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Antologia digitale mantovana sezione narrativa fantastica

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Quistello in cerca... d’Autore

Narrativa Fantastica

Page 3: Quistello in cerca ... d'autore

Biblioteca di QuistelloCuratrice Anna GiraldoEditor Anna Maria BondavalliCopyright dei testi e delle immagini dei rispettivi autoriPubblicazione gratuita priva di ISBN

Immagine di copertina Max LaurenziProgetto grafico di copertina Azzurra PontiImpaginazione Azzurra Ponti

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SommarioTullia Benati

1 Il lavoro di MarioAnna Giraldo

11 GiulioBruno Mazzacani

22 OceanoLina Morselli

26  La figlia del MagoMauro Fantini

37  La leggenda dell’Arco d’OroMariachiara Cabrini

54 AmnesiaSilvia Camurri

64 Elio GirasoleVanni Camurri

71  Il segreto della Selva ImmobileMarco Moretti

80 Il calzolaio della Slesia e Johannes CuntiusElena Bertani & Elisabetta Tadiello

85 Lacrime di LunaBiografie

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Il lavoro di Mario

Non era una questione di talento o di passione, ma era una spudorata questione di soldi. Certo è che avrebbe potuto sopravvivere sulle spalle dei suoi, ma non avrebbe potuto farlo per tutta la vita, e neppure a  lungo  perché  quel  poco  d’orgoglio  e  di  senso  di responsabilità che gli rimaneva glielo impedivano.Tutti dicevano: - Sei intelligente, vedrai che qualcosa 

troverai. Basta un’idea …Sì, ma era proprio quella che mancava!Fu così che Mario decise di darsi alle scommesse.

Erano tempi quelli in cui si scommetteva su tutto nel suo paese, tutti tentavano la fortuna, chi in un modo chi in un altro, quindi non avrebbe suscitato troppi rimproveri da parte di sua madre il fatto di voler giocare.

Dapprima tentò con il metodo più antico e tradi-zionale: le scommesse sui cavalli. Ma si rese subito conto che non ne capiva molto e che, soprattutto, la  corsa  dei  cavalli  era  uno  sport  per  gente  altolo-cata: ben presto si sarebbe accorta che lui non era

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dell’ entourage.Così  passò al  Totogol,  al  Totocalcio,  al  Totosei,  al 

Totoditutto, ma anche di calcio ne capiva ben poco e soprattutto non n’era entusiasmato: che perdesse una  squadra  o  un’altra  per  lui  non  aveva  impor-tanza. Era giunto alla conclusione che se la Fortuna avesse deciso di dargli una mano, lui dal canto suo doveva almeno metterci passione in quel che faceva. E abbandonò anche le scommesse sul calcio.

Non rimanevano molte chance al nostro povero Mario, che da quando aveva preso questa decisione vedeva i suoi pochi risparmi, composti perlopiù da vecchie mance premurosamente conservate e dagli esigui  proventi  di  lezioni  di  latino  impartite  tempo addietro, sempre più diradarsi.Ormai  il Casinò se  l’era giocato, nel  senso che  lo 

riteneva troppo costoso e troppo rischioso. Là le puntate di gioco erano  ingenti, da gran signori! Se avesse perso quel poco che gli era rimasto avrebbe proprio  perso  tutto!  E  chi  lo  avrebbe  poi  spiegato a sua madre? No, no, non se la sentiva proprio di entrare in un lussuoso e luccicante Casinò, frequen-tato da gente ricca e snob. No, se la Fortuna lo avesse aiutato - diceva fra sé e sé Mario - sarebbe stato in un posto più appartato, più riservato, fatto apposta per lui  insomma.  Se  lo  immaginava  caldo,  accogliente, sicuro, un posto dove si potevano dormire sonni

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tranquilli … Sonni tranquilli?Sì, sonni tranquilli! Ripeté tutto agitato Mario: ecco 

l’idea che gli mancava! La Fortuna lo avrebbe trovato in un posto dove poteva fare sonni tranquilli.

Beh, a questo punto occorre fare una nota tecnica per  lo  sventurato  lettore,  perché  si  dà  il  caso  che Mario, benché fosse un tipo indeciso e incline al dolce far niente, quando aveva un’idea in testa (e un’idea buona  questa  volta,  per  giunta),  correva  subito  a metterla in pratica. E così, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio, Mario si infilò di corsa nel suo letto.Forse occorre aggiungere anche una seconda nota 

tecnica per il sempre più spaesato lettore: si dà infatti il caso che nel paese di Mario andassero di moda le  scommesse  e  una  di  quelle  più  in  voga  in  quel momento fosse il gioco del Lotto. Che c’entra il gioco del Lotto con il letto? Ma è universalmente risaputo, ignorante  di  un  lettore,  che  i  numeri  da  giocare  si sognano, e che quindi la Fortuna li avrebbe sussurrati a Mario nel suo lettuccio, in sogno!

Così Mario si mise subito all’opera. Non aspettò che arrivasse la sera. Sua madre lo vide salire le scale e per tutta risposta al suo sguardo inquisitore ricevette un: - Vado al letto!Mario  si  svestì  e,  ancora  tutto  agitato,  indossò  il 

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pigiama comodo di flanella a pois; poi, e si infilò nel suo caldo lettuccio. Era un poco difficile addormen-tarsi  con  tutta quella  frenesia addosso ma nel  giro di pochi minuti, con un sottofondo di musica brasi-liana, Mario si addormentò con il dolce pensiero di veder comparire la dea bendata, bellissima, al passo di samba.

E, meraviglia delle meraviglie … così fu.Mario si svegliò tre ore dopo con un rilassato sorriso 

sulle labbra. - Addio, mia cara brasilera - aveva appena fatto in

tempo a dire fra la veglia e il sonno, quando guardò l’orologio:  erano  le  sette  di  sera  ed  era mercoledì. Avrebbe fatto appena in tempo a correre alla ricevi-toria del paese e giocare i tre numeri sussurratigli in suadente portoghese.Non  c’era  tempo  da  perdere.  Mario  si  cambiò 

solo  i  pantaloni,  si  infilò  le  scarpe  e  con  la maglia del  pigiama  a  pois  ancora  addosso  si  precipitò  giù dalle scale. Sentiva  lo sguardo sempre più esterre-fatto della madre su di sé, ma non aveva tempo di dare  spiegazioni.  Uscì  di  casa  sbattendo  la  porta. Fece appena in tempo ad entrare nella ricevitoria per giocare: erano le sette e venti.Il barbuto tabaccaio lo guardò storto: aveva forse 

intravisto  il  colore  rosso  dei  pois  sotto  la  giacca marrone? Ma che importava!

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Alle otto e trenta precise, Mario si trovava tutto tremante  davanti  al  televisore  in  compagnia  della madre e di tutta la famiglia per seguire le estrazioni del Lotto.

8, 13, 27 sulla ruota di Palermo. Sentì annunciare.

San Paulo do Brasil e la bella Dea bendata non l’a-vevano  ingannato!  Incredibile!  Mario  aveva  vinto! Non sapeva ancora quanto, ma ciò non importava. Per Mario questa era la prova che il suo metodo era esatto:  la Fortuna  lo avrebbe baciato  in sogno. Questo sarebbe stato il suo lavoro!La madre,  che non poteva  contenersi  dalla  gioia, 

saltava e lo baciava come se si fosse laureato ad Harvard, come se si fosse improvvisamente redento dagli anni di inettitudine. I fratelli, le mogli dei fratelli e i bambini lì riuniti per pura coincidenza, stavano già brindando con bottiglie di spumante e vecchi panet-toni del Natale precedente.

Tutti erano fuori di sé dalla gioia, ma: - Non bisogna fare troppo rumore - asserì la madre, guardando con circospezione fuori dalla finestra, - I vicini ci sentono e poi si insospettiscono. - Macchè … - rispose sicuro Mario - Meglio che lo 

sappiano, ho un metodo infallibile per trovare numeri anche per loro!

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- Come?, Cosa? -, si inserirono increduli i fratelli - Non avrai agganci altolocati a Palermo? -  Macchè…-  rispose  Mario  con  fare  sempre  più 

saccente - Ho un metodo segreto, del tutto mio, per-fettamente legale -. E se proprio e proprio, un gancio altolocato ce l’ho a San Paulo” pensò contento fra sé e sé.

Mario non voleva rivelare tutte le sue risorse, ma non  voleva  neppure  tenere  per  sé  tutte  le  sue scoperte, voleva semplicemente farne, come si dice, un Business! - Voi ditemi quanto volete giocare sabato prossimo, 

che poi i numeri e la ruota ve li do io -. Asserì Mario deciso.La famiglia rimase basita, incredula, muta.Tanto valeva crederci e provare, pensò la madre. - Va bene,  io …  io voglio giocare, caro … ma per 

questo sabato meglio non dirlo ai vicini.

Il venerdì notte Mario andò a dormire un poco agitato.  Si  infilò  nel  letto  con  lo  stesso  pigiama  di flanella a pois rossi. E se la Dea Bendata non l’avesse visitato quella notte? Se fosse stato solo un grande colpo di fortuna del tutto isolato? No, no, impossibile, si tranquillizzò Mario, se la Fortuna aveva deciso di andarlo a trovare, doveva trovarlo fiducioso, convinto e  pronto  ad  accoglierla.  Mise  un  bel  sottofondo  di musica di Bahia, e dopo poco… Zzz… era già partito 

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oltreoceano, destinazione San Paulo.

La  mattina  seguente  si  risvegliò  dando  un  bacio all’aria della sua stanza, con un pacifico sorriso sulle labbra. Era proprio bella quella spiaggia con la dolce brasiliana!

Fece una risanante doccia, si vestì di tutto punto e poi scrisse un bigliettino che lasciò sul tavolo della colazione per la madre. Riportava i tre numeri e la ruota su cui giocare, e ridendo fra sé e sé Mario vi aggiunse: “P.S. Per te questo servizio è gratis, ma poi chiederò un compenso per la fatica”.

Sabato  sera,  otto  e  trenta.  Famiglia  riunita  come i tre giorni precedenti davanti al televisore. Mamma fremente, a tratti incredula, a tratti speranzosa, guardava il figlio Mario, in giacca e cravatta, strana-mente sicuro di sé. 

90, 17, 7, Palermo.

Un  bel  terno  secco!  Di  nuovo,  ancora!  Le  urla questa volta non si contennero, la mamma era svenuta, aveva puntato una bella sommetta. L’amica del vicinato si affacciò alla finestra. Mario aveva indo-vinato di nuovo e oramai tutti in paese lo avrebbero saputo.

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Si sparse la voce che Mario avesse un dono, che Padre Pio (“P” come la ruota di Palermo) lo aiutasse, non si spensero le dicerie che conoscesse un mafioso nel capoluogo siciliano ... e poi che … e che … e che … Di fatto, fra le incertezze e la curiosità della gente, partì il Business.Per Centomila Lire a sogno (aggiornato poi a Cento 

Euro)  Mario  sognava  per  conto  terzi  in  genere  un terno, quasi sempre sulla ruota di Palermo, qualche volta  Salerno  o  Bari  (quando  l’affascinante  Dea decideva  di  prendere  il  sole  sulle  spiagge  di  San Salvador do Bahia o si trasferiva per affari a Brasilia).Di  pigiami  e  di CD brasiliani,  in  seguito Mario ne 

comprò anche altri, vincendo la scaramanzia iniziale. Evidentemente anche la bella bendata lo aveva preso in simpatia e lo visitava volentieri.

Ma ciò che più importava, o meglio, che più impor-tava a Mario era che adesso aveva un lavoro! E un lavoro  in piena  regola, con  tanto di partita  I.V.A. e Commercialista. Avrebbe potuto guadagnare ciò che voleva e ritirarsi tranquillo in qualche isola sperduta, ma non era questo il punto. Il punto era che sua madre non lo considerava più un fannullone. La sua occupazione era riconosciuta socialmente da tutti, senza contare che probabilmente avrebbe creato nuovi posti di lavoro, avrebbe creato uno studio o più studi in Italia. Le potenzialità del mercato erano pra-

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ticamente  infinite! Bastava sognarle. Si era persino fatto fare dei biglietti da visita. E niente di più pro-babile che il nostro paziente lettore possa trovarli in giro per bar, tabacchi, ricevitorie e negozi specializ-zati. Recano la scritta:

Il Dott. Mario Ugotti- libero professionista, regolarmente iscritto all’Albo dei Sognatori -

sogna per voi.Riceve solo su appuntamento.

Telefonare ore pasti.

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Giulio

Se non puoi combatterli, unisciti a loro.

- Giulio! Giulio! - Le voci tintinnano festose - Avanti, Giulio! Vieni a danzare! - Mi invitano liete prima di scintillare in una risata.

Il nastro di luce della rosea aurora si è appena sro-tolato a mezz’aria tra gli archi di pietra dell’Esedra. Ancora il frivolo sonaglio di una risata.

La linea retta del ponte tra le peschiere separa netta le simmetriche armonie del giardino.

- Giulio! - È un richiamo soave al quale non so resistere.

Mi presento ogni sera in divisa da custode, come da regolamento. È ridicola in questo luogo. Dormo nella branda aperta amorevolmente dalla commessa del bookshop, ogni sera prima di andarsene.

È infatuata, è evidente. Penso che dovrei chiederle di uscire una volta.

La sento sospirare spesso mentre mi saluta e mi dà la buonanotte.

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Buonanotte.

C’è ancora una stella sopra la mia testa. L’ho osser-vata impallidire nel cielo. Ha atteso che tutte le altre si assopissero per regalarmi il suo ultimo sfavillio. Sfilo la giacca con lentezza. La tengo tra l’indice e 

il pollice per un istante, poi la lascio cadere a terra. Infilo le dita nel nodo della cravatta, si allenta con indolenza.

- Andiamo! Vieni alla festa! - Mi incitano in coro a sbrigarmi.Devo chiudere gli occhi per costringermi ad abban-

donare la meraviglia del sole che nasce dietro l’emi-ciclo di archi perfetti.

Le dita scivolano dalla cravatta alla fibbia della cintura, la sfilano abili.Percorro veloce la Loggia di David. Le scarpe di cuoio 

schioccano  come  zoccoli  sull’impiantito  dei  marmi preziosi. Uno a uno slaccio i bottoni della camicia. Il mio passo si affretta e i calzoni calano a terra.

- Giulio!Io non posso che accorrere.

Mio nonno mi diceva - Giulio, Giulio. Dai retta a me. Molla quell’idea balzana dell’Università e rimani a Mantova … quando sarò morto io prenderai il mio posto. Dai retta a me, Giulio.

Era un vecchio pazzo, il nonno. Lo trovarono una

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mattina, i suoi vestiti sparsi in giro e lui nudo come un verme, disteso sul pavimento della Camera dei Giganti. Aveva fatto il custode notturno per trent’anni senza segnare un giorno solo di malattia. Aveva  la testa rotta, un grosso livido viola proprio sulla fronte e un sorriso beato stampato in faccia.Gli dèi dell’Olimpo lo guardavano affacciati all’affre-

sco del soffitto. L’occhio di Polifemo sembrava velato di una compassione nuova e umana. Da quel viso deformato dalla caduta di sassi fissava le punte dei piedi del cadavere di mio nonno.Aveva scordato di togliere i calzini, mio nonno.

Spalanco il portone.Mi avvicino al camino di pietra veronese. Fetonte

brucia e cade dal soffitto, con tutto il suo cocchio e i suoi cavalli.Il  verde  ramarro  di  stucco  lancia  uno  sguardo 

ammiccante  mentre  scivola  giù  dalla  cappa  del camino.Io lo seguo.Lascio le scarpe tra un passo e l’altro e la maglietta 

della salute nella Camera dei Venti. Tolgo le mutande quando ormai sono sulla soglia.

Ci sono cavalli al trotto nella sala adiacente e mormorii alle mie spalle. - C’è una festa qui! - Esclamano in coro.Mi accorgo di non aver sfilato la cravatta. Quasi mi 

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impicco per sbarazzarmene in fretta.Suoni di flauto e di cembalo mi accolgono. Un coro 

muto di soprano e versi di menestrello.Accedo alla Camera di Psiche.

Il lavoro iniziò a gennaio. C’erano trenta centimetri di neve nel giardino pubblico del Teieto e ci nevicava sopra che parevano brandelli. I miei stivali sprofon-davano completamente,  la neve vi entrava dall’orlo del  gambale,  soggiornava  per  un  istante,  in  appa-renza innocua, poi scivolava giù e impregnava i cal-zettoni di lana. Il cielo di madreperla si era tenuto a battesimo un freddo bianco e luccicante.

Palazzo Te non ha un impianto di riscaldamento.Io lo fissavo. Immobile da più di cinque secoli nelle

sue fondamenta, sulla sua pietra l’ultima neve non si sarebbe sciolta che a primavera. La commessa del bookshop mi consigliò di portarmi 

una termocoperta, ma il responsabile che mi spiegava il  lavoro  la  fulminò con  lo sguardo e disse che mai avrei potuto portare una siffatta bruttura moderna tra le mura del magnifico palazzo.

Allora pensai che avrei passato tutte le mie notti nella gelida fissità di quell’arte antica fatta di déi nudi sui loro cocchi dorati. Senza luce, né calore, l’unico che  mi  avrebbe  fatto  compagnia  sarebbe  stato  il fantasma di mio nonno.

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- Giulio!  -  Le Ore  spargono petali  variopinti  e mi chiamano. Uno dei Satiri, geloso, emette un suono strozzato. Eccola! Poggia i ditini sottili sul tavolo bianco. Il suo 

profilo è perfetto. Con l’altra mano indica il dio mes-saggero. Anch’egli è invitato al banchetto.Il fruscio del suo peplo l’accompagna mentre si gira 

e si rivolge a me.Porta alla bocca la stessa manina che poco fa

indicava Mercurio, nei suoi occhi lo sguardo è tenero e ammiccante - Oh! Giulio! Indossi ancora quei ridicoli calzari? - Indica i miei calzini blu. Dimentico sempre di toglierli prima.

So che devo fare io il primo passo. È molto più dif-ficile per loro.

Allora lei tende la mano e fa un passo a sua volta. Si muove. È lieve e fatata nelle sue curve procaci avvolte appena da un velo discinto, una farfalla, libera a un tratto dal suo bozzolo. Si schiude lenta.

È sempre un batticuore.

Il fantasma di mio nonno non venne mai.La prima notte non ero riuscito a prender sonno.

Con l’intento di scaldarmi i piedi, mi ero aggirato per le camere del Palazzo. Con un latente senso di colpa, avevo puntato la luce della torcia elettrica contro gli affreschi  e  gli  stucchi.  Tutti  i  personaggi  raffigurati erano  indifferenti  a me,  al mio  congelamento,  alla 

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mia solitudine. Per più di una volta ero tornato nella Camera di Psiche ad ammirare i corpi armoniosi delle due ninfe dipinte ai lati del soffitto nell’atto di versare l’acqua. Mi  ero  lasciato  prendere dal  panico. Quale affresco avrei contemplato la notte successiva? Forse i sei cavalli mansueti nella stanza adiacente? Oppure quelli  lanciati  al  galoppo  sospesi  nella  volta  della Camera del Sole e della Luna impegnati a trainare la biga di Selene e la quadriga di Apollo?Prima  dell’alba,  colto  dalla  stanchezza,  avevo 

dormito un paio d’ore nel sacco a pelo sopra la branda aperta nel bookshop.La notte successiva mi portai da leggere. Mi avvolsi 

in tre strati di coperte fino al naso e passai tutto il tempo  assorbito  dal  mio  libro.  Nell’ora  precedente all’aurora, con le dita e il naso congelati, mi assopii.

Le sue tette sode sono l’ottava meraviglia. Ravvia i  riccioli  con  un  gesto  studiato  e  sorride.  Mi  porge l’indice e il medio perché io li baci.Eseguo servile.La festa si sta animando. Un fanciullo si è lanciato 

fuori dall’affresco con la vivacità dei suoi anni. Saltella intorno improvvisando una danza. Poi corre a tirare la fune cui è legato un caprone. Un volo di amorini si  stacca all’improvviso  in una 

risata allegra. Raggiungono le ninfe dentro la lunetta sopra la mia testa e le invitano a uscire.

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L’elefante barrisce dalla parete alle mie spalle. Mi fa sobbalzare.- Giulio! Ti prego. Libera quel bizzarro quadrupede 

- cinguetta lei distogliendo la manina dalle mie labbra per indicarlo e mentre lo dice il velo scivola scopren-dole il pube. Lei non se ne cura e saluta le sue ancelle uscite da una lunetta della parete meridionale con un cenno benevolo del capo.

Annuisco. Ma prima di muovermi faccio scivolare il braccio nell’incavo morbido della sua schiena.- Non da solo. Aiutatemi Voi - la lusingo reverente.

Di notte lavoravo. Nessuna ragazza mi avrebbe mai preso sul serio se le avessi chiesto di uscire il pome-riggio.  Tranne  la  Dina.  Lei  faceva  la  maestra  ele-mentare e lavorava solo il mattino. Non fece storie, quando l’invitai a cena alle sei del pomeriggio.Una volta, in primavera, la feci entrare di nascosto 

passando dal ponte tra le peschiere. Per tutta la notte la portai in giro per le camere e le logge del palazzo. Se provavo ad abbracciarla, si scostava e mi diceva di puntare la torcia su questa o quella parete. Lei a Palazzo Te non era stata mai e voleva vedere tutto quanto.  Tentai  di  spiegarle  che  non  si  può  vedere bene tutto a Palazzo Te, nemmeno in cent’anni, ma finse di non capire e continuò a curiosare a destra e a manca corredando  le  sue scoperte migliori  con gridolini sommessi. Alla fine la condussi nel giardino 

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segreto. Lei volle contare le stelle una ad una e rimase con  il naso per aria finché  il cielo  iniziò a schiarire. Allora io la trascinai nella Grotta e, tra le madreperle luccicanti, riuscii finalmente a farle l’amore.Ma  un  istante  prima  che  la  nostra  passione  rag-

giungesse il culmine, ad un tratto, mi parve di udire un sospiro. Un sospiro diverso. Né mio, né della Dina.Alzai  gli  occhi  e  il  cielo  sa  per  quale motivo  non 

mi venne un infarto e non rimasi secco sopra di lei. C’erano un uomo e una donna in piedi accanto a noi. Si tenevano la mano e sospiravano.

La Dina lì sotto non si accorse di nulla. Stava mugolando  di  piacere  a  occhi  chiusi.  Così  portai  a termine in fretta e furia il mio lavoro e poi la baciai a lungo, come sapevo che le piaceva, sussurrando - Stai lì, adesso. Tieni gli occhi chiusi che ti faccio una sorpresa.

- Ritieni che io sia bella, Giulio? - Bisbiglia al mio orecchio in cerca di complimenti.- Siete la più bella - tolgo un acino d’uva dal graspo 

antico di cinquecento anni e lo avvicino alle sue labbra.Si  scosta  capricciosa  -  L’ho  sentita,  oggi,  quella 

guida turistica antipatica, sai!? Dice che io non sono io! Per tutti gli déi dell’Olimpo! Mi ha scambiata per una di quelle sciacquette perditempo - indica indi-gnata una delle Ore.

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Mi porge di lato la manina perché io la baci ancora.Intanto sono iniziate le danze.Al  centro, gli  sposi, Amore e Psiche. Si guardano 

adoranti  mentre  volteggiano  al  canto  delle  ninfe. Tutto intorno damigelle e gentiluomini, satiri e putti. Una  pioggia  di  fiori  scende  delicata  dalle mani  dei fanciulli  alati. Bestie esotiche si aggirano  tra  i  con-venuti. Poco distante da noi è adagiata una tigre, un bambinetto la imbocca di carni alla brace.Bacio la sua mano e proseguo sull’avambraccio, su 

su fino al collo. Tengo le sue dita tra le mie, basta una lieve stretta perché intuisca l’invito.Annuisce e ride. Ride come un tintinnio così a lungo 

che mi pare di percepirvi una melodia. E quando il suo riso termina tra le mie labbra, con uno, cento, mille baci ella si concede a me tra i cinguetti festosi delle sue ancelle.

La Dina aveva gli occhi chiusi.Io  guardai  attentamente  quelle  due  figure,  nella 

luce crescente dell’alba.Avevano entrambi un viso famigliare. Stavano lì, in 

silenzio, e guardavano. Allora ricordai alla Dina di non aprire gli occhi. Mi distolsi da lei e andai a controllare i mosaici. In quello della balena, cavalcata da Astolfo e Alcina in fuga, era rimasto soltanto il cetaceo.

Verificai con attenzione prima di crederci. Astolfo e Alcina erano usciti dal loro affresco e stavano osser-

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vando noi. Era proprio vero.

Un boato fa tremare i muri. La festa si congela di colpo.- Ancora quei cafoni dei giganti! - Sospira lei delusa - Possibile che rovinino sempre tutti i nostri piani?Un altro boato ancora più possente.Psiche si precipita alla porta. È già in lacrime. Non 

gliene va dritta una, poverina.Dietro di lei c’è Amore, tutto premuroso, ma pian-

gerebbe volentieri anche lui. Come ogni volta, stava aspettando  di  avere  un  po’  di  privacy  prima  di consumare.Io l’ho capito già da un pezzo, invece, e anche oggi 

ho avuto l’accortezza di cogliere l’attimo.

A Palazzo Te, la Dina non l’ho mai più fatta venire.L’ho sposata. È durata quasi un anno. Quanto l’ho 

lasciata, lei mi ha domandato – Hai un’altra?Le ho risposto – No – poi me ne sono andato in

tutta fretta, erano quasi le otto, l’ora del mio turno a Palazzo Te.

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Oceano

Remoti ricordi emergono ora tra le tortuose vie di un cervello che sta invecchiando ove assillanti pensieri tornano a rivedere l’inizio di una vita terrena.

Ricordo che pochi attimi dopo la mia materiale presa di coscienza di esserino apparso in un caldo e sicuro ambiente sempre in movimento vidi tanti forse migliaia  forse milioni di miei  simili.  In un attimo di frenetico terremoto tutti con entusiasmo al suono di una carica suonata da trombe boschi caverne piccole e grandi qualcosa ci incitava a correre forte sempre più forte.

Arrivare primi anche con il fiatone era importante anzi indispensabile.A  nord  esserini  tondeggianti  attendevano  uno  di 

noi.  Feci  ad  altri  lo  sgambetto  e  con  impeto  a me sconosciuto mi buttai violentemente su quell’ovino ne sentii subito il calore e penetrato tra le sue pareti mi adagiai sfinito. Avevo colpito per primo l’obiettivo e  mi  addormentai  sognando  cose  nuove  mai  viste prima.

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Fui svegliato di soprassalto e non so chi mi comandò di mettermi al lavoro. Mi fu detto che gli altri mie fra-tellini si erano smarriti e non trovando la giusta meta avevano preso altre vie. L’ambiente che mi ospitava era caldo e sicuro e il mio lavoro continuava bene anche se a volte mi prendeva la stanchezza. Passò un po’ di tempo e la mia immagine si fuse con ciò che mi circondava  cambiavo  continuamente  d’aspetto  e  di volume. Sentivo attorno a me rumori emozioni nuove a volte frizzanti a volte tranquille o di malessere. Allora  non  sapevo  dell’esterno  io  conoscevo  quel 

mare  non  quale  oceano  ci  fosse  oltre  quell’uni-verso forse qualcosa di grande di importante che si muoveva e che ci forniva di cibo per nutrirci. Spesso si sentivano voci altoparlanti che comunicavano strane notizie ancora incomprensibili ma che piano piano io recepivo. Mangiare bere ascoltare un poco di ginnastica e tra 

il cullare delle onde crescevo. Un pezzo più lungo un altro  più  grosso  e  tondo  una  protuberanza  piccola e importante qualche foro e a metà via un tubo un cordone da cui arrivavano prelibati alimenti. Ero un fagottino  e mi  feci  piano  piano  più  birichino  avevo imparato a fare scherzi e a scalciare ma oltre il mio universo sentivo pace quiete e per ciò che combinavo non era mai rimproverato né castigato. 

Sentivo che passava il tempo avevo una stanchezza universale  avevo  voglia  di  emigrare  da  quel  globo 

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per esplorare altri universi. Chissà cosa avrei trovato forse una spiaggia asciutta o altre cose che mi erano state riferite da quando pian piano avevo cominciato a capire i rumori le sensazioni e a comprendere il significato  delle  parole  che  venivano  dall’alto  forse da un’altra galassia da un mistero che avrei voluto vedere. La mia curiosità si faceva sempre più grande e ascoltavo con grande attenzione ciò che arrivava dal mondo esterno a volte sentivo tensioni ostili al mio ambiente chissà cosa succedeva in quel mondo. Poi tutto cessava e sentivo un grande benessere c’erano stati  tempeste  trombe d’aria sconvolgimenti e cose che non riuscivo a capire.

Nuotavo fantasticavo pensavo a cosa sarebbe successo se il mio nudo corpicino di colpo fosse stato trasferito  in  quell’universo  misterioso  di  cui  cono-scevo solo i rumori e le sensazioni trasmesse.

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La figlia del Mago

Apro la finestra per far entrare la nebbia. In quest’ora  e  in  questo  periodo,  a  spirali  e  fiotti,  è la migliore. Non mi piace  il  flusso continuo, non ha ritmo, mentre i fiotti di nebbia possono farsi beffe della leggerezza e seguire il battito del maglio che fin qui mi ha condotto, a fare di me quella che sono. Io  racchiudo  il  rumore  e  il  suo  peso;  il  definitivo 

gesto dell’abbattimento e il tonfo cadenzato trovano spazio tra le pieghe fluenti del mio abito, e nei refoli di nebbia. Le altre non  lo sanno, guardano altrove, nessuna 

mi ha mai fissato. Ma io le ho passate una per una in rassegna, intru-

folandomi sotto le pieghe che incorniciano l’ovale del viso. Volevo sapere come sono, cosa distingue  loro realmente da me, che sempre ho saputo chi ero, fin da bambina, fino ad averne la conferma a otto anni, in un giorno di febbraio. Nebbia a banchi.

Cammina all’indietro di nebbia in nebbia, di giorno

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in giorno, di anno in anno. Racconto di bambina, ricordo vivace, parole diverse a descrivere il tempo passato.

Bella  ero.  Di mia madre  gli  occhi  azzurri,  di mio padre tutto il resto.

Piccola e armoniosa era mia madre, lavandaia.Prima di mettere a bagno un vestito, un  lenzuolo 

o una camicia, fisso li guardava, tra mani e polsi se li rigirava, li appallottolava per poi riaprirli, li faceva spesso frusciare avvicinandoli a un orecchio. Mia madre i tessuti li faceva parlare, ne conosceva l’intima natura. Mai ha sbagliato un lavaggio. Di fretta andava, in fretta apprendeva gli acquatici bisogni delle varie tessiture e con rapida precisione dosava la concen-trazione dei saponi e la temperatura delle liscive, poi il bucato affondava fino in fondo al mastello e a volte le braccia immergeva fin quasi alle ascelle. 

Mia madre alla fine sciacquava, non una lacrima di  sapone  rimaneva  e  in  silenzio  guardava  l’ultima acqua fredda e quasi pulita del risciacquo finale, fino a quando dal buco del mastello spariva in un ultimo gorgo osceno con quel suo verso quasi digestivo.Io mia madre guardavo. La biancheria ho imparato 

a piegarla appena ho potuto. Non mi sono mai posta il problema se farlo mi

piacesse o no, lì ero per un caso necessario, perché l’arrivo di mio padre aspettavo.

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Il fumo della nebbia e il fumo del bucato, il bianco dell’una e dell’altro, l’artificio è già pronto, tocca l’umido, stringi il vapore, sfrega le mani e apri gli occhi.

Alto e statuario era mio padre, bene si vestiva, frutta e  granaglie  commerciava,  in  bicicletta  si  spostava. Una bella bicicletta nera con la canna lucida sempre, un fanale rosso dietro e giallo davanti, per la nebbia. 

Poco parlavamo io e mio padre, ma tutto lo stesso ci dicevamo. Lui arrivava e subito vicini stavamo io e lui. Ci guardava, mia madre, e ha capito a forza di guardarci. Una donna intelligente era.La figlia del mago io ero. A volte la gente esprimeva 

sospetti:Nell’orto sputava su un pomodoro.Da solo cantava davanti al pozzo con voce di donna.Non va a messa, ma smette di pedalare davanti alla

chiesa.La gente ha una gran fantasia, ma a volte ci prende, 

senza volere.Un mago era mio padre.

Guardatelo bene, è un mago, è un mago!

Negli occhi mi  fissava mio padre e  intanto  le sue mani  intrecciate alle mie  teneva, grandi  le  sue con le  piccole mie.  Due  pagine  di  pelle  su  cui  scrivere ciò che era necessario mettere in circolo. E il circolo

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funzionava, due fluidi eravamo io e lui, una chimica aliena ci univa. Un giorno è arrivato mentre pelavo patate:- Io temo i coltelli, quando vengo da te devono stare 

dentro ai cassetti. Mi piace invece sentire quando battono  il  frumento  e  il  frumentone  sull’aia.  Molte cose devi ancora imparare.Avevo sette anni allora e il coraggio mi mancava per 

chiedergli se vivere il suo tempo o quello di mia madre.Non erano sposati i miei genitori. Mio padre sì, con 

un’altra donna da cui due figli aveva avuto. La moglie abbastanza  ricca, ma  i  figli  erano  vuoti. Mio  padre aveva visto mia madre mentre sussurrava qualcosa a un lenzuolo e aveva capito che da lei avrebbe avuto figli pieni. Io ero la sua figlia piena.

Mia madre amava mio padre, mio padre non amava lei. Voleva me, mio padre, e basta.

Amore terreno, di donna artigliata, possesso sicuro e legame vitale: la donna lo cerca, il mago non vuole. Ma vale la forza dell’artificio, regge la bava dell’incantesimo.

Una  casa  voleva mia madre  con  lui.  Di  insulti  lo copriva, ma lui neanche rispondeva. Con violenza lo schiaffeggiava, ma lui fermo restava e niente il volto gli segnava. 

Io alle liti assistevo con indifferenza, a volte provando pena per mia madre, che invano sperava di

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fargli del male. Sperava che, inferto da lei, il dolore fisico potesse convincerlo a cambiare idea. Terapia banale, che a volte funziona, ma lui aveva una sensibilità straniera, da cui solo la punta affiorava, chiamata dagli altri egoismo. Il mago, mio padre, a schiaffi e sputi non reagiva, a guardarla si  limitava per  riportarla  all’incantesimo  del  lenzuolo.  A  quel punto io, che la mia parte silenziosa recitavo dietro i mastelli d’acqua calda, potevo anche andarmene.

Fino a quando con una bastonata sulla testa lei lo ha colpito. Verso di lei lui si è girato e l’ha guardata come mai più ho visto fare da altri esseri viventi:

- Non puoi farcela, mai verrò a vivere con te. Neppure la tua violenza mi può toccare, non hai ancora capito?Ci ha guardato da allora mia madre con morbosa 

e maniacale attenzione. Non cedeva, voleva averla vinta ad ogni costo, doveva trovare il modo di tener-selo tutto per lei. Era dietro la porta quella volta che le patate pelavo. Quello è stato, nelle nostre vite, uno dei giorni fatali.

Ha capito, non resta che agire, la lama impugnare, il sortile-gio spezzare, la vita finire e il possesso affermare. E’ un mago, ma più incantamento lo dà la follia.

Ritorna a quest’oggi, riprendi il linguaggio e rivivi la scena, incastra il passato in questo presente. Rialza la voce, scandisci parole, finisci l’infanzia, diventa una donna.

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Nella nebbia di febbraio lo ha atteso per più di un’ora  fuori  dall’osteria. Mi  credeva  chiusa  in  casa, ma ero uscita da una piccola finestra della lavanderia e stavo poco distante da lei, dietro a una colonna dei portici. Lei  stringeva  il manico del  coltello. Lama  lunga e 

affilata, punta acuminata, un’arma buona  in cucina come  in mano a chi deve dare  il  colpo di grazia al maiale da macellare.

Lui è uscito col cappello in testa ed è salito in bici-cletta. Lei gli si è avventata contro, con una violenza fredda e quasi misurata. Mentre lui cadeva sulla strada di ghiaia, lei urlava: 

versi con parole, amore profondo e odio senza fine, delirio di possesso e vendetta. Il coltello si affondava con un rumore sordo, come se si incastrasse in un sacco di frumento, una volta, due, tre … Ho contato ventiquattro colpi, restando immobile in quei miei otto anni che già valevano cento volte di più, asso-lutamente cosciente che tutto doveva compiersi e che ora restavo io al posto di mio padre, a vivere un tempo diverso, a scoprire tutto di me, che era come scoprire tutto di lui. Mia  madre  uccideva  mio  padre  nell’unico  modo 

previsto e possibile.Toglieva  la  vita  a  lui,  una  vita  pronta  a  sfidare  il 

tempo e la natura, per lasciarla del tutto a me. Mia madre accoltellava quanto era stata, quanto

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aveva vissuto, affondava una lama nelle sue scelte sbagliate,  pareggiava  i  conti  con  il  suo  amore  e  il suo odio, rinunciava al suo tempo a venire, dando alle infinite ore della sua trentennale galera il suono sordo dei colpi mortali, come un ossessivo ticchettio di un orologio omicida.

Di me non si era accorto nessuno di quei dieci uomini usciti correndo dall’osteria e rimasti impietriti a guardare lo scempio. Dieci uomini grandi e grossi incapaci di intervenire, nessuno ha avuto la presenza di spirito di aggirare mia madre, prenderla di spalle e immobilizzarla. Certo, lei aveva un lungo coltello in mano, ma era pur sempre una donna piccola …

Ma no, cosa mai pensavo?Ero una donna anch’io, come lei, e come lei capivo 

ciò che mio padre non mi aveva detto, perché quello lui non lo sapeva, o forse non aveva fatto in tempo a dirmelo: fino a che punto può arrivare quella che molti si ostinano a definire “solo una femmina”, cosa può fare la vista del sangue, quanta forza può pos-sedere chi appare debole, quanta paura e pochezza possiedono i maschi che molti si ostinano a chiamare “uomini”,  quanto  male  faccia  sprecare  l’amore, quanto sia impalpabile il confine tra amore e odio, quanto vale una donna.

Mia madre aveva venticinque anni quando è diven-tata assassina.

Al processo so che ha confessato tutto, ha chiarito

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tutti  i  particolari,  ma  non  ha  risposto  ad  un’unica domanda,  quando  le  è  stato  chiesto  perché  non avesse pensato per esempio al veleno, ma avesse scelto proprio un coltello per uccidere.

Mia madre mi voleva bene.

Continua, rimani reale, seppure ancora per poco, disvelati adesso e lascia che il seguito induca stupore. Affidati al vero, e nulla lascia in sospeso.

Sono andata un po’ a scuola, nel collegio di suore dove mi hanno mandata dopo la sentenza. Mi è piaciuto studiare e ho pensato che potevo conti-nuare a farlo in santa pace chiudendomi nello stesso convento.

Adesso sono qui e non posso dire di trovarmi male, anche se questa non è certo la mia ultima desti-nazione. Ho davanti a me tutto  il  tempo che voglio e prima di ripartire devo essere ben certa di tutto quanto posso aspettarmi e pretendere da me.A volte sono tentata di restare qui, tra queste grandi 

mura protettive, a modulare la mia voce insieme a quelle delle altre suore e a chiuderla poi nel mutismo obbligatorio, che a molte pesa, ma che per me è un vero sollievo.

Le cosiddette consorelle conoscono la mia storia e mi ritengono un simbolo della forza salvifica della fede.

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Non so se la fede possa salvare da qualcosa o da qualcuno, io non sono qui per quello, ma certo non sottovaluto questo tipo di forza che si oppone alla dannazione. Anzi, spesso apro una mano e materia-lizzo  la  fede  in  un’ametista  o  in  un  rubino,  e  quei bagliori  cangianti  che  toccano  la  mia  pelle  bianca scuotono il flusso interno come un vento caldo di scirocco. Per me la fede è una gemma che si armo-nizza col sangue, per  le altre pare possa essere, al massimo, un banale diamante … 

Non dirò loro la verità solo per non deluderle, e anche per non indurre qualche anima semplice alla follia dell’orrore nel riconoscere addirittura una strega demoniaca in abiti religiosi.

Strega, strega! Figlia del Mago!

Certo, è corretto definirmi strega, come si addice alla figlia di un mago, ma i momenti di preghiera non mi  pesano,  partecipa  solo  una  parte  di  me,  l’altra metà si trova altrove. Ho  inventato un gesto  furtivo che mi permette di 

iniziare un intreccio di mani come quello tra me e mio padre mentre abbraccio le consorelle durante la messa. Spero così di scoprire se incontro un’altra suora casuale quanto me, e possibilmente strega. 

Prevedo di stare qui per qualche anno ancora. Nella  mia  cella  c’è  una  piccola  finestra,  come 

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quella della lavanderia, quindi uscirò ancora da lì, di nascosto, in un giorno nebbioso di febbraio.

Tutto ciò che avrò capito e imparato verrà via rac-chiuso  tra  le pieghe voluttuose del mio abito nero. L’ho maneggiato più volte come ho visto fare a mia madre, so come comportarmi con lui.Per  il  resto dei miei giorni, di certo, eviterò  il più 

possibile i pesi oscillanti, i martelli, le mazze, i colpi sordi e le fabbriche in cui sia necessario azionare un maglio.

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La leggenda dell’Arco d’Oro

I

Si narra di un’antichissima arma, ormai perduta nel tempo,  grazie  alla  quale  un  guerriero  divenuto  poi cavaliere sconfisse un nemico temuto da molti.

Era da un secolo, ormai, che le città del nord ricor-davano le sue gesta. E lo facevano con sorprendente meticolosità. Ogni anno, nel giorno dell’anniversario della liberazione, veniva celebrata una grande festa in onore del cavaliere. Tutti gli uomini che abitavano nei territori un tempo dominati dal nemico si radu-navano nel Castello di Granito, e là un cantastorie soleva intrattenerli a voce alta. Il re e la regina parte-cipavano anch’essi alla ricorrenza, solari e benevoli, dai loro scranni di pietra.Qualche giorno prima della  festa, due  individui  si 

fermarono  in una  locanda  lungo  il  sentiero. Ancora 

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molte ore di viaggio li separavano dal festoso castello, così decisero di rifocillarsi e di trascorrervi la notte. Entrambi portavano abiti lussuosi sotto il mantello, e se non fosse stato per la polvere accumulata durante il viaggio probabilmente sarebbero stati scambiati per nobili. Ma i modi bruschi dimostravano esattamente il contrario. Sostenevano di essere valorosi guerrieri provenienti da luoghi tenebrosi e ancestrali. Erano  giunti  per  ascoltare  la  leggenda  dell’arco 

d’oro.- Non è una leggenda, signori - borbottò il  locan-

diere. - Il cavaliere che ci ha liberato è esistito davvero, e così anche il famoso arco d’oro.  

- Stammi a sentire: noi abbiamo affrontato bat-taglie  di  ogni  sorte  e  l’abbiamo  fatto  con  le  nostre lame - gli  rinfacciò  il più anziano dei due guerrieri, accarezzando l’elsa della spada. 

Altrettanto fece quello al suo fianco. - Non abbiamo mai visto un arco d’oro in tutti questi anni sul campo. Per  cui  vogliamo  sentire  la  storia  con  le  nostre orecchie!

Il locandiere, stanco delle loro maniere, fece per dirigersi verso  la cucina, ma uno dei due  lo afferrò per una spalla.- Vogliamo mangiare,  intesi?  E  prepara  la  stanza 

più bella di questa topaia. - Ma ve  l’ho già detto!  Le  stanze sono  tutte pre-

notate! È sempre così in questo periodo. Non posso

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soddisfare le vostre richieste. Per quanto riguarda il cibo … - deglutì inquieto, - tirate fuori i soldi e io vi servirò.

- Hai sentito, Ruk? Questo vuole farci andar via. Che cosa gli rispondiamo?- Credo  che abbia  voglia  di  scherzare. Noi  siamo 

cavalieri: pretendiamo rispetto! O l’unico tintinnio di metallo che sentirai sarà quello delle nostre spade. Portaci da mangiare alla svelta, altrimenti ... L’uomo  s’interruppe. Dita  d’acciaio  gli  afferrarono 

la spalla allo stesso modo in cui lui aveva fatto con l’oste.  Quando  si  voltò,  trovò  una  figura  incappuc-ciata a distanza di respiro.

- Credo sia venuto il momento di andarvene. Il guerriero cercò di guardare il volto del suo oppo-

sitore, ma non vide altro che il cappuccio calato fino al naso. Cercò di liberarsi dalla morsa, ma non riuscì neanche in quello.- Levati! - gridò. Il suo compagno cercò invano di 

liberarlo.- Dite di essere cavalieri, ma non sapete nemmeno

che cosa significa. Vergognatevi! - li ammonì.- Chi credi di essere?! - urlò Ruk.- Nessuno. Ma odio chi si spaccia per cavaliere.

Molti uomini più valorosi di voi hanno dato la vita per esserlo. -  Se  non  vuoi  che  ti  tagli  la  lingua  -  intervenne 

Mosas,  sguainando  la  spada,  -  devi  dirci  chi  sei.  E 

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comunque non te ne andrai senza pagare per averci insultato.L’uomo incappucciato non lo considerò neppure di 

uno sguardo; anzi, in tutta risposta tornò a sedersi al proprio posto e si rimise a mangiare in silenzio.I due guerrieri fecero un passo verso di lui, l’acciaio 

nel pugno.- Vi conviene riporre le armi, signori, o qualcuno si 

farà del male. - Credi di spaventarci? Siamo in due contro uno. Tu

inginocchiati, e può darsi che non ti faremo niente. L’uomo si tolse il cappuccio, svelando un intrico di 

rughe e due occhi di ghiaccio.  - Non combatterò con voi. Piuttosto vi racconterò

una storia. Piantatela di comportarvi da sciocchi e ascoltate. In questo modo sarete voi a decidere se meritate l’appellativo di cavalieri oppure no.

I due obbedirono improvvisamente, come attratti da una forza superiore. I suoi occhi non ammette-vano repliche. L’aspetto poteva anche essere quello di un vecchio, ma il portamento e la voce erano quelli di un uomo nel pieno della giovinezza. Anche il locan-diere ne rimase meravigliato.- Non avrete  bisogno di  alloggiare  qui.  Sarò  io  a 

raccontarvi la leggenda dell’arco d’oro, e vi assicuro che la mia è quella che si avvicina di più alla realtà. E ora mangiate con me - li invitò con un cenno. - A stomaco pieno si ragiona meglio. 

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II

I due guerrieri mangiarono sino a scoppiare. Solo allora si accasciarono sulle sedie di legno. Il vecchio sorrise e si pulì le labbra con calma, poi iniziò a rac-contare  la  leggenda  dell’arco  d’oro.  La  stessa  che adesso sentirete anche voi …

Un tempo tutte le città del nord erano sotto la pro-tezione del Castello di Granito. Apparentemente indi-struttibile, era ritenuto il luogo più sicuro al mondo: ospitava  centinaia  di  soldati,  viaggiatori,  mercanti e contadini. Il re, rimasto solo dopo la morte della consorte,  dedicava  ogni  minuto  del  proprio  tempo al regno, e grazie alle sue doti la popolazione conti-nuava ad accrescere. Tutti conoscevano  il generoso re Voester. Un giorno, mentre si  trovava a passeggio nel suo 

giardino privato, un emissario volle essere  ricevuto con urgenza. Portava con sé una  lettera macchiata di sangue e la consegnò di persona nelle mani del re prima di morire. All’inizio non era parso in condizioni tanto gravi. Era ferito a un braccio in maniera super-

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ficiale, ma ciò nonostante il medico di corte non riuscì a salvarlo.

- Non ho mai visto una ferita simile, sire. Perdo-nami se non sono stato in grado di soddisfarti. 

Il re, turbato a sua volta, consolò il medico e lo congedò.  Aveva  già  aperto  la  lettera  e  radunò  in fretta i suoi più stretti collaboratori.- Signori, per anni abbiamo difeso queste mura e 

prestato soccorso a chiunque ne abbia fatto richiesta. Oggi siamo conosciuti da tutti come i protettori di un regno giusto e pacifico. Il Castello di Granito è diven-tato un simbolo, ma adesso incombe una minaccia pericolosa. Vi ho fatto chiamare perché possiate con-sigliarmi sulle mie decisioni. Il mormorio nella sala crebbe. “Cosa turbava il re 

a quel modo?” si chiesero tutti i presenti. Nella sala si trovavano il prode generale Hisur, il Primo Ministro Alastor  e  il  medico  di  corte,  Rolak,  nonché  amico intimo del re. Re Voester si fidava ciecamente di loro.- Maestà - lo chiamò il generale, - cos’è che vi turba? 

C’entra forse l’emissario che vi ha dato la lettera? - Già. La lettera contiene l’ultimo volere del sovrano 

di un regno molto distante dal nostro. Pare che un drago abbia attaccato le terre al di là del mare. Ma questo drago non è come gli altri, così lui sostiene. Le spade e le frecce non lo scalfiscono. Non sputa fuoco, bensì una nebbia che uccide in poco tempo chiunque  venga  avvolto  in  essa.  Per  questo  non 

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abbiamo potuto salvare il messaggero. La ferita sul suo braccio era dovuta al drago. Non esistono cure al suo attacco: soltanto un’arma… forgiata dagli elfi. E un solo guerriero è in grado di brandirla, ma ne sono state perse le tracce. Il medico di corte intervenne. - Il drago sta venendo 

qui?- Così pare -. Il re mostrò la lettera al suo consigliere 

fidato. - Come puoi vedere, la lettera è incompiuta. Il  re dev’essere morto prima di portarla a  termine, ma  l’emissario ha voluto  intraprendere  il  viaggio  lo stesso. Non so quando il drago arriverà, ma non ho intenzione di restare a far niente -. Negli occhi del re brillava l’audacia. - Generale! Devi fare di tutto per trovare questo guerriero. Scegli  sei dei  tuoi uomini più  valorosi  e  recati  dagli  elfi.  Loro  forse  potranno aiutarci. Tutti gli altri penseranno a difendere le mura.

Il primo ministro, che fino a quel momento non aveva parlato, annuì. - Sbarriamo porte e finestre e forse la nebbia non ci colpirà.

Il re annuì. Con molta probabilità non sarebbe servito  a  nulla  sigillarsi  all’interno  degli  edifici, ma valeva la pena tentare. - Non sappiamo quando arriverà il drago. Sbrighia-

moci.

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III

Dopo due giorni di viaggio verso il regno elfico,  il generale  Hisur  e  i  suoi  soldati  giunsero  nel  bosco. Nessuno  di  loro  si  era mai  addentrato  in  esso,  né tantomeno aveva parlato con un elfo. Spinti comunque dal desiderio di fermare il drago, 

si inoltrarono nel cuore della foresta fino a raggiun-gere una particolare costruzione bianca di legno. La porta d’ingresso alla quale bussarono si aprì  imme-diatamente, e i sette entrarono con le dovute precau-zioni, il generale in testa. 

- Vi stavamo aspettando - li sorpresero due elfi, comparendo dal nulla. - Non abbiamo tempo per le presentazioni. In verità non abbiamo tempo per niente.  Voi  cercate  il  guerriero  che  possiede  l’arco d’oro, ma qualche giorno fa egli è caduto  in un’im-boscata. Toras, questo è il suo nome, era a capo di una spedizione per sconfiggere il drago. Ma la bestia ha prevalso, sterminandoli. Toras è l’unico a essersi salvato. A un prezzo, però: ha perso l’uso della parola e dell’udito, e non ricorda nulla. Non sa dove si trova, né come si chiama, né perché nelle mani stringe un 

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arco d’oro. Toccherà a voi aiutarlo. Hisur si avvicinò per chiedere altre informazioni, ma

loro  scomparvero  così  com’erano  apparsi.  Non  era solito che gli esseri umani potessero avvicinarsi così tanto agli elfi, e Hisur si considerò già fortunato …

- Se fossi stato presente, non li avrei lasciati certo andare quei tizi dalle orecchie a punta! - intervenne Ruk con risolutezza.L’amico gli fece cenno di tacere. - Va’ avanti, vecchio. 

La storia comincia a farsi interessante. Allora, Hisur e i suoi uomini trovarono Toras oppure no?

Il vecchio sorrise, compiaciuto. Aveva ottenuto lo scopo che desiderava. - Certo che lo trovarono. Il  problema,  però,  si  pose  ugualmente.  Toras  non sapeva dove si trovasse, e ancora peggio non aveva memoria di quale fosse la propria missione. Neppure l’arco, pensava il generale, poteva servire a qualcosa finché non avessero  ritrovato  le  frecce  forgiate per abbattere il drago. Il vecchio lanciò un’ultima occhiata di soddisfazione 

ai due guerrieri; poi proseguì.

Hisur sapeva di non avere molto tempo per portare Toras al Castello di Granito. Il viaggio fu estenuante, ma per fortuna privo di insidie. Attraversarono solo due villaggi … o quello che restava di essi. Il drago aveva  già  cominciato  a  scatenare  la  sua  rabbia, 

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lasciando  solo  ossa  e  cibo  per  i  corvi.  Non  c’erano sopravvissuti. Tutti si chiusero in un cupo silenzio: si chiedevano se anche a loro sarebbe toccata la medesima sorte.- Il tuo nome è Toras. Sei stato inviato per sconfig-

gere il drago e ti è stato dato l’arco che possiedi. So che non puoi sentirmi, ma prova a leggermi le labbra. Conoscevo un valoroso cavaliere che comprendeva con chiarezza tutto ciò che dicevo. Anche lui aveva perso l’udito per colpa di una malattia.

Toras lo osservò senza capire una sola parola di quello  che  il  generale  diceva.  Il  viaggio  proseguì e  in  sei  giorni  riuscirono  a  tornare  al  castello.  Per fortuna il drago non era ancora riuscito a spazzarlo via. Il  luogo era molto diverso da come lo avevano lasciato. Sembrava disabitato da secoli. Non c’era un abitante, non un rumore. Tutto era avvolto nel più totale silenzio.

Hisur si diresse immediatamente ai sotterranei del castello insieme ai suoi soldati e a Toras, il quale li seguiva senza mai porre domande.

Re Voester fu subito entusiasta di rivedere il suo generale. All’udire  il triste destino di Toras, però, si rattristò. Ormai era tutto perduto. Senza il suo aiuto come potevano pretendere di sconfiggere un nemico così potente? Il destino del regno stava per compiersi.

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EPILOGO

Tutti i soldati erano schierati sui bastioni del castello, le  armi  in  pugno.  Pur  sapendo  che  non  ci  sarebbe stata vittoria, nessuno di loro si voleva arrendere senza  tentare.  Ogni  abitante  della  città  era  stato messo al sicuro; non restava che combattere. Prima di raggiungere le altre città del nord il drago avrebbe dovuto assaporare l’acciaio del Castello di Granito. 

E Hisur non si sarebbe tirato indietro. - Vieni avanti, maledetto! - urlò  il generale prima 

che la sua voce si disperdesse nel vento. - Scoprirai che non è facile uccidere un cavaliere! Lo sentirono tutti: la sua sfida riecheggiò per l’intera 

vallata. In tutta risposta un ruggito bestiale squarciò l’atmosfera spettrale che regnava sulle mura.Una figura alata comparve nel cielo e, nel vederla, 

i volti dei soldati si inasprirono. - Non temete, miei uomini! - li incitò Hisur. -

Ciascuno di voi pensi alla sua famiglia, e farete vostra la loro speranza! Quel drago non uccide con il fuoco. Saremo noi a usarlo! Accendete le frecce e scoccate al mio segnale!Il  drago  era  sempre più  vicino,  bianco  come uno 

sperone innevato, maestoso come la prima aurora.

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La sua apertura alare oscurava il sole per intero. Non sembrava  dotato  di  scaglie:  la  pelle  era  talmente lucida e levigata da riflettere le tonalità del cielo. All’improvviso  il drago si  fermò, sospeso nell’aria. 

Un ruggito potente scaraventò all’indietro tutti coloro che non ebbero la prontezza di aggrapparsi alle mer-lature. Per fortuna si rialzarono subito e, all’ordine di scoccare le frecce, attaccarono. Una pioggia di fuoco investì la creatura senza che questa subisse alcun danno. Toras fissava sbigottito l’enorme e inquietante spet-

tacolo. Ricordi confusi affiorarono nella sua mente fino a diventare più nitidi.

-  Comincia  a  ricordare!  -  gridò  Ruk  battendo  il pugno  sul  tavolo.  - Un guerriero  come  lui  non può lasciarsi sconfiggere!

- Ruk hai interrotto di nuovo la storia. Lascialo andare  avanti!  Muoio  dalla  voglia  di  sapere  come finisce! - si lamentò Mosas.Il  vecchio  sorrise.  -  Prima di  proseguire,  però,  vi 

descriverò  l’aspetto di Toras affinché possiate com-prenderlo meglio. 

- E sia. Non ci hai ancora detto nulla di lui. Sicura-mente era una montagna di muscoli senza paura! L’altro scosse il capo, ridendo. - E invece ti sbagli. 

Toras era un codardo. Durante la prima missione si era  offerto  volontario;  per  questo  venne  affidato  a 

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lui  l’arco  d’oro.  Ma  quando  si  trovò  faccia  a  faccia col  drago  ebbe  paura,  lasciò  che  i  soldati  al  suo comando morissero e si nascose nel bosco. Quando rinsavì, ci mancò poco che impazzisse. Aveva perso il senso dell’udito e della parola. Trovatosi in mezzo a quella moltitudine di morti, svenne per lo sconforto e quando si risvegliò non ricordava più nulla. Lo  sguardo  del  vecchio  sembrò  vagare  in  ricordi 

lontani e una lacrima scese dal suo volto andando a bagnare la superficie del tavolo. I due guerrieri lo osservarono impensieriti, poi lo esortarono a prose-guire.

In effetti Toras si ricordò tutto. La colpa di aver perso i soldati che gli erano stati affidati e l’aver permesso la distruzione delle città scatenarono in lui il desiderio di  rimediare ai propri  sbagli. Era sempre stato uno sbruffone, un cavaliere da poco che si atteggiava da eroe. Fu solo in quel giorno memorabile che il vero campione prese il sopravvento. Gridò così forte che tutti i soldati si volsero. Gli sguardi rassegnati a una morte certa erano stampati sui loro volti.- Generale fai ritirare i tuoi uomini nelle segrete e 

vai con loro. Non potete sconfiggere il drago. Solo io posso farlo… con l’arco d’oro! -  Non  hai  frecce!  Come  pensi  di  sconfiggerlo?  - 

domandò Hisur. - Fa’ come ho detto o morirete tutti! 

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Il generale diede l’ordine appena in tempo. Il drago spalancò le sue fauci e dalla sua bocca iniziò a fuo-riuscire una nebbia nivea e densa che a poco a poco inghiottì tutto quanto incontrava sul proprio cammino.

Toras uscì dal castello per posizionarsi proprio di fronte al drago. Impugnato l’arco, lo sollevò e prese la mira.

La nebbia avanzava. Toras tese la corda e con parole incomprensibili fece apparire dal nulla una freccia accecante. Dal cuore del cavaliere proruppe un’altra luce che andò a incrementare il potere del dardo. Fu a quel punto che la freccia sibilò nell’aria. Toras 

ne seguì la traiettoria finché l’acciaio penetrò la testa del drago …

Il resto accadde tutto in un attimo. Lo scheletro del drago si polverizzò nell’aria, ma la nebbia raggiunse Toras e, quando si dissolse, non lasciò traccia di lui.

Il Castello di Granito era salvo, così come i suoi abitanti. L’unico testimone della vicenda fu il generale Hisur: invece di ripararsi nelle segrete, aveva osser-vato l’intera scena per raccontarla negli anni a venire. Fu eretta una statua in onore di Toras, sapete? Ed è da allora che si tramanda questa storia.

- Aspetta, aspetta! Che fine ha fatto Toras? E la luce che cosa significa?! - domandò ansioso Ruk.-  Non  l’hai  capito,  amico?  -  intervenne  Mosas. 

-  Quella  luce  era  il  rimorso  di  Toras,  il  coraggio 

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finalmente  ritrovato,  il  sacrificio.  Un  vero  cavaliere dovrebbe sempre comportarsi così per essere definito tale -. Abbassò lo sguardo. - Noi siamo esattamente come lui prima che si ravvedesse.

Il vecchio lasciò alcune monete sul tavolo e si alzò.- Vedo che hai capito la lezione. Fatene buon uso.

Che  siano  le  vostre  gesta  a  parlare  di  voi,  non  la vostra bocca.

Mosas annuì. - Per prima cosa chiederemo scusa al locandiere; ti giuriamo sul nostro onore che d’ora in avanti ci comporteremo diversamente. Sentirai parlare soltanto bene di noi in futuro.

- Ne sono certo. Addio, amici - rispose il vecchio, uscendo dalla locanda.I  due  amici  si  guardarono  negli  occhi.  -  Non  gli 

abbiamo nemmeno chiesto il suo nome. - Credo si sia dimenticato la bisaccia - rispose il

locandiere,  avvicinandosi.  -  Raggiungetelo;  fate ancora in tempo.

I due non se lo fecero ripetere. -  Hai  dimenticato  questo!  -  gli  urlarono  nel  rag-

giungerlo.  - Se non  ti  dispiace  vorremmo sapere  il tuo nome.

Lui sorrise. - Mhm? Questo è per voi. Ve lo siete meritati.  Per  quanto  riguarda  il  mio  nome  …  mi chiamo Toras.

Non disse altro: un lampo di luce lo fece scomparire lasciando i due compagni di sasso. 

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Qualche secondo dopo si convinsero ad aprire la bisaccia … L’arco d’oro sembrava risplendere di luce propria.

 Si narra di due cavalieri, per giunta fratelli. Vissero per  anni  come  raminghi  del  nord,  girovagando  vil-laggio dopo villaggio per aiutare chiunque ne avesse bisogno.  Molti  regni  si  avvalsero  delle  loro  doti: coraggio, amicizia,  intelligenza e bontà d’animo. Gli elfi li soprannominarono Elvellon: amici degli elfi. Ruk  possedeva  l’arco  d’oro  di  Toras,  mentre  a 

Mosas ne venne costruito uno identico. La loro fama crebbe a tal punto che i due vennero riconosciuti dagli uomini come cavalieri impavidi e senza macchia. Le loro tombe sono ancora oggi visitate da molti pelle-grini e la loro storia si tramanda, insieme a quella di Toras, di generazione in generazione. 

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Amnesia

Sto male. E’ ufficiale. Sono una persona veramente malata. Malata di stupidità. Come è possibile dimen-ticarsi di tutto, e intendo proprio di tutto, davanti a un bel ragazzo? Solo una demente può comportarsi in modo simile. Eccomi sono qui, sono la demente numero uno della città.Venerdì sera. Vigilia di Natale. I single convinti e non 

particolarmente  legati  alla  famiglia  hanno  un’unica via di fuga in queste serate: la discoteca.Sto attraversando il parcheggio quando lo vedo. Un  metro  e  novanta  di  pura  bellezza:  moro, 

mascella  quadrata,  guance  cesellate,  naso  affilato, labbra carnose e muscoli da vendere. Rivaleggia con Brad Pitt in quanto a perfezione.

Mi si avvicina e mi chiede se vado spesso in quel locale. Io rimango a guardarlo a bocca aperta, muta. 

Da vicino è talmente affascinante da sembrare irreale, i suoi occhi sono grigio argento e paiono luc-cicare nell’oscurità. Lui mi guarda, perplesso del mio silenzio. Io non apro bocca. In quel momento non so

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chi sono, non ricordo il mio nome, il mio indirizzo, il mio numero di telefono, e nemmeno dove mi trovo. Non  so  più  nulla.  Sono  un  vegetale. Un  vegetale 

nato per rimanere a fissarlo in eterno. Io sono il girasole e lui è il mio sole.

Lui forse pensa che io sia una povera scema, e se ne va, lasciandomi sola come una cretina. Me lo merito.

Appena non è più nel mio campo visivo il mio cervello si rimette in funzione e la mia memoria torna come per magia. Ma è troppo tardi.

Sto male. Ma questa non è una novità. Oggi  è  la Vigilia  di Natale  e  le  feste  sono  sempre 

dure da sopportare per chi, come me, è completa-mente solo. Vorrei dimenticare il passato e cancel-lare i ricordi che ora mi fanno soffrire. Ricordi che mi riportano indietro negli anni, a quando non ero solo. Quando il Natale era un momento di gioia. Ma secoli sono ormai passati e nel frattempo ho visto morire le persone a me più care.

Questo è il destino di un immortale: perdere con-tinuamente i propri affetti e restare solo. I vampiri, diversamente da quel credono i giovani d’oggi, sono povere creature destinate a soffrire in eterno.

Alcuni di noi trasformano in vampiro la persona amata,  nella  speranza di  farsi  un  compagno o  una compagna,  ma  nessuna  coppia  resiste  per  più  di 

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duecento anni. Eravamo umani in origine e degli umani conserviamo i difetti. Quale umano sopporterebbe mai un altro umano per l’eternità? Nessuno. Lo stesso vale per  i  vampiri.  L’amore diventa  odio.  La  coppia  una gabbia. L’amato un carceriere. La rottura dei rapporti tra  immortali è, come spesso accade tra gli umani, violenta e sanguinaria. Io non ho mai voluto correre questo rischio. Io,  che ho amato solo donne umane, negli ultimi 

cento anni ho deciso di restare solo, per risparmiarmi la sofferenza di vederle spegnersi fra le mie braccia. Ma la solitudine mi sta uccidendo a poco a poco. Ho fame di compagnia, non solo di sangue.Mi avvicino a un locale e nel parcheggio noto una 

ragazza:  mi  sta  fissando.  Gli  umani  sono  natural-mente attratti da noi e questo ci rende facile trovare prede da mordere. Soddisfatta la sete, mi assicuro che l’umano stia bene e me ne vado. Di solito l’umano è già svenuto a causa dello shock 

provocato dal morso, ma, se così non è, lo faccio cadere in trance così al suo risveglio non ricorda più nulla.  I  vampiri  possono manipolare  le menti  degli umani e, soprattutto, possono percepire i loro pensieri superficiali, se sono fisicamente vicini. Mi avvicino alla ragazza. E’ piuttosto carina. Bionda 

e con due grandi occhi azzurro chiaro. Le chiedo se frequenta spesso quel locale.

Lei mi fissa, ma non mi risponde. Aspetto, ma

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non accade nulla. Sondo la sua mente e, incredibil-mente, non percepisco alcun pensiero. Non mi era mai accaduto prima. Provo ancora. Nulla. Eppure è lì di fronte a me. Che non sia umana? E se non è un vampiro, cosa può essere? Che sia una cacciatrice di vampiri? Che abbiano trovato il modo di nascondere i loro pensieri con la magia? Meglio allontanarsi. Non voglio correre rischi.

La musica fa battere il mio diaframma, ma non la sento. Sono qui per divertirmi, eppure non faccio altro che ripensare a ciò che mi è appena successo. Sono veramente una scema. Il ragazzo più figo che 

io abbia mai visto mi rivolge la parola e il mio cervello si  spegne! Mi dimentico di  tutto e  resto muta. Che figura! Forse bere potrebbe aiutarmi.Sono al terzo mojito quando lo vedo. E’ lui. Seduto nella 

zona vip. L’alcool mi rende coraggiosa. Parto in quarta e vado verso di lui. Mi vede, si alza e mi raggiunge.Mi saluta. Io lo guardo. Il mio cervello va di nuovo in 

tilt. Non so più chi sono, né dove mi trovo. Continuo a fissarlo.Lui ora mi guarda corrucciato. Mi prende il braccio 

e mi trascina fuori dal locale.- Chi sei? - mi chiede - Cosa vuoi?Io non rispondo, non so cosa rispondere. Non so

come mi chiamo. Non so più nulla.

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La  ragazza  di  prima mi  ha  seguito.  La  allontano dalla folla e la interrogo. - Chi sei? - Non mi risponde e si limita a fissarmi. La sua mente è una tabula rasa.

- Sei qui per uccidermi?Questa domanda sembra scuoterla dal torpore.- Cosa?Se non altro sa parlare. - Sei qui per uccidermi? – le ripeto.Lei mi fissa e poi scuote la testa - Non credo. - Non credi? Non ne sei sicura? – Non lo so.La prendo per le braccia e la scuoto. - Chi sei? - Non lo so.Sto perdendo la pazienza - Non mentire!Lei si divincola - Non sto mentendo! Non lo so. Non

so nulla. Non so come mi chiamo, non so dove vivo, non so chi sono! - urla.

Sembra sincera. - Soffri di amnesia?- Non so.Questo  spiegherebbe  la  tabula  rasa  che  è  la  sua 

mente. – Qual è l’ultima cosa che ricordi? - Te. Prima di vederti ricordavo tutto, poi il nulla.

So che nel mio cervello ci sono tutte le risposte che cerco, ma non riesco a farlo funzionare con te davanti. La colpa è tua, ne sono certa.

Dire che sono sorpreso dalla sua risposta è poco.

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- Non sai chi sei, non ricordi nulla, ma sai che è colpa mia?

Lei annuisce. - Credo di sì. - Come puoi saperlo? - Non lo so. Allontanati e volta la schiena. Credo

che se non ti vedrò in faccia e non mi sarai più vicino forse ricorderò tutto.È davvero la ragazza più esasperante che abbia mai 

conosciuto  in  vita mia,  e  la mia  è  stata  una  lunga vita. Ha persino la sfrontatezza di darmi degli ordini. 

Potrebbe essere una cacciatrice di vampiri. Mi ha praticamente chiesto di mettermi nella posizione perfetta per essere ucciso. Eppure una vera caccia-trice non sarebbe mai stata così schietta. E se anche fosse una cacciatrice e mi uccidesse?

Sono stanco di vivere, stanco di essere solo.Mi allontano e le volto le spalle.

Non appena si allontana la mia mente si schiarisce. La memoria ritorna e con essa la vergogna. Ho fatto di nuovo la figura della stupida. - Mi ricordo tutto! - gli urlo – Mi chiamo Marianna e 

non voglio ucciderti.Vedo la sua schiena curvarsi e sento un suono sof-

focato. Che stia ridendo di me?- Tu chi sei? - gli chiedo- Sono un vampiro. Non un demone, non un creatura

malvagia e nemmeno un frammento della tua imma-

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ginazione. Bevo sangue, non sopporto la luce del sole e sono immortale. Lo guardo con tanto d’occhi. Devo essere proprio 

demente perché gli credo.- Vieni spesso in questo locale? - gli chiedo.Lui si volta di scatto e mi guarda stupito.Gli sorrido.E’  ufficiale,  non  sono  solo  demente  sono  proprio 

pazza. Matta da legare.

Non mi ha ucciso quindi non è una cacciatrice di vampiri, ma allora chi è? Qualunque umano sarebbe scappato urlando, sentendomi dire che sono un vampiro. Oppure mi avrebbe preso per pazzo e piantato in asso all’istante. Forse è pazza  lei. Questo spiegherebbe parecchie 

cose, in effetti, come l’amnesia momentanea, le certe sue stranezze ... eppure non sembra pazza.

E io sono così solo. - No, non vengo qui spesso - le rispondo. – E tu?

Stavolta il vederlo in volto non mi manda il cervello in  tilt e  riesco a rispondergli. L’aver scoperto che è un vampiro, paradossalmente  l’ha reso più accessi-bile. Non è un dio sceso sulla terra per donarci la sua bellezza, ma solo una affascinante creatura sopran-naturale. Niente amnesia per me stavolta. -  Nemmeno  io.  Ma  è  la  vigilia  di  Natale  e  mi 

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sentivo sola, così ho pensato di passarla insieme ad un mucchio di estranei in un locale, con la musica talmente alta da non permettere la conversazione. Idea intelligente vero?

Lui ride alla mia debole battuta. Quando ride è ancora più divino. Sospiro. -  Anch’io  mi  sentivo  solo  -  mi  dice  con  voce 

sommessa.-  Potremmo  passare  la  Vigilia  di  Natale  assieme. 

Così non saremmo più soli - gli propongo.Lui mi guarda muto.

Erano anni che non ridevo. Questa strana ragazza mi sta facendo provare di nuovo emozioni che credevo sepolte. Mi sento ... quasi vivo. Ma voglio veramente correre il rischio di affezionarmi di nuovo a qualcuno che sono destinato a perdere?  La guardo. 

- Perchè no? - le rispondo.Lei mi sorride. – Prometti di non mordermi? - Promesso. - Bene, allora puoi accompagnarmi a casa. A propo-

sito, tu non uccidi gli umani di cui ti nutri, vero? - No.- Come pensavo. Allora potrai mordermi ... quando

ci conosceremo meglio.E’ veramente  la  ragazza più  strana che abbia mai 

incontrato.Mi avvicino a lei. – Niente più amnesia?

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- No. Quando ti credevo una creatura perfetta, quasi divina, mi mandavi in tilt il cervello, ma ora che so che sei un vampiro, ti vedo quasi umano.E’ veramente pazza. Ma in fondo, non lo siamo tutti? 

Le circondo le spalle con un braccio e ci allontaniamo nella notte. Guardo l’orologio. Ormai è l’una. E’ Natale e non sono più solo.

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Elio Girasole

Era nato sul lato est di uno sterminato campo di girasoli. Nulla di strano in quanto Elio era un girasole. Di giorno seguiva il sole, la notte lo aspettava paziente, certo  che  sarebbe  tornato.  Il  giorno era  lungo, ma c’erano mille cose da vedere: l’aurora, i prati, le api laboriose, i passeri, le nubi e poi il tramonto e, infine, una nuova attesa …

Era cresciuto a ridosso dello stradello che divideva il  suo  campo  da  quello  dell’erba medica  e,  curioso com’era, a volte dimenticava di seguire  il corso del sole. Una volta si era accorto che dietro all’astro sfol-gorante c’era un altro corpo celeste, pallido e diafano. Allora, aveva chiesto ad una campanula che era cre-sciuta sul sentiero lì vicino se sapeva chi o cosa fosse. Questa, benché di breve vita, conosceva molti segreti della natura e gli rispose: -  E’  la  Luna,  di  solito  si  vede  di  notte  quando 

dormiamo, ed è molto più luminosa di adesso. - Deve essere bellissima - sospirò il girasole - chissà 

se esiste un fiore giraluna.

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La campanula rispose che non lo sapeva, mentre dal campo si levava un mormorio di disapprovazione per l’inopportuna curiosità di Elio e vi fu chi gli intimò di  riprendere  l’allineamento per seguire  il  corso del sole.Un  giorno,  il  fattore  venne  a  visitare  il  campo; 

mancava poco alla mietitura e voleva accertarsi che tutto procedesse per il meglio. Era un giorno di festa e aveva con sé la sua graziosa figliola.

- Che splendore questo campo! - disse lei - è un tripudio di bellezza – e, avvicinandosi proprio ad Elio, fece una carezza lieve alla sua corolla, regalandogli un sorriso ammirato. Confuso, Elio cercò di fare un inchino, aiutato da una brezza leggera che spirava in suo favore. Inutile dire che era al settimo cielo per la felicità.Quell’incontro durò poco: la bella fanciulla tornò da 

dove era venuta e il girasole attese di rivederla con più ansia di quanto non aspettasse il sorgere del sole. Cercò di sapere qualcosa di lei e domandò all’amica campanula che gli rispose:- E’ la figlia del signore di questa terra, il suo nome 

è Clizia e abita nella casa in fondo ai campi, oltre la strada d’asfalto. Il  girasole  attese  invano  che  la  bella  fanciulla 

tornasse;  intanto  il  suo  umore  si  era  fatto  cupo  e malinconico.  Attese  finché  non  sentì  un  desiderio incontrollabile che dalle  radici  saliva su su  lungo  lo 

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stelo, fino alla corolla. Doveva rivedere il sorriso di Clizia e prese una decisione inaudita: avrebbe lasciato il campo dove era nato e sarebbe andato alla casa del fattore. Quando gli altri girasoli chiusero  la corolla, per  la 

notte, tirò delicatamente le sue radici fino a sradi-carle dal terreno e si incamminò lungo lo stradello su cui aveva visto allontanarsi la fanciulla. Nonostante il suo desiderio fosse fortissimo, le cose non andavano come aveva sperato, le sue radici non erano piedi e poteva muoversi solo con estrema lentezza. Si spostò per tutta la notte e quando scorse l’aurora si fermò, stanchissimo, cercando di affondare nel terreno le radici per trarne nutrimento, ma il sentiero non era il campo e si ferì cercando di penetrare tra i sassi.

La prima a diffondere la notizia della scomparsa di Elio fu la campanula che, destandosi al mattino, non lo vide al solito posto. Nel campo si levò un mormorio di disapprovazione e solo il fatto di essere dei girasoli impedì loro di scuotere il capo. La notizia giunse fin ad un airone che stazionava in quella zona ed era solito pescare nel fosso che correva a fianco del campo. Non si accontentò dei si dice e volle vedere. Volò lentamente finché non scorse il girasole e gli si 

fermò vicino. Tanto per intavolare un discorso disse:- Ieri  ti avevo visto nel campo assieme a tutti gli 

altri, cosa ci fai qui?- Mi ero stancato della solita vita - rispose Elio

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evasivamente - voglio vedere il mondo. L’airone gli diede corda. - E’ un nobile intento, ma 

ho sentito dire dagli anziani che stai andando contro ogni legge e ben presto te ne pentirai.

Toccato sul vivo mancò poco che Elio versasse lacrime amare, ma trovando nell’intimo la forza invin-cibile della sua dedizione rispose - Voglio raggiungere la casa del fattore e rivedere la sua bella figlia. Il suo sorriso  per me è  l’unica  legge  che  vale!  -  e  subito dopo riprese speranzoso - Puoi aiutarmi?- Non so -    rispose  l’airone -  i girasoli vivono coi 

girasoli,  gli  aironi  con  gli  aironi,  gli  uomini  con  gli uomini, veramente non so cosa potrei fare - e se ne andò pensieroso camminando lentamente sulle sue esili zampe.

Venne la sera ed Elio riprese il cammino. Era debole ed ogni passo era più doloroso del precedente, ma, seppure  sfinito,  il  ricordo  del  sorriso  di  Clizia  gli dava il coraggio di continuare. Venne l’alba ed Elio, esausto, era giunto sul  limitare del nastro d’asfalto dove vedeva sfrecciare oggetti velocissimi che lo ter-rorizzavano; sperò che nella notte anche loro dormis-sero così da poter passare senza pericolo. Venne nuovamente a fargli visita l’airone che, trala-

sciando per un momento la sua flemma, si commosse del miserevole stato del girasole e chiese:

- Come stai? - Elio non ebbe neppure la forza di  rispondere  e  si  limitò  a  guardare  l’uccello  che, 

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soprappensiero, disse - Oggi mieteranno il campo e tu non sei coi tuoi fratelli.

Tristemente, Elio pensò che, invece di essere un girasole,  era  diventato  un  “girasolo”,  ma  con  un ultimo sussulto d’orgoglio sussurrò:

- Se solo potessi vedere una volta ancora il sorriso di Clizia, morirei felice.-  Vedrò  cosa  posso  fare  -  replicò  serio  l’airone  e 

prese il volo in direzione della casa del fattore.Elio era allo stremo, le sue radici spezzate non

riuscivano a dargli  nutrimento e  seguire  il  sole  era un tormento. Era riarso da una sete inestinguibile e l’astro, invece di infondergli vita ed energia, sembrava prosciugarlo. - I miei fratelli stanno raggiungendo lo scopo della loro vita - pensava con l’amarezza di chi si rende conto di aver fallito - e io morirò qui sul bordo di una  strada,  senza utilità per me e per gli altri. Se il piccolo girasole avesse avuto una stilla di linfa, 

avrebbe voluto piangere. Stava per reclinare defini-tivamente il capo quando vide il bel volto di Clizia e sentì la sua carezza sui petali. - Allora è vero quanto mi ha narrato l’airone - disse 

la fanciulla - povero fiore, ormai sei disseccato.Il bel sorriso della fanciulla riempì di nuova energia 

il povero girasole che, in attimo, ritrovò lo splendore dei suoi colori e terminò la sua breve vita beandosi della visione di quella bellezza che lo aveva rapito più

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del Sole. La fanciulla colse il girasole e lo portò al cuore. In quel momento sulla strada passò il fattore col

carro colmo dei girasoli appena mietuti. - Butta anche quello tra gli altri - disse alla figlia, 

ma questa rispose:- No, questo lo terrò nella mia stanza, nelle giornate 

di nebbia mi ricorderà che il sole ritorna sempre - e tenendolo stretto sul cuore come il più caro degli amici si incamminò verso casa. L’airone,  che aveva assistito di  lontano a  tutta  la 

scena, si librò in volo verso il fosso dove avrebbe pescato  qualche  pesciolino  o,  meglio  ancora,  una ranocchia e pensò che sotto il sole possono accadere più cose di quante si possano immaginare.

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Il segreto della Selva Immobile

Nubi  cariche  di  pioggia  veleggiavano  pigramente nel cielo mentre un carro procedeva sullo smeraldo delle colline. Giunto in vista della piana, l’uomo che lo conduceva si fermò ad ammirare la distesa dei tetti di Castrum Villarum, le mura e le torri volute da Ruggero e, in alto, la chiesa di Santa Maria. Era tempo di pace, ma il pericolo non era lontano, egli lo sapeva.

Giunse alla porta di San Giuliano e si fermò accanto ad un fontanile. Abbeverò il cavallo e si diresse verso la sentinella che custodiva l’accesso al barbacane, salutò e aprì il mantello, mostrando di essere disarmato. -  Che  vuoi  straniero?  -  l’interpellò  con  rudezza  il 

soldato. - Sono mercante, puoi indicarmi dove passare la notte?- Un mercante senza servi e armi? - sbottò incre-

dulo l’armigero. - So badare a me stesso, - rispose l’uomo e riprese 

– allora, lo conosci questo posto? - e nella sua mano comparve una moneta.

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- Straniero, parli una  lingua nota  in tutte  le terre -  replicò  con un ghigno poco  rassicurante  la  senti-nella - debbo però controllare il tuo carico, porta qui il carro. L’armigero l’ispezionò senza fretta e una volta sceso si rivolse all’uomo in paziente attesa.- Puoi entrare, segui la strada e troverai la locanda 

- e la moneta cambiò di mano.Poco  dopo  il  mercante  si  fermò  sotto  un’insegna 

di rame ben lucidato. Entrò deciso; all’interno aleg-giava, greve, l’odore della zuppa di cavoli; ai tavoli il solito assortimento di perdigiorno,  tipico di  tutte  le taverne. - Desideri qualcosa, straniero? -  l’interpellò il locandiere. - Un letto per me e un ricovero per mio cavallo - e 

alcune monete gli comparvero tra le mani. Il locan-diere sbraitò alcuni ordini. - Messere desidera mangiare?- Preferisco vedere dove sarà sistemato il carro -

rispose il mercante.La stalla era piccola ma ben tenuta. Il mercante si

soffermò a carezzare il cavallo, poi, mangiò qualcosa ad un tavolo d’angolo della sala comune. Alla domanda del locandiere se fosse giunto lì per vendere o acqui-stare tagliò corto rispondendo di essere solo di pas-saggio e si fece condurre nell’unica stanza. Appoggiò la sua sacca su uno sgabello e spostando 

l’impannata controllò se con un salto avrebbe potuto fuggire dalla finestra. Si assicurò che la porta fosse 

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ben  chiusa  e,  infine,  alla  luce  tremolante  dell’u-nica candela, trasse dalla sacca un astuccio di cuoio rosso che recava il sigillo di due cavalieri su un unico destriero. Lo aprì ed estrasse un involto di velluto il quale, srotolato, rivelò un verga di circa due spanne che sembrava serbare in sé tutto il tempo del mondo. La  depose  sullo  sgabello  come  fosse  un’altare  e  si inginocchiò,  prostrandosi.  Si  trattava  della  reliquia insigne della Verga di Aronne, il bastone del fratello di  Mosè  custodito  nell’Arca  dell’Alleanza  assieme alla manna e alle Tavole della Legge, l’asta potente che, toccando le acque, aveva diviso il Mar Rosso e, fiorendo miracolosamente, aveva prefigurato Maria, la  vergine  che  aveva  concepito  il  Messia,  simbo-leggiato  dalla  mandorla  dal  guscio  amaro  come  la passione e dal frutto dolce come la redenzione. L’uomo si  rialzò e con  le mani sulle  tempie riper-

corse gli eventi che avevano sconvolto la sua vita. Dopo  la veglia d’armi era stato ordinato Povero 

compagno di Cristo e del  Tempio di Salomone o, più brevemente, Templare, come erano chiamati nell’isola di Rodi, dove l’Ordine si era rifugiato dopo aver  perso  San  Giovanni  d’Acri,  ultimo  baluardo cristiano in Terrasanta.  Il  giorno  stesso  era  stato convocato dal vescovo e dal Maestro della piazza. -  Finan  di  Sagredo  -  gli  aveva  detto  questi  con 

tono solenne – vi è bisogno di te. In Francia è stato imprigionato  il Gran Maestro e  il Papa, ostaggio ad 

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Avignone,  nulla  può;  l’Ordine  è  fuorilegge  e  tanti compagni  sono  stati  torturati  ed  uccisi  -.  A  questo punto, era intervenuto il vescovo che, in contrasto con l’aspetto ascetico, era uomo di estrema concre-tezza. - Si tratta di porre in salvo le reliquie, il vero tesoro  dell’Ordine  e  della  cristianità.  Tu  sei  scono-sciuto a molti e coraggioso; travestito da mercante dovrai raggiungere la Trinacria e da lì salpare per il regno di Scozia. Non v’è tempo da perdere. Il Signore ti accompagni.Era salpato da Rodi il giorno stesso, poi la tempesta, 

il  fortunoso  approdo  a  Capo  Spulico,  il  breve  sog-giorno nel castello di Petrae Roseti, dove si era fatto riconoscere, e il seguito del viaggio via terra.  

Ora era in quella bettola, desideroso solamente che sorgesse il sole per ripartire. Usufruì degli ultimi bagliori della candela per creare 

sul  pagliericcio  qualcosa  che  potesse  sembrare  un corpo  assopito  e  rimettere  la  reliquia  nell’astuccio; infine, si accucciò accanto alla finestra coprendosi col mantello. Nella sinistra stringeva la reliquia, nella destra un corto pugnale che nelle sue mani esperte era più letale di una spada. Il pericolo era reale, non solo Roberto, duca di Calabria, era sfavorevole ai templari, ma anche vicino, come l’oste o gli armigeri, vogliosi  di  mettere  le  mani  sul  suo  carro  e  sulla borsa, senza contare la minaccia più letale: colui che si faceva chiamare La Falce, uno spietato sicario che

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aveva fatto dello sterminio dei templari la propria ragione di vita. Prese sonno come gli era stato insegnato: chiudere 

gli  occhi  e  vegliare  con  l’udito.  A metà  della  notte un lieve rumore lo mise in allarme. Non ci pensò due volte e saltò dalla finestra, silenzioso come un gatto. Udì nella stanza un gran trambusto e roventi imprecazioni. Si liberò del mantello e freneticamente rifletté dove fuggire.

Improvvisamente la reliquia che teneva ben stretta nella sinistra prese vita costringendolo a correre sulla strada in salita. Intese voci concitate:

- Eccolo! È nel vicolo, prendetelo! Finan assecondò l’impulso della reliquia e si lanciò 

in una folle corsa, quasi condotto per mano. Non ebbe tempo di stupirsi, chi lo inseguiva non aveva dubbi se lasciarlo vivo o meno. Giunse dinnanzi a Santa Maria, il portale si aprì, sospinto da una mano invisibile, per poi richiudersi alle sue spalle. Sempre condotto dalla reliquia si fermò nella cripta del tempio, appena illu-minata da una lampada. Qui la reliquia divenne inerte e Finan conobbe il terrore: era in trappola.

Colse passi nella navata soprastante e bestemmie che  profanavano  il  luogo  sacro.  Una  frase  lo  gettò nella disperazione:-  Qui  non  c’è,  cercate  nella  cripta  e  portatemelo 

vivo, voglio sgozzarlo di persona!Finan  strinse  il  corto  pugnale poi, mentre  i  sicari 

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scendevano la breve rampa di scale, un violento terremoto scosse tutto. Istintivamente si acquattò accanto  all’altare  e  percepì  un  silenzio  innaturale. Seguì un’altra scossa che lo buttò carponi, le lastre del pavimento si separarono rivelando un buio anfratto. La reliquia si animò per l’ultima volta e Finan la vide scomparire  nella  cavità.  Un’altra  violenta  scossa richiuse  il  pavimento  mentre  l’istinto  di  sopravvi-venza lo costringeva ad allontanarsi da quel luogo. Fuggendo, scorse alcuni uomini lamentarsi a terra e, 

nella navata centrale, una specie di gigante esanime, schiacciato da un’enorme trave caduta dalla capriata. Dalle descrizioni che ne erano state fatte intuì trat-tarsi  della  Falce.  Fuggì  correndo.  Nessuno  lo  inse-guiva e si fermò a prendere fiato mentre, sbucando tra le nubi, la luna diffondeva un tenue chiarore. Si  trovò,  all’improvviso,  all’entrata  di  una  grotta 

ove si scorgeva una luce e il templare rimase esterre-fatto quando udì pronunciare il proprio nome: - Finan di Sagredo, vieni, è tutto finito.Egli si fece strada guidato dalla luce e dopo pochi 

passi si trovò di fronte ad un monaco dall’età indefi-nibile. Gli chiese - Come sai il mio nome?Quegli rispose: - Sempre si conosce chi si aspetta 

– e, senza dargli il tempo di replicare, riprese - L’Asta di Aronne è nella chiesa?

Più che mai confuso Finan fece per rispondere - Sì, è… - ma il monaco lo zittì col gesto della mano 

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- Non voglio sapere. Nessuno deve sapere e dove si trova resterà fino al giorno dell’Ultimo Giudizio.

Frastornato, Finan cercò di replicare - Dovevo metterla al sicuro nel regno di Scozia, ho fallito!

Lo confortò il monaco - No! Questo era il Divin Volere. Anche un legno storto fa la fiamma diritta.

- Ed ora che farò? - chiese desolato il templare. - Dammi il tuo pugnale - gli ingiunse l’eremita che, 

una volta avutolo, lo conficcò senza sforzo apparente nella roccia a fianco del lume, appena sotto l’icona, unico oggetto che impreziosiva quel luogo. Riprese  l’anziano  -  E’  tempo  che  io  raggiunga 

l’Antico dei giorni, ma c’è una battaglia da combat-tere,  vuoi  fermarti  qui?  Le  armi  sono  preghiera  e penitenza. Ma ora riposa, povero figlio, anch’io vedo la tua stanchezza!Finan si stese, dormì un sonno senza sogni e quando 

si destò era solo. Combatté  l’ardua  battaglia  della  Fede  e  presentò 

l’anima al  Signore  il  giorno  stesso  che Gregorio XI fece  rientro a Roma. Gli  abitanti  del borgo  tributa-rono al sant’uomo solenni esequie e nel lenzuolo con cui  affidarono  alla  terra  il  suo  corpo  posero  l’unica cosa di cui fu trovato in possesso, un cartiglio su cui era scritto:

“Là, nella selva immobile, al confine tra la tenebra e la luce,

sotto il mistico Golgota, là è posto il mandorlo che separò le acque”.

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Tutti pensavano a una profezia, ma nessuno poté interpretarla e se ne perse il ricordo. Il potere del Bene, infatti, non ha bisogno di essere 

conosciuto per operare, e così è del tesoro nascosto nella cripta di Santa Maria.

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Il calzolaio della Slesia e Johannes Cuntius

Henry More (1614 - 1687) è uno dei principali espo-nenti del neoplatonismo di Cambridge. E’ famoso per aver pubblicato nel 1653 il suo Antidote Against the Atheism, una raccolta di osservazioni e di aneddoti destinati a mostrare l’inconsistenza dell’ateismo. 

Tra le prime viene raccontata la storia di un calzolaio della Slesia che si sarebbe suicidato il 20 settembre 1591. L’episodio sarebbe avvenuto a Breslau, ma il nome 

della città sarebbe stato tenuto nascosto per senso di  discrezione.  La  vedova  e  la  famiglia  decidono di tenere nascosta la vicenda dichiarando che il suicida è  morto  di  un  colpo  apoplettico;  riescono  così  a ottenere un funerale religioso. 

Dopo qualche tempo le voci di un suicidio trapelano e si apre un’inchiesta. Durante l’inchiesta il defunto comincia ad apparire 

a varie persone della città: la vedova e i suoi soste-nitori liquidano anche queste apparizioni come mere fantasie. Tuttavia a detta degli  abitanti  del  luogo  il 

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defunto si butta sui letti dei compaesani, si corica accanto a loro, cerca di soffocarli, di pizzicarli in modo così forte da non lasciare soltanto lividi ma la chiara impronta delle sue dita che resta sui corpi al mattino. I magistrati si decidono a far riesumare il corpo, il 

cadavere  viene  ritrovato  “intatto,  non  decomposto, senza cattivi odori se non quelli che provengono dai vestiti,  con  le gambe e  le braccia morbide e  flessi-bili come quelle dei viventi, con la pelle leggermente flaccida, ma qua e là con una epidermide fresca che sembra appena cresciuta”. La  ferita alla gola è ben visibile e non è infetta. Viene pure osservato un segno magico sul pollice del piede destro, una escrescenza a forma di rosa.

Erano passati otto mesi dalla morte del calzolaio. Il corpo viene esposto per una settimana e in seguito riseppellito. Tuttavia le apparizioni si fanno sempre più frequenti. Viene quindi riesumato per la seconda volta.  Gli  vengono  tagliate  la  testa,  le  braccia,  la gambe e gli viene estratto il cuore, fresco e integro come quello di un capretto appena ucciso. Le ceneri sono  poste  in  un  sacco  e  gettate  in  un  fiume.  Le apparizioni cessano.

La storia di Johannes Cuntius è forse una delle più famose di “proto vampiri”. Johannes Cuntius di Petch, sempre  in  Slesia,  era  un maggiorente  della  città  e amico del sindaco. Colpito da un cavallo, muore,

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senza essersi confessato e dopo aver dichiarato che i  suoi peccati  sono  così  gravi da non poter essere perdonati. Era infatti sospettato di pratiche magiche con il demonio, e si sapeva che si era arricchito un po’ troppo in fretta. 

Cuntius a quanto riferiscono le voci, è ritornato in vita, tormentando e violentando donne e svegliando brutalmente le persone dal sonno. Una notte si presenta al padrino del figlio più giovane 

rivelandogli  di  aver  lasciato  presso  il  primogenito una cassa con 450 fiorini che devono essere divisi tra i fratelli. Successivamente si presenta alla serva che dorme nel letto con sua moglie e le ingiunge di lasciargli il posto, se non vuole che le rompa il collo. Un bambino viene picchiato, un ebreo lotta tutta la 

notte con  il defunto e un postiglione viene morso ad una  caviglia  tanto  da  restarne  zoppo.  Se  la  prende anche con la moglie del pastore luterano e con i suoi figli. 

Non riuscendo a spaventare il parroco infetta la sua casa con odori pestilenziali e gli causa un’infiamma-zione putrida agli  occhi. Sembra anche questo non morto si nutra di latte che fa sparire dalle case, ma che il latte prima di essere bevuto si trasformi in sangue.

Gli abitanti della città cominciano ad interessarsi alla tomba di Cuntius  e scoprono degli strani buchi che arrivano fino alla superficie. Ostruiscono i

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canali con della terra, in quanto si riteneva che per artifizio demoniaco il corpo protesse passare attra-verso le fessure della terra, tuttavia non ottengono alcun risultato.

Si decidono a riesumare il corpo che trovano in condizioni di freschissima vitalità, lo fanno a pezzi e lo bruciano e finalmente i tormenti cessano.

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Lacrime di Luna

Luna  era  in  trepidante  attesa,  come  ogni  giorno quando  il  fratello  Sole  faceva  capolino  all’orizzonte per occupare il suo posto nel cielo, lasciandole la pos-sibilità di vivere su quella terra che tanto ammirava. Da secoli illuminava il buio ed era adorata da coloro che vivevano calpestando i prati in fiore e solcando le profondità marine. Trascorreva le notti a osser-varli,  immaginando  i  fili  d’erba  che  le  solleticavano le piante dei piedi e non vedeva l’ora di calare oltre l’orizzonte per poterli sentire davvero. Era  l’alba  quando  i  raggi  della  sua  argentea  luce 

toccarono  la  terra  e  lei  non  poté  fare  a  meno  di seguirli. L’immagine sferica notturna scomparve oltre una  catena di  cime aguzze e  la  sua  forma umana, prima incorporea e flebile poi fatta di carne e sangue, toccò il suolo.

Guardò il cielo mentre schiariva e sorrise, alzando la mano per salutare il fratello che le rispose radioso. Era  ai  margini  di  un  bosco  che  mai  aveva  esplo-rato.  Un  venticello  fresco  le  accarezzava  il  leggero 

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Page 91: Quistello in cerca ... d'autore

abito bianco che a mala pena le sfiorava le ginocchia e aderiva alle  curve del  suo corpo snello.  L’aspetto di  giovane  donna  ingannava,  nascondendo  i  suoi secoli di vita. Prese a camminare silenziosamente addentrandosi  nella  selva,  poggiando  i  piedi  nudi sul tappeto di foglie umide che coprivano il terreno. Muovendosi  nella  natura  selvaggia  si  immerse  nel profumo  inebriante  del muschio,  pungente  dei  pini e dolce della resina. Non si avvicinava mai troppo agli esseri umani, che ancora erano agli albori della loro  storia.  Le  sue  sembianze  poco  comuni  e  l’im-possibilità di essere presente di notte le impedivano di legarsi  in modo completo a quel mondo mortale. La  sua pelle  candida,  i  capelli  tinti  di oscurità e gli occhi argentei che diffondevano la sua luce interiore, la rendevano una visione difficile da dimenticare.

Quando il rumore di un ramo spezzato risuonò nell’aria,  si  voltò  a  osservare  poco  distante  da  lei un  giovane  cerbiatto,  che  ricambiò  il  suo  sguardo curioso.- Cosa fai qui tutto solo piccolino? - gli chiese.Distratti entrambi dalla sua voce melodiosa non si

accorsero del pericolo che incombeva alle loro spalle. Un grosso lupo uscì dai cespugli con uno scatto indi-stinto, balzando sulla sua preda e agguantandola alla gola. La ragazza non riuscì a sopprimere l’acuto urlo di 

terrore nel vedere l’esile animale intrappolato tra la 

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vita e la morte da quelle fauci aguzze. Nell’udirlo, la fiera venne distratta dal suo originale obiettivo, mollò la presa e si avventò fulminea sulla donna. Quando  le zampe possenti del  lupo si poggiarono 

sul  petto  di  Luna  la  forza  dell’impatto  la  spinse  a terra. Quella  che prima era una  splendida giornata di sole si trasformò in un orribile incubo. Le zanne bianche e affilate dell’animale erano a un soffio dal viso della ragazza e  il calore umido del suo respiro le  fece  aderire  alcune  ciocche  corvine  alle  guance. Senza  preavviso,  l’aria  fu  percossa  da  un  ringhio cupo e profondo, che costrinse la giovane ad alzare gli occhi, puntandoli  in quelli del  lupo. Non appena incontrò il colore dorato delle sue iridi, il tremore che le scuoteva il corpo si placò, lasciando spazio solo a meraviglia  e  curiosità.  Nello  sguardo  del  lupo  lo stesso cambiamento fu evidente. La rabbia cieca per la preda mancata si trasformò in interesse, attirando tutta la sua attenzione.Indeciso su come comportarsi, l’animale arretrò di 

qualche passo e si sedette accanto a un tronco, incli-nando la testa di lato, in attesa di una reazione da parte della donna che lo aveva ammaliato.Luna sollevò  il  busto,  sedendosi  sulle ginocchia e 

appoggiando le mani sul terreno. Si sporse in avanti assumendo la stessa posizione della belva. Il riflesso argenteo  degli  occhi  di  lei  si mescolò  con  il  raggio dorato di quelli del lupo e attratti come da una

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calamita si fusero insieme, trasmettendo ad entrambi emozioni  sconosciute  e  forgiando  un  legame  che sarebbe diventato immortale.

Presa da un desiderio irrefrenabile di colmare la distanza  tra  loro,  Luna  allungò  una  mano  lascian-dola  sospesa nell’aria,  timorosa  di  completare  quel contatto. Ma lui non le lasciò il tempo di riflettere. Con qualche passo incerto il lupo si avvicinò, sfio-rando con il naso bagnato il suo palmo e lasciandole affondare le dita nel pelo folto e morbido.Trascorsero stretti in un abbraccio l’intera giornata. 

Lei sussurrava al suo orecchio canzoni arcane, mentre lui  l’osservava  protettivo  con  il  muso  poggiato  sul grembo. Il sole parve muoversi troppo velocemente, rubando attimi preziosi che avrebbero voluto tra-scorrere insieme e avvicinando il momento in cui lei sarebbe dovuta tornare a occupare il suo posto nel cielo.Quando giunse  il momento dell’addio, nel silenzio 

che regnava attorno a loro, la promessa di un nuovo incontro venne espressa con parole mai dette.Da quel giorno, a ogni alba, Luna tornava in quel 

bosco  e  ogni  notte, mentre  lei  brillava  nel  cielo,  il lupo le dichiarava la sua devozione con ululati carichi di tormento.

Non riuscivano a ricordare quanto fosse trascorso dal loro primo incontro. Quando stavano insieme il tempo  sembrava  viaggiare  alla  velocità  dei  tuoni  e 

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ogni addio risultava ai loro cuori sempre più doloroso. Un pomeriggio d’estate Luna si rese conto di non 

poter sopportare ancora quella pena. Il tramonto del fratello stava per avvicinarsi e lei non voleva, non poteva,  lasciare per  l’ennesima volta  il  lupo.  Il  suo lupo.Si  sedette  sull’erba  soffice  e  verdeggiante,  cinse 

con le braccia le gambe al petto e iniziò a piangere sommessamente. Il lupo si avvicinò con passi lenti, per non spaventarla, e con un piccolo colpo del muso le  fece  sollevare  la  testa.  Le  lacrime  della  giovane erano  per  lui  un’amara  novità.  Sentì  una morsa  al petto  e  il  respiro  gli  mancò  per  qualche  attimo.  Il grosso animale si accucciò accanto a quella creatura dall’aspetto così fragile e lei puntò lo sguardo nel suo trasmettendogli  tutto  il proprio  tormento. L’animale allungò il muso verso viso della donna e con un unico movimento, carico di dolcezza e tristezza, leccò le lacrime cristalline che le rigavano le guance. Il  legame  tra  loro  raggiunse  così  il  suo  apice. 

Entrambi rivolsero al cielo una silenziosa preghiera. Luna desiderò di poterlo fare suo e di cancellare le diversità che li separavano, mentre il lupo sperò in modo semplice e sincero di vederla nuovamente felice.

La passione in quelle richieste fu tale da essere ascoltata.Nell’aria risuonò un verso agghiacciante. Luna vide 

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la fiera contorcersi a terra, assalita dagli spasmi. Spa-ventata,  la  giovane  arretrò  di  qualche  passo,  assi-stendo impotente alla sofferenza dell’animale. I suoi arti si allungarono e le ossa iniziarono a rompersi con suoni raccapriccianti che rimbombarono nelle orecchie della ragazza. Il pelo folto cadde sul muschio sotto-stante, accompagnato da lembi di pelle, i muscoli e la carne si scoprirono. Le possenti zampe lasciarono il  posto  a  gambe e  braccia  lunghe  e  possenti  e  gli artigli si ritrassero facendo emergere dita affusolate. Pettorali e addominali ben delineati sostituirono quel petto caldo e morbido su cui Luna tante volte si era addormentata durante i pomeriggi invernali. Infine, il naso dell’animale  iniziò ad accorciarsi, così come le orecchie a punta. Un volto: quello che la giovane vide fu un volto umano. Il più bello che avesse mai incon-trato  in  tanti anni che vagava sulla  terra. Di  fronte a lei non c’era più il grosso lupo marrone che tanto aveva amato, ma un uomo.Luna si precipitò verso di lui e gli si gettò accanto. 

Istintivamente, prese ad accarezzarlo per cercare di placare i suoi tremori. Lui la guardò e iniziò a tran-quillizzarsi, cercando di mettersi a sedere. Sollevò le mani davanti al viso e rimase a osservarle incre-dulo, poi iniziò a esplorare il proprio corpo mentre le  dita  della  donna  seguivano  le  sue.  Lei  lo  strinse in un abbraccio e iniziò a singhiozzare, questa volta per la felicità. L’uomo cercò di consolarla, ma faticò a 

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Page 96: Quistello in cerca ... d'autore

trovare le parole.- Perché piangi? - le chiese, quando finalmente la 

gola smise di bruciargli.- Perché  la gioia che provo  in questo momento è 

incontenibile - rispose  la ragazza guardandolo negli occhi e accarezzandogli una guancia.Lui  imitò  il  suo  gesto,  sfiorandole  dolcemente  il 

viso. La mano percorse la curva del suo collo e scese delicatamente sulla pelle candida del braccio. Erano ancora seduti sull’erba fresca e Luna colmò lo spazio tra  loro  allacciando  le  gambe  snelle  al  suo  busto. Non riuscivano a smettere di toccarsi, volevano scoprire  ogni  forma,  ogni  curva,  ogni  caratteristica l’uno dell’altra. Ogni movimento nasceva spontaneo e naturale, come se fossero abituati a farlo da tempo immemore.La  ragazza  avvicinò  le  labbra  alle  sue  e,  senza 

nemmeno pensarci, lo baciò. A quel contatto i cuori di  entrambi  iniziarono  a  battere  all’unisono,  con una forza tale che sembrarono voler uscire dai loro petti  per  congiungersi.  L’uomo  la  guardò  intensa-mente negli occhi e ricambiò il bacio, prima in modo delicato, poi trasmettendogli tutto il suo ardore e la sua passione.

Tuttavia, il tempo era loro nemico. Il sole stava per completare la sua discesa per lasciare il posto alla notte. Luna iniziò a svanire, ancora stretta tra le braccia del suo sogno incarnato. Il compito di illumi-

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nare  l’oscurità  era  per  lei  inderogabile  e  nemmeno tutto l’oro del mondo avrebbe potuto farle trasgredire il suo dovere. Iniziò a diventare incorporea e la sua trasparenza progressiva lasciò trapelare tutta la sua luce interiore, la sua vera essenza. Quando l’uomo si ritrovò a stringere il vuoto, lascio cadere le braccia a terra preso dallo smarrimento.Il  dono  di  quella  notte magica  non  aveva  tenuto 

conto dell’equilibrio supremo che governa ogni cosa. L’amore di Luna per il suo lupo era grande quanto 

l’ingiusta  impossibilità  di  poter  stare  insieme.  Alla donna non fu più permesso tornare sulla terra durante il giorno e la belva rimase imprigionata in quel corpo umano  per  l’eternità.  Una  piccola  concessione  fece da eccezione a questa rigida regola e tanto bastò a tenere vive le loro speranze.

Solo con il novilunio, quando il cielo notturno è privo della sua luce, Luna può tornare sulla terra incar-nando la sua forma umana per trascorrere con il suo amato un intero giorno e solo quando la sfera lunare è completa, adempiendo appieno al suo compito, la fiera può liberarsi dalla sua prigione di carne e ossa per ululare tutto il suo desiderio.

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Page 98: Quistello in cerca ... d'autore

Biografie

Barbara Becchi FotografaSiamo  state  compagne  di  scuola  e  colleghe. 

Abbiamo scoperto di avere in comune la

passione per  i viaggi, per  la buona  tavola e per 

la degustazione di vini. Così, tra un viaggio e una 

degustazione siamo diventate grandi amiche. 

Barbara in viaggio scatta fotografie. Le ho chiesto 

di prestarmene una del nostro recente viaggio in 

Svezia. A.G.

Tullia BenatiScrittrice

Sono nata nel 1972 a Modena e sono vissuta a

Pegognaga  fino  all’età  universitaria  (Filosofia  a 

Parma). Ho vissuto a Barcellona e a Londra dove 

ho lavorato per MTV.

I legami con la mia terra e la mia famiglia mi hanno 

riportato verso casa nel 2001. Ho trovato lavoro

a Bologna nella redazione internet di “Velisti per 

Caso”, ho  trovato  l’”altra metà della mela” nella 

città  grassa-dotta-e-rossa  e  mi  sono  trasferita 

a  Vergato  (Bo)  sull’Appennino  bolognese.  Qui 

Page 99: Quistello in cerca ... d'autore

è  arrivato  il  primo  figlio,  Giacomo.  Poi,  il  primo 

libro “Viaggio a Ginostra” (Giraldi Editore). Poi la 

seconda figlia, Marta. Poi il secondo libro “Evviva 

sarò  mamma.  Aiuto!”  (Aliberti  Editore).  Poi  è 

arrivato  il  terzo figlio:  Lorenzo. Arriverà allora  il 

terzo libro? Mi chiedo. Mah, per il momento sono

impegnata a fare la Mamma-professional al 100%.

Elena Bertani ed Elisabetta TadielloScrittrici

Siamo nate nel 1988, rispettivamente ad Asola e a

Mantova. La nostra amicizia è iniziata frequentando

insieme il Liceo di Scienze della Formazione

Isabella d’Este di Mantova e si è consolidata  tra 

i banchi dell’Università Cattolica di Brescia, dove 

nel mese di giugno 2011 abbiamo conseguito  la 

laurea in Scienze della Formazione Primaria.

Fin da piccola Elena amava perdersi  nel magico 

mondo dei  libri  fantasy e  con  la  sua passione e 

insistenza ha contagiato anche Elisabetta. L’idea 

di iniziare a scrivere è nata per caso, quasi per

gioco, durante una lezione universitaria. Abbiamo 

iniziato a mescolare idee ed emozioni e a dare

libero sfogo alla nostra fantasia.

Page 100: Quistello in cerca ... d'autore

Anna Maria BondavalliEditor Anna  Maria  Bondavalli,  con  la  ragione  sociale 

“Anna  scrive”,  dal  1986,  accanto  al  lavoro  di 

copista-correttrice  di  bozze,  organizza  incontri 

con autori e mostre di libri per scuole e biblioteche

pubbliche.

In tali contesti, ha coordinato numerosi laboratori

di scrittura e di lettura, specializzandosi nella

proposizione di percorsi tematici di lettura a voce

alta, volti a riscoprire i piaceri della narrazione

e  dell’ascolto.  Organizza,  inoltre,  attività  di 

educazione ambientale per conto del WWF Italia

attraverso Parchi e Riserve Naturali del Basso

mantovano.

Ha  preso  parte  attiva  agli  incontri  del 

Festivaletteratura  di  Mantova  con  gli  scrittori 

Mauro Corona e Mario Rigoni Stern.

“Anna scrive” - Via Ghinosi, 41 - 46035 OSTIGLIA (MN) 

- tel. e fax 0386 32511- e-mail: [email protected]

Mariachiara CabriniScrittrice

Mariachiara Cabrini, è nata nel 1982 ed è laureata

in Storia dell’arte.

Gestisce un blog dedicato ai libri, con particolare 

attenzione all’urban fantasy, “L’arte dello scrivere 

...forse”:  http://weirde.splinder.com/.  Il  blog, 

Page 101: Quistello in cerca ... d'autore

nato tre anni fa, ha contributo a fare arrivare in

Italia autori stranieri di rilievo.

Mariachiara ha pubblicato nel 2008 un racconto,

“Ghiaccio”,  nell’antologia  “La  vita  che  vorrei” 

(Perrone  Editore).  Nel  2010  con  0111  Edizioni 

ha invece pubblicato il suo primo romanzo,

“Imprinting love”, un chick lit con una spruzzatina 

di giallo, mentre nel 2011 ha autopubblicato il suo 

romanzo fantasy “La fiamma del destino”.

Vanni e Silva Camurri (Silvan)ScrittoriSono  nati  a  Carpi,  Signoria  dei  Pio  e  città  di 

Dorando Pietri e Paolo Belli, lui nel 1947, lo stesso

anno di nascita della scuderia Ferrari, lei nel 1951,

l’anno del primo festival di San Remo. Si uniscono 

in  matrimonio  nel  1972,  l’anno  in  cui  Claudio 

Baglioni  lancia  quella  che  qualcuno  definirà  la 

canzone del secolo: Questo piccolo grande amore. 

Sarà un caso?

Negli Anni ‘80 collaborano alla rivista quindicinale 

“Vita Femminile” che pubblica loro novelle.

Nel 2010 decidono di comporre a quattro mani

racconti brevi che presentano a premi letterari.

Ottengono, come miglior riconoscimento, il Primo 

Premio nel Concorso nazionale di Narrativa storica

inedita: “Sulle tracce dei templari: storie e misteri 

d’Italia”. Prediligono i temi fantastici, mitologici e 

Page 102: Quistello in cerca ... d'autore

fiabeschi affrontati con stile fluido e avvincente.

Sono stati testimoni di un buon tratto della Storia

recente e, soprattutto, hanno tante storie da

raccontare.

Mauro FantiniScrittoreNasce a Mantova nel 1974. I suoi due figli sono 

la sua massima ispirazione per la scrittura

fantasy.  Vicepresidente  e  ideatore  del  Modena 

Fantasy  2010  e  del  San  Giorgio  di  Mantova 

Fantasy 2011, collaboratore della rivista “Fantasy 

Planet” e Responsabile Commerciale della Colibrì 

distribuzione. Divide la sua vita tra il lavoro e la

scrittura di Fantasy e Thriller. 

È autore della trilogia fantasy “Gabriel e le pietre 

del  potere”  (Silele,  Linee  Infinite),  “I  guerrieri 

della Luce” (G.D.S.)  e del Thriller “Il fabbricante 

di giocattoli” (Arduino Sacco). È curatore editoriale 

della collana Voci&Racconti (G.D.S.).

Riccardo Fera FotografoRiccardo Fera è nato a Cosenza il primo luglio 1976. 

Ha vissuto e studiato in Calabria per poi laurearsi

in Scienze Politiche all’Università “La Sapienza” di 

Roma. Oggi vive a Mantova, dove  lavora presso 

la sede provinciale dell’Acli, occupandosi di fisco e 

Page 103: Quistello in cerca ... d'autore

previdenza sociale.

Da  sempre  appassionato  di  fotografia,  ha 

collaborato con diversi enti privati della Provincia

di  Mantova  per  la  riproduzione  fotografica  di 

documenti e reperti storici.

Oggi  impegnato  nella  fotografia  digitale  per  la 

documentazione  di  eventi  legati  alla  musica  e 

allo spettacolo, non abbandona la pellicola e le

fotocamere d’epoca di cui è cultore.

Anna GiraldoScrittrice, Curatrice

Mi chiamo Anna Giraldo. Sono nata nel 1972 a

Quistello, dove risiedo tutt’ora. Dopo la Laurea in 

Economia e Commercio e il Master in Informatica

gestionale, mi occupo di consulenza informatica.

La passione per la scrittura mi ha travolta nel

maggio  del  2008.  Scrivo  romanzi  e  racconti  di 

genere fantastico. Alcuni dei miei racconti si sono 

classificati  in  concorsi  nazionali  e  locali  e  sono 

stati pubblicati sia in digitale che in cartaceo.

Il 23 marzo 2011 è uscito il mio primo romanzo

dal titolo “436” a cura di Casini Editore.

Con il patrocinio della Biblioteca comunale e

dell’Assessorato alla Cultura di Quistello ho curato 

questa antologia. 

Page 104: Quistello in cerca ... d'autore

Max (Massimo) LaurenziFotografoMe medesimo: classe 1977, ingegnere informatico 

con  la  passione  per  la  fotografia  digitale  e 

l’informatica in genere. Mi sono dilettato, in qualche 

occasione, in progetti riguardanti l’impaginazione 

digitale, tra i quali  il famoso (a livello locale) “Al 

Disiunari” di Roberto Villa.

Faccio  parte  della  compagnia  teatrale  “Temenos 

Teatro” da diversi anni, amo fare sport, leggere e 

ascoltare musica.

Bruno MazzacaniScrittoreBruno Mazzacani è nato a Gonzaga il 13 febbraio 

1943  e  risiede  a  Pegognaga.  Ha  lavorato  come 

operaio metalmeccanico e attualmente è in

pensione.

Ha  iniziato  a  scrivere  i  suoi  pensieri  già  negli 

anni  ’60.  La  sua  scrittura  è  frutto  di  immediata 

ispirazione e descrive emozioni e sensazioni di

pensieri remoti o recenti.

Negli  ultimi  anni  ha  prodotto  diverse  raccolte, 

creando in proprio quindici volumetti dal titolo

“Poe-pensieri  (le  mie  verità)”,  con  l’etichetta 

editoriale Bruno e Basta. Nel 2005 è uscito il

suo  libro  “Poe-pensieri  (le mie verità)”  (Loghino 

Passera).

Page 105: Quistello in cerca ... d'autore

Carlo MorettiPittore, PoetaÉ  nato  a  Suzzara  il  18  ottobre  1963,  giorno  di 

San  Luca,  protettore  dei  pittori.  Che  voglia  dire 

qualcosa?

Pittore, scultore e poeta, esprime la sua arte

lavorando prevalentemente con il legno, cercando 

di non snaturare la materia prima e applicando

due dei principi estetici che regolano la produzione 

dei componimenti poetici haiku: il Wabi, povertà

e naturalezza, e lo Yùgen, ciò che è misterioso e 

profondo.

Ha al suo attivo 200 mostre tra personali e

collettive.  É  stato  Presidente  dell’Associazione 

Artistica  Euterpe,  Medaglia  d’oro  del  Presidente 

della  Repubblica,  Medaglia  d’oro  di  Sua  Santità 

Giovanni Paolo II, finalista Premio Arte Mondadori.

Marco Moretti Scrittore

Nato nei mitici anni Settanta del Secolo Scorso,

primogenito  e  figlio  unico,  oserebbe  definirsi 

unigenito,  sente  in  sé  stesso  una  vocazione 

letteraria divenendo scrittore e pubblicista. Dopo

il Liceo Classico si laurea alla facoltà di Lettere

Filosofia  con  una  tesi  sull’idrografia  storica  del 

Polirone.

Le  sue  ultime  pubblicazioni  sono  un  saggio 

Page 106: Quistello in cerca ... d'autore

antropologico sulla figura del vampiro, “Tempo di 

Vampiri” (Kronos, 2004) e una raccolta di poesie, 

“Chiaroveggenza” (Genus Trado, 2010).

Lina MorselliScrittriceSono  nata  a  Mantova  il  12  giugno  1955,  terza 

decade esoterica dei Gemelli, come Dante

Alighieri.  Ho  la maturità  classica  e  col  senno  di 

poi sono felicissima di aver sudato sul latino e,

soprattutto,  sul  greco.  Balbetto  in  inglese  e  in 

spagnolo.  Insegno  nella  Scuola  Primaria.  Mi 

piacciono: la lettura, la scrittura, la cucina, i

viaggi,  il  giardinaggio  e  la  politica  attiva.  Negli 

anni  passati,  ma  non  dimenticati  né  rinnegati, 

sono stata amministratore pubblico, collaboratrice

della RAI, e mi sono occupata a vari livelli, semi-

professionali, di intercultura, animazione culturale

per adulti e letture ad alta voce. Vivo a Villa

Poma, dove coordino, per la Biblioteca locale, un

agguerrito ed entusiasta Gruppo di Lettura.

Azzurra PontiGrafica, IllustratriceAzzurra Ponti  nasce a Mantova nel  1984, fin da 

piccola adora disegnare e pasticciare con forme e 

colori. Dopo anni di studio “tecnico” (è geometra) 

riscopre  la  magia  dei  colori  e  della  creatività 

Page 107: Quistello in cerca ... d'autore

navigando su  internet dove nuovi e meravigliosi 

modi di divertirsi sono nati senza che lei ne

sapesse  nulla.  Scopre  la  grafica  pubblicitaria  e 

l’illustrazione e decide che è quello  il  suo sogno 

nel  cassetto.  Nel  2009  il  web  le  fa  conoscere  il 

disegno digitale, la sua ultima passione.

TAVOLE STRETTE e i ragazzi del corso di fumettoIllustratoriTavole  Strette,  il  cui  foglio  periodico  è  stato 

pubblicato sulla rivista “L’Eretico”, è un gruppo di 

ragazzi che condivide la passione per la nona arte, 

quella del fumetto.

Grazie  a  Paolo  Finotti,  fondatore  del  gruppo,  e 

all’associazione  “Gruppo Giovani”,  nel  novembre 

2010 ha preso il via a Quistello il primo corso di

fumetto. Giulia Casoni, Luca Mazzola e Mattia

Maiavacca hanno frequentato il corso durante

i mesi invernali apprendendo la tecnica base

del fumetto e pubblicando alcuni lavori sul sito

ufficiale di Tavole Strette (www.tavolestrette.it).