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Antologia digitale mantovana sezione narrativa fantasticaTRANSCRIPT
Quistello in cerca... d’Autore
Narrativa Fantastica
Biblioteca di QuistelloCuratrice Anna GiraldoEditor Anna Maria BondavalliCopyright dei testi e delle immagini dei rispettivi autoriPubblicazione gratuita priva di ISBN
Immagine di copertina Max LaurenziProgetto grafico di copertina Azzurra PontiImpaginazione Azzurra Ponti
SommarioTullia Benati
1 Il lavoro di MarioAnna Giraldo
11 GiulioBruno Mazzacani
22 OceanoLina Morselli
26 La figlia del MagoMauro Fantini
37 La leggenda dell’Arco d’OroMariachiara Cabrini
54 AmnesiaSilvia Camurri
64 Elio GirasoleVanni Camurri
71 Il segreto della Selva ImmobileMarco Moretti
80 Il calzolaio della Slesia e Johannes CuntiusElena Bertani & Elisabetta Tadiello
85 Lacrime di LunaBiografie
Il lavoro di Mario
Non era una questione di talento o di passione, ma era una spudorata questione di soldi. Certo è che avrebbe potuto sopravvivere sulle spalle dei suoi, ma non avrebbe potuto farlo per tutta la vita, e neppure a lungo perché quel poco d’orgoglio e di senso di responsabilità che gli rimaneva glielo impedivano.Tutti dicevano: - Sei intelligente, vedrai che qualcosa
troverai. Basta un’idea …Sì, ma era proprio quella che mancava!Fu così che Mario decise di darsi alle scommesse.
Erano tempi quelli in cui si scommetteva su tutto nel suo paese, tutti tentavano la fortuna, chi in un modo chi in un altro, quindi non avrebbe suscitato troppi rimproveri da parte di sua madre il fatto di voler giocare.
Dapprima tentò con il metodo più antico e tradi-zionale: le scommesse sui cavalli. Ma si rese subito conto che non ne capiva molto e che, soprattutto, la corsa dei cavalli era uno sport per gente altolo-cata: ben presto si sarebbe accorta che lui non era
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dell’ entourage.Così passò al Totogol, al Totocalcio, al Totosei, al
Totoditutto, ma anche di calcio ne capiva ben poco e soprattutto non n’era entusiasmato: che perdesse una squadra o un’altra per lui non aveva impor-tanza. Era giunto alla conclusione che se la Fortuna avesse deciso di dargli una mano, lui dal canto suo doveva almeno metterci passione in quel che faceva. E abbandonò anche le scommesse sul calcio.
Non rimanevano molte chance al nostro povero Mario, che da quando aveva preso questa decisione vedeva i suoi pochi risparmi, composti perlopiù da vecchie mance premurosamente conservate e dagli esigui proventi di lezioni di latino impartite tempo addietro, sempre più diradarsi.Ormai il Casinò se l’era giocato, nel senso che lo
riteneva troppo costoso e troppo rischioso. Là le puntate di gioco erano ingenti, da gran signori! Se avesse perso quel poco che gli era rimasto avrebbe proprio perso tutto! E chi lo avrebbe poi spiegato a sua madre? No, no, non se la sentiva proprio di entrare in un lussuoso e luccicante Casinò, frequen-tato da gente ricca e snob. No, se la Fortuna lo avesse aiutato - diceva fra sé e sé Mario - sarebbe stato in un posto più appartato, più riservato, fatto apposta per lui insomma. Se lo immaginava caldo, accogliente, sicuro, un posto dove si potevano dormire sonni
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tranquilli … Sonni tranquilli?Sì, sonni tranquilli! Ripeté tutto agitato Mario: ecco
l’idea che gli mancava! La Fortuna lo avrebbe trovato in un posto dove poteva fare sonni tranquilli.
Beh, a questo punto occorre fare una nota tecnica per lo sventurato lettore, perché si dà il caso che Mario, benché fosse un tipo indeciso e incline al dolce far niente, quando aveva un’idea in testa (e un’idea buona questa volta, per giunta), correva subito a metterla in pratica. E così, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio, Mario si infilò di corsa nel suo letto.Forse occorre aggiungere anche una seconda nota
tecnica per il sempre più spaesato lettore: si dà infatti il caso che nel paese di Mario andassero di moda le scommesse e una di quelle più in voga in quel momento fosse il gioco del Lotto. Che c’entra il gioco del Lotto con il letto? Ma è universalmente risaputo, ignorante di un lettore, che i numeri da giocare si sognano, e che quindi la Fortuna li avrebbe sussurrati a Mario nel suo lettuccio, in sogno!
Così Mario si mise subito all’opera. Non aspettò che arrivasse la sera. Sua madre lo vide salire le scale e per tutta risposta al suo sguardo inquisitore ricevette un: - Vado al letto!Mario si svestì e, ancora tutto agitato, indossò il
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pigiama comodo di flanella a pois; poi, e si infilò nel suo caldo lettuccio. Era un poco difficile addormen-tarsi con tutta quella frenesia addosso ma nel giro di pochi minuti, con un sottofondo di musica brasi-liana, Mario si addormentò con il dolce pensiero di veder comparire la dea bendata, bellissima, al passo di samba.
E, meraviglia delle meraviglie … così fu.Mario si svegliò tre ore dopo con un rilassato sorriso
sulle labbra. - Addio, mia cara brasilera - aveva appena fatto in
tempo a dire fra la veglia e il sonno, quando guardò l’orologio: erano le sette di sera ed era mercoledì. Avrebbe fatto appena in tempo a correre alla ricevi-toria del paese e giocare i tre numeri sussurratigli in suadente portoghese.Non c’era tempo da perdere. Mario si cambiò
solo i pantaloni, si infilò le scarpe e con la maglia del pigiama a pois ancora addosso si precipitò giù dalle scale. Sentiva lo sguardo sempre più esterre-fatto della madre su di sé, ma non aveva tempo di dare spiegazioni. Uscì di casa sbattendo la porta. Fece appena in tempo ad entrare nella ricevitoria per giocare: erano le sette e venti.Il barbuto tabaccaio lo guardò storto: aveva forse
intravisto il colore rosso dei pois sotto la giacca marrone? Ma che importava!
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Alle otto e trenta precise, Mario si trovava tutto tremante davanti al televisore in compagnia della madre e di tutta la famiglia per seguire le estrazioni del Lotto.
8, 13, 27 sulla ruota di Palermo. Sentì annunciare.
San Paulo do Brasil e la bella Dea bendata non l’a-vevano ingannato! Incredibile! Mario aveva vinto! Non sapeva ancora quanto, ma ciò non importava. Per Mario questa era la prova che il suo metodo era esatto: la Fortuna lo avrebbe baciato in sogno. Questo sarebbe stato il suo lavoro!La madre, che non poteva contenersi dalla gioia,
saltava e lo baciava come se si fosse laureato ad Harvard, come se si fosse improvvisamente redento dagli anni di inettitudine. I fratelli, le mogli dei fratelli e i bambini lì riuniti per pura coincidenza, stavano già brindando con bottiglie di spumante e vecchi panet-toni del Natale precedente.
Tutti erano fuori di sé dalla gioia, ma: - Non bisogna fare troppo rumore - asserì la madre, guardando con circospezione fuori dalla finestra, - I vicini ci sentono e poi si insospettiscono. - Macchè … - rispose sicuro Mario - Meglio che lo
sappiano, ho un metodo infallibile per trovare numeri anche per loro!
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- Come?, Cosa? -, si inserirono increduli i fratelli - Non avrai agganci altolocati a Palermo? - Macchè…- rispose Mario con fare sempre più
saccente - Ho un metodo segreto, del tutto mio, per-fettamente legale -. E se proprio e proprio, un gancio altolocato ce l’ho a San Paulo” pensò contento fra sé e sé.
Mario non voleva rivelare tutte le sue risorse, ma non voleva neppure tenere per sé tutte le sue scoperte, voleva semplicemente farne, come si dice, un Business! - Voi ditemi quanto volete giocare sabato prossimo,
che poi i numeri e la ruota ve li do io -. Asserì Mario deciso.La famiglia rimase basita, incredula, muta.Tanto valeva crederci e provare, pensò la madre. - Va bene, io … io voglio giocare, caro … ma per
questo sabato meglio non dirlo ai vicini.
Il venerdì notte Mario andò a dormire un poco agitato. Si infilò nel letto con lo stesso pigiama di flanella a pois rossi. E se la Dea Bendata non l’avesse visitato quella notte? Se fosse stato solo un grande colpo di fortuna del tutto isolato? No, no, impossibile, si tranquillizzò Mario, se la Fortuna aveva deciso di andarlo a trovare, doveva trovarlo fiducioso, convinto e pronto ad accoglierla. Mise un bel sottofondo di musica di Bahia, e dopo poco… Zzz… era già partito
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oltreoceano, destinazione San Paulo.
La mattina seguente si risvegliò dando un bacio all’aria della sua stanza, con un pacifico sorriso sulle labbra. Era proprio bella quella spiaggia con la dolce brasiliana!
Fece una risanante doccia, si vestì di tutto punto e poi scrisse un bigliettino che lasciò sul tavolo della colazione per la madre. Riportava i tre numeri e la ruota su cui giocare, e ridendo fra sé e sé Mario vi aggiunse: “P.S. Per te questo servizio è gratis, ma poi chiederò un compenso per la fatica”.
Sabato sera, otto e trenta. Famiglia riunita come i tre giorni precedenti davanti al televisore. Mamma fremente, a tratti incredula, a tratti speranzosa, guardava il figlio Mario, in giacca e cravatta, strana-mente sicuro di sé.
90, 17, 7, Palermo.
Un bel terno secco! Di nuovo, ancora! Le urla questa volta non si contennero, la mamma era svenuta, aveva puntato una bella sommetta. L’amica del vicinato si affacciò alla finestra. Mario aveva indo-vinato di nuovo e oramai tutti in paese lo avrebbero saputo.
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Si sparse la voce che Mario avesse un dono, che Padre Pio (“P” come la ruota di Palermo) lo aiutasse, non si spensero le dicerie che conoscesse un mafioso nel capoluogo siciliano ... e poi che … e che … e che … Di fatto, fra le incertezze e la curiosità della gente, partì il Business.Per Centomila Lire a sogno (aggiornato poi a Cento
Euro) Mario sognava per conto terzi in genere un terno, quasi sempre sulla ruota di Palermo, qualche volta Salerno o Bari (quando l’affascinante Dea decideva di prendere il sole sulle spiagge di San Salvador do Bahia o si trasferiva per affari a Brasilia).Di pigiami e di CD brasiliani, in seguito Mario ne
comprò anche altri, vincendo la scaramanzia iniziale. Evidentemente anche la bella bendata lo aveva preso in simpatia e lo visitava volentieri.
Ma ciò che più importava, o meglio, che più impor-tava a Mario era che adesso aveva un lavoro! E un lavoro in piena regola, con tanto di partita I.V.A. e Commercialista. Avrebbe potuto guadagnare ciò che voleva e ritirarsi tranquillo in qualche isola sperduta, ma non era questo il punto. Il punto era che sua madre non lo considerava più un fannullone. La sua occupazione era riconosciuta socialmente da tutti, senza contare che probabilmente avrebbe creato nuovi posti di lavoro, avrebbe creato uno studio o più studi in Italia. Le potenzialità del mercato erano pra-
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ticamente infinite! Bastava sognarle. Si era persino fatto fare dei biglietti da visita. E niente di più pro-babile che il nostro paziente lettore possa trovarli in giro per bar, tabacchi, ricevitorie e negozi specializ-zati. Recano la scritta:
Il Dott. Mario Ugotti- libero professionista, regolarmente iscritto all’Albo dei Sognatori -
sogna per voi.Riceve solo su appuntamento.
Telefonare ore pasti.
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Giulio
Se non puoi combatterli, unisciti a loro.
- Giulio! Giulio! - Le voci tintinnano festose - Avanti, Giulio! Vieni a danzare! - Mi invitano liete prima di scintillare in una risata.
Il nastro di luce della rosea aurora si è appena sro-tolato a mezz’aria tra gli archi di pietra dell’Esedra. Ancora il frivolo sonaglio di una risata.
La linea retta del ponte tra le peschiere separa netta le simmetriche armonie del giardino.
- Giulio! - È un richiamo soave al quale non so resistere.
Mi presento ogni sera in divisa da custode, come da regolamento. È ridicola in questo luogo. Dormo nella branda aperta amorevolmente dalla commessa del bookshop, ogni sera prima di andarsene.
È infatuata, è evidente. Penso che dovrei chiederle di uscire una volta.
La sento sospirare spesso mentre mi saluta e mi dà la buonanotte.
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Buonanotte.
C’è ancora una stella sopra la mia testa. L’ho osser-vata impallidire nel cielo. Ha atteso che tutte le altre si assopissero per regalarmi il suo ultimo sfavillio. Sfilo la giacca con lentezza. La tengo tra l’indice e
il pollice per un istante, poi la lascio cadere a terra. Infilo le dita nel nodo della cravatta, si allenta con indolenza.
- Andiamo! Vieni alla festa! - Mi incitano in coro a sbrigarmi.Devo chiudere gli occhi per costringermi ad abban-
donare la meraviglia del sole che nasce dietro l’emi-ciclo di archi perfetti.
Le dita scivolano dalla cravatta alla fibbia della cintura, la sfilano abili.Percorro veloce la Loggia di David. Le scarpe di cuoio
schioccano come zoccoli sull’impiantito dei marmi preziosi. Uno a uno slaccio i bottoni della camicia. Il mio passo si affretta e i calzoni calano a terra.
- Giulio!Io non posso che accorrere.
Mio nonno mi diceva - Giulio, Giulio. Dai retta a me. Molla quell’idea balzana dell’Università e rimani a Mantova … quando sarò morto io prenderai il mio posto. Dai retta a me, Giulio.
Era un vecchio pazzo, il nonno. Lo trovarono una
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mattina, i suoi vestiti sparsi in giro e lui nudo come un verme, disteso sul pavimento della Camera dei Giganti. Aveva fatto il custode notturno per trent’anni senza segnare un giorno solo di malattia. Aveva la testa rotta, un grosso livido viola proprio sulla fronte e un sorriso beato stampato in faccia.Gli dèi dell’Olimpo lo guardavano affacciati all’affre-
sco del soffitto. L’occhio di Polifemo sembrava velato di una compassione nuova e umana. Da quel viso deformato dalla caduta di sassi fissava le punte dei piedi del cadavere di mio nonno.Aveva scordato di togliere i calzini, mio nonno.
Spalanco il portone.Mi avvicino al camino di pietra veronese. Fetonte
brucia e cade dal soffitto, con tutto il suo cocchio e i suoi cavalli.Il verde ramarro di stucco lancia uno sguardo
ammiccante mentre scivola giù dalla cappa del camino.Io lo seguo.Lascio le scarpe tra un passo e l’altro e la maglietta
della salute nella Camera dei Venti. Tolgo le mutande quando ormai sono sulla soglia.
Ci sono cavalli al trotto nella sala adiacente e mormorii alle mie spalle. - C’è una festa qui! - Esclamano in coro.Mi accorgo di non aver sfilato la cravatta. Quasi mi
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impicco per sbarazzarmene in fretta.Suoni di flauto e di cembalo mi accolgono. Un coro
muto di soprano e versi di menestrello.Accedo alla Camera di Psiche.
Il lavoro iniziò a gennaio. C’erano trenta centimetri di neve nel giardino pubblico del Teieto e ci nevicava sopra che parevano brandelli. I miei stivali sprofon-davano completamente, la neve vi entrava dall’orlo del gambale, soggiornava per un istante, in appa-renza innocua, poi scivolava giù e impregnava i cal-zettoni di lana. Il cielo di madreperla si era tenuto a battesimo un freddo bianco e luccicante.
Palazzo Te non ha un impianto di riscaldamento.Io lo fissavo. Immobile da più di cinque secoli nelle
sue fondamenta, sulla sua pietra l’ultima neve non si sarebbe sciolta che a primavera. La commessa del bookshop mi consigliò di portarmi
una termocoperta, ma il responsabile che mi spiegava il lavoro la fulminò con lo sguardo e disse che mai avrei potuto portare una siffatta bruttura moderna tra le mura del magnifico palazzo.
Allora pensai che avrei passato tutte le mie notti nella gelida fissità di quell’arte antica fatta di déi nudi sui loro cocchi dorati. Senza luce, né calore, l’unico che mi avrebbe fatto compagnia sarebbe stato il fantasma di mio nonno.
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- Giulio! - Le Ore spargono petali variopinti e mi chiamano. Uno dei Satiri, geloso, emette un suono strozzato. Eccola! Poggia i ditini sottili sul tavolo bianco. Il suo
profilo è perfetto. Con l’altra mano indica il dio mes-saggero. Anch’egli è invitato al banchetto.Il fruscio del suo peplo l’accompagna mentre si gira
e si rivolge a me.Porta alla bocca la stessa manina che poco fa
indicava Mercurio, nei suoi occhi lo sguardo è tenero e ammiccante - Oh! Giulio! Indossi ancora quei ridicoli calzari? - Indica i miei calzini blu. Dimentico sempre di toglierli prima.
So che devo fare io il primo passo. È molto più dif-ficile per loro.
Allora lei tende la mano e fa un passo a sua volta. Si muove. È lieve e fatata nelle sue curve procaci avvolte appena da un velo discinto, una farfalla, libera a un tratto dal suo bozzolo. Si schiude lenta.
È sempre un batticuore.
Il fantasma di mio nonno non venne mai.La prima notte non ero riuscito a prender sonno.
Con l’intento di scaldarmi i piedi, mi ero aggirato per le camere del Palazzo. Con un latente senso di colpa, avevo puntato la luce della torcia elettrica contro gli affreschi e gli stucchi. Tutti i personaggi raffigurati erano indifferenti a me, al mio congelamento, alla
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mia solitudine. Per più di una volta ero tornato nella Camera di Psiche ad ammirare i corpi armoniosi delle due ninfe dipinte ai lati del soffitto nell’atto di versare l’acqua. Mi ero lasciato prendere dal panico. Quale affresco avrei contemplato la notte successiva? Forse i sei cavalli mansueti nella stanza adiacente? Oppure quelli lanciati al galoppo sospesi nella volta della Camera del Sole e della Luna impegnati a trainare la biga di Selene e la quadriga di Apollo?Prima dell’alba, colto dalla stanchezza, avevo
dormito un paio d’ore nel sacco a pelo sopra la branda aperta nel bookshop.La notte successiva mi portai da leggere. Mi avvolsi
in tre strati di coperte fino al naso e passai tutto il tempo assorbito dal mio libro. Nell’ora precedente all’aurora, con le dita e il naso congelati, mi assopii.
Le sue tette sode sono l’ottava meraviglia. Ravvia i riccioli con un gesto studiato e sorride. Mi porge l’indice e il medio perché io li baci.Eseguo servile.La festa si sta animando. Un fanciullo si è lanciato
fuori dall’affresco con la vivacità dei suoi anni. Saltella intorno improvvisando una danza. Poi corre a tirare la fune cui è legato un caprone. Un volo di amorini si stacca all’improvviso in una
risata allegra. Raggiungono le ninfe dentro la lunetta sopra la mia testa e le invitano a uscire.
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L’elefante barrisce dalla parete alle mie spalle. Mi fa sobbalzare.- Giulio! Ti prego. Libera quel bizzarro quadrupede
- cinguetta lei distogliendo la manina dalle mie labbra per indicarlo e mentre lo dice il velo scivola scopren-dole il pube. Lei non se ne cura e saluta le sue ancelle uscite da una lunetta della parete meridionale con un cenno benevolo del capo.
Annuisco. Ma prima di muovermi faccio scivolare il braccio nell’incavo morbido della sua schiena.- Non da solo. Aiutatemi Voi - la lusingo reverente.
Di notte lavoravo. Nessuna ragazza mi avrebbe mai preso sul serio se le avessi chiesto di uscire il pome-riggio. Tranne la Dina. Lei faceva la maestra ele-mentare e lavorava solo il mattino. Non fece storie, quando l’invitai a cena alle sei del pomeriggio.Una volta, in primavera, la feci entrare di nascosto
passando dal ponte tra le peschiere. Per tutta la notte la portai in giro per le camere e le logge del palazzo. Se provavo ad abbracciarla, si scostava e mi diceva di puntare la torcia su questa o quella parete. Lei a Palazzo Te non era stata mai e voleva vedere tutto quanto. Tentai di spiegarle che non si può vedere bene tutto a Palazzo Te, nemmeno in cent’anni, ma finse di non capire e continuò a curiosare a destra e a manca corredando le sue scoperte migliori con gridolini sommessi. Alla fine la condussi nel giardino
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segreto. Lei volle contare le stelle una ad una e rimase con il naso per aria finché il cielo iniziò a schiarire. Allora io la trascinai nella Grotta e, tra le madreperle luccicanti, riuscii finalmente a farle l’amore.Ma un istante prima che la nostra passione rag-
giungesse il culmine, ad un tratto, mi parve di udire un sospiro. Un sospiro diverso. Né mio, né della Dina.Alzai gli occhi e il cielo sa per quale motivo non
mi venne un infarto e non rimasi secco sopra di lei. C’erano un uomo e una donna in piedi accanto a noi. Si tenevano la mano e sospiravano.
La Dina lì sotto non si accorse di nulla. Stava mugolando di piacere a occhi chiusi. Così portai a termine in fretta e furia il mio lavoro e poi la baciai a lungo, come sapevo che le piaceva, sussurrando - Stai lì, adesso. Tieni gli occhi chiusi che ti faccio una sorpresa.
- Ritieni che io sia bella, Giulio? - Bisbiglia al mio orecchio in cerca di complimenti.- Siete la più bella - tolgo un acino d’uva dal graspo
antico di cinquecento anni e lo avvicino alle sue labbra.Si scosta capricciosa - L’ho sentita, oggi, quella
guida turistica antipatica, sai!? Dice che io non sono io! Per tutti gli déi dell’Olimpo! Mi ha scambiata per una di quelle sciacquette perditempo - indica indi-gnata una delle Ore.
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Mi porge di lato la manina perché io la baci ancora.Intanto sono iniziate le danze.Al centro, gli sposi, Amore e Psiche. Si guardano
adoranti mentre volteggiano al canto delle ninfe. Tutto intorno damigelle e gentiluomini, satiri e putti. Una pioggia di fiori scende delicata dalle mani dei fanciulli alati. Bestie esotiche si aggirano tra i con-venuti. Poco distante da noi è adagiata una tigre, un bambinetto la imbocca di carni alla brace.Bacio la sua mano e proseguo sull’avambraccio, su
su fino al collo. Tengo le sue dita tra le mie, basta una lieve stretta perché intuisca l’invito.Annuisce e ride. Ride come un tintinnio così a lungo
che mi pare di percepirvi una melodia. E quando il suo riso termina tra le mie labbra, con uno, cento, mille baci ella si concede a me tra i cinguetti festosi delle sue ancelle.
La Dina aveva gli occhi chiusi.Io guardai attentamente quelle due figure, nella
luce crescente dell’alba.Avevano entrambi un viso famigliare. Stavano lì, in
silenzio, e guardavano. Allora ricordai alla Dina di non aprire gli occhi. Mi distolsi da lei e andai a controllare i mosaici. In quello della balena, cavalcata da Astolfo e Alcina in fuga, era rimasto soltanto il cetaceo.
Verificai con attenzione prima di crederci. Astolfo e Alcina erano usciti dal loro affresco e stavano osser-
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vando noi. Era proprio vero.
Un boato fa tremare i muri. La festa si congela di colpo.- Ancora quei cafoni dei giganti! - Sospira lei delusa - Possibile che rovinino sempre tutti i nostri piani?Un altro boato ancora più possente.Psiche si precipita alla porta. È già in lacrime. Non
gliene va dritta una, poverina.Dietro di lei c’è Amore, tutto premuroso, ma pian-
gerebbe volentieri anche lui. Come ogni volta, stava aspettando di avere un po’ di privacy prima di consumare.Io l’ho capito già da un pezzo, invece, e anche oggi
ho avuto l’accortezza di cogliere l’attimo.
A Palazzo Te, la Dina non l’ho mai più fatta venire.L’ho sposata. È durata quasi un anno. Quanto l’ho
lasciata, lei mi ha domandato – Hai un’altra?Le ho risposto – No – poi me ne sono andato in
tutta fretta, erano quasi le otto, l’ora del mio turno a Palazzo Te.
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Oceano
Remoti ricordi emergono ora tra le tortuose vie di un cervello che sta invecchiando ove assillanti pensieri tornano a rivedere l’inizio di una vita terrena.
Ricordo che pochi attimi dopo la mia materiale presa di coscienza di esserino apparso in un caldo e sicuro ambiente sempre in movimento vidi tanti forse migliaia forse milioni di miei simili. In un attimo di frenetico terremoto tutti con entusiasmo al suono di una carica suonata da trombe boschi caverne piccole e grandi qualcosa ci incitava a correre forte sempre più forte.
Arrivare primi anche con il fiatone era importante anzi indispensabile.A nord esserini tondeggianti attendevano uno di
noi. Feci ad altri lo sgambetto e con impeto a me sconosciuto mi buttai violentemente su quell’ovino ne sentii subito il calore e penetrato tra le sue pareti mi adagiai sfinito. Avevo colpito per primo l’obiettivo e mi addormentai sognando cose nuove mai viste prima.
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Fui svegliato di soprassalto e non so chi mi comandò di mettermi al lavoro. Mi fu detto che gli altri mie fra-tellini si erano smarriti e non trovando la giusta meta avevano preso altre vie. L’ambiente che mi ospitava era caldo e sicuro e il mio lavoro continuava bene anche se a volte mi prendeva la stanchezza. Passò un po’ di tempo e la mia immagine si fuse con ciò che mi circondava cambiavo continuamente d’aspetto e di volume. Sentivo attorno a me rumori emozioni nuove a volte frizzanti a volte tranquille o di malessere. Allora non sapevo dell’esterno io conoscevo quel
mare non quale oceano ci fosse oltre quell’uni-verso forse qualcosa di grande di importante che si muoveva e che ci forniva di cibo per nutrirci. Spesso si sentivano voci altoparlanti che comunicavano strane notizie ancora incomprensibili ma che piano piano io recepivo. Mangiare bere ascoltare un poco di ginnastica e tra
il cullare delle onde crescevo. Un pezzo più lungo un altro più grosso e tondo una protuberanza piccola e importante qualche foro e a metà via un tubo un cordone da cui arrivavano prelibati alimenti. Ero un fagottino e mi feci piano piano più birichino avevo imparato a fare scherzi e a scalciare ma oltre il mio universo sentivo pace quiete e per ciò che combinavo non era mai rimproverato né castigato.
Sentivo che passava il tempo avevo una stanchezza universale avevo voglia di emigrare da quel globo
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per esplorare altri universi. Chissà cosa avrei trovato forse una spiaggia asciutta o altre cose che mi erano state riferite da quando pian piano avevo cominciato a capire i rumori le sensazioni e a comprendere il significato delle parole che venivano dall’alto forse da un’altra galassia da un mistero che avrei voluto vedere. La mia curiosità si faceva sempre più grande e ascoltavo con grande attenzione ciò che arrivava dal mondo esterno a volte sentivo tensioni ostili al mio ambiente chissà cosa succedeva in quel mondo. Poi tutto cessava e sentivo un grande benessere c’erano stati tempeste trombe d’aria sconvolgimenti e cose che non riuscivo a capire.
Nuotavo fantasticavo pensavo a cosa sarebbe successo se il mio nudo corpicino di colpo fosse stato trasferito in quell’universo misterioso di cui cono-scevo solo i rumori e le sensazioni trasmesse.
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La figlia del Mago
Apro la finestra per far entrare la nebbia. In quest’ora e in questo periodo, a spirali e fiotti, è la migliore. Non mi piace il flusso continuo, non ha ritmo, mentre i fiotti di nebbia possono farsi beffe della leggerezza e seguire il battito del maglio che fin qui mi ha condotto, a fare di me quella che sono. Io racchiudo il rumore e il suo peso; il definitivo
gesto dell’abbattimento e il tonfo cadenzato trovano spazio tra le pieghe fluenti del mio abito, e nei refoli di nebbia. Le altre non lo sanno, guardano altrove, nessuna
mi ha mai fissato. Ma io le ho passate una per una in rassegna, intru-
folandomi sotto le pieghe che incorniciano l’ovale del viso. Volevo sapere come sono, cosa distingue loro realmente da me, che sempre ho saputo chi ero, fin da bambina, fino ad averne la conferma a otto anni, in un giorno di febbraio. Nebbia a banchi.
Cammina all’indietro di nebbia in nebbia, di giorno
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in giorno, di anno in anno. Racconto di bambina, ricordo vivace, parole diverse a descrivere il tempo passato.
Bella ero. Di mia madre gli occhi azzurri, di mio padre tutto il resto.
Piccola e armoniosa era mia madre, lavandaia.Prima di mettere a bagno un vestito, un lenzuolo
o una camicia, fisso li guardava, tra mani e polsi se li rigirava, li appallottolava per poi riaprirli, li faceva spesso frusciare avvicinandoli a un orecchio. Mia madre i tessuti li faceva parlare, ne conosceva l’intima natura. Mai ha sbagliato un lavaggio. Di fretta andava, in fretta apprendeva gli acquatici bisogni delle varie tessiture e con rapida precisione dosava la concen-trazione dei saponi e la temperatura delle liscive, poi il bucato affondava fino in fondo al mastello e a volte le braccia immergeva fin quasi alle ascelle.
Mia madre alla fine sciacquava, non una lacrima di sapone rimaneva e in silenzio guardava l’ultima acqua fredda e quasi pulita del risciacquo finale, fino a quando dal buco del mastello spariva in un ultimo gorgo osceno con quel suo verso quasi digestivo.Io mia madre guardavo. La biancheria ho imparato
a piegarla appena ho potuto. Non mi sono mai posta il problema se farlo mi
piacesse o no, lì ero per un caso necessario, perché l’arrivo di mio padre aspettavo.
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Il fumo della nebbia e il fumo del bucato, il bianco dell’una e dell’altro, l’artificio è già pronto, tocca l’umido, stringi il vapore, sfrega le mani e apri gli occhi.
Alto e statuario era mio padre, bene si vestiva, frutta e granaglie commerciava, in bicicletta si spostava. Una bella bicicletta nera con la canna lucida sempre, un fanale rosso dietro e giallo davanti, per la nebbia.
Poco parlavamo io e mio padre, ma tutto lo stesso ci dicevamo. Lui arrivava e subito vicini stavamo io e lui. Ci guardava, mia madre, e ha capito a forza di guardarci. Una donna intelligente era.La figlia del mago io ero. A volte la gente esprimeva
sospetti:Nell’orto sputava su un pomodoro.Da solo cantava davanti al pozzo con voce di donna.Non va a messa, ma smette di pedalare davanti alla
chiesa.La gente ha una gran fantasia, ma a volte ci prende,
senza volere.Un mago era mio padre.
Guardatelo bene, è un mago, è un mago!
Negli occhi mi fissava mio padre e intanto le sue mani intrecciate alle mie teneva, grandi le sue con le piccole mie. Due pagine di pelle su cui scrivere ciò che era necessario mettere in circolo. E il circolo
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funzionava, due fluidi eravamo io e lui, una chimica aliena ci univa. Un giorno è arrivato mentre pelavo patate:- Io temo i coltelli, quando vengo da te devono stare
dentro ai cassetti. Mi piace invece sentire quando battono il frumento e il frumentone sull’aia. Molte cose devi ancora imparare.Avevo sette anni allora e il coraggio mi mancava per
chiedergli se vivere il suo tempo o quello di mia madre.Non erano sposati i miei genitori. Mio padre sì, con
un’altra donna da cui due figli aveva avuto. La moglie abbastanza ricca, ma i figli erano vuoti. Mio padre aveva visto mia madre mentre sussurrava qualcosa a un lenzuolo e aveva capito che da lei avrebbe avuto figli pieni. Io ero la sua figlia piena.
Mia madre amava mio padre, mio padre non amava lei. Voleva me, mio padre, e basta.
Amore terreno, di donna artigliata, possesso sicuro e legame vitale: la donna lo cerca, il mago non vuole. Ma vale la forza dell’artificio, regge la bava dell’incantesimo.
Una casa voleva mia madre con lui. Di insulti lo copriva, ma lui neanche rispondeva. Con violenza lo schiaffeggiava, ma lui fermo restava e niente il volto gli segnava.
Io alle liti assistevo con indifferenza, a volte provando pena per mia madre, che invano sperava di
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fargli del male. Sperava che, inferto da lei, il dolore fisico potesse convincerlo a cambiare idea. Terapia banale, che a volte funziona, ma lui aveva una sensibilità straniera, da cui solo la punta affiorava, chiamata dagli altri egoismo. Il mago, mio padre, a schiaffi e sputi non reagiva, a guardarla si limitava per riportarla all’incantesimo del lenzuolo. A quel punto io, che la mia parte silenziosa recitavo dietro i mastelli d’acqua calda, potevo anche andarmene.
Fino a quando con una bastonata sulla testa lei lo ha colpito. Verso di lei lui si è girato e l’ha guardata come mai più ho visto fare da altri esseri viventi:
- Non puoi farcela, mai verrò a vivere con te. Neppure la tua violenza mi può toccare, non hai ancora capito?Ci ha guardato da allora mia madre con morbosa
e maniacale attenzione. Non cedeva, voleva averla vinta ad ogni costo, doveva trovare il modo di tener-selo tutto per lei. Era dietro la porta quella volta che le patate pelavo. Quello è stato, nelle nostre vite, uno dei giorni fatali.
Ha capito, non resta che agire, la lama impugnare, il sortile-gio spezzare, la vita finire e il possesso affermare. E’ un mago, ma più incantamento lo dà la follia.
Ritorna a quest’oggi, riprendi il linguaggio e rivivi la scena, incastra il passato in questo presente. Rialza la voce, scandisci parole, finisci l’infanzia, diventa una donna.
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Nella nebbia di febbraio lo ha atteso per più di un’ora fuori dall’osteria. Mi credeva chiusa in casa, ma ero uscita da una piccola finestra della lavanderia e stavo poco distante da lei, dietro a una colonna dei portici. Lei stringeva il manico del coltello. Lama lunga e
affilata, punta acuminata, un’arma buona in cucina come in mano a chi deve dare il colpo di grazia al maiale da macellare.
Lui è uscito col cappello in testa ed è salito in bici-cletta. Lei gli si è avventata contro, con una violenza fredda e quasi misurata. Mentre lui cadeva sulla strada di ghiaia, lei urlava:
versi con parole, amore profondo e odio senza fine, delirio di possesso e vendetta. Il coltello si affondava con un rumore sordo, come se si incastrasse in un sacco di frumento, una volta, due, tre … Ho contato ventiquattro colpi, restando immobile in quei miei otto anni che già valevano cento volte di più, asso-lutamente cosciente che tutto doveva compiersi e che ora restavo io al posto di mio padre, a vivere un tempo diverso, a scoprire tutto di me, che era come scoprire tutto di lui. Mia madre uccideva mio padre nell’unico modo
previsto e possibile.Toglieva la vita a lui, una vita pronta a sfidare il
tempo e la natura, per lasciarla del tutto a me. Mia madre accoltellava quanto era stata, quanto
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aveva vissuto, affondava una lama nelle sue scelte sbagliate, pareggiava i conti con il suo amore e il suo odio, rinunciava al suo tempo a venire, dando alle infinite ore della sua trentennale galera il suono sordo dei colpi mortali, come un ossessivo ticchettio di un orologio omicida.
Di me non si era accorto nessuno di quei dieci uomini usciti correndo dall’osteria e rimasti impietriti a guardare lo scempio. Dieci uomini grandi e grossi incapaci di intervenire, nessuno ha avuto la presenza di spirito di aggirare mia madre, prenderla di spalle e immobilizzarla. Certo, lei aveva un lungo coltello in mano, ma era pur sempre una donna piccola …
Ma no, cosa mai pensavo?Ero una donna anch’io, come lei, e come lei capivo
ciò che mio padre non mi aveva detto, perché quello lui non lo sapeva, o forse non aveva fatto in tempo a dirmelo: fino a che punto può arrivare quella che molti si ostinano a definire “solo una femmina”, cosa può fare la vista del sangue, quanta forza può pos-sedere chi appare debole, quanta paura e pochezza possiedono i maschi che molti si ostinano a chiamare “uomini”, quanto male faccia sprecare l’amore, quanto sia impalpabile il confine tra amore e odio, quanto vale una donna.
Mia madre aveva venticinque anni quando è diven-tata assassina.
Al processo so che ha confessato tutto, ha chiarito
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tutti i particolari, ma non ha risposto ad un’unica domanda, quando le è stato chiesto perché non avesse pensato per esempio al veleno, ma avesse scelto proprio un coltello per uccidere.
Mia madre mi voleva bene.
Continua, rimani reale, seppure ancora per poco, disvelati adesso e lascia che il seguito induca stupore. Affidati al vero, e nulla lascia in sospeso.
Sono andata un po’ a scuola, nel collegio di suore dove mi hanno mandata dopo la sentenza. Mi è piaciuto studiare e ho pensato che potevo conti-nuare a farlo in santa pace chiudendomi nello stesso convento.
Adesso sono qui e non posso dire di trovarmi male, anche se questa non è certo la mia ultima desti-nazione. Ho davanti a me tutto il tempo che voglio e prima di ripartire devo essere ben certa di tutto quanto posso aspettarmi e pretendere da me.A volte sono tentata di restare qui, tra queste grandi
mura protettive, a modulare la mia voce insieme a quelle delle altre suore e a chiuderla poi nel mutismo obbligatorio, che a molte pesa, ma che per me è un vero sollievo.
Le cosiddette consorelle conoscono la mia storia e mi ritengono un simbolo della forza salvifica della fede.
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Non so se la fede possa salvare da qualcosa o da qualcuno, io non sono qui per quello, ma certo non sottovaluto questo tipo di forza che si oppone alla dannazione. Anzi, spesso apro una mano e materia-lizzo la fede in un’ametista o in un rubino, e quei bagliori cangianti che toccano la mia pelle bianca scuotono il flusso interno come un vento caldo di scirocco. Per me la fede è una gemma che si armo-nizza col sangue, per le altre pare possa essere, al massimo, un banale diamante …
Non dirò loro la verità solo per non deluderle, e anche per non indurre qualche anima semplice alla follia dell’orrore nel riconoscere addirittura una strega demoniaca in abiti religiosi.
Strega, strega! Figlia del Mago!
Certo, è corretto definirmi strega, come si addice alla figlia di un mago, ma i momenti di preghiera non mi pesano, partecipa solo una parte di me, l’altra metà si trova altrove. Ho inventato un gesto furtivo che mi permette di
iniziare un intreccio di mani come quello tra me e mio padre mentre abbraccio le consorelle durante la messa. Spero così di scoprire se incontro un’altra suora casuale quanto me, e possibilmente strega.
Prevedo di stare qui per qualche anno ancora. Nella mia cella c’è una piccola finestra, come
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quella della lavanderia, quindi uscirò ancora da lì, di nascosto, in un giorno nebbioso di febbraio.
Tutto ciò che avrò capito e imparato verrà via rac-chiuso tra le pieghe voluttuose del mio abito nero. L’ho maneggiato più volte come ho visto fare a mia madre, so come comportarmi con lui.Per il resto dei miei giorni, di certo, eviterò il più
possibile i pesi oscillanti, i martelli, le mazze, i colpi sordi e le fabbriche in cui sia necessario azionare un maglio.
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La leggenda dell’Arco d’Oro
I
Si narra di un’antichissima arma, ormai perduta nel tempo, grazie alla quale un guerriero divenuto poi cavaliere sconfisse un nemico temuto da molti.
Era da un secolo, ormai, che le città del nord ricor-davano le sue gesta. E lo facevano con sorprendente meticolosità. Ogni anno, nel giorno dell’anniversario della liberazione, veniva celebrata una grande festa in onore del cavaliere. Tutti gli uomini che abitavano nei territori un tempo dominati dal nemico si radu-navano nel Castello di Granito, e là un cantastorie soleva intrattenerli a voce alta. Il re e la regina parte-cipavano anch’essi alla ricorrenza, solari e benevoli, dai loro scranni di pietra.Qualche giorno prima della festa, due individui si
fermarono in una locanda lungo il sentiero. Ancora
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molte ore di viaggio li separavano dal festoso castello, così decisero di rifocillarsi e di trascorrervi la notte. Entrambi portavano abiti lussuosi sotto il mantello, e se non fosse stato per la polvere accumulata durante il viaggio probabilmente sarebbero stati scambiati per nobili. Ma i modi bruschi dimostravano esattamente il contrario. Sostenevano di essere valorosi guerrieri provenienti da luoghi tenebrosi e ancestrali. Erano giunti per ascoltare la leggenda dell’arco
d’oro.- Non è una leggenda, signori - borbottò il locan-
diere. - Il cavaliere che ci ha liberato è esistito davvero, e così anche il famoso arco d’oro.
- Stammi a sentire: noi abbiamo affrontato bat-taglie di ogni sorte e l’abbiamo fatto con le nostre lame - gli rinfacciò il più anziano dei due guerrieri, accarezzando l’elsa della spada.
Altrettanto fece quello al suo fianco. - Non abbiamo mai visto un arco d’oro in tutti questi anni sul campo. Per cui vogliamo sentire la storia con le nostre orecchie!
Il locandiere, stanco delle loro maniere, fece per dirigersi verso la cucina, ma uno dei due lo afferrò per una spalla.- Vogliamo mangiare, intesi? E prepara la stanza
più bella di questa topaia. - Ma ve l’ho già detto! Le stanze sono tutte pre-
notate! È sempre così in questo periodo. Non posso
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soddisfare le vostre richieste. Per quanto riguarda il cibo … - deglutì inquieto, - tirate fuori i soldi e io vi servirò.
- Hai sentito, Ruk? Questo vuole farci andar via. Che cosa gli rispondiamo?- Credo che abbia voglia di scherzare. Noi siamo
cavalieri: pretendiamo rispetto! O l’unico tintinnio di metallo che sentirai sarà quello delle nostre spade. Portaci da mangiare alla svelta, altrimenti ... L’uomo s’interruppe. Dita d’acciaio gli afferrarono
la spalla allo stesso modo in cui lui aveva fatto con l’oste. Quando si voltò, trovò una figura incappuc-ciata a distanza di respiro.
- Credo sia venuto il momento di andarvene. Il guerriero cercò di guardare il volto del suo oppo-
sitore, ma non vide altro che il cappuccio calato fino al naso. Cercò di liberarsi dalla morsa, ma non riuscì neanche in quello.- Levati! - gridò. Il suo compagno cercò invano di
liberarlo.- Dite di essere cavalieri, ma non sapete nemmeno
che cosa significa. Vergognatevi! - li ammonì.- Chi credi di essere?! - urlò Ruk.- Nessuno. Ma odio chi si spaccia per cavaliere.
Molti uomini più valorosi di voi hanno dato la vita per esserlo. - Se non vuoi che ti tagli la lingua - intervenne
Mosas, sguainando la spada, - devi dirci chi sei. E
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comunque non te ne andrai senza pagare per averci insultato.L’uomo incappucciato non lo considerò neppure di
uno sguardo; anzi, in tutta risposta tornò a sedersi al proprio posto e si rimise a mangiare in silenzio.I due guerrieri fecero un passo verso di lui, l’acciaio
nel pugno.- Vi conviene riporre le armi, signori, o qualcuno si
farà del male. - Credi di spaventarci? Siamo in due contro uno. Tu
inginocchiati, e può darsi che non ti faremo niente. L’uomo si tolse il cappuccio, svelando un intrico di
rughe e due occhi di ghiaccio. - Non combatterò con voi. Piuttosto vi racconterò
una storia. Piantatela di comportarvi da sciocchi e ascoltate. In questo modo sarete voi a decidere se meritate l’appellativo di cavalieri oppure no.
I due obbedirono improvvisamente, come attratti da una forza superiore. I suoi occhi non ammette-vano repliche. L’aspetto poteva anche essere quello di un vecchio, ma il portamento e la voce erano quelli di un uomo nel pieno della giovinezza. Anche il locan-diere ne rimase meravigliato.- Non avrete bisogno di alloggiare qui. Sarò io a
raccontarvi la leggenda dell’arco d’oro, e vi assicuro che la mia è quella che si avvicina di più alla realtà. E ora mangiate con me - li invitò con un cenno. - A stomaco pieno si ragiona meglio.
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II
I due guerrieri mangiarono sino a scoppiare. Solo allora si accasciarono sulle sedie di legno. Il vecchio sorrise e si pulì le labbra con calma, poi iniziò a rac-contare la leggenda dell’arco d’oro. La stessa che adesso sentirete anche voi …
Un tempo tutte le città del nord erano sotto la pro-tezione del Castello di Granito. Apparentemente indi-struttibile, era ritenuto il luogo più sicuro al mondo: ospitava centinaia di soldati, viaggiatori, mercanti e contadini. Il re, rimasto solo dopo la morte della consorte, dedicava ogni minuto del proprio tempo al regno, e grazie alle sue doti la popolazione conti-nuava ad accrescere. Tutti conoscevano il generoso re Voester. Un giorno, mentre si trovava a passeggio nel suo
giardino privato, un emissario volle essere ricevuto con urgenza. Portava con sé una lettera macchiata di sangue e la consegnò di persona nelle mani del re prima di morire. All’inizio non era parso in condizioni tanto gravi. Era ferito a un braccio in maniera super-
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ficiale, ma ciò nonostante il medico di corte non riuscì a salvarlo.
- Non ho mai visto una ferita simile, sire. Perdo-nami se non sono stato in grado di soddisfarti.
Il re, turbato a sua volta, consolò il medico e lo congedò. Aveva già aperto la lettera e radunò in fretta i suoi più stretti collaboratori.- Signori, per anni abbiamo difeso queste mura e
prestato soccorso a chiunque ne abbia fatto richiesta. Oggi siamo conosciuti da tutti come i protettori di un regno giusto e pacifico. Il Castello di Granito è diven-tato un simbolo, ma adesso incombe una minaccia pericolosa. Vi ho fatto chiamare perché possiate con-sigliarmi sulle mie decisioni. Il mormorio nella sala crebbe. “Cosa turbava il re
a quel modo?” si chiesero tutti i presenti. Nella sala si trovavano il prode generale Hisur, il Primo Ministro Alastor e il medico di corte, Rolak, nonché amico intimo del re. Re Voester si fidava ciecamente di loro.- Maestà - lo chiamò il generale, - cos’è che vi turba?
C’entra forse l’emissario che vi ha dato la lettera? - Già. La lettera contiene l’ultimo volere del sovrano
di un regno molto distante dal nostro. Pare che un drago abbia attaccato le terre al di là del mare. Ma questo drago non è come gli altri, così lui sostiene. Le spade e le frecce non lo scalfiscono. Non sputa fuoco, bensì una nebbia che uccide in poco tempo chiunque venga avvolto in essa. Per questo non
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abbiamo potuto salvare il messaggero. La ferita sul suo braccio era dovuta al drago. Non esistono cure al suo attacco: soltanto un’arma… forgiata dagli elfi. E un solo guerriero è in grado di brandirla, ma ne sono state perse le tracce. Il medico di corte intervenne. - Il drago sta venendo
qui?- Così pare -. Il re mostrò la lettera al suo consigliere
fidato. - Come puoi vedere, la lettera è incompiuta. Il re dev’essere morto prima di portarla a termine, ma l’emissario ha voluto intraprendere il viaggio lo stesso. Non so quando il drago arriverà, ma non ho intenzione di restare a far niente -. Negli occhi del re brillava l’audacia. - Generale! Devi fare di tutto per trovare questo guerriero. Scegli sei dei tuoi uomini più valorosi e recati dagli elfi. Loro forse potranno aiutarci. Tutti gli altri penseranno a difendere le mura.
Il primo ministro, che fino a quel momento non aveva parlato, annuì. - Sbarriamo porte e finestre e forse la nebbia non ci colpirà.
Il re annuì. Con molta probabilità non sarebbe servito a nulla sigillarsi all’interno degli edifici, ma valeva la pena tentare. - Non sappiamo quando arriverà il drago. Sbrighia-
moci.
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III
Dopo due giorni di viaggio verso il regno elfico, il generale Hisur e i suoi soldati giunsero nel bosco. Nessuno di loro si era mai addentrato in esso, né tantomeno aveva parlato con un elfo. Spinti comunque dal desiderio di fermare il drago,
si inoltrarono nel cuore della foresta fino a raggiun-gere una particolare costruzione bianca di legno. La porta d’ingresso alla quale bussarono si aprì imme-diatamente, e i sette entrarono con le dovute precau-zioni, il generale in testa.
- Vi stavamo aspettando - li sorpresero due elfi, comparendo dal nulla. - Non abbiamo tempo per le presentazioni. In verità non abbiamo tempo per niente. Voi cercate il guerriero che possiede l’arco d’oro, ma qualche giorno fa egli è caduto in un’im-boscata. Toras, questo è il suo nome, era a capo di una spedizione per sconfiggere il drago. Ma la bestia ha prevalso, sterminandoli. Toras è l’unico a essersi salvato. A un prezzo, però: ha perso l’uso della parola e dell’udito, e non ricorda nulla. Non sa dove si trova, né come si chiama, né perché nelle mani stringe un
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arco d’oro. Toccherà a voi aiutarlo. Hisur si avvicinò per chiedere altre informazioni, ma
loro scomparvero così com’erano apparsi. Non era solito che gli esseri umani potessero avvicinarsi così tanto agli elfi, e Hisur si considerò già fortunato …
- Se fossi stato presente, non li avrei lasciati certo andare quei tizi dalle orecchie a punta! - intervenne Ruk con risolutezza.L’amico gli fece cenno di tacere. - Va’ avanti, vecchio.
La storia comincia a farsi interessante. Allora, Hisur e i suoi uomini trovarono Toras oppure no?
Il vecchio sorrise, compiaciuto. Aveva ottenuto lo scopo che desiderava. - Certo che lo trovarono. Il problema, però, si pose ugualmente. Toras non sapeva dove si trovasse, e ancora peggio non aveva memoria di quale fosse la propria missione. Neppure l’arco, pensava il generale, poteva servire a qualcosa finché non avessero ritrovato le frecce forgiate per abbattere il drago. Il vecchio lanciò un’ultima occhiata di soddisfazione
ai due guerrieri; poi proseguì.
Hisur sapeva di non avere molto tempo per portare Toras al Castello di Granito. Il viaggio fu estenuante, ma per fortuna privo di insidie. Attraversarono solo due villaggi … o quello che restava di essi. Il drago aveva già cominciato a scatenare la sua rabbia,
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lasciando solo ossa e cibo per i corvi. Non c’erano sopravvissuti. Tutti si chiusero in un cupo silenzio: si chiedevano se anche a loro sarebbe toccata la medesima sorte.- Il tuo nome è Toras. Sei stato inviato per sconfig-
gere il drago e ti è stato dato l’arco che possiedi. So che non puoi sentirmi, ma prova a leggermi le labbra. Conoscevo un valoroso cavaliere che comprendeva con chiarezza tutto ciò che dicevo. Anche lui aveva perso l’udito per colpa di una malattia.
Toras lo osservò senza capire una sola parola di quello che il generale diceva. Il viaggio proseguì e in sei giorni riuscirono a tornare al castello. Per fortuna il drago non era ancora riuscito a spazzarlo via. Il luogo era molto diverso da come lo avevano lasciato. Sembrava disabitato da secoli. Non c’era un abitante, non un rumore. Tutto era avvolto nel più totale silenzio.
Hisur si diresse immediatamente ai sotterranei del castello insieme ai suoi soldati e a Toras, il quale li seguiva senza mai porre domande.
Re Voester fu subito entusiasta di rivedere il suo generale. All’udire il triste destino di Toras, però, si rattristò. Ormai era tutto perduto. Senza il suo aiuto come potevano pretendere di sconfiggere un nemico così potente? Il destino del regno stava per compiersi.
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EPILOGO
Tutti i soldati erano schierati sui bastioni del castello, le armi in pugno. Pur sapendo che non ci sarebbe stata vittoria, nessuno di loro si voleva arrendere senza tentare. Ogni abitante della città era stato messo al sicuro; non restava che combattere. Prima di raggiungere le altre città del nord il drago avrebbe dovuto assaporare l’acciaio del Castello di Granito.
E Hisur non si sarebbe tirato indietro. - Vieni avanti, maledetto! - urlò il generale prima
che la sua voce si disperdesse nel vento. - Scoprirai che non è facile uccidere un cavaliere! Lo sentirono tutti: la sua sfida riecheggiò per l’intera
vallata. In tutta risposta un ruggito bestiale squarciò l’atmosfera spettrale che regnava sulle mura.Una figura alata comparve nel cielo e, nel vederla,
i volti dei soldati si inasprirono. - Non temete, miei uomini! - li incitò Hisur. -
Ciascuno di voi pensi alla sua famiglia, e farete vostra la loro speranza! Quel drago non uccide con il fuoco. Saremo noi a usarlo! Accendete le frecce e scoccate al mio segnale!Il drago era sempre più vicino, bianco come uno
sperone innevato, maestoso come la prima aurora.
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La sua apertura alare oscurava il sole per intero. Non sembrava dotato di scaglie: la pelle era talmente lucida e levigata da riflettere le tonalità del cielo. All’improvviso il drago si fermò, sospeso nell’aria.
Un ruggito potente scaraventò all’indietro tutti coloro che non ebbero la prontezza di aggrapparsi alle mer-lature. Per fortuna si rialzarono subito e, all’ordine di scoccare le frecce, attaccarono. Una pioggia di fuoco investì la creatura senza che questa subisse alcun danno. Toras fissava sbigottito l’enorme e inquietante spet-
tacolo. Ricordi confusi affiorarono nella sua mente fino a diventare più nitidi.
- Comincia a ricordare! - gridò Ruk battendo il pugno sul tavolo. - Un guerriero come lui non può lasciarsi sconfiggere!
- Ruk hai interrotto di nuovo la storia. Lascialo andare avanti! Muoio dalla voglia di sapere come finisce! - si lamentò Mosas.Il vecchio sorrise. - Prima di proseguire, però, vi
descriverò l’aspetto di Toras affinché possiate com-prenderlo meglio.
- E sia. Non ci hai ancora detto nulla di lui. Sicura-mente era una montagna di muscoli senza paura! L’altro scosse il capo, ridendo. - E invece ti sbagli.
Toras era un codardo. Durante la prima missione si era offerto volontario; per questo venne affidato a
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lui l’arco d’oro. Ma quando si trovò faccia a faccia col drago ebbe paura, lasciò che i soldati al suo comando morissero e si nascose nel bosco. Quando rinsavì, ci mancò poco che impazzisse. Aveva perso il senso dell’udito e della parola. Trovatosi in mezzo a quella moltitudine di morti, svenne per lo sconforto e quando si risvegliò non ricordava più nulla. Lo sguardo del vecchio sembrò vagare in ricordi
lontani e una lacrima scese dal suo volto andando a bagnare la superficie del tavolo. I due guerrieri lo osservarono impensieriti, poi lo esortarono a prose-guire.
In effetti Toras si ricordò tutto. La colpa di aver perso i soldati che gli erano stati affidati e l’aver permesso la distruzione delle città scatenarono in lui il desiderio di rimediare ai propri sbagli. Era sempre stato uno sbruffone, un cavaliere da poco che si atteggiava da eroe. Fu solo in quel giorno memorabile che il vero campione prese il sopravvento. Gridò così forte che tutti i soldati si volsero. Gli sguardi rassegnati a una morte certa erano stampati sui loro volti.- Generale fai ritirare i tuoi uomini nelle segrete e
vai con loro. Non potete sconfiggere il drago. Solo io posso farlo… con l’arco d’oro! - Non hai frecce! Come pensi di sconfiggerlo? -
domandò Hisur. - Fa’ come ho detto o morirete tutti!
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Il generale diede l’ordine appena in tempo. Il drago spalancò le sue fauci e dalla sua bocca iniziò a fuo-riuscire una nebbia nivea e densa che a poco a poco inghiottì tutto quanto incontrava sul proprio cammino.
Toras uscì dal castello per posizionarsi proprio di fronte al drago. Impugnato l’arco, lo sollevò e prese la mira.
La nebbia avanzava. Toras tese la corda e con parole incomprensibili fece apparire dal nulla una freccia accecante. Dal cuore del cavaliere proruppe un’altra luce che andò a incrementare il potere del dardo. Fu a quel punto che la freccia sibilò nell’aria. Toras
ne seguì la traiettoria finché l’acciaio penetrò la testa del drago …
Il resto accadde tutto in un attimo. Lo scheletro del drago si polverizzò nell’aria, ma la nebbia raggiunse Toras e, quando si dissolse, non lasciò traccia di lui.
Il Castello di Granito era salvo, così come i suoi abitanti. L’unico testimone della vicenda fu il generale Hisur: invece di ripararsi nelle segrete, aveva osser-vato l’intera scena per raccontarla negli anni a venire. Fu eretta una statua in onore di Toras, sapete? Ed è da allora che si tramanda questa storia.
- Aspetta, aspetta! Che fine ha fatto Toras? E la luce che cosa significa?! - domandò ansioso Ruk.- Non l’hai capito, amico? - intervenne Mosas.
- Quella luce era il rimorso di Toras, il coraggio
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finalmente ritrovato, il sacrificio. Un vero cavaliere dovrebbe sempre comportarsi così per essere definito tale -. Abbassò lo sguardo. - Noi siamo esattamente come lui prima che si ravvedesse.
Il vecchio lasciò alcune monete sul tavolo e si alzò.- Vedo che hai capito la lezione. Fatene buon uso.
Che siano le vostre gesta a parlare di voi, non la vostra bocca.
Mosas annuì. - Per prima cosa chiederemo scusa al locandiere; ti giuriamo sul nostro onore che d’ora in avanti ci comporteremo diversamente. Sentirai parlare soltanto bene di noi in futuro.
- Ne sono certo. Addio, amici - rispose il vecchio, uscendo dalla locanda.I due amici si guardarono negli occhi. - Non gli
abbiamo nemmeno chiesto il suo nome. - Credo si sia dimenticato la bisaccia - rispose il
locandiere, avvicinandosi. - Raggiungetelo; fate ancora in tempo.
I due non se lo fecero ripetere. - Hai dimenticato questo! - gli urlarono nel rag-
giungerlo. - Se non ti dispiace vorremmo sapere il tuo nome.
Lui sorrise. - Mhm? Questo è per voi. Ve lo siete meritati. Per quanto riguarda il mio nome … mi chiamo Toras.
Non disse altro: un lampo di luce lo fece scomparire lasciando i due compagni di sasso.
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Qualche secondo dopo si convinsero ad aprire la bisaccia … L’arco d’oro sembrava risplendere di luce propria.
Si narra di due cavalieri, per giunta fratelli. Vissero per anni come raminghi del nord, girovagando vil-laggio dopo villaggio per aiutare chiunque ne avesse bisogno. Molti regni si avvalsero delle loro doti: coraggio, amicizia, intelligenza e bontà d’animo. Gli elfi li soprannominarono Elvellon: amici degli elfi. Ruk possedeva l’arco d’oro di Toras, mentre a
Mosas ne venne costruito uno identico. La loro fama crebbe a tal punto che i due vennero riconosciuti dagli uomini come cavalieri impavidi e senza macchia. Le loro tombe sono ancora oggi visitate da molti pelle-grini e la loro storia si tramanda, insieme a quella di Toras, di generazione in generazione.
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Amnesia
Sto male. E’ ufficiale. Sono una persona veramente malata. Malata di stupidità. Come è possibile dimen-ticarsi di tutto, e intendo proprio di tutto, davanti a un bel ragazzo? Solo una demente può comportarsi in modo simile. Eccomi sono qui, sono la demente numero uno della città.Venerdì sera. Vigilia di Natale. I single convinti e non
particolarmente legati alla famiglia hanno un’unica via di fuga in queste serate: la discoteca.Sto attraversando il parcheggio quando lo vedo. Un metro e novanta di pura bellezza: moro,
mascella quadrata, guance cesellate, naso affilato, labbra carnose e muscoli da vendere. Rivaleggia con Brad Pitt in quanto a perfezione.
Mi si avvicina e mi chiede se vado spesso in quel locale. Io rimango a guardarlo a bocca aperta, muta.
Da vicino è talmente affascinante da sembrare irreale, i suoi occhi sono grigio argento e paiono luc-cicare nell’oscurità. Lui mi guarda, perplesso del mio silenzio. Io non apro bocca. In quel momento non so
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chi sono, non ricordo il mio nome, il mio indirizzo, il mio numero di telefono, e nemmeno dove mi trovo. Non so più nulla. Sono un vegetale. Un vegetale
nato per rimanere a fissarlo in eterno. Io sono il girasole e lui è il mio sole.
Lui forse pensa che io sia una povera scema, e se ne va, lasciandomi sola come una cretina. Me lo merito.
Appena non è più nel mio campo visivo il mio cervello si rimette in funzione e la mia memoria torna come per magia. Ma è troppo tardi.
Sto male. Ma questa non è una novità. Oggi è la Vigilia di Natale e le feste sono sempre
dure da sopportare per chi, come me, è completa-mente solo. Vorrei dimenticare il passato e cancel-lare i ricordi che ora mi fanno soffrire. Ricordi che mi riportano indietro negli anni, a quando non ero solo. Quando il Natale era un momento di gioia. Ma secoli sono ormai passati e nel frattempo ho visto morire le persone a me più care.
Questo è il destino di un immortale: perdere con-tinuamente i propri affetti e restare solo. I vampiri, diversamente da quel credono i giovani d’oggi, sono povere creature destinate a soffrire in eterno.
Alcuni di noi trasformano in vampiro la persona amata, nella speranza di farsi un compagno o una compagna, ma nessuna coppia resiste per più di
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duecento anni. Eravamo umani in origine e degli umani conserviamo i difetti. Quale umano sopporterebbe mai un altro umano per l’eternità? Nessuno. Lo stesso vale per i vampiri. L’amore diventa odio. La coppia una gabbia. L’amato un carceriere. La rottura dei rapporti tra immortali è, come spesso accade tra gli umani, violenta e sanguinaria. Io non ho mai voluto correre questo rischio. Io, che ho amato solo donne umane, negli ultimi
cento anni ho deciso di restare solo, per risparmiarmi la sofferenza di vederle spegnersi fra le mie braccia. Ma la solitudine mi sta uccidendo a poco a poco. Ho fame di compagnia, non solo di sangue.Mi avvicino a un locale e nel parcheggio noto una
ragazza: mi sta fissando. Gli umani sono natural-mente attratti da noi e questo ci rende facile trovare prede da mordere. Soddisfatta la sete, mi assicuro che l’umano stia bene e me ne vado. Di solito l’umano è già svenuto a causa dello shock
provocato dal morso, ma, se così non è, lo faccio cadere in trance così al suo risveglio non ricorda più nulla. I vampiri possono manipolare le menti degli umani e, soprattutto, possono percepire i loro pensieri superficiali, se sono fisicamente vicini. Mi avvicino alla ragazza. E’ piuttosto carina. Bionda
e con due grandi occhi azzurro chiaro. Le chiedo se frequenta spesso quel locale.
Lei mi fissa, ma non mi risponde. Aspetto, ma
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non accade nulla. Sondo la sua mente e, incredibil-mente, non percepisco alcun pensiero. Non mi era mai accaduto prima. Provo ancora. Nulla. Eppure è lì di fronte a me. Che non sia umana? E se non è un vampiro, cosa può essere? Che sia una cacciatrice di vampiri? Che abbiano trovato il modo di nascondere i loro pensieri con la magia? Meglio allontanarsi. Non voglio correre rischi.
La musica fa battere il mio diaframma, ma non la sento. Sono qui per divertirmi, eppure non faccio altro che ripensare a ciò che mi è appena successo. Sono veramente una scema. Il ragazzo più figo che
io abbia mai visto mi rivolge la parola e il mio cervello si spegne! Mi dimentico di tutto e resto muta. Che figura! Forse bere potrebbe aiutarmi.Sono al terzo mojito quando lo vedo. E’ lui. Seduto nella
zona vip. L’alcool mi rende coraggiosa. Parto in quarta e vado verso di lui. Mi vede, si alza e mi raggiunge.Mi saluta. Io lo guardo. Il mio cervello va di nuovo in
tilt. Non so più chi sono, né dove mi trovo. Continuo a fissarlo.Lui ora mi guarda corrucciato. Mi prende il braccio
e mi trascina fuori dal locale.- Chi sei? - mi chiede - Cosa vuoi?Io non rispondo, non so cosa rispondere. Non so
come mi chiamo. Non so più nulla.
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La ragazza di prima mi ha seguito. La allontano dalla folla e la interrogo. - Chi sei? - Non mi risponde e si limita a fissarmi. La sua mente è una tabula rasa.
- Sei qui per uccidermi?Questa domanda sembra scuoterla dal torpore.- Cosa?Se non altro sa parlare. - Sei qui per uccidermi? – le ripeto.Lei mi fissa e poi scuote la testa - Non credo. - Non credi? Non ne sei sicura? – Non lo so.La prendo per le braccia e la scuoto. - Chi sei? - Non lo so.Sto perdendo la pazienza - Non mentire!Lei si divincola - Non sto mentendo! Non lo so. Non
so nulla. Non so come mi chiamo, non so dove vivo, non so chi sono! - urla.
Sembra sincera. - Soffri di amnesia?- Non so.Questo spiegherebbe la tabula rasa che è la sua
mente. – Qual è l’ultima cosa che ricordi? - Te. Prima di vederti ricordavo tutto, poi il nulla.
So che nel mio cervello ci sono tutte le risposte che cerco, ma non riesco a farlo funzionare con te davanti. La colpa è tua, ne sono certa.
Dire che sono sorpreso dalla sua risposta è poco.
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- Non sai chi sei, non ricordi nulla, ma sai che è colpa mia?
Lei annuisce. - Credo di sì. - Come puoi saperlo? - Non lo so. Allontanati e volta la schiena. Credo
che se non ti vedrò in faccia e non mi sarai più vicino forse ricorderò tutto.È davvero la ragazza più esasperante che abbia mai
conosciuto in vita mia, e la mia è stata una lunga vita. Ha persino la sfrontatezza di darmi degli ordini.
Potrebbe essere una cacciatrice di vampiri. Mi ha praticamente chiesto di mettermi nella posizione perfetta per essere ucciso. Eppure una vera caccia-trice non sarebbe mai stata così schietta. E se anche fosse una cacciatrice e mi uccidesse?
Sono stanco di vivere, stanco di essere solo.Mi allontano e le volto le spalle.
Non appena si allontana la mia mente si schiarisce. La memoria ritorna e con essa la vergogna. Ho fatto di nuovo la figura della stupida. - Mi ricordo tutto! - gli urlo – Mi chiamo Marianna e
non voglio ucciderti.Vedo la sua schiena curvarsi e sento un suono sof-
focato. Che stia ridendo di me?- Tu chi sei? - gli chiedo- Sono un vampiro. Non un demone, non un creatura
malvagia e nemmeno un frammento della tua imma-
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ginazione. Bevo sangue, non sopporto la luce del sole e sono immortale. Lo guardo con tanto d’occhi. Devo essere proprio
demente perché gli credo.- Vieni spesso in questo locale? - gli chiedo.Lui si volta di scatto e mi guarda stupito.Gli sorrido.E’ ufficiale, non sono solo demente sono proprio
pazza. Matta da legare.
Non mi ha ucciso quindi non è una cacciatrice di vampiri, ma allora chi è? Qualunque umano sarebbe scappato urlando, sentendomi dire che sono un vampiro. Oppure mi avrebbe preso per pazzo e piantato in asso all’istante. Forse è pazza lei. Questo spiegherebbe parecchie
cose, in effetti, come l’amnesia momentanea, le certe sue stranezze ... eppure non sembra pazza.
E io sono così solo. - No, non vengo qui spesso - le rispondo. – E tu?
Stavolta il vederlo in volto non mi manda il cervello in tilt e riesco a rispondergli. L’aver scoperto che è un vampiro, paradossalmente l’ha reso più accessi-bile. Non è un dio sceso sulla terra per donarci la sua bellezza, ma solo una affascinante creatura sopran-naturale. Niente amnesia per me stavolta. - Nemmeno io. Ma è la vigilia di Natale e mi
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sentivo sola, così ho pensato di passarla insieme ad un mucchio di estranei in un locale, con la musica talmente alta da non permettere la conversazione. Idea intelligente vero?
Lui ride alla mia debole battuta. Quando ride è ancora più divino. Sospiro. - Anch’io mi sentivo solo - mi dice con voce
sommessa.- Potremmo passare la Vigilia di Natale assieme.
Così non saremmo più soli - gli propongo.Lui mi guarda muto.
Erano anni che non ridevo. Questa strana ragazza mi sta facendo provare di nuovo emozioni che credevo sepolte. Mi sento ... quasi vivo. Ma voglio veramente correre il rischio di affezionarmi di nuovo a qualcuno che sono destinato a perdere? La guardo.
- Perchè no? - le rispondo.Lei mi sorride. – Prometti di non mordermi? - Promesso. - Bene, allora puoi accompagnarmi a casa. A propo-
sito, tu non uccidi gli umani di cui ti nutri, vero? - No.- Come pensavo. Allora potrai mordermi ... quando
ci conosceremo meglio.E’ veramente la ragazza più strana che abbia mai
incontrato.Mi avvicino a lei. – Niente più amnesia?
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- No. Quando ti credevo una creatura perfetta, quasi divina, mi mandavi in tilt il cervello, ma ora che so che sei un vampiro, ti vedo quasi umano.E’ veramente pazza. Ma in fondo, non lo siamo tutti?
Le circondo le spalle con un braccio e ci allontaniamo nella notte. Guardo l’orologio. Ormai è l’una. E’ Natale e non sono più solo.
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Elio Girasole
Era nato sul lato est di uno sterminato campo di girasoli. Nulla di strano in quanto Elio era un girasole. Di giorno seguiva il sole, la notte lo aspettava paziente, certo che sarebbe tornato. Il giorno era lungo, ma c’erano mille cose da vedere: l’aurora, i prati, le api laboriose, i passeri, le nubi e poi il tramonto e, infine, una nuova attesa …
Era cresciuto a ridosso dello stradello che divideva il suo campo da quello dell’erba medica e, curioso com’era, a volte dimenticava di seguire il corso del sole. Una volta si era accorto che dietro all’astro sfol-gorante c’era un altro corpo celeste, pallido e diafano. Allora, aveva chiesto ad una campanula che era cre-sciuta sul sentiero lì vicino se sapeva chi o cosa fosse. Questa, benché di breve vita, conosceva molti segreti della natura e gli rispose: - E’ la Luna, di solito si vede di notte quando
dormiamo, ed è molto più luminosa di adesso. - Deve essere bellissima - sospirò il girasole - chissà
se esiste un fiore giraluna.
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La campanula rispose che non lo sapeva, mentre dal campo si levava un mormorio di disapprovazione per l’inopportuna curiosità di Elio e vi fu chi gli intimò di riprendere l’allineamento per seguire il corso del sole.Un giorno, il fattore venne a visitare il campo;
mancava poco alla mietitura e voleva accertarsi che tutto procedesse per il meglio. Era un giorno di festa e aveva con sé la sua graziosa figliola.
- Che splendore questo campo! - disse lei - è un tripudio di bellezza – e, avvicinandosi proprio ad Elio, fece una carezza lieve alla sua corolla, regalandogli un sorriso ammirato. Confuso, Elio cercò di fare un inchino, aiutato da una brezza leggera che spirava in suo favore. Inutile dire che era al settimo cielo per la felicità.Quell’incontro durò poco: la bella fanciulla tornò da
dove era venuta e il girasole attese di rivederla con più ansia di quanto non aspettasse il sorgere del sole. Cercò di sapere qualcosa di lei e domandò all’amica campanula che gli rispose:- E’ la figlia del signore di questa terra, il suo nome
è Clizia e abita nella casa in fondo ai campi, oltre la strada d’asfalto. Il girasole attese invano che la bella fanciulla
tornasse; intanto il suo umore si era fatto cupo e malinconico. Attese finché non sentì un desiderio incontrollabile che dalle radici saliva su su lungo lo
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stelo, fino alla corolla. Doveva rivedere il sorriso di Clizia e prese una decisione inaudita: avrebbe lasciato il campo dove era nato e sarebbe andato alla casa del fattore. Quando gli altri girasoli chiusero la corolla, per la
notte, tirò delicatamente le sue radici fino a sradi-carle dal terreno e si incamminò lungo lo stradello su cui aveva visto allontanarsi la fanciulla. Nonostante il suo desiderio fosse fortissimo, le cose non andavano come aveva sperato, le sue radici non erano piedi e poteva muoversi solo con estrema lentezza. Si spostò per tutta la notte e quando scorse l’aurora si fermò, stanchissimo, cercando di affondare nel terreno le radici per trarne nutrimento, ma il sentiero non era il campo e si ferì cercando di penetrare tra i sassi.
La prima a diffondere la notizia della scomparsa di Elio fu la campanula che, destandosi al mattino, non lo vide al solito posto. Nel campo si levò un mormorio di disapprovazione e solo il fatto di essere dei girasoli impedì loro di scuotere il capo. La notizia giunse fin ad un airone che stazionava in quella zona ed era solito pescare nel fosso che correva a fianco del campo. Non si accontentò dei si dice e volle vedere. Volò lentamente finché non scorse il girasole e gli si
fermò vicino. Tanto per intavolare un discorso disse:- Ieri ti avevo visto nel campo assieme a tutti gli
altri, cosa ci fai qui?- Mi ero stancato della solita vita - rispose Elio
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evasivamente - voglio vedere il mondo. L’airone gli diede corda. - E’ un nobile intento, ma
ho sentito dire dagli anziani che stai andando contro ogni legge e ben presto te ne pentirai.
Toccato sul vivo mancò poco che Elio versasse lacrime amare, ma trovando nell’intimo la forza invin-cibile della sua dedizione rispose - Voglio raggiungere la casa del fattore e rivedere la sua bella figlia. Il suo sorriso per me è l’unica legge che vale! - e subito dopo riprese speranzoso - Puoi aiutarmi?- Non so - rispose l’airone - i girasoli vivono coi
girasoli, gli aironi con gli aironi, gli uomini con gli uomini, veramente non so cosa potrei fare - e se ne andò pensieroso camminando lentamente sulle sue esili zampe.
Venne la sera ed Elio riprese il cammino. Era debole ed ogni passo era più doloroso del precedente, ma, seppure sfinito, il ricordo del sorriso di Clizia gli dava il coraggio di continuare. Venne l’alba ed Elio, esausto, era giunto sul limitare del nastro d’asfalto dove vedeva sfrecciare oggetti velocissimi che lo ter-rorizzavano; sperò che nella notte anche loro dormis-sero così da poter passare senza pericolo. Venne nuovamente a fargli visita l’airone che, trala-
sciando per un momento la sua flemma, si commosse del miserevole stato del girasole e chiese:
- Come stai? - Elio non ebbe neppure la forza di rispondere e si limitò a guardare l’uccello che,
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soprappensiero, disse - Oggi mieteranno il campo e tu non sei coi tuoi fratelli.
Tristemente, Elio pensò che, invece di essere un girasole, era diventato un “girasolo”, ma con un ultimo sussulto d’orgoglio sussurrò:
- Se solo potessi vedere una volta ancora il sorriso di Clizia, morirei felice.- Vedrò cosa posso fare - replicò serio l’airone e
prese il volo in direzione della casa del fattore.Elio era allo stremo, le sue radici spezzate non
riuscivano a dargli nutrimento e seguire il sole era un tormento. Era riarso da una sete inestinguibile e l’astro, invece di infondergli vita ed energia, sembrava prosciugarlo. - I miei fratelli stanno raggiungendo lo scopo della loro vita - pensava con l’amarezza di chi si rende conto di aver fallito - e io morirò qui sul bordo di una strada, senza utilità per me e per gli altri. Se il piccolo girasole avesse avuto una stilla di linfa,
avrebbe voluto piangere. Stava per reclinare defini-tivamente il capo quando vide il bel volto di Clizia e sentì la sua carezza sui petali. - Allora è vero quanto mi ha narrato l’airone - disse
la fanciulla - povero fiore, ormai sei disseccato.Il bel sorriso della fanciulla riempì di nuova energia
il povero girasole che, in attimo, ritrovò lo splendore dei suoi colori e terminò la sua breve vita beandosi della visione di quella bellezza che lo aveva rapito più
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del Sole. La fanciulla colse il girasole e lo portò al cuore. In quel momento sulla strada passò il fattore col
carro colmo dei girasoli appena mietuti. - Butta anche quello tra gli altri - disse alla figlia,
ma questa rispose:- No, questo lo terrò nella mia stanza, nelle giornate
di nebbia mi ricorderà che il sole ritorna sempre - e tenendolo stretto sul cuore come il più caro degli amici si incamminò verso casa. L’airone, che aveva assistito di lontano a tutta la
scena, si librò in volo verso il fosso dove avrebbe pescato qualche pesciolino o, meglio ancora, una ranocchia e pensò che sotto il sole possono accadere più cose di quante si possano immaginare.
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Il segreto della Selva Immobile
Nubi cariche di pioggia veleggiavano pigramente nel cielo mentre un carro procedeva sullo smeraldo delle colline. Giunto in vista della piana, l’uomo che lo conduceva si fermò ad ammirare la distesa dei tetti di Castrum Villarum, le mura e le torri volute da Ruggero e, in alto, la chiesa di Santa Maria. Era tempo di pace, ma il pericolo non era lontano, egli lo sapeva.
Giunse alla porta di San Giuliano e si fermò accanto ad un fontanile. Abbeverò il cavallo e si diresse verso la sentinella che custodiva l’accesso al barbacane, salutò e aprì il mantello, mostrando di essere disarmato. - Che vuoi straniero? - l’interpellò con rudezza il
soldato. - Sono mercante, puoi indicarmi dove passare la notte?- Un mercante senza servi e armi? - sbottò incre-
dulo l’armigero. - So badare a me stesso, - rispose l’uomo e riprese
– allora, lo conosci questo posto? - e nella sua mano comparve una moneta.
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- Straniero, parli una lingua nota in tutte le terre - replicò con un ghigno poco rassicurante la senti-nella - debbo però controllare il tuo carico, porta qui il carro. L’armigero l’ispezionò senza fretta e una volta sceso si rivolse all’uomo in paziente attesa.- Puoi entrare, segui la strada e troverai la locanda
- e la moneta cambiò di mano.Poco dopo il mercante si fermò sotto un’insegna
di rame ben lucidato. Entrò deciso; all’interno aleg-giava, greve, l’odore della zuppa di cavoli; ai tavoli il solito assortimento di perdigiorno, tipico di tutte le taverne. - Desideri qualcosa, straniero? - l’interpellò il locandiere. - Un letto per me e un ricovero per mio cavallo - e
alcune monete gli comparvero tra le mani. Il locan-diere sbraitò alcuni ordini. - Messere desidera mangiare?- Preferisco vedere dove sarà sistemato il carro -
rispose il mercante.La stalla era piccola ma ben tenuta. Il mercante si
soffermò a carezzare il cavallo, poi, mangiò qualcosa ad un tavolo d’angolo della sala comune. Alla domanda del locandiere se fosse giunto lì per vendere o acqui-stare tagliò corto rispondendo di essere solo di pas-saggio e si fece condurre nell’unica stanza. Appoggiò la sua sacca su uno sgabello e spostando
l’impannata controllò se con un salto avrebbe potuto fuggire dalla finestra. Si assicurò che la porta fosse
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ben chiusa e, infine, alla luce tremolante dell’u-nica candela, trasse dalla sacca un astuccio di cuoio rosso che recava il sigillo di due cavalieri su un unico destriero. Lo aprì ed estrasse un involto di velluto il quale, srotolato, rivelò un verga di circa due spanne che sembrava serbare in sé tutto il tempo del mondo. La depose sullo sgabello come fosse un’altare e si inginocchiò, prostrandosi. Si trattava della reliquia insigne della Verga di Aronne, il bastone del fratello di Mosè custodito nell’Arca dell’Alleanza assieme alla manna e alle Tavole della Legge, l’asta potente che, toccando le acque, aveva diviso il Mar Rosso e, fiorendo miracolosamente, aveva prefigurato Maria, la vergine che aveva concepito il Messia, simbo-leggiato dalla mandorla dal guscio amaro come la passione e dal frutto dolce come la redenzione. L’uomo si rialzò e con le mani sulle tempie riper-
corse gli eventi che avevano sconvolto la sua vita. Dopo la veglia d’armi era stato ordinato Povero
compagno di Cristo e del Tempio di Salomone o, più brevemente, Templare, come erano chiamati nell’isola di Rodi, dove l’Ordine si era rifugiato dopo aver perso San Giovanni d’Acri, ultimo baluardo cristiano in Terrasanta. Il giorno stesso era stato convocato dal vescovo e dal Maestro della piazza. - Finan di Sagredo - gli aveva detto questi con
tono solenne – vi è bisogno di te. In Francia è stato imprigionato il Gran Maestro e il Papa, ostaggio ad
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Avignone, nulla può; l’Ordine è fuorilegge e tanti compagni sono stati torturati ed uccisi -. A questo punto, era intervenuto il vescovo che, in contrasto con l’aspetto ascetico, era uomo di estrema concre-tezza. - Si tratta di porre in salvo le reliquie, il vero tesoro dell’Ordine e della cristianità. Tu sei scono-sciuto a molti e coraggioso; travestito da mercante dovrai raggiungere la Trinacria e da lì salpare per il regno di Scozia. Non v’è tempo da perdere. Il Signore ti accompagni.Era salpato da Rodi il giorno stesso, poi la tempesta,
il fortunoso approdo a Capo Spulico, il breve sog-giorno nel castello di Petrae Roseti, dove si era fatto riconoscere, e il seguito del viaggio via terra.
Ora era in quella bettola, desideroso solamente che sorgesse il sole per ripartire. Usufruì degli ultimi bagliori della candela per creare
sul pagliericcio qualcosa che potesse sembrare un corpo assopito e rimettere la reliquia nell’astuccio; infine, si accucciò accanto alla finestra coprendosi col mantello. Nella sinistra stringeva la reliquia, nella destra un corto pugnale che nelle sue mani esperte era più letale di una spada. Il pericolo era reale, non solo Roberto, duca di Calabria, era sfavorevole ai templari, ma anche vicino, come l’oste o gli armigeri, vogliosi di mettere le mani sul suo carro e sulla borsa, senza contare la minaccia più letale: colui che si faceva chiamare La Falce, uno spietato sicario che
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aveva fatto dello sterminio dei templari la propria ragione di vita. Prese sonno come gli era stato insegnato: chiudere
gli occhi e vegliare con l’udito. A metà della notte un lieve rumore lo mise in allarme. Non ci pensò due volte e saltò dalla finestra, silenzioso come un gatto. Udì nella stanza un gran trambusto e roventi imprecazioni. Si liberò del mantello e freneticamente rifletté dove fuggire.
Improvvisamente la reliquia che teneva ben stretta nella sinistra prese vita costringendolo a correre sulla strada in salita. Intese voci concitate:
- Eccolo! È nel vicolo, prendetelo! Finan assecondò l’impulso della reliquia e si lanciò
in una folle corsa, quasi condotto per mano. Non ebbe tempo di stupirsi, chi lo inseguiva non aveva dubbi se lasciarlo vivo o meno. Giunse dinnanzi a Santa Maria, il portale si aprì, sospinto da una mano invisibile, per poi richiudersi alle sue spalle. Sempre condotto dalla reliquia si fermò nella cripta del tempio, appena illu-minata da una lampada. Qui la reliquia divenne inerte e Finan conobbe il terrore: era in trappola.
Colse passi nella navata soprastante e bestemmie che profanavano il luogo sacro. Una frase lo gettò nella disperazione:- Qui non c’è, cercate nella cripta e portatemelo
vivo, voglio sgozzarlo di persona!Finan strinse il corto pugnale poi, mentre i sicari
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scendevano la breve rampa di scale, un violento terremoto scosse tutto. Istintivamente si acquattò accanto all’altare e percepì un silenzio innaturale. Seguì un’altra scossa che lo buttò carponi, le lastre del pavimento si separarono rivelando un buio anfratto. La reliquia si animò per l’ultima volta e Finan la vide scomparire nella cavità. Un’altra violenta scossa richiuse il pavimento mentre l’istinto di sopravvi-venza lo costringeva ad allontanarsi da quel luogo. Fuggendo, scorse alcuni uomini lamentarsi a terra e,
nella navata centrale, una specie di gigante esanime, schiacciato da un’enorme trave caduta dalla capriata. Dalle descrizioni che ne erano state fatte intuì trat-tarsi della Falce. Fuggì correndo. Nessuno lo inse-guiva e si fermò a prendere fiato mentre, sbucando tra le nubi, la luna diffondeva un tenue chiarore. Si trovò, all’improvviso, all’entrata di una grotta
ove si scorgeva una luce e il templare rimase esterre-fatto quando udì pronunciare il proprio nome: - Finan di Sagredo, vieni, è tutto finito.Egli si fece strada guidato dalla luce e dopo pochi
passi si trovò di fronte ad un monaco dall’età indefi-nibile. Gli chiese - Come sai il mio nome?Quegli rispose: - Sempre si conosce chi si aspetta
– e, senza dargli il tempo di replicare, riprese - L’Asta di Aronne è nella chiesa?
Più che mai confuso Finan fece per rispondere - Sì, è… - ma il monaco lo zittì col gesto della mano
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- Non voglio sapere. Nessuno deve sapere e dove si trova resterà fino al giorno dell’Ultimo Giudizio.
Frastornato, Finan cercò di replicare - Dovevo metterla al sicuro nel regno di Scozia, ho fallito!
Lo confortò il monaco - No! Questo era il Divin Volere. Anche un legno storto fa la fiamma diritta.
- Ed ora che farò? - chiese desolato il templare. - Dammi il tuo pugnale - gli ingiunse l’eremita che,
una volta avutolo, lo conficcò senza sforzo apparente nella roccia a fianco del lume, appena sotto l’icona, unico oggetto che impreziosiva quel luogo. Riprese l’anziano - E’ tempo che io raggiunga
l’Antico dei giorni, ma c’è una battaglia da combat-tere, vuoi fermarti qui? Le armi sono preghiera e penitenza. Ma ora riposa, povero figlio, anch’io vedo la tua stanchezza!Finan si stese, dormì un sonno senza sogni e quando
si destò era solo. Combatté l’ardua battaglia della Fede e presentò
l’anima al Signore il giorno stesso che Gregorio XI fece rientro a Roma. Gli abitanti del borgo tributa-rono al sant’uomo solenni esequie e nel lenzuolo con cui affidarono alla terra il suo corpo posero l’unica cosa di cui fu trovato in possesso, un cartiglio su cui era scritto:
“Là, nella selva immobile, al confine tra la tenebra e la luce,
sotto il mistico Golgota, là è posto il mandorlo che separò le acque”.
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Tutti pensavano a una profezia, ma nessuno poté interpretarla e se ne perse il ricordo. Il potere del Bene, infatti, non ha bisogno di essere
conosciuto per operare, e così è del tesoro nascosto nella cripta di Santa Maria.
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Il calzolaio della Slesia e Johannes Cuntius
Henry More (1614 - 1687) è uno dei principali espo-nenti del neoplatonismo di Cambridge. E’ famoso per aver pubblicato nel 1653 il suo Antidote Against the Atheism, una raccolta di osservazioni e di aneddoti destinati a mostrare l’inconsistenza dell’ateismo.
Tra le prime viene raccontata la storia di un calzolaio della Slesia che si sarebbe suicidato il 20 settembre 1591. L’episodio sarebbe avvenuto a Breslau, ma il nome
della città sarebbe stato tenuto nascosto per senso di discrezione. La vedova e la famiglia decidono di tenere nascosta la vicenda dichiarando che il suicida è morto di un colpo apoplettico; riescono così a ottenere un funerale religioso.
Dopo qualche tempo le voci di un suicidio trapelano e si apre un’inchiesta. Durante l’inchiesta il defunto comincia ad apparire
a varie persone della città: la vedova e i suoi soste-nitori liquidano anche queste apparizioni come mere fantasie. Tuttavia a detta degli abitanti del luogo il
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defunto si butta sui letti dei compaesani, si corica accanto a loro, cerca di soffocarli, di pizzicarli in modo così forte da non lasciare soltanto lividi ma la chiara impronta delle sue dita che resta sui corpi al mattino. I magistrati si decidono a far riesumare il corpo, il
cadavere viene ritrovato “intatto, non decomposto, senza cattivi odori se non quelli che provengono dai vestiti, con le gambe e le braccia morbide e flessi-bili come quelle dei viventi, con la pelle leggermente flaccida, ma qua e là con una epidermide fresca che sembra appena cresciuta”. La ferita alla gola è ben visibile e non è infetta. Viene pure osservato un segno magico sul pollice del piede destro, una escrescenza a forma di rosa.
Erano passati otto mesi dalla morte del calzolaio. Il corpo viene esposto per una settimana e in seguito riseppellito. Tuttavia le apparizioni si fanno sempre più frequenti. Viene quindi riesumato per la seconda volta. Gli vengono tagliate la testa, le braccia, la gambe e gli viene estratto il cuore, fresco e integro come quello di un capretto appena ucciso. Le ceneri sono poste in un sacco e gettate in un fiume. Le apparizioni cessano.
La storia di Johannes Cuntius è forse una delle più famose di “proto vampiri”. Johannes Cuntius di Petch, sempre in Slesia, era un maggiorente della città e amico del sindaco. Colpito da un cavallo, muore,
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senza essersi confessato e dopo aver dichiarato che i suoi peccati sono così gravi da non poter essere perdonati. Era infatti sospettato di pratiche magiche con il demonio, e si sapeva che si era arricchito un po’ troppo in fretta.
Cuntius a quanto riferiscono le voci, è ritornato in vita, tormentando e violentando donne e svegliando brutalmente le persone dal sonno. Una notte si presenta al padrino del figlio più giovane
rivelandogli di aver lasciato presso il primogenito una cassa con 450 fiorini che devono essere divisi tra i fratelli. Successivamente si presenta alla serva che dorme nel letto con sua moglie e le ingiunge di lasciargli il posto, se non vuole che le rompa il collo. Un bambino viene picchiato, un ebreo lotta tutta la
notte con il defunto e un postiglione viene morso ad una caviglia tanto da restarne zoppo. Se la prende anche con la moglie del pastore luterano e con i suoi figli.
Non riuscendo a spaventare il parroco infetta la sua casa con odori pestilenziali e gli causa un’infiamma-zione putrida agli occhi. Sembra anche questo non morto si nutra di latte che fa sparire dalle case, ma che il latte prima di essere bevuto si trasformi in sangue.
Gli abitanti della città cominciano ad interessarsi alla tomba di Cuntius e scoprono degli strani buchi che arrivano fino alla superficie. Ostruiscono i
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canali con della terra, in quanto si riteneva che per artifizio demoniaco il corpo protesse passare attra-verso le fessure della terra, tuttavia non ottengono alcun risultato.
Si decidono a riesumare il corpo che trovano in condizioni di freschissima vitalità, lo fanno a pezzi e lo bruciano e finalmente i tormenti cessano.
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Lacrime di Luna
Luna era in trepidante attesa, come ogni giorno quando il fratello Sole faceva capolino all’orizzonte per occupare il suo posto nel cielo, lasciandole la pos-sibilità di vivere su quella terra che tanto ammirava. Da secoli illuminava il buio ed era adorata da coloro che vivevano calpestando i prati in fiore e solcando le profondità marine. Trascorreva le notti a osser-varli, immaginando i fili d’erba che le solleticavano le piante dei piedi e non vedeva l’ora di calare oltre l’orizzonte per poterli sentire davvero. Era l’alba quando i raggi della sua argentea luce
toccarono la terra e lei non poté fare a meno di seguirli. L’immagine sferica notturna scomparve oltre una catena di cime aguzze e la sua forma umana, prima incorporea e flebile poi fatta di carne e sangue, toccò il suolo.
Guardò il cielo mentre schiariva e sorrise, alzando la mano per salutare il fratello che le rispose radioso. Era ai margini di un bosco che mai aveva esplo-rato. Un venticello fresco le accarezzava il leggero
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abito bianco che a mala pena le sfiorava le ginocchia e aderiva alle curve del suo corpo snello. L’aspetto di giovane donna ingannava, nascondendo i suoi secoli di vita. Prese a camminare silenziosamente addentrandosi nella selva, poggiando i piedi nudi sul tappeto di foglie umide che coprivano il terreno. Muovendosi nella natura selvaggia si immerse nel profumo inebriante del muschio, pungente dei pini e dolce della resina. Non si avvicinava mai troppo agli esseri umani, che ancora erano agli albori della loro storia. Le sue sembianze poco comuni e l’im-possibilità di essere presente di notte le impedivano di legarsi in modo completo a quel mondo mortale. La sua pelle candida, i capelli tinti di oscurità e gli occhi argentei che diffondevano la sua luce interiore, la rendevano una visione difficile da dimenticare.
Quando il rumore di un ramo spezzato risuonò nell’aria, si voltò a osservare poco distante da lei un giovane cerbiatto, che ricambiò il suo sguardo curioso.- Cosa fai qui tutto solo piccolino? - gli chiese.Distratti entrambi dalla sua voce melodiosa non si
accorsero del pericolo che incombeva alle loro spalle. Un grosso lupo uscì dai cespugli con uno scatto indi-stinto, balzando sulla sua preda e agguantandola alla gola. La ragazza non riuscì a sopprimere l’acuto urlo di
terrore nel vedere l’esile animale intrappolato tra la
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vita e la morte da quelle fauci aguzze. Nell’udirlo, la fiera venne distratta dal suo originale obiettivo, mollò la presa e si avventò fulminea sulla donna. Quando le zampe possenti del lupo si poggiarono
sul petto di Luna la forza dell’impatto la spinse a terra. Quella che prima era una splendida giornata di sole si trasformò in un orribile incubo. Le zanne bianche e affilate dell’animale erano a un soffio dal viso della ragazza e il calore umido del suo respiro le fece aderire alcune ciocche corvine alle guance. Senza preavviso, l’aria fu percossa da un ringhio cupo e profondo, che costrinse la giovane ad alzare gli occhi, puntandoli in quelli del lupo. Non appena incontrò il colore dorato delle sue iridi, il tremore che le scuoteva il corpo si placò, lasciando spazio solo a meraviglia e curiosità. Nello sguardo del lupo lo stesso cambiamento fu evidente. La rabbia cieca per la preda mancata si trasformò in interesse, attirando tutta la sua attenzione.Indeciso su come comportarsi, l’animale arretrò di
qualche passo e si sedette accanto a un tronco, incli-nando la testa di lato, in attesa di una reazione da parte della donna che lo aveva ammaliato.Luna sollevò il busto, sedendosi sulle ginocchia e
appoggiando le mani sul terreno. Si sporse in avanti assumendo la stessa posizione della belva. Il riflesso argenteo degli occhi di lei si mescolò con il raggio dorato di quelli del lupo e attratti come da una
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calamita si fusero insieme, trasmettendo ad entrambi emozioni sconosciute e forgiando un legame che sarebbe diventato immortale.
Presa da un desiderio irrefrenabile di colmare la distanza tra loro, Luna allungò una mano lascian-dola sospesa nell’aria, timorosa di completare quel contatto. Ma lui non le lasciò il tempo di riflettere. Con qualche passo incerto il lupo si avvicinò, sfio-rando con il naso bagnato il suo palmo e lasciandole affondare le dita nel pelo folto e morbido.Trascorsero stretti in un abbraccio l’intera giornata.
Lei sussurrava al suo orecchio canzoni arcane, mentre lui l’osservava protettivo con il muso poggiato sul grembo. Il sole parve muoversi troppo velocemente, rubando attimi preziosi che avrebbero voluto tra-scorrere insieme e avvicinando il momento in cui lei sarebbe dovuta tornare a occupare il suo posto nel cielo.Quando giunse il momento dell’addio, nel silenzio
che regnava attorno a loro, la promessa di un nuovo incontro venne espressa con parole mai dette.Da quel giorno, a ogni alba, Luna tornava in quel
bosco e ogni notte, mentre lei brillava nel cielo, il lupo le dichiarava la sua devozione con ululati carichi di tormento.
Non riuscivano a ricordare quanto fosse trascorso dal loro primo incontro. Quando stavano insieme il tempo sembrava viaggiare alla velocità dei tuoni e
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ogni addio risultava ai loro cuori sempre più doloroso. Un pomeriggio d’estate Luna si rese conto di non
poter sopportare ancora quella pena. Il tramonto del fratello stava per avvicinarsi e lei non voleva, non poteva, lasciare per l’ennesima volta il lupo. Il suo lupo.Si sedette sull’erba soffice e verdeggiante, cinse
con le braccia le gambe al petto e iniziò a piangere sommessamente. Il lupo si avvicinò con passi lenti, per non spaventarla, e con un piccolo colpo del muso le fece sollevare la testa. Le lacrime della giovane erano per lui un’amara novità. Sentì una morsa al petto e il respiro gli mancò per qualche attimo. Il grosso animale si accucciò accanto a quella creatura dall’aspetto così fragile e lei puntò lo sguardo nel suo trasmettendogli tutto il proprio tormento. L’animale allungò il muso verso viso della donna e con un unico movimento, carico di dolcezza e tristezza, leccò le lacrime cristalline che le rigavano le guance. Il legame tra loro raggiunse così il suo apice.
Entrambi rivolsero al cielo una silenziosa preghiera. Luna desiderò di poterlo fare suo e di cancellare le diversità che li separavano, mentre il lupo sperò in modo semplice e sincero di vederla nuovamente felice.
La passione in quelle richieste fu tale da essere ascoltata.Nell’aria risuonò un verso agghiacciante. Luna vide
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la fiera contorcersi a terra, assalita dagli spasmi. Spa-ventata, la giovane arretrò di qualche passo, assi-stendo impotente alla sofferenza dell’animale. I suoi arti si allungarono e le ossa iniziarono a rompersi con suoni raccapriccianti che rimbombarono nelle orecchie della ragazza. Il pelo folto cadde sul muschio sotto-stante, accompagnato da lembi di pelle, i muscoli e la carne si scoprirono. Le possenti zampe lasciarono il posto a gambe e braccia lunghe e possenti e gli artigli si ritrassero facendo emergere dita affusolate. Pettorali e addominali ben delineati sostituirono quel petto caldo e morbido su cui Luna tante volte si era addormentata durante i pomeriggi invernali. Infine, il naso dell’animale iniziò ad accorciarsi, così come le orecchie a punta. Un volto: quello che la giovane vide fu un volto umano. Il più bello che avesse mai incon-trato in tanti anni che vagava sulla terra. Di fronte a lei non c’era più il grosso lupo marrone che tanto aveva amato, ma un uomo.Luna si precipitò verso di lui e gli si gettò accanto.
Istintivamente, prese ad accarezzarlo per cercare di placare i suoi tremori. Lui la guardò e iniziò a tran-quillizzarsi, cercando di mettersi a sedere. Sollevò le mani davanti al viso e rimase a osservarle incre-dulo, poi iniziò a esplorare il proprio corpo mentre le dita della donna seguivano le sue. Lei lo strinse in un abbraccio e iniziò a singhiozzare, questa volta per la felicità. L’uomo cercò di consolarla, ma faticò a
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trovare le parole.- Perché piangi? - le chiese, quando finalmente la
gola smise di bruciargli.- Perché la gioia che provo in questo momento è
incontenibile - rispose la ragazza guardandolo negli occhi e accarezzandogli una guancia.Lui imitò il suo gesto, sfiorandole dolcemente il
viso. La mano percorse la curva del suo collo e scese delicatamente sulla pelle candida del braccio. Erano ancora seduti sull’erba fresca e Luna colmò lo spazio tra loro allacciando le gambe snelle al suo busto. Non riuscivano a smettere di toccarsi, volevano scoprire ogni forma, ogni curva, ogni caratteristica l’uno dell’altra. Ogni movimento nasceva spontaneo e naturale, come se fossero abituati a farlo da tempo immemore.La ragazza avvicinò le labbra alle sue e, senza
nemmeno pensarci, lo baciò. A quel contatto i cuori di entrambi iniziarono a battere all’unisono, con una forza tale che sembrarono voler uscire dai loro petti per congiungersi. L’uomo la guardò intensa-mente negli occhi e ricambiò il bacio, prima in modo delicato, poi trasmettendogli tutto il suo ardore e la sua passione.
Tuttavia, il tempo era loro nemico. Il sole stava per completare la sua discesa per lasciare il posto alla notte. Luna iniziò a svanire, ancora stretta tra le braccia del suo sogno incarnato. Il compito di illumi-
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nare l’oscurità era per lei inderogabile e nemmeno tutto l’oro del mondo avrebbe potuto farle trasgredire il suo dovere. Iniziò a diventare incorporea e la sua trasparenza progressiva lasciò trapelare tutta la sua luce interiore, la sua vera essenza. Quando l’uomo si ritrovò a stringere il vuoto, lascio cadere le braccia a terra preso dallo smarrimento.Il dono di quella notte magica non aveva tenuto
conto dell’equilibrio supremo che governa ogni cosa. L’amore di Luna per il suo lupo era grande quanto
l’ingiusta impossibilità di poter stare insieme. Alla donna non fu più permesso tornare sulla terra durante il giorno e la belva rimase imprigionata in quel corpo umano per l’eternità. Una piccola concessione fece da eccezione a questa rigida regola e tanto bastò a tenere vive le loro speranze.
Solo con il novilunio, quando il cielo notturno è privo della sua luce, Luna può tornare sulla terra incar-nando la sua forma umana per trascorrere con il suo amato un intero giorno e solo quando la sfera lunare è completa, adempiendo appieno al suo compito, la fiera può liberarsi dalla sua prigione di carne e ossa per ululare tutto il suo desiderio.
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Biografie
Barbara Becchi FotografaSiamo state compagne di scuola e colleghe.
Abbiamo scoperto di avere in comune la
passione per i viaggi, per la buona tavola e per
la degustazione di vini. Così, tra un viaggio e una
degustazione siamo diventate grandi amiche.
Barbara in viaggio scatta fotografie. Le ho chiesto
di prestarmene una del nostro recente viaggio in
Svezia. A.G.
Tullia BenatiScrittrice
Sono nata nel 1972 a Modena e sono vissuta a
Pegognaga fino all’età universitaria (Filosofia a
Parma). Ho vissuto a Barcellona e a Londra dove
ho lavorato per MTV.
I legami con la mia terra e la mia famiglia mi hanno
riportato verso casa nel 2001. Ho trovato lavoro
a Bologna nella redazione internet di “Velisti per
Caso”, ho trovato l’”altra metà della mela” nella
città grassa-dotta-e-rossa e mi sono trasferita
a Vergato (Bo) sull’Appennino bolognese. Qui
è arrivato il primo figlio, Giacomo. Poi, il primo
libro “Viaggio a Ginostra” (Giraldi Editore). Poi la
seconda figlia, Marta. Poi il secondo libro “Evviva
sarò mamma. Aiuto!” (Aliberti Editore). Poi è
arrivato il terzo figlio: Lorenzo. Arriverà allora il
terzo libro? Mi chiedo. Mah, per il momento sono
impegnata a fare la Mamma-professional al 100%.
Elena Bertani ed Elisabetta TadielloScrittrici
Siamo nate nel 1988, rispettivamente ad Asola e a
Mantova. La nostra amicizia è iniziata frequentando
insieme il Liceo di Scienze della Formazione
Isabella d’Este di Mantova e si è consolidata tra
i banchi dell’Università Cattolica di Brescia, dove
nel mese di giugno 2011 abbiamo conseguito la
laurea in Scienze della Formazione Primaria.
Fin da piccola Elena amava perdersi nel magico
mondo dei libri fantasy e con la sua passione e
insistenza ha contagiato anche Elisabetta. L’idea
di iniziare a scrivere è nata per caso, quasi per
gioco, durante una lezione universitaria. Abbiamo
iniziato a mescolare idee ed emozioni e a dare
libero sfogo alla nostra fantasia.
Anna Maria BondavalliEditor Anna Maria Bondavalli, con la ragione sociale
“Anna scrive”, dal 1986, accanto al lavoro di
copista-correttrice di bozze, organizza incontri
con autori e mostre di libri per scuole e biblioteche
pubbliche.
In tali contesti, ha coordinato numerosi laboratori
di scrittura e di lettura, specializzandosi nella
proposizione di percorsi tematici di lettura a voce
alta, volti a riscoprire i piaceri della narrazione
e dell’ascolto. Organizza, inoltre, attività di
educazione ambientale per conto del WWF Italia
attraverso Parchi e Riserve Naturali del Basso
mantovano.
Ha preso parte attiva agli incontri del
Festivaletteratura di Mantova con gli scrittori
Mauro Corona e Mario Rigoni Stern.
“Anna scrive” - Via Ghinosi, 41 - 46035 OSTIGLIA (MN)
- tel. e fax 0386 32511- e-mail: [email protected]
Mariachiara CabriniScrittrice
Mariachiara Cabrini, è nata nel 1982 ed è laureata
in Storia dell’arte.
Gestisce un blog dedicato ai libri, con particolare
attenzione all’urban fantasy, “L’arte dello scrivere
...forse”: http://weirde.splinder.com/. Il blog,
nato tre anni fa, ha contributo a fare arrivare in
Italia autori stranieri di rilievo.
Mariachiara ha pubblicato nel 2008 un racconto,
“Ghiaccio”, nell’antologia “La vita che vorrei”
(Perrone Editore). Nel 2010 con 0111 Edizioni
ha invece pubblicato il suo primo romanzo,
“Imprinting love”, un chick lit con una spruzzatina
di giallo, mentre nel 2011 ha autopubblicato il suo
romanzo fantasy “La fiamma del destino”.
Vanni e Silva Camurri (Silvan)ScrittoriSono nati a Carpi, Signoria dei Pio e città di
Dorando Pietri e Paolo Belli, lui nel 1947, lo stesso
anno di nascita della scuderia Ferrari, lei nel 1951,
l’anno del primo festival di San Remo. Si uniscono
in matrimonio nel 1972, l’anno in cui Claudio
Baglioni lancia quella che qualcuno definirà la
canzone del secolo: Questo piccolo grande amore.
Sarà un caso?
Negli Anni ‘80 collaborano alla rivista quindicinale
“Vita Femminile” che pubblica loro novelle.
Nel 2010 decidono di comporre a quattro mani
racconti brevi che presentano a premi letterari.
Ottengono, come miglior riconoscimento, il Primo
Premio nel Concorso nazionale di Narrativa storica
inedita: “Sulle tracce dei templari: storie e misteri
d’Italia”. Prediligono i temi fantastici, mitologici e
fiabeschi affrontati con stile fluido e avvincente.
Sono stati testimoni di un buon tratto della Storia
recente e, soprattutto, hanno tante storie da
raccontare.
Mauro FantiniScrittoreNasce a Mantova nel 1974. I suoi due figli sono
la sua massima ispirazione per la scrittura
fantasy. Vicepresidente e ideatore del Modena
Fantasy 2010 e del San Giorgio di Mantova
Fantasy 2011, collaboratore della rivista “Fantasy
Planet” e Responsabile Commerciale della Colibrì
distribuzione. Divide la sua vita tra il lavoro e la
scrittura di Fantasy e Thriller.
È autore della trilogia fantasy “Gabriel e le pietre
del potere” (Silele, Linee Infinite), “I guerrieri
della Luce” (G.D.S.) e del Thriller “Il fabbricante
di giocattoli” (Arduino Sacco). È curatore editoriale
della collana Voci&Racconti (G.D.S.).
Riccardo Fera FotografoRiccardo Fera è nato a Cosenza il primo luglio 1976.
Ha vissuto e studiato in Calabria per poi laurearsi
in Scienze Politiche all’Università “La Sapienza” di
Roma. Oggi vive a Mantova, dove lavora presso
la sede provinciale dell’Acli, occupandosi di fisco e
previdenza sociale.
Da sempre appassionato di fotografia, ha
collaborato con diversi enti privati della Provincia
di Mantova per la riproduzione fotografica di
documenti e reperti storici.
Oggi impegnato nella fotografia digitale per la
documentazione di eventi legati alla musica e
allo spettacolo, non abbandona la pellicola e le
fotocamere d’epoca di cui è cultore.
Anna GiraldoScrittrice, Curatrice
Mi chiamo Anna Giraldo. Sono nata nel 1972 a
Quistello, dove risiedo tutt’ora. Dopo la Laurea in
Economia e Commercio e il Master in Informatica
gestionale, mi occupo di consulenza informatica.
La passione per la scrittura mi ha travolta nel
maggio del 2008. Scrivo romanzi e racconti di
genere fantastico. Alcuni dei miei racconti si sono
classificati in concorsi nazionali e locali e sono
stati pubblicati sia in digitale che in cartaceo.
Il 23 marzo 2011 è uscito il mio primo romanzo
dal titolo “436” a cura di Casini Editore.
Con il patrocinio della Biblioteca comunale e
dell’Assessorato alla Cultura di Quistello ho curato
questa antologia.
Max (Massimo) LaurenziFotografoMe medesimo: classe 1977, ingegnere informatico
con la passione per la fotografia digitale e
l’informatica in genere. Mi sono dilettato, in qualche
occasione, in progetti riguardanti l’impaginazione
digitale, tra i quali il famoso (a livello locale) “Al
Disiunari” di Roberto Villa.
Faccio parte della compagnia teatrale “Temenos
Teatro” da diversi anni, amo fare sport, leggere e
ascoltare musica.
Bruno MazzacaniScrittoreBruno Mazzacani è nato a Gonzaga il 13 febbraio
1943 e risiede a Pegognaga. Ha lavorato come
operaio metalmeccanico e attualmente è in
pensione.
Ha iniziato a scrivere i suoi pensieri già negli
anni ’60. La sua scrittura è frutto di immediata
ispirazione e descrive emozioni e sensazioni di
pensieri remoti o recenti.
Negli ultimi anni ha prodotto diverse raccolte,
creando in proprio quindici volumetti dal titolo
“Poe-pensieri (le mie verità)”, con l’etichetta
editoriale Bruno e Basta. Nel 2005 è uscito il
suo libro “Poe-pensieri (le mie verità)” (Loghino
Passera).
Carlo MorettiPittore, PoetaÉ nato a Suzzara il 18 ottobre 1963, giorno di
San Luca, protettore dei pittori. Che voglia dire
qualcosa?
Pittore, scultore e poeta, esprime la sua arte
lavorando prevalentemente con il legno, cercando
di non snaturare la materia prima e applicando
due dei principi estetici che regolano la produzione
dei componimenti poetici haiku: il Wabi, povertà
e naturalezza, e lo Yùgen, ciò che è misterioso e
profondo.
Ha al suo attivo 200 mostre tra personali e
collettive. É stato Presidente dell’Associazione
Artistica Euterpe, Medaglia d’oro del Presidente
della Repubblica, Medaglia d’oro di Sua Santità
Giovanni Paolo II, finalista Premio Arte Mondadori.
Marco Moretti Scrittore
Nato nei mitici anni Settanta del Secolo Scorso,
primogenito e figlio unico, oserebbe definirsi
unigenito, sente in sé stesso una vocazione
letteraria divenendo scrittore e pubblicista. Dopo
il Liceo Classico si laurea alla facoltà di Lettere
Filosofia con una tesi sull’idrografia storica del
Polirone.
Le sue ultime pubblicazioni sono un saggio
antropologico sulla figura del vampiro, “Tempo di
Vampiri” (Kronos, 2004) e una raccolta di poesie,
“Chiaroveggenza” (Genus Trado, 2010).
Lina MorselliScrittriceSono nata a Mantova il 12 giugno 1955, terza
decade esoterica dei Gemelli, come Dante
Alighieri. Ho la maturità classica e col senno di
poi sono felicissima di aver sudato sul latino e,
soprattutto, sul greco. Balbetto in inglese e in
spagnolo. Insegno nella Scuola Primaria. Mi
piacciono: la lettura, la scrittura, la cucina, i
viaggi, il giardinaggio e la politica attiva. Negli
anni passati, ma non dimenticati né rinnegati,
sono stata amministratore pubblico, collaboratrice
della RAI, e mi sono occupata a vari livelli, semi-
professionali, di intercultura, animazione culturale
per adulti e letture ad alta voce. Vivo a Villa
Poma, dove coordino, per la Biblioteca locale, un
agguerrito ed entusiasta Gruppo di Lettura.
Azzurra PontiGrafica, IllustratriceAzzurra Ponti nasce a Mantova nel 1984, fin da
piccola adora disegnare e pasticciare con forme e
colori. Dopo anni di studio “tecnico” (è geometra)
riscopre la magia dei colori e della creatività
navigando su internet dove nuovi e meravigliosi
modi di divertirsi sono nati senza che lei ne
sapesse nulla. Scopre la grafica pubblicitaria e
l’illustrazione e decide che è quello il suo sogno
nel cassetto. Nel 2009 il web le fa conoscere il
disegno digitale, la sua ultima passione.
TAVOLE STRETTE e i ragazzi del corso di fumettoIllustratoriTavole Strette, il cui foglio periodico è stato
pubblicato sulla rivista “L’Eretico”, è un gruppo di
ragazzi che condivide la passione per la nona arte,
quella del fumetto.
Grazie a Paolo Finotti, fondatore del gruppo, e
all’associazione “Gruppo Giovani”, nel novembre
2010 ha preso il via a Quistello il primo corso di
fumetto. Giulia Casoni, Luca Mazzola e Mattia
Maiavacca hanno frequentato il corso durante
i mesi invernali apprendendo la tecnica base
del fumetto e pubblicando alcuni lavori sul sito
ufficiale di Tavole Strette (www.tavolestrette.it).