pittura napoletana del '600 e '700

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Prefazione Questo volume raccoglie una serie di miei articoli pubblicati negli ultimi due anni su riviste car- tacee e telematiche. Si tratta in prevalenza di contributi alla conoscenza della pittura napoletana del Seicento e del Set- tecento, ma non è trascurata la grafica e soprattutto l’invito a scoprire, in egual misura, vecchie chiese e nuovi musei, come nel caso della Cattedrale di Pozzuoli o della chiesa della Consolazione a Villa- nova, o del nuovo museo etrusco del Denza e di Palazzo Caracciolo di San Teodoro. Un articolo è dedicato alla scultura lignea, un argomento trascurato dagli studiosi e che viceversa merita di essere conosciuto. Per abbattere i costi di stampa e di conseguenza di vendita del libro, esso esce con le numerose foto in bianco e nero, però ogni capitolo indica il link di collegamento per poter ammirare sul compu- ter le immagini a colori. Inoltre l’autore si impegna a fornire gratuitamente a chi lo desidera e la facoltà di pubblicarle, ci- tando la fonte, le riproduzioni ad alta definizione delle foto; basta richiederle a [email protected] Non mi resta che auguravi buona lettura. Achille della Ragione Napoli 3 febbraio 2016 1

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articoli di Achille della Ragione sulla Pittura Napoletana del Seicento e del Settecento

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Page 1: Pittura Napoletana del '600 e '700

Prefazione

Questo volume raccoglie una serie di miei articoli pubblicati negli ultimi due anni su riviste car-tacee e telematiche.

Si tratta in prevalenza di contributi alla conoscenza della pittura napoletana del Seicento e del Set-tecento, ma non è trascurata la grafica e soprattutto l’invito a scoprire, in egual misura, vecchie chiesee nuovi musei, come nel caso della Cattedrale di Pozzuoli o della chiesa della Consolazione a Villa-nova, o del nuovo museo etrusco del Denza e di Palazzo Caracciolo di San Teodoro.

Un articolo è dedicato alla scultura lignea, un argomento trascurato dagli studiosi e che viceversamerita di essere conosciuto.

Per abbattere i costi di stampa e di conseguenza di vendita del libro, esso esce con le numerosefoto in bianco e nero, però ogni capitolo indica il link di collegamento per poter ammirare sul compu-ter le immagini a colori.

Inoltre l’autore si impegna a fornire gratuitamente a chi lo desidera e la facoltà di pubblicarle, ci-tando la fonte, le riproduzioni ad alta definizione delle foto; basta richiederle a [email protected]

Non mi resta che auguravi buona lettura.

Achille della RagioneNapoli 3 febbraio 2016

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Page 2: Pittura Napoletana del '600 e '700

Il seno nella pittura napoletana del Seicento

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2012/03/il-seno-nella-pittura-napoletana-del.html

Il Seicento è secolo di sfrenate passioni, che trovano spesso nel seno un emozionante baricentro,catalizzatore di emozioni le più diverse dall’odio all’amore, dal premio al castigo.

Napoli è un centro figurativo di grande respiro e la pittura più importante si svolge a Bologna, aRoma ed all’ombra del Vesuvio, dove una committenza laico borghese, dai gusti raffinati, si affiancaalla Chiesa e richiede per la gioia degli occhi e per adornare interminabili saloni, natura morta, pae-

saggi, scene di battaglia e se pure deve fare capolinoun soggetto devozionale o un’immagine di santa, chesia bella, giovane ed ampiamente scollata e se deveraggiungere l’estasi, che questo stato divino sia similealle vette dell’orgasmo.

Stanzione fu assieme ad Artemisia Gentileschi ilcampione riconosciuto di questa pittura dolce ed am-maliante e tra i suoi allievi molti si distinsero con com-posizioni di alto livello, che facevano la felicità visivadi nobili e ricchi borghesi. Tra questi ricordiamo inparticolare Bernardo Cavallino, Andrea Vaccaro e Pa-cecco de Rosa. Nel 1607 Caravaggio, giunto da pocoa Napoli, dove in pochi mesi rivoluzionerà le arti figu-rative, ritorna sull’episodio di Cimone e Pero, che in-castra in quello spettacolare squarcio dal vero costitui-to dalla pala d’altare per la chiesa del Pio Monte dellaMisericordia (fig. 1).

Sul lato destro della composizione una giovanepuerpera offre all’anziano genitore il seno per sfamar-lo, raffigurando ad un tempo due opere di misericor-dia: visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati.La modella è presa dai vicoli napoletani ed esercita ilpiù antico mestiere del mondo, ma il seno caritatevole,rigoglioso di salute, che con slancio ed amore filialeoffre al padre, è pregno di amore più che di nutrimen-to; da esso sgorga un latte dolcissimo, che oltre al cor-po è panacea per lo spirito. È un seno salvifico, uni-verso simbolico per eccellenza dove l’erotismo si uni-sce al nutrimento e dove l’amore e la vita riescono avincere l’eterna battaglia contro l’odio e la morte.

La lezione caravaggesca di crudo realismo fu ri-presa da molti seguaci e tra questi va annoverato Juse-

pe Ribera, spagnolo di nascita, ma a tutti gli effetti napoletano doc, perchè, giunto giovanissimo incittà, vi rimase per otre 40 anni fino alla morte nel 1652. L’artista amava raffigurare la caducità dellacarne, a tal punto che Byron affermò che amasse intingere il pennello nel sangue dei martiri. Nella

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tela che esaminiamo: Donna barbuta col marito (fig.2), oggi a Toledo presso la fondazione Medinaceli, ilpittore ci rende partecipi di un’aberrazione della natu-ra, ritraendo Maddalena Ventura, una donna abruzzesemaritata e madre di molti figli, intenta ad allattare l’ul-timo nato, pur munita di una faccia totalmente virile,di una folta barba e di un torace egualmente peloso, dacui protrude una mammella ripugnante, gonfia di latte,in grado di spegnere per lungo tempo qualsiasi deside-rio erotico in chicchessia. Sulla destra della composi-zione una lunga epigrafe descrive dettagliatamente lastoria paradossale di questa coppia, ripresa dal veronell’atelier del Ribera in cinque giorni di lavoro.

In primo piano una conchiglia, notorio simboloermafrodito o forse, più probabilmente, si tratta di unarcolaio con fili di lana, a rimembrare una tipica occu-pazione femminile, in stridente contrappasso con laparadossale mascolinità della donna.

Un’oscurità densa e drammatica avvolge i due co-niugi, mentre il volto rassegnato del marito è raffigu-rato con toccante intensità. Le fisionomie dei coniugisono scolpite con magistrale virtuosismo e restano im-presse nella memoria, quanto e più della sferica mam-mella verso la quale, inconsapevole, rivolge le sue at-tenzioni l’innocente frugoletto.

Il martirio di Sant’Agata, alla quale, con estrema crudeltà, vennero amputate le mammelle, ha sti-molato la fantasia di generazioni di artisti, che dell’evento hanno riprodotto gli aspetti più raccapric-cianti. Noi viceversa, per lo sviscerato amore che nutriamo verso il più giocoso attributo femminile,abbiamo scelto una composizione più serena e rassicurante, che rappresenta il prodigio della guari-gione, per cui abbiamo preso in considerazione la Santa visitata in carcere da san Pietro e l’angelo(fig. 3), eseguita dal Lanfranco intorno al 1613-1614 e conservata nella Galleria Nazionale di Parma.

La prodigiosa curatio mamillarum avviene durante la notte, quando san Pietro, accompagnato daun angelo che illumina il percorso con una torcia, va a visitare sant’Agata da poco ricondottavi dopo

il triste supplizio. Egli applica con mano tremula unmiracoloso unguento sulle ferite ancora aperte, le qua-li prontamente si rimarginano, restituendo al seno del-la giovane vergine siciliana le sue delicate forme, umi-liate e lacerate dal coltello sacrilego e restituite perl’arcano prodigio all’innocenza di due universi maiconquistati.

Luca Giordano ha dipinto chilometri quadrati ditele ed affreschi, preso da un furore creativo senzaeguali. Spesso quando doveva ritrarre belle donne nu-de in pose lascive utilizzava la moglie, non sappiamose per risparmiare il denaro per la modella o per la ge-losia della consorte.

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Fig. 2

Fig. 3

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Facciamo la conoscenza con le splendide fattezzedella signora Giordano, Margherita Dardi, in un qua-dro: Venere dormiente e satiro (fig. 4), oggi a Capodi-monte, ritornato di recente all’onore delle cronache.

A lungo in prestito presso la Camera dei deputati,la tela, che promana evidentemente una vigorosa vo-luptas, scatenò le ire della neo presidentessa Irene Pi-vetti, la quale, per non turbare le caste menti dei depu-tati, fece allontanare il quadro scandaloso, favorendo-ne il ritorno nel museo napoletano. Più di recente l’o-pera del Giordano non è piaciuta,”la butterei” haesclamato stizzita, neanche alla nostra first Lady, in vi-sita ufficiale col marito a Capodimonte, facendoci in-tuire quante difficoltà poteva incontrare un quadro del genere nel Seicento, un’epoca che forse erameno bacchettona della nostra.

Il dipinto è da porre in relazione con altre realizzazioni giordanesche che trattano la stessa tema-tica ed in particolare con il suo pendant Tarquinio e Lucrezia, un’altra splendida esibizione della si-gnora Giordano nature, esaltante l’amore coniugale e la fedeltà, in stridente contrasto con questa Ve-nere dormiente, un inno all’ebbrezza alcolica ed al sopito…ma non troppo desiderio erotico. Il mo-dello iconografico ispiratore del quadro è il famoso Baccanale del Tiziano del Prado, nel quale il son-no non è dormire, ma dolce abbandono.

La dimensione dionisiaca della scena viene esaltata da piccoli ma significativi dettagli, come lacoppa del vino, appena libato, posta ai piedi della dea e l’episodio sullo sfondo, di chiaro significatolussurioso, nel quale un sileno ebbro e pasciuto si bea assieme a dei compagni, straripando a caval-cioni il dorso di un bieco animale. Sul petto, generosamente esposto, protrude un’ombra maliziosache accarezza i due mondi innocenti, che non ambiscono che ad essere conquistati. Seni liberi e trion-

fanti che anelano, esigono, proclamano, pretendono diessere santificati.

Artemisia Gentileschi, raffinata pittrice dal virtuo-so pennello, giunse a Napoli nel 1627, attirata dallericche committenze che colà si potevano ottenere enon si mosse più dalla città fino alla morte. Respiròl’aria partenopea e mutò la sua tavolozza, rendendopiù mediterranea la resa pittorica dell’epidermide, piùdolce e sensuale l’incarnato, più squillante la gammacromatica. Ci ha lasciato immortali rappresentazionidella bellezza femminile, prendendo a pretesto legrandi donne della storia e della mitologia. Tra i sog-getti all’epoca più richiesti: Cleopatra, la leggendariaregina che si dà la morte offrendo al morso dell’aspidela magnificenza del suo seno indifeso, nella sua nuda

carnale sensualità, senza enfatizzare l’immagine con l’aggiunta di gioielli e ornamenti elaborati. Unseno fiero e spavaldo che affronta senza paura il temibile serpente, unica difesa la punta acuminatadei più desiderati capezzoli nella storia dell’umanità. La pittrice raffigurò ripetutamente la sfortunatasovrana, raggiungendo l’apice del dramma, intriso di solenne bellezza in un dipinto (fig. 5), oggi incollezione privata, eseguito intorno al 1630, dove si compiace di ritrarre la celebre regina nella sfol-

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Fig. 4

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gorante esaltazione delle sue nudità, delle sue forme procaci e provocanti, che avevano fatto perderela testa ai potenti della terra, con la mano complice che sembra voler accarezzare l’aspide, prima chele imprima il morso mortale sul capezzolo. Sembrano voler sfidare nella loro soda e prorompente vi-talità l’insulto della morte. Cleopatra si appresta a morire con il volto voluttuoso e le labbra appenadischiuse, quasi in estasi e sembra godere della sua fine come una santa che, attraverso la morte, ècerta di raggiungere la felicità e la pace dei sensi.

I seni partoriti dal fertile pennello di Artemisia, di un incarnato alabastrino, sono carichi di ener-gia, sia che appartengano a Lucrezia che vi infigge vigorosa il pugnale o siano di Betsabea, che li curae li profuma in interminabili toelette, o della Maddalena che arde di macerarli nella penitenza, o diEster, di Galatea, di Corisca, di Clio o di tante altre eroine senza paura, pronte ad offrire in olocaustoil bene più prezioso di una donna.

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E Micco ritornò alla “sua” Certosa

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2012/03/e-micco-ritorno-alla-sua-certosa.html

La fuga nel monastero durante la peste e l’amicizia coi geni del suo tempo

Scartabellando tra antiche carte ingiallite ho scovato una pagina di un quotidiano napoletano nellaquale avevo recensito la mostra su Micco Spadaro (fig. 1) tenutasi nel 2002 alla Certosa di San Mar-tino. Ho ritenuto che, tolto l’incipit, riguardante le opere esposte nella rassegna, si possa trattare dimateriale interessante per meglio inquadrare questo pittore ancora poco noto, ma impareggiabile de-scrittore di cronaca cittadina, per cui la trascrivo per i lettori.

In un panorama ricco di personalità di rilievo internazionale, dal Caravaggio a Luca Giordano,dal Ribera a Solimena, quale è quello rappresentato dal Seicento napoletano, la figura di Domenico

Gargiulo non assurge certo al ruolo di protagonista as-soluto, ma il suo percorso artistico è quanto mai inte-ressante abbracciando più filoni iconografici, in alcunidei quali è da considerare più che un innovatore un ve-ro e proprio caposcuola, la cui attività troverà epigonied imitatori ben oltre i limiti temporali del XVII seco-lo, come nel caso delle scene di martirio (fig. 2) o deiquadri di storia e cronaca cittadina, oltre che nella pit-tura di paesaggio. Inoltre Domenico Gargiulo è un na-poletano “doc”, nato e morto nella nostra città, dallaquale non si è mai allontanato

Egli amava ritrarre i tumultuosi avvenimenti dellaNapoli vicereale: eruzioni, epidemie e rivolte (03 – 04– 05), indagati con l’occhio attento al più piccolo det-taglio ed alle stesse fisionomie dei personaggi; inoltrepaesaggi intricati e misteriosi, rappresentati con raramaestria, angoli suggestivi di rocce marine brulicantidi barche di pescatori.

Seppure da collocare tra i minori, in un secolo cosìricco di superstar, bisogna concedergli almeno il pri-vilegio di essere considerato “il maggiore dei minori”.

I grandi napoletanisti lo hanno infatti sempre apprez-zato, tra questi il compianto professor Raffaello Causa,leggendario re della nostra sovrintendenza, il quale da

giovane amava firmare le sue collaborazioni a quotidiani e riviste con lo pseudonimo di Micco Spadaro.Il nomignolo gli derivò dal lavoro dal padre, fabbricante di spade, nella cui bottega l’artista lavorò

alcuni anni, dilettandosi nel tempo libero a disegnare originali impugnature ed eleganti spadoni, finoa quando il genitore, contrario a queste sue inclinazioni, non lo mise alla porta, facendolo precipitarein un periodo di fame e disperazione, da cui si sollevò con l’ingresso, all’età di 18 anni nella famosabottega di Aniello Falcone, ove conobbe Salvator Rosa col quale si creò una profonda emulazione,dedicandosi entrambi agli stessi generi, allora molto richiesti da una committenza laica. Quadri di pae-saggio, scorci di marine, calca di popolo.

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Fig. 1

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Il Nostro fu attento osservatore delle stampe di Callot e di Stefano Della Bella, dai quali preseispirazione per le sue caratteristiche figurine allungate con la testa piccola e per il modo di assemblarei personaggi nelle composizioni più affollate.

Dal 1635 al 1647 Il Gargiulo collaborò colCodazzi, bergamasco, specialista in architetturefantastiche (fig. 6), che Domenico animerà con fi-gurine vivacissime; un sodalizio durato quasiquindici anni cementato da una fraterna amicizia,che riscosse un enorme successo tra una foltaclientela di collezionisti privati stanchi di soggettidevozionali e bramosi di adornare le proprie di-more con quadri di argomento profano.

Nello stesso periodo un vicendevole scambioculturale si ebbe tra Gargiulo e lo Schonfeld, unpittore tedesco che soggiornò a Napoli per un de-cennio, specializzato in soggetti biblici e scene dimartirio.

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Fig. 2 Fig. 3

Fig. 4 Fig. 5

Fig. 6

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Un lungo rapporto di lavoro è documentato tra lo Spadaro e i frati della Certosa di San Martino:nel 1638 affresca il Coro dei Conversi con finti arazzi, in preda ad un immaginario vento (fig. 7). Dal1642 al 1647 è incaricato di affrescare il Quarto del Priore con una serie di paesaggi in cui è palpabilel’influsso della pittura nordica. Il Gargiulo continuerà ad avere un legame preferenziale con i monacidella Certosa ove troverà rifugio e salvezza durante la terribile peste del 1656, che decimò la popola-zione napoletana e spazzò via un’intera generazione di pittori. Al termine del calamitoso morbo vollerappresentare lo scampato pericolo in un gigantesco ex voto “Rendimento di Grazia” (fig. 8), ricco disessantotto personaggi tutti rappresentati con precisione fisionomica, dal cardinale Filomarino allostesso pittore, che ci fornisce in questa tela il suo unico autoritratto, ai monaci dai volti rubizzi e gio-condi e dallo sguardo stralunato.

Partecipò con altri artisti della cerchia falconiana al-l’importante commissione per adornare il palazzo del BuenRetiro di Filippo IV a Madrid con soggetti di storia dell’an-tica Roma: committenza avvenuta nel 1635 per volere delconte di Monterey, viceré spagnolo a Napoli.

Nelle pale d’altare a figure grandi non si espresse ad al-to livello ed in questo campo è da considerare semplice-mente un minore stanzionesco (fig. 9).

Ben altra qualità il Gargiulo raggiunse nei quadri distoria e cronaca napoletana, popolata da santi, eroi e gentedella plebe, prelevati dalla coloratissima realtà dei vicolinapoletani. In tutte queste tele lo Spadaro ebbe modo dimanifestare le sue doti di brillante illustratore di episodi dicronaca ufficiale e popolare di alto contenuto drammaticoed emozionale, rilevando un interesse agli avvenimenti piùsignificativi della vita civile cittadina ed una partecipazionesincera ai destini di Napoli e dei napoletani; il tutto attra-verso un uso raffinatissimo e personale di macchie croma-tiche, dal denso impasto con una pennellata libera ed estro-sa, efficace nel descrivere i tempestosi sentimenti dell’ani-mo umano e lo scorrere ineluttabile degli avvenimenti.

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Fig. 7

Fig. 9

Fig. 8

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Scampato alla peste, come ci racconta il De Dominici, celebre biografo settecentesco al quale sia-mo debitori di tutte le notizie sull’artista, frequentò la bottega di un commerciante di quadri, un talAniello Mele, dove ebbe modo di conoscere i pochi pittori sopravvissuti dopo la terribile peste, traquesti Andrea Vaccaro, Giovan Battista Ruoppolo e soprattutto Luca Giordano, da cui trasse alcunielementi neoveneti che ingentilirono la sua pittu-ra, la quale acquisì colori più luminosi e più caldi.Le opere dell’ultimo periodo non sono numerosee tra queste la più famosa è la Circoncisione dellacollezione Molinari Pradelli.

Egli proseguì la sua attività fino agli ultimiani della sua vita come è testimoniato da una po-lizza di pagamento del 1670, reperita nell’archi-vio del Banco di Napoli, nella quale il pittore ri-ceve trenta ducati per un quadro raffigurante ilMartirio di san Gennaro (fig. 10), di palmi quattroper cinque (cm 100-125 circa), forse quello oggiin collezione della Ragione a Napoli.

Discepoli ed imitatori il Gargiulo ne ebbe tan-ti, a giudicare anche dall’enorme numero di qua-dri che di continuo, e spesso erroneamente, glivengono attribuiti. Tra gli allievi più significativi ricordiamo Ignazio Oliva, Giuseppe Piscopo e PietroPesce, quest’ultimo risorto di recente da un oblio secolare con alcune tele firmate comparse sul mer-cato antiquariale.

Ed infine vogliamo cogliere l’occasione per correggere l’anno della morte dell’artista, fino ad og-gi indicato su tutti i libri al 1675, come si evince da una lettera informativa sullo stato delle arti a Na-poli, fatta conoscere dal Ceci, che Pietro Andreini inviò al cardinale Leopoldo De Medici, in cui di-chiarava che “Micco Spadaro, pittore di figurine e di paesi, morì che sono tre anni”. Il Ceci ritenevache tale nota fosse stata inviata nel 1678, ma grazie alle diligenti ricerche del Ruotolo, pubblicate nel1982, si è identificato il giorno esatto nel 20 dicembre 1675, per cui la data della morte è lapalissianoche debba retrocedere al 1672, come da noi già suggerito da alcuni anni a pagina 100 della nostra ope-ra “Il secolo d’oro della pittura napoletana”.

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Fig. 10

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Una interessante aggiunta al catalogo di Antonio De Bellis

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/12/una-interessante-aggiunta-al-catalogo.html

Antonio De Bellis è, tra gli allievi di Stanzione, una figura fino a trenta anni fa quasi sconosciutaalla critica e della quale non possediamo alcun dato biogra-fico certo, essendosi dimostrato mendace il referto dedomi-niciano della data di morte. Egli si staglia prepotentementetra i più alti pittori del Seicento non solo «nostro» ma ita-liano. Un altro dei grandi del nuovo naturalismo napoleta-no, che medita ed opera, inizialmente, tra il Maestro degliannunci e Guarino, per poi virare verso Stanzione ed il Ca-vallino pittoricista.

Un artista minore nel limbo dei provinciali orbitantinell’universo stanzionesco? Troppo ricco è il panoramadella pittura napoletana di questi anni per poter assurgeread una posizione di preminenza, ma per De Bellis, alla lucedelle recenti scoperte del De Vito e di Spinosa, si deve al-meno parlare di un minore di lusso.

A conferma dell’autografia e come guida per la collo-cazione cronologica, vi è in molti dipinti il particolare cu-rioso che l’artista, al pari del Cavallino, ha la civetteria diauto ritrarsi più volte e nelle fogge più disparate, con trattisomatici che variano con lo scorrere implacabile degli anni.

Le stringenti affinità che intercorrono nella scelta dellesoluzioni compositive e nella tipologia dei personaggi raf-figurati, e le notevoli analogie con la Natività firmata Bar-tolomeo Bassante del Prado, avevano indotto il Prohaska a trasferire a questo autore una grossa partedella produzione del De Bellis.

L’identificazione della sigla «ADB» su di una roccia nel dipinto Lot e le figlie, oggi a Milanopresso la Compagnia di Belle Arti, ha fugato ogni dubbio ed ha permesso di assegnare definitivamente

al nostro artista tutto quel gruppo di opere che ilProhaska riteneva di Bartolomeo Bassante.

Un interessante inedito di grande qualità va adincrementare il catalogo di Antonio De Bellis: unAngelo custode (fig. 1) conservato in una collezio-ne privata di Modena, che richiama a viva voce lasua autografia grazie a calzanti confronti con operecerte dell’artista.

Il primo termine di paragone è costituito dal SanSebastiano curato dalle pie donne (fig. 2) del museèdes Beaux Arts di Lione, con il quale condivide ilmantello, identico non solo nel colore, ma anche nel-l’eleganza con cui sono definite le pieghe (fig. 3).

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Fig. 1 - De Bellis - Angelo custode

Fig. 2 - De Bellis confronto 1

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Il secondo raffronto va istituito, soprattutto peril volto sovrapponibile, con un’Immacolata Conce-zione (fig. 4) conservata nella seconda cappella asinistra dell’ingresso nella chiesa napoletana di SanCarlo alle mortelle, dove si trova il più importanteciclo di dipinti del De Bellis, che furono oggetto diuno studio approfondito da parte di Raffaello Causanel suo monumentale saggio sulla pittura napoleta-na seicentesca, pubblicato nel 1972 nel V tomo del-la Storia di Napoli.

Lo studioso annusò nel De Bellis la stoffa delpittore di razza, «sivigliano» a metà strada tra ilVelázquez e lo Zurbaran delle Storie di San Bona-

ventura. Egli esaminò i quadri della serie carolina con le storie del santo, nella chiesa dei Barnabiti diSan Carlo alle Mortelle e pensò, sulla falsariga del racconto dedominiciano, che i dipinti fossero statirealizzati durante la peste, per il crudo realismo di alcune scene quasi da reportage fotografico e perla constatazione di alcune tele lasciate incompiute: «non tutti siano di una stessa perfezione, percioc-ché, alcuni di essi non furono terminati ma dipinti alla prima, così restarono per sua immatura morte»(De Dominici). Il Causa ritenne di grande livello il San Carlo che comunica gli appestati e il San Carloche visita gli infermi. Stupendi brani di pittura tra i documenti più icastici della peste e tali da potergareggiare con i celebri bozzetti del Preti eseguiti per le porte della città. «Una figura, un ritratto, ungioco compositivo che rivela l’indipendente di gran classe, punto zenitale di una continuità di grandecultura locale» (Causa).

L’iconografia della serie è nuova ed originale ed alcuni episodi sono stati interpretati solo grazieal contributo conoscitivo che fornì Boris Ulianich, indiscusso pontefice degli studi agiografici. Alcuneimmagini sono straordinarie e soffuse da una struggente aria di malinconia e di tristezza, come il SanCarlo in preghiera con una caterva di cadaveri alle spalle, che rendeva ridicolo al confronto l’analogosoggetto «caramelloso e azzimato», dipinto quarant’anni prima dalla pittrice Fede Galizia per l’altaremaggiore. E che dire del dipinto ove il santo dà in carità il suo oro per sfamare i poveri, nel quale «ilritratto del prelato col sacchetto di scudi d’oro entra a buon diritto tra i personaggi più incisivi dellapittura seicentesca» (Causa).

La meteora del De Bellis sembrava che dovesse sparire in un attimo nei giorni tumultuosi dell’e-pidemia, ma il rinvenimento di alcune sue opere siglate e collocabili con certezza agli anni successivialla peste, tra il 1657 e il 1658, ci hanno dato la cer-tezza che l’artista aveva continuato a lavorare.

Il Bologna, sulla base di considerazioni stilisti-che, aveva già da tempo predatato di un ventennioil ciclo carolino, che in seguito, grazie a dei docu-menti reperiti dal De Vito presso l’archivio dei pa-dri Barnabiti di Milano, ha trovato una definitivacollocazione cronologica agli anni 1636-39.

La formazione del De Bellis viene spostataquindi alla metà degli anni Trenta, con un percorsodel tutto affine a quello seguito dal Cavallino, delquale è probabilmente coetaneo. In seguito dopo leesperienze vigorosamente naturaliste, negli anni

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Fig. 3 - De Bellis particolare 1

Fig. 4 - De Bellis confronto 2

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Quaranta sulla guida delle soluzioni dibrillante e luminoso pittoricismo delGrechetto e del Poussin giunse a risul-tati di così alta eleganza formale e ri-cercatezza cromatica da essere a lungo,nelle sue opere migliori, confuso conCavallino.

La tela in esame va di conseguenzacollocata cronologicamente intornoagli anni Quaranta, un momento felicenel suo percorso artistico.

Negli ultimi anni della sua attività,il De Bellis, per soddisfare le esigenzedi una committenza pubblica legata asoluzioni convenzionali di pittura reli-giosa di carattere devozionale, dovettevariare nuovamente il suo stile. Una

progressiva stanchezza ed uno scadimento di qualità si avvertono infatti nelle sue ultime tele come laTrinitas terrestris, siglata, nel santuario della Madonna di Sunj e la Madonna in gloria tra i Santi Bia-gio e Francesco d’Assisi, anch’essa siglata e conservata nella chiesa del convento dei Domenicani aRagusa, l’odierna Dubrovnjk, la quale per alcuni particolari topografici nella dettagliata pianta dellacittà è databile con precisione tra il 1657 e il 1658.

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Fig. 5 - De Bellis particolare 2

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Un inedito capolavoro di Giovan Battista Spinelli

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/11/un-inedito-capolavoro-di-giovan.html

Giovan Battista Spinelli, attivo fra il 1630 ed il 1660 circa, viene citato dal De Dominici, che pocolo conosceva, come l’ultimo dei sei discepoli dello Stanzione.

La sua personalità artistica ed il ricordo della sua opera si erano persi nel nulla, e solo negli ultimi40 anni grazie alle felici intuizioni del Longhi, agli accaniti studi del Vitztuhm e, più di recente, allapuntuale ricostruzione dello Spinosa è riemerso come una delle figure di spicco del Seicento napole-tano, facilmente riconoscibile non solo per la sua marcata abilità di disegnatore, ma principalmenteper le caratteristiche fisiche e fisionomiche delle sue figure: personaggi in preda a torsioni disperateed alla completa disarticolazione delle forme, immersi in un impasto furente percorso di umori miste-riosi, agitati da una elettrizzante energia interiore e gesticolanti come marionette impazzite.

Dopo essere stato per secoli ignorato dalla cri-tica, lo Spinelli (del quale non conosciamo i datibiografici, ad eccezione di notizie sulla sua fami-glia, di origine bergamasca, ma residente a lungoa Chieti) è riapparso come un’artista originale efuori dagli schemi convenzionali, suggestionatoda un mondo di immagini antiche, che gli perve-nivano attraverso lo studio appassionato, anche sedisordinato, delle incisioni dei manieristi nordici,da Luca Di Leyda a Goltius, da Matham ad Alde-grever.

Ad un certo punto del suo percorso artisticovi è un chiaro richiamo a modelli compositivistanzioneschi con una pittura ampia e rischiarata,e questa ripresa di elementi napoletani possiamocoglierla soprattutto nelle due tele degli Uffizi,capolavori assoluti del Seicento europeo: ilTrionfo di David accolto dalle ragazze ebree eDavid che placa Saul, in cui stringenti affinitàispirative, come ben intuì il Longhi, possono co-gliersi con le tele stanzionesche con Storie delBattista, oggi al Prado, ma anche in pale d’altareper chiese abruzzesi e dipinti da cavalletto percollezioni napoletane, come nel caso del dipintodi collezione Lemme a Roma.

Questo momento creativo è però semprecontraddistinto da marcati caratteri di autonomia culturale e da segni di energico vigore formale e diaccentuata sensualità come se lo Spinelli, in preda ad una eterna sovraeccitazione, desse luogo a stra-volte tipizzazioni fisionomiche, caratteristiche di un pittore inquieto, bizzarro ed anticonvenzionale,capace di recepire influssi diversi, ma di esprimere sempre una cifra stilistica personale originalissi-ma. E questo aspetto della sua pittura sarà sempre molto evidente anche negli ultimi anni della sua

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Fig. 1 - Giovan Battista Spinelli

Madonna con Bambino

Roma collezione Lemme

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attività, quando più marcati si faranno gli slittamenti verso soluzioni di temperato classicismo acca-demizzante.

La Madonna col Bambino della collezione Lemme, collocabile cronologicamente agli anni Qua-ranta, si ispira a dipinti prodotti in quel periodo da Massimo Stanzione, ma rispetto allo stile dell’il-lustre collega, lo Spinelli si pone in una posizione di originale autonomia, accentuando sino all’ec-cesso l’aspetto bizzarro e la cura della scenografia, prediligendo una gamma cromatica raffinata e se-lettiva, spesso virando verso tonalità fredde ed azzurrine, mentre il trattamento del chiaro scuro, ri-chiama le esperienze del naturalismo napoletano di seconda generazione.

Il tema della Madonna col Bambino, a figura intera o di tre quarti, lo troviamo più volte ripetutoin una serie di disegni, conservato a Firenze nella raccolta degli Uffizi, nei quali, più chiaramente chenei dipinti, emerge l’indole manierista del pittore e la sua passione per gli esempi della tradizione cin-quecentesca flandro germanica.

In più di un foglio tra quelli conservati nel Gabinetto dei disegni e delle stampe fiorentino (10959– 10960 – 10963 F) sono rappresentati la figura di una Madonna col Bambino o forse di una semplicedonna con in braccio il figlioletto, che possono rappresentare studi preparatori per un dipinto moltosimile a quello in esame, più che esercitazioni di un estro grafico fuori del comune.

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Un gioiello poco noto: la chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/11/un-gioiello-poco-noto-la-chiesa-di-s.html

Nel casale di Villanova vi è la chiesa di Santa Maria della Consolazione (fig. 1) dalla spettacolarepianta esagonale, realizzata nel 1737 da Ferdinando Sanfelice, regno incontrastato per oltre cinquantaanni del leggendario parroco Giuseppe Capuano, morto in odore di santità.

Una chiesa di grande interesse, fuori dagli itinerari turistici e sconosciuta anche ai cultori del no-stro patrimonio artistico, frequentata solo dai fedeli, tra i quali le mie zie: Giuseppina, da poco cente-naria, Elena e Adele ed alla quale sono particolarmente affezionato, perché il parroco di cui sopra eraun mio pro zio e fra cento anni o pocopiù mi piacerebbe si celebrasse il miofunerale.

L’interno (fig. 2) è allegro, moltoluminoso e sembra sollecitare una pre-ghiera di ringraziamento più che unasupplica. Ha una storia alle spalle, masoprattutto un segreto da svelare.

La storia è semplice e lineare:Eleonora Piccolomini, principessa diBisignano, nel 1488 fece erigere nelsuo fondo una cappella. In seguito nel1537, a seguito di lasciti e donazioni,venne unita a due chiesette in rovinapoco distanti: San Giovanni Battistafuori Porta Posillipo, già proprietà deiGuindazzo, donata agli Agostiniani in-torno al 1500 e San Pietro.

La chiesa attuale sorge dunque daquesto incontro e ne fa fede un pregevole bassorilievo di scuola del Donatello, conservato in sacrestia,datato 1510, che raffigura la Madonna tra San Giovanni Battista e San Pietro.

La veste attuale prese corpo poi nel 1737, dopo i danni causati da un terremoto, ad opera del ce-lebre architetto già citato, il quale da tempo era impegnato con gli Agostiniani nella realizzazione delconvento di San Giovanni a Carbonara.

Il risultato entusiasmò il De Dominici il quale affermò: ”che prospetto così vago e accordato, piùbello non si può desiderare”. Infatti il Sanfelice adottò una soluzione rivoluzionaria per quell’epoca,collocando su sei pilastri, nell’interno esagonale con tre finestroni, un’unica struttura di copertura contre capriate in legno, una finta volta incannucciata e tegole.

La facciata, col corpo centrale aggettante fra due rientranti, preannuncia l’andamento planimetricointerno e sicuramente fu modificata nel corso del restauro cui seguì la consacrazione nel 1853, per cuidello stile dell’architetto non conserva che il finestrone.

L’interno rappresenta invece un accattivante esempio di spazio, molto luminoso, modellato daforme geometriche ossequiose della lezione del Borromini. Si può osservare un alternarsi di paretipiane e di pareti curve che sottolinea il dinamismo plastico accentuato dalla presenza della doppia pa-

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Fig. 1 - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione a Villanova

(facciata)

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rasta, in modo che l’ordine architettonico accompagni il disegno planimetrico delle pareti: anche latrabeazione, allora, si incurva per accogliere la calotta che completa la piccola abside. Ampi finestroniinondano di luce l’ambiente illuminando i delicati stucchi (fig. 3), di alta qualità e di gusto rococò,che decorano la bella volta esagonale, il cui disegno geometrico è accentuato dai bianchi costoloniche si affiancano sulle vele grigie.

A completare l’insieme concorreva il pavimento, in cotto e ceramica, non più presente e l’altaremaggiore (fig. 4) in lussureggianti marmi policromi, sovrastato da un’opera proveniente dalla chiesa pre-cedente: una tavola della prima metà del Cinquecento, raffigurante la Madonna col Bambino (figg. 5-6).

Alla vecchia chiesa appartengono anche i bassorilievi marmorei del lavabo conservato in sacre-stia, ricomposti nell’attuale contesto nel 1575, ma risalenti ai primi anni di quel secolo.

Al momento della ricostruzione sanfeliciana risalgono i due spettacolari pendant eseguiti da PaoloDi Majo, che accolgono gioiosamente il visitatore. Essi raffigurano la Natività (fig. 7) e la Madonnacol Bambino con i santi Agostino, Monica, Gennaro ed Antonio. Ignorati nell’unica monografia sulpittore, scritta dall’illustre studioso Mario Alberto Pavone, sono due autentici capolavori, eseguiti ne-gli anni in cui l’artista lavorava presso la bottega del Solimena, quando questi era intento ad approfon-dire la sua esperienza in senso classicista. Essi sono la testimonianza della predilezione del Di Majoper formule geometrizzanti e la ripresa di elementi culturali neocinquecenteschi, in opposizione alle

contemporanee proposte di Domenico AntonioVaccaro. L’adesione del pittore alle direttive ec-clesiastiche, volte a depurare le immagini sacre daogni pur minimo carattere di laicità e interessatealla diffusione del culto mariano, si manifesta pie-namente nei due dipinti in esame.

Del 1639 sono due pannelli ad olio conserva-ti ai lati dell’altare, entrambi siglati ed uno data-to. A grandezza naturale rappresentano Sant’A-gostino (fig. 8) e San Giovanni Battista (fig. 9).Di mediocre qualità, mostrano l’artista suggestio-nato dalle coeve esperienze di ambito iberico, so-prattutto il Battista ricorda in qualche aspetto leaffilate impostazioni disegnative di Zurbaran. In-

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Fig. 2 - Napoli, chiesa di S. Maria

della Consolazione a Villanova (Interno)

Fig. 3 - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione

a Villanova (stucchi della volta)

Fig. 4 - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione

a Villanova (Altare)

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Fig. 7 - Paolo di Majo - Natività - Napoli chiesa di

S. Maria della Consolazione a Villanova

Fig. 8 - Giuseppe Marullo - S. Agostino

siglato e datato 1639 - Napoli chiesa di S. Maria

della Consolazione a Villanova

Fig. 5 - Napoli, chiesa di S. Maria della Consolazione

a Villanova (tavola cinquecentesca)

Fig. 6 -Napoli chiesa di S. Maria della Consolazione

a Villanova (tavola cinquecentesca)

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flusso della cultura spagnola che ritroveremo an-cora in alcune delle tele del Marullo, come nellaPesca miracolosa, nella quale è tangibile lo stiledel Greco nella definizione delle figure allungatee spigolose.

Dopo la storia e la descrizione dei dipintipassiamo a rivelare il segreto che nasconde lachiesa e che venne scoperto in occasione del ter-remoto del 1980, quando una parte del pavimentocrollò, mettendo in mostra antiche mura, così de-scritte in una relazione che abbiamo reperito trapolverose carte nell’archivio della Soprintenden-za: “ parte di una pavimentazione in cotto maio-licato e in marmo di età quattrocentesca, resti dimurazione intonacata, frammenti di lesene cin-quecentesche scolpite” e ancora decorazioni pa-rietali che conservano il colore ed una lapidemarmorea con stemma e sedile di pietra (fig. 10).Sulla tomba si legge chiaramente Ioannes neapo-litanus… 1545. Finalmente una data certa, oltreal pavimento della cripta simile a quello cinque-centesco della chiesa di San Giovanni a Carbona-ra(entrambe dell’ordine degli Agostiniani), sap-piamo che Giovanni Napolitano giace lì dal 1545e da una trentina d’anni in buona compagnia, per-ché quando nel 1982 i lavori di consolidamentomisero alla luce una ventina di scheletri prove-nienti da una fossa comune, il parroco di allora,don Enrico, volle dar loro una più onorata sepol-tura, mettendoli nella tomba del napoletano pri-vilegiato, una decisione misericordiosa in apertocontrasto con le usanze secolari, che hanno sem-pre previsto un ossario comune per i poveri ed ilmonumento funebre per il nobile o quanto menoper il ricco.

Nella pianta Carafa del 1775 sono già ben vi-sibili i villaggi di S. Strato, Portaposillipo e Villa-nova ed il percorso dell’attuale via del Marzano,all’epoca chiamata Malefioccolo. Poco è cambia-to da allora, una certa atmosfera paesana soprav-

vive in queste stradine e nella piccola piazza antistante la chiesa di Villanova, mentre da sempre ilparroco, che conosce tutti, termina il suo ufficio con la frase: “la Messa è finita, andate in pace e buonaserata”.

Consigliamo, dopo la visita alla chiesa, percorrendo alcune centinaia di metri, di fare la conoscen-za di un luogo mitico: il Canalone, del quale molti napoletani hanno sentito parlare, pochi sanno lo-calizzarlo, quasi nessuno lo ha mai percorso.

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Fig. 9 - Giuseppe Marullo- S. Giovanni Battista

siglato - Napoli chiesa di S. Maria

della Consolazione a Villanova

Fig. 10 - Napoli chiesa di S. Maria della Consolazione

a Villanova (cripta)

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Per me esso era leggendario perché mia madre, da bambina, siamo negli anni Venti del secoloscorso, lo scendeva e saliva ogni giorno per andare a scuola, cosa impensabile oggi che non facciamoun passo per nessun motivo, condannandoci anzi tempo ad obesità ed arteriosclerosi.

Questo tortuoso tragitto (per il Tuttocittà Salita Villanova) mette in comunicazione via Manzonicon via Posillipo, attraversando da sotto via Petrarca all’altezza della chiesa dei Gesuiti.

Il primo tratto (fig. 11) è a gradoni, che dolcemente scendono a valle, costeggiando lussureggiantigiardini dove il tempo pare si sia fermato, il secondo (fig. 12) è una serie di ripidi scalini che in unbattibaleno conducono all’arrivo.

Per tutta la passeggiata, che dura non più di quindici minuti, scorci di panorama mozzafiato edangoli bucolici inaspettati. Bisogna però tollerare un po’ di rovi ed un po’ di spazzatura portata dallapioggia, ma di monnezza, almeno in questi ultimi tempi, forse ne troviamo altrettanta nella elegantee centralissima via dei Mille.

Questa originale passeggiata ha costituito l’ultimo appuntamento della stagione 2008 per gli Ami-ci delle chiese napoletane, i quali, dopo lo scarpinetto si rifocillarono abbondantemente, a prezzo fis-so, in un famoso ristorante, brindando alla cultura, osannando il presidente (il sottoscritto) e dandosiappuntamento a settembre per un nuovo ciclo di visite delle bellezze napoletane; purtroppo hanno do-vuto attendere 7 anni prima di godere di nuovo, apprendendo con gioia le bellezze della nostra amataNapoli.

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Fig. 11 - Napoli, inizio del Canalone Fig. 12 - Napoli, parte finale del Canalone

Page 20: Pittura Napoletana del '600 e '700

Il mausoleo Schilizzi, una potenziale attrazione turistica

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/12/il-mausoleo-schilizzi-una-potenziale.html

Abito da mezzo secolo a Posillipo, ma solo ie-ri sono riuscito a visitare il mausoleo Schilizzi,l’originale monumento funebre in stile egizio, conannesso parco, che, con piccoli lavori di manuten-zione, potrebbe trasformarsi in una interessante at-trazione turistica, oltre a costituire un corroborantepolmone di verde per la popolazione alla disperataricerca di giardini dove trascorrere ore liete.

Sul finir dell’Ottocento doveva essere la tom-ba di una ricca famiglia livornese, ansiosa di ga-reggiare con i più potenti faraoni, è divenuto poida decenni un sacrario in memoria dei tanti gio-vani che hanno sacrificato la vita per la patria nelcorso della 1° guerra mondiale. Il panorama èmozzafiato, con Capri in primo piano, gli alberimaestosi, i prati numerosi, senza considerare lacalma serafica che emana da un luogo di memo-rie, che induce alla meditazione.

Cosa aspettano le istituzioni con una spesamodesta a restituirlo degnamente alla fruizione diindigeni e forestieri?

Fin qui abbiamo riportato il testo di una lette-ra che abbiamo inviato ai giornali napoletani conla speranza di smuovere le torbide acque della bu-rocrazia. Vogliamo ora aggiungere qualche noti-zia storica per gli appassionati delle ricchezze cul-turali ed artistiche napoletane.

La monumentale tomba inserita in uno splen-dido parco, dotata di una maestosa scalinata e diuno scorcio di panorama indimenticabile, fu co-struita alla fine dell’Ottocento per volere di Mat-teo Schilizzi, un banchiere livornese attivo in cittàquando Napoli era una capitale europea del com-mercio, il quale voleva una sontuosa sepoltura peril fratello Marco, scomparso prematuramente eper i suoi discendenti. Incaricò dell’opera l’inge-gnere Alfonso Guerra, che si adoperò alacrementeper circa 10 anni, ma dovette poi sospendere i la-vori per il sopravvenuto disinteresse del commit-tente.

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Fig. 1 - Mausoleo Schilizzi

Fig. 2 - Primo piano

Fig. 3 - Chiesa interna

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In seguito, grazie all’interessamento della contes-sa Martinelli, sarà il figlio dell’ingegnere Guerra, Ca-millo, a completare l’edificio, che verrà destinato apartire dal 1929 ad ara votiva per i caduti della Patria.Dopo quelli della Grande guerra, trasferiti da Poggio-reale, arriveranno quelli della 2° guerra mondiale edelle Quattro giornate di Napoli. A lungo e si vede an-cora la nicchia, ma è vuota, ha riposato in eterno Sal-vo D’Acquisto, prima che i suoi resti mortali fosserotrasferiti nella chiesa di S. Chiara.

A sentire gli abitanti del luogo, ogni tanto al tra-monto, sembra che il mausoleo si animi, si odonopassi ed altri rumori non identificati, molti credonoche sia il fantasma di Matteo Schilizzi che vaga in-quieto nel parco alla disperata ricerca di una degnasepoltura. Più probabile che sia la voce della città,che richiama al dovere i suoi amministratori, impe-gnati unicamente a spartirsi fondi e ad accaparrarsibiglietti omaggio per le partite del Napoli.

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Fig. 3 - Chiesa interna

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Novità su Giuseppe Bonito

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/12/novita-su-giuseppe-bonito.html

Dall’uscita della mia monografia su Giuseppe Bonito, nel 2014, a cui hanno fatto seguito due nuo-ve edizioni, con cadenza costante mi pervengono da parte di antiquari e collezionisti nuove segnala-zioni di dipinti, alcuni di notevole qualità, che quanto prima conto di pubblicare.

Inoltre richieste di conferma per opere di cui si è persa la memoria, come nel caso, alcuni mesi fa,di un docente universitario di letteratura italiana a Firenze, il quale stava curando la traduzione ed il

commento del resoconto di un viaggiatore del Grand Tour, che, negli ultimi anni del Settecento, avevaammirato “I giganti” del Bonito nella Reggia di Portici, dipinto per il quale non si conoscono docu-menti e che in ogni caso non è più in sede.

Oppure, un caso simile, quando ho letto un articolo su Il Mattino, nel quale, parlando di PalazzoGravina, uno dei pochi edifici napoletani che posseggono una facciata a bugnato, attualmente sede

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Fig. 1 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

Modena collezione privata

Fig. 2 - Bonito - Una famiglia numerosa - 175 - 114

Italia mercato antiquariale

Fig 3 - Bonito - I due dipinti a confronto

Page 23: Pittura Napoletana del '600 e '700

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Fig. 4 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(particolare 1) - Modena collezione privata

Fig. 6 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(particolare 3) - Modena collezione privata

Fig. 7 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(particolare 4) - Modena collezione privata

Fig. 5 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(particolare 2) - Modena collezione privata

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della facoltà di architettura, ma a lungo ufficio centrale delle poste, si accennava a degli splendidi af-freschi che ornavano i saloni, eseguiti, alcuni dal De Mura, altri dal Fischetti ed altri ancora dal Bo-nito. Anche questi non solo scomparsi, ma per i quali non esiste alcun documento di pagamento, no-nostante alcuni testi sui palazzi napoletani ne segnalino l’esistenza.

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Fig. 8 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(particolare 5) - Modena collezione privata

Fig. 10 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(blasone 1) - Modena collezione privata

Fig. 11 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(blasone 2) - Modena collezione privata

Fig. 9 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114

(particolare 6) - Modena collezione privata

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Infine la molla che mi ha spinto a scrivere sul pittore la visita di una collezione privata modenese,che, tra altri capolavori, conserva uno splendido inedito dell’artista, che potremmo chiamare: Una fa-miglia felice (fig. 1) e per le identiche misure potrebbe costituire il pendant di una tela (figg. 2-3) tran-sitata tempo fa sul mercato antiquariale.

Alcuni particolari della tela in esame sono di notevole qualità e sono classici dello stile del pittore,dal volto rubicondo della bimba che impugna una mela (fig. 4), mentre la sorella più grande (fig. 5)mostra una rosa, segno evidente per la simbologia dell’epoca che è in cerca di marito nonostante lagiovane età, il fratellino più piccolo sta tra le braccia della mamma (fig. 6) e gli altri due, più grandi-celli, ostentano già delle pompose parrucche (fig. 7).

Altri dettagli ci permettono di leggere i titoli dei volumi rilegati (fig. 8-9) sui quali si poggia or-goglioso il padrone di casa, libri di argomento colto, da Ippocrate a Socrate. Forse il nobile è un me-dico erudito, sicuramente un blasonato e sapremo quanto prima anche il nome della sua casata, appenasapremo identificare il suo blasone (fig. 10-11) con l’aiuto di Nicola Della Monica, esperto di araldicae del presidente del Circolo dell’Unione, che raduna nella sua storica sede, ospitata nei locali del Tea-tro San Carlo, ciò che resta della gloriosa nobiltà partenopea.

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Un grave lutto per gli studiosi del Seicento napoletano

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/10/un-grave-lutto-per-gli-studiosi-del.html

L’altro giorno ci ha lasciato, all’età di 91 anni, Giuseppe De Vi-to, dopo decenni dedicati al collezionismo, allo studio ed alla diffu-sione della cultura sul Seicento napoletano. Era coetaneo di Ferdi-nando Bologna, ancora sulla breccia e del compiano Raffaello Cau-sa, i due dioscuri della arti figurative all’ombra del Vesuvio.

In quaranta anni di riflessioni e trenta di scritti, confluiti princi-palmente nei volumi di “Ricerche sul ’600 napoletano” da lui fon-dato nel 1982 e pubblicati con cadenza annuale, ha contribuito a ri-conoscere la personalità di alcuni anonimi o poco indagati artisti,come il Maestro dell’annuncio ai pastori, per il quale era certo diaverne identificato l’identità.

Nutriva una venerazione verso la pittura di Luca Giordano e par-ticolare impegno ha dedicato alla Natura morta. Ha stimolato la ri-cerca archivistica di valenti specialisti, ha ospitato gli scritti di gio-vani studiosi, ha raccolto migliaia di documenti inediti e messo in-sieme una prestigiosa collezione di dipinti ed una consistente fotote-ca e biblioteca specializzata, tappa obbligata per chiunque voglia approfondire il Seicento napoletano.

“Tutto ciò che vado studiando ed accu-mulando intendo lasciarlo alle future genera-zioni che potrebbero trarne profitto”, amavaripetere, dimostrando le sue rare qualità dinapoletano generoso e disinteressato.

Egli nutriva un amore sviscerato verso lacultura della sua città d’origine, che ardevainesausto sotto l’aplomb anglosassone tipicodi certi Napoletani di un tempo, oggi semprepiù rari ad incontrarsi.

La sua lunga vita è divisa in due tronco-ni antitetici, prima ingegnere e brillante im-prenditore fino all’età di 50 anni, poi, divo-rato dalla passione per l’arte, studioso, me-cenate e promotore di fondamentali pubbli-cazioni.

Oggi Napoli, orbata di uno dei suoi figlimigliori, dovrebbe piangere e ricordarlo, mapurtroppo pochi napoletani lo conoscono, adifferenza della comunità internazionale de-gli storici dell’arte, per la quale egli ha rap-presentato una figura unica, irripetibile distudioso colto, operoso e cosmopolita.

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Giuseppe De Vito

Ricerche sul ’600 napoletano

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Un capolavoro di Hendrix van Somer

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/09/un-capolavoro-di-hendrix-van-somer.html

Ancora oggi se digitiamo su Google “Hendrick van Somer”, compaiono oltre 10 000 citazioni ela prima si riferisce ad un mio articolo del 2009: Hendrix van Somer due pittori in uno, nel quale sot-tolineavo la contemporanea presenza a Napoli di due artisti con uguale nome e cognome, uno, figliodi Barent ed un secondo, figlio di Gil. Il primo nato nel 1615 e morto ad Amsterdam nel 1684, il se-condo, nato nel 1607 e scomparso forse durante la peste del 1656, presente in città dal 1624.

Per Hendrick van Somer o Enrico fiammingo, come spesso si firmava, la critica ha ricostruito unpercorso artistico articolato con dipinti che, dopo un periodo di stretta osservanza riberiana, sfocianonel nuovo clima pittoricistico di matrice neovene-ta che maturò a Napoli intorno alla metà degli an-ni Trenta, un momento in cui cominciò a prevale-re il cromatismo sul luminismo. La sua pittura,che tradisce l’origine fiamminga e la dimestichez-za con i caravaggisti nordici, è caratterizzata dalviraggio della luce verso una pacatezza dei coloried un contenuto iconografico severo.

Di recente Giuseppe Porzio ha pubblicato do-cumenti e notizie sul pittore ed ha incrementato ilsuo catalogo con dipinti di qualità eccelsa, cheforniscono oramai l’immagine di un artista digrande valore, anche se ancora poco noto.

In questo breve contributo intendiamo pre-sentare uno splendido inedito, che abbiamo avutomodo di visionare a Torre Canavese presso laGalleria d’arte di Marco Datrino.

Si tratta di un Mercurio addormenta Argo suo-nando il flauto (Figg. 1-2-3-4), una tela di cospicuedimensioni (160 – 220), transitata tempo fa sul mer-cato con un’attribuzione a Pier Francesco Mola, unartista ticinese altre volte confuso con il Nostro.

L’attribuzione al Van Somer è più che certa,con la figura di Argo che ripropone una delle fa-mose Teste di vecchio conservate nel museo diCapodimonte.

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Fig. 1 - Hendrick De Somer - Mercurio addormenta

Argo suonando il flauto - Torre Canavese,

antiquario Marco Datrino

Fig. 2 - Hendrick De Somer - Mercurio addormenta

Argo suonando il flauto (particolare)

Torre Canavese, antiquario Marco Datrino

Page 28: Pittura Napoletana del '600 e '700

Molto curato è il paesaggio, al quale è dedi-cata una particolare attenzione, per cui possiamoaccogliere l’ipotesi del Porzio che sia stato ese-guito dal Vandeneynden, genero del pittore.

Concludiamo con una doverosa precisazione,scaturita dall’esame di alcuni documenti: la dizio-ne precisa del cognome è De Somer e non van So-mer, come fino ad oggi indicato sui principalicontributi sull’artista da Bologna a Spinosa.

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Fig. 3 - Hendrick De Somer - Mercurio addormenta

Argo suonando il flauto (particolare)

Torre Canavese, antiquario Marco Datrino

Fig. 4 - Hendrick De Somer - Mercurio addormenta

Argo suonando il flauto (particolare)

Torre Canavese, antiquario Marco Datrino

Page 29: Pittura Napoletana del '600 e '700

Una splendida scultura inedita di Nicola Fumo

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/09/una-splendida-scultura-inedita-di.html

Un celebre collezionista piemontese ci ha invitato a dare un nome all’autore di una splendida scul-tura lignea (figg.1-2-3) conservata da generazioni nella sua raccolta. Senza ombra di dubbio si trattadi uno degli esiti più alti mai raggiunti da Nicola Fumo, di cui, per chi non lo conoscesse, brevementeparleremo.

Nel vasto ed ancora poco studiato panorama della scultura in legno policromo nell’Italia meridio-nale tra Seicento e Settecento, accanto a Giacomo Colombo, vero e proprio caposcuola di quest’arteraffinata, ci sono una schiera di altri scultori al-trettanto bravi e significativi, tra i quali spicca ilnome di Nicola Fumo.

Nicola Fumo nacque a Saragnano di Baronis-si, a pochi chilometri da Salerno, nel 1647, morì aNapoli nel 1725. Grande fu la sua fama di sculto-re. Fu il vero rivale di Giacomo Colombo. La loroattività fu pressoché parallela. Si contesero laclientela a colpi di maestria scultorea. Fu una grangara quotidiana a chi riusciva a “piazzare” piùopere tra i grandi e piccoli committenti d’arte sa-cra. Di fatto inondarono di loro opere, devozionalie a volte anche seriali, tutto il Sud d’Italia fino aesportare alcuni grandi capolavori in Spagna. I lo-ro nomi erano conosciutissimi tra i grandi com-mittenti. Si ricorreva spesso a loro per le statue inlegno policromo più prestigiose per chiese e cat-tedrali. Il catalogo completo delle loro opere an-cora non esiste perché spesso emergono opere po-co conosciute o inedite che lo arricchiscono. Nonesistono libri monografici su questi due personag-gi: è prematuro scrivere la parola “fine” in meritoalla loro produzione artistica, perché vi è ancoratanto da scoprire.

I Fumo furono una dinastia di artisti, altriesponenti della famiglia furono Matteo, autore di una croce lignea nella Chiesa di San Giuseppe Mag-giore a Napoli e tre statue raffiguranti S. Tecla, S. Archelaa e S. Susanna. Antonio fu un illustre pittorediscepolo di Francesco Solimena. Di Gaetano, argentiere e ceramista, rimangono numerose opere perla Cappella del Tesoro di San Gennaro ed un piccolo San Michele in argento esposto al MetropolitanMuseum di New York.

La figura di Nicola Fumo è stata studiata, tra gli altri, soprattutto da Raffaele Casciaro e GianGiotto Borrelli, che ne hanno individuato numerose opere e dato un’interpretazione critica del suo sti-le. Non è chiara la formazione dell’artista, forse nell’ambito dello scultore Gaetano Patalano, certa-mente non è stato allievo del Fanzago come riferisce il De Dominici.

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Fig. 1 - Una splendida scultura inedita di Nicola Fumo

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Poco prima o intorno al 1675 l’artista si trasferì a Napoli. Tra le opere notevoli degli anni ’80 e’90 del Seicento vi sono sicuramente la nota “Assunta” per il Duomo di Lecce e il “S. Francesco diPaola” nella chiesa del Salvatore a Baronissi.

Nell’ultimo decennio del Seicento la produzione artistica di Nicola Fumo divenne particolarmenteimportante, al punto che alcune sue opere furono inviate in Spagna alla corte di Filippo V.

L’artista inviò nel 1698 in Spagna una «eccellentissima» statua di “Cristo Portacroce” (fig. 4),conservata a Madrid nella chiesa di S. Ginés, diverse statue della “Immacolata” (ad Almeida, nel

1697; a Antequera nel 1705) e la “Virgen de lasMaravillas” di Cehegín (prima del 1725). ”LaMadonna delle Meraviglie” è sicuramente unadelle opere più belle dello scultore. Definita damolto critici come l’emblema della bellezza fem-minile, fu trasportata su una nave che affondò neipressi del porto della cittadina spagnola. L’unicacassa sopravvissuta al naufragio fu quella conte-nente l’opera di Fumo. Gli abitanti subito appro-fittarono dell’evento per appropriarsi di una scul-tura che da allora tanto lustro ha dato alla loro co-munità, incantò generazioni di visitatori: la bel-lezza di un viso giovane e aggraziato con lostraordinario panneggio tipico del Fumo ha lette-ralmente estasiato tanti critici d’arte giunti appo-

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Fig. 2 - Madonna - (particolare)

Alessandria collezione privata

Fig. 3 - Madonna - (dopo il restauro)

Alessandria collezione privata

Fig. 4 - Cristo caduto portando la croce

Madrid chiesa di san Genesio

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sitamente nel paesino. Fiumi di inchiostro sonostati versati nel corso di più di tre secoli per un’o-pera di rara bellezza.

Le espressioni ed i ”movimenti” del corpo tan-to realistici quanto sorprendenti sono tra le specia-lità di Nicola Fumo. Facce espressive ed armoniose,sculture mai statiche; opere caratterizzate da unaperfezione raramente raggiunta nel corso della sto-ria. Tutte le statue della Chiesa del Convento Fran-cescano “Santissima Trinità” di Baronissi sono diNicolò Fumo. La Maria Assunta, ad esempio, saràuna delle specialità dell’artista: una si trova ad Avel-lino (fig. 5) dove il culto si rinnova ogni 15 agosto.

Nelle ultime opere del Fumo si respira unacerta “arietta” giordanesca e una buona libertàesecutiva, come nell’ “Arcangelo Michele” in S.Maria Egiziaca a Napoli e nella “Madonna delcarro” a San Cesario di Lecce. Nella sua opera sipossono rilevare anche influenze solimenesche, ariprova che tra pittori e scultori vi erano comun-que dei rapporti stilistici e influenze reciproche,spesso feconde e importanti.

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Fig. 5 - Madonna - Avellino cattedrale

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Dipinti inediti napoletani di attribuzione problematica

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/09/dipinti-inediti-napoletani-di.html

Continuamente da parte di collezionisti ed antiquari mi pervengono foto di dipinti da attribuire.In particolare di recente mi sono trovato in palese difficoltà ad assegnare correttamente una serie diquadri di notevole qualità, soprattutto le tre tele appartenenti alla collezione Marasini di Alessandria.

Esse sono una Maddalena (fig. 1), che pur mancando il patognomonico cono d’ombra sulla guan-cia sinistra, ritengo sia opera certa di Giuseppe Marullo, un artista ancora poco noto, in grado di rag-giungere talune volte esiti di notevole qualità.

Segue poi, sempre in collezione Marasini ad Alessandria, un’Assunzione (fig. 2), che mi sembra-va opera di un ignoto stanzionesco, fino a quando scorrendo una monografia su Pietro Novelli, ho tro-vato lo stesso volto, riprodotto in alcuni dipinti del pittore siciliano, attivo a Napoli e fautore dell’in-troduzione del pittoricismo in area partenopea.

Infine una Natività (fig. 3), da alcuni studiosi attribuita a Battistello Caracciolo e che a me vice-versa, dopo un restauro, sembra da assegnare alla fase caravaggesca di Bernardo Cavallino.

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Fig. 1 - Giuseppe Marullo - Maddalena

Alessandria collezione Marasini

Fig. 2 - Pietro Novelli -Assunzione

Alessandria collezione Marasini

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Più semplice attribuire a Giovan Battista Spi-nelli una splendida Madonna col Bambino (fig. 4)di recente entrata nella prestigiosa collezioneLemme a Roma.

Concludiamo con una serie di tele notevolidella collezione Badeschi di Modena.

Alle prime due: un Sacrificio di Isacco (fig.5) ed una Lucrezia (fig. 6) abbiamo dedicato duearticoli che vi consigliamo di consultare in rete di-

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Fig. 3 - Bernardo Cavallino - Nativitá

Alessandria collezione Marasini

Fig. 5 - Agostino Beltrano - Sacrificio di Isacco

Modena collezione Badeschi

Fig. 6 - Andrea Vaccaro - Lucrezia

Modena collezione Badeschi

Fig. 4 - Giovan Battista Spinelli

Madonna con Bambino - Roma collezione Lemme

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gitandone il titolo, rispettivamente: un Sacrificio di Isacco di Agostino Beltrano e una Lucrezia di An-drea Vaccaro di prorompente sensualità.

Segnaliamo poi ai nostri lettori una Maddalena (fig. 7) di Artemisia Gentileschi dai colori squillantie dal mantello elegantemente rifinito; una Estasi celeste (fig. 8), un bozzetto preparatorio per un affrescoeseguito da Mattia Preti durante il suo soggiorno modenese; un dipinto del Benaschi (fig. 9) e per con-cludere una tela (fig. 10) sulla cui attribuzione da decenni gli studiosi provano a fare un nome e che amio parere è opera di un ignoto caravaggesco nordico attivo a Roma nei primi decenni del Seicento

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Fig. 6 - Andrea Vaccaro - Lucrezia

Modena collezione Badeschi

Fig. 8 - Mattia Preti - Estasi celeste

Modena collezione Badeschi

Fig. 9 - Giovan Battista Beinaschi - Scena biblica

Modena collezione Badeschi

Fig. 10 - Ignoto caravaggesco nordico

Scena vetero testamentaria - Modena collezione Badeschi

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Una Lucrezia di Andrea Vaccaro dalla sensualità prorompente

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/08/una-lucrezia-di-andrea-vaccaro-dalla.html

Abbiamo avuto la fortuna di poter visionare una conturbante Lucrezia(fig. 1) della collezione Ba-deschi di Modena, assegnata dalla critica a scuola bolognese, che viceversa presenta tutti gli attributidel malizioso pennello dell’indiscusso specialista del decolté: Andrea Vaccaro, dal famoso “sottoin-sù”, il dolce girar degli occhi al cielo, alle labbra carnose, dall’epidermide alabastrina all’accurata de-finizione del seno, sodo e prorompente.

Godere della bellezza di un seno, anche se raffigurato dal pennello di un pittore è l’esercizio piùnobile che distingue l’uomo dalla bestia, la civiltà dalla barbarie, è la sintesi di una condizione umanaimmutabile, sospesa tra l’esaltazione dell’amoreed il terrore della solitudine, tra la gioia di viveree la paura di morire e ci aiuta ad affrontare più se-renamente l’angoscia dell’esistenza, a cogliernela bellezza e la fragilità.

Che cos’è veramente l’arte se non una guerra,una lotta contro la materia, un corpo a corpo conla forma e con l’idea. Perdersi nell’armonia delleforme e dei colori permette di addentrarsi in unmondo senza frontiere e ci dà la possibilità di es-sere felici nell’eternità della bellezza e dell’arte.Quale viaggio più avventuroso della serena con-templazione dei severi seni della Lucrezia bian-chissimi e luccicanti che irradiano una luce abba-gliante, che sembra stregare ed avvincere l’osser-vatore, il quale, rapito dalla bellezza del volto cor-rucciato e dalla vista degli splendidi seni non puòguardarla troppo a lungo senza desiderarla. I senidella Lucrezia sono fatti con una pennellata car-nosa, ricca, trasparente; essi sono eterni, sostenutidalla rigidità della materia impassibile. Non sideformano, né avvizziscono, archetipo immobiledella femminile bellezza. Rappresentano il portosicuro verso cui ogni uomo anela di fermarsi e ri-posare per sempre, preziosi come una boccetta dirare essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che arompersi si disperdono come polvere di talco. Alla vista di questi seni immortali è inevitabile per l’os-servatore cadere vittima della sindrome di Sthendal: una vertigine intensa ed interminabile, che pro-cura un sottile piacere dello spirito.

Per la clientela laica sia napoletana che spagnola il Vaccaro, in una tavolozza monotona con faciliaccordi di bruni e di rossicci, crea scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donnenelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente; diviene così il pittore della “quotidia-nità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga

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Fig. 6 - Andrea Vaccaro - Lucrezia

Modena collezione Badeschi

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della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosoficiletterari, o mode repentine, misurato nel disegno, intonato nei colori, consolante nell’illustrazione;Andrea ottenne il suo maggior indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austerae di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione” (De Vito).

Tra i suoi dipinti “laici”, alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione baroccache raggiunge talune volte un coro da melodramma.

Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore disacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo disposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalledita affusolate a ricoprire i ridondanti seni.Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante chefossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, diuna carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzi-care e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire ilmessaggio devozionale che ne era alla base.Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili benscelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tuttepiacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di ero-tismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con leloro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velatida una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungonoqualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.Le suesante, tutte espressioni di una terrena beatitudine.L’idea del martirio e della penitenza è sottintesa adun malizioso compiacimento e venata da una appena percettibile punta di erotismo. Queste eterne bel-lezze mediterranee dal volto sensuale ed accattivante fanno mostra del loro martirio con indifferenzae con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spetta-tore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza languida,serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delleloro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, pla-cando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno edesaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina.La pittura inqueste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave ed incantal’ossevatore.

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Un sacrificio di Isacco di Agostino Beltrano

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/08/un-sacrificio-di-isacco-di-agostino.html

Già attribuito al De Bellis, il Sacrificio di Isacco della collezione Badeschi (fig. 1) di Modena, èviceversa un autografo del Beltrano, da collocare cronologicamente intorno alla metà del secolo,quando il pittore, sull’esempio di Stanzione, arricchisce la sua esperienza naturalistica con soluzionidi preziosità cromatica, che lo accostano anche ai modi del Cavallino dopo il 1640.

L’iconografia in oggetto la troviamo in altre tele dell’artista, a partire da quella (fig. 2) conservatanei depositi di Capodimonte, attribuita al Beltrano da Bologna, che rientra tra gli esempi di ispirazionefalconiana, addolcita da vigorosi effetti cromatici, mentre luci nette sono adoperate per scandire il se-vero modellato.

Lo stesso soggetto è stato trattato altre volte dal Beltrano, con un registro però stanzionesco, sianel dipinto (fig. 3) di collezione De Lorenzo a Napoli, nel quale, oltre a riconoscere il caratteristicoangelo incontrato in precedenza in tante tele dell’autore, apprezziamo un paesaggio definito con gran-de cura e con una chiara influenza delle coeve esperienze maturate dal Gargiulo, che incontriamo an-che nella splendida tela (fig. 4) conservata a Salisburgo, firmata per esteso e datata 16.9., già segnalatadal Rolfs nel 1910.

Concludiamo mostrando un dipinto (fig. 5), conservato nei depositi della Gemaldegalerie di Dre-sda, probabilmente copia di un originale perduto.

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Fig. 1 - Sacrificio di Isacco

Modena collezione Badeschi

Fig. 2 - Sacrificio di Isacco

Napoli museo di Capodimonte

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Fig. 3 - Sacrificio di Isacco

Napoli collezione De Lorenzo

Fig. 5 - Sacrificio di Isacco - Dresda Gemaldegalerie

Fig. 4 - Sacrificio di Isacco

Salisburgo Residenzgalerie

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Un disegno inedito di Fedele Fischetti

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/08/un-disegno-inedito-di-fedele-fischetti.html

Questo disegno settecentesco di scuola napoletana, che raffigura un episodio della vita di Ales-sandro Magno, riprende con una variazione iconografica un tema già rappresentato in un dipinto delFischetti oggi appartenente alla collezione della Ragione a Napoli. Lo stesso tema è ricollegabile alciclo decorativo realizzato per il Palazzo napoletano dei duchi di Casacalenda.

Il disegno (fig. 1) si riferisce ad un episodio della vita di Alessandro Magno riportato da Plutarco,quando il condottiero, ammalatosi per essersi bagnato nelle acque di un fiume gelato, si affida con fi-ducia alla cura del medico Filippo sino a mettere la propria vita nelle sue mani, benché una lettera se-greta inviatagli da Parmenione accusi lo stesso Filippo di essersi accordato con Dario per avvelenarlo.

È noto un dipinto del medesimo soggetto attribuito a Fedele Fischetti che oggi fa parte della col-lezione della Ragione ( fig. 2 )

Questo disegno, che appare come opera finita piuttosto che come studio o bozzetto, potrebbe es-sere preparatorio per una stampa o per l’illustrazione di un libro, ma non può neppure escludersi unasua funzione di presentazione al committente di un progetto decorativo.

Del Fischetti si conservano anche alcuni disegni specificamente riferibili alle decorazioni del Pa-lazzo Casacalenda tra cui, nel Museo Hangierì, un bozzetto per l’episodio del Sogno di Alessandro eun’Allegoria di Giove in Olimpo con ai lati quattro Geni alati.

Un altro gruppo di disegni del Fischetti è posseduto dalla Società Napoletana di Storia Patria equi sarebbe utile un esame comparativo.

Notevole anche l’affinità, nell’uso dell’acquerello e nella definizione dei volti, tra questo disegnoed il foglio settecentesco conservato presso la Fondazione Pagliara a Napoli, attribuito ad un non me-glio precisato artista “solimenesco”. (fig. 3 ).

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Fig. 1 - Fischetti Fedele - Alessandro e il medico Filippo - 140 x 225 mm

disegno a penna, inchiostro bruno ed acquerello bruno - Torino collezione Cucchiara

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L’Artista

Fedele Fischetti (Napoli 1732 – 1792) siformò in ambito solimenesco nella bottega delBorrello ed aderì al classicismo romano di indiriz-zo batoniano.Lavorò tra il 1759 ed il 1766 nellechiese napoletane eseguendo tele di qualità noneccelsa.Questo interessante esponente del barocconapoletano si fa notare con le sue opere giovanilidal Vanvitellì, di cui rimarrà per tutta la vita un protègè impegnato come decoratore in numerosi palazzìnobiliarì della città e delle principali residenze reali fuori della capitale del Regno. In queste vaste de-corazionì a fresco, la tendenza a contemperare ì caratterì della locale tradizione figurativa, legata agliesempi del Solimena, del De Matteis, e del De Mura, con le nuove istanze classiciste e accademizzantitrovò gli esiti più brillanti.Tra le moltissime commissioni ricevute grazie al Vanvitelli spicca nel 1770l’incarico della decorazione a fresco di vari ambienti del palazzo napoletano della famiglia dei duchidi Casacalenda, al tempo in ristrutturazione dallo stesso Vanvitelli.Qui il Fischetti raffigurò, su preciseindicazioni dello stesso architetto, alcune Storie di Alessandro Magno; gli affreschi staccati nel 1922 enel 1956 dai saloni originari sono ora esposti nel Museo di Capodimonte. Nel 1771 lo stesso Vanvitelliaveva espresso parere favorevole alla sua ammissione tra i pittori che avrebbero decorato il palazzoreale di Caserta, e qui, tra il 1777-78 e il 1781, il Fischetti fu uno dei maggiori artefici accanto all’an-ziano Bonito.La ricerca di un linguaggio artistico più aderente alle nuove esigenze neoclassiche, liberodai legami con la tradizione, è presente con la stessa intensità così nella pittura come nella grafica.

Bibliografia

Fiengo G. – Documenti per la storia dell’architettura e dell’urbanistica napoletana del Settecento –Napoli 1977

Pisani M. – I Fischetti, in Napoli nobilissima, XXVII, pag. 112 -121 – Napoli 1988Spinosa N. – La pittura napoletana del Settecento. Dal rococò al classicismo, fig. 271, scheda 206 –

Napoli 1993della Ragione A. – Collezione della Ragione, pag. 44 – 45 – Napoli 1997

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Fig. 2 - Alessandro Magno e il medico Filippo – 49 – 75

- Napoli collezione della Ragione

Fig. 3 - Ignoto solimenesco - Le 4 parti del mondo

Napoli collezione Pagliara

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Il tema dell’Adorazione nel Maestro dell’Annucio ai pastori

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/07/il-tema-delladorazione-nel-maestro.html

Il tema dell’Adorazione dei magi, spesso in pendant con l’Annuncio ai pastori, è tra i più trattati dalNostro artista ed abbiamo numerosi esempi da segnalare, riferibili cronologicamente a vari periodi.

Il dipinto da cui partiamo per la nostra carrellata è quello (tav. 1) conservato a Napoli a palazzoZevallos, già della collezione del Banco di Napoli, il quale, prima di essere acquistato nel 1985, fu

presentato nel 1981, in pendant con un Annuncio ai pastori oggi in collezione Johnson, ad una impor-tante mostra antiquariale organizzata dalla Matthiesen Gallery e tenutasi a Londra nel 1981.

La monumentalità dell’impianto compositivo, ma soprattutto la tavolozza più ricca e vivace, oltrealla intensa luminosità della scena, inducono ad ipotizzare una datazione dopo il 1635, quando la ri-voluzione cromatica, che interessò la pittura non solo napoletana, ma anche romana, genovese e sici-liana, si instaurò sulla scorta degli esempi del Rubens e del Van Dyck.

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Tav. 1 - Adorazione dei magi - 127 - 180

Napoli collezione Banco di Napoli, palazzo Zevallos

Fig. 1 - Adorazione dei magi -120 - 170

Madrid già mercato antiquariale

Tav. 2 - Adorazione dei magi - 95 - 121

Valencia collezione privata

Tav. 4 - Adorazione dei magi - 134 - 103

Napoli antiquario Franco Febbraio

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Agli stessi anni appartengono anche le due versioni di Madrid (fig. 1) e Valencia (tav. 2) pubbli-cate nel 1985 dal Perez Sanchez, le quali presentano lo stesso schema compositivo riproposto con mi-nime varianti.

La stessa scena ruotata con il Bambinello sulla destra caratterizza una versione (tav. 3 - fig. 2)conservata in una collezione privata a Barcellona ed una (tav.4) presso l’antiquario Febbraio a Napoli,che fu esposta alla mostra Ritorno al Barocco.

Infine segnaliamo una tela (fig. 3), già presso la collezione Ruffo della Scaletta a Roma, dalla qua-le in epoca imprecisata fu ritagliata fa figura del re mago a sinistra (fig. 4) e residuò parte della com-posizione originaria, che diede luogo ad un autonomo dipinto (fig. 5).

Da espungere con certezza la tela (fig. 6) di proprietà dell’Università di S. Barbara in California,eseguita da un ignoto stanzionesco.

Anche del tema dell’Adorazione dei pastorici sono pervenuti diversi esemplari.

Tra questi uno dei più studiati è quello (tav. 5)conservato a Rimini nel museo della Città, al qua-le fu donato nel 1934 dalla nobildonna Elena desVergers de Touloungeen.

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Tav. 3 - Adorazione dei magi - 124 - 173 - Barcellona

collezione privata, già New York Sotheby’s 1993

Fig. 3 - Adorazione dei magi

Roma collezione Ruffo della Scaletta

Fig. 4 - Re mago - (frammento) 130 - 90

Roma collezione Marsicola

Fig. 2 - Adorazione dei magi - 124 - 173

Barcellona collezione privata

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Longhi riteneva che esso costituisse uno dei migliori modelli preparatori per la grande composi-zione che anticamente ornava la controfacciata della chiesa napoletana di San Giacomo degli Spagno-li. Citata dal Celano come opera di Bartolomeo Bassante e dal De Dominici, che ne sottolineava l’i-spirazione ai modi del Ribera, la composizione scomparve agli inizi dell’Ottocento, quando furonoeseguiti lavori di trasformazione dell’edificio che comprendeva la chiesa in palazzo dei ministeri, di-venuto oggi sede del municipio napoletano.

Esistono numerose altre versioni del dipinto: una presso Maitre Kohm a Bourg en Bresse, una se-conda (fig.7), più famosa e senza varianti rispetto alla precedente, a Firenze presso la Fondazione Ro-berto Longhi, una terza, più piccola e con molte varianti, è conservata a Valenza nella cappella dellaComunione della chiesa di San Tommaso, dove fa da pendant ad una Adorazione dei magi.

Alla tela di Rimini si potrebbe associare come pendant, avendo misure analoghe, l’Adorazionedei magi (tav. 3) di una collezione privata a Barcellona.

Tenendo conto delle dimensioni cospicue della tela in esame e delle altre prima citate, sarebbe piùopportuno considerarle tele autonome e non bozzetti preparatori.

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Fig. 5 - Adorazione dei magi

Roma collezione Marsicola

Tav. 5 - Adorazione dei pastori - 123 - 178

Rimini, museo della Città

Fig. 7 - Adorazione dei pastori

Firenze Fondazione Roberto longhi

Fig. 6 - Ignoto stanzionesco - Adorazione dei magi

S. Barbara University (California)

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Per quel che riguarda la cronologia, si puòragionevolmente ipotizzare che l’opera in que-stione segua la fase più strettamente naturalista evada a collocarsi in un momento di maggioreapertura pittoricistica, alla pari dell’Adorazioneconservata nel museo di San Paolo del Brasile(fig. 8, tav. 6), culminato nel trionfo cromaticoche può apprezzarsi nel dipinto (tav. 1) della col-lezione del Banco di Napoli.

La Pagano, nel redigere la scheda per unamostra, ritiene il Presepio di Rimini posteriorealla tela della Fondazione Longhi “perché ad unmaggiore addolcimento delle forme già presentenel dipinto fiorentino, si aggiunge un’aperturadel fondo in uno squarcio insolito fino a questomomento per il pittore, che ritroviamo identiconella citata Adorazione dei Magi (tav. 3) a Bar-cellona. Ulteriori riferimenti culturali possonoessere rintracciati nel giovane in preghiera ac-canto alla Vergine, che ripropone un rapportocon la cultura cavalliniana e nell’atteggiamentopiù decoroso delle figure con una particolare re-sa classicista nella raffigurazione del BambinoGesù”.

Ritornando alla tela conservata a San Paolodel Brasile, ricordiamo che essa fu donata al mu-seo nel 1950 e venne assegnata a Bartolomeo Pas-sante dal Soria l’anno successivo. Una datazioneproposta da vari autori è tra il 1625 ed il 1630, co-me pure qualche studioso, sulla base di un inven-

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Fig. 8 - Adorazione dei pastori - 177 - 206

San Paolo del Brasile, museo de arte

Tav. 6 - Adorazione dei pastori - 177 - 206

San Paolo del Brasile, museo de arte

Fig. 7 - Adorazione dei pastori

Firenze Fondazione Roberto Longhi

Tav. 8 - Adorazione dei pastori- 127 - 148

Gerusalemme, museo della custodia francescana

in Terra Santa

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tario, ha avanzato l’ipotesi che possa trattarsi del dipinto presente nel 1698 nella raccolta napoletanadi Francesco Montecorvino.

Un’altra notevole Adorazione è quella (fig.7–tav.9) della collezione Neapolis di Ginevra, che fuesposta nel 1999 presso la Walpole Gallery di Londra, collocabile cronologicamente verso la fine delterzo decennio.

Un’altra versione (tav.8) di notevole qualità è conservata a Gerusalemme, dove si trova da quandonel 1849 fu regalata dalla Spagna. Di recente è stata esposta ad una importante mostra organizzatadalla Galleria Canesso tenutasi a Lugano.

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Una mostra sul Seicento napoletano a Montpellier

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/07/una-mostra-sul-seicento-napoletano.html

100 dipinti esposti tra cui molti capolavori

Sembra assurdo che per ammirare i big del secolo d’oro, che nel Seicento fecero di Napoli unaindiscussa capitale delle arti figurative bisogna recarsi in Francia e non all’ombra del Vesuvio.

Infatti mentre a Montpellier, al museo Fabre, si inaugura una straordinaria mostra dedicata allapittura napoletana seicentesca: L’Age d’Or de la peinture a Naples, de Ribera a Giordano, giudicata

dal ministero francese tra le più importanti del2015, ricca di 84 dipinti di cui 28 provenienti damusei e collezioni private partenopee, a Napolisono anni che non si riesce ad organizzare unarassegna decente, degna delle memorabili esposi-

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Fig. 2 - Salvator Rosa - MarinaFig. 1 - Battistello Caracciolo - Ecce homo

Fig. 4 - Francesco Guarino - S. Agata

Fig. 3 - Andrea De Lione - Elefanti nel circo

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zioni degli anni passati, quando la sovrintendenzaalle Belle Arti era un’isola felice abitata da insolitititani, dal vulcanico Raffaello Causa al sovrano diCapodimonte Nicola Spinosa, da tempo in pen-sione e che guarda caso è l’organizzatore dellamostra transalpina di cui abbiamo accennato.

Il percorso espositivo è diviso in sei sezioni,partendo da Antiche immagini della città, per pas-

sare poi agli allievi del Caravaggio da Battistello Caracciolo (fig. 1) al Sellito, da Finson a Vitale.Un altro spazio: Tra naturalismo e classicismo, prende in esame i dipinti di Aniello Falcone, Fran-

cesco Fracanzano, Salvator Rosa (fig. 2) e Andrea De Lione (fig. 3), mentre un settore, dal nome La ten-tazione del colore, espone quadri del De Bellis, del Guarino(fig. 4) del Vaccaro e di Cavallino (fig. 5).

Dopo il tema Miti e realtà, si passa alla fasebarocca con le tele di Luca Giordano e MattiaPreti, che costituisce la punta di diamante dell’e-sposizione.

Il periodo esaminato va dalla venuta a Napolidel Caravaggio nel 1606 fino alla rivoluzione opera-ta dal Solimena poco prima del Settecento, passandoda un naturalismo tenebroso ad un classicismo viva-ce con punte di pittoricismo, prima della decisiva vi-rata in senso barocco, intorno al 1660, contrassegna-ta da dinamismo e vivacità della tavolozza.

I dipinti da ammirare sono tanti ed oltre agliautori citati vogliamo ricordare Micco Spadaro,acuto descrittore di cronaca cittadina, in mostra conla Rivolta di Masaniello e la celebre Peste (fig. 6)ed Andrea Belvedere con il suo intrigante Ipome-nee e boules de neige (fig. 7), con un grosso ramodi sambuco con efflorescenze bianche ed alcunecampanule che lambiscono uno specchio d’acqua.

Una mostra da non perdere e che ben vale unfine settimana nel sud della Francia.

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Fig. 6 - Micco Spadaro - La peste

Fig. 7 Andrea Belvedere Ipomenee e boules de neige

Fig. 5 - Bernardo Cavallino - Cantatrice

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La pittura di battaglia a Napoli nel Seicento

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Un genere che incontrò larga affermazione nella pittura napoletana del Seicento e lusinghiero suc-cesso tra i collezionisti fu la battaglia.

La nobiltà amava adornare le pareti dei propri saloni con delle battaglie raffiguranti singoli atti dieroismo o complessi combattimenti che esaltavano il patriottismo e l’abilità bellica, virtù nelle qualii nobili amavano identificarsi.

Anche la Chiesa fu in prima fila nelle committenze, incaricando gli artisti di raffigurare gli spetta-colari trionfi della cristianità sugli infedeli, come la memorabile battaglia navale di Lepanto del 1571,che segnò una svolta storica con la grande vittoria sui Turchi, divenendo ripetuto motivo iconograficopregno di valenza devozionale, replicato più volte per interessamento dell’ordine domenicano, devotis-simo alla Madonna del Rosario, la quale seguiva benevolmente le vicende terrene dall’alto dei cieli.

Altri temi cari alla Chiesa nell’ambito del genere furono ricavati dall’Antico e dal Nuovo Testa-mento, quali la Vittoria di Costantino a ponte Milvio o il San Giacomo alla battaglia di Clodio, argo-menti trattati magistralmente da Aniello Falcone, che fu il più preclaro interprete della specialità,“Oracolo” riconosciuto ed apprezzato, sul quale ha scritto pagine insuperate il Saxl nella sua opera

Battle scene without a hero, una acuta ricerca che non ha trovato l’eguale nell’analisi di altri grandibattaglisti del Seicento, quali Salvator Rosa o Jacques Courtois, detto il Borgognone.

A Napoli fu molto diffuso il sottile piacere della contemplazione delle battaglie presso masochi-stici voyeurs, che prediligevano circondarsi, non di procaci nudi femminili dalle forme aggraziate edaccattivanti o di tranquilli paesaggi, né di severi ritratti o di languide nature morte, bensì di gente chesi azzuffava a piedi o a cavallo, usando spade sguainate ed appuntiti pugnali, dando a destra e a mancaterribili fendenti “in ariosi e fumosi, sereni o temporaleschi, pianeggianti o collinari scenari, ideali co-munque per tali bisogne” (Bertolucci).

Francesco Graziani, detto Ciccio Napoletano, è un battaglista minore attivo tra Napoli e Romanella seconda metà del XVII secolo.

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Fig. 1 - Ciccio Graziani - Battaglia - 61 47

Napoli antiquario Febbraio

Fig. 2 - Ciccio Graziani - Battaglia - 61 47

Napoli antiquario Febbraio

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Egli probabilmente è originario di Capua perché in alcune fonti è ricordato come Ciccio da Capua.E poco noto al De Dominici, il quale non è certo se egli fosse il padre o un parente di Pietro Graziani,battaglista attivo nei primi decenni del XVIII secolo. Filippo Titi in una sua guida delle chiese romanecita due suoi quadri, ma oggi è visibile solo quello conservato nella cappella Cimini di Sant’Antoniodei Portoghesi, databile al 1683.

Gli inventari della quadreria Barberini, redatti nel 1686, accennano a suoi quadri di battaglia e dimarine, ma oggi non sono più identificabili.

Il Salerno, studioso dell’artista ed estensore della scheda nel catalogo della mostra sulla Civiltàdel Seicento a Napoli, gli assegna poche opere certe: due battaglie nel museo civico di Pistoia e quat-tro nel museo civico di Deruta, una delle quali porta sul retro della tela l’attribuzione del Pascoli «delGraziani eccellente pittore».

Alla mostra furono presentati come autografi due paesaggi della Galleria Doria Pamphily, in pre-cedenza assegnati ad un ignoto seguace del Dughet.

Tra gli antiquari napoletani è facile trovare delle tele, spesso di piccolo formato, ed a volte dipintisu rame, che possono ragionevolmente essere assegnati al Graziani, ma purtroppo la critica fa ancoramolta confusione rispetto all’opera di Pietro Graziani e di un altro pittore, stilisticamente vicino edancora da identificare.

Lo stile di Francesco Graziani è tagliente, con le figure dei soldati e dei cavalieri appena abboz-zate; il cielo sovrasta le battaglie, incombendo pesantemente con un cromatismo plumbeo di un rossocaliginoso, che sembra partecipe dello svolgersi tumultuoso degli avvenimenti.

Pietro Graziani, probabilmente figlio di Francesco, è attivo tra la fine del XVII secolo e gli inizidel XVIII. La sua pittura mostra un brio ed una scioltezza di tocco che è caratteristica già del Sette-cento. Gli si possono assegnare un gruppetto di opere che si differenziano in senso più moderno dallaproduzione di Francesco.

Il Chiarini si è impegnato nel 1989 nella ricostruzione del suo catalogo; in particolare gli ha attri-buito quattro battaglie di cavalieri, oggi nel museo civico di Prato, provenienti dalla galleria Martinidell’ospedale della Misericordia e Dolce, che in precedenza il Papini aveva ritenuto opera di ErcoleGraziani (1688 - 1765), un altro congiunto della dinastia del quale al momento sappiamo molto poco.

Dopo questo breve preambolo presentiamo due dipinti inediti di proprietà dell’antiquario Feb-braio di Napoli, (fig. 1-2) eseguiti da Ciccio Graziani, nei quali si possono apprezzare i caratteri stili-

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Fig. 3 - Carlo Coppola - Cavalieri in armatura a cavallo

Venezia Semenzato 2003

Fig. 4 - Carlo Coppola - Battaglia - 97 - 67

Napoli antiquario Febbraio

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stici del pittore, dalle figure dei protagonisti appe-na accennate con pennellate nervose senza parti-colare cura dei particolari, ai colori terrei della ta-volozza, in grado di produrre nell’osservatore unapartecipazione emotiva alla cruenta battaglia rap-presentata.

Pittore ancora poco conosciuto nell’ampiopanorama figurativo napoletano attivo intorno al-la metà del secolo XVII, Carlo Coppola fa partedella variegata bottega di Aniello Falcone, nellaquale occupava certamente una posizione di rilie-vo ed era benvoluto da tutti, come si evince dalleparole del De Dominici, che dell’artista ci tra-manda poche notizie a margine delle pagine dedi-cate al celebre maestro.

Oltre che notevole battaglista, egli fu abile anche nelle scene di martirio ed in quadri storici e divedute. Impregnato della cultura tardo manierista di Belisario Corenzio, ebbe due sfere di attrazione:il Falcone ed il Gargiulo.

Dal primo prende ispirazione per i quadri di battaglia e gli esempi del suo maestro sono utilizzaticome repertorio di immagini stereotipate, rese con toni caldi e colori scuri, mentre nei martiri e neiquadri storici le soluzioni di maggiore libertà pittorica e chiaroscurale, prelevate da Micco, sono moltomarcate.

Altri debiti culturali sono contratti con Callot,con il Tempesta, con Scipione Compagno e conAndrea Di Lione.

Egli fu attivo per oltre venti anni, dal 1640 al1665 ed il suo catalogo, interessante perché testi-monianza di un particolare momento storico e deigusti della committenza privata, è ancora da defi-nire, anche se molti suoi lavori sono siglati.

Ritorniamo alle parole del De Dominici: “Fe-ce assai bene di battaglie, e tanto che molte voltele opere sue si cambiano con quelle dello stessoMaestro, ma tanto i soldati, quanto i cavalli delCoppola hanno una certa pienezza più di quellidel Falcone, e massimamente le groppe de’ caval-li sono assai rotonde, il che a cavalli da guerra nonmolto conviene”.

Come sempre il celebre biografo riesce acu-tamente a definire lo stile di un autore ed a mette-re in risalto un aspetto importante della sua atti-vità, che ha contribuito a confondere parte dellasua produzione migliore con l’opera del maestro.

Infatti, nonostante l’abitudine di siglare le sueopere, la disonestà dei mercanti, abili col raschiet-to, ha spesso, non solo ai tempi del De Dominici,

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Fig. 5 - Carlo Coppola - Battaglia di ponte Milvio

80 - 100 - Roma collezione privata

Fig. 6 - Aniello Falcone - Battaglia (particolare)

Inghilterra collezione privata

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fatto passare per Falcone battaglie del Nostro, mentre più di una scena di paese, viene assegnata dallacritica al Gargiulo, compagno di bottega, che negli ultimi anni ha incontrato, grazie ad un’esaustivamonografia e ad una mostra molto curata, un cospicuo successo commerciale.

Un modo per riconoscere il pennello del Coppola nei dipinti non firmati è quello di osservare at-tentamente le terga e la coda dei suoi cavalli, presenti non solo nelle battaglie, ma anche nelle scenedi martirio.

Le prime sono sempre imponenti, poderose e di evidenza scultorea, mentre la coda è costante-mente vaporosa e ricchissima di crini, che arrivano fino a terra. Un dettaglio che, per la sua originalità,costituisce una sorta di sigla nascosta e che possiamo osservare nel Martirio di Sant’Andrea, di colle-zione romana, nella Lapidazione di Santo Stefano, passata nel 1994 sul mercato antiquariale, nellaCrocefissione di San Pietro, in asta presso Semenzato, Milano 1991, nei Cavalieri con armatura a ca-vallo (fig. 3), passato come De Lione in un’asta Semenzato del 2003 ed in opere forse di bottega, comela Scena di Battaglia, della raccolta de Bellis di Roma.

I suoi cavalieri indossano elmi piumati ed i destrieri si stagliano imponenti in primo piano, mentresullo sfondo la scena del combattimento è dominata da castelli turriti e paesaggi collinari.

Pienamente rispettati i caratteri di-stintivi patognomonici nei due ineditiche segnaliamo.

Il primo (fig. 4), una Battagliadell’antiquario Febbraio di Napoli, pre-senta in primo piano un cavallo dallagroppa poderosa e dalla coda vaporosache tocca quasi terra oltre al castelloturrito sulla sinistra.

Il secondo (fig. 5), di una privataraccolta romana, raffigurante la Batta-glia di ponte Milvio, deve la certezzadell’autografia, più che al cavallo ram-pante, ripreso di lato, al torrione sulla si-

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Fig. 7 - Aniello Falcone - Battaglia (particolare)

Inghilterra collezione privata

Fig. 8 - Aniello Falcone - Battaglia (particolare)

Inghilterra collezione privata

Fig. 10 - Battaglia - Napoli museo di Capodimonte

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nistra, identico a quello che compare in numerosiquadri siglati dell’artista.

Concludiamo presentando tre particolari (fig.6-7-8) di un dipinto inedito del Falcone, conser-vato in Inghilterra, nel quale si ripetono alcunidettagli costantemente presenti nei più celebri di-pinti dell’Oracolo delle battaglie.

Dalla montagna sullo sfondo, che possiamovedere chiaramente nel Sansone sconfigge i Fili-stei (fig. 9), siglato, di una privata raccolta ingle-se, al caduto in primo piano, che si può osservarenella celebre Battaglia (fig. 10) conservata nelmuseo di Capodimonte, al cavallo rampante inevidenza, mentre sullo sfondo si svolge cruento ilcombattimento, come nella Battaglia davanti adun castello (fig. 11) di una raccolta fiorentina.

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Fig. 11 - Battaglia dinanzi ad un castello

Firenze collezione privata

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Una splendida pala d’altare di Nicola Malinconico nella parrocchiale di Avella

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Una importante aggiunta al catalogo di Nicola Malinconico è costituita da una splendida quantomisconosciuta pala d’altare, firmata, conservata ad Avella nella Colleggiata di San Giovanni dei fu-stiganti, raffigurante la Sacra Famiglia in gloria con i santi Giovanni Battista, Giovanni Evangelista eSebastiano (fig. 1).

Prima di descrivere il dipinto accenniamo brevemente all’attività del pittore, attivo sia sul finir delSeicento che nel Settecento, rinviando chi volesse approfondire la sua conoscenza ai nostri scritti(tutticonsultabili sul web, digitandone il titolo), partendo da Nicola Malinconico pitture entro il Seicento,proseguendo poi con Nicola Malinconico un gene-rista da rivalutare, Nicola Malinconico pittore set-tecentesco ed infine alle pagine a lui dedicate nelSecolo d’oro della pittura napoletana: vol. V, pag.360, vol. VIII, IX, X, pag. 497 – 498 – 499.

Un allievo di Giordano che raggiunge note-vole autonomia e che gli studi recenti del Ravellie del Pavone hanno messo nella giusta luce è Ni-cola Malinconico (Napoli 1663-1727), figlio diAndrea, un modesto stanzionesco e fratello diOronzo, artista di minore talento.

Nicola fu versato sia nella natura morta che co-me pittore di Istorie, cui si dedicò maggiormente.Egli seguì il nuovo orientamento giordanesco, tuttogiocato sui toni chiari e si avvalse della sua «fre-schezza di colore, la onde dipinse opere così vive, ebelle che da taluno fu stimato il suo colorito più va-go di quello dello stesso maestro» (De Dominici).

La sua biografia viene presentata nelle «Vite»in maniera confusa sia nell’ambito dei discepolidello Stanzione, tra i quali vi era il padre, sia tra idiscepoli del Giordano. Il De Dominici non è te-nero con l’artista per via del suo antagonismo conil Solimena ritenuto, giustamente, pittore di primariga. In seguito altri biografi ne hanno valorizzato l’opera, come il Dalbono, che lo isola, assieme alDe Matteis, dal seguito giordanesco per porlo in bella prospettiva.

Per il suo percorso di generista sono da ricordare il suo apprendistato presso il Belvedere e la suaprima fatica di rilievo, la famosa Natura morta con pavone del museo di Vienna, firmata, che «nellasua esuberanza compositiva, nell’impasto ricco di colore e soprattutto negli sfondi con figure appenaaccennate e orlate di luce, si rifà direttamente ad una sensibilità per le forme opulente di timbro gior-danesco» (Scavizzi).

In seguito la critica, per stringenti affinità stilistiche, gli ha associato altre tele come le due dellaWalters Art Gallery di Baltimora ed un Giardino con fiori ed un putto pubblicato dal Salerno.

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Fig. 1

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Lasciati i frutti, il Malinconico siimpegnò nelle grandi composizioni dalrespiro giordanesco e le sue tele più an-tiche furono eseguite a Montecassinoin collaborazione con il Giordano, ilquale ebbe poi una serie di importanticommittenze da svolgere nella chiesadi Santa Maria Maggiore di Bergamodove, dopo aver spedito da Napoli lagrande tela Passaggio del mar Rosso,non potendo raccogliere l’invito adeseguire un vasto ciclo di decorazioni,lasciò tutti i lavori all’allievo predilet-to, il quale continuò a lungo anche sullabase di disegni del maestro.

Dopo la partenza del Giordano per la Spagna, il Malinconico assunse un ruolo fondamentale nonsolo nella divulgazione del verbo del maestro, ma anche nella diffusione in ambito meridionale dellenovità emerse dagli esempi del Solimena, con il quale sorse un certo antagonismo, sia nei lavori nellachiesa di Donnalbina, eseguiti tra il 1699 ed il 1702, sia in quelli eseguiti in San Benedetto a Chiaia,dove nel 1709 subentra al fratello Orazio da poco scomparso e realizza una Crocifissione ed una Vi-sione di San Benedetto.

Passiamo ora all’esame della tela della parrocchiale di Avella, nella quale i riferimenti ad altri la-vori dell’artista sono evidenti, per cui l’opera va collocata cronologicamente negli ultimi anni dellasua attività.

Puntuali raffronti con altre opere del Malinconico sono stati evidenziati da uno studioso localeCarmine Filomeno Accetta, a partire dalla parte superiore della composizione, dove le figure lateralirichiamano a viva voce quelle presenti nella Sacra Famiglia della chiesa di San Giuseppe a Chiaia,mentre il volto della Vergine è improntato al modello adottato nell’Adorazione dei pastori conservatain S. Maria la Nova. La figura del San Giuseppe rimanda a quella del Padre eterno nel Sacrificio diAronne della chiesa di S. Maria delle Grazie a Sorrento, mentre la S. Anna ripropone il prototipo ado-perato nel quadro della chiesa di San Giuseppe a Chiaia.

Passando ad esaminare la parte inferiore, possiamo osservare come il profilo del San GiovanniBattista rinvia a quello del Cristo raffigurato nella Certosa di San Martino, inserito in un percorso ti-pologico culminato nella Cacciata dei mercanti dal tempio della cattedrale di Gallipoli, della qualetempo fa pubblicammo un inedito bozzetto (fig. 2) della collezione napoletana di Mario Speranza. Isanti Giovanni Evangelista e Sebastiano vanno viceversa confrontati con le figure degli apostoli in gi-nocchio presenti nell’affresco con l’Assunzione della Vergine conservato nella sacrestia dei SS. Apo-stoli, realizzato nel 1726.

Possiamo concludere sottolineando come la figura principale della pala: la Vergine, risulta esem-plata partendo dai modelli mariani rappresentati nelle tele della chiesa della Croce di Lucca, succes-sivamente rielaborate in immagini relative all’Immacolata.

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Fig. 2

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Un museo etrusco presso l’istituto Denza a Posillipo

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Aumenta il numero dei musei a Napoli

Napoli è città ricca di musei prestigiosi con punte di diamante quali Capodimonte, San Martinoed il museo nazionale archeologico. A questo già vistoso patrimonio si aggiunge ora un piccolo museoetrusco grazie al Padre provinciale dei Barnabiti di Napoli, Pasquale Riillo, circa 800 reperti antichisono infatti visibili da marzo presso la sede dell’Istituto Denza a Posillipo. Allestito a cura dell’ar-cheologa dottoressa Fiorenza Grasso, il museo ospita reperti che appartengono al periodo collocabiletra l’età del bronzo e l’epoca imperiale e provengono dalla collezione di Leopoldo De Feis, databileverso la seconda metà dell’800, quando il padre barnabita li raccolse con la volontà di dotare il colle-gio fiorentino barnabita “Alle Querce” di un museo didattico dedicato a questa antica popolazione.Purtroppo per mancanza di fondi il collegio fu chiuso nel 2003 e la collezione fu conservata nei de-positi della sede barnabita di Firenze. Dopo un lungo periodo, con il trasferimento a Napoli del padreprovinciale dei Barnabiti, oggi i reperti sono esposti al pubblico e fruibili dall’intera città.

Una straordinaria occasione per conoscere le tracce di un ampio dominio, arrivato fino in Cam-pania.

L’insediamento etrusco Caudium rappresenta, infatti, una delle più importanti testimonianze degliEtruschi in Campania. Una realtà che coinvolge una vasta area, a partire dalle zone di Montesarchiofino alle terre dell’Agro Picentino dove sorgono Nola, Nocera, Ercolano, Pompei e tante altre impor-tanti città tra le quali Capua, che risulta essere una dei principali capoluoghi etruschi del territorio.

Un prezioso patrimonio storico e culturale che racconta dei Napoletani, della loro storia e delleradici da cui provengono. Una realtà che varrà la pena conoscere.

Gli Etruschi erano un popolo stanziatosi tra l’alto Lazio e l’attuale Toscana agli albori del VIIIsecolo a.C. L’Etruria, secondo Strabone, si estendeva sino al salernitano Agro Picentino, dove nac-quero le città di Nola, Nocera, Ercolano, Pompei, Marcina, Velcha, Velsu, Irnthi, Uri Hyria, Capua,tra cui quest’ultima era quella egemone.

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Fig. 1 - Ingresso istituto Denza Fig. 2 - Sarcofago con 2 figure

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Vivevano di un’arte propria, senza alcun influsso esterno, e prima dell’arrivo dell’imperialismoromano – la presa di Veio avviene nel 396 a.C. – ci hanno lasciato ceramiche, urne funerarie, pitture,tombe e altre testimonianze della loro cultura.

Ottocentoventicinque reperti, per gli amanti della precisione, che vanno dal 7° al 3° secolo avantiCristo. Di questi, 250 sono stati ritrovati nella zona di Orvieto e sono proprio d’epoca etrusca. Altri47, invece, sono reperti di origine sannitica provenienti dalla zona di Montesarchio. Questi ultimi sonopassati per mani di proprietari illustri come la reale famiglia D’Avalos d’Aragona. Coppe e brocchecon pregiati mascheroni decorativi con cinghiali e cavalli alati nei tipici colori nero lucente.

Tra i pezzi di maggior pregio l’archeologa Fiorenza Grasso, che si occupa della struttura, cita deicalici con decorazioni a cilindretto e delle brocche con decorazioni a rilievo di stile orientalizzante eribadisce l’importanza del fatto che gran parte degli oggetti esposti siano in ceramica di bucchero, ele-mento tipico dell’epoca trattata. La caratteristica di questo materiale, è quella di essere di un nero lu-cente all’esterno, in superficie, così come mantiene lo stesso colore anche al suo stesso interno, al suospessore, o in frattura così tecnicamente si indica. Altro pezzo da non perdere è un sarcofago in terra-cotta databile tra la fine del 3° e l’inizio del 2 secolo avanti Cristo, con una splendida raffigurazionedi una figura femminile riccamente ingioiellata.

Il museo è suddiviso in quattro sale che sono state anche attrezzate con appositi pannelli esplica-tivi e le visite gratuite avvengono tramite prenotazione.

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Fig. 3 - Sarcofago con figura muliebre Fig. 4 - Una sala con tabelle esplicative

Fig. 5 - Serie di ceramiche a figure rosse Fig. 6 - Reperti antichi

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Il primo e più consistente nucleo della colle-zione comprende reperti delle necropoli etruscheorvietane di Crocifisso del Tufo e della Cannicel-la, che in quel periodo erano in fase di scavo. Trai materiali di provenienza orvietana si segnala ungruppo di ceramiche di bucchero decorate a rilie-vo con soggetti orientalizzanti, ceramica proto co-rinzia e un’ampia selezione di graffiti etruschi suoggetti di bronzo e ceramica. Di eccezionale li-vello artistico è il sarcofago in terracotta con im-magine muliebre distesa su letto funebre, di cuiabbiamo prima accennato.

Il secondo più consistente nucleo della rac-colta è esito della donazione della famiglia D’Avalos, feudataria di Montesarchio, città sorta sull’an-tica Caudium, indagata da sporadiche esplorazione già nel corso del Settecento. I materiali provengo-no dalle necropoli cittadine del periodo arcaico; sono esemplificative le ceramiche di produzione cam-pana “a figure rosse” e fibule di bronzo di varie tipologie.

Il terzo nucleo più consistente è rappresentato dalle iscrizioni di epoca imperiale donate dal bar-nabita Luigi Bruzza e provenienti dal territorio romano. Tra gli altri materiali notevoli si indicano: unastatuina raffigurante la dea Minerva, dono della famiglia Strozzi, un gruppo di ex voto provenienti dalterritorio di Tivoli, un’urna cineraria di vetro e strigili di bronzo.

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Fig. 7 - Ceramica a figure rosse

Fig. 8 - Ceramica a figure rosse

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Uno splendido San Pietro di Francesco Fracanzano

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La bottega di Ribera in piena attività

Un collezionista di Reggio Emilia mi ha inviato la foto di uno splendido San Pietro (fig. 1), fa-cente parte in passato di una serie di apostoli transitato venti anni fa sul mercato e di cui fortunosa-mente sono riuscito a recuperare le immagini delle altre tele (fig. 2), tutte con le stesse dimensioni(100 – 74), le quali recano sul telaio il sigillo in ceralacca della raccolta di Ambrogio Ubaldo (1785 –1865), banchiere milanese e noto collezionista di armi e di dipinti, nel cui testamento e nei cui inven-tari, studiati da Simonetta Coppa, non vi è tracciadella serie in esame.

Dopo qualche anno sono comparsi pressol’antiquario Antonello Governale di Palermo unSan Tommaso (fig. 3) ed un San Filippo (fig. 4),sempre delle stesse dimensioni e con il sigillo del-l’Ubaldo, sotto un’attribuzione dubitativa a Clau-de Vignon.

Alla serie appartiene anche un San GiudaTaddeo (fig. 5), che richiama a viva voce un SanGiovanni Battista (fig. 6) pubblicato da RobertoLonghi nel 1959 sulla rivista Paragone (n. 109,pag. 58), come pure in passato qualcuno ha volutovedere una somiglianza tra il San Pietro ed unodei personaggi presenti in un Cristo e l’adulteratransitato nel 1993 a New York presso Sotheby,scon un’attribuzione a Stomer (fig. 7).

Dopo questo breve excursus storico e dopoaver precisato che il San Pietro reca sul verso unafirma apocrifa “Spagnoleto” (fig. 8) dobbiamo af-fermare che la serie sembra essere stata realizzatada più mani con derivazioni tratte da fonti diver-se, anche se il San Pietro appare diverso da tuttigli altri lemmi.

I dipinti trasudano anche in foto un inconfon-dibile afrore napoletano, per cui siamo certi che sono stati realizzati in quella straordinaria officina ditalenti che per anni fu costituita dalla bottega di Ribera e per quel che riguarda il San Pietro riteniamodi trovarci davanti ad uno dei massimi raggiungimenti di Francesco Fracanzano, uno dei suoi allievipiù dotati.

La rappresentazione di mezze figure di santi e filosofi, investigati con crudo realismo, fu una modanata nella bottega del Ribera a Napoli ed affermatasi poi anche in provincia grazie ai suoi discepoli, trai quali, con una rilettura originale, si annovera anche il sommo Luca Giordano, che più volte ritorneràsul tema nel corso della sua lunga carriera, dilatando oltre misura la sua fase riberesca, identificata er-

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Fig. 1 - San Pietro

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roneamente dalla critica con un periodo uni-camente giovanile.

Tra i più convinti seguaci del valenzanosi distingue Francesco Fracanzano, il qualenel 1622, dalla natia Monopoli, si trasferiscecon la famiglia nella capitale, entrando gio-vanissimo nell’ambiente artistico parteno-peo, grazie anche al matrimonio, celebratonel 1632, con la sorella di Salvator Rosa.

Lavorando con il Ribera ne recepì lastessa predilezione per la corposità della ma-teria pittorica e ripropose spesso i soggettipiù richiesti dalla committenza: studi di testee mezze figure di filosofi e profeti su fondoscuro. Nel convento e nella chiesa di San Pa-squale a Taranto si conservano una decina ditele raffiguranti il Redentore, apostoli e santianacoreti, tutti a mezza figura su sfondo scu-ro, che rivelano la mano di più artisti (vi èanche un dipinto firmato di Giordano, ag-giunto in epoca successiva), tra cui spiccaFrancesco, col quale probabilmente collabo-ra Cesare. Infatti in un paio di dipinti “la

massa pittorica appare più levigata, più morbida-mente plasmata e meno vibrante di vita. Qualcheindulgenza ad un gusto manieristico più abbocca-to, un certo compiacimento formalistico, un sen-so morale più allentato e molte concessioni di in-dole pietistica e devozionale che suggeriscono ilnome di Cesare come collaboratore, qui impres-sionato dalla prepotente personalità del fratello”(D’Elia).

Si tratta di poderosi personaggi vestiti di rudipanni, con attributi iconografici irrilevanti che so-lo con l’ausilio della fantasia ne permettono l’i-dentificazione con San Bartolomeo, San Simoneo San Matteo. Più facile riconoscere S. Andrea oil Redentore.

Sotto l’apparenza di santi scorre una galleriadi ritratti dal vero di rudi contadini e di fieri pa-stori, personaggi che vivono e lavorano ancor og-gi con fatica tra le pietraie delle Murgie e gli oli-veti del Salento.

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Fig. 3 - San Tommaso

Fig. 2

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Si tratta di un’iconografia inconsueta per glialtari severi delle chiese, che tradisce la commit-tenza di qualche alto prelato per la sua privataquadreria.

San Pietro assume l’aspetto di un filosofo,mentre San Simone somiglia ad un pensatore gre-co o ad un filosofo dell’antichità. Sono dipinti daiquali trasuda una profonda umanità che comunicaallo spettatore un messaggio di poderosa forza

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Fig. 4 - San Filippo Fig. 5 - San Giuda apostolo

Fig. 6 - Battistello - San Giovanni Battista Fig. 8 - firma apocrifa

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morale, senza indulgere ad un formalismo decorativo: un fondo scuro dal quale campeggia una figura,severa e bonaria allo stesso tempo, realizzata con una pennellata generosa, grassa e pastosa, quellache sarà definita tremendo impasto, piena di impeto e pregna di una luce rigorosa che penetra nellepieghe della fronte e nelle mani, forti e nodose.

Sono certamente tra le prime prove di Francesco, come si evince chiaramente nel San Bartolomeocon la sua intatta monumentalità, la sua dirittura morale, la sua ridondante materia pittorica che ri-chiama, e forse precede, le austere figure presenti nelle Storie di San Gregorio Armeno e in egual mi-sura il San Paolo che scrive l’epistola a Filomene, già nel coro del duomo di Pozzuoli, che Zeri cre-deva di Cesare, ma che, come già affermava l’Ortolani, è uno degli esiti più coerenti di Francesco.

Il De Dominici accenna all’attività del Fracanzano nella bottega del Ribera:”il maestro molto loadoperava nelle molte richieste di sue pitture... mezze figure di santi e di filosofi”.

Nessuno di questi quadri, attribuibili con un buon margine di certezza alla sua mano, è firmato odatato, probabilmente perché spesso dovevano passare per autografi del maestro e ad avvalorare que-sta ipotesi ci soccorrono di nuovo le parole del biografo ”il Maestro molto lo adoperava nelle molterichieste di sue pitture e massimamente per quelle che dovevano essere mandate altrove, ed in paesistranieri... egli è così simile all’opera del Ribera che bisogna sia molto pratico di lor maniera chi vuolconoscerlo... nell’esprimere la languidezza delle membra, nella decrepità dei suo vecchi.”

Il San Pietro in esame rientra pienamente in quella produzione di alta qualità che poteva tranquil-lamente reggere l’attribuzione al maestro.

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L’ostentazione del nudo nei dipinti mitologici del De Matteis

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2015/01/lostentazione-del-nudo-nei-dipinti.html

Cominciamo questa carrellata tra sederi ben esposti e poppe al vento nei dipinti con soggetto mi-tologico del De Matteis con uno splendido nudo eseguito prima del viaggio del pittore a Parigi: unaLeda e il cigno (tav. 1) che comparve alla vendita del giugno 1991 presso la Sotheby’s a Montecarlo,la quale, in qualche modo, anticipando per il soggetto illustrato e per la ripresa delle Veneri e di altrimodelli affini di Luca Giordano, altre composizioni con il mito di Danae del Museo di Detroit (tav.2), del museo di Bahia (tav. 3) e di una raccolta privata inglese (tav. 4), permette di cogliere le variantidi resa pittorica riscontrabili nella sua produzione prima e dopo il soggiorno parigino.

Questa ultima composizione fu probabilmente a conoscenza del Solimena, che la replicò con va-rianti nella piccola tela già presso la collezione Harris a New York.

Alla Leda ed il cigno, o probabilmente subito dopo, sembra appartenere, nel giro di pochi anni ecomunque prima del 1710, un nucleo numericamente consistente di prestigiose composizioni, come

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Tav. 1 - Leda e il cigno - 126 - 178 - giugno 1991

Montecarlo Sothebys

Tav. 2 - Danae - 97 - 125 - Detroit,

The Detroit Institute of Arts

Tav. 3 - Danae riceve la pioggia d’oro - 144 - 198

Valencia, Museu de Belles Arts

Tav. 4 - Danae - firmata e datata 1704

Inghileterra collezione privata

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una Galatea in coppia con un’Anfitrite già presso Corsini a Montecarlo (tav. 5 - 6), un Apollo e Dafnedi una privata raccolta a Berkley, California, l’Aurora con il carro del Sole (tav. 7) e il Trionfo di Ga-latea del castello di Pommersfelden, già assegnati variamente al Trevisani, al Marchesini o all’Ami-goni, prima che Schleier nel 1979 li restituisse al napoletano, la Venere dormiente (fig. 3), firmata, diuna raccolta romana, il Bacco e Arianna, firmato e datato 1709, di una collezione milanese, di cui (èsempre Spinosa a ricordarlo) al musée di Poitiers dai depositi del Louvre si conserva una tela di minoridimensioni, ma con lo stesso soggetto, anche se diversamente illustrato, la tela sempre con Bacco e

Arianna, firmata e datata 1709, presso Zecchini aMilano (tav. 8) e, infine, l’Andromeda nelle ver-sioni della collezione Stanley Goulde a Londra edel Museum of Art di Bridgeport.

Prima di proseguire il discorso, esaminandoaltre iconografie, approfondiamo l’esame delleversioni della Danae precedentemente citate par-tendo da quella (tav. 4) di collezione privata in-glese.

Il dipinto, firmato e datato 1704 sulla basedella colonna a destra, illustra un celebre mito, diorigine greca, ma raccontato anche da Ovidio nel-le Metamorfosi (IV,611) e rappresentato più volte,in versioni con varianti, da Tiziano, in particolare,e da altri pittori del Cinquecento come Correggioo Tintoretto.

Danae, figlia di Acrisio, re di Argo, era statarinchiusa dal padre in una torre o in una camerasotterranea in bronzo, affinché non restasse gravi-da e partorisse un figlio che, secondo la profeziadell’oracolo di Delfi, da grande lo avrebbe ucciso.Ma Giove, invaghitosi della bellissima giovane,trasformatosi in una pioggia di monete d’oro, riu-scì ugualmente a possederla, penetrando nella ca-

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Tav. 5 - Galatea - Montecarlo Galleria Corsini Tav. 6 - Anfitrite - Montecarlo Galleria Corsini

Tav. 7 - Aurora e trionfo di Apollo sul carro del sole -

151 - 125 - Pommersfelden

collezione Conte von Schonborn

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mera ‘blindata’ attraverso una fessura nel tetto. Dalla unione sarebbe poi nato Perseo, che involonta-riamente, anni dopo, avrebbe effettivamente ucciso il nonno Acrisio.

Nel Seicento il tema fu riproposto da esponenti di ‘scuole’ e tendenze pittoriche diverse, sia italianeche straniere (tra gli stranieri una citazione particolare spetta, ovviamente, a Rubens e a Rembrandt).

Nell’ambito della scuola napoleta-na, per la trattazione di questo stessosoggetto dalle evidenti allusioni eroti-che, ma non solo, per la tela qui in esa-me il riferimento più pertinente è, agliinizi del secondo Seicento e in ormaiavviata stagione barocca, a Luca Gior-dano. Del quale, anche se finora cono-sciamo, con la illustrazione del mito diDanae, solo un disegno a penna e ac-querello firmato, nelle raccolte grafichedella Galleria Estense di Modena, men-tre ancora non è stato rintracciato il di-pinto di palmi 2 ½ per 2, segnalato nel1688 nella raccolta di Ignazio Proven-zale duca di Collecorvino, sono ben no-te, per evidenti riferimenti ai celebriprototipi di Tiziano con raffigurazionisia del mito in argomento che di Veneredormiente, le varie rappresentazioni diVenere con satiro e Cupido o di Lucre-

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Tav. 8 - Bacco e Ariannna, firmata e datata 1709

66 - 155 - Milano collezione Zecchini

Tav. 10 - Galatea - 125 - 127 - firmato e datato 1692

Milano pinacoteca di Brera

Tav. 9 -Trionfo di Galatea - olio su rame - 48 - 39

Napoli antiquario Porcini

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zia e Tarquinio conservate a Napoli nelmuseo di Capodimonte ed Ginevra, incollezione privata, che di sicuro furonofonti d’ispirazione per molti pittori delsuo seguito napoletano, tra i quali lostesso De Matteis.

Un altro tema mitologico che per-mette di mostrare seducenti fanciullenature per la gioia degli osservatori è larappresentazione di Galatea come neldipinto (tav.9) già presso l’antiquarioPorcini di Napoli, dove il mare diventa

scenario per ambientare il racconto mitologico, costantemente sviluppato dall’artista. Questo preziosorametto rappresenta, infatti, un’ulteriore riflessione sul tema della Galatea, che l’artista tratta diversevolte, come nella più nota redazione (tav. 10) conservata a Brera, firmata e datata “1692”, e in alcunistudi preparatori del Metropolitan Museum di New York. In entrambi i casi l’artista sembra confron-tarsi col Giordano, da cui attinge in particolare la ricchezza scenografica del corteo di amorini e tritonie la versatilità narrativa che lo spinge ad accogliere nel racconto anche il giovane pastore Aci che ap-pare su una rupe ardente d’amore. Nella versione in esame, avvicinabile per la stretta affinità stilisticanonché iconografica ad un’altra redazione conservata nel Castello di Pommersfelden e databile nel

secondo decennio del ’700, la scena è concentrata sulla Galatea. La ninfa, date anche le piccole di-mensioni del supporto, avanza sola varcando il mare sul suo carro di conchiglia trascinata dai delfinie dalla ingegnosa ruota a pale di raffaellesca memoria. La levigatezza della materia e degli incarnatirisente della classicità marattesca, con cui l’artista si è confrontato a Roma, e la sua poetica ha ormaiimpreziosito la morbidezza ariosa del Giordano e virato il suo linguaggio verso una spiccata classicitàche avrà larga eco in Europa.

Ricordiamo infine con diverse iconografie un Loth e le figlie (tav. 11), un Trionfo di Nettuno edAnfitrite (tav.12) ed una Fanciulla sdraiata con Cupido, tutti in collezione privata.

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Tav. 11 -Loth e le figlie - Italia collezione privata

Tav. 12 - Trionfo di Nettuno e Anfitrite

(Bordighera, Fondazione Teruzzi)

Tav. 13 - Donna sdraiata con Cupido

Frosinone collezione Perrucci

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Da un tempio greco romano alla cattedrale di Pozzuoli

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2014/06/da-un-tempio-greco-romano-alla.html

Fin dal II secolo a.C. lo sperone tufaceo del Rione Terra, la rocca dell’antica Puteoli, era dominatadal Capitolium, il tempio dedicato alla triade celeste – Giove, Giunone e Minerva – venerata dai Ro-mani sul Campidoglio.

Questo complesso è di epoca molto antica e sorse probabilmente in epoca greca o sannitica comeCapitolium della città. Fu radicalmente ristrutturato in età repubblicana sino ad essere completementeriedificato in età augustea. Fu fatto erigere dal ricco mercante Lucio Calpurnio in onore dell’impera-tore Ottaviano Augusto, come riferisce un’iscrizione con dedica: L. Calpurnius L.f. templum Aug.cum ornamentis d.s.f. (Lucio Calpurnio, figlio di Lucio, dedicò a sue spese questo tempio ed il suoarredo ad Augusto), e fu costruito dall’architetto Lucio Cocceio Aucto sui resti di un precedente tem-pio di età repubblicana risalente al 194 a.C., che già era stato fatto restaurare da Silla nel 78 a.C. Laplanimetria dell’edificio puteolano corrisponde quasi perfettamente alla definizione di tempio pseu-doperiptero data dal celebre storico dell’architettura Marco Vitruvio Pollione nel suo trattato De Ar-chitectura e ne rappresenta uno dei migliori esempi, insieme alla Maison Carrée di Nimes e al tempiodi Apollo sul Palatino. I ritrovamenti archeologici compiuti in questi ultimi cinquant’anni nell’interaarea hanno indotto Fausto Zevi a ritenere che sulRione Terra abbiano operato maestranze sceltissi-me, formatesi direttamente sugli insegnamenti deigrandi cantieri augustei di Roma.

Si può quindi sostenere che se Puteoli nel IIsecolo a.C. poteva essere definita “Delus minor”per la straordinaria ricchezza dei suoi traffici, altempo di Augusto essa divenne una “parva Ro-ma”, per la magnificenza e l’eleganza dei suoiedifici.

Tra la fine del V e gli inizi del VI secolo i pu-teolani decisero di dedicare, come chiesa, questoedificio di età augustea al loro santo patrono Pro-colo. Il cristianesimo, del resto, era penetrato nei Campi Flegrei assai per tempo. Nel 61, quando l’a-postolo Paolo sbarcò a Pozzuoli nel suo viaggio verso Roma, vi trovò già una comunità di fratelli, se-condo l’autorevole testimonianza degli Atti degli Apostoli (28, 13-15)

Nel 1538 subì gravi danni a séguito dello sprofondamento di Tripergole e della conseguente na-scita del Monte Nuovo. Il vescovo Gian Matteo Castaldo lo restaurò, e per far fronte alla spesa occor-rente, ottenne dal pontefice Paolo III, con un decreto del 16 giugno 1544, la facoltà di vendere i benistabili della mensa vescovile fino al prezzo di 200 ducati d’oro.

Progressivamente il tempio perse la sua fisionomia finendo per essere quasi interamente inglobatoin fabbriche successive, spesso disorganiche, dettate unicamente dalle esigenze del culto.

Agli inizi del XVII secolo la diocesi puteolana fu governata da un vescovo spagnolo provenientedall’ordine agostiniano, assai ben introdotto a corte: monsignor Martin de León y Càrdenas. Uomocolto e raffinato, il de León aveva viaggiato fin nel Nuovo Mondo ed aveva vissuto per diverso tempoa Roma. Amico intimo del viceré di Napoli, Emanuel de Fonseca y Zunica, conte di Monterey, grazie

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Fig. 1 - La cattedrale dopo l’incendio del 1964

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all’aiuto di quest’ultimo poté coinvolgere nel suoprogetto di restauro del tempio di età augustea imigliori artisti del tempo.

Nel 1636 il vescovo Martín de León y Cárde-nas, in conformità ai dettami della Controriforma,diede avvio alla ricostruzione del duomo, che ter-minò nel 1647. Questo intervento fu progettatodall’architetto Bartolomeo Picchiatti con la con-sulenza artistica di Cosimo Fanzago. Dopo aversfondato la parete nord del tempio romano, fu rea-lizzato un nuovo coro e messo in collegamentocon la coeva sala Capitolare, che oggi si presentaricoperta da affreschi raffiguranti tutti i vescovi di

Pozzuoli fino al 1732. Inoltre, nel 1633, fu costruito un nuovo campanile, (demolito nel 1968, dal qua-le sono state recuperate tre delle sue quattro antiche campane).

All’interno del duomo fu realizzata una cappella adibita al culto dell’Eucarestia sormontata, al-l’esterno, da una cupola maiolicata e decorata internamente con marmi e, nei pennacchi della cupola,con la raffigurazione, ad affresco, dei quattro evangelisti, che, malgrado i recenti restauri, si presen-tano deteriorati. In origine presentava un altare in marmi policromi e un ciborio riccamente decoratocon lapislazzuli e altre pietre dure dei quali si sono perse le notizie da molto tempo.

Anche il resto del duomo fu arricchito dal de León con splendidi quadri di noti artisti dell’epoca,tra i quali si ricorda, innanzitutto, Artemisia Gentileschi, autrice delle tre tele San Gennaro nell’anfi-teatro di Pozzuoli, Santi Procolo e Nicea, Adorazione dei Magi. Questo fa della Cattedrale di Pozzuolinon solo una tappa fondamentale per chi voglia conoscere ed apprezzare la produzione artistica dellagrande pittrice, ma anche un raro esempio di luogo sacro cristiano ampiamente decorato (con un totaledi circa 18 metri quadrati di tela) da un’artista femminile.

Si aggiungono al notevole patrimonio della chiesa importanti tele di Giovanni Lanfranco, CesareFracanzano, Francesco Fracanzano, Agostino Beltrano, Massimo Stanzione e Paolo Finoglio.

Nacque così quella che Raffaello Causa chiama “una delle più alte e selezionate gallerie del Sei-cento nostrano”.

Il duomo invece, dichiarato monumento nazionale con regio decreto del 21 novembre 1940, di-venne basilica minore pontificia con bolla di Pio XII del 25 novembre 1959.

La navata centrale della Cattedrale vennecompletamente distrutta da un incendio, nellanotte tra il 16 e il 17 maggio 1964, divampatodall’altissimo tetto in legno che copriva la so-praelevata volta in incannucciato,così intenso dasviluppare un calore tale da calcinare anche imuri di pietra e i marmi antichi. La notizia,diffu-sa in tutto il mondo il giorno seguente, provocòallarme e sollecite reazioni, tra le quali l’imme-diato trasferimento delle tele salvate, provenientiper la maggior parte dal coro, in alcuni musei diNapoli come quello di Capodimonte e quello diSan Martino. Da allora, la chiesa di Santa Mariadella Consolazione svolse le funzioni di Catte-

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Fig. 2 - Esterno della cattedrale di Pozzuoli

Fig. 3 - Coro, volta ed altare maggiore della cattedrale

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drale e dal 1995 la moderna chiesa di San Paolo, nel quartiere di Monterusciello, quelle di concat-tedrale.

Il Rione Terra, entro il quale sorge la cattedrale puteolana, fu sgomberato nel 1970 per i danni su-biti a seguito di una crisi bradisismica, sebbene lo sgombero fosse richiesto anche per le pessime con-dizioni igieniche che vi albergavano. Rimase solo il Vescovo per salvaguardare lo svolgimento dei la-vori di restauro, iniziati nel 1968 e guidati dal noto museografo Ezio De Felice, ma gli intoppi buro-cratici e le difficoltà di reperimento dei finanziamenti, ritardarono enormemente l’esecuzione, portan-do, il 10 maggio 1979,alla definitiva interruzione delle opere.Il terremoto del 23 novembre 1980, conil forzato allontanamento del Vescovo, e l’accentuazione del bradisismo del 1983-84 poi, determina-rono il totale abbandono del monumento, che fu sottoposto ad atti vandalici e saccheggi. I lavori ri-presero nel 1994, dopo una interruzione di circa due anni, grazie alla costituzione di un consorzio, de-nominato “Rione Terra”. Infine, nel luglio 2003, la Regione Campania bandì un Concorso internazio-nale di progettazione per il Restauro del monumento, vinto dal progetto del gruppo guidato dall’ar-chitetto Marco Dezzi Bardeschi.

Oggi, a seguito dei restauri non ancora ultimati che prevedono ancora la costruzione di un nuovocampanile, la cattedrale si presenta come l’unione di due realtà apparentemente opposte: il tempioclassico e la chiesa tardo barocca, da qui l’identificazione del monumento con il nome di “Tempio -Duomo”.

L’ingresso avviene attraverso i resti della facciata e delle prime due cappelle della cattedrale ba-rocca, il cui insieme oggi si presenta come un nartece scoperto che precede la nuova facciata in cri-

stallo strutturale sulla quale sono staterappresentate in serigrafia le colonnefrontali del pronao andate distrutte.

La cattedrale presenta un’unica na-vata, allestita nella cella e nel pronao, icui intercolunni laterali sono stati ri-chiusi con alte pareti in cristallo strut-turale, dell’antico Tempio romano; èstato riportato il pavimento del Tempioalla sua quota originaria ed è stato sca-vato al suo interno il piano dello stilo-bate realizzando un piano inclinato(con le panche) di raccordo con lo spa-zio del presbiterio posto ad una quota

più bassa, in modo da valorizzare il percorso archeologico sottostante, nel quale sono conservati i restidel Podio di età repubblicana identificato con il Capitolium della colonia romana del 194 a.C.

Nel presbiterio è stato allestito un nuovo altare rivolto verso i fedeli, una sede posta in luogo del-l’antico altare maggiore, andato perduto e un ambone artistico in marmo, nel coro invece sono statirecuperati gli affreschi dell’inizio del XX secolo e sono state ricollocate le 13 tele barocche rimossedopo l’incendio.

L’antica Sagrestia e la cappella del SS. Sacramento, nella quale è stato costruito un nuovo altareper la custodia del SS. Sacramento e sono state ricollocate alcune delle tele presenti prima della chiu-sura della cattedrale, hanno riassunto le loro destinazioni d’origine.

Il tempio di età augustea inglobato nella chiesa barocca è esistito fino al 1964. Nella notte tra il16 e il 17 maggio di quell’anno, infatti, un violento incendio lo ha devastato, distruggendo molte in-signi opere d’arte. Negli anni successivi i resti del tempio sono stati oggetto di un intervento di re-

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Fig. 4 - Interno con sullo sfondo l’altar maggiore

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stauro e parziale anastilosi ad opera di Ezio De Felice, uno dei più noti museografi italiani, ma pur-troppo questa azione di recupero è stata interrotta dalla recrudescenza del bradisismo agli inizi deglianni Settanta. Dopo oltre trent’anni di incuria e di indiscriminato saccheggio, nel luglio del 2003, laRegione Campania ha bandito un concorso internazionale per il restauro del tempio-duomo, al qualehanno partecipato ben dodici équipes accreditate. Giusto un anno dopo, nel luglio 2004, è stato pro-clamato vincitore il gruppo diretto dal prof. Marco Dezzi Bardeschi con il progetto “Elogio del palin-sesto”.

Il titolo scelto per l’intervento è assai significativo: i progettisti hanno proposto di conservare tuttele parti storiche superstiti del monumento, compresi gli interventi strutturali contemporanei rimastiincompiuti in modo che tutti possano essere letti, proprio come si fa su un palinsesto che raccogliebrani di opere di secoli diversi.

Malgrado la conclusione dei lavori fosse previste per il 2008, le vicissitudini del monumento sonoterminate soltanto l’11 maggio 2014, a cinquant’anni esatti dall’incendio, quando il vescovo di Poz-zuoli, mons. Gennaro Pascarella ha potuto riaprire la basilica cattedrale al culto, accogliendo le statuedei Santi patroni e riconsegnando l’edificio all’intera comunità civile.

(consiglio a tutti di consultare in rete il mio articolo: Dopo mezzo secolo riapre la cattedrale diPozzuoli - Ammiriamo i big del Seicento napoletano)

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Dopo mezzo secolo riapre la cattedrale di Pozzuoli

http://achillecontedilavian.blogspot.com/2014/06/dopo-mezzo-secolo-riapre-la-cattedrale.html

Ammiriamo i big del Seicento napoletano

Finalmente dopo 50 anni viene restituita alla fruizione la cattedrale di Pozzuoli, distrutta nel 1964da un rovinoso incendio (fig. 1 - 2) ed è possibile ora ammirare, l’una affianco all’altra, le opere di ar-tisti famosi (Artemisia Gentileschi, Giovanni Lanfranco, Paolo Finoglio, Agostino Beltrano, Cesare eFrancesco Fracanzano) impegnati nella più importante committenza in area napoletana del secolo.

La critica solo parzialmente ha trattato dei capolavori conservati nel coro della chiesa (fig. 3) e nemanca una trattazione dettagliata, che in questa sede cercheremo di stilare discutendo delle singoletele, correggendo errori nelle attribuzioni e nello stesso soggetto dei dipinti.

La più antica opera viene attribuita al Beltrano ed è la grande pala d’altare (fig. 4) raffigurante ilMartirio dei SS. Gennaro, Filippo e Procolo (fig.5), eseguita per la Cattedrale di Pozzuoli intorno al1635 su committenza di Martino Leon y Cardenas, vescovo della diocesi flegrea per circa venti annidal 1631 al 1650.

Per datare i dipinti di vari autori che facevano della Cattedrale di Pozzuoli una vera e propria pi-nacoteca ci si attiene a quanto riferito nelle quat-tro Relationes, visite che venivano fatte al patri-monio artistico periodicamente, i cui risultati so-no conservati presso l’Archivio Segreto Vaticanoe sono state studiati su microfilm e parzialmentepubblicati dalla Novelli Radice. Esse si sono svol-te nel 1635, nel 1640, nel 1646 e nel 1649.

Già nella prima il dipinto in esame viene ci-tato, per cui a quella data era già in sede, in segui-to nel 1646 si avanza come autore il nome di Gui-do bolognese “SS. Titularium Proculi et Ianuariyepiscopi tabulam a Guidone Bononiense dipinta”,un ipotetico allievo del Lanfranco, che sappiamo

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Fig. 1 - La cattedrale dopo l’incendio del 1964 Fig. 2 - Esterno della cattedrale di Pozzuoli

Fig. 3 - Coro, volta ed altare maggiore della cattedrale

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attivo nella committenza assieme aPaolo Finoglia, Massimo Stanzione edArtemisia Gentileschi. In quella del1649 infine la tela viene descritta senzacitare più il nome dell’artista, da alcuniidentificato con Guido Reni.

In seguito la critica ha proposto perla cona la paternità dello Schonfeld, maun attento raffronto con altre due teleeseguite per la Cattedrale, firmate e da-tate dal Beltrano: il Miracolo di S.Alessandro (fig.6) e l’Ultima cena(fig.7), firmata e datata 1648, ci per-

mettono di assegnare al Nostro Agostino con certezza il dipinto, il quale costituisce la sua prima operacerta, già sintomatica di una maturità di mezzi espressivi ed è sorprendente considerare come la palad’altare principale sia stata assegnata ad un pittore che la critica odierna ritiene secondario a confrontodi artisti del calibro della Gentileschi, del Lanfranco e dello Stanzione.

La tela presenta caratteri schiettamente naturalistici con forti contrasti di luce, che evidenziano lefigure in primo piano immerse in un ambiente classico con sullo sfondo superbe colonne, per le qualisi può pensare ad un contributo del Codazzi e con la folla: monelli, contadinelle, matrone e uominitogati che assiste al supplizio. Da notare sulla destra la figuradel soldato a cavallo con la lancia, che oltre a presentarsi in al-tre opere del Beltrano, come nel Martirio di San Sebastiano dicollezione della Ragione, sarà una costante in tutte le tele delGargiulo aventi come soggetto scene di supplizio.

La composizione sviluppata nel senso dell’altezza risultadrammaticamente concitata e divisa in tre piani successivi conuna moltitudine vociante sullo sfondo, al centro i soldati, impe-gnati ad evitare tumulti ed in primo piano i protagonisti in ordi-nato disordine. I colori sono particolarmente vivaci ed il suo rea-lismo contenuto è immune da influenze stanzionesche, denotan-do già un personale indirizzo stilistico, che lo avvicina alle espe-rienze coeve del Falcone, suo coetaneo e della sua bottega. Ci sicomincia lentamente ad allontanare dai rigorosi dettami caravag-geschi e le nuove soluzioni, pur sempre naturaliste ed in chiavedi misurata eleganza, tendono a sviluppare un’adesione al datoreale, interpretando il sacro come aspetto della vita quotidiana.

Il riferimento più cogente di questo aggiustamento stilisticoche va sviluppandosi in questi anni, il quale caratterizzerà la faseprettamente falconiana dell’artista, è rappresentato dalle granditele eseguite dall’Oracolo: il Concerto e la Cacciata dei mercantidal tempio, oggi conservate al Prado, segnate da un originale uso della luce “trattata con prevalenza deichiari sugli scuri nel concreto spazio atmosferico in cui i particolari realistici, calati nella densità delcolore, esaltano il sentimento di immaginose ma umanissime vicende” (Novelli).

Un’influenza percepita in egual misura anche dal Finoglia, attivo anche lui proprio nel 1635 nellaCattedrale, dove esegue un San Pietro che battezza S. Aspreno (fig. 8), nel quale evidente è la sintesi

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Fig. 5 - Beltrano Agostino

Decollazione di San Gennaro

Fig. 4 - Interno con sullo sfondo l’altar maggiore

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tra forme antiche espresse in maniera moderna con la figura delsanto circondata da un fremito di vita descritto con lucida evi-denza.

Nel Miracolo di S. Alessandro (fig. 6) il pittore si mostrainvece con uno stile pervaso da un naturalismo temperato, chelentamente si aprirà alle suggestioni del pittoricismo ed alle so-luzioni del classicismo romano bolognese. La tela è firmata edanche se fosse apocrifa rispecchierebbe un’antica tradizioneorale. La data presenta l’ultima cifra abrasa, per cui è diversa-mente collocata al 1646 o ‘49. L’Ortolani la leggeva, quandoforse era ancora visibile, 1646. Essa risulta presente solo nel-l’ultima Relationes, quella del 1649, per cui questa è la data piùprobabile.

Il Bologna vedeva nella pala unaforte impronta del Falcone e forsedel Grechetto napoletano, inoltre so-no visibili i segni di un graduale av-vicinamento allo stile stanzionesco,sebbene molte figure, in particolarequella del santo, evidenzino ancorapalesi similitudini con l’opera piùantica. Si confronti infatti la figura diSan Procolo, in attesa dietro San

Gennaro già inginocchiato, con quella si S. Alessandro che compie il mira-colo di far sgorgare l’acqua dalla roccia, mentre lo stanno conducendo alsupplizio, uguali gli atteggiamenti, sovrapponibili le fisionomie.

Un altro personaggio patognomonico (fig. 6 bis), che compare identico,sia nell’affresco del Pagamento del tributo a Sennacherib, documentato al1644 – 45, in S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone, sia nel Martirio di S. Apollonia in collezione Mau-ro Calbi, è costituito dal fantolino a braccia protese in primo piano.

Il dipinto è realizzato con una pennellata decisa, che dirige una luce marcata a costruire i profilidelle spalle ed i visi di alcune figure come quella posta a sinistra nell’Ultima cena(fig. 7), un’altra delleopere eseguite dall’artista per la Cattedrale, firmata e datata 1648 e nominata nella Relationes del 1649.

Il quadro, di forma irregolare, imita e gareggia con quello eseguito da Stanzione per la chiesadell’Eremo dei Camaldoli; esso, sconosciuto aglistessi specialisti per il lunghissimo periodo di se-gregazione in deposito e mai pubblicato, è una ve-ra e propria galleria di volti estremamente espres-sivi ed utili per avanzare raffronti verso altre ope-re del Beltrano o per tentare nuove attribuzioni,come di recente il Leone de Castris, il quale ha at-tribuito al Nostro un Pescatore con cesta di pescidi collezione privata per la stingente somiglianzatra la fisionomia del barbuto e calvo pescatore equella di alcuni apostoli raffigurati nella tela pu-teolana.

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Fig. 6 - Beltrano Agostino

Miracolo di S. Alessandro

Fig. 6 bis - Particolare

della fig. 6

Fig. 7 - Beltrano Agostino

Ultima cena firmata e datata 1648

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Un’altra tela eseguita per il Duomo di Pozzuoli e purtroppo perduta nel rovinoso incendio del1964 è il San Martino che taglia il mantello per il povero (fig. 9), di cui ci rimane tristemente solo unafoto, nella quale possiamo apprezzare un significativo brano di paesaggio con un frondoso albero chedomina la scena.

Il quadro dovette probabilmente sostituire un’opera precedente, poiché è citata nella Relationesdel 1649 la quale afferma: “altra più elegante e nell’aspetto bellissima del beato Martino qui stando acavallo, aggiungemmo”.

Il santo appare nelle vesti di un raffinatissimo giovane con largo cappello piumato, concreto ri-tratto della classe privilegiata del tempo.

Il San Martino di Pozzuoli, inopinatamente sfuggito all’esame degli storici dell’arte, sembra es-sere ancora lontano da altri più illustri modelli e mostra una viva personalità, un impianto ancora li-bero ed arioso, a differenza del compassato Carlo di Tocco, conservato nella quadreria del Pio Montedella Misericordia, già pienamente ingabbiato dal modello stanzionesco.

Un altro dipinto molto antico è quello eseguito da Paolo Finoglio (fig. 8), firmato “P.o Finoglio”,raffigurante San Pietro consacra S. Aspreno e non San Celso vescovo di Pozzuoli, come erroneamenteindicato nello scarno foglietto distribuito in loco ai numerosi visitatori. Il soggetto iconografico eratrattato in molte biografie dedicate al santo e diffuse a Napoli tra Cinquecento e Seicento.

L’opera è ricordata nelle Relatio ad limina del 1640 e non nella precedente del 1635, per cui do-vrebbe essere stata eseguita in quel lasso di tempo, una delle ultime fatiche napoletane dell’artista

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Fig. 8 - Finoglio Paolo

San Pietro consacra San Celso vescovo di Pozzuoli

Fig. 9 - Beltrano Agostino San Martino

dona il suo mantello (distrutto)

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prima del suo definitivo trasferimento in Puglia, come già sostenuto in passato dal D’Orsi e dal D’E-lia, il quale sottolineava anche un’impostazione battistelliana, più arcaica rispetto alle tele di Con-versano.

Il cromatismo del quadro, nonostante un recente restauro, è in gran parte perduto anche se si pos-sono ancora apprezzare la tunica azzurro verde indossata da Pietro ed il manto ocra scuro, mentre S.Aspreno è avvolto da un piviale color porpora con i bordi e parte delle spalle giallo intenso. Il natu-ralismo delle ruvide mani e le aspre e straniate fisionomie dei protagonisti, contrastano con l’eleganteesecuzione delle tre pale eseguite da Artemisia Gentileschi, le uniche note agli appassionati, perchénegli ultimi anni si trovavano nelle sale di Palazzo Reale.

Il San Patroba che predica al popolo di Pozzuoli (fig. 10) di Massimo Stanzione, una volta firmato,come riferiva Ortolani, è citato per la prima volta nella Relatio del 1640 e nonostante un restauro ese-guito nel 1965 risulta molto danneggiato e secondo Sebastian Schutze difficilmente valutabile dal puntodi vista stilistico. Esso raffigura San Patroba, primo vescovo di Pozzuoli su un basamento a tre gradinileggermente rialzato mentre predica al popolo della sua diocesi, indicando con la mano destra la croce.

In ottimo stato di conservazione è viceversa lo Sbarco di San Paolo a Pozzuoli (fig. 11) del Lan-franco, firmato ed eseguito tra il 1636 ed il 1640. Il soggetto, alquanto raro, è raccontato negli Atti de-gli Apostoli (XX – VIII, 13 – 14).

La pala è stata unanimemente giudicata dalla critica come una delle opere più innovative del pe-riodo napoletano. Entusiastico il commento dell’Ortolani sulle pagine del catalogo della grande mo-

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Fig. 10 - Stanzione Massimo

San Patroba predica al popolo di Pozzuoli

Fig. 11 - Lanfranco Giovanni

Sbarco di San Paolo a Pozzuoli

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stra tenutasi a Napoli nel 1938:”per l’originale ef-fetto scenico del luminismo abbagliante e contra-stato nel primo piano, la pittoresca fantasia delfondale con la nave che ammaina le vele, e nellefigure di contorno qualche accenno a soluzionipittoriche della sua foga di freschista”.

Le proporzioni delle figure, i corpi allungati,il tipo di volto degli uomini, la tavolozza calda,con prevalenza di rossi, gialli e bianchi, alternatia marroni e verdi, gli sfondi ed il chiaroscuro, so-no tutti elementi che richiamano i quadri di storiaromana, dipinti tra il 1634 ed il 1639, per il vicerèconte di Monterrey.

“La violenza drammatica delle storie romaneviene in questo dipinto moderata dal carattere so-lenne della scena”(Schleier).

Vicino sulla parete destra del coro si trova Lacattura di S. Artema, che per quanto firmato, ècertamente opera della bottega, alla pari del Mar-tirio dei SS. Onesimo, Erasmo, Filadelfio, Cirino(fig. 12).

Prima di concludere con i dipinti di Artemi-sia, trattiamo di due pale, legate vagamente alla

famiglia Fracanzano e nel tempo variamente attri-buite.

Partiamo da un’Adorazione dei pastori (fig.13), certamente di Cesare, in base soprattutto allafisionomia dei due angioletti posti nella parte altadella composizione dai classici capelli rossi, unasorta di firma criptata dell’autore.

Il dipinto fu esposto nel 1954 (10 anni primadel rovinoso incendio) alla mostra sulla Madonnanella pittura napoletana del ‘600 a Napoli e Raf-faello Causa, curatore della scheda, lo ritenne trale cose più notevoli e rappresentative dell’artista,nonostante le ridipinture ottocentesche. Lo datò,erroneamente, agli anni 1645 – 46, in base alla

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Fig. 12 - Lanfranco (bottega)

Martirio dei SS. Onesimo, Erasmo, Filadelfio,

Cirino (firmato)

Fig. 13 - Fracanzano Cesare - Adorazione dei pastori

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pennellata”già tutta barocca, grassa, sfatta, allusi-va, piena di luce”.

Al suo fianco, nel lato alto del coro, è espostoil Cristo nell’orto degli ulivi (fig. 14), a lungo at-tribuito dalla critica ad una figura non ben defi-nita di Anonimo fracanzaniano, nella quale con-fluivano dipinti di difficile attribuzione, oggi as-segnati, parte a Nunzio Rossi, parte a FrancescoFracanzano ed è proprio a quest’ultimo che davola paternità della pala puteolana nella mia mono-grafia sull’artista: Francesco Fracanzano operacompleta.

Come tutti gli studiosi dell’ultima generazio-ne avevo espresso il mio parere in base ad una fo-to, perché l’opera era da decenni relegata nei de-positi. Oggi ragionevolmente riteniamo di poterattribuire la tela ad una collaborazione tra i duefratelli, per raffronti stilistici e per il racconto del-le fonti che ci forniscono la circostanza della loropresenza nel cantiere del duomo, dove era conser-vato anche un altro dipinto: San Paolo che scrive

l’epistola a Filomene (fig. 15), che la critica ha as-segnato ora a Francesco, ora a Cesare, riscontran-do i caratteri ora dell’uno ora dell’altro e che noipensiamo possa essere il prodotto di una collabo-razione familiare.

Prima di concludere con la descrizione delletre tele di Artemisia, vogliamo accennare ad unapresenza spuria sulla parete sinistra del coro, do-ve figura un S. Ignazio di Loyola con San Fran-cesco Saverio, assegnato al Ribera sul fogliettodelle visite guidate; la notevole distanza non cipermette di escludere con certezza la paternitàdel dipinto, che appare di qualità scadente, ma lasua presenza è sicuramente anomala, perché innessuna delle Relationes figura mai un quadrodel valenzano.

Il San Gennaro nell’anfiteatro (fig. 16) figuragià nella Relatio ad limina del 1640, che descrivein sede 11 quadri, e probabilmente, assieme aglialtri due è stato eseguito entro il 1638, quando la

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Fig. 14 - Fracanzano Francesco

Cristo nell’orto degli ulivi

Fig. 15 - Fracanzano Cesare e Francesco

San Paolo scrive la lettera a Filomene

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pittrice si trasferì in Inghilterra per assistere il padre ammalato. Nella pala il santo è gettato in pastoalle belve nell’anfiteatro Flavio di Pozzuoli, ma esse, due mastini napoletani (e non leoni) ed un orso,si chinano ammansiti al suo passaggio.

La Gentileschi manifesta una maggiore tenerezza di tocco e di sfumature rispetto alle altre dueopere, in San Procolo, diacono della cittadina flegrea, inginocchiato con le mani al cielo ad impetrareun intervento divino e nelle figure poste a sinistra della composizione, mentre nello sfondo di archi-tettura in rovina si può ipotizzare la collaborazione dello specialista Viviano Codazzi, a Napoli dal1634 e nel cielo baluginoso in alto sulla sinistra il pennello di Micco Spadaro.

Nell’opera, pervasa da un aspro realismo, vi è un richiamo al Falcone ed alla fase naturalista delBeltrano e dello Stanzione, mentre nei bianchi splendenti delle cotte sacerdotali vi è l’imprinting dellasplendida cromia del padre Orazio. Nella rappresentazione dei mastini vi è infine un collegamento aimodi di Francesco Fracanzano, a dimostrazione che i pittori napoletani o napoletanizzati amavano co-piarsi nei dettagli di maggior impatto visivo.

Nell’Adorazione dei magi (fig. 17) compariva una firma che si è rivelata apocrifa ed anche in que-sto quadro si può ipotizzare la collaborazione del Codazzi e del Gargiulo. Alcuni studiosi hanno pen-sato all’aiuto o quanto meno all’ispirazione per la realizzazione di alcune parti dell’opera: RobertoLonghi dava per scontato un intervento dello Stanzione nella realizzazione del volto della Vergine,mentre più di recente Stefano Causa ha pensato al pennello di Onofrio Palumbo.

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Fig. 16 - Gentileschi Artemisia

San Gennaro doma le belve nell’anfiteatro

Fig. 17 - Gentileschi Artemisia - Adorazione dei magi

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Questa serie di argomentazioni è un po’ lospecchio dell’ondeggiante atteggiamento stilisti-co dell’artista negli anni centrali della sua attivitàall’ombra del Vesuvio, nei quali Artemisia in-fluenzava ed era influenzata dall’ambiente artisti-co circostante. Tuttavia è indubitabile che alcunicaratteri tipicamente napoletani si erano impressiindelebilmente nel suo linguaggio, dal volto stan-zionesco della Vergine a questi re, spagnoleggian-ti al massimo, che non si inchinano, ma si prostra-no umilmente come era comune abitudine nellaNapoli vicereale.

L’ultimo dipinto della serie, raffigurante i SS.Procolo e Nicea (fig. 18) è un’immagine austera esi direbbe che la pittrice ha scelto un soggetto de-vozionale di uso liturgico, anziché ritrarre l’orroree la drammaticità dell’incontro con bestie feroci.Una composizione equilibrata e statica, se para-gonata alle opere trasudanti energia e vitalità dellasua fase artistica precedente. Ci soffermiamo unattimo sul soggetto, generalmente indicato comeProcolo e Nicea, mentre i due personaggi rappre-sentati, entrambi santi sono madre e figlio.

(per un quadro storico archeologico della cat-tedrale consiglio di consultare in rete il mio arti-colo: Da un tempio greco romano alla cattedraledi Pozzuoli)

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Fig. 18 - Gentileschi Artemisia

San Procolo e la madre S. Nicea

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Sette superbi inediti di pittura napoletana

http://achillecontedilavian.blogspot.it/2016/02/sette-superbi-inediti.html

Continuamente antiquari e collezionisti mi inviano foto di dipinti di scuola napoletana, chieden-domi un parere sull’attribuzione e questa circostanza mi permette di visionare una cospicua mole diinediti, alcuni di notevole qualità, come nel caso di questo superbo San Pietro (fig. 1) di FrancescoFracanzano appartenente ad una famosa collezione straniera.

Il dipinto trasuda un inconfondibileafrore napoletano, per cui siamo certiche sia stato realizzato in quella straor-dinaria officina di talenti che per annifu costituita dalla bottega di Ribera eper quel che riguarda la tela in esameriteniamo di trovarci davanti ad uno deimassimi raggiungimenti di FrancescoFracanzano, uno dei suoi allievi più do-tati.

La rappresentazione di mezze figu-re di santi e filosofi, investigati concrudo realismo, fu una moda nata nellabottega del valenzano a Napoli ed af-fermatasi poi anche in provincia grazieai suoi discepoli, tra i quali si distingue

Francesco Fracanzano, che nel 1622, dalla natia Monopoli, si trasferisce con la famiglia nella capitale,entrando giovanissimo nell’ambiente artistico partenopeo, grazie anche al matrimonio, celebrato nel1632, con la sorella di Salvator Rosa.

Lavorando con il Ribera ne recepì la stessa predilezione per la corposità della materia pittorica eripropose spesso i soggetti più richiesti dalla committenza: studi di teste e mezze figure di filosofi eprofeti.

Si tratta di poderosi personaggi vestiti di rudi panni, a volte distinguibili grazie agli attributi icono-grafici, come nella tela in esame (fig. 2)

San Pietro assume l’aspetto di un fi-losofo e dalla tela trasuda una profondaumanità che comunica allo spettatore unmessaggio di poderosa forza morale,senza indulgere ad un formalismo deco-rativo: una figura, severa e bonaria allostesso tempo, realizzata con una pennel-lata generosa, grassa e pastosa, quellache sarà definita tremendo impasto, pie-na di impeto e pregna di una luce rigo-rosa che penetra nelle pieghe della fron-te e nelle mani, forti e nodose (fig. 3).

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Fig. 1 - Francesco Fracanzano - San Pietro - collezione straniera

Fig. 2 - Particolare delle chiavi

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I colori smaglianti del San Pietro ela ridondante materia pittorica collocacronologicamente l’opera intorno o po-co dopo al 1635, in consentaneità conle austere figure presenti nelle Storie diSan Gregorio Armeno, il vero capola-voro dell’artista.

Trovandoci tra santi e filosofi se-gnaliamo un monumentale dipinto delvan Somer (fig. 4), di proprietà dell’an-tiquario Febbraio di Napoli.

Hendrick Van Somer è un altro de-gli allievi del Ribera ricordati dal DeDominici, un artista dalla forte anchese disordinata personalità. La definizio-

ne del suo catalogo è particolarmente difficile per la contemporanea presenza a Napoli di due artisticon uguale nome e cognome, uno, figlio di Barent ed un secondo, figlio di Gil. Il primo nato nel 1615e morto ad Amsterdam nel 1684, il secondo, nato nel 1607 e scomparso forse durante la peste del1656, presente in città dal 1624.

Dai santi passiamo alle sante, partendo da una tela conservata in collezione Spiga: una languidafigura femminile (fig. 5) ritratta mentre impugna una croce volgendo lo sguardo al cielo, dal volto inestasi e dal seno ben esposto, eseguita da Niccolò De Simone, un geniale eclettico, che oggi la criticaconosce più che bene per i caratteri distintivi del suo stile pittorico: anatomie sommarie, tipica conci-tazione delle scene, caratteristico volto delle donne, tutte mediterranee dai pungenti occhi scuri, as-senza di profondità spaziale con bruschi passaggi di scala, folle in preda ad un’intensa agitazione, cieli

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Fig. 3 - Particolare della fronte e delle mani

Fig. 4 -Hendrick Van Somer - Filosofo

Napoli antiquario Febbraio

Fig. 5 - Niccolò De Simone - Santa

Italia collezione Spiga

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tempestosi e baluginanti, squisita sensibilità da espressionista nordico, ripetitività nella costruzionedell’impianto generale della scena, personalissima resa cromatica nell’uso di colori stridenti ed incar-nati rossicci

Molte sono anche le sue piccole telette a mezzo busto di donne, molte ancora da identificare edattribuire con precisione, in cui palese è il modulo di riferimento a Vaccaro, Stanzione e Cavallino;tra le quali particolarmente importante una S. Caterina d’Alessandria nei depositi di Capodimonte, si-glata NDS, che ha permesso di raggruppare sotto il suo nome altri dipinti simili, come quello in esamenel quale l’artista raggiunge uno dei vertici della sua produzione.

Un’altra santa notevole (fig. 6) è quella di Andrea Vaccaro della collezione Tedesco a Salerno,con i caratteristici occhi volti verso al cielo e dalla foltissima capigliatura fluente.

Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottileerotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui formeegli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti,più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base.

Dopo aver girato e rigirato attorno a tematiche chiaroscurali di derivazione caravaggesca, senzasentirle profondamente e dopo aver assimilato dal plasticismo riberiano quanto gli era necessario permodificare il suo stile pittorico, nel pieno della sua attività si ispirò ai modi pittorici di Guido Reni,da cui derivò, oltre al piacere delle immagini dolciastre, anche la padronanza di schemi compositividi sicuro successo.

Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servi-rono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’af-

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Fig. 6 - Andrea Vaccaro - Santa in estasi penitente

Salerno, collezione Tedesco

Fig. 7 - Francesco Guarino - Santa

Bari collezione Ferorelli

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fettuosa partecipazione terrena, velata da unapunta di erotismo, con i loro capelli d’oro lucci-canti, con le morbide mani carnose e affusolatenelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto damostrare le grazie di una spalla pallida, ma desi-derabile. I volti velati da una sottile malinconia econ un caldo languore nei grandi occhi umidi ebruni, che aggiungono qualcosa di più acuto allasensazione visiva delle carni plasmate con amoree compiacimento.

L’ultima santa che esaminiamo, più anticadelle precedenti, è quella (fig. 7) della collezioneFerorelli di Bari, esito ragguardevole del delicatopennello di Francesco Guarino.

L’artista nei quadri raffiguranti sante recepi-sce con sempre maggiore evidenza la maniera

stanzionesca e le languide dolcezze pittoriche del miglior Pacecco De Rosa, come pure è permeatodagli impreziosimenti vandychiani e neoveneti, al pari di tutto l’ambiente artistico napoletano.

Nello stesso tempo sceglie sempre più spesso il piccolo formato, che era stato portato al successodal Cavallino e dialoga alla pari con il Vouet, conil Domenichino e persino con Francesco Cozza.

Grazie al progredire degli studi la personalitàdel Guarino è riemersa come quella di uno deimassimi pittori napoletani del secolo. Napoleta-nissimo come pochi altri per discepolato, per stile,per committenza e per le tematiche affrontate enapoletano anche per il modo di morire, almeno aprestare fede al racconto del De Dominici: infatti,mentre il solofrano era nel pieno della maturità, asoli 43 anni, la sua vita ebbe un epilogo improv-viso, non per la peste, come avvenne per tanti suoicolleghi nel 1656, bensì per un’esplosione di ge-losia in cui sarebbe stato coinvolto alla corte diFerdinando Orsini a Gravina in Puglia. Sulle cau-se del decesso vi possono essere dubbi, tenutoconto della fertile fantasia del biografo settecen-tesco, mentre sulla data, fornitaci da un documen-to, non vi è incertezza: 13 luglio 1654.

Per le ultime due opere che presentiamo, duecapolavori del De Matteis, ci portiamo tra la finedel Seicento e l’inizio del secolo successivo.

Per la prima, una Madonna col Bambino (fig.8), appartenente alla più celebre raccolta privataitaliana: quella dell’avvocato Fabrizio Lemme di Roma, ci riserviamo di leggere la dotta scheda pre-disposta dal professor Riccardo Lattuada per il volume che celebrerà ad aprile i 50 anni di collezioni-smo dell’illustre proprietario.

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Fig. 8 - Paolo De Matteis - Madonna col Bambino

Roma collezione Lemme

Fig. 9 - Paolo De Matteis - Esposizione del Bambino

Napoli collezione Murena

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Un libro alla cui stesura partecipano i direttori dei più importanti musei del mondo ed i più pre-stigiosi studiosi a livello internazionale. E per il sottoscritto è stato un onore incommensurabile par-tecipare a questo aureo consesso, compilando una scheda per un dipinto di Giovan Battista Spinelli.

La seconda tela, dal soggetto originale: una Esposizione del Bambino, (fig. 9) della collezioneMurena di Napoli fa da copertina all’ultima edizione della mia monografia sul pittore: Paolo De Mat-teis opera completa.

Nella composizione è possibile riscontrare, oltre al sostrato giordanesco, una forte ispirazione dal-lo stile del Maratta, anche se il De Matteis tende ad equilibrare le due componenti, raggiungendo unequilibrio nella rappresentazione della scena, con il Bambinello in primo piano, immerso nella luce,che fa da protagonista della narrazione.

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Palazzo Caracciolo di San Teodoro tra storia e tecnologia

http://achillecontedilavian.blogspot.it/2016/01/palazzo-caracciolo-di-san-teodoro-tra.html

Da dicembre Napoli ha un museo in più: Palazzo Caracciolo di San Teodoro, sulla Riviera diChiaia, a due passi da Piazza Vittoria, diventa infatti un luogo d’arte visitabile attraverso un intrecciotra affreschi d’epoca e realtà digitali realizzato da un gruppo di artisti e designers napoletani e deno-minato appunto “San Teodoro Experience”.

La storia di Palazzo San Teodoro, antica residenza gentilizia situata all’inizio della Riviera diChiaia, la zona residenziale a ridosso del lungomare di Napoli, cammina di pari passo con l’evoluzio-ne che la città ebbe sotto la spinta dei Borbone.

Verso la fine del 700, infatti, il borgo di Chiaia, oggi il più prestigioso quartiere cittadino, era an-cora periferia fuori dalle mura cittadine.

Fu re Ferdinando IV nel 1778 a farne uno dei dodici quartieri della città ed a dare incarico al Van-vitelli di realizzarvi la “Real Villa”, il bel polmone di verde che ancora oggi caratterizza questa partedella città. Assurto ai fasti della corte, il borgo di Chiaia divenne così sede ambita per famiglie aristo-cratiche e alto borghesi, che acquistarono le palazzine sulla riviera ristrutturandole secondo il gustoimperante in quel periodo: il neoclassico.

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Fig. 1 - Salone d’ingresso Fig. 2 - Palazzo San Teodoro interno

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Agli inizi dell’800 il duca Carlo Caracciolo diSan Teodoro, senatore del regno, vi comprò treedifici, affidando a Guglielmo Bechi, architettotoscano chiamato dalla Corte borbonica a lavorarenella capitale del Regno delle Due Sicilie, l’inca-rico di trasformarli in un’ unica residenza di pre-stigio.

Il Bechi, architetto, arredatore e decoratoredal notevole talento, ha realizzato un’autenticaopera d’arte: tre piani in stile neoclassico di note-vole valore artistico-architettonico. Un lavorosvolto con passione, originalità e straordinario gu-sto che fu determinante nel far successivamenteassegnare al Bechi la realizzazione della famosaVilla Pignatelli, collegata a Palazzo San Teodoroda un evidente fil rouge.

Un tuffo nel passato attraverso le magnifichestanze progettate da Guglielmo Bechi nel 1826per conto dei Caracciolo e splendidamente con-servate con i loro affreschi di ispirazione pom-peiana.

In questo contesto già di per sé incantevole, leultime tecnologie riportano il visitatore nell’atmo-sfera napoletana di fine Settecento immergendolodinamicamente in scene e costumi della Napoliborbonica.

Il tutto è reso possibile, oltreché dai saloni affrescati in perfetto stato di conservazione, da specialiocchialoni che aiutano il visitatore ad immergersi in una realtà parallela, tra i quadri della Scuola di Po-sillipo e i primi scavi archeologici di Pompei ed Ercolano ai quali gli affreschi del palazzo si ispirano.

Succede pertanto che, inforcando gli occhialoni, si rivive una scena incredibile perché, dalle fi-nestre del Palazzo che dà sulla Riviera di Chiaia, non si vedono più gli alberi della Villa Comunaleche attualmente ostruiscono la visione del mare, ma ci si trova ad assistere al varo di un galeone chesta salpando con picchetto d’onore sullo sfondo di Castel dell’Ovo, mentre sul lungomare passeggianodonne e uomini in costume a piedi o in carrozzed’epoca.

Una fusione - unico esempio in Italia - tra ar-cheologia e tecnologia realizzata avvalendosi didipinti ed immagini dell’epoca raccolte in giro perl’Italia e per l’Europa.

La visita per la dimora appartenuta ai Carac-ciolo comprende anche altre “esperienze” di im-mersione in realtà virtuali ambientate nella Napolidei Borbone.

Così mentre una dama del ’700, rigorosamen-te virtuale, accompagna il visitatore tra gli affre-schi e le altre meraviglie della dimora, si giunge

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Fig. 3 - Palazzo San Teodoro interno

Fig. 4 - Palazzo San Teodoro interno

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nel gran salone con colonne ed affreschi in cui la protagonista è la musica, rigorosamente d’epoca epuntando con gli occhialoni i musici si può ascoltare il suono dei loro strumenti, incluso un originaledoppio flauto.

La visita dura poco meno di un’ora e ad illustrarla due guide in carne ed ossa, Chiara e Monica,molto preparate e, particolare non trascurabile, bellissime.

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