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Quaderni sul Risorgimento www.tricolore-italia.com Agosto 2011 - pag. 1 Agosto 2011 www.tricolore-italia.com QUADERNI SUL RISORGIMENTO Tricolore associazione culturale Comitato 1858 - 2011

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Quaderni sul Risorgimento www.tricolore-italia.com Agosto 2011 - pag. 1

Agosto 2011 www.tricolore-italia.com

QUADERNI SUL

RISORGIMENTO

Tricolore associazione culturale

Comitato 1858 - 2011

Quaderni sul Risorgimento www.tricolore-italia.com Agosto 2011 - pag. 2

150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

UNITÀ NAZIONALE: UNA CONQUISTA IRRINUNCIABILE La Chiesa cattolica riafferma il valore dell’unità

In conclusione della 63ma Assemblea annuale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), il Presidente, Card. Angelo Bagnasco, ha affermato: “Non finiremo mai di ribadire che l’unità nazionale è un valore imprescindibile e una conqui-sta irrinunciabile. (…) Guai a perdere questo senso. Non è solo un’unità politica e gestionale, ma è qualcosa che nasce da un senso profondo di appartenenza ad un unico popolo”. Ancora una volta, i nostalgici del “Papa-Re” sono serviti…

UNITÀ NAZIONALE: UNA NECESSITÀ ASSOLUTA PAROLA DI SICILIANO

In un’intervista rilasciata nel 2011 a Roberto Riccardi, a proposito della spedizione dei Mille, Andrea Camilleri afferma (fonte: Adnkronos, 8 agosto 2011): “il regno borbonico si era preoccupato di regnare, ma non di avere dei cittadini borbonici, di trovare un'unità al suo interno, per esempio tra napoletani e siciliani. In Sicilia, anche per questo motivo, le spinte separatiste rimasero vivissime. Vi attecchirono in parallelo le idee liberali, che erano molto combattute a Na-poli, dove si avvertiva la diretta pressione dei Borbone”. Ed a proposito della necessità dell’unificazione nazionale aggiunge: “La cosa più bella della Storia è che in essa tutto è necessario. La necessità di un fatto, però, non la avverti sul momento. Te ne accorgi dopo che era tassativo che un cer-to episodio si verificasse. Ma sulla necessità storica dell'Unità d'Italia, assoluta, ineludibile, non ci piove. All'interno dei grandi movimenti storici del tempo, tutto ciò che è stato si rivela necessario, a posteriori. I latini dicevano: post hoc, propter hoc”. Ancora una volta, i neosudisti sono serviti…

Quaderni sul Risorgimento www.tricolore-italia.com Agosto 2011 - pag. 3

150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

11 agosto 1861 Quarantuno soldati del 36˚ Reggimento di fanteria, comandati dal tenente livornese Cesare Augusto Bracci, sabato 10 agosto 1861 sono massacrati a Pontelandolfo, provincia di Benevento, da civili ed ex soldati borbonici, guidati da Cesare Gior-dano. E’ un ex stalliere di 22 anni, origi-nario di Cerreto Sannita. A 16 anni uccise l’assassino di suo padre. Arruolatosi a 20 anni nei Reali Carabinie-ri a cavallo borbonici, ha combattuto con-tro Garibaldi alla battaglia del Volturno. Nominato capitano da Re Francesco II, si è dato alla guerriglia con 200 uomini. A Pontelandolfo e nel vicino paese di Casalduni ha fatto issare la bandiera bor-bonica. Saputa la notizia, il governatore di Campobasso Giuseppe Belli invia sul

posto Bracci, 40 soldati e 4 carabinieri. Giungono a destinazione a mezzogiorno. Inalberano bandiera bianca, quale segno di pace. Ma uno dei soldati è subito ucciso da una fucilata. (1) Bracci sente che il paese in-sorge contro di loro. Tenta allora di ripiegare. Ma, fatti due chilometri, è circondato da altri insorti, provenienti da Casalduni. Guidati da Angelo Pica, si uniscono a quelli di Pontelandolfo. Sono centinaia, con donne e bambini. Attaccano i soldati. Cinque cadono. Gli altri sono fatti prigio-nieri, compreso Bracci. Vengono portati a Casalduni. Alle 22 è deciso: saranno uccisi. Ad alcuni sparano. Altri li mutilano. Bracci è lapidato. Alle 24 i rantolanti ven-gono finiti a mazzate. In tre fuggono. “Vendicate i Caduti” Massacrati a Casalduni i 41 soldati sabau-di del tenente Bracci, domenica 11 agosto 1861 Cosimo Giordano ed Angelo Pica, capi degli insorti filo borbonici autori dell’eccidio, rientrano a Pontelandolfo. Vogliono concertare il da farsi con Filip-po Tommaselli, un altro capo di armati, che si definisce generale borbonico. Dopo la strage prevedono rappresaglie dalle autorità italiane. La notizia del massacro di Casalduni è giunta a San Lupo, paese a 10 chilometri da Pontelandolfo. Qui sono di presidio 200 guardie nazionali, comandate da A-

chille Jacobelli. E’ un ex tenente colonnello borbonico, che ha poi scelto il tricolore italiano. Mobilita i suoi uomini per marciare su Casalduni. Ma le strade sono presidiate dai nemici. Jacobelli non vuole rischiare un’imboscata. Scrive al generale Cialdini, per chiedere rinforzi. La lettera segnerà la sorte dei due paesi: «Eccellenza, soldati tra i più valorosi figli d’Italia, furono trucidati in Pontelandol-fo. Arrivati sul luogo, vennero tenuti a bada dai cittadini fino al sopraggiungere dei briganti. Giunti costoro, i soldati ave-vano subito attaccato, ma il popolo tutto accorse costringendoli a fuggire. Insegui-ti si difesero strenuamente, sempre com-battendo, fino a ritirarsi nell’abitato di Casalduni ove si arresero e passati per le armi. Invoco la magnanimità di sua eccel-lenza affinché i due paesi citati soffrano un tremendo castigo che sia d’esempio alle altre popolazioni del Sud».

Maurizio Lupo http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/blog/hrubrica.asp?ID_blog=332

IL MASSACRO DI CASALDUNI

(1) Secondo alcune testimonianze d’allora, i militari erano molto stanchi per il viag-gio ed a digiuno. Lo stesso sindaco di Pontelandolfo dichiarò in seguito che chiesero viveri offrendosi di pagarli. Alcuni abitanti aprirono il fuoco ferendo a morte uno dei militari, ma l'ufficiale comandante piemontese intimò ai suoi uomini di non risponde-re al fuoco e continuò a condurli pacificamente verso il centro della cittadina. (NdR)

Il massacro di Casalduni dell’11 Agosto 1860, e la conseguente, sanguinosissima spedizione punitiva, appartengono, purtroppo, allo storia d’Italia. Non facciamo parte della categoria di chi vuole difendere a tutti i costi un’ideologia, persino negando o igno-rando volutamente la verità dei fatti. Né a quella di chi piega principi e valori ai propri preconcetti. Ma desideriamo che la verità sia riconosciuta da tutti. Pochi, invece, conoscono i fatti che lo storico Maurizio Lupo narra in questa pagina. Fatti terribili, tipi-ci di ogni guerra civile, dove le atrocità sempre si susseguono, da una parte e dall’altra. Crediamo che sia ormai passato il tempo delle reciproche accuse e che sia necessario fare un passo avanti, per il bene dell’Italia e dei suoi figli, di oggi e di domani. Saremmo lieti di poter instaurare un franco, onesto e leale progetto di studio con realtà bor-boniche serie (ne esistono, lo sappiamo), al fine di vedere riconosciuti da entrambe le parti meriti e demeriti e, soprattutto, di giungere ad una visione più seria ed equilibrata della verità storica. Per creare unione d’intenti, perché sono molti di più gli ele-menti che ci uniscono di quelli che ci dividono. La mano è tesa. Vedremo se qualcuno l’afferrerà.

Alberto Casirati

Casalduni - il castello ducale

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150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

«Sì, c'è un prologo tutto abruzzese che annuncia e prelude alla irripetibile stagio-ne del Risorgimento italiano, quella «primavera dei popoli» dell'anno di grazia 1848 che con le «Cinque giornate di Mila-no» e la rivolta di Brescia la «leonessa», e poi di Venezia e la Repubblica romana, diede il via alla fiammata patriottica indi-pendentista». E' il professor Walter Cavalieri, docente di storia e scienze umane al liceo scienti-fico de L'Aquila, a rinfrescarci la memo-ria su un episodio mai entrato nei libri di scuola. I fatti dell'Aquila del 1841, l'insurrezio-ne contro Ferdinando II di Borbone, qual è la storia di questo episodio poco conosciuto, professore? «L'insurrezione dell'Aquila segue di pochi anni la rivolta della città di Penne dell’an-no 1837, repressa spietatamente dalle truppe borboniche comandate dal triste-mente famoso colonnello Gennaro Tanfa-no. Tutto iniziò la notte dell'8 settembre, con l'uccisione dello stesso Tanfano (che come ricompensa era stato promosso co-mandante della piazza più importante dell'Aquila) e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre uscivano di casa disarmati per recarsi al forte spagno-lo. Questo fatto di sangue doveva dare il segnale all'insurrezione, approfittando del fatto che i reparti del presidio dell'Aquila

erano stati inviati a Napoli per partecipare alla rituale parata militare per la festa di Piedigrotta. Sfruttando il momento propi-zio, si ritenne possibile libe-rare la città e provocare di conseguenza un generale sommovimento del regno contro la tirannide borbonica. In effetti, i patrioti aquilani in armi conquistarono porta Rivera, da dove sarebbero dovute entrare in città alcune centinaia di rivoltosi prove-nienti dai centri vicini. Per tutta la notte fra l'8 e il 9 settembre, pattuglie di insorti e di gendarmi si af-frontarono al buio per le vie principali della città in una serie di convulsi scontri a fuoco con morti e feriti da entrambe le parti. La spuntarono i più preparati militi borbonici. La repressione fu dura, portò all'incriminazione di 192 persone, in pre-valenza artigiani, e del ristretto vertice ideologico e organizzativo della sommos-sa, costituito invece da una sparuta pattu-glia di notabili colti». Quali le cause? Quale il contesto nazio-nale e «meridionale» della rivolta? Che cosa era L'Aquila nel 1841, capoluogo di una provincia del Regno delle due Sici-lie? «I moti aquilani si inquadrano nelle situa-zione generale di un regno borbonico che

era da tempo in subbuglio, come dimo-strano le ribellioni di Palermo, di Catania, di Penne e della stessa Napoli. Una parte della borghesia tramava per affermare idee di tipo liberale o democratico, mentre i ceti popolari urbani speravano che con la caduta dei Borboni sarebbe stato allegge-rito il peso fiscale e diminuito il prezzo di alcuni generi essenziali, come il sale. Per rilevanza amministrativa, per popola-zione e per posizione strategica, L'Aquila era annoverata all'epoca tra le principali città del regno. Capoluogo di provincia, sede della Gran Corte Civile d'Appello e del Real Liceo degli Abruzzi, essa vantava un passato secolare caratterizzato da un fortissimo spirito di libertà e d'indipendenza, tale da vederla protagonista anche nella travaglia-ta storia del nostro Risorgimento».

(Continua a pagina 5)

L'INSURREZIONE AQUILANA DEL 1841

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Supplemento a TRICOLORE - Mensile d’informazione stampato in proprio (Reg. Trib. Bergamo n. 25 del 28-09-04) © copyright Tricolore - riproduzione vietata

Direttore Responsabile: Dr. Riccardo Poli Redazione: v. Stezzano n. 7/a - 24052 Azzano S.P. (BG) - E-mail: [email protected]

150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

La rivolta fu uno dei primi moti repub-blicani di matrice mazziniana? Chi furo-no gli ispiratori? «La rivolta aveva una ispirazione mazzi-niana, ma fu condotta senza una guida esperta, con obiettivi limitati e metodi settari tardo-carbonari, incapaci di garan-tire un adeguato livello di organizzazione territoriale e un efficace coordinamento delle forze. Tra i massimi ispiratori della sommossa incriminati dalla procura della Gran Corte Criminale spiccano i mazzi-niani Pietro Marrelli e Angelo Pellegrini, ma anche lo stesso sindaco della città, il barone Vittorio Ciampella, il patrizio Lui-gi Falconi, il marchese Luigi Dragonetti e il barone Giuseppe Cappa». La sommossa ebbe respiro corto, durò due giorni, come e perché finì? «L’azione di contrasto della gendarmeria, cui dette man forte una guardia civica costituitasi per l’occasione, fu particolar-mente tempestiva il che consentì alle trup-pe assentatesi di rientrare agevolmente in città. La conseguente azione repressiva, insieme all’arrivo di rinforzi borbonici provenienti da Sulmona e alla mancata

sollevazione di altre province del regno, portò al rapido esaurimento del moto e alla dispersione dei rivoltosi nelle vicine campagne, nella vana attesa di supporti esterni. Il processo contro gli insorti, svol-tosi nella fortezza spagnola, si concluse con otto condanne a morte (tre delle quali eseguite sugli spalti del forte e le restanti commutate in ergastolo) e una novantina di pene detentive varianti tra i 30 e i 25 anni di bagno penale. Di contro, i gentiluomini borghesi (pro-fessionisti, commercianti, burocrati) che avevano collaborato attivamente alla re-pressione del moto furono ricevuti in u-dienza dal re e da lui insigniti di medaglie e decorazioni. Forse anche per questo la città dell’Aquila non fu punita dai Borboni, potendo man-tenere il suo ruolo di capoluogo e tutti i suoi uffici. Ciò non di meno, quando due anni dopo Ferdinando II venne in visita all’Aquila fu accolto da pochissimi devoti e rimase molto impressionato dalle vie completamente deserte». Dopo quell’autunno del ’41 all’Aquila non c’è stata la «primavera dei popoli» del ’48 né gli altri bagliori rivoluzionari

che hanno caratterizzato il Risorgimen-to, perché? «Per la verità, quando nel maggio 1848 il re borbonico scioglierà il Parlamento e istituirà un ministero reazionario, il nuovo intendente liberale dell’Aquila, il siciliano Mariano d’Ayala, tenterà di difendere la Costituzione. Ma non poté contare su al-cun appoggio cittadino contro l’esercito accorso in forza da Napoli, probabilmente perché il ceto popolare aquilano subiva ancora le cocenti delusioni della precoce rivolta del ’41, mentre il notabilato bor-ghese persisteva in quella linea gattopar-desca che gli permetterà, all’indomani del 1860, una transizione agevole e senza traumi dai Borboni ai Savoia. Insomma all’Aquila come altrove il pro-getto mazziniano trovava ostacoli nell’i-gnoranza, nell’analfabetismo, nella paura della reazione, nell’attaccamento alla tra-dizione, nei conflitti sociali. In una parola, era mancata la partecipa-zione popolare, l’apporto di quel “popolo” in cui Mazzini tanto confidava». h t t p : / / i l cen t ro .ge loca l . i t /pesca r a /cronaca/2011/02/19/news/la-rivolta-dell-aquila-3484623/1

(Continua da pagina 4)

IL DEBITO PUBBLICO: NEL 1861 VENNE GESTITO CON LUNGIMIRANZA

Anche l’Italia dei debiti pubblici è fatta. Venerdì 5 luglio 1861 il Senato, su proposta del ministro delle Finanze Pietro Bastogi, approva con 68 voti favorevoli e 4 contrari l’istituzione del «Gran Libro del debito pubblico del Regno d’Italia». Riunirà i debiti pubblici di tutti gli stati preunitari. La Camera completerà l’iter di approvazione il 10 luglio. A questa legge farà seguito, il 4 agosto 1861, quella «di unificazione dei Debiti pubblici d’Italia». Assommano a 2.400 milioni di lire, pari a oltre 10 miliardi e mezzo di euro odierni. Lo Stato con maggiore debito pubblico era il Regno di Sardegna, con 1.300 milioni, spesi in opere strutturali e in spese militari necessarie alle imprese risorgimentali. Il Regno delle Due Sicilie si presenta con 730 milioni di debito pubblico: 520 delle province napoletane e 210 di quelle siciliane. Segue il Granducato di Toscana, con 140 milioni. La Lombardia ne ha 150, le province pontificie annesse ne hanno in tutto 31: 19 milioni la Romagna, 7 l’Umbria e 5 le Marche. Il Ducato di Modena entra in Italia con 18 milioni di debiti e quello di Parma con 12. Con questa contabilità in mano il governo di Ricasoli deve pianificare il domani. Ha deciso di seguire la rotta tracciata da Ca-vour. La neonata Italia insisterà nelle spese strutturali. Spenderà per realizzare tratte ferroviarie e rafforzerà esercito e marina. Diventeranno le colonne per unire il Paese e tutelare la sua sicurezza e indipendenza.

Maurizio Lupo (http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/blog/hrubrica.asp?ID_blog=332)

DUE PARERI AUTOREVOLI

Secondo Benedetto Croce, i Borbone erano una dinastia che in passato aveva dato a Napoli anche un grande sovrano, ma che «...ormai rappresentava, nella vita dell'Italia Meridionale, la peior pars...», cioè la parte peggiore (cfr. Storia del Regno di Napo-li, Bari, Laterza, 1980). Anche lo storico e filosofo Ernest Renan, in viaggio nel Mezzogiorno d'Italia attorno al 1850, al pari degli altri viaggiatori e osservatori stranieri constatava l'«...affreuse tyrannie intellectuelle qui règne sur cette partie de l'Italie...».

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150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

Cortale "La battaglia di Capua", meglio nota co-me "La campagna del Volturno", olio su tela del celebre concittadino Andrea Ce-faly, sarà esposta per la prima volta a Cor-tale, nel palazzo Cefaly-De Rinaldis. L'evento in occasione del convegno "Andrea Cefaly e i garibaldini cortalesi", curato dal circolo culturale che porta il nome del celebre pittore, è patrocinato dall'amministrazione comunale guidata dal sindaco Francesco Scalfaro. All'incon-tro parteciperanno Giovanna Brigandi direttrice della Pinacoteca comunale di Reggio, Francesco Soverina direttore del-l'Istituto campano per la storia delle Resi-stenza e dell'età contemporanea, e lo stori-co calabrese Ulderico Nisticò. La serata sarà allietata dai brani musicali eseguiti da Franco Suppa e Luca Tolone, "Il duo di lusso". L'esposizione della "Battaglia di Capua" è stata organizzata dall'amministrazione comunale e resa possibile con la conces-sione dell'opera da parte della Pinacoteca civica reggina. Il dipinto fu commissionato da re Vittorio Emanuele II nel dicembre del 1860 per commemorare l'impegnativa battaglia del Volturno con cui Giuseppe Garibaldi ave-va concluso la leggendaria impresa dei Mille il primo e il 2 ottobre di quell'anno. L'esposizione è un omaggio della comuni-tà ad Andrea Cefaly, nato a Cortale il 31 dicembre 1827 e deceduto il 4 aprile del 1907, dopo avere preso parte ai moti antibor-bonici e militato nelle file della Guardia na-zionale con il grado di capitano. L'opera pittorica «è una testimonianza del prezioso contributo dato dal Sud all'Unità d'Italia», sostiene l'am-ministrazione munici-pale. Esposta in molte città italiane per le ce-lebrazioni dei 150 anni dell'unificazione nazio-nale, «è oggi un emble-ma di quel fervore lon-tano che portò tanti

giovani a lottare per far diventare realtà il sogno risorgimentale». Inserendosi nelle celebrazioni cortalesi avviate lo scorso 17 marzo anche con l'avvenuta restaurazione della colonna su cui poggia la statua che rappresenta l'Ita-lia, l'esposizione della tela ad olio costi-tuirà «un prestigioso momento per rievo-care un periodo cruciale della nostra me-moria storica», sottolinea ancora l'ammi-nistrazione. Che tiene a rammentare pure come l'illustre concittadino autore della "Battaglia di Capua", tornato a Cortale nel 1862, abbia fondato nel paese una scuola

di pittura. Ne fu presidente onorario lo stesso Giuseppe Gari-baldi, guidandola sino al 1875. Andrea Cefaly «interpretò pienamente il clima culturale della se-conda metà dell'Ottocento e le sue ansie risorgimen-tali: un combattente che dedicò il suo talento pitto-rico alla storia del Risorgi-mento e alla costruzione di un'identità nazionale». L'amministrazione condi-vide l'opinione del critico d'arte Tonino Sicoli secon-do cui «la rivoluzione so-ciale è anche una pratica

pedagogica che assume i connotati di una politica culturale rivolta alla creazione di una coscienza civile». Sempre domani sera a Cortale, in Piazza Italia alle 19, prenderà il via pure la setti-ma edizione del festival "Jazz & vento". La rassegna, che durerà fino a mercoledì, rientra nel cartellone "Cortalestate 2011". Un programma ricco di eventi che si con-cluderanno sabato 20 con la presentazione di "Cercando Fabrizio – Storia di un'attesa senza resa" di Caterina Migliazza Catala-no.

Giovambattista Romano h t t p : / / w w w . g a z z e t t a d e l s u d . i t /N o t i z i a A r c h i v i o . a s p x ?art=109639&Edizi_one=9&A=20110807

“LA BATTAGLIA DI CAPUA” ESPOSTA AL PUBBLICO DI CORTALE La celebre tela di Andrea Cefaly esposta al pubblico. Fu il re Vittorio Emanuele II a commissionarla al pittore cortalese. «Una testimonianza del prezioso contributo dato dal Sud all'Unità d'Italia»

Andrea Cefaly

LA STORIA È DIVERSA DALLA PROPAGANDA

Vittorio Emanuele II, salito al trono dopo la sconfitta di Novara, non volle firmare la pace con gli austriaci prima di avere ottenuto l’amnistia per i patrioti lombardi accusati di sedizione e tradimento. Conosciamo gli errori dei Savoia, ma non è giusto lasciare che gli errori, nella percezione generale, cancellino i meriti. Non è così che si scrive la storia.

Sergio Romano

Quaderni sul Risorgimento www.tricolore-italia.com Agosto 2011 - pag. 7

150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

Molti pseudo storici, nel fiume d’inchio-stro profuso in questi mesi per il 150° anniversario della proclamazione del Re-gno d’Italia, hanno scritto che al Risorgi-mento mancò la “voce del Sud”… Il clima reazionario scaturito dal Congres-so di Vienna nel 1815 cancellò in pochi mesi in Europa e quindi anche dalla no-stra Penisola quelle speranze libertarie sorte all’indomani della Rivoluzione Francese e istituzionalizzate con Napoleo-ne. Molti ufficiali formati durante il regno di re Gioacchino Murat, cognato del Bo-naparte, diedero vita ad un’associazione segreta, la “Carboneria”, per custodire quei valori retaggio della precedente epo-ca: autonomia, indipendenza, riformismo economico, ecc. Nel nostro Mezzogiorno la Carboneria si sviluppò rapidamente, tanto che nel mag-gio 1820 alcuni fermenti insurrezionali promossi dalla “vendita” carbonara di Salerno, vennero sventati preventivamen-te dalla Polizia borbonica che attuò molte perquisizioni ed arresti. Poche settimane dopo, tuttavia, le insod-disfazioni contro il governo di re Ferdi-nando I di Borbone sfociarono nella ribel-lione del reggimento “Real Borbone” di Nola. Capeggiati dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, con il segreto appoggio del generale Guglielmo Pepe, copertosi di gloria durante la Repubblica Partenopea nel 1799 e sui campi di batta-glia al seguito di Napoleone I, i 127 sol-dati di questo reggimento da Nola decise-ro di dirigersi su Avellino. I rivoltosi al grido, rassicurante per la popolazione, di “Dio, Re, Costituzione”, volevano che anche nel Reame napoletano venisse in-trodotta una Costituzione sul modello spagnolo. Ma i soldati inviati a fermare

questa colonna, solida-rizzarono con essi, ed il 3 luglio tutti entraro-no trionfalmente nel capoluogo irpino, dove venne proclamata la Costituzione di Spagna del 1812. Ben presto il movi-mento insurrezionale si propagò alla Calabria ed alla Basilicata, non solo, a Pontecorvo, nel frusinate, enclave dello Stato Pontificio del Regno delle Due Sicilie, i locali carbo-nari scacciarono il governatore papalino. Ferdinando I di Bor-bone (1751-1825), in quelle settimane, si trovava in una delle sue residenze sul mare con la seconda moglie morganatica, Luisa Migliaccio (1770-1826), duchessa di Floridia e Principessa di Partanna e preferì delegare al ministro Luigi de’Medici ed al generale, ex murat-tiano, Michele Carrascosa, la repressione della rivolta. Le defezioni delle truppe del generale Antonio Campana, le quali passarono con i colleghi costituzionalisti, costrinsero questi a fortificarsi a Salerno. Il 5 luglio anche a Benevento, altro feudo pontificio, i carbonari costrinsero il delegato del Pa-pa e le sue milizie a rifugiarsi all’interno della cittadella, mentre in città veniva issato il tricolore rosso, celeste e nero, proprio della Carboneria. Il 6 luglio dopo l’adesione ufficiale del generale Guglielmo Pepe alla sollevazio-

ne, re Ferdinando I fu costretto a nomina-re un nuovo governo e, causa ufficiosa-mente il suo stato di salute, ad affidare i poteri di Vicario del Regno, all’erede al trono Francesco duca di Calabria. Il 9 luglio 1820 nel mentre l’organo ufficiale del Reame borbonico, “il Giorna-le delle Due Sicilie” assunse il nuovo tito-lo di “Giornale costituzionale”, il Pepe alla testa di 14mila soldati entrò trionfal-mente a Napoli, tutti ornati con la coccar-da carbonara, sfilando sotto i balconi di Palazzo Reale, ove ad eccezione del so-vrano, tutta la famiglia reale era schierata. Poco dopo nella sua camera da letto, re Ferdinando diede udienza per riceverne

(Continua a pagina 8)

IL RUOLO DI COSENZA DEL PROCESSO RISORGIMENTALE (Adnkronos) - ''Cosenza - afferma il sindaco, Salvatore Perugini - ha avuto un ruolo importante nel processo risorgimentale e questa straordinaria tradizione merita di essere ricostruita e conosciuta, sia per ragioni legate all'orgoglio identitario, sia per restituire un'importante pagina di storia alla verità”. Fra i punti della citta' di Cosenza che furono teatro di importanti eventi legati alla lotta risorgimentale le piazze Grande e Piccola, nel centro storico, dove si tenevano le adunate rivoluzionarie; Portapiana, dove fu innalzato l'Albero della liberta'; il colle Vetere, dove fu impiccato il carbonaro Vincenzo Federico detto Capobianco; la chiesa di Sant'Agostino e l'annesso convento, carcere sot-to i Borbone, dove venivano rinchiusi i prigionieri politici e dove i Bandiera assistettero alla loro ultima Messa e furono sepolti; Palazzo Arnone, nell'Ottocento sede dell'Intendenza, simbolo stesso del potere borbonico (anche qui fu innalzato l'albero della liberta'), dove si tenevano i processi politici e verso cui si rivolse il tentativo rivoluzionario del 15 marzo 1844 (in quel luogo fu, tra l'altro, insediato il Comitato di Salute Pubblica del 1848). http://www.libero-news.it/articolo.jsp?id=632524

RISORGIMENTO DIMENTICATO: MEZZOGIORNO PROTAGONISTA Giuseppe Polito (*)

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150° ANNIVERSARIO DELLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

l’omaggio ai capi della rivolta. Il 13 luglio il Re giurò solennemente sulla Costituzione, seguito dagli altri Prin-cipi della famiglia, da ministri e generali del Regno nel corso di una pubblica ceri-monia. La rapidità della “rivoluzione napoletana” è dagli studiosi da imputare all’unione tra l’opposizione antiborbonica dei militari murattiani ed i gruppi di borghesi carbo-nari democratici. La rivolta ebbe anche l’appoggio della popolazione ed a diffe-renza del 1799, non andò incontro alla reazione aristocratica e sanfedista la quale aveva causato la sconfitta dei giacobini napoletani. Le prime scelte politiche provocarono, purtroppo, insanabili divisioni. La scelta di varare la Costituzione “spagnola” del 1812, che prevedeva una forte limitazione dei poteri sovrani, una sola Camera eletti-va ed il suffragio universale maschile, seppur limitato da un sistema elettorale in tre gradi che assicurava una prevalenza dei ceti maggiorenti, fu la causa del na-scere delle frizioni tra i democratici ed i moderati vicino alla Corona. Anche sul fronte dell’assetto amministrativo dello Stato arrivarono insanabili divergenze. Alla notizia che i nobili siciliani a Napoli, si erano rifiutati di entrare a far parte della Giunta Provvisoria, chiedendo per la Sici-lia il ripristino della carta costituzionale del 1812, mentre a Palermo tra il 15 ed il 17 luglio scoppiarono gravi incidenti tra i sostenitori dell’unità con Napoli ed i se-paratisti, i rappresentanti delle province di Salerno, della Basilicata e della Cala-bria chiesero anch’essi maggiori autono-mie locali, suscitando la reazione dei mu-rattiani, portavoce di una concezione bu-rocratica e centralizzata dello Stato. Mentre a Napoli si discuteva, a Paler-mo la situazione era sfuggita di mano alle autorità: i cittadini armati assalirono gli uffici pubblici, distruggendo la statua del sovrano in piazza Borbonica, assediando la residenza del luogotenente ed occupan-do il Castello a Mare. Anche le carceri vennero assalite e liberati i detenuti. La guarnigione fu costretta a capitolare inca-pace di evitare il saccheggio del Palazzo Reale ed il massacro dei realisti. La cor-porazione dei “conciapelli” divenne arbi-tra dei destini palermitani, favorendo l’in-sediamento di una Giunta Municipale, composta dall’arcivescovo Cardinal Pie-tro Gravina alla presidenza, da 9 rappre-sentanti dell’aristocrazia e 10 esperti giu-risti come collaboratori.

Per arginare la crisi il Principe Vicario Francesco di Borbone, firmò il decreto per convocare i collegi elettorali che a-vrebbero portato all’elezione dei deputati al nuovo Parlamento, invitando i Siciliani a riconoscere i cambiamenti intervenuti nel Governo e validi per tutto il Regno. Vennero abolite altresì le Corti speciali e le Commissioni militari, la bandiera reale venne fregiata dei tre colori carbonari e la coccarda resa obbligatoria per i cittadini, venne poi abolita la censura preventiva, la Commissione di Polizia, mentre quella per la Sicurezza fu affidata ad un noto esponente carbonaro: Pasquale Borrelli già esiliato, filosofo e matematico di valo-re. Il 25 agosto il governo austriaco inviò alle cancellerie europee una nota, nella quale venivano definiti “intollerabili” gli avvenimenti nel Regno delle Due Sicilie, invitando alla repressione. Nonostante l’assenza dei moderni mezzi di comunicazione, quello che stava acca-dendo nel Mezzogiorno arrivò anche nel-l’Italia Settentrionale: ci furono arresti nei circoli e nei caffè riformisti di Milano, ed in tutto il Lombardo-Veneto venne ordi-nato dalle autorità austriache, ai parroci, di leggere un’ordinanza governativa per denunciare gli iscritti alla Carboneria! L’appello alla pacificazione dell’erede al trono Francesco duca di Calabria, cad-de nel vuoto con la risposta del 3 agosto da parte della Giunta Provvisoria palermi-tana, la quale nel frattempo aveva eletto suo presidente il Principe Giuseppe Allia-ta di Villafranca al posto del cardinal Gra-vina, nella quale si affermava che “… i mali dell’isola derivano dal governo na-poletano – dichiarando – di combattere per la libertà e l’indipendenza siciliana”. A metà agosto tutta la Sicilia è in piena guerra civile dopo il saccheggio di Calta-nissetta ad opera dei palermitani, per pu-nire la città dopo il suo rifiuto di aderire al movimento indipendentista. Il 1° settembre 1820 il governo austria-co decise l’invio di truppe in Italia per reprimere l’insurrezione nel Regno delle Due Sicilie. Nel frattempo a Napoli 4mila uomini al comando del generale Floresta-no Pepe, fratello di Guglielmo, s’imbarca-rono per Palermo per soffocare a loro volta la rivolta. Sbarcato a Messina e Mi-lazzo, l’esercito regio, ingrossato da ban-de messinesi e catanesi ostili al ruolo do-minante del capoluogo siculo, marciarono su Palermo. Il 22 settembre la nobiltà sici-liana votò per la capitolazione inviando al Pepe un documento sottoscritto anche dal

Principe di Villafranca. Fu accordata l’-amnistia generale per tutti i delitti pubbli-ci ma il popolo rifiutò il tradimento dell’-aristocrazia scendendo nelle strade ed assalendo i militari. Tra il 26 ed il 30 settembre a Palermo si contarono oltre 5mila morti fra palermi-tani e napoletani, fu saccheggiato anche il Palazzo del Villafranca, il generale Pepe venne costretto a ritirarsi nella cittadella da dove chiese rinforzi a Napoli. Nella capitale si stava riunendo il Parla-mento, prima rappresentanza elettiva del-l’Italia meridionale, composto in preva-lenza da proprietari terrieri, professionisti, magistrati, ufficiali, sacerdoti, la maggio-ranza dei quali proveniva dall’esperienza del decennio murattiano e garantiva una sostanziale moderazione nel programma di riforme sociali atte ad assicurarsi uno stabile appoggio popolare, il quale tutta-via venne quasi subito a mancare. Alla presidenza del Parlamento fu eletto il let-terato giacobino Matteo Angelo Galdi. Il 5 ottobre la rivolta palermitana sem-brò cessare con le trattative tra il generale Pepe ed il nuovo presidente della Giunta, l’ottantenne Giovanni Luigi Moncada Principe di Paternò, le quali prevedevano la solita amnistia generale, la convocazio-ne di un Parlamento per il futuro assetto della Sicilia ed il ritiro delle truppe napo-letane dai forti cittadini. Ma il 15 ottobre il Parlamento napole-tano respinse gli accordi sottoscritti dal Pepe, nominando Pietro Colletta, già aiu-tante di campo di re Gioacchino Murat, il quale per le sue capacità militari aveva conservato il grado alla Restaurazione borbonica, comandante generale di una nuova spedizione che venne inviata in Sicilia per reprimere definitivamente i moti. Al Congresso di Troppau (odierna Opa-va nella Rep.Ceca, n.d.a.), i rappresentanti delle Potenze della Santa Alleanza (Austria, Prussia e Russia) ed i plenipo-tenziari di Francia e Gran Bretagna si riunirono per discutere sulla politica da adottare nei confronti dei “focolai” rivolu-zionari, sancendo il “principio di interven-to” , a cui si oppose solo Londra. Un mese dopo circa, il 20 novembre, in una lettera a re Ferdinando I di Borbone, i sovrani di Austria, Russia e Prussia, invi-tarono il Borbone al successivo congresso di Lubiana, per concertare a livello inter-nazionale il modo di regolare gli affari di Napoli e della Sicilia. Iniziò così una lunga e farsesca commedia

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tra Ferdinando I, i parlamentari, i ministri, sul da farsi: accettare o non accettare l’in-vito di recarsi a Lubiana? Intanto il Parla-mento napoletano stabilì che “la religione del Reame fosse esclusivamente quella cattolica, proibendo la pubblica professio-ne di altre religioni”. Il 7 dicembre re Ferdinando I dichiarò di voler partecipare all’incontro con gli altri capi di Stato, onde “porsi come mediatore tra la nazione napoletana e le potenze europee – ribadendo – che solo il Re in persona può trattare con i sovrani europei – promettendo – il massimo impegno af-finchè il suo popolo possa godere di una costituzione saggia e liberale”. Tra intrighi e dichiarazioni, il giorno se-guente fallì un tentativo militare di scio-gliere il Parlamento e di restaurare la mo-narchia assoluta. Il 12 il Parlamento autorizzò, dopo lunghe esitazioni, Ferdinando I a recarsi a Lubia-na con la motivazione di “sostenere la Costituzione di Spagna comunemente giurata”. Salpato da Napoli il 13 dicembre 1820, scortato da una fregata inglese e una fran-cese, re Ferdinando I durante il viaggio incontrò i nipoti Ferdinando III d’Absbur-go-Lorena, granduca di Toscana, e Maria Luisa di Borbone duchessa di Lucca, giungendo nella città slovena l’ 8 gennaio 1821 accolto dal Principe di Metternich, dallo Czar Alessandro I di Russia e dal nipote più importante: Francesco I Impe-ratore d’Austria. Fu subito chiaro che le Potenze europee non avrebbero mai accet-tato il sistema costituzionale venutosi a creare in Spagna né tantomeno nel Regno delle Due Sicilie, tantè che già il 4 feb-braio le truppe austriache mossero verso Napoli dopo aver ottenuto il nulla osta del Governo pontificio al loro passaggio sul proprio territorio. A queste notizie il Parlamento napole-tano si riunì in seduta straordinaria perma-nente, decretando la mobilitazione e la difesa del Regno, per quanto riguardò la condotta del Re, i deputati considerarono Ferdinando “prigioniero della Santa Alle-anza” escludendone la sua libera volontà in ogni atto contro la Costituzione! L’atteggiamento di questo sovrano a Lu-biana è stato per decenni dibattuto. Una cosa è certa: vista l’impossibilità di soste-nere una causa già persa, Ferdinando I accettò supinamente l’invio di truppe stra-niere nel suo Regno per ristabilirvi il po-tere assoluto pensando a conservare il trono per poi agire “paternamente” come

era costume della sua Casa per lenire la successiva ondata di contro-reazione. Tuttavia, agendo così, si alienò ancora una volta le correnti moderate e riformiste che nonostante tutto avevano dato rinno-vata fiducia dopo la Restaurazione alla monarchia borbonica, le quali nei decenni successivi sotto i suoi successori preferi-rono sposare la causa nazionale. Il 23 febbraio 1821 da Lubiana, poco pri-ma di ripartire per la sua capitale, Ferdi-nando inviò un proclama ai napoletani nel quale li si invitava a non seguire il “cieco fanatismo rivoluziona-rio e ad accogliere l’ar-mata austriaca come una forza che agisce soltanto pel vero inte-resse del nostro regno”. Il 7 marzo a Rieti, le truppe napoletane attac-carono l’avanguardia austriaca ma furono sconfitte. Nelle settima-ne successive furono così occupate Capua, Caserta ed Aversa, pre-ludio dell’ingresso a Napoli il 24 marzo del-l’armata imperiale. Anche la fortezza di Gaeta venne consegna-ta agli austriaci. A tali notizie le milizie carbonare di Mes-sina insorsero contro la monarchia borbo-nica, rea di aver mancato al giuramento costituzionale. Il 9 aprile fu istituita a Napoli una Cor-te marziale per l’applicazione della pena di morte a quanti venissero trovati in pos-sesso di armi, mentre un premio di mille ducati fu promesso a chi avesse favorito la cattura dei capi della rivoluzione! Ferdinando I al suo ritorno nominò nuovo ministro di Polizia, il reaziona-rio Antonio Capece Minutolo principe di Canosa, ed allo stesso tempo il Governo provvisorio, in nome del sovrano, revocò ed annullò tutto quanto era stato fatto dal ministero costituzionale dal 5 luglio 1820 al 23 marzo 1821. Il 16 aprile una giunta militare venne in-sediata per esaminare la condotta di tutti i militari coinvolti. Il generale Guglielmo Pepe fu condannato a morte ma riuscì a fuggire, mentre furono fucilati immediata-mente tutti coloro che vennero trovati in possesso di armi, parecchi deputati dell’ex Parlamento furono arrestati. Il 10 maggio furono destituiti tutti gli im-

piegati nominati dal precedente Governo, vietate le società segrete. I libri e le pub-blicazioni che potessero “turbare” l’ordine pubblico furono bruciati in un pubblico rogo a Napoli qualche giorno dopo. Un Real Decreto stabilì che non potessero laurearsi gli studenti che non avessero frequentato le congregazioni religiose. Tra la fine di agosto ed il settembre 1821 numerose condanne a morte furono ese-guite nel Regno napoletano. La situazione in Sicilia divenne nuova-

mente critica agli inizi dell’anno nuovo, quando venne scoperta il 9 gen-naio 1822 una vasta co-spirazione: numerosi carbonari furono arresta-ti e sottoposti a processi sommari che si conclu-sero con 14 condanne a morte. Il 31 gennaio 9 carbonari vennero fuci-lati a Palermo: le loro teste poi appese in gab-bie di ferro alla Porta di San Giorgio. Ferdinando I mai pago, stabilì che la pena di morte fosse estesa anche a chi intratteneva corri-spondenza di natura politica con i fuoriusciti

napoletani. Il 10 settembre 1822 furono condannati a morte dal tribunale speciale di Napoli, Michele Morelli e Giuseppe Silvati ed altri 30 congiurati della rivoluzione del 1820: il sovrano ratificò le condanne dei due ufficiali commutando le restanti con-danne a trent’anni di carcere. Due giorni dopo Morelli e Silvati furono impiccati. Fu vietato ogni associazionismo religioso, letterario o politico. Qualunque riunione nei confini del Regno delle Due Sicilie doveva ottenere un preliminare e specifi-co permesso dalle autorità. Dal 9 al 14 ottobre a Verona, si riunì un nuovo congresso delle Potenze europee al quale parteciparono anche i sovrani della nostra Penisola. Venne deciso, tra l’altro, il graduale ritiro delle truppe austriache dal Regno delle Due Sicilie dal momento che l’ordine era stato ristabilito… Il 24 gennaio 1823 furono condannati a morte in contumacia a Napoli i generali Guglielmo Pepe e Michele Carrascosa, gli abati Luigi Minichini e Giuseppe Cappuc-cio ed altri 6 ufficiali con l’accusa di co-spirazione per i moti di Avellino che die-

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L’Abate Luigi Minichini

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dero vita alla stagione costituzionale. Il 24 marzo a Catanzaro per ricostituzione di società segrete e cospirazione furono emanate altre condanne a morte per Fran-cesco Monaco di Depignano, Giacinto de Jesse e Luigi de Pascale, tutti finiti sulla forca. Il 12 settembre altri 5 carbonari furono giustiziati a Salerno. Il 24 novembre furono condannati a morte a Capua, sempre mediante impiccagione, Antonio Ferraiolo, Benedetto Patamia e Raffaele Giovinazzo, promotori di una nuova setta segreta, la “Nuova riforma di Francia”, a matrice giacobina e democra-tica. Altri loro complici furono condannati al carcere. Il 5 dicembre a Napoli venne condannato a morte il sergente d’artiglieria Francesco Saverio Minichini, accusato di tentata costituzione di una setta repubblicana, la “Nuova riforma carbonara”, il complice Raffaele Esposito fu graziato per aver collaborato con la Polizia, gli altri aderen-ti alla setta ottennero 19 anni di carcere. E potrei continuare… Abbiamo visto come la repressione borbonica si scatenò con ferocia verso chi non poté o non volle rifugiarsi in altri Paesi più sicuri all’avvicinarsi delle trup-pe austriache. Questo clima di terrore con il seguente bagno di sangue, instaurato da re Ferdinando I di Borbone, suscitò le proteste dello stesso ambasciatore di Vienna a Napoli! Tutto questo non giovò al ritorno di una pace interna né ad eliminare la Carbone-ria. Il ritorno all’assolutismo regio borbo-nico, non costò al Mezzogiorno solo deci-ne di condanne a morte, centinaia di con-danne al carcere o ai lavori forzati, ma

anche palesi violazioni della legalità giu-ridica, con violenze e processi sommari che lasciarono una scia di odi e di diffi-denza verso le istituzioni, le quali verran-no alla luce sistematicamente dopo l’Uni-ficazione nazionale. Vi furono infatti vaste epurazioni nell’e-sercito e nell’amministrazione, con una censura, come abbiamo descritto, che coinvolse ogni tipo di associazionismo e di libertà privata. Questo stato di cose non riuscì tuttavia ad annientare né lo spirito ribelle delle orga-nizzazione segrete, né un brigantaggio in forte ripresa, né le fortissime tensioni in-dipendentistiche della Sicilia. La morte di Ferdinando I di Borbone il 4 gennaio 1825 non fermò il regime polizie-sco borbonico. Continuarono le persecu-

zioni contro gli ambienti moderati, rifor-misti e liberali e nuove società segrete riuscirono a ricostituirsi ovunque nel Rea-me. Ne fanno fede le successive rivolte del Cilento e di Salerno nel 1828, i moti di Palermo, Messina e Napoli nel 1848 e tante altre dimostrazioni della partecipa-zione non solo borghese ma anche popo-lare alle istanze di libertà e di indipenden-za che unirono tutta la nostra penisola, da Nord a Sud. Anche il Mezzogiorno partecipò attiva-mente alla costruzione della “casa comu-ne” con sacrificio e ardimento. Tutto il resto sono solo “ciacole”.

Giuseppe Polito (*) (*) Direttore della Biblioteca Storica Re-gina Margherita, Pietramelara (CE)

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I moti del 1848 a Palermo

FESTEGGIARE IL RISORGIMENTO A LUCCA Il 17 marzo è una data storica, da ricordare, per l'eroismo ed il sacrificio di tanti giovani anche toscani delle Università di Pisa e Firenze, dei garibaldini in camicia rossa, dell'esercito sabaudo, delle menti eccelse di Vittorio Emanuele II Re d'Italia, di Camillo Benso conte di Cavour, della preveggenze e arditezza di Giuseppe Mazzini e soprattutto dell'azione bellica di Giuseppe Garibaldi. Una storia purtroppo dimenticata, da studiare nei primi anni di scuola, ma da liquidare con sufficienza. Invece l'Unità d'Italia fu anelito di pochi intellettuali coraggiosi, delle cospirazioni di Mazzini, dei carbonari delle logge Massoni-che dell'Oriente d'Italia che avevano in Garibaldi uno dei suoi più ascoltati Maestri Venerabili, di una casa Savoia sensibile al grido di dolore degli Italiani oppressi in varie parti d'Italia. Ma l'unità d'Italia fu soprattutto guerra di popolo, del popolo Italiano tutto, dal Nord al Sud. Se Garibaldi, con un mille scalcinati volontari, riuscì a sconfiggere un agguerrito esercito del Regno delle due Sicilie, fu anche perché trovo le popolazioni locali unite a lui per battersi, spesso con roncole e badili, al suo fianco. Una guer-ra di un popolo per la sua indipendenza. Uno spirito che fu ritrovato nella prima Guerra Mondiale dopo Caporetto.... Festeggiamo l'Unità d'Italia illuminando le Mura di Lucca con le proiezioni dei quadri più belli che esistono sulle grandi battaglie del Risorgimento, da Curtatone e Montanara a Bezzecca a Calatafimi e con i grandi ritratti degli eroi dell'Indipendenza: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini, Pisacane, Bixio...... Un Museo multimediale, sui parati delle cortine e dei baluardi con immagini d'arte che illuminino le Mura di Lucca nel ricordo del Risorgimento ma anche della coraggiosa decisione del popolo lucchese di impedire la distruzione delle Mura e garantire ai posteri di tutto il mondo di poter usufruire di questo bellissimo monumento, luogo di guerra in tempo di pace.

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