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Psicologia della personalità aa 2010-2011

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Page 1: Psicologia della personalità aa 2010-2011. Contenuti del corso Inquadramento generale della disciplina La psicologia della personalità secondo l’approccio

Psicologia della personalità

aa 2010-2011

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Contenuti del corso

• Inquadramento generale della disciplina

• La psicologia della personalità secondo l’approccio psicoanalitico

• Analisi di singoli casi e valutazioni psicologico-educative

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• Obiettivi del corso: possedere competenze introduttive sulla psicologia della personalità e maturare una capacità di base che permetta di tener conto delle specificità individuali dei bambini, in particolare dell’organizzazione della loro affettività.

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1.  M. Waddell, Mondi interni. Psicoanalisi e sviluppo della personalità, Bruno Mondadori 2000

2.  D. Winnicott, Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina 1990, pp. 11-47

3.  C. Trevarthen, Empatia e biologia Raffaello cortina 1998, pp. 111-143

4.  E.S. Person, A.M. Cooper, G.O. Gabbard, Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca, Raffaello Cortina 2006, pp. 121-148

5.  L. Carli, C. Rodini (a cura di), Le forme di intersoggettività, Raffaello Cortina 2008, pp. XI-49

6.  A. Lis, S. Stella, G.C. Zavattini, Manuale di psicologia dinamica, Il Mulino 1999, R. Fairbairn (pp. 177-191); D. Winnicott (pp. 191-208)

Gli studenti non frequentanti sono tenuti a conoscere un testo introduttivo alla personalità, come L. Di Blas, Che cos’è la personalità, Carocci, Roma 2002 oppure J.B. Wagstaff (1998), La personalità, tr. it. Il Mulino 1999.

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Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa (giuramento di Ippocrate)

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Approcci allo studio della personalità

• Si possono individuare tre approcci allo studio della personalità (Cervone, Pervin, 2008, tr. it. 2009, pp. 52 ss)

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1. Lo studio dei casi e la ricerca clinica: molti psicologi ritengono che solo lo studio dei “casi” individuali possa assicurare una presa di contatto con la complessità della personalità umana. Si tratta di metodi implicitamente idiografici, miranti a ottenere un ritratto del singolo individuo (per il concetto di idiografico si vedano le slide successive). Quando si deve indagare tutta la complessità della personalità, la sua organizzazione interna, le relazioni fra individuo e ambiente, l’approccio clinico può essere l’unica strada percorribile. Gli svantaggi del metodo clinico sono una difficile generalizzabilità di quanto osservato nel singolo caso estendendola ad altri soggetti; la difficoltà a passare dalla descrizione dettagliata di una persona a una chiara spiegazione causale; il basarsi su impressioni soggettive, così che uno stesso caso potrebbe essere descritto in modo diverso da ricercatori differenti.

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2. Approccio basato sui questionari e la ricerca correlazionale. Questo approccio si basa sull’uso di questionari, che permettono di raccogliere una grande quantità di informazioni. L’obiettivo degli psicologi che utilizzano questo approccio è di stabilire innanzitutto le “differenze” fra le personalità degli individui (se uno è più o meno timido, socievole ecc.); inoltre, tentano di capire quali variabili (socievolezza, timidezza, ecc.) sono “correlate” fra di loro, ovvero “si muovo assieme” (ad esempio se la somministrazione di tanti questionari mostra che gli individui socievoli sono anche poco timidi allora fra le due variabili c’è correlazione). Lo scopo è di arrivare a descrivere alcune variabili fondamentali, non correlate reciprocamente, capaci di descrivere la personalità.

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I limiti di questo approccio è che fornisce indicazioni molto limitate sui singoli individui, limitandosi a fornire informazioni sui punteggi che il soggetto ottiene nei diversi test. Inoltre, al pari dell’approccio basato sui casi, è difficile giungere a conclusioni definitive sulla causalità: il fatto che due variabili siano correlate non significa necessariamente che una variabile sia causa dell’altra. Inoltre, il modo in cui le persone rispondono ai questionari potrebbe dipendere da ragioni non relative al reale contenuto delle domande (ad esempio le persone potrebbero avere difficoltà a rispondere positivamente alla domanda: “hai mai rubato in un supermercato?”). Inoltre, tramite un questionario può essere difficile capire se le persone rispondono utilizzando il loro autentico modo di essere o delle concettualizzazioni difensive (la persona si defisce “felice” perché lo è veramente o pensa solo di esserlo?) (Cervone, Pervin, tr. it. 2009, 56-69)

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3. Approccio sperimentale: utilizza l’esperimento di laboratorio, controllato, che permette di isolare le variabili che si vogliono esaminare. Questo è un grande vantaggio dell’esperimento di laboratorio. - Ad esempio, è stato visto che se si chiedeva ad un gruppo di studenti

di razza bianca e nera di indicare la loro appartenenza razziale prima di un test, gli studenti neri ottenevano performance meno positive che se questa indicazione demografica veniva omessa. Ciò indica che gli studenti neri sentivano “pesare” su di sé la “minaccia dello stereotipo”.

I limiti della ricerca di laboratorio è la sua “artificiosità”, il suo non considerare la reale complessità del comportamento umano in situazione reale. Inoltre, possono innescarsi altri meccanismi che influenzano il comportamento dei soggetti, come la tendenza del soggetto a comportarsi in modo da confermare le ipotesi dell’esperimento “nell’interesse della scienza” o la tendenza a soddisfare le aspettative dello sperimentatore. Inoltre molti esperimenti di laboratorio non tengono presente del dispiegarsi di alcuni comportamenti nel tempo (Cervone, Pervin, tr. it. 2009, pp. 63-71)

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• Tenuto conto della collocazione del corso di psicologia della personalità all’interno di un corso di laurea di Scienze dell’educazione e della formazione, verrà utilizzato un approccio clinico e per casi, in modo che possano essere offerti strumenti di lettura del contesto educativo che consentano un intervento educativo più accorto.

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• C’è una difficoltà di parlare di “personalità”, perché questo concetto allude a qualcosa di soggettivo che mal si presta ad essere descritto dalla scienza oggettivante…

• Questa difficoltà è stata spesso espressa parlando di approcci di tipo idiografico (in cui l'oggetto di studio è unico [idios = particolare], irripetibile, come nelle scienze umane) ed approcci di tipo nomotetico (in cui è possibile formulare leggi generalizzabili [nomos = legge], come nelle scienze naturali).

Un dilemma arduo con cui partire: “Scienza o unicità: questo è il problema”

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– Quelli idiografici – fra cui rientra storicamente il grande psicologo della personalità Gordon W. Allport – possono essere spregiativamente definiti dei “romantici” che si oppongono alla metodologia positiva tipica delle scienze naturali e puntano la loro attenzione alla soggettività e alle ragioni del cuore che la ragione non può comprendere;

– gli altri, i nomotetici, hanno sviluppato le loro teorie soprattutto nell’ambito della “psicologia differenziale”, ovvero quella psicologia della personalità che si è occupata innanzitutto di classificare e spiegare scientificamente perché fra le persone sussistano delle differenze, ad esempio nel percepire, nel reagire a stimoli ecc. Ma lo specifico individuale che fine fa?

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Psicologia differenziale

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Negli ultimi anni un consenso crescente è stato accordato ai cosiddetti “Big Five”, cinque grandi fattori

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• Per Eysenck: “per lo scienziato, l’individuo singolo e unico è soltanto il punto di intersezione di un certo numero di variabili quantitative” (Eysenck 1953).

per Allport tale approccio non considera la “struttura” interna della personalità, la sua organizzazione “L’individualità”, per Allport, è la caratteristica principale dell’uomo”.

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• La difficoltà nel definire in “positivo”, e non “per differenza” rispetto alle altre persone, cosa sia la personalità di un individuo si evince da una classica definizione di personalità, quella che G. Allport ha proposto nel suo libro del 1961. A suo parere…

…la personalità è l’organizzazione dinamica, interna alla persona, di quei sistemi psicofisici o modi caratteristici di comportarsi, pensare e sentire (Allport 1961)

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Per G.W. Allport comprendere il “giusto equilibrio” fra questi due approcci è un “problema di base” nell’ambito della psicologia della personalità (Allport, Psicologia della personalità, 1961). Egli spiega:

Più noi ricerchiamo e scopriamo ciò che è uniforme nella natura umana, più è urgente e necessario che ci rendiamo conto della unicità nella forma e nella struttura del complesso della persona. […] Quello che voglio sottolineare è l’organizzazione interna dei motivi, dei tratti e dello stile personale, […] Tale convinzione mi induce ad oppormi alla riduzione della personalità a fattori comuni rilevabili in tutti gli uomini e inoltre a una questione di ruoli, a relazioni interpersonali, ad avvenimenti in seno al sistema socio-culturale. […] Naturalmente la personalità si forma in un determinato ambiente sociale e in esso si esprime, ma nello stesso tempo è un sistema autonomo e indipendente, e come tale merita di essere studiato per se stesso. […] Sono pienamente convinto che il settore più debole della odierna ricerca empirica è proprio […] lo studio della struttura concreta, dell’ordine interno di una singola personalità (Allport 1961).

Egli sintetizza il problema affermando: “scienza e unicità: ecco il problema”.

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C. Trevarthen (neuroscienziato e studioso di psicologia dello sviluppo)

è convinto che una visione più chiara di come il cervello umano si sviluppa possa fornire un contributo alle teorie dello sviluppo e ai connessi metodi educativi (1980, tr. it 1998, pp. 1-2).

Ma…

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…egli sottolinea che man mano che le nostre conoscenze sul cervello aumentano, non diminuisce la distanza fra la logica materialistica della biologia e la consapevolezza che abbiamo come esseri umani di essere dotati di sentimenti complessi e una vita consapevole.

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Tutto ciò appare alquanto frustrante per lo scienziato moderno, che probabilmente si risolverà ad accogliere una prospettiva di tipo dualistico e a cercare spiegazioni diverse per gli eventi fisiologici da una parte e per quelli mentali o spirituali dall’altra. A chi non è un biologo, o non è impegnato a semplificare il comportamento umano, la natura biologica ereditata dall’uomo appare irrilevante, uno strumento subordinato alla mente, o una fonte di impulsi fastidiosi per la vita personale del “Sé”. Io penso invece che, se vogliamo comprendere il neonato in quanto essere umano, sia necessario affrontare il paradosso che sorge fra mente e materia biologica, da che un bambino piccolo è una giovane mente immersa in materia biologica. Ma ammetto che è facile cadere in una spiegazione molto rozza della mente in termini di pezzettini di strutture cerebrali. Condivido le preoccupazioni di chi si chiede se sarà mai possibile conoscere abbastanza sui pallidi labirinti del cervello da poter indicare il loro esatto contributo alla vita mentale e al comportamento. In particolare, mi sembra lecito domandare che cosa abbiano a che fare i discorsi che facciamo sul cervello con lo sviluppo della coscienza, delle intenzioni e delle relazioni personali nel bambino (Ibidem).

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• Per il neuroscienziato W. Freeman l’intenzionalità, il produrre azioni dirette verso uno scopo, è una caratteristica di base del nostro cervello.

…la diade deterministica natura-cultura… non riesce a tenere conto della capacità degli esseri intenzionali di costruire e perseguire i propri obiettivi personali nell’ambito del contesto sociale (Freeman, 1999, Come pensa il cervello, tr. it. 2000).

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ripensare il rapporto natura-cultura• Il rapporto mente-cervello non è una questione

di aut-aut, ma di et-et.

• Gabbard (2000, tr. it 2002) parla di una “deplorevole tendenza verso la dicotomizzazione” in cui da un lato si mettono i disturbi di stampo psicologico e dall’altro quelli di origine biologica (da curare farmacologicamente).

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Questa suddivisione in un approccio biologico e uno psicologico non risponde più alle conoscenze che si stanno acquisendo nell’ambito delle neuroscienze, alla plasticità del cervello, al fatto che i modelli mendeliani dell’ereditarietà non si applicano alle malattie mentali. Pur dovendo preesistere un sostrato genetico che predispone all’insorgenza di una certa malattia mentale, gli studi sulla plasticità cerebrale mostrano che le modalità di sviluppo cellulare non sia regolato solo dai geni, ma ci sia una forte dipendenza da segnali ambientali (Hyman 1999).

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• Gli psicologi sembrano spesso credere che le caratteristiche umane sia determinate alla nascita geneticamente e che in seguito vengano modificate dalle influenze ambientali. Ma è davvero così? (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 3)

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Se osserviamo lo sviluppo di un essere umano, notiamo che esso inizia sotto la forma di una cellula entro la quale sono combinati i cromosomi di un uomo e quelli di uno spermatozoo. Attraverso migliaia di cicli di divisione cellulare, le molecole dei geni costruiscono immagini di se stesse e le distribuiscono in maniera uguale a ciascuna cellula. Questa chimica eccezionale spiega come i cromosomi riescano a trasmettere informazioni in maniera indistruttibile per formare sempre la stessa specie di organismo (Crick 1962). Alcuni prodotti delle molecole dei geni agiscono “all’indietro”, in modo da esercitare un controllo sul destino dei geni stessi cosicché, poco tempo dopo l’inizio della trascrizione del codice genetico, i processi significativi dello sviluppo non interessano più solamente il livello molecolare, ma quello sovraordinato in cui avviene un’interazione fra membrane e fibre cellulari ripiegate o fra raggruppamenti e strati di cellule, che agiscono come complemento dei geni.

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Non vi è dubbio, cioè, che il codice genetico agisca come la matrice che può generare infinite copie identiche di giornali, cosicché la trasmissione delle funzioni viventi viene assicurata in maniera assai affidabile attraverso le molteplici replicazioni cellulari.

Tuttavia questo non spiega interamente la formazione dei complessi organismi pluricellulari.

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Il fatto è che i geni, seppure essenziali, non possiedono, in se stessi, alcuna funzione vivente; il loro “codice” deve essere interpretato all’interno della chimica cellulare, della fisiologia e delle abitudini di vita all’interno dell’intero organismo (Srb, Owen, Edgar 1965; Waddington 1966). I geni possiedono significati diversi in diverse forme di vita. Sono come animali domestici in una fattoria di strutture cellulari e, man mano che l’evoluzione procede, essi certamente mutano, adattandoli alle modalità di “allevamento” intracellulare (Grant 1977). Si è ipotizzato che l’evoluzione degli animali sociali operi attraverso geni per l’ “egoismo” o per l’ “altruismo” (Dawkins 1976); ma questi sono concetti che si applicano alla personalità umana, e qualsivoglia egoismo o altruismo il gene possa avere gli viene attributo dalla persona nella quale si trova. Da questo punto di vista è la persona a causare il tratto ereditario o genetico (Trevarthen, 1997, tr. it. 1998, p. 4).

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• Anche Gabbard evidenzia “che vi sono nella vita periodi definiti durante i quali l’espressione di un gene è dipendente da un certo tipo di influenza ambientale”. – L’impatto dei fattori ambientali spiega le differenze

fenotipiche e la discordanza di molte malattie tra gemelli monozigoti.

• Egli cita alcuni esprimenti:

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– È stato osservato che in una colonia di scimmie il 20% che manifestava una vulnerabilità genetica alla separazione dalla madre (rilevata in base alle reazioni depressive sviluppate in seguito a brevi separazione e al conseguente aumento del cortisolo e di ACTH). Se queste scimmie venivano affidate a madri particolarmente accuditive riuscivano a integrarsi perfettamente nel gruppo tanto da raggiungere i vertici della gerarchia sociale.

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– Rosenblum e Andrews (1994) assegnarono piccoli di scimmia casualmente a madri normali e madri rese ansiose da un programma di alimentazione imprevedibile. Le scimmie che erano state accudite da madri ansiose mostravano una diminuita capacità di interazione gruppale ed erano socialmente subordinati, che tuttavia si manifestava quando stavano diventando adulte, confermando l’ipotesi psicoanalitica che disturbi della prima fase dello sviluppo si manifestano in periodi evolutivi successivi.

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– In Finlandia alcuni ricercatori hanno dimostrato che la terapia psicoanalitica può avere un impatto significativo sul metabolismo della serotonina. Un paziente di 25 depresso e affetto da un disturbo borderline di personalità dopo un anno di psicoterapia presentava, pur senza aver assunto farmaci, una captazione della serotonina normale.

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Quindi, l’esperienza mentale può influenzare la biologica e viceversa.

Se ne deduce che ogni tipo di intervento (educativo, psicologico, psichiatrico, medico) va considerato come “biopsicosociale”. - Ad esempio, i farmaci usati nella psichiatria

hanno anche un effetto “psicologico” e gli interventi “psicoterapeutici” influenzano il cervello al di là del loro impatto psicologico.

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- Così, nell’ambito della medicina si assiste a una grande rivalutazione degli aspetti educativo-sociali (arte-terapia, sorriso-terapia, pet-terapia, musico-terapia ecc.), perché si è visto che sono in grado di migliorare assai il benessere del paziente, non solo sul versante “psicologico”, ma anche nella sua capacità di reagire “fisicamente” alla malattia.

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Per tornare al problema dell’individualità, la concezione del neonato come groviglio di impulsi e bisogni meramente fisici, come tabula rasa governata solo da impulsi fisiologici, non dotata di intenzionalità non tiene presente che…

…la caratteristica più notevole dei bambini di ogni età è tuttavia la loro capacità di generare intenzioni o stati motivazionali coerenti: non sono in balia degli stimoli, né in costante conflitto di impulsi. (Trevarthen 1980, tr. it 1998, p. 34)

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Un bimbo di due mesi è una personalità complessa, capace di distinguere le persone da

altri oggetti “fisici”, trattandole come una categoria di importanza primaria per il proprio sviluppo (Trevarthen 1974, tr. it. 1998, p. 43)

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Assumiamo questa prospettiva: sin dall’origine, l’essere umano può essere immaginato come un centro attivo dotato di intenzionalità, con caratteristiche proprie (anche se solo potenziali), impegnato a evolvere e a conoscere se stesso e il mondo che lo circonda.

Winnicott ha utilizzato il termine di “vero Sé” per alludere alla spontaneità originaria del soggetto.

Per la Scuola della Melanie Klein un “Io” esiste già al momento della nascita. In particolare, Ronald Fairbairn pensava che il bambino avesse un Io unitario e in interazione col mondo già alla nascita.

Per Trevarthen (1997) è possibile parlare in modo sensato di “intenzionalità” nei neonati. A suo parere i neonati hanno un’innata capacità di autoriferimento.

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I ricercatori dell’Infant Research parlano di dello sviluppo del Sé non solo quale esito di regolazioni intersoggettive ma anche di “autoregolazioni”.

Kohut parla di un Sé nucleare, che è una struttura che sta……

…alla base del nostro senso di essere un centro indipendente di iniziativa e di percezione, integrato, con le nostre ambizioni e i nostri ideali più centrali, con la nostra esperienza che la mente e il corpo formano un’unità nello spazio e un continuo nel tempo. Questa configurazione psichica coesiva e permanente forma il settore centrale della personalità (1977).

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Una delle difficoltà del lavorare con i neonati è che possiedono menti proprie. Talvolta, quando non fanno determinate cose, è perché non vogliono farle, mentre quando vogliono fare qualcosa, che la mettono davvero tutta (Trevarthen 1997, p. 149).

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• Il neonato viene alla luce con un sé giocoso, espressivo e portato alla sperimentazione, pronto ad esplorare ed ad usare oggetti e a comunicare con le altre persone su come usarli;

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• Un bambino ha una sua “voce” che non ha niente a che vedere con l’esigenza di essere nutrito, rimanere al sicuro e protetto: le protoconversazioni hanno inizio quando il bambino non si accontenta di rimanere al sicuro e si cimenta in “conversazioni” con i fratelli, i genitori, altri bambini della sua età. Questo comportamento rappresenta uno scambio reciproco. (Trevarthen 1997, p. 147)

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ne segue che gli individui vanno trattati da persone umane dotate di intenzionalità e caratteristiche proprie sin dalla nascita

assumeremo come centrale la capacità di instaurare un rapporto su base personale

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• Il bisogno dei bambini di essere amati in quanto persone (Fairbairn, 1940, Greenspan-Brazelton, 2000)

• In assenza di un tale amore personalizzante si assiste a una depersonalizzazione e a una tendenza a rapportarsi agli altri e a se stessi in termini di cose