il primo disponibile per corso Francia, scesi alla fermata più vici-na e feci il resto della strada a piedi. Passai in mezzo a decine e decine di persone, ognuna intenta a pensare alle sue cose, ai suoi problemi e, perché no, alla sua felicità. Io non ero felice, non potevo esserlo. Non ero nemmeno tranquillo. Mi sentivo come quando si è preda di un incubo. Sudi, cerchi di muoverti e di reagire a quella sorta di paralisi onirica, ma non ci riesci subito. Poi, ti svegli, tutto sconvolto, e ti rendi conto che si trattava solo di un brutto sogno. Solo che nel mio caso non si trattava affatto di un brutto sogno. Era tutto vero. E il guaio più grande era che con molta probabilità il peggio doveva ancora venire. In quel frangente ricordai anche quanto era capitato al mio amico Die-go, sfuggito per un pelo alla morte in occasione di un attentato. Non mi interessavano le questioni politico-sociali legate al terrorismo, ma ri-cordo che rimasi scosso in quell’occasione, proprio perché quel brutto episodio aveva coinvolto anche una persona cui tenevo. Gruppi estremisti, talora protagonisti di episodi di violenza, li avevo sentiti nominare svariate volte, durante gli ultimi anni da studente uni-versitario e nei primissimi anni settanta. Erano gli anni in cui le giovani leve dei partiti politici, in un clima di grande voglia di rinnovamento sociale ispirato dalle notizie dei fatti che si verificavano in altri paesi d’Europa e in America, sentivano il biso-gno di muoversi in una direzione sovversiva, quindi osteggiata da chi deteneva il controllo politico del paese. Dissidi in tal senso si verifica-

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vano anche all’interno degli stessi schieramenti, le linee di condotta e-rano spesso fonte di intense discussioni e contrapposizioni. E prima o poi qualcuno avrebbe finito per farsi molto male. In quel contesto, non tardarono a verificarsi scissioni e formazione di nuovi gruppi con orientamenti differenti da quello dei partiti politici. Avevo evitato di farmi coinvolgere attivamente nelle azioni studente-sche che miravano ad avere un risvolto violento, al limite del codice penale, credendo di fare la cosa giusta. Verso la fine degli anni sessanta, quando mi laureai, eravamo in pieno clima di contestazione studentesca. Quelle battaglie le avevo sempre vissute marginalmente. Capitava che riuscissero a coinvolgermi, di tanto in tanto, ma riuscii sempre a non farmi prendere in mezzo in modo sistematico. Non ci ho guadagnato nulla, anzi forse ci ho perso la stima di qualche amico, perché videro in me il servilismo muto che aveva regnato in Ita-lia in tutti quegli anni, soprattutto nell’ambiente della scuola e dell’università. Fu quindi paradossale per me trovarmi catapultato nel pieno della realtà terroristica, anche se agli occhi del professore Sibarozzi ero soltanto un corriere, un emissario comodo per attuare un passaggio di informazioni scottanti dalle sue mani ad altre mani che ne avrebbero fatto l’uso che più gli faceva comodo. E chi se ne fotteva se in questo gioco poteva andarci di mezzo la mia pellaccia. In fondo, ero solo un povero fesso che non aveva saputo dire di no; quella era l’unica cosa di cui ero sicuro. A pensare questo, mi sentii crescere dentro una sorda rabbia, ma cercai di tenerla a freno pensando che, comunque fossero andate le cose quel mattino, ormai il plico ce l’avevo con me. Ormai avevo detto di sì a Sibarozzi, e volente o nolente avrei dovuto eseguire quelle disposizioni. In fondo, non doveva essere nulla di parti-colarmente difficile. Non avrei dovuto nemmeno aprire il plico, mi ba-stava consegnarlo al destinatario. Poi se la sarebbe sbrigata lui. Il pro-fessore sembrava così tranquillo in merito ai rischi che potevo correre, e forse anche io mi stavo preoccupando in modo eccessivo. Continuando a camminare sovrappensiero, mi accorsi che avevo im-boccato una parallela alla traversa in cui abitavo. Tornai rapidamente sui miei passi e, evitando all’ultimo momento una vecchia Fiat 1100 che stava per stendermi, attraversai la strada salendo

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al volo sull’altro marciapiede, mentre il proprietario della 1100 mi strombazzava dietro con il clacson, maledicendo me e qualche mio an-tenato; il suono che si allontanava disperdendosi nell’aria assumeva nelle mie orecchie le sembianze del vaffanculo che mi era stato caloro-samente inviato dal guidatore. Giunto davanti al portone di casa, entrai e presi l’ascensore fino al quar-to piano. Appena entrato sentii con piacere il familiare odore del mio piccolo ap-partamento. Erano poco più di sessanta metri quadri, un tinello, un sa-lotto, due stanze di cui una adibita a camera da letto e un bagno né troppo piccolo né troppo grande. Il giusto per farvi centro quando an-davo a espletare le mie esigenze fisiologiche idrauliche. Da quando ero piccolo, in paese, mi ero abituato a memorizzare con l’olfatto le case dove entravo, in modo da attribuire a ognuna il proprio odore. Alcune di esse avevano un odore più forte, alcune più leggero. Alcuni odori davano la sensazione della famiglia numerosa, alcuni in-vece di case dove vivevano persone sole. Qui a Torino, in molte case popolari, si respirava sempre l’odore ranci-do di cavolo, specchio inequivocabile di certe condizioni sociali; ricor-dai con nostalgia l’odore della mia casa, in cui si mescolavano i profu-mi della natura e della cucina semplice ma sapida e genuina di mia ma-dre, l’odore del tabacco della pipa che mio padre aveva conservato tra le cose appartenute a mio nonno, alpino e reduce della disfatta di Capo-retto, e fumava di tanto in tanto. Mio padre aveva invece preso parte alle lotte partigiane, anche se all’epoca era solo un imberbe ragazzetto. L’appartamento che occupavo non aveva un odore forte, ma comunque un odore c’era. In quel momento, pensai che invece l’appartamento di via Alfieri 7 non mi aveva lasciato alcun ricordo olfattivo, come se in quella casa non vi fosse alcuna presenza stabile e tutto fosse stato pre-disposto per l’occasione; c’era solo un vago puzzo di chiuso, un’assenza di odore vero e proprio, come se quella casa non avesse un’anima. Rimossi dalla mia mente questi pensieri, spinto da più urgenti bisogni fisici. Avevo un irresistibile bisogno di sdraiarmi sul mio letto e riposarmi. Chissà se, con la testa piena di pensieri, sarebbe stato possibile. Fine anteprima.Continua...