prudentia iuris 1 esonero

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  • 8/18/2019 Prudentia Iuris 1 Esonero

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     ANTONIO PUNZI

    G. GIAPPICHELLI EDITORE – TORINO

    Materiali per una filosofia della giurisprudenza

    PRUDENTIA IURIS 

    Seconda edizione 

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    VVERTENZ

    Il presente volume è in corso di completamento da parte dell’Autore.I successivi aggiornamenti Le verranno inviati, tramite mail, senzaulteriori addebiti non appena disponibili.

    La ringraziamo per l’acquisto.

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    G. GIAPPICHELLI EDITORE – TORINO

     PRUDENTIA IURIS 

    Materiali per una filosofia della giurisprudenza

    Seconda edizione 

    ANTONIO PUNZI

  • 8/18/2019 Prudentia Iuris 1 Esonero

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    © Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINOVIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

    http://www.giappichelli.it

    ISBN/EAN 978-88-921-5784-2

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     Indice 1

    INDICE

     pag.

    I

    LA VIRTÙ DEL GIURISTA

    1. Il giurista e la regola 3

    2. Metodo e responsabilità del giurista 6

    II

    IL DIRITTO TRA OBBEDIENZA E COSCIENZA

    1. La coscienza e la legge 8

    2. La separazione tra foro interno e foro esterno 103. Il positivismo giuridico e le ragioni della coscienza 16

    4. Forme di obbedienza alla legge 21

    5. Il diritto e la resistenza all’ingiustizia 25

    6. Il dovere di disobbedire al (non)diritto 29

    7. L’irriducibile diritto naturale, l’inevitabile interpretazione 31

    III

    LA LEGGE E LA SUA INTERPRETAZIONE

    1.  Ius dicere, iustitiam facere 34

    2. Valore (e limiti) della certezza del diritto 37

    3. La codificazione e le ragioni del garantismo 41

    4. Vera giustizia? 44

    5. Le motivazioni della giurisprudenza creativa 47

    6. Formalismo e antiformalismo. Una disputa dai molti equivoci 50

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     La virtù del giurista 3

    ILA VIRTÙ DEL GIURISTA

    1. Il giurista e la regola

     Negli ordinamenti giuridici occidentali la figura del giurista, soprat-tutto nelle ultime tre decadi, ha vissuto un significativo processo di tra-sformazione. Tale trasformazione ha riguardato l’oggetto delle sue spe-cifiche competenze, il contributo che è chiamato a fornire nel processo di

     produzione e applicazione delle regole, il ruolo sociale e culturale che

    occupa nelle rispettive comunità.

    Una simile trasformazione non può sorprendere. Essa costituisce la

    logica conseguenza dei celeri cambiamenti che hanno segnato la storia

     più recente della civiltà occidentale: dagli equilibri tra le potenze mon-

    diali – ridisegnati a seguito della caduta dei regimi comunisti – alla geo-

     politica dell’Europa, protagonista di un inarrestabile processo di allarga-

    mento, ma tutt’ora priva di una precisa identità politica; dal ruolo deiParlamenti – nelle democrazie avanzate sempre meno centrali nel proces-

    so di produzione del diritto – alle crescenti competenze attribuite al pote-

    re giudiziario, agli organi dell’amministrazione e alle autorità indipen-

    denti; dagli strumenti di circolazione delle informazioni – segnati in mo-

    do irreversibile dalla rivoluzione telematica – alle tecniche di formazione

    del consenso in società sempre più pluralistiche.

    Sotto quali profili la congiuntura storico-istituzionale a cavallo del

    millennio ha inciso sulla figura, sui compiti e sul ruolo sociale del giuri-

    sta? La più significativa discontinuità si può cogliere nel diverso rapporto

    che il giurista contemporaneo intrattiene con quello che un tempo veniva

    considerato l’oggetto principale del proprio sapere e, dunque, il basamen-

    to della propria competenza professionale: la legge [GROSSI,  Ritorno al

    diritto, 2015].

    Il sapere del giurista, oggi, non può essere più identificato con la co-noscenza delle leggi vigenti in vista dell’applicazione di queste al casoconcreto. E ciò non solo perché la sconfinata e talora incoerente pro-

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    duzione normativa – a livello non solo nazionale, ma anche regionale,comunitario, internazionale – rende del tutto illusoria, anche nei singoli

    settore dell’ordinamento, la pretesa di completezza della conoscenza del-

    le regole vigenti.

    A ben vedere il convincimento, fino a qualche decennio fa dominante ed

    oggi da molti messo in discussione, secondo cui la legge vigente costituireb-

     be l’oggetto quasi esclusivo della scienza del giurista traduce, non solo in ri-

    ferimento agli ordinamenti contemporanei, una visione parziale se non addi-

    rittura fallace della complessità e ricchezza dell’esperienza giuridica. Invero,

    come si avrà modo di precisare nel corso del presente lavoro, anche in rela-zione alle fasi storiche e agli ordinamenti in cui la legge costituiva il vertice

    della gerarchia delle fonti del diritto, non può davvero affermarsi che il com-

     pito del giurista (giudice, avvocato, notaio, consulente, ecc.) sia mai stato

    quello di conoscere la legge vigente, assunta come coerente e completa, ed

    applicarla al caso concreto. L’immagine di un giurista che, in nome della de-

    ferenza nei confronti del legislatore (comunque questi venga connotato sul

     piano politico), lascia parlare la legge da sé, senza fornire alcun contributo al

     processo di produzione del diritto, ha costituito più un modello teorico – in-

    dicato come l’unico davvero rigoroso o comunque auspicato come l’unico

    coerente con l’affermata primazia della legge tra le fonti del diritto – che non

    la realistica rappresentazione dell’ufficio quotidianamente esercitato dall’o- peratore del diritto. Tale immagine, a ben vedere, si è sempre scontrata con

    la struttura stessa dell’esperienza giuridica, in cui le regole di condotta pos-

    sono transitare dal piano dell’enunciato linguistico, emanazione della volon-

    tà autoritativa, all’applicazione al caso concreto solo attraverso la mediazio-

    ne di un’attività interpretativa che ogni volta faccia ri-vivere quelle regole,

    calandole nel vivo della storia umana. E tale interpretazione, ripetendosi e

    chiarendosi nel tempo, finisce per incidere sul significato stesso della regola.

    Scriveva a tal proposito il grande civilista messinese Salvatore Pugliatti: “ Il

    ciclo che va dalla scienza all’attività del legislatore e, viceversa, e si ferma

    alle formulazioni astratte, alle quali si rifà il giudice per le applicazioni

    concrete, segue anche un cammino diverso. L’applicazione infatti, rivela

     spesso il carattere di tipicità e si fissa in formulazioni astratte: dalla deci-

     sione del caso singolo nasce la formulazione giurisprudenziale che entra a

     far parte di un determinato ambiente culturale. Anch’essa riveste la natura

    dell’attività del legislatore e del giurista” [PUGLIATTI,  La giurisprudenza

    come scienza pratica, 1950, pp. 36-37]. 

    Se il giurista negli ultimi anni ha preso atto dell’irriducibilità del dirit-

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     La virtù del giurista 5

    to alla legge è anche per due altri ordini di ragioni: in primo luogo perchéha assunto piena consapevolezza del ruolo essenziale che ogni interpre-te (il giudice anzitutto, ma anche l’amministratore, il componente di unaauthority, l’avvocato, il consulente, lo studioso, persino il privato cittadi-

    no nel perseguimento dei suoi interessi) è chiamato a svolgere nel pro-cesso di produzione del diritto. Anche nelle controversie che, in astrat-to, potrebbero sembrare suscettibili di soluzione sulla base di una dispo-

    sizione di legge chiaramente individuabile, infatti, questa disposizione,

    una volta approvata dal Parlamento, pubblicata in Gazzetta ufficiale ed

    entrata in vigore, non ha certo esaurito il suo processo di produzione di

    senso. L’applicazione della legge nella prassi presuppone piuttosto unacomplessa attività di interpretazione, intesa come attribuzione di signi-ficato all’enunciato e come anticipazione degli effetti che quella regola

     può determinare nella soluzione del caso di specie [BETTI, Teoria gene-rale dell’interpretazione, 1955].

    Un altro motivo per il quale non può più darsi per scontata

    l’identificazione tra diritto e legge è che il diritto contemporaneo vieneoggi in parte prodotto al di fuori dalle aule dei parlamenti .

    Accanto alla hard law, dotata di autorità perché proveniente da un le-

    gislatore che parla in nome del popolo sovrano, importanza vieppiù cre-

    scente ha acquisito negli ultimi anni la soft law, spesso dotata di forza persuasiva più che autoritativa: si pensi a convenzioni e carte dei diritti

    emanate da organismi sovranazionali, alla lex mercatoria nella prassi de-

    gli scambi commerciali, alle pronunce delle Autorità amministrative in-

    dipendenti, ai codici deontologici adottati da ordini professionali e/o im-

     prese, alle decisioni di collegi arbitrali che si consolidano nel tempo as-

    sumendo di fatto il valore di precedente giurisprudenziale, all’adozione

    di schemi negoziali prodotti non da un legislatore bensì dagli operatori

    del diritto e poi ripresi in modo spontaneo e diffusi al punto da assurgere

    a rango di regole nascenti dalla prassi.

    Si assiste, in tal modo, ad una crescente diversificazione delle fonti del

    diritto che, pur vedendo ancora la legge (non più solo quella nazionale)

    in posizione di primato, rende, rispetto al passato, molto più complessoil lavoro di ricerca, proprio del giurista, della regola idonea alla solu-zione del caso concreto.

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    2. Metodo e responsabilità del giurista 

    Il cambiamento dello scenario storico-istituzionale nel quale si trova

    ad operare il giurista ed il nuovo assetto delle fonti del diritto ripropon-

    gono la questione del metodo della giurisprudenza.Un metodo, in generale, costituisce un insieme di procedure e tecni-

    che dispiegate al fine di raggiungere un determinato scopo. Non puòindividuarsi un metodo se non si sia prima individuato lo scopo da perse-

    guire.

     Nel caso della giurisprudenza l’individuazione dello scopo risulta me-

    no semplice di quanto possa sembrare. La giurisprudenza  costituisce,anzitutto, una scienza pratica, nel senso che l’attività di comprensione einterpretazione (di una legge, di un provvedimento, di un contratto) deve

    mostrarsi capace di prevedere le conseguenze pratiche che le soluzioni

     prospettate possono produrre sul piano degli interessi in gioco e delle re-

    lative tutele. Tale definizione della giurisprudenza come scienza pratica,

     peraltro, costituisce la premessa, non la soluzione del problema del me-

    todo giuridico.

    Un passo avanti in tale direzione può compiersi rivolgendo l’atten-

    zione alla tipologia di problemi pratici che la giurisprudenza è chiamata a

    risolvere: dalla composizione di interessi in conflitto alla tutela e al bi-

    lanciamento di aspettativa di giustizia.

     Nello svolgimento di tale compito è illusorio pensare, a fronte delle

    molteplici attese da parte della comunità, che il giurista possa limitarsi ad

    estrarre da un qualche codice o testo di legge una regola già predispostadal legislatore per la soluzione del caso e pronta per essere applicata in

    giudizio, appunto, in nome della legge. Anche nelle ipotesi in cui una tale

    regola vi sia, infatti, essa, dovrà essere interpretata a partire dalla culturadi sfondo dell’interprete, con l’orecchio teso alle opinioni della dottri-na e ai precedenti giurisprudenziali e soprattutto nel rispetto dei prin-cipi generali della materia e dell’ordinamento [CARCATERRA, L’argo-mentazione nell’interpretazione giuridica, 1996, p. 130]. Nel far ciò il

    giurista trasforma la regola astratta in una criterio di qualificazione del

    caso concreto, grazie ad un’operazione talora di adeguamento o inte-grazione della previsione legislativa ed in ogni caso finalizzata a rende-re la soluzione del caso pertinente e razionalmente motivabile [COTTA,

    Giustificazione e obbligatorietà delle norme, 1981].

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     La virtù del giurista 7

    Il vero è che, come già insegnava il padre del codice civile italiano,Filippo Vassalli, il diritto positivo è il punto non di arrivo, ma di par-tenza nella genesi dell’esperienza giuridica. Una volta emanato in mo-do formalmente valido ed entrato in vigore, il diritto positivo continua a

    vivere e ad evolversi attraverso un processo di positivizzazione del qua-le, oltre al legislatore, sono coautori giudici, amministratori, operatori del

    diritto, cittadini, i quali, ciascuno in ossequio al proprio ruolo, contribui-

    scono ad interpretare, applicare, far vivere il diritto nell’esperienza prati-

    ca. Di qui l’indimenticata lezione del Maestro: “ Il compito del giurecon-

     sulto si adempie col portare la formula astratta della legge a contatto

    con la realtà dei fatti: realizzando quella adesione ai fatti che dà, nel da-to caso, la giustizia” [VASSALLI, P.E. Bensa, 1929, p. 380].

    Ecco che il giurista, se non si illude di poter incasellare, in modo aset-

    tico, casi pratici in schemi normativi già pronti (e dogmaticamente assun-

    ti come completi ed esaustivi), ma fa aderire il suo metodo ai fatti e,

    dunque, si mostra disposto ad aprire gli occhi sulla pulsante realtà del ca-

    so che si presenta al suo cospetto e a ponderare le ragioni ed aspettative

    rappresentate dagli attori della controversia di ciascun caso, può davvero,

    sempre nel rispetto del suo specifico ufficio – dunque senza rubare il me-

    stiere al legislatore – fornire un quotidiano contributo al cammino degli

    ordinamenti verso la realizzazione della giustizia nel caso concreto.E non è forse un caso che la teologia medievale considerasse la pru-

    denza come quella virtù consistente nella capacità di dirigere l’intelletto

    nell’esercizio delle proprie attività in modo da poter discernere ciò che è

    giusto. Si direbbe proprio questa, dunque, la virtù che il giurista deve

     perseguire per operare all’altezza del fine cui è chiamato.

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    II

    IL DIRITTO

    TRA OBBEDIENZA E COSCIENZA

    1. La coscienza e la legge 

    In che modo ed entro quali limiti il giurista abbia titolo per partecipareal processo di positivizzazione del diritto può cominciare a comprendersi – in ossequio al metodo di una filosofia della giurisprudenza  – pren-dendo le mosse da alcuni casi pratici.

    Una filosofia della giurisprudenza trova proprio in ciò la sua specificità.Essa non prende le mosse dalle grandi domande di tipo ontologico (‘cos’è ildiritto?’), assiologico (‘cos’è la giustizia?’), fenomenologico-esistenziale(‘qual è la specificità del diritto e la sua collocazione nell’esserci dell’uo-mo?’) o ermeneutico (‘cos’è l’interpretazione?’). Essa non ripiega neanchesulle domande caratteristiche di una teoria generale del diritto: ‘cos’è una

    norma?’, ‘cos’è un ordinamento giuridico?’, ‘cosa sono lacune e antino-mie?’, ecc.Alla prima come alla seconda tipologia di domande, la filosofia della giu-

    risprudenza vuole certamente rispondere, ma prendendo le mosse dalla con-creta esperienza giuridica, se possibile da casi di giurisprudenza che faccianovenire in luce l’essere del diritto, della giustizia, dell’interpretazione, non sul

     piano astrattamente definitorio, ma per come innanzitutto e per lo più si ma-nifestano nella modesta, quotidiana esperienza giuridica (per usare l’espres-sione cara a Giuseppe CAPOGRASSI, che della filosofia della giurisprudenzaè stato maestro, come evidenziato, tra i tanti, dallo studio pertinente all’og-getto del presente capitolo, in tema di Obbedienza e coscienza, 1950).

    Un caso di giurisprudenza di sicuro rilievo nel quadro della presenteriflessione ha visto coinvolto Vahan Bayatyan, un cittadino armeno chenel luglio del 2011 è uscito vincitore da una lunga battaglia legale com-

     battuta, a livello nazionale e sovranazionale, in difesa dei propri diritti.Vahan è riuscito a veder riconosciuto il proprio diritto ad astenersi dacondotte, pur qualificate come obbligatorie da leggi valide, che contrad-dicevano i dettami della propria coscienza.

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     Il diritto tra obbedienza e coscienza 9

     Nel 2001, al compimento del diciottesimo anno di età, infatti, Vahan Ba-yatyan veniva chiamato a svolgere il servizio militare previsto come obbliga-torio dalla legge armena. A tale chiamata alla leva, però, Vahan riteneva dinon poter rispondere in virtù delle sue convinzioni religiose. Battezzato al-l’età di sedici anni, infatti, egli era entrato a far parte della comunità dei Te-stimoni di Geova. L’interpretazione della Bibbia fornita da tale comunitàrendeva inevitabile la disobbedienza ad una legge che imponeva lo svolgimen-to di azioni o comunque di un addestramento di tipo militare durante la leva.

    Tale impedimento di coscienza veniva rappresentato dall’interessato condiverse comunicazioni, inviate alle autorità competenti in data 1 aprile 2001,nelle quali egli si dichiarava disponibile a svolgere un servizio civile alterna-

    tivo al servizio militare: “ I, Vahan Bayatyan, born in 1983, inform you that Ihave studied the Bible since 1996 and have trained my conscience by the Bi-ble in harmony with the words of Isaiah 2:4, and I consciously refuse to per-

     form military service. At the same time I inform you that I am ready to per- form alternative civilian service in place of military service”.

    La Commissione affari legali dell’Assemblea nazionale armena rispon-deva che, non essendo previsto dalla normativa vigente alcun servizio civilealternativo, egli era inderogabilmente tenuto a svolgere il servizio militare:“ In connection with your declaration, ... we inform you that in accordancewith the legislation of the Republic of Armenia every citizen ... is obliged to

     serve in the Armenian army. Since no law has yet been adopted in Armenia

    on alternative service, you must submit to the current law and serve in the Armenian army”.

    Della vicenda giudiziaria dell’obiettore armeno va anzitutto sottoli-neato un profilo. Arrestato, nel settembre del 2002, con l’accusa di reni-tenza alla leva, Vahan fu processato e condannato a 18 mesi di reclusio-ne. Tale sentenza, non a caso, fu impugnata anzitutto dal pubblico mini-stero, il quale chiese alla Corte d’appello una punizione più severa inconsiderazione del fatto che il rifiuto di obbedire alla legge dettato damotivi religiosi si presentava non solo infondato, ma socialmente pe-

    ricoloso.

    “The [applicant] did not accept his guilt, explaining that he refused  [mili-tary] service having studied the Bible, and as a Jehovah’s Witness his faithdid not permit him to serve in the armed forces of Armenia. (…) I believethat the court imposed an obviously lenient punishment and did not take intoconsideration the degree of social danger of the crime, the personality of

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     Prudentia iuris  10

    [the applicant], and the clearly unfounded and dangerous reasons for [theapplicant’s] refusal of [military] service”.

     Nel giudizio di appello l’imputato si era richiamato invano all’art. 23della Costituzione armena che riconosceva il diritto di ognuno alla libertàdi pensiero, di coscienza e di religione. La Corte, per converso, tenuto al-tresì conto del fatto che l’imputato non riconosceva la propria colpevo-lezza e non mostrava segni di pentimento, accolse la richiesta della pub-

     blica accusa ed aumentò la pena a 30 mesi di reclusione.Tale sentenza fu poi confermata dalla Corte di Cassazione, che signi-

    ficativamente affermò il principio per cui il diritto alla libertà di coscien-za e di religione deve ritenersi in ogni caso soggetto a limitazioni in no-me della sicurezza dello Stato e della protezione dell’ordine pubblico.

    L’obiettore armeno fu rinchiuso in carcere il 22 luglio del 2003.

    2. La separazione tra foro interno e foro esterno

    I profili del caso Vahan rilevanti per una filosofia della giurisprudenza possono essere così rappresentati: la sua disobbedienza desta inquietu-

    dine nello Stato e nelle Corti di giustizia che devono qualificare la suacondotta. Non si tratta di un delinquente abituale o di un cittadino co-munque disposto a violare la legge pur di massimizzare il proprio profit-to. Vahan è un cittadino propenso a rispettare le leggi del suo paese, manel caso di specie impossibilitato a farlo per motivi di coscienza. Eglichiede allo Stato di apprezzare le ragioni della sua coscienza e di metter-lo in condizione di rispettare la legge (ad esempio svolgendo un serviziocivile alternativo) senza venir meno ai propri dettami interiori.

    Bisognerebbe anzitutto chiedersi cosa c’è nella coscienza che chieda di

    essere preso in considerazione come valore e come ragione giustificatrice diuna violazione di legge. Prescindendo dalla nozione di coscienza come sino-nimo di consapevolezza (dell’oggetto e di sé), nell’ambito della riflessionemorale la coscienza può anzitutto definirsi come il senso del bene e del ma-le. Ma il punto è: questa coscienza chiede rispetto perché avverte ciò che insé ha valore (e dunque in ragione di ciò l’agente ha il diritto di conformare lacondotta a tale avvertenza) o per il solo fatto che essa esprime un personale einsindacabile modo di percepire il valore? Altro è, infatti, la coscienza intesa

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     Il diritto tra obbedienza e coscienza 11

    come naturale attitudine a cogliere i princìpi primi delle azioni umane, altrola coscienza come atto della persona in cui la ragione giudica le condotte in

     base alla propria scienza morale. Non a caso il pensiero medievale distin-gueva la sinderesi , come senso del bene universalmente caratteristico dellanatura umana (dunque presente anche nell’uomo malvagio), dalla coscientia come fonte dei giudizi morali personali e dunque fallibili.

    La distinzione ora richiamata spiega, evidentemente, i suoi effetti anchein ordine al tema dell’obiezione di coscienza. Altro, infatti, è rivendicare ildiritto a disobbedire alla legge positiva in nome di un valore che si assumegiusto ed inviolabile, altro è chiedere che venga tutelata la coscienza inquanto sede dei propri personali e insindacabili giudizi di valore.

    Perché, dunque, dovrebbe ammettersi una disobbedienza alla legge per motivi di coscienza? Così facendo non si rischia di conferire ai valoridel cittadino un primato assiologico rispetto al comando dello Stato? Ecome può reggersi uno Stato le cui leggi siano ora obbedite ora disobbe-dite, a seconda dei personalissimi convincimenti di questo o quel suddito?

    È proprio questa la preoccupazione manifestata da Thomas Hobbes,filosofo e scienziato politico del XVII secolo e padre del positivismo giu-ridico moderno.

    Il positivismo giuridico, com’è noto, separa in modo netto il diritto “co-me è” dal diritto come “deve essere”: altro è il diritto vigente, fonte di obbli-ghi per il solo fatto di essere formalmente valido, altro è il diritto naturale in-teso come insieme di valori morali, dunque esterni al diritto e che non rile-vano se non nel momento in cui vengono recepiti dal legislatore e tradotti innorme positive [v. ad es. FULLER  , Il diritto alla ricerca di se stesso, 1940,lez. I]. Nella versione moderna del positivismo giuridico, peraltro, la separa-zione tra essere e dover essere viene rafforzata dall’affermazione della leggecome fonte primaria se non esclusiva del diritto. Ecco che il positivismo mo-derno può definirsi positivismo legalistico: diritto è solo l’insieme delle leggi

     positive emanate dal potere sovrano, leggi che tutti, dagli organi dello Stato

    ai cittadini, devono rispettare e ciò a prescindere da ogni valutazione, di ca-rattere etico o politico, sul loro contenuto [v. ad es. CHIASSONI, Positivismo

     giuridico, 2013].

    Il pensatore inglese muove dal convincimento che la società umana, seabbandonata a se stessa e priva di un governo forte, sia condannata a

     permanere in uno stato di natura disordinato e conflittuale. In un mondo

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     Prudentia iuris  12

    abitato da individui egoisti – naturalmente portati a perseguire il proprioutile, incapaci di autoorganizzarsi e di costituire un ordine sociale im-

     prontato alla solidarietà o comunque alla spontanea cooperazione – Hob- bes è convinto che, per instaurare l’ordine nella società, si debba met-tere a tacere le coscienze individuali e consegnarsi interamente alla

    coscienza del sovrano. Sembra proprio l’argomento utilizzato dalle au-torità armene di fronte all’obiettore di coscienza: in una società davveroordinata, nessuno spazio può essere concesso ai ‘diritti della coscienza’.

    L’individuo, peraltro, nell’ottica di Hobbes è un animale non solo im- paurito ed aggressivo, ma portato, senza una razionale giustificazione, a

    ritenere eterni ed universali i valori dalla propria coscienza e comunquesempre pronto a cercare pretesti per sottrarsi all’adempimento dei propridoveri civili.

    In coerenza con tali premesse antropologiche, il pensatore seicentescofornisce una definizione positivistica e statualistica del diritto comeinsieme di leggi comandate dal sovrano. “ Per leggi civili intendo leleggi che gli uomini sono vincolati ad osservare per il fatto che sonomembri […] di uno Stato”.

    L’obbedienza, promessa dal cittadino, è dunque la condizione dipensabilità della legge e della sua obbligatorietà: “la legge in generale è

    […] comando di chi si rivolge ad uno già obbligato ad obbedirgli”. Puòdirsi legge civile quella manifestazione di volontà di un soggetto che èsovrano in quanto a lui tutti gli altri individui, pur di uscire dal caotico edinsicuro stato di natura, si sono vicendevolmente obbligati ad obbedire.Così facendo ogni cittadino si è impegnato a mettere a tacere la propriacoscienza e ad ascoltare la voce del sovrano come se fosse propria. “ Lalegge è la coscienza pubblica, dalla quale egli ha già accettato di farsi

     guidare. Altrimenti in tanta diversità quanta ve n’è tra opinioni private,lo Stato deve necessariamente essere diviso, e nessuno oserebbe ubbidireal potere sovrano più in là di quanto sembrerà buono ai suoi occhi”.

    Lo Stato moderno, laico e secolarizzato, si fonda, dunque, nel cuorenel XVII secolo, su un impegno di tutti i cittadini a mettere tra parentesile ragioni della propria coscienza. È la legge, non la coscienza individua-le, a qualificare una condotta come obbligatoria. Tra l’obbligo di legge el’obbligo della coscienza, a rigore, non può darsi conflitto: in uno Statoche voglia garantire in modo infallibile la pace e la sicurezza non ha al-cuna rilevanza ciò che sente il privato cittadino nella propria coscienza.

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     Il diritto tra obbedienza e coscienza 13

    L’interiore sentimento del giusto e dell’ingiusto non ha visibilità nellospazio pubblico: solo le leggi positive “ sono le regole del giusto e del-l’ingiusto” [HOBBES, Leviatano, 1651, cap. XXVI].

    È opportuno, però, precisare che dietro tale scissione tra legge positivae coscienza individuale si cela la separazione tra foro interno e foroesterno, dunque uno dei valori portanti del liberalismo. Lo Stato moder-no, infatti, è nato dalle ceneri delle guerre di religione del secolo XVII

     proprio neutralizzando il conflitto tra le diverse opzioni di credo e di va-lore e dunque escludendo la coscienza individuale dalla sfera di compe-tenze dell’autorità costituita [CATANIA, Filosofia del diritto, 2015, cap. V].

     Non è certo un caso che il giurista novecentesco Carl Schmitt, nellasua aspra critica alla filosofia dello stato secolarizzato, abbia preso di mi-ra proprio la separazione tra sfera privata e sfera pubblica: l’idea secondocui una coincidenza tra volontà del sovrano e convinzioni dei cittadini

     può essere solo esteriore (ad esempio resa possibile dall’artificio del con-tratto) costituiva a suo giudizio “il germe mortifero che ha distruttodall’interno il potente Leviatano e che ha abbattuto il dio mortale”[SCHMITT,  Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes,1938, tr. it. p. 94]. Quello che il giurista tedesco definisce “ germe morti-

     fero” sembra, per converso, aver rappresentato il vero punto di forza del-

    lo Stato moderno.

    È Giuseppe Capograssi a richiamare la virtù liberale di tale separazione:“ Richiedendo soltanto l’azione, l’ordinamento lascia libero corso alla vitadella coscienza, non la disturba, non la tormenta, la lascia avere la propriavita”. All’opposto: “Uno dei più singolari contrassegni dello Stato totalita-rio è che non si contenta dell’atto terminale dell’obbedire, ma richiedel’adesione intera della coscienza, cioè l’alienazione della coscienza da se

     stessa; che la coscienza cessi di essere se stessa e si conformi alla coscienzadello Stato”. “ Di qui il fatto caratteristico della necessità della confessione,comunque ottenuta, nel processo politico”. Lo Stato totalitario costituiscedunque “il tentativo di espropriare giuridicamente l’individuo della sua co-

     scienza” [CAPOGRASSI, Obbedienza e coscienza, cit., p. 205].

    La separazione tra foro interno e foro esterno, invero, ha un duplice vol-to: se da un lato sottrae allo Stato la giurisdizione sulla coscienza e sullevirtù morali del cittadino, dall’altro rischia di dimenticare il diritto dellacoscienza di essere rappresentata e tutelata anche nello spazio pubblico.

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     Nel caso di Hobbes, peraltro, il principio secondo cui “la legge è lacoscienza pubblica” si traduce non solo in una svalutazione dei valoriavvertiti come obbligatori dalla coscienza del cittadino, ma anche in unaradicale negazione della libertà di manifestazione del pensiero. Tra lecause di dissoluzione dello Stato, significativamente, egli include propriola diffusione della dottrina sediziosa secondo cui “ogni privato è giudicedelle azioni buone e cattive”. Che ciascun cittadino possa valutare la

     bontà delle leggi interrogando la propria coscienza può ammettersi nellostato di natura o nei casi di lacuna della legge positiva: negli altri casi,

     per converso, “è manifesto che la misura delle azioni buone e cattive, è

    la legge civile; e il giudice è il legislatore, che è sempre il rappresentan-te dello stato. Questa falsa dottrina dispone gli uomini a dibattiti fra diloro e a dispute circa i comandi dello stato, e, in seguito, a obbedire o adisobbedire, secondo che nei loro giudizi privati penseranno che sia op-

     portuno” [HOBBES, Leviatano, cit., cap. XXIX]. È, dunque, non solo inu-tile, ma inopportuno e socialmente pericoloso, consentire al cittadino dimettere in discussione l’obbligatorietà delle leggi in nome dei propri per-sonali convincimenti.

    Sembra che i giudici dei Tribunali armeni, di merito come di legittimi-tà abbiano portato alle estreme conseguenze, nel caso di Vahan, la logicadel positivismo giuridico moderno: un ordinamento che voglia ga-rantire ordine pubblico e sicurezza non può dare spazio alle sogget-

    tive valutazioni dei cittadini. Dura lex sed lex, dunque: proprio in quan-to generale e astratta la legge deve trattare tutti in modo eguale, a pre-scindere da ciò che suggeriscono la ragione o il cuore di ciascuno.

    La battaglia del cittadino armeno per il riconoscimento dei propri diritti,invero, ha poi trovato una positiva conclusione. Egli, infatti, non si fermòneanche di fronte alla pronuncia, a lui sfavorevole, emessa dalla supremacorte di legittimità armena e propose ricorso alla Corte europea dei diritti

    dell’uomo. Nel frattempo, infatti, l’Armenia era divenuta membro del Con-siglio d’Europa, il che consentiva ai suoi cittadini di proporre appello difronte alla Corte di Strasburgo quando fossero esauriti tutti gli strumenti perottenere giustizia di fronte ai giudici nazionali. Nel ricorso, presentato nel2003, Vahan lamentò la violazione dell’art. 9 della Convenzione europea deidiritti dell’uomo (Libertà di pensiero, di coscienza e di religione) che recita:“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religio-ne; tale diritto include (…) la libertà di manifestare la propria religione o il

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     proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato,mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. Lalibertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essereoggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costi-tuiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica si-curezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o

     per la protezione dei diritti e della libertà altrui”. La corte di Strasburgo indata 27 ottobre 2009 respinse, però, il ricorso di Vahan, sostenendo chel’obbligo di prestare il servizio militare non violasse il diritto alla libertà dicoscienza come tutelato dalla Convenzione.

    Vahan chiese quindi, ai sensi dell’art. 43 della Convenzione, che il caso

    venisse sottoposto alla Grande Camera. È interessante notare la tonalità mar-catamente hobbesiana degli argomenti spesi in tale fase di riesame dalla di-fesa del Governo turco. “There were at present about sixty registered reli-

     gious organisations in Armenia, including the Jehovah’s Witnesses, ninebranches of religious organisations and one agency. So if each of them in-

     sisted that military service was against their religious convictions, a situa-tion would arise in which not only members of Jehovah’s Witnesses but alsothose of other religious organisations would be able to refuse to performtheir obligation to defend their home country. Furthermore, members of Je-hovah’s Witnesses or any other religious organisation might equally assertthat, for instance, payment of taxes and duties was against their religious

    convictions and the State would be obliged not to convict them as this mightbe found to be in violation of Article 9. Such an approach was unacceptablein view of the fact that, in order to avoid the fulfilment of his or her obliga-tions towards the State, a person could become a member of this or that reli-

     gious organisation”. E ancora: “it would inevitably result in very seriousconsequences for public order if the authorities allowed the above-mentioned sixty or so religious organisations to interpret and comply withthe law in force at the material time as their respective religious beliefs pro-vided ”. In sintesi: se lo Stato dovesse conferire rilevanza alla coscienza delcittadino, chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a violare la legge giustifi-candosi dietro alla necessità di agire in conformità ai propri valori.

     Nel pronunciare sul caso, la Corte prese anzitutto atto che i precedentigiurisprudenziali non deponevano a favore dell’accoglimento dell’istanza.

     Nonostante ciò, essa ribadì l’importante principio secondo cui “the Conven-tion is a living instrument which must be interpreted in the light of present-day conditions and of the ideas prevailing in democratic States today” e che“in defining the meaning of terms and notions in the text of the Convention,the Court can and must take into account elements of international law otherthan the Convention and the interpretation of such elements by competent

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    organs. The consensus emerging from specialised international instrumentsmay constitute a relevant consideration for the Court when it interprets the

     provisions of the Convention in specific cases”.Accertato in fatto che l’obiezione di coscienza del cittadino armeno era

    motivata dal suo autentico credo religioso e ritenuto che tale credo si trovavain serio e insuperabile conflitto con l’obbligazione di prestare servizio di le-va, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il solovoto contrario del componente armeno, finalmente stabilì che la libertà di re-ligione tutelata dall’articolo 9 della Convenzione fosse stata violata dall’Ar-menia: l’imposizione del servizio militare, a dispetto delle convinzioni reli-giose del cittadino, costituiva un’interferenza non necessaria in una società

    democratica. Non c’era esigenza di sicurezza e tutela dell’ordine pubblicoche, nel caso di specie, potesse autorizzare l’offesa alla coscienza del cittadino.

    La scissione tra sfera pubblica e sfera privata, su cui Hobbes erige lasua concezione dello Stato moderno, se ha il pregio di rendere pensabileil consorzio sociale a prescindere dalla condivisione, da parte dei cittadi-ni, di una comune tavola di valori, d’altronde induce a svalutare il ruoloirriducibile della coscienza ai fini di un’autentica tutela dell’individuo edella sua dignità. 

    3. Il positivismo giuridico e le ragioni della coscienza

    A giudicare la sola vicenda dell’obiettore armeno, sembra che il posi-tivismo sia il metodo caratteristico di un giurista più sensibile al principiodi autorità che alle ragioni della giustizia e ai valori dell’individuo. Sitratta di una rappresentazione errata o quantomeno incompleta.

    Il positivismo giuridico come metodo, infatti, si caratterizza per ilfatto di separare il piano dell’essere (il diritto vigente oggetto della spe-cifica competenza del giurista) dal piano del dover-essere (il c.d. diritto

    naturale), senza che ciò implichi una difesa dell’autorità dello Stato oun’incondizionata giustificazione delle leggi positive.Ad evitare equivoci è opportuno riprendere la classica distinzione tra

    il positivismo in senso metodologico ed il positivismo in senso etico oideologico [BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, 1965]. So-lo in quest’ultimo tipo di positivismo, infatti, si ritiene eticamente dove-rosa, dunque sempre giusta, l’obbedienza alla legge positiva. Il positi-

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    vismo giuridico in senso metodologico, al contrario, non implica alcuna posizione sul piano etico o politico, limitandosi a prescrivere al giuristala netta separazione tra norme positive e giudizi di valore. Tale separa-zione tra diritto e morale, peraltro, può anche costituire una garanzia delcittadino nei confronti dell’autorità, nel momento in cui, ad esempio,imponendo ai suoi destinatari una stretta aderenza al diritto vigente, esigeche una controversia in decisione presso un tribunale venga risolta e mo-tivata in base a leggi vigenti e non in via equitativa o a partire da princìpidi giustizia arbitrariamente individuati dall’organo decidente. Si pensisoprattutto all’ambito del diritto penale: in ossequio alla massima positi-

    vistica Auctoritas non veritas facit legem una condotta può essere giudi-cata come deviante e dunque sanzionata solo se e nella misura in cui sia

     previamente indicata dalla legge come presupposto dell’applicazione diuna pena.

    In tal senso è strettamente connesso alla visione positivistica il principiodella riserva di legge in materia penale e la conseguente soggezione del giu-dice alla legge, in base alla quale “il giudice non può qualificare come reatitutti (o solo) i fenomeni da lui reputati immorali o comunque meritevoli di

     sanzione, ma solo (e tutti) quelli che, indipendentemente dalle sue valutazio-

    ni, sono formalmente nominati dalla legge come presupposti di una pena”

    [FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1989, p. 6].

    Un altro celebre caso di renitenza alla leva può aiutare a fare chiarezzasul punto.

    Protagonista di tale seconda vicenda giudiziaria fu il pugile CassiusClay, il quale, convertitosi all’Islam nel 1964, aveva preso il nome diMuhammed Alì. Nel 1967, già campione del mondo dei pesi massimi,Alì aveva rifiutato di arruolarsi nell’esercito americano, in quegli anniimpegnato nella guerra in Vietnam. Egli aveva obiettato che quella guer-ra non era stata ordinata da Allah e che personalmente non aveva motivodi combattere i vietnamiti, i quali non avevano mai praticato nei suoiconfronti quegli atti di discriminazione razziale dei quali le persone dicolore erano spesso vittime in Occidente.

     Nel caso in esame il quadro normativo si presentava in modo signifi-cativamente diverso rispetto alla vicenda armena. Negli Stati Uniti, infat-ti, già negli anni ’60 era previsto l’esonero dal servizio militare per gliobiettori di coscienza. Lo status di obiettore di coscienza al servizio mili-

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    tare, però, veniva riconosciuto solo sul presupposto della sussistenza, incapo all’istante, di tre requisiti: un’avversione nei confronti di tutte leguerre, che tale avversione fosse dettata da valori ideologici o religiosi eche fosse sincera.

    All’esito dell’istruttoria condotta dalla Corte di Louisville, Alì si viderifiutare lo status di obiettore e fu condannato alla pena di 5 anni di re-clusione e al pagamento della multa di 10.000 dollari. Il titolo di campio-ne del mondo dei pesi massimi gli venne immediatamente revocato. Ildiniego dello status di obiettore fu poi confermato dalla Corte d’appellodel Kentucky e condiviso dallo stesso Dipartimento di Giustizia america-

    no al quale Alì aveva richiesto un parere.Il 28 giugno del 1971, però, la statuizione della Corte del Kentucky fu

    annullata da un’importante decisione della Corte Suprema degli StatiUniti, in cui si censurava il fatto che il Giudice di merito non avesse ade-guatamente motivato la sua pronuncia: difettava, infatti, l’espressa e pun-tuale indicazione di quale dei tre requisiti, previsti dalla legge come con-dizioni per ottenere lo status di obiettore, la Corte avesse ritenuto insussi-stente in capo ad Alì.

    A fronte di un’erronea applicazione, da parte dei Giudici del Kentuc-ky, della legge in materia di obiezione di coscienza, si direbbe che la

    Corte Suprema abbia accolto le ragioni di Alì adottando un metodo posi-tivistico: benché, infatti, fossero emersi dei dubbi in ordine all’effettivasussistenza, in capo ad Alì, di uno dei requisiti richiesti ai fini del ricono-scimento dello status di obiettore, e dunque si potesse dubitare, in terminidi giustizia sostanziale, che l’istanza di Alì meritasse l’accoglimento, laCorte Suprema, sulla base della stretta applicazione della legge vigente,

     procedette alla revisione della sentenza.Grazie ad una decisione assunta in rigorosa applicazione del dettato

    normativo, ed omettendo qualsiasi rinvio a princìpi di giustizia, o co-munque extrapositivi, dunque, il pugile obiettore vide accolte le sue ra-gioni, evitò di partecipare alla guerra in Vietnam e ben presto riconquistòla cintura di campione del mondo dei pesi massimi.

    Ragionando in termini di giustizia sostanziale, per converso, i giudici sa-rebbero potuti giungere alla conclusione opposta. Alì, invero, aveva, pubbli-camente ed in più occasioni, giustificato la propria obiezione di coscienzasul rifiuto non di ogni tipo di guerra bensì solo di una guerra a suo dire non

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    conforme al volere di Allah e comunque scatenata contro un popolo nei cuiconfronti egli dichiarava di non avere alcun motivo di odio o risentimento.Stando alle risultanze dell’istruttoria, dunque, sembrava effettivamente man-cante uno dei requisiti necessari affinché venisse riconosciuto lo status diobiettore: l’avversione nei confronti della guerra in quanto tale.

    Tale obiezione fu effettivamente sollevata, nel corso dell’iter giudiziale,dal Dipartimento di giustizia americano, rilevando che i motivi di coscienzarappresentati dall’istante “do not appear to preclude military service in any

     form, but rather are limited to military service in the Armed Forces of theUnited States. ... These constitute only objections to certain types of war incertain circumstances, rather than a general scruple against participation in

    war in any form. However, only a general scruple against participation inwar in any form can support an exemption as a conscientious objector’. Eancora: ‘It seems clear that the teachings of the Nation of Islam preclude

     fighting for the United States not because of objections to participation inwar in any form but rather because of political and racial objections to poli-cies of the United States as interpreted by Elijah Muhammad. ... It is there-

     fore our conclusion that registrant’s claimed objections to participation inwar insofar as they are based upon the teachings of the Nation of Islam, reston grounds which primarily are political and racial ”.

    La Corte suprema, per converso, pur consapevole dell’assenza di uno deirequisiti prescritti dalla legge, non poté fare a meno di rilevare il difetto di

    motivazione nella sentenza della Corte d’appello del Kentucky e dunque procedere all’annullamento della stessa.

    La vicenda di Mohammed Alì dimostra anzitutto che le ragioni dellacoscienza possono essere tutelate anche mantenendo una posizione posi-tivistica, dunque rimanendo all’interno della stretta interpretazione e ap-

     plicazione del diritto vigente. Un positivismo giuridico inteso come me-todo e non come ideologia, infatti, non impone una cieca obbedienza allavolontà dello stato né si mostra, in quanto tale, insensibile ai valori del-l’individuo. In un ordinamento in cui fosse tutelata e regolamentata l’o-

     biezione di coscienza, ad esempio, proprio la puntuale applicazione dellalegge potrebbe garantire la più efficace protezione della coscienza.

    Il vero è che – sia o meno prevista dalla legge positiva l’obiezione dicoscienza – è proprio la coscienza umana rappresenta un problema per ildiritto. E ciò per la semplice ragione che il diritto costituisce un insiemedi regole che riguardano la condotta esteriore, ma si rivolgono ad un sog-getto portatore di valori vissuti nella propria interiorità. Ecco che il dirit-

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    to non può disinteressarsi di questa interiorità: specie negli ordinamentiliberali, che si prefiggono di garantire una piena tutela dell’individuo, lacoscienza entra nel gioco del diritto e talora incide in modo decisivo alfine di stabilire se si possa pretendere da un soggetto l’assunzione di unadeterminata condotta.

    Qui sta la grandezza, e al contempo il limite, del diritto moderno. Che,da un lato, proprio al fine di proteggere l’individuo dall’invadenza delloStato, ha separato rigidamente la sfera del diritto da quella della morale,

     precisando che nella prima rilevano le azioni esteriori, nella seconda lecondotte e motivazioni interiori (l’honestum e il decorum distinti dal iu-

     stum già nei Fundamenta iuris naturae ac gentium di THOMASIUS, 1705,capp. IV  e  V). Dall’altro, però, così facendo, ha finito per svalutare ilmondo interiore dell’individuo e per comprimere la sua stessa libertà. Pa-radigmatica, in tal senso, è la tesi, sostenuta da Immanuel Kant secondocui la legalità sarebbe la conformità delle azioni a leggi che riguardanoazioni esterne, mentre la moralità sarebbe la conformità a leggi che esi-gono di essere intese come principi determinanti delle azioni [K ANT, Me-tafisica dei costumi, 1797, tr. it., pp. 26-27]. Si tratta di una tesi dettatadall’esigenza di evitare che lo Stato rivendichi un controllo sulla co-scienza degli individui, assumendo compiti educativi che non gli spetta-

    no. Una tesi, dunque, sostenuta in nome della libertà di coscienza, mache, paradossalmente, rischia di ignorare proprio le esigenze più profon-de di quella stessa coscienza.

    Il diritto contemporaneo sembra aver acquisito crescente consapevolez-za del fatto che nella coscienza risiedono valori e credenze ai quali l’in-dividuo conferisce una tale importanza che l’amministrazione e le corti digiustizia, nell’applicazione della legge, non possano non tenerne conto.

    Di tale consapevolezza si ha un’esemplificazione in una sentenzaemessa dalla suprema Corte scozzese nel 2013. La Court of Session diEdimburgo, infatti, si è trovata a pronunciare in ordine alla vicenda ri-guardante due ostetriche che esercitavano le proprie funzioni avvalendosidella facoltà, prevista dalla legge, di astenersi, per motivi di coscienza,dal partecipare a pratiche abortive.

    La chiusura di un ospedale vicino, infatti, aveva determinato un improv-viso aumento delle richieste di interruzione della gravidanza presso il NHSGreater Glasgow and Clyde Health ove lavoravano le due ostetriche. La

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    struttura dell’ospedale pretese, quindi, che le due fornissero almeno un’assi-stenza indiretta a tali pratiche. Il Board dell’Ospedale, nel rigettare il recla-mo delle due ostetriche, premessa la distinzione tra lo svolgimento di attivitàdi carattere amministrativo o comunque di assistenza e supervisione e la par-tecipazione diretta agli interventi di interruzione di gravidanza, affermò chesolo rispetto a tale partecipazione diretta poteva riconoscersi il dirittoall’obiezione di coscienza. L’autorità giudiziaria, cui si rivolsero le due oste-triche, confermò tale statuizione, ricordando come l’obiezione di coscienzanon possa considerarsi un diritto esercitabile in modo illimitato e incondi-zionato, come dimostrerebbe l’impossibilità di astenersi dal partecipare a

     pratiche abortive quando vi sia un grave pericolo per la salute della donna. In

    ogni caso, rilevò il Lord ordinary, non è invocabile l’obiezione di coscienza per attività meramente preparatorie dell’intervento vero e proprio. Di diversoavviso è stata, però, la Court of Session di Edimburgo che in ultima istanzaha escluso che possa ragionarsi in termini di maggiore o minore prossimitàdei singoli atti rispetto alla pratica abortiva vera e propria: anche la mera

     presenza all’interruzione di gravidanza deve dunque essere evitata a chi tale pratica ritiene contraria al proprio sentimento morale o religioso.

    La corte di Edimburgo, premesso che la pratica abortiva è ritenuta damolte persone come un fatto moralmente inaccettabile, ha affermato che,in ragione di tali diffuse convinzioni, deve essere riconosciuto adun’ostetrica il diritto ad astenersi da qualunque partecipazione ad inter-venti interruttivi di gravidanza (con la sola eccezione di casi in cui vi sia

     pericolo per la vita della donna o comunque di danni gravi e permanenti per la stessa). Una società liberale e democratica, ha ribadito la stessaCorte richiamando un proprio precedente, non può non prendere sul seriole convinzioni morali e religiose dei propri consociati: “it is a matter onwhich many people have strong moral and religious convictions, and theright of conscientious objection is given out of respect for those convic-tions and not for any other reason”.

    4. Forme di obbedienza alla legge

    Le riflessioni appena svolte sul conflitto tra la voce della coscienza egli obblighi di legge consentono di far luce sulla vera posta in gioco nellamillenaria discussione sulla dialettica tra legalità e giustizia.

    A tal fine è opportuno muovere da un’iniziale classificazione dei di-

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    versi atteggiamenti che il destinatario di una legge (non solo cittadino,ma anche giudice, pubblico amministratore, ecc.) può assumere di fronteal precetto in essa contenuto.

    Dall’obiezione di coscienza, di cui si è parlato nei paragrafi preceden-ti, va distinta la disobbedienza civile, che è l’atto tenuto da colui che nonsolo ritiene la legge ingiusta, ma intende mostrare pubblicamente tale in-giustizia al fine di indurre il legislatore a modificare la disposizione.

    Diversamente dalla disobbedienza comune, che è atto illecito occultodi un soggetto solitamente consapevole di violare una legge ed in ultimaistanza tendente a distruggere l’ordinamento, la disobbedienza civile è

    una condotta tenuta da chi ritenga di violare una legge ingiusta e sia ani-mato da una finalità di trasformazione dell’ordinamento.

    I confini tra obiezione di coscienza e disobbedienza civile, invero, nonsono sempre netti. Ora all’una ora all’altra condotta può essere ascrittol’atteggiamento di Antigone, protagonista dell’omonima tragedia di So-focle.

    Come il lettore sa, di fronte al decreto del re Creonte che vietava di effet-tuare il rito funebre del cittadino Polinice, che aveva tradito la città prenden-do le armi contro di essa, l’eroina greca disobbedisce, in ossequio al proprio

    dovere interiore di dare sepoltura al proprio fratello. Al volere dell’autoritàcostituita, dunque, la cittadina Antigone disobbedisce in nome di una supe-riore legge di giustizia, voluta dagli dèi e che nessuna legge positiva può in-taccare [v. ad. BENEDETTI, Antigone: secolarizzazione della legge naturale o

     giuoco della politica?, 2004; B. R OMANO, Sistemi biologici e giustizia,2007,  pp. 21-34; ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di

     giustizia costituzionale, 2008, pp. 62-72].

    Molti interpreti, non sempre a ragione, hanno visto nella resistenza diAntigone una rivendicazione della superiorità della legge naturalecontro la legge positiva. È questa la posizione solitamente definita comeGIUSNATURALISMO, teoria che muove dal presupposto che al di sopradella legge positiva (voluta da un re o da un’assemblea) vi sia una leggeeterna (stabilita dagli dèi e rivelata in varie forme agli uomini o inscrittanella natura dell’uomo e conoscibile dalla ragione) che il cittadino non

     può violare né a ciò può essere costretto dall’autorità. La legge positivapuò considerarsi obbligatoria se e nella misura in cui non diverga

    dalla legge naturale: la legge ingiusta non è legge in senso proprio, ma

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    corruptio legis. Per il giusnaturalismo più radicale, dunque, un’autoritàche non s’ispiri a giustizia degrada a tirannide e la sua legge perde ogniobbligatorietà.

    Una sorta di generalizzazione della disobbedienza civile è la resisten-za (attiva o passiva), individuabile nella condotta di chi contesta nonl’obbligatorietà di una o più disposizioni, ma la legittimità di un interoordinamento. Mediante il rifiuto non violento di ottemperare agli ordini(resistenza passiva) o addirittura la ribellione armata (resistenza attiva),si mira a sovvertire un ordinamento ritenuto illegittimo o comunque su-

     perato al fine di instaurarne uno più giusto.

    Un classico esempio di resistenza passiva può essere individuato nellacondotta tenuta, nella primavera del 1919, dal popolo indiano guidato dalMahatma Gandhi nel movimento di protesta contro il colonialismo ingleseche portò all’indipendenza. Un esempio di resistenza attiva va naturalmenteindividuato nella lotta condotta delle forza democratiche e liberali contro ilregime fascista.

     Nel quadro di una riflessione sulla dialettica tra diritto e giustizia puòessere utile prendere anche in esame gli atteggiamenti di obbedienza nei

    confronti della legge: a questa si può obbedire per consenso (“obbedi- sco perché ritengo giusta la condotta prescritta”), per principio  (“è sempre bene obbedire a quanto prescritto dall’autorità”, come nel sopracitato positivismo etico), per calcolo di utilità  (“è preferibile obbedire

     per evitare di incorrere in sanzioni”) o per abitudine (si obbedisce sen-za chiedersi se sia giusto o no).

    Una specifica considerazione merita l’obbedienza dissenziente. Si pensi al cittadino che, pur non condividendo il contenuto di una legge, adessa obbedisca perché ritiene legittimo, o comunque meritevole di essererispettato, il complessivo ordinamento giuridico nel quale quella legge

    entra in vigore (ad esempio perché condivide i princìpi costituzionali suiquali quell’ordinamento si basa).Una sfumatura diversa connota la tipologia di obbedienza dissenziente

    richiamata da S. Tommaso. Vi sono casi, precisa il Dottore angelico, neiquali, persino di fronte ad una legge ingiusta (sempre che non sia contra-ria al bonum divinum) il destinatario è tenuto ad obbedire “ per evitare

     scandali o pericoli” e dunque quando lo scandalo pubblico, che potrebbe

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    scatenarsi a seguito della disobbedienza, superi le conseguenze negativedell’obbedienza all’ingiustizia [TOMMASO, Summa Theologiae, 1265-1273, Secunda pars secundae partis, Quaestio 104, Articulus 6].

    Tra gli esempi di obbedienza dissenziente, infine, va richiamatol’atteggiamento del filosofo greco Socrate, il quale, stando a quanto ri-

     portato da Platone nella “ Apologia di Socrate” e nel “Critone”, accettal’ingiusta sentenza di condanna comminatagli per pretesa corruzione deigiovani e diffusione di idee contrarie alla religione della città, nel con-vincimento di poter lasciare alla storia, mediante il suo martirio, una te-stimonianza del valore della giustizia e del diritto.

    È importante precisare perché la scelta di Socrate di sottostare alla sen-tenza ingiusta non sia espressione di quel positivismo – etico o ideologico –secondo il quale si deve, sempre e comunque, obbedire all’autorità costituita.Invitato dal discepolo Critone a fuggire dal carcere, la notte precedenteall’esecuzione della sentenza di condanna, Socrate illustra le ragioni per lequali, nel caso di specie, ritenesse giusto accettare la sentenza ingiusta. Unargomento tra tutti: il cittadino che conosce le leggi della città ed il modo incui in essa viene amministrata la giustizia, nel momento in cui decide di con-tinuare a vivere in quella città assume un tacito impegno a rispettare quelleleggi, anche ove dovessero disporre o essere applicate in modo a lui sfavore-

    vole. Si tratta di un argomento contrattualistico, del quale molti interpretihanno sottolineato la modernità [già PIOVANI, Per una interpretazione unita-ria del Critone, 1947]: la città non va obbedita solo perché generatrice e cu-stode della vita del cittadino, ma anzitutto perché questi, con la sua condotta

     perpetuata nel tempo, ha manifestato, si direbbe per comportamento conclu-dente, la volontà di appartenere ad essa. Nel caso di specie, dunque, il citta-dino non è chiamato ad inchinarsi di fronte all’autorità, ma a rispettare la pa-rola data.

    Il valore dell’individuo come agente consapevole e responsabile merita diessere sottolineato sotto un ulteriore profilo: sempre nel dialogo “ Il Critone”,le ragioni a sostegno della giusta obbedienza alla sentenza ingiusta vengono

    ambientate in un immaginario dialogo che si svolgerebbe tra le Leggi dellacittà personificate e Socrate, còlto sul punto di fuggire. Le Leggi, dunque,chiedono conto al cittadino delle ragioni delle sue scelte, scendono sul suo

     piano, dialogano con lui, argomentano, cercano di convincerlo: come po-trebbe, tale posizione, esprimere un atteggiamento di cieca deferenza neiconfronti della città? La scelta di morire per mano di una giustizia ingiusta,dunque, vale come testimonianza in favore della libertà e razionalità del-l’uomo che decide solo dopo aver interrogato il suo interiore logos e dunque

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    si impegna sempre ad agire secondo quella ragione che, nel confronti delleopposte ragioni, risulti la più persuasiva.

    Questa propensione all’argomentazione come caratteristica dell’uomo ra-zionale, ed in specie il valore della persuasione nell’esperienza giuridica,affiorano altresì nell’“ Apologia di Socrate”. In tale opera il filosofo, lungidal far ricadere sull’intera città le colpe dei suoi giudici, viene rappresentatonell’atto di dimostrare come il processo che ha portato alla sua condanna siastato condotto in violazione del principio del contraddittorio, in dispregiodel diritto di difesa, in base ad un impianto probatorio riconducibile per lo

     più ad accuse anonime e dunque non verificabili. In ogni caso Socrate la-scia ai posteri una lezione di fede nel diritto e nella sua struttura dialetti-

    ca: rivolgendosi per l’ultima volta alla città che lo ha condannato, egli invitaa non farsi ingannare dall’esteriore rivestimento dei discorsi, ma a concentra-re l’attenzione sulla verità dei fatti, sulla consistenza delle allegazioni proba-torie, sulla reale capacità persuasiva degli argomenti presentati in giudizio.La vittima di un uso politico della giustizia lascia, dunque, la giornata terre-na, al tempo stesso obbedendo alla sentenza ingiusta e ammonendo che lagiustizia può essere effettivamente resa solo attraverso una corretta artico-lazione della controversia processuale.

    5. Il diritto e la resistenza all’ingiustizia

     Nel paragrafo precedente si è definito il diritto di resistenza come con-testazione non dell’obbligatorietà di una disposizione, bensì della legit-timità di un intero ordinamento. Ma può un ordinamento giuridico rico-noscere un diritto a resistere ad esso, fino a sovvertirlo?

     Nel rispondere a tale domanda si potrebbe parafrasare una massima diJohann Gottlieb Fichte (“ La scelta di una filosofia dipende da quel che siè come uomo”), correggendola in base al tema in discussione: ogni lettu-ra del rapporto tra diritto e resistenza dipende dall’uomo e dal giuristache si è.

    Meritano, anzitutto, di essere considerate due risposte che, pur muo-vendo da premesse antitetiche, giungono alla medesima conclusione: undiritto di resistenza non può ammettersi.

    La prima negazione del diritto di resistenza si rinviene nella Metafisi-ca dei costumi di Kant. Il quale, singolarmente, pur essendo uno dei pa-dri del moderno stato di diritto, sembra ragionare con la logica di Hob-

     bes. “ Per il popolo che vi soggiace, l’origine del potere supremo è in-

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    sondabile dal punto di vista pratico. Il suddito, cioè, non deve cavillareartificiosamente su questa origine come se fosse un diritto ancora conte-

     stabile sotto l’aspetto dell’obbedienza che gli si deve” [K ANT, Metafisicadei costumi, cit., pp. 244-245]. Il cittadino non ha modo né titolo per co-gliere gli arcana imperii  e dunque ogni sua messa in discussione del-l’obbligo di obbedienza è un’inutile perdita di tempo, che anzi mette incrisi la sicurezza dello Stato. Di più: il diritto di resistenza, a giudizio diKant, è intimamente contraddittorio. Per ammetterlo, infatti, “occorre-rebbe che la legislazione suprema contemplasse in sé una disposizione inbase alla quale essa cesserebbe di essere la legislazione suprema e in cui

    il popolo, come suddito, venisse riconosciuto, nel medesimo giudizio,come sovrano di colui al quale è sottoposto”. La resistenza al potere co-stituito, dunque, deve ritenersi un ingiustificato e contraddittorio atto diviolenza [ivi, pp. 248-249].

    La seconda negazione del diritto di resistenza si trova nello scritto  Perla critica della violenza di Walter  Benjamin. Questi, invero, muove da

     premesse opposte rispetto a Kant: il potere stesso è violenza ( gewalt ) cosìcome è violenta l’azione di chi ad esso si oppone. Solo che il potere, de-tenendo il monopolio della forza, utilizza tale forza per qualificare la

     propria azione come legale. Non può mai parlarsi, dunque, di un diritto di

    resistenza che si opponga ad un potere ingiusto, ma solo di una violenzache si oppone ad un’altra violenza. A giudizio di Benjamin, dunque, tan-to il potere costituito quanto la resistenza ad esso non sono né giusti néingiusti: il potere che di fatto riesce ad imporsi giustifica se stesso e si

     pone come diritto, qualificando illecita l’azione contraria. Se, però, tale potere viene rovesciato, la resistenza ad esso, che prima veniva qualifica-ta come violenza, costituirà il nuovo potere e giustificherà la propriaazione come legale [BENJAMIN,  Per la critica della violenza, 1921].

    Per ragioni opposte, dunque, tanto in Kant quanto in Benjamin non può parlarsi di un diritto di resistere al comando dell’autorità. Si potreb- be, certo, obiettare che Kant nega sì il diritto di resistenza, ma ciò inquanto egli ritiene che il cittadino sia (e debba operare come) parte attivadel popolo sovrano e dunque non possa rivoltarsi contro di esso: la liber-tà è eguale partecipazione di tutti alla prassi dell’autolegislazione e dun-que si traduce nella facoltà di non obbedire ad altra legge che a quella cuiciascuno abbia prestato (benché indirettamente) il proprio consenso. Ep-

     però ogni coincidenza senza residui tra individuo e corpo sovrano, come

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    Hobbes insegna, comporta dei rischi. Non è certo un caso che, dopo laRivoluzione francese, Robespierre abbia sostenuto con decisione che l’u-nico “Tribuno del popolo” è “il popolo stesso”, così ponendo le premesse

     per il divorzio tra il diritto di resistenza e l’idea stessa di sovranità popo-lare. In coerenza con tale assunto, la Dichiarazione dei diritti e dei doveridell’uomo e del cittadino del 1795 espungerà il riferimento, pur presentenella Dichiarazione del 1789, alla resistenza all’oppressione. Il cittadinoè ormai un sovrano e non ha ragione di rivendicare il diritto di ribellarsial potere costituito.

    La teorizzazione del diritto di resistenza, non a caso, aveva trovato

    numerose e feconde formulazioni nella fase del pensiero moderno in cuila rivendicazione dei diritti dell’uomo doveva fare ancora i conti con le

     pretese dello Stato assoluto. Paradigmatica è la posizione di uno dei mas-simi esponenti del pensiero liberale, John Locke: lo Stato nasce da uncontratto e dunque ogni violazione di tale contratto giustifica la reazionedella parte lesa. 

    Scrive Locke: “ Ma allora ci si può opporre ai comandi di un principe? Si può resistergli ogni volta che ci si trova offesi, e anche soltanto quando siimmagina che egli ci abbia fatto qualcosa che non aveva il diritto di fare?

     Ma questo scardinerà e sovvertirà tutte le società politiche, e invece del go-verno e dell’ordine non lascerà che anarchia e confusione. A questo rispon-do che la forza deve essere opposta soltanto alla forza ingiusta e illegale.Chiunque fa opposizione in qualsiasi altro caso, attira su di sé una giustacondanna sia di Dio sia dell’uomo; e così non ne seguirà nessuno di quei

     pericoli e di quelle confusioni, che spesso vengono suggerite” [LOCKE, Se-cond Treatise of Government , 1690, parr. 203-204]

    I diritti individuali costituiscono un limite invalicabile per l’azione del potere politico e dunque il popolo ha il diritto di destituire il sovrano che,venendo meno agli impegni assunti, intacchi quei diritti.

    Il confine tra ordine legale e forza ingiusta e illegale è così tracciato dal pensatore inglese: “ Là dove la legge finisce, comincia la tirannide, quandola legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque nell’autorità ecceda il

     potere conferitogli dalla legge e faccia uso della forza che ha al proprio co-mando per compiere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non permette,cessa, in ciò, d’esser magistrato, e, in quanto delibera senza autorità, ci si

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     può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forzaviola il diritto altrui” [ivi, par. 202].

    Ma il tema del diritto di resistenza, centrale nel processo di declina-zione in senso liberale dello Stato moderno, può dirsi ancora attuale dopol’istituzione e il consolidamento dello Stato di democrazia costituziona-le? Questo non è forse caratterizzato dalla proclamazione dei diritti del-l’uomo come fondamentali ed inviolabili? Non sono sufficienti i disposi-tivi, in esso previsti, di protezione del sistema e di contenimento dei mo-di di esercizio del potere? Non è lo stesso Stato di democrazia costituzio-

    nale la realizzazione sul piano istituzionale di quella visione dei diritti asuo tempo sottesa alla rivendicazione del diritto di resistenza?Sul punto gli stessi costituenti italiani mostrarono significative incer-

    tezze. Nel dicembre del 1946 l’assemblea prese in esame e respinse una proposta di positivizzazione del diritto di resistenza formulata nei terminiseguenti: “ La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici po-teri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presentecostituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”. La proposta fu respintaanche grazie all’intervento del costituzionalista Mortati il quale, tral’altro, dichiarò che il diritto di resistenza “riveste carattere metagiuridi-

    co” e in ogni caso “mancano, nel congegno istituzionale, i messi e le pos- sibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione equando invece questa sia da ritenere illegittima”. Lo stesso Mortati, pe-raltro, alcuni anni dopo sostenne che il diritto di resistenza si sarebbecomunque potuto desumere dal combinato disposto degli articoli 1 e 3co. 2. Il diritto di resistenza si trasfigura così in una sorta di dovere di ri-spettare la Costituzione, dovere che può arrivare fino a giustificare, inuno stato di necessità, la violazione della legalità formale. Si tratterebbe,dunque, di un diritto fondato sul fatto, eppure non per ciò privo di carat-tere giuridico, essendo fondato proprio sui princìpi fondanti dell’ordi-

    namento costituzionale. Ecco che, a dispetto della tesi kantiana sull’inu-tilità e contraddittorietà della resistenza in un ordinamento in cui i citta-dini sono sovrani, deve ritenersi che quando i meccanismi di garanziaistituiti al fine di sanzionare le rotture dell’ordine costituzionali risultinoimpraticabili, “il diritto di resistenza viene a configurarsi come l’estremorimedio all’eversione dall’alto” [FERRAJOLI,  Principia iuris. Teoria deldiritto e della democrazia, 2007, vol. II, p. 109].

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    Il diritto-dovere di resistenza diviene così la via extralegale per la re-staurazione dell’ordine violato. Il che, a ben vedere, conferma un’idea difondo della tradizione giusnaturalistica: l’eccedenza dei valori, persino diquelli evocati dai princìpi fondanti di un ordinamento costituzionale, ri-spetto alla loro traduzione in norme e alla concreta applicazione di questenella vita di un ordinamento.

    6. Il dovere di disobbedire al (non)diritto 

     Nel corso della riflessione sin qui condotta si sono delineate figure didisobbedienti che vengono puniti o di obbedienti (non sempre consen-zienti) che rimangono nel cerchio della legalità. Vi sono, però, dei mo-menti-chiave nella storia delle istituzioni – in specie nel passaggio da unvecchio ad un nuovo ordinamento – in cui le parti si rovesciano. Ecco al-lora che chi ha opposto resistenza – coraggiosa ma pur sempre illegale –al vecchio ordinamento, diventa l’eroe del nuovo, mentre chi ha obbeditoalle norme (più o meno palesemente ingiuste) del vecchio ordinamento

     può essere chiamato a rispondere, anche penalmente, del proprio operato.Sul piano teorico la questione va formulata in questi termini: in virtù

    di quale principio viene giudicato colpevole, di fronte ad un nuovo or-dinamento, colui che ha agito in esecuzione di una legge valida nel

    vecchio ordinamento o di un ordine proveniente da un superiore gerar-chico? Come può un comportamento, già conforme alla legge, se non ad-dirittura doveroso, divenire col tempo fonte di responsabilità?

    Anche in questo frangente, a ben vedere, si tratta di una questione dicoscienza.

    Si pensi a Adolf Eichmann, criminale nazista catturato in Argentinadai servizi segreti israeliani e poi tradotto e processato in Israele, dovevenne impiccato il 31 maggio 1962.

    Durante il processo, alla pubblica accusa che chiedeva conto di docu-menti firmati dall’imputato e contenenti ordini di deportazione di ebrei,Eichmann si limitò a rispondere che egli riceveva ordini e che, qualunquefosse stato il suo personale convincimento, era tenuto ad eseguirli [v.ARENDT, La banalità del male, 1963, tr. it., pp. 32 e 49]. A detta di Eich-mann, dunque, una questione di coscienza non si sarebbe mai potuta por-re: “ I problemi di coscienza riguardano soltanto il sovrano, il capo dello

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     stato. Io non ebbi fortuna, e il capo del mio stato ordinò le deportazioni. La mia parte fu quella assegnatami dal capo delle SS e della polizia …dovetti obbedire: vestivo un’uniforme e c’era la guerra … per l’in-

     subordinazione il codice penale delle SS prevedeva la morte”.Lo stesso concetto è ripreso dall’avvocato di Eichmann, Robert Serva-

    tius, facendo leva sul supremo principio della responsabilità personale:“ L’imputato non può espiare per ciò che ha fatto lo Stato. È lo Stato cheordinò certe azioni, ed esso soltanto ne deve essere responsabile”.

    In ogni caso non mancavano fondati argomenti atti a giustificare la con-

    danna di Eichmann in quanto responsabile in prima persona e comunqueconsapevole coautore dello sterminio. Basti pensare a quanto da lui afferma-to, alcuni anni prima, in un’intervista ad un giornale danese: “Quando rice-vetti l’ordine di lottare contro gli ebrei, agii da vecchio nazista col più

     grande fanatismo. Potrei dire che ero costretto a tener fede al giuramento. Ma sarebbero chiacchiere a buon mercato. Feci del mio meglio per capireciò che facevo perché il destino mi aveva dato delle qualità particolarmenteadatte per quell’azione. Non ero solo un subalterno che eseguiva gli ordini,altrimenti sarei stato un imbecille. Io pensavo a quegli ordini e partecipavoalla loro elaborazione”.

     Nel corso dell’istruttoria, dunque, venne chiesto conto a Eichmann dicondotte tenute in àmbiti, attinenti al suo ufficio di coordinatore dei mez-zi per la deportazione degli ebrei, sui quali egli aveva un margine di au-tonomia decisionale. Anche a tal proposito l’imputato sembrò andare allaricerca di una scriminante: “ Dovevo contribuire coi mezzi di trasporto,

     perché avevo prestato giuramento alla bandiera. Ma lasciando tutte ledecisioni ai miei superiori, potevo considerarmi innocente, e ritrovare lamia pace interiore”.

    Eichmann, dunque, si dice innocente in quanto incosciente, cioè nonin condizione – per il solo fatto di essere tenuto a rispettare la legge – di

    interrogare la sua coscienza su cosa fosse giusto o ingiusto.Era tenuto a farlo? In quali situazioni il cittadino, benché destinatario

    di un ordine o di una legge, deve interrogare la propria coscienza circal’accettabilità etica della condotta che gli viene imposta? Esiste, e come

     può essere individuata, una soglia di intollerabilità, superata la quale ildestinatario della norma può considerarsi tenuto ad adoperarsi per disap-

     plicare la legge palesemente ingiusta?

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    Il vero è che, perché possano qualificarsi come intollerabili determina-te condotte prescritte dall’autorità, è necessario che si possa contare su“dei fondamentali comuni a tutti senza i quali una società non sarebbeuna società e la stessa coesistenza delle plurime concezioni della giusti-

     zia non potrebbe darsi. Un nucleo minimo di diritto forte, spesso presi-diato dalla sanzione penale, non può dunque non esistere” [ZAGREBEL-SKY, La virtù del dubbio, 2007, p. 50].

    7. L’irriducibile diritto naturale, l’inevitabile interpretazione

    La strada sin qui seguita ha condotto ad una prima conclusione: nellavita delle comunità e delle istituzioni “non può non esistere” un nucleo di“diritto forte”, idealmente valido per tutti gli uomini, inviolabile da qual-sivoglia autorità e la cui validità ciascuno potrà riscontrare nella propriacoscienza, una volta che questa abbia avuto modo di formarsi liberamen-te. Sotto questo profilo si direbbe che non siano stati vani gli sforzi con-dotti, in tempi e forme diverse, dalla più avvertita tradizione giusnaturali-stica per affermare l’esistenza e la conoscibilità di un diritto indisponibiledall’autorità politica.

    Tale conclusione, però, richiede due precisazioni.La prima riguarda la sconfitta, decretata dalla storia, di un certo posi-

    tivismo giuridico fondato su basi scettiche, dunque sulla negazione

    della conoscibilità di valori etici universali. Il metodo del giurista, incoerenza con un simile positivismo, si sarebbe dovuto basare sulla nettaseparazione tra validità (ius conditum) e giustizia (ius condendum):altro è il diritto positivo, inteso come insieme di norme validamente po-ste dall’autorità, altro è il diritto naturale come insieme di valori irrazio-nali, sui quali mai si potrebbe raggiungere un consenso. Il giurista, al finedi conferire rigore scientifico al proprio metodo, si sarebbe dovuto occu-

     pare solo del primo e non del secondo.Di un simile positivismo giuridico fondato su base scettiche vanno pe-

    rò individuate le implicazioni: se ogni valore è degradato a preferenzasoggettiva e irrazionale, non si potrà mai confidare nella capacità dellacomunità umana di raggiungere, prima o poi, un consenso su alcuni prin-cìpi minimi di giustizia, princìpi a fronte della cui violazione si sarà indovere di disobbedire persino al comando dello Stato. In altri termini: al

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    cospetto di crimini come quelli commessi da Eichmann, una Corte digiustizia, se non potrà giudicare in nome di principi comuni all’interaumanità, dovrà limitarsi ad esprimere i convincimenti dei poteri preva-lenti, in un determinato contesto storico, nella comunità internazionale.

    Il vero è che dopo l’orrore totalitario, ma tanto più nell’edificanda so-cietà globale, non si può fare a meno (della ricerca) del diritto naturale. Il

     problema, però – e così si giunge alla seconda precisazione – riguarda ilmodello di diritto naturale al quale possa farsi ragionevole riferimento.

     Non si tratterà, evidentemente, di una tavola di valori validi in senso so-vrastorico, trasmessi a chiare lettere da Dio o comunque conoscibili dalla

    ragione: si tratta, piuttosto, di un diritto incarnato nella storia, più cercatoche trovato, costruito intorno ad alcuni fondamenti eppure inevitabilmen-te soggetto alle dinamiche della storia.

    Se questo diritto naturale ha una connotazione storica, peraltro, non èsolo perché l’uomo sembra mutare i suoi valori attraverso i secoli, quasifossero un mero prodotto di determinazioni storiche, bensì perché i prin-cìpi – anche una volta affermati come inviolabili, si pensi al diritto allavita, alla dignità, alla libertà di pensiero e di religione, ecc. – vanno in-terpretati in relazione a contesti ed applicati a casi sempre diversi. Ildestino della giustizia nel consorzio umano sembra consegnato all’arte

    dell’interpretazione.

    Una delle più celebri apologie del ruolo attivo dell’interprete nella con-creta realizzazione della giustizia può rinvenirsi nella geniale figura di Por-zia, protagonista della commedia “ Il Mercante di Venezia” di William Sha-kespeare. La giovane Porzia, infatti, si trova ad indossare le vesti di un giuri-sta incaricato di esprimere un parere in ordine ad una controversia relativa adun debito non restituito. L’attore della controversia è Shylock che chiede la

     puntuale e letterale esecuzione di un contratto tra le cui clausole, a frontedell’avvenuta concessione di un prestito, era prevista, in caso di mancata re-stituzione della somma nel termine convenuto, la penale del taglio di unalibbra di carne dal petto del debitore. Il convenuto insolvente è Antonio, unmercante impossibilitato ad adempiere alle proprie obbligazioni a causa deltardivo ritorno delle sue navi dall’Oriente, ma il cui amico Bassano si era di-chiarato disponibile ad adempiere l’obbligo altrui, mettendo a disposizionedel creditore il triplo della somma da restituire. Considerato, però, che il con-tratto non prevedeva l’adempimento dell’obbligazione da parte di un terzo,sulla base di un’interpretazione letterale non si poteva imporre a Shylock di

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    ricevere la somma da un terzo, neanche se offerta in misura superiore al-l’importo dovuto. Porzia, mascherata da giurista incaricato di fornire un pa-rere al Doge di Venezia, sembra costretta a scegliere tra l’esecuzione lettera-le dell’accordo tra le parti – dunque l’applicazione della penale nei confrontidel debitore insolvente – ed uno scavalcamento del dettato contrattuale al fi-ne di approdare ad una decisione equa.

    Per sfuggire all’alternativa tra l’applicazione cieca della legge regolatricedel rapporto, liberamente convenuta tra le parti, ed il suo scavalcamento da

     parte del soggetto decidente, Porzia riesce a realizzare il giusto nel caso con-creto facendo ricorso all’arte dell’interpretazione. Il contratto, infatti, se èvero che consentiva il taglio di una libbra di carne del debitore insolvente,

    d’altronde non faceva alcun riferimento al versamento del sangue dello stes-so. Il creditore, dunque, poteva a buon diritto esigere l’applicazione della

     penale, ma se avesse versato una sola goccia di sangue del debitore, sarebbestato perseguito ai sensi della legge vigente a Venezia. Il richiamo alla lacu-na del contratto e alla integrazione di questo in base alla disciplina di dirittocomune fu sufficiente ad indurre il creditore a rinunciare alle proprie bellico-se (ma formalmente legittime) pretese.

    Ecco che facendo salva la vita del debitore (indubbiamente insolvente,eppure in grado di garantire l’adempimento dell’obbligazione in una formanon prevista dal contratto), Porzia riesce a fare giustizia senza mortificarel’accordo sottoscritto dalle parti ed anzi scavando tra le pieghe del testo del

    contratto ed integrandone la lacunosa regolamentazione, fino a rinvenire laregola per un’equa soluzione del caso [sul punto, rimane fondamentale ilcontributo di ASCARELLI, Antigone e Porzia, 1955].

    Con Bruno Romano può ben dirsi che “il giurista compie l’opera del-l’interpretazione custodendo il legame tra la fedeltà al contenuto e letturaoriginale del testo, alimentata dal richiamo al senso profondo, invisibile deldiritto. Come nell’essere del parlante coesistono le due dimensioni del dettoe del non detto, così nell’esperienza giuridica il senso degli enunciati nor-mativi si presenta e insieme si sottrae all’opera dell’interprete. Né l’autorené l’interprete della norma possono rivendicare l’esclusiva sul senso. Il sen-

     so è situato nell’intervallo tra le parole delle norme e il silenzio del diritto”

    [B. R OMANO, Scienza giuridica senza giurista, 2006, p. 154 ss.].

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     Prudentia iuris  34

    III

    LA LEGGE

    E LA SUA INTERPRETAZIONE

    1. Ius dicere, iustitiam facere 

    Il modello di arte della giurisprudenza incarnato dalla Porzia shake-speariana è lì a ricordarci che il destino della giustizia nel consorzioumano è spesso affidato alla responsabilità ed abilità dell’interprete.

    Una tale affermazione, però, se inscritta nella complessiva vicenda deldiritto moderno, si rivela problematica. La stessa Costituzione, quandoall’art. 101 co. II ricorda che “ I giudici sono soggetti solo alla legge”,sembrerebbe affermare, tra l’altro, che il compito di realizzare il giustospetta anzitutto alla legge, non al giudice, che a quella legge è soggetto eche la volontà della legge deve far valere nel caso concreto. Come legge-

    re, dunque, la lezione di Porzia in un ordinamento pur sempre costruitosul principio di legalità e sulla separazione tra potere legislativo e poteregiudiziario? In che modo il giudice può trovare il giusto equilibrio tra ri-spetto della legge da applicare al caso concreto ed impegno a fare davve-ro giustizia?

    La questione non è certo solo di scuola. Tra i numerosi esempi di pronun-ce rese da giudici che, in nome della giustizia sostanziale, giungono a forza-re, se non addirittura a scavalcare, il dettato normativo, può citarsi una sen-tenza pronunciata alcuni anni fa dal Tribunale di Roma nei confronti del piùclassico del ‘delinquenti’: il ladro di prosciutti. Dopo aver nascosto goffa-mente sotto il maglione alcune confezioni di prosciutto, infatti, un Tizio ve-niva còlto in flagranza di reato dall’addetto antitaccheggio di un supermerca-to. Benché la sussistenza del reato in oggetto non fosse in discussione, ilgiudice, accogliendo la richiesta del p.m., decise di assolvere l’imputato per-ché “l’azione criminosa era dettata dall’indigenza per soddisfare i primaribisogni alimentari”.

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     La legge e la sua interpretazione 35

    Ora, premesso che la sentenza di assoluzione poteva forse ritenersi ade-guata in termini di equità al caso di specie, il punto è se il giudice, assolven-do l’imputato, abbia effettivamente adempiuto al suo dovere di ufficio di ap-

     plicare la legge.L’imputato è stato assolto per aver commesso il fatto in stato di necessità.

    L’art. 54, co. I, c.p. recita: “ Non è punib