quale ontologia

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1 Quale Ontologia?, in C. Gentili, F.W. von Herrmann, A. Venturelli (eds.) Martin Heidegger: Trent’anni dopo, Genova, Il Nuovo Melangolo, pp. 149-173, Eva Picardi Quale Ontologia? Nel 1950 Rudolf Carnap pubblicò un saggio intitolato “Empiricism, Semantics and Ontology” in cui difende la legittimità di fare appello ad entità astratte, quali sono i numeri, le proposizioni, le intensioni, per illustrare un aspetto del funzionamento della semantica di una teoria matematica oppure di un frammento (quello modale, ad esempio) di una lingua naturale attraverso la costruzione di una cornice linguistica all‟interno della quale questioni di esistenza interne alla cornice di riferimento possono essere formulate e risolte. Nel 1950 Carnap sottolinea con vigore che ciò che lo interessa è la semantica di una lingua, non l‟ontologia: la disputa fra realismo, idealismo, platonismo, nominalismo viene trattata come il retaggio di un modo arcaico di fare filosofia che i filosofi formatisi alla scuola di Moritz Schlick e che avevano letto attentamente il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein ritenevano mal poste. Come vedremo, nel 1950 le ragioni addotte per dubitare della proficuità di interrogarsi sulle questioni ontologiche al di fuori di un qualsiasi linguaggio o teoria sono un po‟ diverse da quelle addotte nell‟articolo pubblicato nel 1932, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache che ha Heidegger come bersaglio polemico. Se lo scetticismo di Carnap circa il modo tradizionale di articolare la domanda ontologica non cambiò in modo sostanziale rispetto alle posizioni sostenute negli Anni Trenta ma soltanto si perfezionò nel corso della controversia con Quine degli Anni Cinquanta, anche lo scetticismo di Heidegger circa il modo in cui i logici si accostano al linguaggio non cambiò mai rispetto al giudizio espresso in Sein und Zeit § 33, anzi si trasformò nel corso degli anni in aperta ostilità. Nelle minute del colloquio fra un giapponese e un interrogante, che ebbe luogo intorno al 1953 e che è stato pubblicato per la prima volta in Unterwegs zur Sprache, alla domanda del professor Tezuka, che sottopone a Heidegger le vedute sull‟Iki sviluppate da Shuzo Kuki, circa il luogo dove si annidi la metafisica Heidegger risponde senza esitazione “Là dove Lei meno se l‟aspetta. Nello sviluppo della logica in logistica (“in der Ausbildung der Logik zur Logistik”)”. Rincarando la dose, Heidegger aggiunge che c‟è poca consapevolezza dell‟attacco contro l‟essenza del linguaggio celato nella logistica, e ciò rende l‟attacco ancora più insidioso (“Und der Angriff gegen das Wesen der Sprache, der sich darin

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1

Quale Ontologia?, in C. Gentili, F.W. von Herrmann, A. Venturelli (eds.) Martin Heidegger:

Trent’anni dopo, Genova, Il Nuovo Melangolo, pp. 149-173,

Eva Picardi

Quale Ontologia?

Nel 1950 Rudolf Carnap pubblicò un saggio intitolato “Empiricism, Semantics and

Ontology” in cui difende la legittimità di fare appello ad entità astratte, quali sono i

numeri, le proposizioni, le intensioni, per illustrare un aspetto del funzionamento della

semantica di una teoria matematica oppure di un frammento (quello modale, ad

esempio) di una lingua naturale attraverso la costruzione di una cornice linguistica

all‟interno della quale questioni di esistenza interne alla cornice di riferimento possono

essere formulate e risolte. Nel 1950 Carnap sottolinea con vigore che ciò che lo interessa

è la semantica di una lingua, non l‟ontologia: la disputa fra realismo, idealismo,

platonismo, nominalismo viene trattata come il retaggio di un modo arcaico di fare

filosofia che i filosofi formatisi alla scuola di Moritz Schlick e che avevano letto

attentamente il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein ritenevano mal poste.

Come vedremo, nel 1950 le ragioni addotte per dubitare della proficuità di interrogarsi

sulle questioni ontologiche al di fuori di un qualsiasi linguaggio o teoria sono un po‟

diverse da quelle addotte nell‟articolo pubblicato nel 1932, Überwindung der

Metaphysik durch logische Analyse der Sprache che ha Heidegger come bersaglio

polemico.

Se lo scetticismo di Carnap circa il modo tradizionale di articolare la domanda

ontologica non cambiò in modo sostanziale rispetto alle posizioni sostenute negli Anni

Trenta ma soltanto si perfezionò nel corso della controversia con Quine degli Anni

Cinquanta, anche lo scetticismo di Heidegger circa il modo in cui i logici si accostano al

linguaggio non cambiò mai rispetto al giudizio espresso in Sein und Zeit § 33, anzi si

trasformò nel corso degli anni in aperta ostilità. Nelle minute del colloquio fra un

giapponese e un interrogante, che ebbe luogo intorno al 1953 e che è stato pubblicato per

la prima volta in Unterwegs zur Sprache, alla domanda del professor Tezuka, che

sottopone a Heidegger le vedute sull‟Iki sviluppate da Shuzo Kuki, circa il luogo dove

si annidi la metafisica Heidegger risponde senza esitazione “Là dove Lei meno se

l‟aspetta. Nello sviluppo della logica in logistica (“in der Ausbildung der Logik zur

Logistik”)”. Rincarando la dose, Heidegger aggiunge che c‟è poca consapevolezza

dell‟attacco contro l‟essenza del linguaggio celato nella logistica, e ciò rende l‟attacco

ancora più insidioso (“Und der Angriff gegen das Wesen der Sprache, der sich darin

2

verbirgt, vielleicht der letzte von dieser Seite, bleibt unbeachtet” (Unterwegs zur

Sprache, p. 116). E dunque, conclude il giapponese „Um so sorgsamer müssen wir die

Wege zum Wesen der Sprache hüten“, al che Heidegger risponde che sarebbe già tanto

se riuscissimo a costruire un sentiero secondario per accedere alla via che conduce

all‟essenza del linguaggio. Immagino che qui Heidegger intenda dire che l‟attacco della

“logistica” minaccia la corretta concezione della natura del linguaggio. Pensare che

dalla logistica possa venire una minaccia all‟essenza del linguaggio sarebbe una

sopravvalutazione grottesca dell‟importanza che una qualsiasi disciplina formale

potrebbe mai rivestire per alcunché. Quel che Heidegger probabilmente intende è che la

logica moderna ha poco da dire sulla natura profonda degli atti di parola, e quel poco è

deleterio poiché incoraggia una concezione calcolistica del pensare.

Ora, è innegabile che la logica matematica ideata da Frege abbia contribuito come poche

allo sviluppo delle tecniche informatiche cha hanno cambiato la nostra vita, in una scala

e in un formato che negli Anni Cinquanta non erano neppure prevedibili. Ma se il

linguaggio non avesse in sé una struttura composizionale atta a ospitare tecniche e

procedure di carattere ricorsivo queste applicazioni della logica non avrebbero mai

attecchito e dunque non si può fare una colpa ai logici e ai matematici di aver

valorizzato questo aspetto delle lingue umane. Ovviamente, parlare una lingua non si

riduce ad operare con espressioni appartenenti a un calcolo retto da regole rigide. E

nondimeno le lingue umane hanno innegabilmente anche una struttura logico-formale.

Credo che tutti oggi possano tranquillamente dare per acquisite certe caratteristiche

delle lingue umane messe in luce dalla logica e dalla linguistica senza ravvisarvi alcuna

minaccia per l‟essenza del linguaggio. La constatazione di quelle che oggi ci sembrano

“ovvietà” rende ancora più difficile la comprensione dei toni accesi e intolleranti, da

entrambi le parti, che caratterizzarono il dibattito svoltosi fra il 1927 e il 1933 fra gli

esponenti delle diverse correnti della filosofia europea, e fra Heidegger e Carnap in

particolare.

Può l‟articolo di Carnap del 1932, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse

der Sprache essere stato il principale responsabile di questo stato di cose? Sicuramente

no. Le vicende politiche che costrinsero Carnap nel 1935, insieme a tanti filosofi,

matematici, letterati e scienziati, all‟emigrazione forzata, ebbero sicuramente una parte

non meno importante delle divergenze teoriche nell‟interruzione del dialogo non solo

fra questi due filosofi, ma fra due importanti indirizzi della filosofia europea, che,

grosso modo, possiamo identificare nella filosofia “scientifica” dell‟empirismo logico

avanzata dai protagonisti del Circolo di Vienna, che con l‟emigrazione forzata andò a

fecondare il terreno del pragmatismo americano, e nell‟indirizzo ermeneutico. La

situazione oggi è molto cambiata e ciò ci consente di riflettere in modo più equilibrato

e, spero, proficuo, sul passato recente della filosofia europea.

1. Concezione scientifica e concezione “naturale” del mondo

3

Come ho accennato sopra, Carnap a partire dal 1928 affronta le questioni ontologiche

come questioni semantiche relative a una teoria specifica e a una lingua debitamente

“ricostruita”. Carnap non attribuì mai un ruolo particolare né tanto meno privilegiato

alla lingua ordinaria, che è dopo tutto l‟unica lingua che parliamo. La così detta filosofia

del linguaggio ordinario degli Anni Cinquanta (penso qui in particolare a Strawson e a

Austin) prese le mosse dalla critica ai linguaggi logicamente ricostruiti e depurati ideati

da Carnap per studiare in vitro la struttura logica di una certa classe di enunciati. Ma

anche dopo questa “liberalizzazione” il dialogo fra analitici ed ermeneutici restò lettera

morta.

La priorità esplicativa attribuita da Carnap al linguaggio ha superficialmente alcuni punti

in comune con il primato che anche Heidegger attribuisce al linguaggio, o meglio al

discorso nella grande opera del 1927. Secondo Heidegger la comprensibilità di ciò che

ci circonda sembra essere legata in parte al fatto che il mondo viene investito dagli

uomini di una significatività derivante non tanto dall‟intenzionalità primaria di

significare (secondo il dettato di Husserl), ma dal modo in cui il parlare si trova

necessariamente legato a interessi e affetti specifici. E‟ nel discorrere, nell‟ascoltare e

nel tacere che l‟animale umano si incontra con coloro con cui condivide il modo

peculiare di essere nel mondo L‟Analitica esistenziale aspira a mostrare che ogni

interpretazione si muove nel quadro dell‟“universalità trascendentale del fenomeno della

Cura” (Sein und Zeit, §43).

Carnap che ancora negli Anni Cinquanta pronunzia con riluttanza la parola “ontologia”,

memore forse del progetto di Fundamentalontologie delineato in Sein und Zeit o della

Wesensschau husserliana, la pensa in modo completamente diverso. Per il giovane

Carnap quelle che sembrano scelte ontologiche antagonistiche sono in realtà scelte fra

linguaggi diversi, e il solo fatto (se è un fatto!) che linguaggi che assumono come

primitivi nozioni antitetiche (come i linguaggio fenomenista e il linguaggio fisicalista)

siano estensionalmente equivalenti, se non in senso stretto traducibili l‟uno nell‟altro,

mostra che le dispute tradizionali fra Idealisti, Nominalisti e Realisti sono, au fond,

pseudo-dispute. Che la metafisica tradizionale sia un tessuto di pseudo-problemi è un

assunto proprio anche di Heidegger, che però oltre a demolire aspira anch‟egli a

ricostruire. Sia Carnap che Heidegger coltivarono entrambi progetti filosofici

ambiziosissimi, progetti che proprio per la loro portata totalizzante presentano affinità di

impostazione, pervenendo però a conclusioni antitetiche. Una lettura equanime

dell‟opera giovanile di Carnap Der logische Aufbau der Welt apparso nel 1928 (con in

appendice Scheinprobleme der Philosophie) e di Sein und Zeit lo mostra in modo

lapalissiano.

L‟accesso alla Welt di Carnap è quello quasi-cartesiano degli Erlebisse, ossia dei

vissuti in prima persona: il mondo di cui Carnap vuol mettere a nudo l‟impalcatura

logica va ben oltre la totalità dei fatti di cui si parla nel Tractatus logico-philosophicus

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di Wittgenstein, apparso, ricordiamolo, in lingua tedesca nel 1921. Esso comprende i

vissuti psichici, gli oggetti culturali e gli oggetti fisici, tutti accomunati in quella che

Nelson Goodman chiamerà nel suo grande libro omonimo “the structure of appearance”.

Gli strumenti impiegati da Carnap sono la logica inventata da Frege e la teoria dei

simboli incompleti di Russell, che ben si presta alla realizzazione di programmi

riduzionistici. Questa ricostruzione logica accede a tutti i campi dell‟esperienza umana

in modo uniforme, con un intransigente monismo metodologico accompagnato dal

solipsismo metodologico. Anzi neppure di solipsismo si può parlare, perché del soggetto

nell‟Aufbau non se ne parla. I vissuti non hanno un portatore. A quei tempi, si sa, era

imperativo decostruire il Soggetto, ci provarono un po‟ tutti – basti pensare a Mach a

Freud. Heidegger e Carnap non si tirano certo indietro e forse questo tema sarebbe

davvero un buon punto di partenza per capire le differenze fra i vari indirizzi della

filosofia contemporanea.

Carnap tratta gli Erlebnisse tutti sullo stesso piano, in aperto contrasto con le

ingiunzioni di Edmund Husserl relativamente alle ontologie regionali e all‟intuizione

categoriale appropriata ad ambiti diversi di enti. Ma anche Heidegger vuole andare più a

fondo di Husserl e mira a tratteggiare un “concetto naturale del mondo” (Sein und Zeit,

§ 11, p. 52) capace di abbracciare ogni aspetto del nostro modo di rapportarci al mondo.

La concezione “naturale” è contrapposta a quella “naturalistica” che le scienze e la

matematica ci forniscono (Sein und Zeit, § 69). Questa contrapposizione, e il relativo

dibattito, fra quel che Philipse (2001) ha chiamato, con riferimento a Heidegger, “the

natural image” e contrastato con “the naturalistic image” è ancora con noi. Nel suo

monumentale libro, Heidegger’s Philosophy of Being, Philipse ha scritto pagine

importantissime su questo tema. Però egli non fa l‟unica cosa che io credo si dovrebbe

fare: mettere in discussione il contrasto stesso fra immagine naturale e immagine

naturalistica. Da una prospettiva linguistica, per lo meno, è facile convincersi del fatto

che non vi è un linguaggio delle scienze autonomo dal linguaggio ordinario o un organo

speciale di cui gli scienziati sono attrezzati e di cui la maggioranza delle altre persone

difetta: vi sono specializzazioni del linguaggio ordinario, che vi si aggiungono come

nuove periferie, per accedere alle quali occorre pagare un pedaggio costoso che consiste

di matematica e di tecniche sperimentali. E, per parte sua, il vocabolario scientifico

infiltra continuamente il linguaggio ordinario, nel bene e nel male. Parlare del mondo

del senso comune con la sua ontologia familiare contrapponendolo al mondo della

scienza con la sua ontologia arcana non può essere che fuorviante.

Al progetto formulato da Heidegger di offrire “die Ausarbeitung der Idee eines

„natürlichen Weltbegriffes‟ ” (Sein und Zeit, p. 52) Carnap nel 1928 contrappone quello

di tratteggiare la costruzione logica della mondo e, qualche anno più tardi, insieme a

Hahn e Neurath, quello più ambizioso ancora di edificare una “wissenschaftliche

Weltauffassung”. L‟opera del 1928 poteva servire come esempio della forma che il

progetto vagheggiato di edificare una concezione scientifica (e in questo senso

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naturalistica) del mondo avrebbe potuto avere. Per Carnap è la logica matematica

inventata da Frege e Russell la chiave universale per porre mano l lavoro filosofico; per

Heidegger invece è la messa a nudo della Grundstruktur der Sorge che apre l‟accesso

all‟ontologia fondamentale, mentre le scienze ci fanno accedere a ontologie relative e

opzionali (Sein und Zeit, § 69).

Come Carnap anche Heidegger ritiene che il così detto problema della realtà del mondo

esterno e dello scetticismo sia uno pseudo-problema, ma per ragioni molto diverse. Per

Heidegger la formulazione stessa del problema contiene un errore: il mondo non è una

realtà esterna al soggetto, ma si fa incontro, si offre, agli esseri umani come la cosa più

familiare che c‟è. Per Carnap occorre invece mettere a nudo la struttura formale dei tre

ambiti individuati (fisico, psichico e culturale), così da poter formulare sensatamente la

domanda circa che cosa esiste nei rispettivi domini e soprattutto per sapere se e in che

misura sia possibile ridurre il culturale allo psichico e lo psichico al fisico o viceversa. I

programmi riduzionistici che hanno percorso tutta la filosofia della scienza del „900

affondano le radici nell‟ideale di riduzione carnapiano (uno dei due “dogmi

dell‟empirismo” che Quine metterà in discussione nel celebre saggio “Two Dogmas of

Empiricism”). Col senno di poi possiamo dire, io credo, che l‟errore di Carnap (e non

solo dal punto di vista di Heidegger) è di non vedere che l‟accesso al mondo non ha

bisogno di alcun lavoro di “costituzione” a partire da una base di sense data. Nulla ci

può essere più familiare, “comprensibile” di certi aspetti del mondo delle cose, anche se

la ragione di questa familiarità è difficile da capire e collocare nella giusta luce. Quello

che invece non ci è affatto comprensibile ad occhio nudo è la struttura fisico-matematica

del mondo che ci circonda e di noi stessi ed è questo il lavoro che affidiamo alle scienze.

Ho ipotizzato che forse la ricostruzione delle varie interpretazioni della dottrina

dell‟appercezione potrebbe essere più istruttiva per capire le differenze fra le varie

correnti attive nella filosofia europea prima dell‟avvento del nazismo e dello scoppio

della Seconda Guerra mondiale, sottintendendo, tacitamente, più istruttiva di quella

proposta da Michael Friedman nel bel libro del 2000, A Parting of the Ways.Carnap,

Cassirer and Heidegger. Friedman ci guida con destrezza nel groviglio delle filosofie

neo-kantiane da cui trassero origine le ricerche di Heidegger, Cassirer e in parte del

giovane Carnap. Friedman si concentra sulle tribolate vicende che le dottrine dello

schematismo e delle facoltà subiscono nei diversi indirizzi del neo-kantismo. A suo

parere questa indagine dovrebbe gettar luce sulle ragioni della separazione delle strade

prese dai protagonisti dell‟incontro che ebbe luogo a Davos nel 1929, ossia Cassirer e

Heidegger, con Carnap fra gli astanti. L‟occasione dell‟incontro, com‟è noto, fu la

nuova interpretazione di Kant avanzata da Heidegger. Tuttavia a me non pare che le

questioni riguardanti lo schematismo aiutino a capire la differenza fra Cassirer e

Heidegger né aggiungano molto alle ragioni che portarono alla definitiva interruzione

della comunicazione fra Heidegger e Carnap.

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E del resto, anche una lettura superficiale dell‟ Aufbau e di Sein und Zeit mostra che né la

dottrina dello schematismo né la questione delle facoltà vi svolgono un ruolo decisivo. A

mio avviso, le differenze fra Carnap e Cassirer superano di gran lunga le analogie,

nonostante i valorosi sforzi di Friedman per dimostrare il contrario. I riferimenti che

nell‟Aufbau Carnap fa all‟idealismo trascendentale e alle scuole neo-kantiane del tempo

sono più di maniera che sostanziali. Non c‟è dubbio che Cassirer, ben più attento di

Heidegger per ciò che concerne gli sviluppi della logica matematica di Frege e Russell e sui

punti di attrito con le dottrine di Kant – basti pensare all‟interessante scritto del 1907, Kant

und die moderne Mathematik, e alla discussione con Louis Couturat - avrebbe potuto in

linea di principio continuare a discutere con Carnap anche dopo il 1935. Ma nel 1929

Cassirer si era lasciato alle spalle l‟interesse per gli sviluppi della logica contemporanea.

Dove nell‟Aufabau Friedman ravvisa un‟allusione alle idee contenute in Substanzbegriff

und Funktionsbegriff (1910) di Cassirer, io vi vedo piuttosto un‟allusione per nulla velata

alla teoria del concetto come funzione di Frege, le cui lezioni Carnap aveva seguito a Jena

nel 1912 e 1913 e il cui pensiero avrà un‟influenza enorme in tutta la sua produzione

filosofica, come ho cercato di mostrare in dettaglio altrove (Picardi 1995). La teoria

russelliana delle descrizioni definite e dei simboli incompleti informa lo Aufbau nella sua

interezza.

Il posto occupato dalla logica nell‟epistemologia e nella del filosofia del linguaggio

contemporanea, che riconosce nell‟opera di Frege, Russell e il giovane Wittgenstein i

suoi antenati, è decisivo e verrà radicalizzato da W.V. Quine. Egli propone di

riformulare la problematica ontologica classica “Che cosa esiste?” attraverso l‟ascesa

semantica (anziché domandarci che cosa esiste, chiediamoci che cosa una certa lingua o

teoria dice che esiste) e attraverso il criterio dell‟impegno ontologico contratto dalle

variabili di quantificazione, incapsulato nello slogan “Essere è esser il valore di una

variabile vincolata”. Per conoscere gli impegni ontologici contratti da una teoria,

mettiamo a fuoco le entità che occorre assumere nel dominio su cui si quantifica

affinché gli asserti esistenziali della teoria risultino veri. Com‟è ovvio, questo criterio ci

dice solo quali sono gli impegni ontologici contratti da una teoria, non se siano stati

legittimamente contratti. Per Quine la domanda ontologica viene incorporata, o meglio,

scorporata, in quesiti specifici relativi alla semantica delle varie teorie scientifiche: la

domanda sull‟Essere viene tradotta senza residui in una domanda sugli enti, con una

spiccata preferenza per quelli causalmente efficaci o comunque indispensabili per gli

scopi delle scienze. Non c‟è una domanda sull‟Essere che eccede quelle che possiamo

porci sugli enti e che sta in parte alle scienze trattare. Questo è in parte il succo del

programma dell‟epistemologia naturalizzata promosso da Quine. Fin qui c‟è più

convergenza che divergenza fra Quine e Carnap. La divergenza fra loro riguarda due

assunti ulteriori: la legittimità della distinzione fra questioni di fatto e questioni di

convenzione e stipulazione(e la distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche) da

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una lato, e la scelta estensionalismo e intensionalismo in semantica. Ma questa è un‟altra

faccenda. L‟accordo è di gran lunga preponderante.

Le risposte che Heidegger e Carnap danno al problema della “costituzione” sono

davvero agli antipodi, malgrado o anzi, proprio a causa, delle somiglianze strategiche di

impostazione. Se un confronto può essere fatto con qualche chance di sensatezza (ed è

stato fatto più volte, oltre che da Rorty anche da altri autori, come, ad esempio Mulhall

(1990)) è fra Wittgenstein e Heidegger. Ma, ancora una volta, un confronto proficuo non

può che mostrare le profonde differenze circa il modo in cui essi intesero alcuni cruciali

concetti come quelli di Welt, Leben e Sprache e soprattutto il compito della filosofia, che

per Wittgenstein restò sempre quello di fare “completa chiarezza”, poiché solo così

saranno dissolti i problemi filosofici che abbiamo ereditato dalla metafisica classica.

Nel Tractatus egli pensa di potere conseguire questa meta disegnando, dall‟interno del

linguaggio, l‟area del dicibile rispetto a quello del nonsenso (sia quello schietto, di

carattere logico, sia quello meno evidente, che si manifesta nel tentativo di enunciare

una teoria etica). A partire dal 1934, e, in particolare nelle Philosophische

Untersuchungen il compito della filosofia si configurerà sempre di più come una

terapia volta a dissolvere i problemi filosofici, senza però ricorrere alla logica o ai

linguaggi ideali, costruiti per gli scopi delle scienze, come i filosofi cresciuti in America

alla scuola di Carnap cercarono (e cercano) di fare.

E, in ogni caso, è semmai l‟idea di Wittgenstein che capire una lingua è capire una

forma di vita (Lebensform), che circola in filosofia fin dal 1934 (anche se è stata

sottoposta all‟attenzione del mondo filosofico nel 1953 con la pubblicazione postuma

delle Philosophische Untersuchungen ) che avrebbe potuto interessare l‟autore di Sein

und Zeit. La parola “Leben” nel composto “Lebensform” può evocare la concezione

della Lebenswelt husserliana, il progetto di psicologia descrittiva di Dilthey,

l‟interpretazione della cultura di Spengler, ecc. ecc. Questo concetto va trattato con

estrema cautela in un ambiente come quello della filosofia austro-tedesca dove la

filosofia della vita ha molte complesse ramificazioni - come del resto Heidegger,

cresciuto alla scuola di Rickert, sapeva molto meglio di Wittgenstein. Ma dopo il 1932

Heidegger si allontana progressivamente dal progetto dell‟ontologia fondamentale,

intesa come una ricognizione della struttura a priori della datità e della temporalità in cui

gli umani - l‟impersonale „man‟ - si trovano gettati, che reputerà viziato da una forma di

“antropologismo”. Anche per questo la distanza rispetto al cammino intrapreso da

Wittgenstein non può che aumentare. In un certo senso, come Rorty ( 1991: 60-65)

nota, Heidegger e Wittgenstein percorrono un tragitto analogo in direzioni opposte: il

primo passa dalla ricognizione dell‟analitica del Dasein all‟indagine sul senso

dell‟Essere, il secondo dall‟indagine sulla forma logica del linguaggio e del mondo

all‟analisi del modo in cui il linguaggio si intreccia con le forme di vita.

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E‟ dunque semmai al Tractatus logico-philosophicus che dovremmo rivolgerci per

trovare una concezione di Leben e Welt paragonabile a quella che troviamo in Sein und

Zeit. Il richiamo alla vita nel Tractatus si trova in un remoto decimale, ossia, nella

sezione 5.621, in cui a sorpresa scopriamo che il mondo, che sappiamo dall‟incipit

dell‟opera essere la totalità dei fatti e non delle cose, risulta essere tutt‟uno con la vita:

“Die Welt und das Leben sind Eins” (Il mondo e la vita sono tutt‟uno). Una mossa a

effetto di un fervente lettore di Schopenhauer? Forse, ma non solo. Con la vita appare il

bistrattato Soggetto, un limite del mondo non un suo costituente, che di “ciò che è più

alto” (etica ed estetica) nella lingua che parla non può affermare sensatamente quasi

nulla, ma non può però sopprimere l’aspirazione a farlo. Il che non lo esime, anzi lo

obbliga, a una condotta decente. In questo senso, come Wittgenstein scrisse a Ludwig

von Ficker, la parte più importante del libro è quella non scritta e il senso del libro è un

senso etico. McGuinness (2002) ha scritto pagine magistrali sulla genesi e la portata di

queste idee.

Heidegger, per quel che mi consta, non ha mai seriamente preso nota del Tractatus né

tanto meno delle Philosophische Untersuchungen pubblicate postume nel 1953. Non è

detto però che se il giovane Heidegger avesse letto il Tractatus ne avrebbe apprezzato il

carattere intrinsecamente aporetico. Altrove (Picardi 2004) ho lamentato il fatto che

neppure Gadamer al tempo in cui scrisse Warhrheit und Methode abbia tenuto conto del

pensiero di Wittgenstein. Un‟occasione di dialogo mancata.

2. Verità, costruttivismo, pragmatismo

Pochi forse sono al corrente delle parole assai elogiative dedicate dal giovane Heidegger

ai saggi pubblicate da Gottlob Frege del 1892 su senso, significato, oggetto, concetto.

Ma siamo nel 1912, gli anni dell‟apprendistato sotto la guida di Rickert, che sfoceranno

nella pubblicazione della monografia dedicata a quella che Frege nella Prefazione al

primo volume dei Grundgesetze der Arithmetik del 1893 aveva chiamato “la deleteria

irruzione della psicologia nella logica” (“der verderbliche Einbruch der Psychologie in

die Logik”), ovvero la malattia epocale dello psicologismo. Se Heidegger avesse

continuato a leggere Frege (cosa, che, per quanto ne so delle letture di Heidegger

preparatorie a Sein und Zeit, cioè pochissimo, può ben aver fatto) e, in particolare, se

avesse letto anche la prima ricerca logica Der Gedanke, pubblicata nel 1918 nella

rivista edita da Bruno Bauch, “Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus”, la

stessa, su cui Nicolai Hartmann pubblicò il suo saggio sull‟ontologia, avrebbe anche

appreso che due delle critiche che egli muove al concetto di verità come corrispondenza

erano già state anticipate da Frege. Mi riferisco alla difficoltà di stabilire una

comparazione fra pezzi di linguaggio (o di pensiero) e pezzi di mondo e di individuare

l‟aspetto rilevante sotto il quale la presunta congruenza andrebbe attestata. Non solo, ne

avrebbe anche appreso una terza, quella del regresso. Per affermare che A corrisponde a

B dobbiamo già sapere sotto quali condizioni è vero che A corrisponde a B, e dunque

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l‟idea di corrispondenza non spiega il concetto di verità, ma lo presuppone. Frege

conclude sostenendo che il concetto di verità è indefinibile, e che qui, come altrove

quando incontriamo concetti basilari della logica, non possiamo dare altro che cenni

(“Winke”) al lettore, confidando che egli colga quel che intendiamo, dal momento che

già padroneggia la lingua. Per inciso, la parola “Wink” ricorre con insistenza nel tardo

Heidegger.

Questo tema della ineffabilità della semantica o comunque della non definibilità delle

nozioni fondamentali della logica che troviamo in Frege, verrà ripreso da Wittgenstein

nel Tractatus logico-philosophicus, l‟opera che può considerarsi il manifesto della

filosofia analitica, oltre che il punto di partenza delle riflessioni di Carnap

sull‟insensatezza delle formulazioni di Heidegger riguardo all‟uso disinvolto della

parola “nulla” ora quale nome proprio di un ente ora quale termine sincategorematico.

Se la pars destruens della critica di Frege all‟idea della verità come corrispondenza

avrebbe potuto incontrato il favore di Heidegger, lo stesso non si può dire della pars

construens, in cui l‟oggettività dei pensieri viene assicurata al prezzo del loro esilio nel

Terzo Regno, mossa questa che Heidegger ben conosceva da Heinrich Rickert. Per

inciso, nel 1911 ebbe luogo anche uno scambio epistolare fra Rickert e Frege,

purtroppo andato perduto. Possiamo solo congetturare che Rickert in quell‟occasione

inviasse a Frege un estratto del suo articolo su “Das Eine, die Einheit und die Eins”,

apparso sulla rivista “Logos” nello stesso anno.

Ad ogni modo, l‟idea sostenuta da Frege nella Prima Ricerca Logica che un fatto altro

non sia che una proposizione vera (e non: ciò che corrisponde a una proposizione vera)

sembra, in parte, andare nella direzione di una teoria dell‟identità cui anche Heidegger

sembra orientarsi. Se non che, il portatore degli ambito titoli “vero” e “falso” per Frege

resta il pensiero, non il fatto, e i pensieri, come sappiamo, sono entità astratte desumibili

da (ma non riducibili a) dagli enunciati costruibili in una lingua in base al senso delle

parole componenti. E del resto per Frege la parola “vero” è solo dal punto di vista

grammaticale un predicato, alla stregua di “dispari” o “longevo”. E‟ la forza assertoria di

cui investiamo le nostre parole che accenna all‟essenza della logica, che per Frege è

indissolubilmente connessa con il concetto di verità. Ma di questo mi sono occupata

ampiamente altrove (Picardi 1994) e non starò qui a riprendere i termini della questione.

Ovviamente Heidegger non può concordare con Frege circa l‟esilio dei pensieri nel terzo

regno, per le stesse ragioni per cui non condivide le idee di Husserl sull‟idealità dei

significati e sul progetto dell‟ontologia formale e delle ontologie regionali. Ora, anche

chi non condivida i dettagli o la sostanza dell‟Analitica dell‟esserci, esposta in Sein und

Zeit , non può che salutare con favore il fatto che (anche se non il modo in cui)

Heidegger riporta “a casa” i contenuti di pensiero che Frege aveva esiliato nel Terzo

Regno per garantirne l‟oggettività. Come Dummett (1992) ha messo bene in luce, Frege

e lo Husserl autore delle Logische Untersuchungen, pur fra le tante differenze,

condividono molti convincimenti. Ma il platonismo di Husserl e Frege ignora che i

contenuti di giudizio non sono i contenuti che potremmo scegliere da un immaginario

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inventario di verità e falsità, ottenibili grazie alle proprietà combinatorie di una lingua

(ideale) , ma sono i contenuti pensabili e pensati da esseri umani con particolari

caratteristiche esistenziali e interessi specifici. Si può disquisire a lungo su come,

esattamente, questi elementi esistenziali, storici, culturali, situazionali, contribuiscano a

modellare il contenuto dei nostri pensieri e delle nostre affermazioni. Io credo però che

la critica di Heidegger colga una debolezza della concezione platonista di Frege e

Husserl e il conseguente mistero in cui il concetto di verità, “primitivo e semplice”, si

trova avvolto.

Nella pars construens di Heidegger relativamente al concetto di verità Friedman (2000)

ravvisa una concezione della verità come apprensione “diretta” del modo in cui il mondo

è (un analogo della teoria della percezione diretta che troviamo in Sense and Sensibilia

di Austin in alternativa alla concezione dei sense-data sostenuta da Russell e Ayer).

Rorty vi ha visto una prefigurazione della concezione anti- rappresentazionalista della

conoscenza che presenta tratti in comune con il pragmatismo di Dewey e con la filosofia

del linguaggio di Davidson. Stefano Poggi nel suo recente libro La logica, la mistica, il

nulla. Un’interpretazione del giovane Heidegger , ricostruisce il pensiero di Heidegger

e le sue fonti di ispirazione dal 1914 al 1927, soffermandosi, sul debito di Heidegger

vers Lask, Meinong, Brentano da un lato e l‟apertura al misticismo dall‟altro. Quasi

tutti negli ultimi tempi hanno insistito sulla ripresa innovativa da parte di Heidegger

dell‟impianto aristotelico. Sugli ultimi paragrafi della Prima Sezione di Sein und Zeit e

sul paragrafo 69 della Seconda Sezione si è riversata una enorme mole di lavoro

esegetico, che non ambisco a incrementare. Qui vorrei solo soffermarmi brevemente

sull‟interpretazione pragmatista e su quella costruttivista del pensiero di Heidegger.

Nell‟anti-rappresentazionalismo Rorty identifica il tratto che accomuna tutte le concezioni

pragmatiste dell‟epistemologia, da Peirce a Davidson, e che consiste nel rifiuto di quella che

Dewey ha chiamato la “Spectator View of Knowledge”, l‟idea, cioè, che conoscere consista

nel tentativo di cogliere il modo in cui la realtà è in se stessa, al di là del modo in cui ci

appare. Una caratteristica del pragmatismo di Dewey è il rifiuto della distinzione fra

apparenza e realtà e della teoria della verità come corrispondenza. Davidson, secondo Rorty,

ha fatto per la filosofia del linguaggio quel che Dewey ha fatto per l‟epistemologia. A

Davidson Rorty attribuisce alcune importanti intuizioni, che hanno contribuito a mettere a

fuoco il nesso che sussiste fra le concezioni rappresentazionaliste del contenuto delle nostre

credenze e le discutibili dottrine del relativismo e del riduzionismo (di cui lo scientismo è un

caso particolare). Secondo Rorty l‟asse portante del rappresentazionalismo è l‟adesione alla

concezione della verità come corrispondenza fra parti di mondo e parti di linguaggio. Per

Rorty Heidegger ha avuto il merito di proporre una visione radicalmente anticartesiana del

nostro essere nel mondo e anche per questa ragione egli andrebbe incluso nella grande

famiglia dei pensatori pragmatisti – un club nel quale, com‟è noto, Heidegger non si sarebbe

mai degnato di metter piede.

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Sarebbe stata interessato Heidegger, nel 1927, a questa idea di ontologia fondamentale

come semantica di una lingua? Nel senso di Carnap, sicuramente no. Ma nel senso di

Davidson, che stando a quel che Rorty ne dice, è l‟acme del pragmatismo americano?

Quel che di ermeneuticamente attraente c‟è in questa idea di sussumere l‟ontologia alla

semantica, e quest‟ultima all‟interpretazione (radicale), è il distacco dal platonismo dei

significati e l‟ammissione che per avere un‟idea di quel che i nostri simili dicono occorre

implicitamente fare appello a una vasta gamma di interessi umani e al fatto che il parlare

presuppone un orizzonte di credenze basilari più o meno condivise sul mondo e su noi

stessi. Tuttavia, l‟idea di temporalità e il progetto di analitica esistenziale dell‟esserci è

in senso stretto estraneo all‟ impostazione metodologica di autori come Davidson e

Putnam.

E in realtà il parallelo fra la fenomenologia esistenziale di Sein und Zeit e il progetto

pragmatista zoppica in più punti, in parte, perché, come ho accennato altrove (Picardi

2001) la centralità che il concetto di Cura (Sorge) svolge nell‟analitica esistenziale non

ha un parallelo in ambito pragmatista e in parte perché la posizione che il concetto di

verità occupa nell‟impianto di Sein und Zeit è ad dir poco ambigua. E del resto, nel

capolavoro del 1927 come lo stesso Heidegger converrà anche in seguito ALLE

critiche di Husserl, l‟Essere rischia di essere offuscato da un gigantismo del Dasein, che

ricorda un po‟ l‟antropologismo contestato da Husserl e dal giovane Heidegger alle

concezioni “psicologistiche” della logica. Non è, io credo, privo di interesse notare

come in Sein und Zeit (§44c: p. 227) Heidegger riprenda criticamente l‟esempio che

dovrebbe mostrare il carattere atemporale e “an sich” del contenuto espresso nelle leggi

di gravitazione di Newton, che come ho mostrato altrove (Picardi 1997) era stata uno dei

punti di contesa fra Husserl e Christoph Sigwart, impiegando di fatto argomenti simili a

quelli addotti da quest‟ultimo. Quel che Heidegger aggiunge al commento di Sigwart (ed

è ovviamente un contributo decisivo dal suo punto di vista) è il carattere a priori e

trascendentale dell‟analitica del Dasein, grazie alla quale dovrebbero venire a cadere le

accuse di antropologismo e relativismo scettico di cui la Logik di Sigwart era stata

tacciata da Husserl nei Prolegomeni alle Logische Untersuchungen. Il giovane

Heidegger nella Lehre vom Urteil im Psychologismus aveva approfondito quelle

critiche esaminando le idee esposte da Heinrich Maier, allievo di Sigwart e curatore

dell‟ultima edizione della Logik.

Dall‟antropologismo al costruttivismo il passo è breve. Carl Friedrich Gethman, prima e

indipendentemente da Rorty, ha visto nel § 44 di Sein und Zeit la prefigurazione di una

concezione costruttivista della logica e strumentalista della scienza. Le osservazioni di

Gethmann prendono lo spunto dalle lezioni tenute da Heidegger a Friburgo nel Winter

Semester del 1926. Fra gli uditori di quelle lezioni vi erano oltre a Gadamer, Krüger e

Löwith anche Kamlah. Il nome (per molti, credo) inatteso è quello di Wilhelm Kamlah,

noto come co-autore, insieme a Paul Lorenzen, del libro Logische Propädeutik.

Vorschule des vernünftlichen Redens. Il nome di Lorenzen è legato, com‟è noto alla

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“Erlangen Schule”, di cui è stato il fondatore e che nel frattempo a subito numerose

trasformazioni. Ad Erlangen l‟ultimo esponente della scuola, migrata in parte a

Costanza, è il filosofo della matematica e storico della logica Christian Thiel. L‟analisi

proposta d Gethmann nell‟articolo pubblicato nel 1989, intitolato “Heideggers

Wahrheitskonzeption in seiner Marburger Vorlesungen. Zur Forgeschichte von Sein un

Zeit (§44)” contiene l‟interpretazione più accurata a me nota delle idee di Heidegger

nell‟ambito di una concezione costruttivista della logica e del linguaggio. Se questa

difesa sia sufficiente a rintuzzare le obiezioni che Ernst Tugendhat, Der

Wahrheitsbegriff bei Husserl und bei Heidegger e nelle Vorlesungen zur Einführung in

die sprachanalytische Philosophie è difficile dirlo. E questo anche per via dell‟ambito

estremamente circoscritto cui l‟idea di verità come “scoprimento” è applicabile, ossia

quella in cui ricadono enunciati per i quali una demonstratio ad oculos basta a

certificarne la verità – seconda la (a parole) deprecata abitudine di attribuire al modello

della visione il primato nella teoria della conoscenza.

La concezione semantica della verità formulata da Alfred Tarski in una serie di

importanti lavori pubblicati fra il 1933 e il 1935 è quella che informerà gli scritti di

Carnap, Quine e Davidson. In questo senso la difesa di Tugendhat di questo modo di

intendere il concetto di verità tocca un caposaldo, un articolo di fede, direi quasi, di tutta

la filosofia del linguaggio di impostazione analitica, con la notevole eccezione di

Michael Dummett che in tutti i suoi scritti ha problematizzato il concetto di verità

mettendone il luce i controversi legami con la logica classica. Ma, con buona pace di

Gethman, è difficile immaginare un Heidegger che simpatizzi con la logica

costruttivista, o con la logica dialogica ideata da Lorenzen, o con l‟intuizionismo.

L‟intenzione ufficiale di Heidegger è mostrare come l‟idea di verità come

corrispondenza non abbia riscontro nelle dottrine originali di Aristotele, senza con ciò

mettere a rischio l‟idea di adequatio in senso lato. Tarski, com‟è noto, ravvisa nel De

Intepretatione di Aristotele il germe della concezione semantica della verità,

indipendentemente dall‟elusivo concetto di corrispondenza fra enunciati e stati di cose.

La concezione semantica della verità può, secondo Tarski, essere compatibile con le

posizioni filosofiche più disparate. Secondo Heidegger la adequatio va piuttosto

ripensata nel quadro dell‟Analitica dell‟Esserci: si tratta, come al solito in filosofia, non

tanto di un‟ingiunzione a riformare il nostro modo di pensare ma di cogliere meglio la

base più profonda su cui esso poggia.

Insomma, non è facile arruolare Heidegger nelle file dei costruttivisti. O lo si può fare

solo a patto di mettere fra parentesi il legame fra logica e verità. Non a caso, Rorty e

Brandom, che propongono di arruolare Heidegger fra le file dei pragmatisti glissano sul

concetto di verità. Ma questo è, io credo, un concetto su cui nessuno può permettersi di

glissare se davvero vuol fare filosofia. Quel che a me pare interessante e

(pragmatisticamente e/o costruttivisticamente) condivisibile nell‟impostazione di

Heidegger è la ripulsa del platonismo e della formulazione tradizionale del problema

della verità come corrispondenza fra due “presenze”. Purtroppo però l‟idea che il nostro

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accesso agli enti sia improntato al carattere di strumentalità e fungibità come “arnesi”

(Zeuge) presenta non poche tensioni. Anzi, io credo che sia insostenibile per svariati

motivi, fra cui, ad esempio, i seguenti.

Non sarà sfuggito ad alcuni che oggi in ambiente informatico la parola “ontologia” ha

acquistato un‟accezione diversa, quasi ingegneristica, che forse sarebbe andata a genio

anche a Carnap. In questa nuova accezione per “ontologia” si intende in realtà la ricerca

di concetti idonei per rappresentare il modo in cui gli umani concettualizzano a fini

pratici un particolare dominio di oggetti. La via d‟accesso all‟ontologia oggi non passa

più (soltanto o principalmente) attraverso la struttura logico-semantica del linguaggio

(l‟ontologia come semantica, tipica della svolta linguistica, cui abbiamo accennato

sopra). Lo spirito in cui i cultori contemporanei della disciplina lavorano presenta

affinità con il modo Husserl nelle Logische Untersuchungen concepisce l‟ontologia

formale e le ontologie regionali. In tempi di rampante naturalismo e di tentativi di

accostarsi al mondo che ci circonda nel modo più diretto possibile (riducendo, cioè, al

minimo la mediazione linguistica e amplificando al massimo la dimensione ecologico-

percettiva) vi è un rinnovato interesse per le indagini condotte da Husserl sul momento

pre-categoriale della cognizione. L‟interesse per questo genere di ricerche è in parte

motivato da quella che nel gergo della Intelligenza Artificiale si chiama la

“rappresentazione della conoscenza”, cioè la costruzioni di programmi atti a simulare

l‟intelligenza umana al fine di ottimizzare l‟utilizzo di banche di dati relativi a un certo

dominio (dal traffico urbano alle cartelle cliniche). Evidentemente chi voglia costruire

un programma sul modo in cui gli umani concettualizzano lo spazio geografico per

recarsi da A a B, troverà assai poco utile un‟ontologia di quanti e superstringhe. I

costruttori di programmi sono interessati al così detto mondo del senso comune e

possono eventualmente trarre ispirazione dalle idee di Husserl sull‟ontologia formale (la

teoria delle parti e del tutto) e sulle strutture categoriali proprie di un certo ambito di

enti.

Ora, supponiamo che un costruttore di programmi, convinto che l‟Analitica dell‟esserci

di Heidegger colga la struttura a priori del modo in cui ci rapportiamo al mondo,

volesse fornire una simulazione la più “antropologicamente” fedele possibile. Che cosa

dovrebbe fare per incorporare la Grundstruktur der Sorge e la struttura della temporalità

in questa rappresentazione? Forse dovrebbe dotare gli umani di stati emotivi del tipo

giusto (paura, colpa, stupore, angoscia, risolutezza) e delle manifestazioni corporee

appropriate. Dovrebbe mostrare lo sconcerto e l‟angoscia che i rari momenti di

autenticità imprimono sul loro volto e nei loro gesti. Ma dovrebbe anche rappresentarli

abilissimi sia nell‟utilizzare strumenti, sia nell‟occultare ciò che fanno attraverso

l‟impiego di un linguaggio oggettivista quando si recano nei laboratori e fanno attività

scientifica. Non voglio annoiare il lettore con queste fantasie, che ad alcuni possono

sembrare irriverenti, eccetto che per sottoporre alla sua attenzione una tensione presente

in Sein und Zeit, resa più esplicita dalle interpretazioni pragmatiste e costruttiviste del

pensiero di Heidegger proposte da Gethmann e da Rorty. Il costruttore di programmi che

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simula il comportamento degli umani si troverebbe qui di fronte a un imbarazzante

problema di “plausibilità psicologica”. Se la lettura pragmatista/costruttivista coglie in

parte l‟intenzione di Heidegger, si dovrebbe anche convenire che una volta che gli

umani (il generico “man”) prendano atto di avere una teoria reificante del mondo, che

scambiano per Vorhanden ciò che in realtà è Zuhanden, dispongono di varie opzioni.

Che cosa possono fare una volta che abbiamo preso coscienza di questo fatto? Sappiamo

che per Heidegger non possono fare la rivoluzione, imboccare la strada

dell‟emancipazione e dell‟utopia; o meglio, possono farlo, ma non guadagnerebbero in

autenticità. E del resto, anche la strada additata da Hegel è sbarrata. Presumibilmente

gli umani seguiranno il suggerimento di Rorty e adotteranno una concezione baconiana

del sapere, per cui sapere è potere (e non ricerca disinteressata della verità) e si

dedicheranno al dominio della natura e degli altri uomini. Insomma, se l‟interpretazione

pragmatista-costruttivista è corretta, l‟uomo tecnologico è inscritto fin dall‟inizio

nell‟Analitica del Dasein. Basta solo che decida risolutamente di diventare quel che è.

Costruttivismo, pragmatismo, progresso scientifico e tecnologico sono perfettamente in

armonia fra loro e con le premesse e promesse dell‟Illuminismo. E del resto Faust,

accecato da Sorge (o proprio perché accecato da Sorge, diranno alcuni) in punto di

morte intona l‟inno al progresso della scienza e della tecnica più toccante che sia mai

stato scritto. Per lo meno, questa è l‟interpretazione che ne ho dato altrove (Picardi

2001). E‟ al pensiero anticipante di come la costruzione della diga renderà più sicura la

vita della popolazione interessata, che Faust è quasi tentato di dire all‟attimo: Fermati!

Perché mai l‟uomo di cui ci parla Heidegger in Sein und Zeit quando si trova alle prese

con Sorge e col suo tetro corteggio dovrebbe comportarsi in modo diverso da Faust?

Perché mai dovrebbe trovare l‟autenticità di fronte all‟anticipazione della morte e della

sua propria nullità anziché di fronte al compimento della sua vocazione di costruttore di

strumenti? Detto ancora più crudamente: perché messo di fronte ai suoi due destini,

quello di costruttore sempre più raffinato di strumenti e quello di asceta, ancorché

risoluto, deve optare per il secondo? E questa domanda, a sua volta, fa venire il sospetto

che l‟Analitica dell‟esserci, lungi dall‟identificare le condizioni a priori dell‟esperienza

umana, sia un‟immagine parziale e artificialmente limitata del nostro modo di essere nel

mondo. Torniamo sul terreno scabro! L‟assenza di attrito in filosofia può avere effetti

letali.

Per tutte queste ragioni viene il sospetto l‟interpretazione “costruttivista” e

“pragmatista” del concetto di verità che Heidegger discutte nei paragrafi 44 e 69 di Sein

und Zeit non sia quella giusta. O forse c‟è una profonda tensione nell‟impianto stesso di

Sein und Zeit, che verrà messa a fuoco negli scritti successivi di Heidegger sulla tecnica.

Ad ogni modo, comunque lo si consideri, indipendentemente dalla interpretazione

costruttivista, pragmatista o semplicemente in chiave aristotelico/pratica, il concetto di

verità illustrato in Sein und Zeit Heidegger è a dir poco ambiguo. E quando dico questo

non alludo alla nozione di verità come scoprimento, nozione che senza sforzo ci pare di

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capire quando la applichiamo a esempi semplicissimi come “Il martello è troppo

pesante” o “La neve è bianca”, ma che ha il fiato corto quando pensiamo a contenuti di

pensiero complessi e remoti dalla dimensione percettiva. Mentre l‟esempio reso celebre

da Tarski enfatizza il carattere obiettivo dello stato di cose descritto dall‟enunciato,

l‟esempio del martello scelto da Heidegger esibisce una spiccata sensibilità contestuale.

I martelli, a differenza della neve, sono nostri artefatti e la valutazione della loro

pesantezza è generalmente relativa all‟utente del martello, all‟impiego che se ne intende

fare in una circostanza specifica, al paragone con altri utensili, ecc. E nondimeno, dal

punto di vista della metafisica tradizionale, la bianchezza in senso fenomenico è una

qualità secondaria COLLEGATA alla quantità di luce riflessa e assorbita da un

certo volume di molecole del familiare composto di idrogeno e ossigeno in un

particolare stato di aggregazione Eliminare?), mentre il peso del martello (a differenza

del suo risultare troppo pesante per un bambino o inutilmente pesante per fissare una

puntina da disegno) gli appartiene acontestualmente (modulo, s‟intende, la forza di

gravità), e si offre così allo sguardo dello scienziato, come Heidegger osserva (Sein und

Zeit § 69). Il peso del martello esemplifica meglio della bianchezza della neve

l‟indipendenza del modo di essere degli enti rispetto agli organi di senso e agli interessi

umani. Ma per approfondire questa differenza fra l‟esempio della neve e quello del

martello dovremmo scomodare l‟idea di proprietà intrinseca, contrastarla con quella di

proprietà secondaria, alludere alla distinzione fra proprietà essenziali e proprietà

contingenti, fra concezioni atomistiche e concezioni relazionali degli enti, insomma

rimettere in funzione l‟apparato concettuale proprio della metafisica tradizionale che a

me sembra irrimediabilmente compromesso. Per coloro che insistono sulla differenza

sostanziale fra immagine “naturale” e immagine “scientifica” del mondo questo sviluppo

(o questo regresso, a seconda dei punti di vista) appare inevitabile. La cosa più sensata

da fare è, io credo, convenire che, considerati più da vicino, questi esempi mostrano

l‟inevitabile dipendenza della verità di un asserto sia da come è fatto il mondo sia dal

significato che l‟uso sistematico della lingua ha conferito alle parole che impieghiamo

per formularlo.

Quel che è profondamente antipragmatista nella concezione della verità come

scoprimento tratteggiata in Sein und Zeit è, pace Rorty, la mancanza di socializzazione

della pratica di dire la verità. Il dire la verità è una pratica che apprendiamo attraverso

l‟esempio e l‟imitazione dai membri adulti della nostra comunità, imparando a valutare

che cosa conta come prova a favore o contro quel che è stato detto, quando dobbiamo

ritirare quel che abbiamo affermato e quando invece possiamo continuare a insistere

sulle nostre affermazione e quali conseguenze ne discendano. E‟ dalla pratica del fare

asserzioni che ricaviamo il concetto di verità, non dall‟esercizio di atti di giudizio

evidente secondo il modello tratteggiato da Husserl nella Sesta Ricerca Logica, e

perfezionato da Emil Lask, in cui il momento non proposizionale sembra avere il

sopravvento su quello proposizionale (l‟equivalente, mutatis mutandis, della conoscenza

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di cose (acquaintance) rispetto alla conoscenza di verità di cui parla Russell nei

Problems of Philosophy del 1912). Se la priorità dell‟oggettuale sul proposizionale sia

dovuta a una fedele lettura di Aristotele non saprei dire, e non ha neppure troppa

importanza, se quel che ci interessa capire è il pensiero di Heidegger (anziché quello di

Aristotele). Di certo però si tratta di un movimento di pensiero ambiguo: la familiarità

percettiva esibita dagli oggetti che popolano il mondo ambiente porta Heidegger ad

attribuire la verità (non: il predicato di verità) alle cose. Ma le cose possono contribuire

al massimo a rendere vere le nostre credenze, non sono esse stesse vere o false.

Si obietterà che la concezione della verità che troviamo in Sein und Zeit è più

sfaccettata; forse “verità” è una parola che va riservata ai rari sprazzi di autenticità di cui

gli umani sono capaci. Come Tugendhat (1970) ha osservato, una cosa è l‟aspirazione a

condurre una vita all‟insegna della verità e una cosa completamente diversa è specificare

che genere di proprietà (ammesso e non concesso che di proprietà si tratti) sia la verità

che attribuiamo ai pensieri espressi dai nostri enunciati. Saremmo dunque di fronte a un

impiego equivoco del concetto di verità, inteso ora come autenticità ora come

correttezza delle proposizioni accettate e asserite. Ma il concetto di verità è

eminentemente intersoggettivo, mentre quello di autenticità non è tale. E, ad ogni modo,

sembra arduo condurre una vita all‟insegna della verità intesa come autenticità senza

mostrare alcuna curiosità per la verità (correttezza) delle proposizioni in cui articoliamo

le credenze che abbiamo sul mondo, sui nostri simili e su noi stessi e che dovrebbero

guidare la condotta razionale di soggetti responsabili. Le idee successivamente

sviluppate da Heidegger vanno in una direzione che tende ad ignorare l‟idea di verità

come correttezza: è la parola poetica il luogo privilegiato del dischiudersi del senso e

della verità.

Ma questa è davvero una concezione angusta della verità. Assomiglia piuttosto

all‟esperienza del mistico di cui parla Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus.

Questa esperienza non è passibile di un‟articolazione proposizionale, e neppure ne ha

bisogno. La menzione del mistico rimanda all‟etica, e questo mi dà lo spunto per

richiamare un‟osservazione su Heidegger contenuta nelle minute che Friedrich

Waismann stilò dei colloqui che Wittgenstein ebbe con alcuni esponenti del Circolo di

Vienna, e con Schlick in particolare, la cui edizione è stata curata da Brian McGuinness.

Il brano, piuttosto noto, si trova nella minuta di un colloquio svoltosi il 30 dicembre del

1929 a casa di Schlick:

Posso immaginarmi molto bene quel che Heidegger intende con „essere‟ e

„angoscia‟. L‟uomo ha l‟impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio.

Pensate allo stupore per il fatto che qualcosa esista. Tale stupore non può venir

espresso sotto forma di domanda e infatti non vi è una risposta. Tutto quel che

potremmo dire può essere a priori solo un non-senso. Eppure ci avventiamo contro

il limite del linguaggio (in nota: Il sentimento mistico è sentire il mondo come un

tutto limitato. “Non mi può succedere nulla”, cioè: qualunque cosa succeda, per

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me non ha alcun significato) Anche Kierkegaard ha visto questo urto e lo ha

perfino designato con un termine simile, come urto contro il paradosso. Questo

avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica. E‟ molto importante, secondo

me, porre fine a tutte le chiacchiere sull‟etica, se vi siano valori, se vi sia una

conoscenza, se si possa definire il bene, ecc. (Wittgenstein 1975: pp. 55-6)

L‟orizzonte di idee cui questa osservazione rimanda è ancora quello del Tractatus.

Sull‟indicibilità in forma proposizionale dell‟etica (nel senso di Kant, Schlick o G.E.

Moore) Wittgenstein non cambiò mai idea, anche se nella celebre conferenza sull‟etica,

tenuta nello stesso anno, in cui si trovano ampliati pensieri simili a quelli sopra riportati,

la nozione di nonsenso è per forza di cose diversa da quella impiegata nel Tractatus,

essendo venuti meno i criteri per indicare i limiti del dicibile. Sul linguaggio e sul posto

spettante alla logica nella filosofia Wittgenstein cambiò invece radicalmente idea. E

infatti dopo il 1929 non cercherà più di tracciare il confine fra dicibile e indicibile con

riferimento alla logica e alla capacità delle proposizioni munite di senso di descrivere

fatti, pur continuando a ravvisare nella tendenza a trattare alla stessa stregua

proposizioni empiriche e proposizioni grammaticali una delle principali fonti di

confusione in filosofia. Nelle Ricerche filosofiche le forme di vita con cui si intrecciano

i vari giochi linguistici non sono trattate all‟insegna di un‟analitica del Dasein informata

dalla Grundstruktur der Sorge. La nozione di forma di vita allude all‟insieme variegato e

complesso delle attività in cui la vita degli esseri umani si svolge e nel cui contesto le

parole prodotte acquistano senso e significato.

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