perché napoli - vivere e morire di napoli

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Titolo: Perché Napoli Autore: Pasquale Persico Editore: Paparo Data di Pubblicazione: 2010 ISBN: 888711191X ISBN-13: 9788887111910 Pagine: 128 Reparto: Politica e società > Società e cultura

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Sommario

Napoli fuori legge e fuori dalla storia

Morire di Napoli

Pulcinella non abita più qui

Le rose di maggio

Nathalie, Napoli, Nathalie

Un libro come grano in un campo di gramigna

Un Museo per ripartire,un luogo nuovo per vivere ancora di Napoli

Suicidio doppio e perimetri di parole dei figli del tempo

La città come speranza per l’architetturae l’architettura come speranza per l’urbanistica

Perché Napoli

L’architetto e la città: progettare l’utopia

Una città da cui non si può fuggire

La casa ed il cosmo. La casa Kaplan

Uscire dalla prigione perfetta e conquistarespazi di libertà per gli altri ma anche per sé

Un quartiere si fa città per vincere la malinconia civile

Entriamo in città

Un Pianoforte si fa città

Morire per vivere

Partenze rallentate

Inchiesta sulla scomparsa di Bassolino

Il ritorno del Principe nelle sue scuderiedi Palazzo Sansevero: una rigenerazione urbana

Caggiano, la città dei numeri settee l’enigma di Napoli al quadrato

La lezione su Napoli

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Era partito, come tante altre volte, con la nave da Palermo versoNapoli, ed aveva dato appuntamento a suoi studenti di Architetturadella sua classe di Urbanistica ed ad altri giovani di altre facoltà, peril giorno seguente a quello del suo arrivo. Loro dovevano partire inpullman e dopo un viaggio di 12-14 ore sarebbero arrivati a Napolialle 9 del mattino.

Era stata organizzata una visita-lezione di due giorni per parlaredi Napoli e del futuro delle città.

C’era in lui uno strano sentimento, questa volta il viaggio non sa-rebbe stato tranquillo, il suo amore per Napoli ed il suo rigore di stu-dioso avrebbero impegnato la sua mente ed il suo cuore più del solito.

Come descrivere con gli occhi della modernità il paradiso abitatodai diavoli di cui tutti parlano e che di recente, più intensamente dialtre volte, era stato descritto dai media come un vero e proprio in-ferno abitativo?

Per Napoli era stato un anno terrificante, un eccesso di comuni-cazione negativa aveva fatto massa critica dominante ed avversa intutti i giornali del mondo; il sole illuminava un’altra Napoli.

La Napoli civile, tollerante e sapiente, apparsa nel film L’oro di Na-poli e quella orgogliosa e coraggiosa, raccontata, anche, da Erri De Lucanell’ultimo suo spettacolo su Le quattro giornate, era stata completa-mente cancellata, e sostituita con l’immagine di una città ormai incapacedi risalire, abitata da un sociale impotente ed immobile, dove nemmenoun comportamento di legalità minima era estendibile a parti di città.

Napoli viveva come Gomorra invece che come città bella, luogoinvivibile, invece che parte della Campania felix.

Da dove partire per le sue giornate di lezioni su Napoli città an-tica, moderna e contemporanea?

NAPOLI FUORI LEGGE E FUORI DALLA STORIA

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In effetti, l’ambizione era maggiore, scrivere un libro su Napoli ela città che verrà.

L’urbanista che sentiva di essere e la città possibile dovevanoemergere all’unisono, come speranza di progetto, analisi e ripartenza:la città di Napoli doveva essere vista come ricerca da proporre sem-pre, con una metodologia morale, capace di guardare oltre l’attualestato di sfiducia, di incapacità di vivere la città.

Avrebbe detto la verità fino in fondo ai suoi studenti o era più giu-sto adottare un metodo prudente, fatto di restrizioni mentali, per la-sciare spazio a scenari più ottimistici?

La condizione di Napoli forse impedirà una rapida risalita versouna condizione civile; e come dirlo in parole diverse, con ipotesi diricerca verso traiettorie non ancora esplorate?

La complessità ed il caos in cui è immersa l’intera area metropo-litana napoletana allontanavano dalla sua mente la speranza di tro-vare accogliente la città possibile.

C’era, poi, un’onda lunga fastidiosa ad accompagnare di poppa ilviaggio della nave; l’annuncio di un mare in rialzo, non appena ilvento avrebbe dato il suo contributo, questa volta a differenza di al-tre, lo aveva innervosito. Sentiva di non poter deludere i suoi ragazzi,doveva trovare la chiave per parlare della speranza dell’improbabile.

Eppure il viaggio via mare era quello più amato, si pentì; aver as-secondato la voglia di risparmio del suo dipartimento era stato un er-rore, quel viaggio per i suoi ragazzi non sarebbe stato il modo giustoper arrivare a Napoli.

Da Est Napoli non è Napoli, o forse non lo è oggi.Per lui, come sempre, all’alba, Capri si sarebbe annunciata e gli

avrebbe presentato il golfo come bacino di beni culturali ed ambien-tali di straordinaria armonia. Napoli sarebbe apparsa come sempre,Napoli città madre. Paradossalmente la luce del sole gli avrebbe na-scosto ancora una volta quell’inferno urbano descritto e vissuto daisuoi stessi abitanti. Anche se i suoi studenti avrebbero attraversatopaesaggi devastati prima di arrivare a Napoli, lui non avrebbe dovutoaccettare l’idea di un ingresso a Napoli diverso dal mare.

O forse era stata, questa, una casualità favorevole. Gli avrebbeconsentito di parlare della propensione di massa a violare i principi

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minimi di convivenza; avrebbe potuto illustrare con immediatezzaquel lasciare campo alla criminalità nel controllo totale del territo-rio; questo allontanarsi delle istituzioni dalle politiche per la città sa-rebbe stata la chiave per spiegare i fatti: essi avrebbero incontrato,con gli occhi, lo sciame di non urbanistica, da Sorrento fino aPozzuoli, per non parlare di quello che è accaduto intorno al Vesu-vio. Tutto poteva evidenziare il monopolio dell’uso del suolo chedallo Stato si è trasferito a mille caporali con diritto di uccidere ilterritorio e gli uomini.

Quale urbanistica raccontare?Come spiegare a loro che prima di parlare di urbanistica occorre-

rebbe spiegare che a Napoli, la società, lo Stato e la politica non vo-gliono riappropriarsi di quel paradiso abitato da diavoli, al massimovogliono negoziare solo la loro sopravvivenza subordinata.

Eppure sapeva che le sue sarebbero state lezioni appassionate, sa-peva che quella continua opera di devastazione del territorio, quelcontrollo di spazi da condonare, quell’enorme spazio dato all’inci-viltà, non gli avrebbero impedito di pensare ad una lezione ponteverso la speranza.

Perché Napoli meritava una risposta chiara, una descrizione cre-dibile sul perché vivere di Napoli e morire di Napoli; sapeva che lacittà che verrà sarà sia la città invisibile che quella visibile, ambeduehanno bisogno di nuove decodifiche, di svelare il potenziale evolu-tivo, fatto di nuovi incroci, di nuove partenze e di nuovi arrivi.

Del resto la storia della sua famiglia ne era già rivelatrice. Suo pa-dre da artista contemporaneo si era comportato sempre come angelo;con la sua voglia di vivere di Napoli, aveva ispirato tanti comporta-menti ed ancora oggi ogni giorno si sentiva artista della città. E poisuo fratello e sua sorella, la loro capacità di far vivere i personaggi diNapoli e soprattutto il linguaggio popolare, il loro teatro delle ma-rionette, con Pulcinella protagonista.

Napoli alla sua famiglia era apparsa sempre la città delle opportu-nità, in alcuni periodi addirittura la città delle opportunità moltipli-cate; Napoli è città della nuova Europa, dei 25 e poi ancora di piùnazioni in unione, e allo stesso tempo, città del cosiddetto continentemediterraneo nuovamente al centro dei grandi traffici tra oriente ed

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occidente. La città di Pulcinella era anche la città delle partenze e de-gli arrivi, merci e turismo in evoluzione continua.

Il Porto, presentato nel libro Gomorra, era un pugno forte al voltodella città angioina, alla sua voglia di sentirsi ogni tanto ancora capi-tale mercantile e culturale.

Tornò con la mente al suo sentire giovanile, quando giovanissimogià approntava schizzi di architettura su Napoli, il suo vedere il fu-turo, era allora un futuro in discesa piuttosto che in salita; la realtàsvelata dai media e analizzata da Saviano era una realtà dominante elui non era mai stato consapevole fino in fondo di questa realtà sof-focante che emergeva già allora. Questa altra città che vive e si svi-luppa di più della Napoli raccontata dalla politica e dagli intellettuali,quanta divaricazione irrecuperabile avrebbe provocato rispetto allacittà possibile?

Doveva pensare al nuovo equilibrio da ritrovare, ai pensieri nuovida raccontare, per la prima volta sentiva una tensione indescrivibileper quella conversazione programmata per i suoi studenti.

Stava esagerando, quell’onda lunga lo agitava più del normale, ilsuo star sveglio era dovuto ad altro, al suo amore per quella città in-fernale; doveva prender sonno per risvegliarsi un’ora prima dell’ar-rivo, come sempre, non per le necessità del mattino ma per godersiancora una volta il suo arrivo a Napoli e trovare le giuste emozioni,anche rischiando nuovi pensieri tristi.

Il silenzio della luna illuminava il mare e la luna stessa, a quell’oracolorava d’argento il dove andare.

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Palazzo Sansevero lo vide uscire sul presto; si sarebbe incontratocon Giovanni Caggiano, sindaco di Caggiano, importante paese aSud di Salerno. Nel territorio tra Caggiano e Pertosa, per una seriedi circostanze storiche, vi erano state presenze importanti di fisici ematematici.

Il sindaco gli chiedeva di rendere visibili alcuni documenti ed og-getti che svelavano tracce di soste del matematico RenatoCaccioppoli nell’antico territorio Caggianese. Del resto, il fedele as-sistente Savino Coronato, l’assistente prete, era proprio di Pertosa,paese poco distante.

Professore al Suor Orsola Benincasa di Turismo culturale,Giovanni Bilo, proponeva spesso ai suoi studenti lo studio del patri-monio culturale di Caggiano, non solo luogo d’origine della sua fa-miglia ma luogo di Bonito Oliva, il più apprezzato critico d’arte ita-liano, di Giovanni Abamonte, presidente dell’assemblea popolaredella Rivoluzione del ’99, condannato a Napoli insieme a tanta altraintelligenza napoletana.

La notizia era apparsa su «Il Venerdì» di Repubblica.Pierre Zweiaker, fisico dell’università di Losanna, aveva scavato

tra le cronache ed aveva trovato 67 casi di ‘Morts pour la Science’ eli aveva raccolti in un libro pubblicato da Presses Polytechniques edUniversitaires Romandes, un libro di inchiesta e romanzo.

Lo studioso di Losanna, dopo aver raccontato del matematicogiapponese Yutuaka Taniyama (nato nel 1927) e delle sue notti in-sonni, passate tutte a risolvere problemi che chiedevano anni e secoliper la loro soluzione, insiste nel collegare quelle notti con quelle diRenato Caccioppoli.

Per il fisico di Losanna, anche il tragico suicidio dell’8 maggio

MORIRE DI NAPOLI

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1959 era da assimilare a quello del matematico giapponese (17 no-vembre 1958). L’ipotesi verosimile che la passione per l’algebraavesse divorato la mente del matematico Napoletano è stata sempreun’ipotesi concorrente a spiegare alcuni fatti relativi alla sua malin-conia e alla sua sopraggiunta depressione.

La sua discesa verso quello status vivendi e verso il baratro, appa-rentemente desiderato, era avvenuta prima, molto prima della sua de-dizione all’alcol.

Il bere non fu altro che una tossicodipendenza che tendeva a na-sconderne un’altra.

«La matematica, come altre scienze hard, è una disciplina impla-cabile, essa può avere effetti psicotici devastanti».

Dai racconti delle tante persone che a Napoli e nella sua famigliaparlavano dell’accaduto, l’ipotesi dello studioso svizzero vive mino-ritaria accanto ad altre due: Morire per amore e Morire di Napoli.

Le tesi che si contrappongono a quella di Zweiaker vivevano am-bedue come enigma irrisolto. Lui, Gianni Bilo, le aveva ascoltate piùvolte e le enfasi diverse erano apparse in romanzi e sceneggiature di-verse, rappresentazioni di una realtà napoletana sempre difficile daraccontare.

Uscendo da Palazzo Sansevero, il prof. Bilo volle ripassare perl’ennesima volta da Via Cisterna dell’Olio, quasi a ripetere il percorsoche il Matematico Napoletano aveva sicuramente fatto infinite volte.

Si ricordò del libro di Piero Antonio Toma, il giornalista e scrit-tore che, nel suo libro L’enigma, cammina nella vita di RenatoCaccioppoli e accarezza tutte le ipotesi possibili. Incontra le personeche lo hanno frequentato, incontrato, subito, amato, venerato, pro-tetto, dimenticato, avversato, ridicolizzato, un tentativo di incontrareanch’egli il Matematico attraverso i personaggi, reali e fantastici chelo hanno conosciuto.

Questo giornalista sapeva che scrivere un libro su Caccioppoli si-gnificava scrivere un libro su Napoli, ma egli, scrivendo, non vuolesciogliere il nodo ma vuole raccontare la vita di una persona che lagente comune chiamava ’O Genio.

Il libro non è un elenco completo delle ragioni di una vita, e l’autorelo dice: «è stato angosciante tentare di ricostruire una vita, i comporta-

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menti sprezzanti, la fede politica, la solitudine di un uomo e la gran-dezza di uno scienziato. Ogni giorno, la scoperta di un nuovo fatto, chemi faceva ricadere nell’Enigma. Alla fine ho dovuto dire basta».

Rimangono i fatti: tre persone che lo frequentavano una dopol’altra si sono uccise...

Il racconto è lucido ed appassionato, pieno di emozioni e sugge-stioni, con atmosfere d’incanto, come quelle in cui è realistico il rac-conto tra il matematico napoletano e il personaggio che lo stesso ma-tematico aveva in fotografia sul suo comodino: ‘Evaristo Galois’.

Quest’ultimo era il matematico che, anche per la giovane età, nonaveva ancora scritto niente, conservava tutto nella mente, teorie e cal-colo. Avvenimenti imprevisti lo costrinsero a scrivere delle sue nuoveteorie in sole due notti.

La sfida a duello era l’evento sopravvenuto, esso non lasciava scam-po; un testamento necessario era dovuto al mondo, la sua genialità ap-pariva come bene pubblico puro, un testamento scientifico di valoreapparve come restituzione necessaria.

Il racconto di Toma si sofferma sulle notti del matematico napo-letano, e della empatia latente con Galois.

Le notti passate al piano, spesso sembravano un modo per farcompagnia al gemello d’amore per l’algebra.

Quelle notti immaginate come un modo di stare insieme, valevanoun vita.

Sembrava che Caccioppoli si volesse sostituire al fratello di Galoisper farsi dire: «non piangere, suona, ho bisogno anche del tuo corag-gio per morire così giovane».

La musica dolce del piano e quella drammatica delle parole sta-vano insieme; ambedue concorrevano a far nascere sessanta pagine.

Una sintesi veloce di tutti i pensieri della mente, una pietra miliareper la matematica viene poggiata sulla scrivania del mondo per for-mare altre mille reti di conoscenze, per accumularle nella storia delladisciplina.

E la domanda fantastica fatta da Galois al temporaneo fratelloRenato Caccioppoli lascia nuovamente aperte le tante domandesull’Enigma.

«Ma dimmi, sei ancora persuaso che non sia possibile un gemellaggio

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tra la tua e la mia vita? E della morte, Renato, che mi dici della morte?»La risposta immaginaria, ma possibile, parla delle morti che ap-

partengono alla quarta dimensione, la dimensione della storia, nonalla storia della matematica.

Questa quarta dimensione non sempre è nei libri di storia ma inogni caso va oltre le dimensioni cui la mente ci ha abituato.

La morte necessaria ha attraversato la storia degli uomini ed èspesso raccontata insieme alla storia degli uomini come segno di unasensibilità fuori dalla normalità, come un sentire di ribellione almondo che sembra sempre volersi adattare all’esistente.

Non tutti sono pronti al rientro negli schemi, vi sono situazioniinaccettabili. La mente abituata a rompere gli schemi per sentirsi vi-tale e creativa, non può vivere lo stato stazionario.

«Per quanto mi concerne, ti dico che finché c’è morte, Evaristo, c’èsperanza... e te lo dico con un preludio di Chopin, quello di soli 40’’».

Il preludio n.1.

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Quel pomeriggio d’inverno era scesa con il solito desiderio, rive-dere ad uno ad uno i Pulcinella di Lello Esposito. Giovanni Bilo,nella breve sosta sotto il Palazzo Sansevero, l’aveva notata, ma nonsapendo chi fosse, si era limitato a dire che Lello stava arrivando, gliaveva da poco offerto un caffè.

Lello le aveva parlato di novità, di progetti e lei, che lo seguiva dasempre, sapeva che Lello, informando dei sui progetti gli amici a luipiù vicini, finiva per chiedere a se stesso la conferma della bontà dellesue decisioni.

Lei, professore di Fisica affermata e nota dell’università degli studiFederico II, era stata allieva di Renato Caccioppoli; l’episodio dell’e-same riportato nel film di Mario Martone era in realtà la cronaca delsuo. Alcuni particolari erano stati accentuati, ispirati dal romanzo diErmanno Rea Mistero Napoletano; quei particolari disegnavano i ca-ratteri del Matematico che, mostrando ostilità alle donne della classemostrava anche le sue difficoltà ad incontrarle.

Nonostante le lacrime di rabbia per le umiliazioni subite, la suaammirazione per il maestro geniale rimase intatta e volle, fortissima-mente volle, continuare gli studi di matematica e fisica.

Durante le lezioni quel disprezzo per le donne che volessero sa-pere di matematica e fisica era apparso più volte una nevrosi evidenteche nessuna prova di idoneità avrebbe potuto eliminare.

Anzi, quelle ostilità avevano avuto un effetto di stimolo, la suapassione si era ampliata e nel tempo quegli ostacoli verbali erano di-ventati incitamenti mentali a dare di più. I capelli color perla e gliocchi color del mare rendevano il suo sguardo attraente, la sosta eraterminata, il sorriso di Lello l’accolse come sempre, non sorpresodella sua venuta.

PULCINELLA NON ABITA PIÙ QUI

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Del resto, lei abitualmente bussava al suo studio anche quando erapiccolo ed in disparte, a Salita Arenella, lei aveva sempre saputo chenella stanza accanto all’ingresso le metamorfosi di Lello erano pronteper il volo.

L’artista si raccontava a lei con semplicità e lei lo ascoltava con gioia.Questa volta il racconto partiva da lontano quasi a voler far presa-

gire le decisioni che riguardavano il futuro.Venivano ricordate in sequenza le prime mostre dopo le espe-

rienze di viandante che rivisitava il saper far pastori del presepe na-poletano.

Poi il suo segno esploso e comunicato al Suor Orsola e poi, an-cora, al San Massimo di Salerno.

La Certosa di Padula lo accoglie per la sua capacità di farsi con-giungere dall’antico, e poi le sue mostre in giro per il mondo, Franciae Spagna come prime tappe.

In tutti i luoghi e nelle tante città ad identità consolidata la mo-dernità del suo segno, che in definitiva rivisitava una identità abu-sata, il Pulcinella, comunicava l’importanza della metamorfosi; tuttoil suo linguaggio, pulcinella prima, il Vesuvio e San Gennaro poi, ri-proponeva il paradigma identità e sviluppo. L’uovo, segno delle na-scite di ogni giorno si ripresenta in sequenza cadenzata dopo il se-gno della morte, annuncia la vitalità della città e inizia un percorsolungo di ricerca che lo porterà alla pittura in poco tempo.

«Ti ricordi del libro d’arte presentato con Aldo Masullo a Montedi Dio, presso l’Istituto di studi filosofici?»

«Si, è bellissimo ed annuncia crescite importanti, a partire dal ti-tolo: Pulcinella non abita più qui».

Quelle parole erano state dette anche altre volte, ma ai due facevapiacere ripercorrere parte delle emozioni che, in maniera diversa,erano state vissute come cambiamento di progetto. Si, perché quellibro annunciava la decisione di abitare nel Palazzo Sansevero.Quelle che un tempo erano le scuderie o i luoghi di sosta tempora-nea dei cavalli erano state rigenerate; un cotto napoletano prove-niente da i Rufoli di Ogliara, frazione della città di Salerno, poggiatoin alcuni ambienti diventava linguaggio complementare a quello piùtradizionale della pietra vesuviana.

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Lello Esposito, L’urlo dell’uovo, 1993

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L’artista raccontò, quasi a voler sorprendere la sua amica, chequando visitò la cartiera di Fresco di Porcara a Tramonti, insiemead un suo amico economista, aveva già in mente di comprare unospazio grande per riempirlo di progetti più grandi della città. Fu fa-cile allora produrre un libro d’arte che parlasse di questa possibileevoluzione.

Pulcinella non abita più qui divenne subito un libro d’arte e progetto.In una giornata d’ombre e di traffico, visitando la cartiera, l’artista si

impossessa del luogo e riempie tutti gli spazi del potenziale produttivo.Un pulcinella cresce ad ogni pagina fino a diventare frammento

del progetto esploso, un frammento di maschera esce dal libro comeannuncio che pulcinella non può essere più contenuto in uno spaziochiuso, luogo o città che sia.

Quel frammento di sé annuncia la necessità dello spazio allargato.Una tela di 20 metri quadrati riporta lo stesso titolo del libro ed unpulcinella inizia ad abitare il nuovo spazio in Palazzo Sansevero an-nunciando già che quello spazio pur essendo concettualmente grande,è in ogni caso incapace di contenere la metamorfosi necessaria.

«Ti ricordi Elena che fila per entrare quel giorno, presenze im-portanti e gente comune mischiata come folla della città possibile?Quella tela è ancora qui e segna anche il mio cambio di passo, la pit-tura come potenziale espressivo che moltiplica quello di scultore».

«Io amo le tue sculture, quella sequenza di pesi che hai portato inGermania e poi venduta a collezionisti diversi, sì i pesi, i pesi diNapoli e della storia degli uomini. Ma tu non mi avevi detto che vo-levi informarmi di altro, ancora dei successi a New York?»

«Voglio in realtà parlarti del nuovo spazio che ho acquistato, unospazio simmetrico che però scende ancora di più nel sottosuolo.Voglio imitare mio padre, lui scendeva per ripulire, io voglio scen-dere nel ventre per far diventare questi spazi un luogo città. Nei con-tinui viaggi in varie parti del mondo ed a New York in particolare,c’è desiderio di creatività nuova e Napoli ed i suoi segni possono dareancora molto, moltissimo, al progetto contemporaneo. Io mi sento la

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forza e l’entusiasmo addosso, forse proprio per orgoglio dopo tantacomunicazione spazzatura sulla impossibilità della risalita. La cittàche sarà è la città che saremo. Voglio sentire le tue emozioni ancorapiù vicine».

«Ma io sono venuta per acquistare ancora il tuo segno di sempreprima della metamorfosi definitiva. Ecco, questa maschera d’alluminio,grande e da sola può occupare lo spazio di un’intera parete, può riem-pire una casa come dici tu nel tuo libro, dipende dalla decodifica delsignificato di quello spazio in apparenza non occupato».

Quella visita solitaria era per lei una cerimonia, e per il modo incui si emozionò lo fu anche per l’artista.

La sua discesa lenta per i nuovi pensieri era stata una Inauguratio,quasi un cerimoniale ripreso dai Romani. Il suo tornare indietrol’affermazione della Limitatio, il confine della nuova città.

Certo la consacrazione, la partenza definitiva del progetto spettava aLello, a lui spettava la responsabilità di generare un luogo città, fatto diframmenti significativi poggiati ad una distanza breve dal decumanomaggiore (est-ovest come direzione), ma capaci di coniugare anche gliorientamenti sul cardo, per non dimenticare né il sud né il nord.

Un progetto sotterraneo che chiede di diventare mundus, Pulci-nella non abita più qui, come annuncio che la città non ha paura dellametamorfosi, cerca l’improbabile per diventare nuovamente cittànuova.

Mentre l’artista confezionava i pacchi regalo una domanda entrònella testa della scienziata innamorata dei pulcinella di Lello Esposito:che differenza c’era, per lei, tra Caccioppoli e Lello Esposito?

Si guardò intorno, le mura bianche annunciavano mille gradi di li-bertà per la risposta aperta, fatta di più argomentazioni, alla fine netrovò una semplice, nella quale ritrovava un po’ di sé: nessuna diffe-renza, ambedue geniali e completamente presi da Napoli.

Gli oggetti che aveva comprato avevano un valore aggiunto ine-stimabile.

La voglia di un artista, capace di avere successo in tutto il mondo,di investire ancora su Napoli era una sicurezza da portare nel cuore.

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L’importanza della sfida del proprio tempo è un segnale di appar-tenenza forte; nel deserto trovare l’acqua è la volontà di essere attore,riuscire dove generazioni precedenti hanno fallito. La presenza diopere d’arte di assoluto valore internazionale di Clemente e LelloEsposito in uno degli alberghi più prestigiosi di Napoli finisce persegnalare l’importanza delle diverse strade per affermare un’identità.

La sfida di Lello è quella di non diventare subalterno, restare aNapoli ma abitando ugualmente il mondo per i dialoghi necessari, si-gnifica voler cambiare il mondo dall’interno, non voler accettarel’idea che l’altrove è migliore del posto in cui si nasce. Ma questo pro-getto di nuova identità ha necessità di ibridazioni, di reti sempreaperte, di sfide infinite, di diventare perdente invincibile e questo perla scienziata professoressa di Fisica non era altro che vivere la com-plessità in maniera contemporanea.

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Silvio Perrella lo aveva invitato più volte, e lui nonostante tuttocontinuava a venire nella sua città.

Questa volta in via ufficiale, il comune di Napoli sollecitava la suapartecipazione al Maggio dei Monumenti; parlare di Napoli e a Napolisarebbe stato un peso ma anche una nuova opportunità.

L’amico Silvio Perrella, subentrato a lui in qualità di Presidente dellaFondazione Premio Napoli, lo aveva accolto in Piazza del Plebiscito,ed Ermanno Rea si era fermato ancora una volta davanti al PalazzoReale prima di incamminarsi verso la chiesa di San Ferdinando. Eglidoveva parlare e raccontare di Napoli. Il Comune aveva coinvolto scrit-tori ed esperti affinché l’edizione del 2009 fosse interpretata come unaripresa ancora più consapevole dell’investimento in cultura. SilvioPerrella gli aveva parlato di una recensione molto appassionata e, percerti versi provocatoria, uscita sul giornale «La Repubblica» e riferita alsuo libro più recente Napoli Ferrovia.

L’autore della recensione era entrato nel libro fino a forzarne unpunto importante, forse sottinteso ma non esplicitamente emerso.

Veniva fatta l’ipotesi che la partenza definitiva da Napoli, annun-ciata dal personaggio principale, fosse in realtà l’annuncio di un sui-cidio necessario.

Il libro, scritto in prima persona, conteneva l’ipotesi che lui, Rea,come intellettuale di sinistra, finiva per riconoscersi dentro la ribel-lione necessaria. Dopo l’invasione dei Russi di Budapest, quandoemerse con chiarezza che anche città come Napoli non avrebbero po-tuto svolgere un ruolo nuovo e contemporaneo, non subordinato,nella storia della città che sarebbe arrivata, molti furono i gesti im-previsti, di dissenso e di dissociazione.

L’improbabilità del cambiamento di Napoli e del Mezzogiorno,

LE ROSE DI MAGGIO

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raccontata già in più libri, ma svolta con passione nel libro MisteroNapoletano da lui e nel Resto di Niente da Striano, era ancora l’ipotesiprincipale del suo ultimo libro. Il regista Martone aveva lavorato an-che lui su questa ipotesi, iscrivendo il suicidio (Morte di un matema-tico napoletano) tra le morti che si ribellavano alla morte del comuni-smo, come gesto disperato per il cambiamento.

In Napoli siccome immobile, l’ultima conversazione intervista delfilosofo Aldo Masullo, si sostiene la stessa ipotesi. Il libro insiste pro-prio sull’inesistenza di una massa critica sociale capace di organiz-zare il cambiamento.

Nella Napoli descritta da Ermanno Rea in Napoli Ferrovia, la si-tuazione è ancora più drammatica, ed allora, per l’autore della recen-sione, la partenza definitiva era la metafora del suicidio dell’intellet-tuale Rea, del comunista Rea. Questo partire virtuale si ricongiun-geva alla partenza fisica di Rea avvenuta negli anni sessanta ma maiannunciata come perdita di identità.

Emergeva, così, una riflessione profonda, basata sul capitolo AddioCaracas, capitolo conclusivo della sua cronaca diario dedicata a Napoli.

A riflettere bene, l’autore della recensione, lo riscattava, dava an-cora più drammaticità alla partenza, non si accontentava della suadefinizione di se stesso: «ottantenne dimissionario, tutto livori e ri-cordi che si chiama come mi chiamo io», Rea aveva scritto nel libro.

Era stato lui ad autodenunciarsi, dichiarando l’impossibilità diipotizzare per Napoli un cambiamento. Una Napoli futura era im-possibile da immaginare in coerenza con i principi e la tensione diun comunista degli anni ’60, ancora oggi desideroso di affermare lanecessità di un nuovo progetto morale, di riscatto definitivo.

Da lì a poco avrebbe dovuto parlare al pubblico del Maggio deiMonumenti, parlare della sua città.

Certo doveva svolgere il suo ruolo, ricongiungersi alle prime ma-nifestazioni volute e promosse da Mirella Barracco molto prima chela prima giunta Bassolino tentasse di annunciare un Rinascimentoculturale a Napoli.

Quella rendita di posizione veniva rilanciata e lui si era impegnatoa riempirla di racconti, di luoghi intrecciati, di nuove immagini to-pologiche, insieme a tanti altri scrittori e studiosi.

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Del resto, per lui non sarebbe stato difficile raccontare di Napolie dei luoghi cospicui. Il suo vissuto a Napoli era stato denso.

Oggi il suicidio è entrato nella storia, non solo come bisogno dialtra vita, ma con significato ampio, dal pilota giapponese kamikazeal soccorritore eroico, dal combattente per la libertà alla giovane ira-chena con la bomba sotto le vesti. Cecenia e New York possono staredentro la stessa scena.

L’impulso di morte non va più interpretato come una mossa con-tro la vita. Quel tratto di strada tra Palazzo Reale e la chiesa sembravainterminabile. Si era fermato più volte quasi a voler possedere nuo-vamente tutta Napoli. Rileggeva mentalmente la recensione e per unmomento pensò che ‘il suggeritore inesistente’ di Caracas fosse il re-censore del suo libro.

Piazza Garibaldi, così come raccontata nel libro, quello spazio ur-bano a mutazioni storiche continue, misurava la mutazione biologicadella città, specie la domenica mattina. La piazza, di mattina, diventaancor più di domenica, luogo cosmopolita, tutte insieme le centodi-ciannove nazionalità si mostrano con un avvicendarsi febbrile. Lapiazza si colora di dimenticanze, si mostra multiculturale e paurosaallo stesso tempo, rappresentativa e premonitrice, vuota e piena.

Ebbene quella piazza, con i suoi significati, si sovrapponeva con-tinuamente nel racconto mentale che si era preparato per la conver-sazione nella chiesa di San Ferdinando.

Sarebbe stato impossibile non ricordarsi delle speranze perNapoli, delle diverse direzioni possibili.

Poteva tornare mentalmente indietro, nel tempo e verso Sud, ri-passare per la piazza della Montagna di Sale del dopo G7, l’imma-gine planetaria dell’artista Paladino voluta dal Soprintendente arch.Giuseppe Zampino prima degli altri; questo poteva essere un modoper raccontare di un sale sapiente scomparso. Avrebbe potuto affac-ciarsi su un compendio di architettura sovrapposta o incrociare conlo sguardo un potenziale geomorfologico incredibile: il Vesuvio,Capri e Posillipo che ti salutano all’unisono non appena ti affacci sulmare dopo via Santa Lucia.

Ma lui riprese il suo cammino verso Nord, con l’antica via Toledoche gli faceva vedere il cammino per attraversare la città, per andare

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fino al Museo Archeologico Nazionale e a Capodimonte. Si ricordò,allora, di Jean Paul Sartre, che nel risalire lungo quella strada e percor-rendo anche i quartieri spagnoli, finì per entrare in uno spaesamentonon previsto, fino a non riuscire a vedere Napoli, come è avvenuto edavviene ancora, per molti turisti impauriti. Come Sartre, questa volta,sentì una estraneità imprevista per la densità delle contraddizioni esi-stenti. Erano forse le stesse contraddizioni esistenti da un tempo im-pensabile, forse, per aver voluto Essa, essere città prima delle altre.

Certo avrebbe potuto parlare delle altre due direzioni potenziali.Andare a Est verso il Porto, passando per il San Carlo, in ristruttura-zione; rivivere alcuni luoghi emblematici, la Galleria e la BibliotecaNazionale, il Maschio Angioino fino a rivedere il Vesuvio ed il Maredelle Partenze verso direzioni opposte. Ma c’era anche da andare adOvest, risalire Pizzofalcone, l’Istituto di Studi Filosofici ed i luoghidella Rivoluzione, fino a quelli dei pensieri lasciati nelle teste decapi-tate, i pensieri del cambiamento.

Che straordinaria città, avrebbero detto gli urbanisti di tutto ilmondo, ma lui non se la sentiva di trasmettere al pubblico convocatoper il Maggio dei Monumenti una nuova voglia di Napoli. Questasensazione di felicità che pure aveva attraversato più volte il suocuore e la sua mente era scomparsa.

Certo avrebbe fatto una presentazione appassionata, piena diNapoli, ma la consapevolezza del momento storico gli avrebbe sug-gerito altro; lui non avrebbe voluto dare spazio ed enfasi a questo suonuovo stato d’animo.

Tornava Masullo nella sua mente: nella comunità civile il destinodi tutti è sentito come il proprio destino. In ciò è l’essenza della ‘Polisgreca’, lo spirito della politicità è l’appartenenza. Nel suo libro,Napoli Ferrovia, ed in altri, egli aveva raccontato di un tempo in cuiquesta essenza civile c’era, oggi di questo vi è poca traccia.

Iniziava ad aver paura, aveva paura di incontrare gli occhi del pub-blico e scoprire come nel racconto del libro che non vi è più tracciadi tensione morale, di essenza civica. Tornavano in mente le imma-gini sulle spazzature di Napoli, metafore della città soffocata dalla se-paratezza, tra uomini ed istituzioni, mille frammenti di città esplosi aloro volta.

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Lo stesso commissariamento, lungo, interminabile con l’arrivo delsalvatore di turno, aveva già fatto ripiombare Napoli nella immaginedi Città Palcoscenico.

Napoli e le sue anime del purgatorio ad implorare salvezza.Le litanie delle compassioni uscivano nuovamente dal suo libro, il

suo libro che annunciava a tutti che Napoli non era più un paradisoabitato da diavoli, ma nemmeno un inferno abitato da angeli. Era unacittà sospesa, piena di storie ma senza storia collettiva.

Una folla di pensieri da scacciare prima della conversazione sui luo-ghi di Napoli. Una olla putrida (piatto spagnolo con mille componentia base di lardo) di pensieri, pensieri che gli impedivano di vedere inquel momento luoghi abitati da persone: solo persone sospese, nonborghesia, non intellettuali volitivi, non comici, non uomini faber,solo le anime del purgatorio di Masullo, tutte esistenze strane.

La malinconia civile annunciata nella recensione stava prendendoil sopravvento, per fortuna sopraggiunse il suo amico temporaneo.

«Vedo che stai ripassando la recensione».«Sì, rispose».In realtà i suoi pensieri erano andati ben oltre.Aveva forse il tempo per scrollarsi di dosso l’idea che si fosse già

suicidato e che stava per incontrare persone dall’esistenza inesistente.

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Si era quasi barricata nella sua splendida casa di Palazzo Spinelli,sembrava di essere tornata alla stessa tensione e alla stessa dispera-zione del ’92. Sembrava che gli abitanti di Napoli e tutti i suoi go-vernanti volessero lasciare alle generazioni future una città devastataancor più di Sarajevo. Questa volta la devastazione non era dovuta aibombardamenti o agli incendi o alle espropriazioni ma, proprio quel-l’oggi, un bombardamento di immagini e di parole dei mass-mediapiù importanti del mondo descrivevano una città immersa nei rifiuti,senza possibilità di uscire dallo stallo, anzi con problemi nascostienormi, a partire dai rifiuti pericolosi. La devastazione era mentale,mancavano punti di riferimento minimi per trovare l’uscita. Paura esolitudine, una sorta di limbo per assenza di fattori positivi, con mon-tagne di fattori negativi.

La Napoli dei colori di base, dei colori fondamentali, del giallo deltufo e del sole, del blu del mare e del cielo, del rosso fuoco del Vesu-vio, era stata sostituita dalla Napoli dei colori indesiderati, questi di-pingevano la scomparsa dei colori per la ricerca della città possibile.

Lei si era battuta, 17 anni prima, perché nascesse un libro capacedi svegliare le coscienze del mondo e far riconoscere, sotto le mace-rie evidenti, una città, a partire dalla sua biblioteca.

Questa volta, vedeva che i giornalisti di tutti il mondo, arrivati an-che da lei, non erano disposti a parlare della possibilità di salvareNapoli, erano interessati solo a scrivere e a raccontare la scomparsadella città bella.

La biblioteca universitaria di Sarajevo fu bombardata il 6 aprile1992, poi incendiata in seguito ad un altro bombardamento nella not-te tra il 23 e 24 agosto.

Un milione e mezzo di volumi, un oceano di saperi incrociati, un

NATHALIE, NAPOLI, NATHALIE

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oceano di conoscenze, un luogo di insegnamento e di cultura, di ri-cerca e di incontri, un vero luogo città, concettualmente più grandedella città che ospitava la biblioteca stessa, si era dissolto.

Quel luogo sacro, appartenente a tutto il mondo era sparito e sem-brava che ciò stesse accadendo anche per i luoghi cospicui di Napoli,sommersi dall’ingovernabilità e dall’inerzia del mondo civile.

Nel ’92 il suo orgoglio ed il suo amore si erano trasformati in fu-rore civico, voglia di salvare una città, a partire dalla biblioteca.

Allora aveva sfogliato gli album di foto di viaggio di suo nonno,Charles Marcel Heidsiek, e in quelle foto aveva trovato la chiave perun appello al mondo.

Un libro per una biblioteca nasceva come progetto di ripartenza.«Cosa diventeremo tutti noi, che cosa sarà di questa città e di que-

sto Stato?Come si vivrà in quelle che furono un tempo Mostar e Sarajevo?»Non era difficile capire, le sue domande erano una ribellione a

quello che era accaduto. Questa ribellione doveva essere comunicatafino a coinvolgere le istituzioni di tutta l’Europa, a partire dallaComunità Europea.

Riesce a comporre il libro, le foto del 1929 raccontano di paesaggi,di persone e di armonie perdute, e diventano testimonianze a sup-porto degli appelli sul perché ricostruire una biblioteca ed una città.

Il libro è realizzato è pubblicato in Francia, lei pretende che lo stessolibro sia luce anche in Italia. Vi erano però difficoltà, ma Napoli e lasua città metropolitana accolgono l’iniziativa, i costi si abbassano, eccoun buon segno per riconoscere in Napoli la città generosa del mondo.

A Napoli incontrò allora Giuseppe Morra, gallerista e mecenateimportante, e questi l’aiutò, insieme ad altri, orientandola nella cat-tura delle risorse; il libro e la sua realizzazione diventavano così unpercorso nella città possibile.

Camminando nei vicoli del Maggio dei Monumenti della primaedizione, a Nathalie sembra di ritrovare la città che stava scompa-rendo a Sarajevo e in molte altre città del mondo. Una città che nelsuo ventre accoglie strati sociali diversi e multiculturali, vivendo unarcaico futuro contemporaneo.

La città antica si fa riconoscere e la nascita del nuovo piano rego-

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latore progetta la possibilità di conservare, riposizionare il centro sto-rico più grande del mondo.

Napoli città madre si rivela e lei vive la sua esperienza di redazionedel libro come opportunità per rileggere il potenziale di Napoli.

Arriva la comunicazione del G7, Bassolino e Ciampi comunicanoal mondo che la città vuole entrare nella storia ed il Palazzo dove hasede l’Istituto di Studi Filosofici apre dopo 200 anni il portone prin-cipale per accogliere la nuova classe dirigente, volitiva e moralmenteprotesa a far vivere il progetto nuovo ed il cambiamento. Il portoneverrà chiuso tre anni dopo, l’avv. Marotta, presidente dell’Istituto,ritenne già sparita la speranza per la città nuova. Ma, per lei, la cittàdove realizzare il libro, forse è anche la città dove provare a realiz-zare un altro progetto, completamente nuovo, contemporaneo, di ap-partenenza al mondo.

Dalla Francia a Napoli arrivano incoraggiamenti, comportamentiistituzionali si congiungono, presenze colte francesi vivono beneNapoli.

Un numero impressionante di testimonianze, un oceano di testipoetici, scritti drammatici, parole di speranza e progetti innovativi,rabbia e guerra si mischiano, mille linguaggi per descrivere la gravitàdell’accaduto in Bosnia.

Più di cento editori appongono il loro logo sul libro finito,Sarajevo è salva? Le bombe continuano a cadere, ma Sarajevo vienerappresentata e ricordata. In quei giorni era importante tentarel’impossibile, un libro per salvare una biblioteca, una biblioteca comesegnale per ricostruire una città, l’entrata nella biblioteca come in-vito ad entrare nuovamente in città.

Che ne sarà di noi domani se oggi non facciamo nulla?Aveva teorizzato, allora, che anche solo un libro, un libro di verità

può far tornare la libertà e la gioia di vivere. Villaggio Balcanico, consottotitolo Un libro per una biblioteca, viaggio nella complessità dellastoria era anche il tentativo di riparare a una vergogna indicibile perla politica della propria patria e delle nazioni sorelle, quasi un doverlavorare contro il proprio paese.

Del resto sfogliando gli album fotografici di suo nonno, aveva sco-perto che suo nonno, come ogni uomo o donna sulla terra, era un libro.

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Più un uomo vive e fa esperienza, suo nonno aveva scelto il viag-gio come essenza del vivere, più un uomo ama e comunica.

Più il libro-vita si trasforma in romanzo, più un uomo sogna e creaitinerari per raggiungere nuove città.

Il libro trabocca, diventa germinativo, nascono tanti altri libri, lacomunità di libri si fa biblioteca e la comunità di uomini si fa città.

Non vi è differenza tra biblioteca e città, ambedue vivono di sto-rie di uomini e donne che raccontano della loro città.

Un libro germoglia solo se è aperto e letto, una città rinasce solose da questa possibilità a tutti.

Allora quella speranza aveva invaso Napoli, la speranza di aprirenuovamente a Sarajevo la biblioteca di Babele come città universale.

Ma da allora era passato tanto tempo, quel giorno troppi colori in-desiderati la circondavano, non riusciva a sfogliare nessun libro. Isuoi progetti d’accoglienza per l’arte e la vita contemporanea sem-bravano insostenibili: Napoli-Ferrovia come libro d’ispirazione perraggiungere un’altra città? Nuovamente a Sarajevo, questa volta persalvare Napoli?

Lei che un giorno aveva abbandonato il suo appartamento di Parigiper trasferirsi a Napoli per dedicarsi all’associazione, al progettoKaplan n. 1, ‘Il purgatorio’ da connettere a quello della Galleria,Kaplan n. 3, faceva scorrere pensieri senza gioia di vivere.

I suoi pensieri condivisi con un’amica erano stati travisati e la suapartenza da Napoli era stata annunciata sui giornali, a riprova cheNapoli non poteva più essere la sua città e nemmeno la città diKaplan.

Ma chi era Kaplan e perché era venuto a Napoli?Quella notizia era, in fondo, falsa, ma la notizia sulla sua voglia di

restare era anch’essa non completamente vera.

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Le corone di spine erano, per Francesco Saverio Nitti, i paesi-cittàche a Nord di Napoli formano una barriera socio economico, di osta-colo allo sviluppo. In questi ambiti territoriali c’era la camorra, al-lora organizzazione non estesa, a dettare le regole del vivere. Per Nittie molti altri pensatori del ’900, lo sviluppo industriale di Napoliavrebbe potuto rimuovere questi ostacoli formando una classe anta-gonista e una nuova coscienza civile. Il progetto industriale ad Est eda Ovest di Napoli segnala vuoti ed aspettative della città, simboli con-temporanei di problemi irrisolti, e la camorra si è impossessata di unterritorio molto più vasto della corona di spine.

Fin dai tempi del lavoro di ricerca presso l’Osservatorio sulla ca-morra, in Roberto Saviano era cresciuta la fiducia nelle persone.L’uso corretto della parola nella cronaca vera dei fatti avrebbe po-tuto svelare definitivamente l’allargamento e la diffusione della co-rona di spine. Oggi le attività della camorra si sono moltiplicate esono penetrate in ogni dove fino ad essere oramai immagine e so-stanza dell’area metropolitana di Napoli.

Anni di lavoro a coltivare grano da piantare nel mondo della co-municazione. Un libro pieno di cronaca e di verità che si fa lettera-tura per fare più luce, attraverso emozioni e sgomento, su linguaggie verità nascoste che chiedono azioni nuove.

Il suo paese, come la sua città e tutto il territorio napoletano, por-tano addosso un’identità pesante, come impossibilità o improbabi-lità al cambiamento

Roberto Saviano era arrivato a Maratea in una magnifica giornatad’estate, il sole stava tramontando su capo Palinuro, avrebbe presen-tato, dopo qualche ora, nella magnifica piazzetta del Gesù diFiumicello, il suo libro: la parola come grano da seminare e la verità

UN LIBRO COME GRANO IN UN CAMPO DI GRAMIGNA

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come germoglio per mille azioni. Gomorra il titolo ed una plateaestiva che non sapeva nulla di lui e nemmeno del libro.

La comunicazione ed i media non avevano ancora prodotto il suc-cesso; i cambiamenti di vita erano solo annunciati come pericolo la-tente o come verifica delle sue aspettative.

Morire per una causa giusta era la verità già raccontata più volte.Quel giorno si sentiva particolarmente sereno, come se la consa-

pevolezza delle sue parole lanciate contro i poteri maligni stesseroancora in volo.

Sapeva che sarebbero arrivate e che molti sarebbero stati colpiti,sapeva anche dei pericoli che sarebbero arrivati per lui e che luistesso sarebbe stato preso prigioniero e che con tutta probabilità sa-rebbe stato condannato a morte dalla camorra e dai suoi infiniti fian-cheggiatori. Sembrava che Maratea fosse lontana da tutta questa ten-sione e fosse solo un’opportunità di comunicare idee e raccontare diNapoli e delle sue spine, un altro dramma della storia di Napoli.

Del resto, il suo ruolo era quello, raccontare la verità e far decodi-ficare agli altri i segnali terribili che arrivavano ogni giorno da quellarazza avversa costituita da tutti gli affiliati ai clan. Un mondo da ri-velare, codici e linguaggi da svelare, fatti terribili da raccontare. Nonera lui che doveva sciogliere i nodi, ma poteva fare luce sulla ferociadei clan che, combattendo per il loro potere e per la loro sopravvi-venza, diventavano nuova classe di riferimento per una popolazioneallargata di simpatizzanti e affiliati.

Aveva rivelato e ribadito nel suo libro che la corona di spine di cuiparlava Nitti aveva invaso un territorio esteso, con il Nord d’Italia,l’Europa ed altri Stati pienamente coinvolti dall’allargamento del po-tere dei clan e dalla loro capacità di differenziare le aree di accumu-lazione di denaro e potere. Un parassitismo come meccanismo di ac-cumulazione primario, la droga come settore d’impiego ad alto ren-dimento, la finanza e le attività immobiliari come patrimonializza-zione allargata.

Dal mare, guardando il Cristo di Maratea, si accorse delle traccedi territori abbandonati, anch’essi in attesa di nuovi speculatori, per-sone insospettabili che anche a Maratea si avvantaggiano dei cambia-menti di destinazione dell’uso del suolo.

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Frane e smottamenti annunciati faranno giustizia o diventerannooccasioni di nuova speculazione, l’immagine nasconde la realtà, nonvi è curiosità di sapere e Maratea, appare ancora, come un invidia-bile equilibrio ambientale.

Non vi fu pressione su di lui, fu possibile aspettare che la piazza siriempisse a metà di persone inconsapevoli e che le analisi ed i raccontidel libro fossero così spietate da far male al lettore. Saviano usò paroleforti ed il pubblico si sentì chiamato a schierarsi, a dire sul che fare.

Il duello tra autore e i clan era stato annunciato, pur essendo pa-lese leggendo il libro. Nessuno aveva sottolineato che il giovane gior-nalista e scrittore aveva collezionato e letto documenti su documenti,per svelare trame terribili, connivenze indicibili, violenze impensa-bili, degrado morale e comportamenti inumani. Galois sullo sfondo,era partita una sfida impossibile.

Saviano voleva ribadire che quando si parla di camorra e dei lorocomportamenti, si deve capire che si tratta della formazione di altraspecie umana, una gramigna in un campo di grano e che presto que-sta invasione totale non potrà più dare immagine a Napoli ed al suoterritorio fertile, anzi distruggerà questa immagine per sempre.

Un numero infinito di parole diventa spada per un duello; esse, ri-collocate in una sequenza scioccante, avevano la forza di un ro-manzo-denuncia di mille verità.

Sì, la crudezza e la bellezza della verità camminavano insieme, lasfida era spregiudicata, un pericolo di vita per tutti coloro che comeSaviano sapevano e volevano dire ogni giorno la verità sulle cose, edanche sulle cose da fare.

Un suicidio necessario per la sua città o una prigione perfetta siannunciavano come futuro?

A Maratea, però, tutto sembrava differibile, la tensione rallentata,il pubblico distratto, ancora un diaframma tra le parole scritte e leparole percepite.

Ma proprio quella pausa, quella serenità dei luoghi, quei silenziindesiderati lo convinsero a dare ancora più forza alle parole dette edi gridarle nelle presentazioni da fare. Le metamorfosi da annunciareerano profonde, la città ed il suo territorio erano in cancrena evi-dente. Lui era pronto a saltare nella nuova vita, come Galois, sapeva

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che le forze in campo erano impari, ma un processo nuovo sarebbepotuto partire, la speranza dell’improbabile lo rapì, lui poteva staredalla parte di chi si prendeva il compito di tentare di estirpare tuttala gramigna.

Il sole era tramontato immergendosi nel mare di Parmenide. Lui siricordò di Seneca e di Socrate e diede forza ai pensieri da presentare.

Napoli-Camorra, Camorra-Napoli, Napoli Inferno e Gomorrasempre, erano le immagini che avrebbe presentato.

Un territorio da rappresentare in metamorfosi mortale, con un po-tenziale distrutto, da bonificare, in primis con la parola, un eserciziocollettivo di ecologia della mente, una battaglia da vincere a tutti icosti, un suicidio necessario, bellezza come emozione, e inferno comeprospettiva di vita.

Quella sera venne accarezzato della luna; questa lo aveva protettoper una notte intera, differendo lo sgomento delle difficoltà da vivere.

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Il restauro può essere una modalità del vivere. I manieristi vede-vano anche nel progetto di ripristino la capacità di produrre il nuovo.Il metodo d’intervento si deve poter applicare all’opera d’arte comealla città intera. La parola restauro, anche se non soddisfacente ap-pieno è l’unica che si può far carico del dialogo necessario tra anticoe moderno nella città storica. Un metodo riservato non più solo almonumento ma al territorio, una sorta di restauro evolutivo.

Altri termini, come risanamento urbano, riqualificazione urbana, ri-vitalizzazione dei centri storici, hanno anch’essi storie compromesse.

Ma l’ambizione di parlare di restauro urbano, quasi a contenereanche quello territoriale ed ambientale, per essere praticata ha biso-gno di idee e progetti con radici profonde da sviluppare.

Napoli ha consumato il termine, come altre città, con l’idea di do-ver restaurare il patrimonio Unesco della città storica. Questa chiededi essere salvaguardata e conservata e la parola restauro torna ad es-sere un termine riferito a tutta la città che, restaurandosi con valorinuovi, rivede se stessa e porta l’ipotesi di restauro del centro antico edel centro storico alla dignità di progetto contemporaneo della cittàdi Napoli.

L’impostazione del Piano regolatore di Napoli ha questa ambi-zione: il restauro della città storica come grande progetto contempo-raneo della città che verrà.

Ma come confrontare le teorie sul restauro, sul ripristino e sulcambio d’uso, affrontando contemporaneamente il passaggio di scalaconcettuale cui si è fatto riferimento?

Il racconto di fatti e di storie già esistenti, con l’ambizione di rac-contarli come romanzo contemporaneo, finisce per far luce su dibat-titi altrimenti inaccessibili.

UN MUSEO PER RIPARTIRE,UN LUOGO NUOVO PER VIVERE ANCORA DI NAPOLI

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Qualcuno potrebbe dire, ma come si fa a parlare di restauro quandoil problema è inventare il futuro?

Perché insistere sul concetto di restauro urbano e/o territoriale edambientale quando anche quello edilizio manca?

Ma la qualità urbana è quella del cambiamento possibile e ricono-scibile, e pertanto il restauro va pensato e realizzato dentro un pro-cesso sociale ed istituzionale orientato al cambiamento.

La storia breve e significativa del Museo Nitsch a Napoli e la pro-babile sua evoluzione è una storia che racconta un’azione indispen-sabile per costruire l’ambiente urbano e naturale del futuro.

Giuseppe Morra, la Fondazione Morra e altri protagonisti pos-sono raccontare storie parallele, tutte storie convergenti con l’ideache a Napoli l’arte e le arti, come linguaggio multiplo, sono necessa-rie a farci capire dove andare.

Sicuramente accanto a queste storie potrebbero essere raccontate al-tre storie, tutte capaci di interpretare itinerari paralleli, tutte capaci diraccontare le mille vitalità ancora esistenti del tessuto sociale napole-tano, questo è ancora capace di riprodurre grano invece che gramigna.

Giuseppe Morra non ama definirsi, si ritiene un semplice incom-pleto, desideroso di incontrare altri consapevoli della propria incom-pletezza. Dichiarare tutti insieme l’amore per un progetto-processo dicittà morale, cioè utile anche agli altri, alla loro evoluzione artistica esociale, diventa una possibilità solo dopo una condivisione esplicita.

Il convivio e la frugalità, l’azione e l’incontro, il viaggio e la ricercadevono essere vissuti come metodologia di apprendimento, stare incerchio aperto come girotondo è il metodo necessario alla crescita.Napoli sempre come voglia di vivere, erano tutti questi sentimentiche sembravano essere scomparsi dalla città.

Morra insegue il sogno di vivere bene la città con l’arte. L’arte den-tro la normalità del vivere. Una presenza costante per migliorare lacultura e l’apprendimento del vivere. Egli si addestra ai linguaggi, co-nosce tutte le avanguardie, vive con esse e le accoglie a Napoli giànegli anni sessanta nella sua Galleria di Via Calabritto.

È il tempo a Napoli di Lucio Amelio e della cultura dell’arte con-temporanea, Bonito Oliva, già accademico, muove i primi passi versoil successo ma già è amico di riferimento. Dopo qualche anno, Morra

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intuisce che, per lui, il tempo delle gallerie è passato, il trasferimentoin altra parte della città è necessario. Si sposta in un quartiere sim-bolo, la Sanità, rione raccontato anche da Eduardo De Filippo. Unquartiere ad identità strutturata, l’arte contemporanea, le avanguar-die hanno difficoltà a muovere il quartiere e la città.

Morra non si arrende, aspetta l’improbabile, non cambia città edil suo progetto, con questa scelta, diventa progetto ad identità forte.

Una centrale elettrica in disuso può essere acquistata in un altroquartiere ed il suo restauro può accogliere una parte del patrimoniodi opere presenti a Napoli. Per suo merito, l’artista più rappresenta-tivo del movimento di azionisti viennesi, solo in parte collegabile al-l’avanguardia del movimento Fluxus, Herman Nitsch vedrà nascereun Museo a lui dedicato.

Un improbabile luogo urbano diventa nuovo ambiente urbano,viene riconosciuto a poco a poco. Nitsch e Morra, fermati e proces-sati durante le prime azioni d’avanguardia diventano nuovi sacerdotiurbani. Si susseguono le manifestazioni d’arte, la centrale diventataMuseo Nitsch comunica al mondo che a Napoli è il Nuovo MuseoNitsch a comunicare il desiderio di nuova urbanità.

Il termine incompleto riguarda la necessità di avere un progettodi identità in continua metamorfosi e Morra è consapevole di doverogni giorno andare alla ricerca del nuovo. Accoglie la poesia visiva ela musica elettronica, ed è clemente con la contaminazione con le al-tre arti. Il museo diventa luogo nuovo, una nuova densità urbana an-nuncia nuove sonorità al quartiere ed alla città.

Anche l’acquisto di Vigna San Martino, l’immenso spazio verdedella collina dove è insediata la Certosa di San Martino, fatto anniaddietro, era il tentativo di vivere meglio le esperienze proposte daNitsch, il teatro dei riti e delle azioni aveva bisogno di spazio e VignaSan Martino era un luogo per mille iniziative e per produrre arte.Anch’esso è vissuto come luogo nuovo della Città, bene culturale ebene contemporaneo.

Da quel luogo è possibile avvicinarsi alla geomorfologia dell’areametropolitana di Napoli. Da lì, possono nascere mille pensieri di ar-chitettura rigeneratrice e questi pensieri si sovrappongono ai milionigià esistenti.

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Italo Ferraro, professore dell’Università Federico II, progettandoi suoi atlanti su Napoli, oltre a realizzare un’opera incredibile, decideanch’egli di vivere di Napoli, raccontando e studiando la sua evolu-zione, pietra su pietra, palazzo per palazzo, piazza per piazza, stradaper strada, spazio per spazio. Nei suoi atlanti sono evidenti le millecittà accolte nella città madre, stratificazioni storiche, della natura edell’uomo.

Racconta Napoli come città contraddetta, dirà lui, dando spessorescientifico alla evoluzione continua tra vincoli ed opportunità. Egliha anche l’opportunità di fornire alla città le basi conoscitive per laregolamentazione urbanistica. Svelando l’importanza degli stili, delletematiche, delle visioni immaginative, della storia, farà capire, a quelliche lo vogliono, l’irriducibile della città. L’accento si sposta dallasemplificazione alla complessità. Appare il tormentato gioco delle ri-combinazioni, esercizio multiplo per nuove possibilità, l’accento sisposta dalla semplicità alla complessità. L’armonia del tutto non èpiù garantita dalla persistenza di un piano. La bellezza è conquistataattraverso la disarmonia delle parti, mediando i conflitti, sposando icompromessi necessari. Il XX secolo ha sgretolato l’edificio del sa-pere e le conoscenze non sono più cumulative. L’enciclopedia non èpiù la ricognizione dei percorsi di apprendimento. I nuovi percorsinon sono prescrivibili, essi nell’attraversare la città non sono una si-stemazione dei risultati. La città è ancora una sequenza di percorsida scoprire. La città è ancora un’irriducibilità di punti di vista, di lin-guaggi, di modelli, di temi, di immagini, che concorrono (coope-rando e contraddicendosi) alla produzione del vivere.

Non a caso anche il Museo Nitsch nasce come progetto improba-bile; uno spazio bellissimo, inimmaginabile come progetto pensatoex-ante, proprio perché contraddice l’esistente, lungo percorsi cheattraversano la città da sempre, appare come nuova vitalità.

Durante il processo di costruzione del progetto-museo nascononuove empatie, nuovi incontri con persone che vogliono vivere diNapoli.

Nicoletta Ricciarelli architetto, Francesco Coppola architetto eRoberto Paci Dalò artista, spingono Morra a diventare architetto edurbanista di città.

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Del resto Nicoletta è funzionaria appassionata, vorrebbe trasferireil suo amore per i luoghi d’arte nei cuori degli abitanti di tutti i luo-ghi cospicui. Spesso ci è riuscita; influenzando i comportamenti dellepersone, ha educato queste al bello e alla storia delle pietre che cal-pestavano. Anche Francesco Coppola può essere classificato tra co-loro che vivono di Napoli non solo per i suoi trascorsi accademici masoprattutto per l’instancabile desiderio di spingere perché venganoavviati processi di condivisione e convivialità intorno al progettare.

Una esibizione artistica di Roberto Paci Dalò, legata alla musicaelettronica, svelò definitivamente molte opportunità del luogo.

Viene lanciata l’idea di allargare il ruolo dell’arte, non solo nelMuseo e per il Museo.

Il Museo spingerà perché la creatività si estenda e che tutto il quar-tiere diventi un quartiere dell’arte.

Ma allora il quartiere è parte di Napoli o può essere più grande diNapoli?

Una nuova densità abitativa dovrà e potrà vivere di Napoli?Utopia o Realtà è in ogni caso una storia che comincia a Napoli

per il mondo.

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«La ribellione vive per denunciare che la modernità va ripensata aqualsiasi costo se dalla “discendenza” si desidera “la risalita dal pro-fondo”».

Questa frase viene ripresa dalla presentazione che MarcoAmendolara, poeta e saggista, fa al libro di poesie di Filippo Cecere,giovanissimo poeta, Entriamo in Città.

Essi non si conoscevano ma condividevano l’impossibilità di viverele città del mondo dove l’odio e la vendetta pascolano indisturbati.

La loro incapacità di entrare in città per vederla risalire dal pro-fondo come città degli uomini è simile a quella segnalata da mille epi-sodi della storia degli uomini. Filippo si suiciderà, un suicidio mo-rale fatto per gli altri, l’addizione necessaria al vivere fino a ieri dopola perdita di beni individuali e di beni astratti necessari alle storiedella convivenza e del progresso.

Marco avrà letto mille volte nella sua mente quello che Filippoaveva detto in Figlio del Tempo e si è specchiato nella impossibilitàcontemporanea di vivere il progetto.

«Figlio della rocciaTuo padre è il tempo che accompagna e che sostieneTua madre è il caos che si ribellaIo sono quel che si dice e non trattengo l’eternitàPosso e non fuggo il divenireNon fuggendo concepiscoFiglio del TempoLa tua città è come una rocca su di un monteE di li ti vedo risalire...Ma ancora molto c’è da fare

SUICIDIO DOPPIO E PERIMETRI DI PAROLE DEI FIGLI DEL TEMPO

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Ad elaborare il contro della discendenzaE risalita dal profondo».

Anche Marco qualche anno dopo si suicida.Campani entrambi, rappresentano l’impossibilità del vivere nelle

città difficili del mondo, ogni giorno ne nasce una e Napoli, in pas-sato, le ha abbracciate tutte; anche oggi accoglie i loro cittadini nellasperanza di un nuovo viaggio di risalita, ci sarà sempre la paura dientrare nelle città fino a quando il nostro interno sarà più piccolo del-l’esterno della città che vorremmo vivere. Erano nate città già quandol’esterno era più importante dell’interno, il comune sentire più im-portante del proprio, ma oggi il sentire comune è scomparso; poi ar-rivarono le mura, ad impedire l’entrata in città, ragioni di difesa e dipotere si mischiarono, e le difficoltà di entrare in città si mischiaronocon le difficoltà a stare in città, oggi la città si è frammentata, le murasi sono moltiplicate; esse sono dannatamente invisibili.

A denunciarlo oggi è anche Nanni Balestrini, il poeta che parlacon gli occhi del linguaggio. Egli come Cassandra vede il cannibali-smo incombente nel progetto politico della città desiderata.

«La scrittura nasce come atto visivo, è il linguaggio che si imprimesulla pietra, nell’argilla, nel marmo, che dalle stele, dagli obelischi, dallelapidi delle antichità impone sentenze immutabili, ed oggi ricopre lemetropoli con effimere lusinghe della pubblicità e con la violenza deigraffiti sovversivi. È la scrittura pubblica che anticipa quella privata...,i laceri della stampa disegnano inedite costellazioni mentali ed invitanoil pubblico volenteroso a misurarsi con la sua capacità di interpretarele ragioni della sua irrimediabile passività».

La città frammenta i pensieri e il progetto politico diventa utopiatriste.

«Come disegnare allora, verbalmente, le mura di uno spazio ur-bano ed avvicinarlo?

Con Orfeo fioriscono Lino, Anfione, Museo ed altri poeti eroi, de’quali Anfione da’ sassi innalza le mura di Tebe».

Gian Battista Vico ci racconta, così, che un tempo poeti e musici-

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sti potevano costruire città. Oggi, versi d’amore e di rabbia, poesiecome frammenti, diventano racconto impervio; i luoghi celesti e i luo-ghi lontani si mescolano con il grigiore e la polvere degli eventi sto-rici; l’intera cultura occidentale si svela come cultura delle incapacità.

Le parole dei poeti si decompongono, i poeti non vedono il fu-turo, si ribellano, la vitalità della morte nuovamente in cattedra.

Gli eventi e le città protagoniste nascono e muoiono attraversandomillenni di storia.

Parole e frammenti ci entrano dentro per tracciare una linea cro-nologica tra le origini della cristianità e gli orrori che la smentiscono.

In tale quadro parlare dello spazio urbano e ripensarlo è impresaquasi impossibile, superiore alle possibilità umane

L’uomo perde i luoghi e mostra l’affanno che deriva da questa per-dita, questo stesso affanno diventa occasione per dare voce a mes-saggi profondi, intimi, indicibili.

Lo spazio esterno diventa qualsiasi cosa o persona fuori dall’io,diffidenza, estraneità ed affettività si mescolano. ‘Entriamo in città’diventa invito drammatico a disegnare nuovamente quegli equilibrinecessari a vivere la città.

Ma quelle stesse sequenze sono anche dubbio, ribellione, impos-sibilità a vivere la città, producono sconnessioni mentali impossibilida annodare.

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Napoli e Palermo erano già state rappresentate nel suo libro Logos& Topos. Ambedue le città si sono espanse sgarbatamente, per usareuna terminologia dolce.

Questa espansione, però, era ben diversa da quella di altre città.A Napoli la geomorfologia del territorio, la natura, fanno ancora

da suggeritore per la possibile evoluzione, del possibile ‘piano’.Tre grandi archi sul mare incisi da strade e colline... Napoli è così.A Palermo il paesaggio di natura è lontano, anche se imperioso e

metafisico.Il territorio delle due città appare ancora ricco, al di là del disor-

dine urbano.Conoscere, conoscere ancora, prima di fare, era questo il suggeri-

mento del libro, e conoscere significa sempre rifare il viaggio.Questa volta la sua Palermo, già disegnata come un gabbiano, lo

invitava a fare un nuovo viaggio, a ripartire più che a partire; Napolidoveva essere ancora scoperta, c’era un nuovo viaggio da fare.

La nostra è una civilizzazione non abituata a conoscere; chiusi incento, mille stanze ognuno progetta, ognuno per suo conto, poi siesce per litigare, chi la spunta costruisce ed alla fine si scopre che nonc’era il progetto morale.

Lui, il professore, non poteva che insegnare a conoscere, il pro-getto era ricerca sull’intermedio.

Occorre trovare nuove metodologie per comportarsi diversa-mente: insegnare ad accelerare i tempi dell’azione conoscitiva, sco-prire l’allegria profonda della ricerca, inseguire l’intelligenza che èsolo pensiero lungo.

Ai suoi allievi doveva saper dire della bellezza del saper vivere diarchitettura e di urbanistica pensata.

LA CITTÀ COME SPERANZA PER L’ARCHITETTURAE L’ARCHITETTURA COME SPERANZA PER L’URBANISTICA

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Come scoprire la ricchezza dell’intermedio, come saper cammi-nare tra conoscenza ed intuizione progettuale?

Quanta voglia di disegnare abbiamo?L’onda lunga si era abbassata finalmente, il mare invitava a guar-

dare lontano. L’aurora era appena abbozzata, ancora due ore perl’arrivo al porto di Napoli. Nicola Giuliano Leone decise di salire sulponte e di vedere Napoli ancora prima che apparisse. La volle dise-gnare nuovamente, come aveva fatto sempre, prima di una confe-renza sulle città o sul paesaggio; la sua passione per il disegno e lasua genialità rappresentativa potevano sintetizzare le diverse defini-zioni di Napoli, città da sempre.

Chiuse gli occhi, ed apparvero le tre visioni concettuali da trasfe-rire ai suoi studenti, una rappresentazione visiva dell’evoluzionedella città.

Il fenomeno urbano è apparso in maniera indipendente in luoghidifferenti, gli archeologi non hanno ancora smesso di trovare genesidiverse delle città, e la loro definizione di città è ancora in evoluzioneteorica e rende sempre attuale la domanda: perché ci sono le città?

La risposta sarà sempre incompleta e lascia aperta la voglia di ul-teriori ricerche: archeologia, filosofia, urbanistica, economia urbana,religione, storia, geografia, lingue e letteratura sono tutte disciplinein affanno su questo argomento, hanno perso il filo.

Eppure la città è per gli uomini (per la comunità politica) ciò cheil mondo è per il genere umano nel suo insieme.

Nella sua mente Napoli esisteva da sempre, ancor prima che i grecila rifondassero. Avrebbe riassunto la sua evoluzione in tre tavole.

Nella prima provò a stilizzare Napoli come monumento, quasi apoter definire l’estetica e l’architettura della città come insieme o sto-rie dei centri culturali, politici e militari.

Ecco Napoli, una città si costruisce e si struttura per essere essastessa un Mondo. Essa non è solo luoghi o residenza dei re e gover-natori, o di monasteri e chiese, dove vivono un numero limitato dipersone, o fortezza a protezione della città. La città monumento giàsi mostra come insieme di luoghi e piazze, e questo a dispetto dellavolatilità dei re o dei vicerè.

Essa si mostra con la splendida geomorfologia dei luoghi, e que-

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sta già definisce la traccia urbanistica della città. Napoli di allora ap-pare anche come la città di adesso, lui l’aveva ripulita dai tessuti so-vrapposti, l’aveva disegnata sopra un nuovo letto d’amore circolare.

La città appare nel primo disegno come città cosmica che già con-nette Europa e Mediterraneo. Possedendo la sola Milano non si con-trollava l’intera penisola, occorreva anche una base a Napoli; Napoliera una splendida retrovia politica, logistica e militare. Non solo, sulpiano figurativo si mostrava, era anche articolazione spaziale di terra,mare e cielo.

Già la sola articolazione spaziale, il suo perimetro antico, la se-quenza dei suoi palazzi e dei suoi castelli, delle dimore pubbliche eprivate, la facevano rappresentare come città grande.

Si era soffermato abbastanza su questa prima tavola e la ritennesufficiente per restituire ai suoi studenti l’immagine di una città natabella e di città vissuta come Campania Felix.

La città non appare solo come luogo di monumenti e palazzi, è giàcittà dentro un paesaggio desiderato.

Non c’è città senza paesaggio e non c’è paesaggio senza un pensierodi città, avrebbe detto ai suoi studenti, ma anche ai suoi colleghi.

L’architettura si è fatta urbanistica e la città ha già forma piena,l’urbanistica si fa città, appare come tessuto cognitivo in evoluzione.

Questo concetto poteva essere anche la prima parola chiave dellasua lezione, una rappresentazione metafisica fatta di essenzialità ur-bana già confrontabile con altre città: Toledo, Parigi, Dresda, Praga,Cracovia, Mosca ed altre con monumentalità più modeste.

Le emergenze storiche avrebbero annunciato esse stesse la loro in-sostenibilità urbana, la necessità di rappresentare il tessuto connet-tivo alle reti esterne alla città avrebbe dato allora la seconda defini-zione di città, una città macchina, sistema complesso aperto.

La prima tavola mostrava anche tutta la contemporaneità delpiano regolatore vigente. L’anima del piano sarebbe apparsa comenecessità da perseguire, come Utopia dei ragazzi del piano; l’utopiadei Giannì e delle Travaglino, di tutti coloro che come loro, RobertoGiannì e Laura Travaglino, erano considerati gli storici protagonistidel nuovo piano regolatore, fino a moltiplicarsi anche oggi.

L’ufficio urbanistico del Comune poteva essere disegnato come

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nuovo monumento da riconoscere, anch’esso patrimonio Unesco, pa-trimonio dell’umanità distratta.

Nella rappresentazione della macchina complessa, del tessutoesterno alla città monumento, la città contraddetta, della definizionedi Italo Ferraro appariva ancora bella.

La città contraddetta si mostrava come città creativa e città dal-l’obsolescenza sospesa.

Le difficoltà del disegno stavano nascoste nelle difficoltà di offrireun dispositivo tecnico a supporto dell’idea di una macchina socialenon scomponibile, in ritardo evolutivo ma anche capace di saltare inavanti, di anticipare emergenze urbane ancora non rappresentabili inaltre città. Napoli industriale, Napoli turistica, Napoli terziaria,Napoli post industriale, Napoli post contemporanea, Napoli cittàd’arte, avevano difficoltà ad essere rappresentate come macchine ur-bane ad identità definita.

Il disegno non riusciva ad esprimere tutta la irrazionalità della co-struzione incompleta. Come se il disegno urbano avesse tenuto die-tro una irrazionalità amministrativa e politica, una incapacità di com-pletare il progetto, ecco chiarita la proposizione di Ferraro: Napolisi sviluppa contraddicendosi e contraddicendosi si conferma capacedi produrre nuova urbanità.

Molti dubbi sopraggiunsero, doveva riuscire a far cogliere nel di-segno il senso delle domande da farsi.

Dov’era a Napoli la razionalità amministrativa e progettuale di cuiparla Max Weber? Cioè la necessità di riconoscere una organizza-zione.

Nel tessuto rappresentato per raccontare dell’evoluzione dallaNapoli monumento alla Napoli appartenente al contemporaneo, do-v’era il progetto?

Il disegno istituzionale dello Stato, dove l’amministrare significa ildominare in virtù dei saperi e del saper fare, era debole, inesistente.Dov’era la Napoli dello sviluppo? Napoli Est e Napoli Ovest, NapoliNord e quella vicino al Mare appaiono come vomito urbano.

Lello Esposito in una bellissima scultura restituisce questa sintesivisiva, spaghetti e pulcinella in fuoruscita libera dal corpo di Napoli.E questa scultura messa di fronte all’altra, ‘l’ascesa’, dove Pulcinella

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è legato di spalle ad una scala, impossibilitato a risalirla, finisce perdare voce figurativa al gesto dei poeti, Cecere e Amendolara.

Ma no, lui, non poteva ribellarsi come gli artisti, ce l’avrebbe fattaa disegnare questa Napoli in sofferenza urbana, ce l’avrebbe fatta arappresentare la speranza dell’incompleto come prospettiva urbani-stica ancora in campo, con le emozioni da dare ai suoi ragazzi perspronarli al difficile, al compito del pensiero lungo.

Fu così che la seconda tavola si riempì di luoghi, di spazi sospesi,di ruderi cosmici, di pause urbane, di labirinti urbani, di luoghi desi-derati e di luoghi indesiderati.

Finalmente il mare era meno ostile alla sua necessità di disegnare.La sua mano aveva bisogno di velocità, sembrava la penna di un

sismografo impazzito, sembrava che la terza immagine stesse per can-cellare definitivamente le altre due tavole. Discontinuità ed irreversi-bilità prendevano il sopravvento.

Anche per Napoli poteva ipotizzarsi la scomparsa della città, laframmentazione urbana, moltiplicata dalla comunicazione virtuale, sistava sostituendo definitivamente alla pianificazione pensata, debole?

Le utopie rappresentate come paesaggio sublime erano scom-parse; la restituzione visiva della prima tavola era già un reperto ar-cheologico; la città è in disfacimento e Napoli non è più la sua città.

Napoli, città come macchina tecnica, come macchina economica,come luogo di attività industriali e finanziarie che ha caratterizzato il’900 in tutto il mondo, non ha immagine consolidata, solo frammentisparsi, Bagnoli è già da anni tentativo di conservare un’archeologiacompiuta.

Nicola Giuliano Leone si sentì rinato, era riuscito a produrrenuovi disegni, in cui era evidente che le nascite erano progetti a bassasostenibilità, nascevano già come archeologia di storie industriali.

Il suo sorriso accompagnava lo sguardo sul foglio: dai cantieri diCastellammare e, poi, seguendo il disegno verso Torre Annunziata, e poiPietrarsa, San Giovanni, e poi ancora verso Bagnoli e Pozzuoli, i progetti,a differenza di altri luoghi industriali europei, non avevano compiutonemmeno gli anni giusti per farsi riconoscere come identità storica.

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Questo territorio frammentato era il racconto visivo di una possi-bile estinzione dei luoghi e della città stessa, o era l’annuncio di unametamorfosi veloce, di un’esigenza di nuova architettura? Era neces-sario che si sviluppasse la capacità di leggere i frammenti per pog-giare su di essi nuove densità e nuove interconnessioni.

Avrebbe suggerito ai suoi ragazzi un nuovo ritornello capace dicantare della città ricomposta, dell’urbanistica possibile?

Bisognerà dire ai giovani urbanisti che Napoli, come città indu-striale, non ha beneficiato della macchina urbana, necessaria alla cre-scita dell’industria, le periferie hanno un’altra storia. Napoli non haaccumulato saperi contemporanei e, oggi, l’industria moderna nonha bisogno di questa città.

Napoli non ha nemmeno il tempo giusto per rincorrere le conti-nue emergenze che si susseguono anticipando quelle delle altre città.L’arcipelago urbano è tanto vorace da minare le sorti della stessacittà.

Certo le città del golfo non hanno più separazioni cospicue traspazi urbanizzati e spazi liberi, perfino il Vesuvio appare come torrecircondata ed assediata: la ville n’a plus de dehors.

Il sole e la luce dell’alba restituivano, però, ancora memorie visivepiene di emozioni, lui riusciva ad immaginare ancora i luoghi dellasua adolescenza, perfino ora che i monumenti di Napoli venivano na-scosti dalle incoerenze urbane. Il Museo di Capodimonte era ricono-scibile insieme alla Certosa di San Martino anch’essa assediata dalbasso, con lo spazio di Morra, Vigna San Martino con i suoi arancetie uliveti ancora incredibilmente espressivi.

La sua memoria visiva era più forte dell’immagine reale, riuscivaancora a decodificare la Napoli contraddetta di Italo Ferraro, con lasua vitalità ancora in campo.

La storia raccontata e rappresentata nei grandi volumi di ItaloFerraro, diceva che, a differenza delle città reticolari o ad estensionelunga, come Los Angeles e la conurbazione W. Boston, o i 600 Kmtra Tokio e Kobe, una ricerca sullo spazio urbano, sulla pausa ur-bana, e sulla città desiderata, a Napoli, era ancora possibile.

L’architettura potrà avere a Napoli ancora uno spazio vitale, lo

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Lello Esposito, Ascesa negata, 1990

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spazio urbano avrà più probabilità di diventare ambiente urbano ap-partenente ad un paesaggio ad identità riconoscibile. L’architetturapuò ancora salvare la città

Ecco la speranza per i suoi architetti-urbanisti. Sì, forse non avevasbagliato a proporre il viaggio in Bus, con la visione altra della Napoliesistente, da est ad ovest con Ischia e Procida nascoste come patri-monio di riserva.

La terza tavola, pur negando la prima, doveva apparire come ladegenerazione della seconda, la città macchina incompleta.

Essa deve rappresentare il dramma, ma parlare anche della ripar-tenza, della resistenza della città e del territorio alla frammentazionee al declassamento urbano.

Egli voleva riuscire a contrapporre ad una visione dell’inevitabilescomparsa della città, nebulosa area metropolitana ingovernabile,una visione rigeneratrice di tessuti con l’aiuto dell’architettura.

Era, questo, un buon modo per incoraggiare la ricerca di unanuova figura di architetto: l’architetto che ha la consapevolezza diagire in un’area vasta ed ha l’obbligo morale di non accelerarel’entropia potenziale.

Per lui, le mélange disegnata, la città, non aveva nascosto la vita-lità potenziale del territorio, inoltre, gli apparivano i luoghi amati, leantiche funzioni sociali, le reti organizzative interrotte.

La sua urbanistica chiamava tutto questo ancora città, ed era que-sta sua capacità di riconoscere la persistenza che lo aiutava da imma-ginare una risalita. Questa sua capacità doveva essere trasmessa agliurbanisti studiosi, e a tutti coloro che pensano che le città non pos-sono morire.

Sarebbe andato in giro per due giorni e due notti fino a ritrovarecon i suoi studenti la capacità di disegnare l’obsolescenza degli spaziurbani e i segni della nuova partenza.

Riuso, riqualificazione urbana, qualità urbana, rigenerazione ur-bana dovevano assumere nuovi significati e la densità urbana diNapoli lo avrebbe aiutato, sarebbe stata in grado di suggerire la cittàche verrà, una prefigurazione urbanistica non astratta, non di soleforme, ma di contraddizioni vitali, di salti di scala necessari, di am-ministrazione intelligente.

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Lello Esposito, Moto rigenerativo, 1993

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Quante densità da riposizionare, quante a-centralità da ricono-scere come potenziali centralità? Un problema aperto, un nuovomodo di vedere la città. Il pino della cartolina era lontano, la palmaammalata era l’immagine di oggi, e da Capri Napoli gli appariva lacittà giusta per parlare di città e di luoghi, di densità territoriale e dipaesaggi urbani.

La città dei diavoli nuovamente città desiderata, una ricerca dinuova architettura per la nuova urbanistica, una prospettiva bellis-sima per gli urbanisti architetti e per gli architetti urbanisti, figuresempre più vicine e bisognose di ibridazioni fertili con tante altre di-scipline. Napoli è vicina, nuovamente città dove andare.

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Il titolo del libro tradisce il racconto, Toma nel raccontarel’empatia tra Caccioppoli e Napoli cammina dentro un’idea precisasulla morte. Questa è ancora amore per Napoli.

Essa può essere rappresentata come impossibilità di ascoltare tuttii rumori che arrivavano da dentro e da fuori Napoli; pertanto, è unurlo necessario, di appartenenza alla città contraddetta, è la vitalitàdi appartenere al presente.

Renato Caccioppoli era la sua città, egli come Napoli poteva eccel-lere nella musica come nella matematica, ma era anche un grande cri-tico di cinema e di letteratura, ed in lui era solo assopita la voglia diingegneria.

Egli era anche un politico, non iscritto, anche perché i suoi com-portamenti avevano avuto sempre un significato radicale.

Egli come suo nonno Bakunin aveva voluto credere che da Napolipotesse partire un cambiamento, una possibile speranza di rivoluzione.

Una rivoluzione vera o un sogno, in ambedue i casi la sua fiduciain Napoli era una manifestazione d’amore per Napoli, città, da sem-pre, senza progetto politico.

Caccioppoli aveva anticipato il concetto di Napoli Città Madre,l’opera di Ugo Marano, artista concettuale e utopico, che accompagnale altre opere della stazione metropolitana di Salvator Rosa a Napoli.

L’Artista vede le mille città, nate per metamorfosi ed anticipatricidi città ancora non nate; tutte queste annunciano città dimezzate, in-complete, quasi a voler parlare della impossibilità di costruire unacittà ideale: Neapolis mai disegnata come rappresentazione finita.

Del resto, anche il matematico napoletano lo aveva spiegato millevolte fino ai suoi trent’anni: «la lunghezza della diagonale non è com-mensurabile con la lunghezza di un lato».

PERCHÉ NAPOLI

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È impossibile trovare numeri interi che ci diano questo rapporto,dobbiamo andare in altri spazi mentali. Era il suo modo di vivere, diaffrontare i teoremi di esistenza.

L’esistenza di Napoli (appartenere alla storia) come città nuovaera stata ipotizzata anche da suo nonno Bakunin. Questi si era fattosuggestionare dalle prime manifestazioni della Napoli operaia, Na-poli era a lui completamente sconosciuta.

Michail Alexandrovic Bakunin, esule russo, inviato da Marx edEngels, conoscitore di molte città europee, si lasciò prendere da Na-poli; si lasciò prendere per amore dei luoghi e delle persone?

Egli arrivò nel 1865, comunista cinquantenne, e trovò nella Napolipost-unità la possibilità di vivere la sua vita come ‘febbre’ per la li-bertà totale, fino a confondere i fuochi sparsi per fiamme della rivo-luzione in arrivo. Tutte le polizie d’Europa lo tenevano d’occhio, essesapevano che Napoli era un campo d’illusione mentre per Bakunin,più che per Gramsci, Napoli era il cuore del ‘problema Italia’. Macome era possibile fare questa ipotesi per una città ancora in bilicotra Medioevo ed arretratezza economica?

Napoli doveva rinnegare l’importanza di Mazzini e Garibaldi, ma-scherare il patriottismo, farlo apparire come veleno perché la libertàdeve coltivare altro? La rivoluzione sociale poteva arrivare dai conta-dini meridionali? Napoli il punto di forza di queste ipotesi?

Anche Caccioppoli, come il nonno, si fece cullare da ipotesi simili.Nel Veneto, dove era apprezzato professore, si fa prendere dalla

nostalgia; differisce la sua andata a Roma, pur essendo stato chiamatodal suo amato Picone. Vivere di Napoli e Morire di Napoli è anche ilracconto di ogni giorno.

Caggiano, paese poco distante da Polla, a sud di Salerno conservai suoi pensieri inusitati. Vi sono testimonianze nascoste di modelli fi-sici e matematici costruiti da Caccioppoli.

Prima di lui, e da Eulero in poi, altri colleghi matematici e fisici,studiando le teorie sui grafi, anticipano gli attuali disegni urbani; lecittà non più monumenti o macchine semplici ma macchine com-plesse, dipendenti dall’esterno o comunque disegnate come equilibritra spazi per l’interno e spazi verso l’esterno.

La sua città, nel suo girovagare notturno, era rappresentata, nella

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sua mente, come inversione tra alfa ed omega. In questo senso lamorte diventava ipotesi di rigenerazione.

L’enigma di Toma forse conserva altre risposte; la sua risposta aCaggiano?

Perché anche l’artista Ugo Marano ispirato dal luogo aveva chia-mato Caggiano città dei numeri 7?

No, la risposta è già tutta nel libro di Toma, e non è nascosta, aCaggiano, in quel piccolo paese vi è solo una conferma. Vive, forse,una rappresentazione complessa della Città contraddetta di cui parlaFerraro. Napoli e la sua storia stanno già nel racconto dei gesti disfida, di messa in discussione del presente, di esaltazione del cambia-mento, di interpretazione del bello, di amore per l’imprevisto.

Non a caso Caccioppoli vive con malinconico entusiasmo il ri-scatto di Napoli nelle magnifiche quattro giornate e cade nella pro-fonda malinconia civile a partire dal ’56. Napoli non può essere un’i-sola come la fa apparire la sua borghesia, piccola ed immobile, fuoridalla storia. L’inverno ungherese diventa un inverno infinito, e lamorte appare come una primavera possibile. Molti scambiarono perimbecillità il suo chiudersi nel privato, l’isolamento era invece unadenuncia forte, non era la conferma che il suo malessere era per laperdita di un bene privato (l’amore per Sara).

La nostalgia per la freschezza di Sara non potrà mai render contodella vitalità della sua morte.

La diminuzione delle cose da fare, a partire dal ’56, doveva avereanche un significato più ampio.

L’irrazionalità vinceva sulla matematica, i sentimenti dominavanoil campo, la vitalità politica voleva ancora esprimersi. Il disamore perle cose di Napoli facevano viver il suo amore per Napoli come cittàdella Storia, l’ipocondria veniva cantata come veglia lunghissimad’amore per la Musica.

La radicalità del suo vestire diveniva disprezzo per se stesso, unamalinconia diffusa lo avvolge, il civile ed il privato si fondono pres-sati dai segni che arrivano dal mondo. Se le funzioni sono infinite,come si fa a gestirle come famiglie finite di funzioni?

Il concetto di ‘distanza’ appariva insieme alla città inesistente, eraquesta la città sognata? Una città senza distanza dalle altre?

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Il 1953 era lontano, il premio nazionale di Scienze FisicheMatematiche e naturali e gli altri riconoscimenti apparivano tardivie fuori squadra, non funzionavano da contrappeso alle metastasi evi-denti della politica per la sua città. Napoli abbandonata insieme allaNapoli saccheggiata degli spazi naturali, le bellezze e le vocazioniculturali non più certezze contemporanee, occorreva gridare conuno sparo.

Certo la malinconia per Sara ritornava, ma quel congresso delPCUS del Febbraio 1956 ancor prima del novembre di Budapesterano diventati un melanoma crescente nella sua testa. Erano la causadella sua afasia, le parole si erano frammentate, la sua torre politicapiù incerta di quella di Babele.

Siamo certi che la sua mente cercava di ordinare, trovare punti diequilibrio, fissare in qualche istante il tempo del sapere; questo com-pito diventava sempre più improbabile. Il materiale da trattare, lamatematica e la città, erano sempre più aggregazioni in movimento,spazi-cerniera che si spostavano, di concetti che circolavano e rina-scevano, sempre in trasformazione lontani dai punti di partenza.

Gli approcci scientifici finivano per confonderlo ancora di più, noncooperavano armonicamente ad un’immagine unitaria del sapere edell’universo da interpretare, ma al contrario si accavallavano, si in-tersecavano, si ignoravano, si contrapponevano, si fondevano e si scin-devano continuamente. Sintesi ed antinomie affollavano la sua mente.

Riuscì ancora a suonare, cercava di allontanare l’idea che il XXIsecolo sarebbe arrivato senza la città di Napoli, senza la speranza.Doveva suonare per sé, per convincersi della speranza dello sparo,prefigurare quella ribellione solitaria, quelle note dovevano ancoraessere riconosciute da se stesso.

Renato perché ci abbiamo messo tanto a capire?La domanda di Sereni, comunista anch’egli, fatta a tutti, sembrava

che riguardasse, ora, solo lui.Il genio era diventato imbecille?L’intelligenza dell’adesso negava l’intelligenza di adesso?Chi avrebbe ritrovato i suoi pensieri? Le sue idee sulla città?Caggiano era lontana e così tutti gli altri luoghi del Mondo, tranne

Napoli.

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Da due anni non andava a riunioni di partito, e quel giorno avevauna sola risposta per annunciare definitivamente il suo amore perNapoli; uscire di scena con una rappresentazione lunga, un urlo perla sua città prigioniera, impotente, sopportata, dipendente, senza pa-role nuove, nuda rispetto alla storia futura, senza latenze evidenti.L’urlo di morte come speranza di una risorgenza, rigetto fertile diuna vita oramai in frantumi.

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Utopia è il nome che, a partire da Tommaso Moro, si associa co-munemente ai sogni, quando per inerzia o per trascuratezza, per diffi-coltà o impossibilità i progetti e le forze che dovevano realizzarli sonocadute a pezzi, quando i rituali hanno mostrato i loro logorii e quandola violenza e le sopraffazioni sono diventate la moneta corrente.

Tommaso Moro alludeva alla possibilità di purificare il mondodalla insicurezza e dalla paura.

Egli alludeva a due parole: eutopia cioè ‘buon luogo’ e outopia chesignifica ‘nessun luogo’.

Eleonora e Emanuela, Luigi e Davide, Attilio e Marco, Davide eSun, Gina e Maria Concetta, Cecilia e Francesa, Anna e Arianna, an-cora Francesca e Luisa, come Giorgia e Xiaodong, hanno avuto l’op-portunità di frequentare il II Master d’eccellenza di progettazione neicentri storici delle città, promosso dalla Facoltà di Architettura diNapoli. Il centro antico è diventato il loro laboratorio di progetta-zione. Subito, la città è apparsa come un labirinto di apprendimento,il laboratorio di progettazione è diventata la scoperta della Napolicontraddetta: buon luogo, nessun luogo e luogo malvagio si sono pre-sentati in maniera indistricabile, ma nessuno ha avuto paura di nonpoter uscire dal labirinto: presunzione, non conoscenza e speranzadi progetto si sono intrecciate.

Essi hanno abbandonato la retorica del ‘non luogo’ ed hanno cer-cato il valore delle nuove densità urbane. Hanno riconosciuto laframmentazione come potenziale inesauribile e non si sono fatti sco-raggiare dal pessimismo di Nanni Balestrini, si sono ispirati aDerrida, il filosofo della decostruzione, e si sono interrogati sui bi-nomi irrisolti della pianificazione urbana: antico e moderno, pianifi-cazione forte e debole, restauro e antirestauro, identità e sviluppo,

L’ARCHITETTO E LA CITTÀ: PROGETTARE L’UTOPIA

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spazio pubblico e privato, competitività e equità, tempo breve etempo lungo, sostenibilità urbana e sostenibilità profonda.

Hanno indagato i processi nascosti, le retoriche diffuse, hanno de-costruito i concetti, non come gesto filosofico ma come metodologiadella ripartenza, hanno cercato la semplicità per svelare la comples-sità dei processi di costruzione del progetto innovativo.

Sono diventati diffidenti quando la verifica di turno fatta da pro-fessionisti affermati ha complicato i percorsi, o trovato scorciatoieimprobabili; hanno capito che la società che abiterà la città futuraavrà forme di vivere la città che non hanno niente a che fare con lasocietà poco disunita di ieri. L’ospitalità, l’amicizia, la comunalità, ivalori della giustizia sociale, la percezione del diritto, la democraziapolitica e quella economica hanno suoni diversi da ieri, le parole acorredo della loro definizione si sono frammentate.

Questa nuova frammentazione urbana è specchio della frammen-tazione ambientale; i sistemi ecologici non trasmettono sicurezzasulla qualità e quantità di servizi potenziali, i centri storici hanno unavitalità artificiale scollegata dal potenziale di servizi disponibili, sonoin emergenza continua. In questo senso le riflessioni sui centri storicisono sempre riflessioni sulla vita e sulla morte.

Napoli ed il suo centro antico sono pieni di nuove densità,l’amicizia, il saper stare insieme, i valori della giustizia, la democra-zia, le avanguardie, sono parole che convivono contraddette dallospazio accanto, alimentando il generatore di vitalità che è l’apparentemorte dei luoghi.

L’architettura si è presentata ai giovani come la scrittura capace diopporsi alla morte dei luoghi, del resto il loro studio sui luoghi con-ferma quello che è già visibile nei libri antologia di Italo Ferraro: lediscontinuità sono vitali ed i frammenti si fanno riconoscere comesequenze di storie. Lavorare sui frammenti, sui ruderi è opportunitànuova, un progettare sapendo vedere il paesaggio urbano, leggerecon gli occhi del progetto il passato, il presente ed il presente che sifa futuro. Fare architettura è ancora scrivere per contrastare la morteapparente, è far vivere il presente.

Essi sapevano che il loro scrivere di architettura non avrebbe avutovita se non avessero chiarito, aprendo una discussione lunga, quegli

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elementi che determinano la società. Il progetto doveva agganciarsi aprocessi appartenenti alla storia possibile, l’eutopia da cercare comedinamica di risanamento sociale. Solo così il loro decostruire, il lorovolere disimparare dalla lezione avuta dai mille professori incontrati,sarebbe diventata una rivoluzione metodologica. Essi non dovevanoaccettare le semplificazioni delle correzioni accademiche, dovevanomettere in discussione perfino la soluzione trovata ieri, l’utopia do-veva essere temporaneamente indistruttibile. Questa critica sfrenatadoveva avere dentro la tensione di Ippocrate: Breve è il tempo lungaè l’arte. Valeva anche per loro, l’architettura come arte del pensierolungo, senza la presunzione del manufatto immortale.

Essi si sono divisi in gruppi e si sono concentrati su tre luoghi irri-solti, gli spazi del policlinico antico fino a Piazza San Domenico, ilrudere e la strada che si incrocia salendo San Gregorio Armeno ed,infine, Largo Avellino e le contiguità intrecciate.

Un compito di riscrittura, di destrutturazione e strutturazione inno-vativa, frammenti di luoghi a monte e a valle del decumano maggiore.

Felicia Sembrano, architetto e funzionaria della Provincia diNapoli, durante le sue lezioni, si era specchiata in essi, aveva rivistoil suo stato di benessere giovanile, e li aveva fatti navigare nelle re-gole del piano, nella capacità di queste di diventare modello e stru-mento di pianificazione.

Essi avevano percepito che questa volta l’analisi teorica della no-zione città come parte fisica della vita urbana, di solito studiata inprofondità dagli architetti, non poteva essere contrapposta alla cittàintesa come corpo sociale già esistente che spesso contraddice gli usiideali, previsti dall’architettura del tempo t-1, il tempo precedente.

Essi, architetti di domani, dovevano usare il tempo breve per ca-pire e per osare, per cercare in quell’intrigo di strade ed usi, di slar-ghi, la proposta di un nuovo spazio civico. Ancora lo spazio urbanocome ricerca azzerata, con tutta la progettualità esistente obsoleta.Essi dovevano dare un valore alla probabilità non nulla di parlare an-cora di nuovo spazio urbano che diventa ambiente urbano, vissutoed interpretato come città nuova, città contemporanea.

Essi avevano capito che il loro compito era più difficile, non eraun compito di nuova edilizia urbana, o progetti di riqualificazione

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urbana legati agli spazi della nuova metropolitana. Essi sapevano,dalla storia dell’architettura, che produrre programmi integrati, du-revoli è quasi impossibile, quando non vi è corrispondenza e buoncomportamento tra città e società civile, tra progetto politico e stru-menti di governance. Un sistema istituzionale sano ha capacità co-gnitive, è in grado di stabilizzare i nuovi riti, sa guidare i processi vir-tuosi ed ostacolare le incoerenze, non crea ostacoli al nuovo.

Ma il loro compito non era di un compito vicino all’utopia?Di più, o eutopia o niente!Sebbene in cammino verso l’utopia essi non rinunciano al sano

empirismo, induttivo e deduttivo, insieme al terzo apprendimento,quello dell’immaginazione spinta che trascina il razionale.

Sopralluogo e disegno ogni giorno, per sognare di notte il progettopossibile, disfarlo poi e ricomporlo di notte come metodologia del-l’apprendimento del progetto temporaneo sostenibile.

Un palazzo, due palazzi, un palazzo ed uno slargo, uno scavo infi-nito fino all’ellisse del silenzio, 20 botteghe vitali, una piazza sgom-bra di macchine, il tutto ricucito da un percorso di scoperta dellacittà ritrovata.

Tornava Eulero, i sette ponti della città di Königsberg e i trediciluoghi di Parigi, ma essi non lo sapevano.

Cercavano la semplificazione e la modernità, lavorare solo su unastrada, un solo luogo, a vocazione naturale, magari puntando su un in-crocio che si fa città. Essi inseguivano la scala giusta del progetto si-gnificativo, si rifiutavano di lavorare su un insieme definito, il piano diattuazione urbanistica del linguaggio dei piani era lontano. La destrut-turazione era più importante, era il luogo che doveva diventare città.

Inventare o trovare un progetto più grande della città esistente erail loro compito. Dovevano trovare lo spazio della nuova densità ur-bana, espressa dal progetto esistente e da quello ibridante; dovevanascere un progetto per nuovi comportamenti, nuovi rapporti tra ildentro e il fuori della città esistente, o almeno tra il dentro ed il fuoridel quartiere. Le raccomandazioni dei professori prudenti seguivanole raccomandazione del filosofo Remo Bodei, un pro-getto è sempreun tentativo di proiezione del luogo verso il fuori fino al cosmo, illuogo ed il sublime nuovamente in rete.

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Questa volta, occorreva scoprire il sublime come conoscenza,come nuova emozione che scopre nuovamente lo spazio urbano con-temporaneo.

Entrarono nella cappella Sansevero e scesero al di sotto, nella ca-vità sotto il Cristo Velato, e capirono che la morte era legata alla in-terruzione dei flussi di sangue.

Ma allora i loro progetti dovevano essere capaci di generare nuoviflussi, ossigenare i tessuti urbani, magari accelerando la metamorfosipotenziale.

Essi dovevano anticipare i tempi della nascita di nuove farfallesenza farsi influenzare dalla visione dominante dei bozzoli inerti, lelarve vivono anche venti anni, le farfalle solo un giorno.

Si misero in cerca di nuove densità cognitive, potenziali e realizzate.N-Up, il network tra spazi di nuova contemporaneità venne vis-

suto come esperimento necessario, poi visitarono T293, lo spaziodenso di progetti d’arte di via Tribunali 293, uno spazio noto a LosAngeles come in tutta Europa per la capacità di scoprire il nuovo del-l’arte contemporanea; entrarono nello spazio di Main Design, altrascommessa coraggiosa, si specchiarono infine negli occhi della ra-gazza che poco prima di Piazza San Domenico produce saponi nuovi,quasi a voler lavare nuovamente l’immagine di Napoli e riproporlacome nuovo climax-urbano desiderabile, le zone umide di Napoli an-ch’esse patrimonio mondiale.

Scoprirono l’a-centralità dei luoghi nuovi, alcuni in net altri in net-work. Segni e persone già appartenevano a questi luoghi, essi dove-vano risolvere i problemi, riconoscere la valenza del loro progettopotenziale e connettere, connettere fino a scoprire la densità nuovadel nuovo progettato.

Laura Travaglino, l’appassionata funzionaria dell’ufficio urbani-stico del Comune di Napoli, che aveva dato un contributo chiave perfar nascere la filosofia della nuova regolamentazione, si rese disponi-bile per accompagnare nuovamente i giovani architetti.

I ruderi e gli spazi interdetti apparvero, questa volta, come luoghinuovi pieni di potenzialità, nascosti, decentrati o centrali. I raccontidi Laura sulle sovrapposizioni, sugli errori di interpretazione dei ma-nufatti, sugli spazi progettuali lasciati aperti dalla regolamentazione

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intelligente, aprivano discorsi sulla vitalità delle densità contigue, fa-cevano presagire che l’utopia era vicina.

Lo sforzo doveva consistere nel tenere in rete di progetto i fram-menti individuati fino a farli sentire nuovi milieu urbani. I loro dise-gni dovevano assumere ipotesi di flessibilità d’uso fino a far diven-tare elastico e temporaneo il processo di utilizzazione degli spazi,questa volta riconnessi a identità da costruire.

Non era facile navigare dentro ai temi della fattibilità amministra-tiva ed economica, ma essi sapevano che questa fattibilità dipendevadal grado di apertura e dalla densità delle loro ipotesi, e non dai fi-nanziamenti soltanto. Un luogo si fa città come eutopia ancora nondisponibile come laboratorio di progettazione.

Del resto il suggerimento di Laura era evidente; in quei frammentidi città, ancora espressivi e occupati da usi impropri, doveva essereproposto un nuovo ritornello capace di legare i frammenti, una sortadi nuova partitura scritta come arte del fare architettura, lunga èl’arte anche per loro.

Certo la metodologia proposta dalla regolamentazione del pianourbanistico non lasciava molti gradi di libertà, ma la sovrapposizionea frammenti di storia passata di altri frammenti di storia contempo-ranea era possibile, e la riscrittura di storie passate poteva essere fattacon ritmi diversi e con colori diversi per raccontare di una città sem-pre esistita. Questa volta non dovevano lavorare guardando in verti-cale, come avevano fatto i grandi costruttori di chiese e monumenti,né solo in orizzontale come era stato fatto per le strade e le piazze,ma il loro sguardo doveva essere non lineare, anche obliquo, per cu-cire frammenti sparsi, parti di città che chiedevano un ricongiungi-mento concettuale per riposizionarsi dentro la nuova visione urbanacon funzione a massa critica persistente.

Questa volta la metodologia doveva esplorare l’invisibile, guardarela città con gli occhi degli altri, essi dovevano accelerare la metamor-fosi latente fino a far apparire la città desiderata, l’utopia possibile.

La lezione degli storici dell’architettura era presente: l’indagine,finalizzata al progetto, doveva essere completa; essi dovevano guar-dare dentro e fuori l’evoluzione dei luoghi, dettagliando segni e so-vrapposizioni, dovevano sviluppare il progetto non astraendosi dalla

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geomorfologia esistente, il passato e le regole dovevano comunqueessere visti come tecnologia di progetto, ma la ricerca dell’anima delprogetto era altra cosa.

La ‘restituzione’ del luogo alla città doveva assumere altra pro-spettiva.

Lello Esposito aprì per loro il suo studio, video e voce dell’artistaraccontarono la storia di una metamorfosi, un luogo che fino a qual-che anno fa era stato muto, con la sua espressività legata al passato(si racconta che in quella stalla o ricovero dei cavalli si nascoseGesualdo da Venosa, prima della tragica notte in cui dovette ucci-dere, per le pressioni del tempo, sua moglie ed il principe Carafa).Lui gigante della musica dolce dovette riempirsi di pensieri tristi,estranei al suo pensiero europeo.

Quel luogo era stato inaugurato da Lello poggiando sulla parete esul pavimento una tela lunga, lunghissima. La testa di pulcinella erarappresentata, il corpo ancora non dipinto, ma la sua immanenzaprobabile invadeva l’intero spazio. Pulcinella non abita più qui era iltitolo dell’opera, essa si mostrava come densità espressiva raggiunta,traboccante, comunicava la voglia di abitare il mondo.

Fin dal primo giorno di apertura l’artista aveva scommesso sul-l’improbabile. Ingrandire l’immagine di pulcinella fino a lasciare aNapoli solo un frammento del progetto, con un significato preciso,quel frammento avrebbe parlato di Napoli, mentre la ricerca degli al-tri frammenti sarebbe stato il viaggio da fare nelle città del mondo.

Lello parlò con il ventre dei suoi progetti, e con il cuore li invitò aCaggiano.

Una mostra nel castello con opere di due mostri sacri, Warhol eFontana e di due artisti del tempo come lui e Ugo Marano avrebbedato il via ad un progetto di nuova centralità.

Lì una sua opera, già esposta a New York, lo avrebbe spinto nuo-vamente verso New York, e poi a Chicago dove già un’altra suaopera avrebbe inneggiato alle 234 libertà costituenti della democra-zia americana.

A Tokio e Londra frammenti di Napoli si sarebbero ibridati conframmenti di altre città, identità e densità contemporanee come par-titure da riconoscere. Frammenti di una città interna, dell’arte e del-

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l’artista, con la voglia di esportarsi parlavano di Napoli, senza rinun-ciare ad una identità di città che tiene dentro un inferno visibile e unparadiso imprendibile.

Uscirono dallo studio di Lello Esposito felici e frastornati, colorie progetti avevano mostrato loro una scala concettuale mille volte piùgrande dello spazio fisico visitato; Giuseppina Malinconico, la ra-gazza dei saponi era appena a venti metri, colori desiderati e coloriindesiderati riempivano la loro mente, Il filo di Partenope, la librerialaboratorio di arte applicata di Lina ed Alberto ancora più in là, tuttiquei luoghi a metamorfosi evidente li spingevano verso nuove meto-dologie da sperimentare.

Disegnare e colorare gli spazi fino a sentirli frammenti concettualisignificativi, incompleti e vitali come cocci urbani illuminati, futuriarcaici desiderati.

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Doveva parlare di Napoli in bene, non del groviglio irrisolto dipassato e presente.

Avrebbe potuto leggere la recensione e parlare della sua osses-sione, del suo amore tradito e del suo suicidio, una testimonianza let-teraria, una denuncia necessaria.

Non era la giornata giusta per parlare di quel che aveva sentito, dellanecessità di un distacco definitivo come ricongiungimento definitivo.

La recensione era giusta, il suo essere esule dal ’57 conl’intermezzo del 2002 come presidente della Fondazione PremioNapoli gli aveva alleviato le sofferenze per i suicidi del ’58 e di quelloancora più eclatante del ’59.

Oggi la sua trilogia del disincanto, Mistero Napoletano, LaDismissione e Napoli Ferrovia, appariva come un tentativo di autoa-nalisi curativa, un sogno tragico, un racconto lungo sulla morte dellesperanze e delle illusioni. Rosso Napoli è il titolo della raccolta oggi.In essa egli ricorda il titolo che diede al libro Mistero Napoletanoprima ancora di terminarlo: La città di Alcesti. «Perché una donna,così fuori dall’ordinario, aveva deciso di uccidersi? Alcesti, una dellegrandi figure della classicità greca, sceglie di morire al posto del ma-rito, dopo che i genitori di questo si erano rifiutati di farlo». La cittàdi Alcesti era, allora, la città dei destini incompiuti, dove la storia al-l’improvviso si ferma, si pietrifica.

La partenza definitiva, raccontata nell’ultimo libro, appariva un suici-dio necessario, una denuncia inderogabile della gravità della situazioneesistente; era lui Alcesti, oggi, era lui a sacrificarsi al posto di altri?

Giunto ai piedi dell’altare maggiore, rilegge mentalmente la re-censione di Napoli Ferrovia: «l’ultimo romanzo di Rea aggiunge ma-linconia alla tanta che già è presente nei cuori e nella mente dei tanti

UNA CITTÀ DA CUI NON SI PUÒ FUGGIRE

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che, ancora, e nonostante tutto, pensano alla possibilità di una enne-sima ripartenza di Napoli e delle sue istituzioni. Napoli con i luoghirivisitati della sua infanzia e giovinezza, la Ferrovia, Piazza PrincipeUmberto e Piazza Mercato diventano, per Rea, pretesto per un’au-toanalisi profonda fatta da ‘cariatide comunista’.

Napoli Ferrovia diventa l’ultima stazione, quella della partenza de-finitiva, del distacco da una città che non ha più identità solida, l’hapersa definitivamente con le decisioni politiche prese durante laguerra fredda che hanno favorito la rinascita dell’Humus della deca-denza fino a portarla al fondo del pozzo (ipotesi già avanzata ancheda Erri De Luca nel suo Napòlide).

Non parla esplicitamente Rea, e non può farlo, della sua malattia;il padre della psicanalisi l’aveva definita come perdita di un beneastratto, di una fede, di una speranza, di un’utopia realizzabile.

In epoca elisabettiana la stessa malattia depressiva era stata bat-tezzata come malinconia civile, cioè perdita della speranza del cam-biamento. Una società corrotta, senza ideali, senza progetti conti-nuava a riprodursi parlando male e bene di sé, per fortuna arrivò larivoluzione industriale e tutte le aspettative vennero riposizionate.Ermanno Rea, il comunista del dopoguerra, l’analista studioso dellasocietà napoletana, il giornalista che legge il funzionamento delle isti-tuzioni, lo scrittore che con il romanzo ha da sempre voluto tracciareun bilancio su Napoli com’è, non poteva non contrarre questa malat-tia che, a differenza della malinconia per la perdita di una personacara, non può essere curata nel tempo breve della vita, ha bisognodel tempo lungo della storia.

Napoli è diventata una puttana drogata che non riesce a cammi-nare su altre strade?

Napoli non ha una borghesia volitiva e progettuale?Napoli ha una classe politica incapace di far funzionare le istituzioni?Napoli ha una generazione di giovani che dimentica di innamo-

rarsi del progetto giusto?Napoli è invasa da centodieci razze di immigrati, anch’essi senza

progetto e senza speranze, che moltiplicano i problemi irrisolti?Napoli è una città dalla quale anche gli scienziati, i poeti e gli arti-

sti vogliono fuggire?

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Napoli adda murì accussì (che poi significa deve vivere così), comedicono gli artigiani del presepe, quelli diventati ricchi per caso a SanGregorio Armeno, quelli incapaci di immaginare un riposiziona-mento collettivo di quel patrimonio di identità?

Napoli è definitivamente una colonia e non potrà essere nuova-mente una capitale di niente, a dispetto di quanto la politica della co-municazione propone ogni giorno?

In realtà lo scrittore e saggista non vuole dare una risposta a tuttequeste domande, vuole raccontare la sua solitudine, la sua incapacitàdi sollevare la testa, la sua incapacità di essere napoletano, il suo de-siderio di non voler essere nemmeno l’Icaro del volo impossibile.

La malinconia si fa avvolgente, si riempie di dubbi, perfino gli amicidiventano inesistenti, traditori. Non resta che il suicidio; ma lo scrit-tore non lo può raccontare, perchè non può nemmeno ipotizzare cheil comunista ha oggi paura del labirinto, dell’inferno inteso come cittàabitata solo da diavoli. Per lui, per il comunista di un tempo, lo scrit-tore racconta di una partenza definitiva, con la scomparsa anche deitestimoni che lo hanno visto indagare su se stesso, per assolverlo daun’ipotesi di eutanasia, unica chiave di uscita dalla malinconia civile.

Napoli da raccontare è scomparsa definitivamente, come se nonfosse mai entrata nel cuore e nella mente, protagonista di un tradi-mento collettivo, immorale rispetto al progetto possibile, quello deldopoguerra, dal potenziale, allora, ancora vivo.

Allo scrittore ed al comunista sembra mancare la saggezza deinonni, quelli che sanno dare ai bambini messaggi di tranquillità, rac-contare favole dove il male prima o poi andrà via.

No, questa volta non possiamo capire, non possiamo assorbire comeuna cronaca lunga il racconto di una partenza definitiva, non necessa-ria, né sufficiente a darci la misura di una incapacità degli uomini.

Napoli Ferrovia, però, è la provocazione dolce rispetto al libro delpugno in faccia, il best seller Gomorra; è la provocazione che giocasui sentimenti, sui ricordi, sulla capacità di amare, riconoscendo lepersone del nostro passato che riappaiono come portatori di sempli-cità ed impegno.

Enzo Striano, l’amico mai cercato dopo il primo distacco daNapoli, appare come sfondo tragico di una incapacità: stringersi in

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cerchio per un ultimo girotondo mischiando visi e colori di bambini,giovani ed anziani e riconoscere Napoli come città dell’inferno con-temporaneo, globale e mediterraneo. Ma Rea è lo scrittore vitale chetutti amiamo e per lui saremo disposti a tradire Croce che non da-rebbe più la parola su Napoli a chi non la sente Patria».

Una riflessione lunga che lo portava dentro al suo libro ed al suo sen-tire, l’emozione si divideva in due, riconoscersi ed essere riconosciuto.

Il sindaco e l’assessore lo avevano invitato a parlare di Napoli, ma-gari in positivo. Egli sente che non riuscirà a farlo, non c’entra la re-censione, si volta verso il pubblico e rifà il percorso della sua trilogia.

Di fronte a una folta platea di turisti e cittadini, chiama in causa ipersonaggi dei suoi libri, la giornalista Francesca Spada, il Pci dellaguerra fredda, l’operaio dell’Italsider Vincenzo Bonocore, Caracas, ilre della stazione centrale. Parla di piazzetta Matilde Serao, «era la sededell’Unità dove ho cominciato a lavorare come giornalista, ho fatto lìle mie prime esperienze, era un vivaio di firme promettenti, un centroculturale molto interessante, frequentato anche da RenatoCaccioppoli, il matematico». «Napoli», dice Rea, «è una grande cittàche a volte mi appare “pietrificata”, è di questa Napoli e di questa Italiache non riesco a parlare. Quando vado in Francia, dove vive mia figlia,e mi chiedono che sta succedendo, io non dico, provo vergogna».

Napoli non è affatto un «altrove dell’Italia» marchiato da un de-stino malvagio, bensì, a pieno titolo, «Italia». E che il «caso Napoli»nient’altro è che la declinazione di un male nazionale, effetto di undeficit generale di politica.

Come al solito, i napoletani ed i turisti presenti non avevano ca-pito, non lo avevano visto soffrire, non avevano percepito che par-lando di sua figlia, ospite in una città gemella europea lui avrebbe vo-luto che un’altra figlia, mai nata, fosse stata anch’essa ospitata da unaNapoli diversa, senza i tanti reucci che assomigliano al suo Caracas.

Si cibò dell’affetto napoletano, quello spontaneo di sempre e perun momento si dimenticò della sua assenza, perché a Napoli lui cheera già morto di Napoli? Non poteva ribadire che quello che luiaveva chiamato «il mio teorema su Napoli» aveva necessità di esibireuna prova estrema, magari per aprire un dibattito vero, oggi come al-lora. Lui Alcesti, oggi ancora oggi al posto di Napoli?

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Un ‘end run’, un racconto per aggiramento, i dettagli di una storia perraccontare di altra; una poesia raccontata come realtà esistente, è questoun passaggio dal particolare al generale. Questa volta la casa, nata per vi-vere come viene, è diventata metafora e progetto possibile, vissuto e per-duto, come sogno temporaneo irrinunciabile.

La città delle mille partenze è anche la città dei mille arrivi, ci suggeri-rebbe Calvino, che non ama le storie di città dove la gente dice di volervivere sempre. La città delle cose meravigliose ha sempre una duplicitànascosta. Solo il cinema ha saputo raccontare storie affascinanti di con-tingenza, di temporaneità meravigliose.

La reinterpretazione di una storia grande e meravigliosa potrebbe tra-dire la storia; la stessa storia potrebbe, invece, essere raccontata comestoria o storie di sequenze casuali, che difficilmente avrebbero portatoad una storia di durata. Due osservatori racconteranno la stessa storia indue modi diversi ma questo non toglierà alla storia la sua drammaticità ela sua bellezza.

Il silenzio sveglia il tempo e lei, Nathalie-Napoli, in quei giorni volevadiventare sorda. Del resto anche i suoi pensieri e le sue parole erano statitravisati, ed i suoi progetti, le sue infinite iniziative d’arte e di accoglienzaerano stati travolti dalla nuova direzione della comunicazione su Napoli.Napoli come città morta doveva essere comunicata e tutti dovevano diredi dover partire. In questo modo Napoli morta colava ed appariva cittàliquida. L’Utopia venuta su per caso, i progetti che chiameremo la casa diKaplan, stavano per sciogliersi per il fuoco acceso sulla Napoli-inferno.

Lei, Napoli-Nathalie che aveva navigato già con coraggio dentro i fo-colai del mondo, che aveva vissuto incertezze indicibili in luoghi bruciatidal tempo dell’adesso, non poteva assecondare la corrente, farsi omolo-gare dalle notizie della possibile fuga.

LA CASA ED IL COSMO. LA CASA KAPLAN

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Le forme sociali che aveva sviluppato e condiviso sul decumano mag-giore e su quello inferiore non riuscivano più ad orientare l’opinione de-gli amici giornalisti, e gli amanti dell’arte erano già in cerca di altri luo-ghi, questa volta incapaci di vedere oltre la parola scritta o raccontata.Le Istituzioni non erano in grado di stabilizzare le opinioni.

Anche a Napoli la storia presente della città stava spianando la stradaalla “modernità liquida “ di cui parla Bauman, le istituzioni si stavanosciogliendo e con esse la capacità degli uomini di andare oltre l’adesso.

Riferimenti credibili non se ne vedevano ed i progetti apparivanosenza gambe, la cognitività delle istituzioni era assente e le associazioniculturali immaginavano un tempo breve per uscire dalla crisi, ancora piùbreve del pensiero individuale.

La Casa di Kaplan era vuota dopo che per anni era stato impossibilegarantire a tutti l’accoglienza richiesta. Il potere si separava dalla politicae tutto veniva messo in discussione, la speranza di Kaplan di una nuovacomunalità da coltivare per sconfiggere la gramigna dei luoghi, la casadel progetto di collaborazione con il tessuto sociale della Napoli delcambiamento, era in pericolo. La casa rete, network sociale, la casa città,struttura portante di una nuova comunità urbana, cosmica e contempo-ranea, non aveva più voce. Voice and exit erano silenti ed il silenzio diNathalie era diventato il colore timbrico dei due luoghi del progetto, ilPurgatorio-casa come progetto Kaplan n. 1, sul decumano minore, e lagalleria- casa come progetto Kaplan n. 3, sul decumano maggiore.

La storia dei mille tappeti visti, di quelli comprati e venduti, di quellisacri fatti da Maestri persiani, afgani e curdi o di altri luoghi senza con-fini, avuti in dono visivo e spirituale, facevano da contrappunto alla ‘nonstruttura della città in campo’, quella che la comunicazione stava sfilac-ciando o bruciando facendo vedere la città in fumo come metafora dellacittà che non ci sarà più.

Vivere di Napoli doveva essere ancora il progetto giusto, la perma-nenza e la manutenzione del progetto a termine che aveva in mente do-veva vivere come contemporaneità necessaria ad interpretare gli arrivi ele partenze vitali.

In quei giorni le storie della città e le vite raccontate degli individuinon riuscivano a tessere storie di sostanza, le successioni di colori e i di-segni urbani si erano alterati, non si riusciva a pulire e rinnovare la vi-

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sione del tappeto urbano. Il sacro era scomparso ed il sublime dei pae-saggi un ricordo appartenente alla letteratura, la creatività e l’arte nonparlavano più a nessuno.

Dimenticare le cose fatte era quasi un imperativo, l’aria di scaricaba-rile rendeva tutti colpevoli; ad ogni individuo, ad ogni cittadino si chie-deva di pagare un nuovo prezzo, indipendentemente dai tanti già pa-gati e documentati nella storia della città, questo prezzo doveva esserepagato senza sapere nemmeno il bene nuovo da acquistare.

Lei sapeva dalla storia e dalle storie vissute, che la difesa o salvezzarispetto alle cose che stavano accadendo non poteva e non doveva es-sere lontana da sé, doveva essere piena di nuova razionalità, di raziona-lità del noi piuttosto che del sé, ma anche piena di speranza, di impro-babile, di rischio. La salvezza individuale non poteva bastare, il sensoal suo progetto temporaneo doveva essere pieno, la persistenza piutto-sto che l’elogio della fuga. Fu così che riprese il viaggio per finanziareancora il progetto, finanziare la manutenzione più che lo sviluppo, ilvuoto più che il pieno.

I tappeti del mondo in guerra per sussidiare la mente degli uominid’amore. Napoli doveva essere ancora la città madre che l’aveva ispi-rata ed accompagnata nel progetto di insediamento? La nascita dellaCasa di Kaplan era stato un parto naturale e l’eventuale scomparsa do-veva diventare una partenza gioiosa, non forzata. Tra due e sei anni sa-rebbero scaduti i fitti, ancora pochi anni per nuove densità. Non po-teva e non doveva negoziare i suoi valori, sentirsi cittadini del mondopoteva essere ancora un valore da diffondere a Napoli.

La casa di Kaplan era stata vissuta come luogo senza estranei, daqualsiasi parte arrivassero gli ospiti, il mondo in casa e la casa nelmondo; i luoghi dei due decumani erano diventati crocevia della cul-tura internazionale che chiedeva di incontrare Napoli ed incontrarsia Napoli.

Questa nuova pressione su Napoli era anche una pressione su sestessa, quasi una volontà nascosta di espellere lei ed i suoi progetti, la vo-glia di immobilità era dominante. La ‘mixofobia’ invadeva Napoli, lacittà a polifonia e policromia culturale. La Napoli estranea ai movimentidi segregazione, la Napoli anarchica e libertaria di Bakunin, di Amen-dola e dei Masaniello e dei Pulcinella, dei Giordano Bruno e della rivo-

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luzione del ’99; la Napoli del noi e dei Pergolesi doveva saper resistere.Non poteva dimenticare le abilità acquisite e necessarie a vivere in

mezzo alle difficoltà di Napoli, come vita proxy delle difficoltà di al-tre città.

La sua Parigi rimaneva la città dove tutti vorrebbero vivere, ma Na-poli era pur sempre la città madre, la città delle mille partenze e dei millearrivi di Calvino, una città dalla vitalità infinita, della vita e della morte.

Lei che aveva esplorato tutte le ambivalenze del vivere, sia nelle cittàdense che in quelle sparse, lei che aveva saputo vivere nei luoghi più ino-spitali del mondo, lei che aveva vissuto di astrazioni e di respingimentifisici, non poteva non orientarsi nel disorientamento generale. E poi ilsuo secondo nome era Dolorés, cioè capacità di uscire dal dolore.

Erri De Luca, lo scrittore errante, capace di dare valore simbolico adogni gesto fermo della farfalla, le suggerì il comportamento.

Orientarsi nel presente non è una qualità dell’uomo, ma gli uominipossono raccontare di quello che hanno fatto e rappresentarsi come pro-getto ancora possibile. Riaprire Casa Kaplan per raccontarla nuova-mente. La casa di Kaplan dove vivere ancora come progetto di casa chesi fa città.

Ma chi era Kaplan e perché doveva vivere proprio a Napoli la suacasa?

Era il nuovo spazio urbano non programmabile? Si ricordò diMarco Polo e dei suoi viaggi in territori anche da lei conosciuti e vis-suti: l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; è quello che è giàqui... Due modi ci sono per non soffrire, per non morire di malinconia,il primo è diventarne parte fino al punto da non vederlo più...(l’adattarsi del popolo napoletano, il pulcinella che abita ancora qui); ilsecondo è rischioso ed esige apprendimento continuo, cercare e saperriconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo du-rare e dargli spazio.

La casa di Kaplan apparve come una farfalla in sosta, prima dell’ul-timo volo; oggetti, foto, e poesie riempirono nuovamente la casa,un’antologia di fatti, di vissuto contemporaneo, una testimonianza perleggere il futuro, la casa degli uomini e delle donne che si sforzano discoprire cosa non è inferno e che non hanno paura dei luoghi che altrichiamano inferno.

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Maratea era lontana, si era verificato l’impensabile, la parola scrittaera diventata una minaccia per la camorra, la sua morte era stata annun-ciata e sarebbe arrivata. A lui era solo concesso di cambiare prigione, an-che ogni giorno, come annuncio di pericolo imminente.

Aveva detto grazie più volte ai suoi lettori, più sarebbe stato letto epiù lunga sarebbe stata la sua missione, una nuova densità per non pen-sare alla morte.

Del resto, per lui questo pensiero, presente nel ragionamento dellecose che scorrevano (la presenza della scorta, le precauzioni, le fughe),non era opprimente, quasi un non pensiero, sebbene in ogni paese ed inogni luogo dove era stato letto il suo libro la domanda era ricorrente; malei non ha paura?

Roberto Saviano aveva più paura della diffamazione che della morte,come era avvenuto per Caccioppoli, lo stesso giorno del suo suicidio: «siè ucciso per quella puttana», e la puttana non era Napoli.

Saviano lo aveva detto più volte, voleva far capire a tutti il suo amoreper la sua terra, i suoi luoghi in primis e poi Napoli e la Campania tutta.

Ma aveva fatto luce anche sulle alleanze politiche, e quelle con altreorganizzazioni criminali e con la classe politica ed imprenditoriale delpaese. La Camorra non viveva più solo nella corona di spine che avvolgeNapoli, era oramai un fenomeno globale, ma dalla sua terra doveva es-sere espulsa e le sue parole, i suoi comportamenti, i suoi appelli ed an-che il sempre più probabile suo sacrificio doveva servire al riscatto, alcolpo di coda definitivo.

Aveva paura di finire come don Peppino Diano, prete ammazzato edinfamato.

Quella sera aveva una grande opportunità, da Fazio in una edizionespeciale di Che tempo che fa, poteva parlare delle cose che aveva capito,

USCIRE DALLA PRIGIONE PERFETTAE CONQUISTARE SPAZI DI LIBERTÀ PER GLI ALTRI MA ANCHE PER SÉ

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insegnare la decodifica dei linguaggi della camorra, per far capire quantofosse penetrata nella comunicazione del paese, dentro i meccanismi delconsenso e del dissenso, generando un’info-comunicazione alternativa aquella che pur veniva messa in campo dalle forze genuine del paese chespesso peccavano di ingenuità.

Il film Gomorra aveva mostrato la Napoli e la Campania devastata,definitivamente lontana dalla Campania Felix raccontata negli ultimi2000 anni, da Plutarco fino ai viaggiatori del Grand Tour.

I paesaggi svenduti all’edilizia divorante, l’ambiente come scenario dicopertura per mille attentati alla terra fertile, la droga come finanziariz-zazione definitiva della vita e di tutte le attività parassitarie del territorio.

Anche la paura di diventare personaggio era una paura importante,un nuovo Masaniello, una persona temporaneamente alla ribalta.

Ma lui quella sera doveva perseguire il suo sogno.Cercare di contribuire a salvare la sua terra, Napoli e la Campania; il

suo sogno era questo, incidere con le sue parole, dimostrare che la pa-rola letteraria accanto alla cronaca può ancora avere un peso e cambiarela realtà.

Del resto era questo anche il proposito di Fazio, questa testimonianzalunga, fatta di parole di molti, di quelli che hanno saputo dire e fare.

Certo tutti personaggi che scomparivano ed apparivano ogni tanto,nella speranza che provocassero su persone ed istituzioni nuovi com-portamenti.

La trasmissione iniziò e Fazio si sedette in disparte, Saviano era di-ventato l’attore recitante e si mostrò come se stesso.

Fece uscire tutto il significato della sua ricerca, della sua passione perla ricerca d’archivio, per la documentazione e per lo scrivere bene, cer-care di essere confrontabili con coloro che hanno raccontato situazioniancora più terribili di quelle legate ai misfatti e delitti della Camorra edei suoi alleati.

Un ringraziamento sempre ai suoi lettori ed anche ai telespettatori,tutti divenuti speranza di poter vivere ancora domani, la felicità di sen-tire ancora la parola incisiva.

Si era impegnato all’inverosimile, aveva parlato bene, senza enfasi par-ticolari, il suo essere serio era divento verità assoluta, andava diritto alcuore di coloro che l’ascoltavano. Seguire gli affari criminali era diven-

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tato un dovere di tutti; quella sera la camorra e tutta la criminalità con-nessa, quella politica innanzitutto, ebbe paura e rinnovò la sua feroceminaccia.

Egli era consapevole del fatto che un giorno normale non lo avrebbemai più vissuto; o paradiso come quel giorno o inferno solitario, lo scri-vere ed ascoltare come intermezzo, il tempo scorreva come purgatorio atermine, prima della resa dei conti.

Si ricordò che scrivendo il suo nuovo libro, Bellezza ed Inferno, glivenne in mente di un altro libro. Ne L’uomo in rivolta di Albert Camussi racconta di un sottotenente tedesco finito in Siberia, in un campo doveregnava il freddo e la fame. Egli riuscì a comporre una musica che era ilsolo ad udire.

Era l’immagine della insurrezione come armonia che attesta, lungo isecoli della storia dell’uomo, la grandezza umana.

Quella sera lui aveva fatto qualcosa in più di quel sottotenente.Aveva suonato, per la sua terra e per tutti noi, quella musica armo-

niosa che lui chiama letteratura, e che spesso sentiva nella solitudine dellesue stanze di sicurezza. Non più parole destrutturate, frammentate, in-comprensibili, ma ritornelli importanti, capaci di suscitare applausi dicondivisione.

La sua era una testimonianza importante, forse più importante del te-stamento di Pisacane, c’era più consapevolezza della gravità del mo-mento, non a caso ritornavano insieme Giovanni Falcone e AlbertCamus, una sorta di applauso per più parole.

Sentì vicino la voce del primo: «la mafia è un fenomeno umano ecome tutti i fenomeni umani ha un inizio ed una fine».

E lui allora «La mia terra, Napoli e la Campania sono salve».E da contro canto Camus: «Ma l’inferno ha un tempo solo, la vita un

giorno ricomincia».Quella sera e anche il giorno dopo furono questi i suoi pensieri, scri-

vere ogni giorno perché ogni giorno la vita ricomincia e le parole pos-sono durare più della stessa vita, come ci mostrano le vite sospese diCamus e Falcone.

Morire di Napoli è anche Vivere di Napoli, ma Napoli è anche la cittànuova che abbiamo dentro e che vogliamo non muoia mai.

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La politica non viene vista più come veicolo che porta fuori dalledifficoltà in cui da secoli o da anni, a seconda del pensiero lungo dellastoria o breve della vita, le popolazioni sono immerse.

Pertanto, questa sfiducia finisce per trascinare intere stratificazionisociali dentro una vera e propria catastrofe mentale: una inconsape-vole malinconia ci prende e quando questa diventa consapevolezzaevolve in malinconia civile, una depressione diffusa.

Se in un quartiere, un museo, una fondazione, tante associazioniculturali, tante altre sociali e quelle popolari rilanciano nuovamentela ‘polis’, cioè la voglia di rapporti interpersonali, il desiderio di vi-vere esperienze insieme, di essere nuovamente città, allora c’è nuo-vamente un fatto politico importante.

La democrazia è un sistema politico mutevole e insieme vulnera-bile. Per rivitalizzarlo è necessario riconnettere rapporti di apparte-nenza e partecipazione, economia e politica, famiglie e vicinato, in-dividui ed istituzioni.

La Fondazione Morra ed il Museo Nitsch, nell’insediarsi nel quar-tiere Avvocata-Montecalvario, e nel chiamare artisti e cittadini ad ela-borare e vivere il progetto ‘Quartiere dell’Arte’, hanno finito per pro-porre una politica per la città, un antidoto contro la malinconia civile.

L’analisi fatta da Eugenio Scalfari sul rapporto tra artisti-scrittorie l’impegno politico, a proposito dell’ultimo libro di Milan Kundera,presuppone la difficoltà di mescolare il tema della bellezza esteticacon la passione politica.

Ma allora che cosa è il Quartiere dell’Arte di cui si parla da temponella municipalità citata?

È un progetto politico? È una nuova ricerca sull’estetica contem-poranea? È la ripetizione di un percorso noto ma spesso obsoleto:

UN QUARTIERE SI FA CITTÀ PER VINCERE LA MALINCONIA CIVILE

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più arte, più turismo, più sviluppo? È l’arte che deve nuovamenteispirare i temi della ripartenza della città?

In realtà questi temi potrebbero rimanere sullo sfondo, ma il per-corso è più ambizioso e lo slogan ‘il quartiere si fa Città’ svela l’ideadi contrapporre una contemporaneità dell’arte per lo sviluppo allacontemporaneità dell’arte contemporanea.

In questo modo, si propone, anche, una operazione di ecologiadell’arte contemporanea.

‘Un Quartiere si fa Città’ prospetta una scelta irrinunciabile se sivuole stare dentro un processo complesso che è il cambiamento dellostare in città. È un invito a vivere una vera e propria esperienza, an-che per uscire dalla malinconia civile. Bisogna fare insieme, moltipli-cando le identità potenziali del quartiere e questo, riconoscendosi inesse, diventa città moltiplicata, città che aspira a farsi grande.

Le identità esistenti e quelle nuove si mischiano ancora una volta,come già avvenuto nella storia, e come le costruzioni già raccontanola città, ma, questa volta è la cultura contemporanea che fa da col-lante costitutivo di una nuova visione del quartiere.

L’arte per lo sviluppo si contrappone a quella per il mercato; que-sta avrà voglia di oscillare per lucrare, la prima dovrà, invece, met-tere radici per diventare pianta che produrrà humus per lo sviluppo.

Tutto quello che sarà cultura, per fortuna, non sarà politica, per-ché la cultura ha bisogno ancora di più spazio, di libertà potenzialeinfinita.

È la politica che sarà costretta a capire i processi culturali fonda-tivi della città nuova perché solo sintonizzandosi con essi diventerànuovamente morale, nel senso di servizio per gli altri, e potrà nuova-mente giustificare il potere necessario alla sua opera d’arte.

«Il progetto quartiere dell’arte vuole percepire la realtà che scorre,nel quartiere della mobilità per eccellenza, e per vocazione storica,per proiettarla verso un futuro possibile. Esso dovrà attingere dalpassato memoriale delle opere, dei reperti, e degli spazi e trasformareil potenziale in laboratori del cambiamento», ribadiva Morra durantei mille incontri sul progetto organizzato da Francesco Coppola.

«Si chiede a tutti, anche ai non abitanti, di essere nuovamente ar-tisti del fare e del pensare fino a percepire il processo che porta alla

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massa critica necessaria a parlare nuovamente di città», ribadivanoin coro le associazioni amiche.

Tutti erano in risonanza, per sintonizzarsi su frequenzed’appartenenza.

Una Fondazione si fa doppia e poi quadrupla e poi ancora qua-drupla al quadrato fino a diventare nuovamente madre fertilissimaperché nuovamente giovane e gravida di un quartiere che è urbani-sta della città.

Un manifesto teorico vive da tempo nel Museo Nitsch e gruppi distudiosi e di cittadini lo rileggono dopo averlo già letto, per capire ilsignificato della loro ripartenza.

Il forum Tarsia con la sua rete di volontari continuava la sua mis-sione di manutenzione degli spazi di comunità potenziale, e tante al-tre associazioni cercavano di non soccombere alla malinconia stri-sciante sempre presente nelle situazioni di ripartenza. Il DAM e ilsuo Palazzotto d’iniziative ed il Parco Ventaglieri in attesa di nuovaidentità.

Essi stessi sono diventati, senza saperlo, artisti del quartiere ed in-cominciano a vedere le mille città esistenti, invisibili fino a ieri.Indossano gli occhiali del cambiamento e vivono il quartiere.

Ora tutti vogliono quegli occhiali, hanno desiderio di uscire dallamalinconia, hanno desiderio di vivere nuovamente la città per sen-tire l’emozione dell’appartenenza.

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Il libro della città non racconta più storie e la città non ha più me-moria utile per progettare il futuro, tutti gli spazi occupati dal nulla,morire di Napoli è Morire di Gerusalemme, di Beirut e Sarajevo.Mille luoghi d’Africa o d’Oriente ci dicono della nostra città, la poe-sia non parla più, rimane il gesto poetico della ribellione rimbal-zante, del suicidio necessario. Il cannibalismo sociale e di massa ap-pare inevitabile.

Aperta un giornola finestra a casol’uomo disse‘Entriamo in città’Il libro?

Gerusalemme GerusalemmePorti scritta nel tempoL’eresia pensataLa verità solo enunciata

Alle difficoltà di entrare in città di Filippo Cecere possono esserecontrapposte le mille opportunità che invece propone, con il rac-conto della sua vita, Benedetto Croce.

Ne parla con consapevolezza piena lo storico Giuseppe Galasso,anch’egli gigante del saper vivere di Napoli e della Storia. Nella post-fazione del libro di Benedetto Croce, Un paradiso abitato dagli an-geli, si sottolinea che la Napoli di Benedetto Croce è tutt’altro che lasola città definita topograficamente e come identità municipale.

Napoletano è aggettivo che si riferisce non solo alla città, ma a

ENTRIAMO IN CITTÀ

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tutto il Mezzogiorno, ma andava anche oltre, fino a trovare nella sto-ria culturale della città, tanto europeismo e tanto universalismo.

Riprendere la diagnosi fatta in secoli passati, Napoli un paradisoabitato da diavoli, significa per Croce riprendere dalla necessità diripartire per una nuova evoluzione civile. La speranza della culturacome speranza di un popolo lazzarone sì, ma sempre con civiltà pro-fonda come storia complessiva. Napoli era da considerare, comun-que, una patria ideale, una patria dello spirito accanto all’idea di pa-tria biografica e del sentimento. Il vivere di Napoli descritto nelle pa-gine di Un angolo di Napoli fa emergere un senso fisico di apparte-nenza e di immedesimazione, non è retorica sulla sua città ma senti-mento forte ed intenso ed, al tempo stesso, fine e delicato.

«È dolce», scriverà, dopo l’acquisto della casa sul decumano mi-nore, che poi prenderà il suo nome, «sentirsi chiusi nel grembo diqueste vecchie fabbriche...».

Entriamo in città per Croce è l’invito ad immergersi nella storia diNapoli e guardare al suo DNA come storia di storie, mille città con-traddette ancora vitali, vissute che possono diventare labirinto di ap-prendimento per la risalita possibile.

La ricerca sull’indesiderato esistente può trasformarsi in speranzadi progetto.

L’uomo di saperi e di studi diventa così poeta della speranza e tra-sforma l’impossibilità di entrare in città di Filippo Cecere in invitofertile.

I giovani urbanisti in fieri provenienti da Palermo sarebbero en-trati in città con la mente libera, e dovendo alimentarsi di informa-zioni dirette, avrebbero, poi, fatto la somma delle loro diagnosi ve-loci; protagonisti o turisti, per due giorni avrebbero avuto la libertàdi rappresentare ancora la voglia di architettura dell’abitare in città?

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L’occasione di PIU Europa, il progetto europeo per una nuovaqualità urbana, offriva la possibilità di fare un inventario del poten-ziale di urbanità del quartiere, l’utopia di Morra poteva diventareproposta significativa da inserire nel programma europeo. La suaFondazione ed altre associazioni sottoscrivono la manifestazioned’interesse a utilizzare il magnifico spazio del Convento delleCappuccinelle. Convento prima, poi Carcere, poi Scuola, domanisarà forse nuova centralità del quartiere dell’arte.

Nicoletta Ricciardelli ogni giorno al lavoro nel tempo liberato peril sogno, e due giovani architetti, Luana e Rossana, ed un agronomoentusiasta Giuliano, l’aiutano a riconoscere il potenziale del quartierein termini di nuovo paesaggio urbano, con la Natura ancora capacedi vivere ed esprimersi in città.

Una foto, mille foto, la frammentazione del quartiere si ricom-pone, la Napoli contraddetta di Italo Ferraro si manifesta. Tornanole sue riflessioni.

«Questa area è stata sempre un’area di attraversamento, ed a causaanche dei pendii, questa peculiarità è ancora presente e dominanteanche quando il quartiere è diventato denso di popolazione (sempremolto meno della città antica, o dei Quartieri Spagnoli, progettati perle residenze). Per me la proposizione il quartiere si fa città è indebo-lita dalla consapevolezza sulla storia dei luoghi: la pendenza del suoloe la residenzialità di persone a grande mobilità, fanno individuarecon fatica una evoluzione verso i caratteri pubblici urbani contem-poranei anche dei suoi pur significativi caratteri e valori di luogo».

Ma le mappe non sempre sanno dire del territorio ed il sogno diMorra era un disegno mentale cui si poteva far riferimento mobili-tando risorse umane ed artistiche per una nuova mappa. Oggi, ci tro-

UN PIANOFORTE SI FA CITTÀ

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viamo davanti a un mondo che è minacciato non solo da vari tipi didisorganizzazione, ma anche dalla distruzione dell’ambiente e noinon siamo ancora in grado di pensare con chiarezza ai rapporti chelegano un organismo al suo ambiente. Ma, dopo tutto, che razza dicosa è questa che noi chiamiamo organismo più ambiente? E poi, an-cora più impegnativa è la risposta, quando questa cosa noi la chia-miamo città.

«L’idea di un quartiere dell’arte è nata per proporre una diffe-renza, una discontinuità evolutiva necessaria alla città prima ancorache al quartiere. Per le sue caratteristiche, il quartiere non città ri-parte al pari di altre mille città visibili, volendo citare il drammaturgoChay Yew; le città esistenti che hanno perso funzionalità coerenti, sipresentano anch’esse nuovamente come luoghi potenziali da vederecon occhi nuovi», suggeriva Francesco Coppola, per sintetizzare al-tre posizioni.

Ed ancora ribadiva: «Vi ricordo delle emozioni di Silvio Perrella,riportate nell’atlante-enciclopedia di Italo, il dire di Silvio “vado conItalo alle Cappuccinelle” ed il suo “ti farò vedere un paesaggio ur-bano straordinario” dicono che quel luogo può essere una pausa ur-bana ed una discontinuità potenziale; specie se quel contenitore ac-coglierà progetti veramente contemporanei. Del resto il MuseoNitsch è anche un test positivo di questa ipotesi della discontinuitàfatta dal gruppo progettuale riunito intorno a Morra».

In effetti la proposta di Giuseppe Morra e dei suoi amici fidati,era un’ipotesi per lavorare sul temporaneo contemporaneo che purepuò essere interpretato dalle vocazioni di scorrimento di alcunestrade e di alcuni slarghi. Piazza Gesù e Maria oggi ha una identitànon chiara. Il Parco Ventaglieri e la parte sottostante già cercanoesperimenti di nuova identità, contemporanea e temporanea. Identitàparallele ed identità concorrenti cercano la massa critica riconosci-bile come città o frammento di città riposizionata.

Mille discese e mille salite con Morra ed i suoi artisti, poi gli arti-giani pronti ad immaginare il Convento delle Cappuccinelle già pienodi nuove attività, spazi restituiti a tutti coloro che vogliono viverenuove esperienze di città. Un quartiere nuovamente abitato da artistied artigiani, tutti in rete per una nuova qualità della città.

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Certo il quartiere è città in salita, fondata su strade di attraversa-mento, ma un esperimento di nuova umanità incoraggia ad andareavanti con più decisione.

Giuseppe Morra aveva accettato con diffidenza, ma anche con lasolita curiosità, la proposta di estendere il convegno di confronto trale esperienze del ferrarese, Ferrara inclusa, e quelle di Napoli, sultema dei laboratori del cambiamento. Il Museo Nitsch avrebbe ospi-tato, il giorno dopo quello del convegno, una performance concertodel pianista e compositore Bruno Persico, 24 h in concerto, dalle 16del Sabato alle 16 della Domenica.

La prima parte del convegno metteva a confronto esperienze dinuova identità. L’esperienza già avviata sul quartiere dell’arte si con-frontava con quanto sta accadendo a Ferrara per l’area interna alleMura. Qui nasceranno vuoti per il trasferimento definitivo del vec-chio ospedale.

Poi il racconto su altri luoghi cospicui, i progetti di Villa Bighi delcopparese con le sue nuove sperimentazioni di arte contemporaneevenivano messi a confronto con le esperienze napoletane di rara in-tensità, Lanificio 25, T293, il Teatro Nuovo e lo spazio-studio diLello Esposito. Ed anche il racconto di Fabbrica Creativa della CittàMoltiplicata, sempre nel copparese, riproponeva l’idea della densitàurbana come ripartenza. Una rete di luoghi, questa volta sotto lo slo-gan ‘Un luogo si fa città’ facevano vivere l’ipotesi che le nuove den-sità urbane erano capaci di riposizionare la città.

La ricerca continua del nuovo spazio urbano dove mischiareaspettative e progetti per la città che verrà.

La provocazione del concerto di 24 ore andava nella stessa dire-zione, un pianoforte insieme al maestro Persico diventavano oppor-tunità di incontro e di inventario di quelli che vogliono vivere la città.

Poche persone erano presenti all’inizio del concerto, tutti però sco-prirono la straordinaria acustica di quel luogo magico. E lo stesso Morrascoprì che quella casualità, la disponibilità di una centrale elettricaENEL in disuso, rifunzionalizzata per ospitare un museo tematico, si ri-velava ogni giorno luogo nuovo per la città. Non solo la straordinarietàdel posto ma soprattutto la sua disponibilità ad ibridarsi con iniziativemultiple avevano fatto della difficoltà di accesso un percorso desiderato.

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Era la densità comunicativa delle iniziative che moltiplicavano leintersezioni ed aprivano sempre più la mente fino a farla sentire den-tro lo slogan ‘un quartiere si fa città’.

Morra decise quella notte di non abbandonare il suo gioiello na-poletano; lui, sperimentatore, aveva accolto una infinità di esperienzedi avanguardie con performance a durata lunga, ma questa nuovaesperienza andava vissuta come nuovo modo di vivere lo spazio ur-bano. Non era questa la proposta de ‘Il quartiere dell’arte’?

L’arte per lo sviluppo civile ed umano piuttosto che l’arte per ilmercato, cioè un tentativo di trasmettere amore per le cose da farecome arte dello star bene.

E lui ed i presenti avvertirono un benessere inatteso, il tramontoveloce annunciava la notte più lunga dell’anno, a Napoli città delsole, sarebbero stati la notte, il luogo e la musica ad illuminare i cuori.

La prima performance annunciò una sequenza di brani dedicatialle donne, parlavano della loro capacità di vivere la città. Poil’improvvisazione dialogò con le immagini di repertorio del Museo.

Le performance di Nitsch furono rivisitate senza il proprio sonoroma con nuove colonne sonore capaci di accompagnare nuovamente lamente dentro nuove emozioni. Avanguardia sempre, ma anche pen-sieri di nuova intensità capaci di riproporre i motivi dello stare insieme.

Le persone che sopraggiungevano erano sorprese di quanto giàstava avvenendo e facevano fatica a sintonizzarsi con l’atmosfera chesi era creata.

Dallo spazio ristoro del Museo arrivavano bevande e pietanze perconvivialità nuove, discrezione e voglia di dire si mischiavano dentroi suoni sublimi arrotondati dallo spazio sonoro.

In ogni angolo del Museo le note si rincorrevano per giungere allepersone appartate e a quelle in sosta fuori, ancora timide nel violarequello spazio che appariva come nuovo spazio sacro.

Dalle due di notte il flusso in entrata terminò e quello in uscita eralento lentissimo, allievi e nuovi musicisti affiancarono il maestro, isuoni si moltiplicarono e voci di canto riempivano il Museo come si-rene immobilizzatici. Il maestro suonò ininterrottamente fino al-l’alba. Alle 6 del mattino, i pochi presenti pensarono per un istantedi aver sognato tutta la notte.

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Musica dolce e musica dirompente, emozioni ravvicinate e pausenecessarie avevano riprodotto un milieu straordinario, un luogo dovestar bene si era presentato in tutta la sua varietà espressiva, museo eluogo di musica, luogo di ristoro e di contemplazione, luogo di at-tesa e di incontro, di apprendimento e di lettura, di sonno e di so-gno, d’amore e d’accoglienza.

La colazione come pausa per tutti, e poi nuovamente il flusso dinuovi curiosi ed il ritorno di coloro che avevano avuto il rimpiantodi essere andati via. Quando l’inventario sembrava completo, unasorpresa interessante si sovrappose all’esperimento in corso.

Arrivò Orlan, una delle artiste più note al mondo per la sua capa-cità di interpretare e vivere le metamorfosi del corpo; lei che aveva vi-sto Morra esibirsi al piano in una performance d’avanguardia, suonarecon il pianoforte incendiato, notò questa volta un’atmosfera diversa.

Non c’erano gesti d’avanguardia spinti, era il luogo che sperimen-tava una metamorfosi temporanea, una capacità di diventare altro perpoi tornare se stesso, ogni volta che il direttore del Museo decidessela nuova partenza. Era in atto una ri-costruzione continua dello spa-zio, una ricostruzione sempre temporanea e resiliente, cioè aperta anuove metamorfosi.

Era il luogo che tentava esperimenti di nuova avanguardia, quelluogo come il suo corpo, quel quartiere come la sua anima.

Dopo 23 ore il Maestro capì che doveva ancora dare il meglio disé per sé e per il luogo, e così tirò fuori le energie migliori ed incollòai propri posti tutti i presenti, per quasi un’ora tutti fermi ad ascol-tare, ad interpretare quel lento e deciso avvicinarsi al finale, un reite-rare innovando un vecchio ritornello rivisitato e pronto a farsi daparte per lasciar spazio ad avanguardie inattese.

L’applauso tradizionale era diventato comportamento riflessivo eMorra fu invitato ad affiancare il Maestro.

Questa volta, per Morra, la sua voglia di oltre doveva incrociarsicon la creatività possibile.

Il suo progetto doveva incrociare i temi della città, dare a questaparte della città, il quartiere, la capacità di seguire la sua voglia di farparlare l’arte. Doveva essere in grado di farla condividere e viverecome arte per star bene in città. Il quartiere si fa città doveva essere

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la moltiplicazione di quello che era avvenuto quel giorno e quellanotte, ogni luogo del quartiere doveva e poteva diventare un luogodi sperimentazione sui temi della città.

Capiva che la sua disponibilità ad accogliere ‘un pianoforte che sifa Città’ in un Museo tematico legittimava la proposizione di voleraggiungere ai nuovi media una nuova modalità di comunicazione peril vivere insieme.

Riviste on line, radio e media, audiovisivi, web ed internet, blog espazi virtuali, concorrono a rinnovare le forme di partecipazione,moltiplicano le soggettività politiche, creano comunanze inattese, re-lazioni a scala variabile, ma quell’esperimento, in una giornata inver-nale e piovosa, aveva dimostrato che la città incrocia reti come allesue origini.

Il concetto di reti ha avuto un’evoluzione importante ed imprevi-sta per effetto dell’esplosione delle reti di informazione e comunica-zione. La loro esplosione ha trasformato il rapporto tra locale e glo-bale, ha frammentato gli spazi e le città, ma è bene non mischiaremondo virtuale e mondo fisico. Sul piano concettuale, si assiste aduna forte regressione della città e della metropoli, le agglomerazioniurbane guadagnano peso e spazio, i frammenti si sovrappongono, idati sulla crescita di popolazione, delle attività culturali e scientifichepremiano sempre le aree urbane. Allora il cambiamento e la ricercadi nuovi spazi è ancora da fare dentro le aree urbanizzate; sfidare ilcontraddetto, ricucire e far ripartire i luoghi. Sono le densità urbane,ed a Napoli i quartieri, a dare persistenza ai luoghi. A Napoli questastabilità è garantita dalla densità d’uso degli spazi. A Napoli è possi-bile percepire in ogni dove un fluxus costante d’informazioni, di sa-peri, di persone e di beni, d’arte e di artigianato, di fatti malvagi e diattese meravigliose.

A Napoli la città è ancora un luogo ed un luogo può essere ancoracittà e non solo un punto rete. Un luogo a Napoli è ancora impian-tato su un tessuto, spesso stratificato in secoli di esperienze, perfinola monumentalizzazione lo rende irriducibilmente luogo.

Il Museo Nitsch era oramai luogo da tempo e si avvantaggiava delfatto che il vedere dal museo lo rendeva parte di un paesaggio di untessuto visivo pieno di storia e storie. Le relazioni di vicinato erano

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evidenti, una stabilità spaziale inalienabile, una voglia manifesta diconfermarsi come nuovo spazio urbano. Ma cosa voleva mettere in co-mune il progetto di quartiere? E di quale nuova città si voleva parlare?

Si trattava di rilanciare temi semplici, le prassi d’uso del quartieree la laboriosità dovevano nuovamente mostrarsi e lo spazio fisico do-veva servire da laboratorio d’incontro. L’artigiano che riespone la suacapacità non solo per la vendita, ma per farsi riconoscere come partedi una città, l’artista fa altrettanto e propone l’arte come linguaggiodi decodifica dei pensieri nuovi. Le proposizioni del comune e delsingolo non sono in contraddizione ma rendono più esplicito il con-cetto di sociale. Il sociale è generosità. Il fare città è fare urbanità.Questo mondo comune è il divenire delle pratiche interrelazionali,di condivisioni e di familiarizzazioni, anche attraverso incontri alea-tori e brevi (andare e venire da uno stesso salumiere, il farsi creditotemporaneo, l’uso dei trasporti collettivi, la difesa di interessi co-muni, di un parco o di una scuola). Questo incrociarsi continuo diprivato e pubblico, perfino nelle emozioni, ci fanno scoprire un or-dine vernacolare ancora contemporaneo, un imprinting ancora ne-cessario per vincere le incertezze della vita in rete.

In quella esperienza delle 24 ore di musica e convivio si era for-mata un’atmosfera durevole, una sensazione di appartenenza ad unluogo in cui, perfino Morra, possessore del luogo, si sentiva in unnuovo spazio pubblico, da definire e ridefinire ogni giorno e quellanotte ogni ora.

Ciò che è incontestabile è che ogni città e ogni quartiere tende asviluppare un mondo comune singolare fino a moltiplicare la cittàstessa, sebbene sezionata nel tempo. Cosa resta di Shanghai degli anni’30, del Faubourg Saint-Germain di Proust, di Lisbona di Pessoa?

Salita Pontecorvo come conferma della realtà urbana, un azzardoconcettuale per dimostrare che Napoli esiste ovunque esista unastrada di Napoli. Valorizzare ogni strada del quartiere, ogni atmo-sfera, ogni stile, ogni ritmo, ogni artigiano, ogni artista, ogni abitanteper cancellare le tare ed i luoghi comuni indesiderati era la strada giu-sta? L’arte come mediatrice del progetto? La città esiste per quelliche l’abitano e questi devono essere capaci di viverla. Quelli delMovimento Moderno, più di tutti chiedevano una rivoluzione alle

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professioni, ed oggi il quartiere dell’arte lancia la sfida alla questioneirrisolta dell’urbanistica contemporanea.

Come articolare e sviluppare i temi della crescita urbana, dellecittà reti di reti, per una domanda di vita confortevole (in termini diservizi complessi), di conservazione dei livelli professionali (cultura econoscenza), di efficacia delle connessioni (trasporti e mobilità glo-bali), di sicurezza fisica e ambientale?

Salita Pontecorvo, una strada di transito trasformata per una nottein una via di ricerca di una nuova comunalità, dove scoprire nuovirapporti di vicinato in diverse ore del giorno e della notte; quel sen-timento di appartenenza nuovamente in campo, in rete, una nuovadistanza rispettosa del fare altrui, quasi una scelta di amicizie dis-crete, con le loro regolarità di comportamento.

Spesso un uso della strada è fatta di banalità quotidiane mal’insieme di quello che avviene è niente affatto stupido, è la vita cheviene e si esprime ogni giorno.

È questo uso somma che il progetto vuole riposizionare moltiplicandoi comportamenti individuali. Quella strada e le sue intersezioni, oltre adiventare un luogo di passaggi significativi potrà articolarsi in una infi-nità di nuovi riti, legati all’arte e al saper fare, fino a mostrare un nuovosenso civico, esemplare, di appartenenza al luogo ed al mondo. Un passonuovo di serenità vissuta, un’offerta di nuova pace interiore, un mododi appartenere al quartiere come centri di umanità plurale, con stacchiarmonici e stacchi imprevisti necessari alla vitalità condivisa, un eserci-zio di libertà mancante, tutto può nascere. Questo luogo di passaggiogenerico, questo andare da una parte all’altra della città, potrà trasfor-marsi in un luogo di reincontro; l’esperimento delle 24 ore poteva essereripetuto in altre forme, provocatorie o naturali, per migliorare la visibi-lità del progetto, rafforzare gli altri luoghi cospicui, immaginare nuoveintersezioni vitali tra reti inesplorate. Il quartiere e le sue strade comenuovo inventario delle diversità urbane, di mescolanza di strati sociali,di razze, di comportamenti, di professioni, un quartiere capace di mo-strare la sua imprevedibilità, una nuova espressione di democrazia.

Lui, Morra, che aveva abbandonato il quartiere delle galleried’arte, della sperimentazione per avanguardie internazionali, che siera trasferito in un quartiere fortemente strutturato, quello della

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Sanità, e che lì non era riuscito a parlare di arti e di arte come desi-derava, fino rischiare di farsi consumare, doveva cambiare velocità alprogetto. La nascita del Museo Nitsch, la rete di persone nuove, ilquartiere più interessato alla sperimentazione lo avevano incorag-giato, ma quel giorno sentì, ancor più, di aver imboccato la stradagiusta, irreversibile.

Negli intervalli di quella notte, aveva sentito per la prima volta ilrespiro del luogo del quartiere dell’arte.

Nonostante la pioggia e il freddo intenso un flusso continuo di per-sone aveva raggiunto il Museo, ascoltato la musica, scoperto incrociinusitati del quartiere di transito. Lo spazio urbano riscoperto annun-ciava la possibile metamorfosi del quartiere in nuovo ambiente urbano.La creatività delle arti avrebbero aiutato l’utopia sulla città nuova.

Morra ed il maestro si esibirono insieme, un finale di armonia edisarmonia, le creatività parallele divennero concorrenti, fondanti,ingrandirono il significato di vivere di Napoli.

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Roberto Saviano aveva dedicato il suo nuovo libro a tutti coloroche, solo per averlo letto, erano diventati testimoni del tempo ed ave-vano fatto diventare il libro, Gomorra, un testo pericoloso.

Questo nuovo libro La bellezza e l’inferno, racconta del significatodell’impegno e della necessità dello scrivere e documentare, della let-tura costante di fatti d’archivio e di fatti raccontati da persone e scrit-tori lontani. Egli vuole essere dentro il contemporaneo della storia edelle storie, senza aver paura di mostrare anche tutta la sua solitudine.

Ora che l’aveva scritto, e che probabilmente avrebbe raccolto unnuovo successo editoriale, sentiva che questo non poteva più bastare.

Lui non era e non voleva essere uno scrittore di successo, volevavivere altre libertà.

La stessa trasmissione televisiva, voluta da Fazio, gli aveva lasciatodentro una dualità inattesa. Un pieno ed un vuoto reclamavanoun’interpretazione severa.

Specie nella prima parte della trasmissione, la sua lezione sulleparole e sui codici della comunicazione usati dalla Camorra lo avevariempito d’orgoglio. Aveva trasferito tutto il suo furore sull’impor-tanza delle parole e sulla necessità di svelare il significato associatoalle azioni.

Aveva ripercorso il suo lavoro, svelato il suono delle parole, chemesse in sequenza giusta erano diventate libro-urlo, un coro di pa-role gridate al mondo; tre milioni di copie; tre miliardi di parole ingiro per il mondo annunciavano la sua scelta necessaria: rischiare dimorire per vivere.

Poi, la discontinuità sopraggiungeva, quel vuoto ritornava e nellegiornate di solitudine, di protezione necessaria, di occultamento delletracce, occupava tutta la sua mente.

MORIRE PER VIVERE

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Finiva così per studiare se stesso fino a sentirsi un musicista dellascuola pitagorica.

Pitagora fu il primo del mondo occidentale e di quello orientale,ad annunciare che l’identità dei suoni ed i rapporti tra essi, potevanoessere espressi in numeri.

La musica come tentativo di mettere ordine.Alla musica, e alla sequenza delle parole, potevano essere date an-

che un potere curativo e stabilizzante nei confronti dell’anima.Nasceva il concetto astratto della musica. Sul piano concettuale, ed èquesta la grande intuizione della scuola pitagorica, per musica non siintende solo quella prodotta dagli strumenti ma anche quella dellepause, anche i silenzi suonano.

I suoi silenzi erano necessari per non lasciare traccia, per gridare dipiù, le sue parole erano diventate musica, i suoi silenzi note altissime.

Ma lui voleva analizzare nuovamente il valore delle sue pause,delle uscite, fatte di parole scritte e di racconti; non sopportava piùla perdita di contatto con le persone. Lui era costretto a fare musicacon molti intervalli.

Certo c’era la sua arte lunga a proteggerlo, leggere, documentaree scrivere; ma non gli bastava più, sentiva che la sua capacità di co-municazione era stata assorbita dai media, rischiava di morire duevolte, di sé e per gli altri.

All’inizio della sua vita di scrittore, essere talpa di biblioteca e di ar-chivi era una cuccagna, gli allargava la mente ed il cuore, lo faceva cre-scere, era la metodologia giusta per il bagaglio di scrittore potenziale.Era tutto cambiato, analizzando il linguaggio della comunicazione ca-piva la differenza tra campana e muscolo, tra campana e cellula.

Dopo il successo della trasmissione con Fazio, il rischio di diventarecampana era cresciuto e la strategia di denigrazione della Camorraavrebbe avuto più spazio, la sua vita era ancora più in pericolo ed il dop-pio sé che era in lui volle ribellarsi ancora. Non gli andava di diventarecampana, non poteva dipendere dalla volontà degli altri, non potevascrivere parlare e suonare quando la comunicazione lo richiedeva.

Il muscolo, come ogni cellula vivente, è capace di trasformare glistimoli esterni in nuovi stimoli interni, di provocare poi reazioni,spesso fertili, spesso felici. Doveva investire in nuove capacità di

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uscire dalla prigione mentale in cui si sentiva, felicità come capacitàdi uscire dalle difficoltà, guadagnare gradi di libertà, libertà di ri-schiare di morire per vivere.

Voleva comporre nuovi ritornelli, ricomporre realtà, immaginareuna nuova topologia degli spazi da vivere, sapendo che questi spazisarebbero stati nuovi luoghi di attentati alla sua vita.

Lui e gli uomini che lo proteggevano avevano un comportamentosimile alle talpe. Essi immaginavano e costruivano tane, nascondendoframmenti di vita, questi frammenti ricomponendosi diventavano di-mora, casa, città nuova. I suoi protettori avevano un intuito, una co-noscenza che andava, come per le talpe, oltre le mappe delle tane.Sapevano navigare nel territorio complessivo, essi potevano distrug-gere tutti i percorsi costruiti e ritrovare i frammenti della vita vissutaper ricomporli in un’altra dimora.

La città senza l’equilibrio del punto fisso, della piazza di riferi-mento, Eulero e Caccioppoli insieme a Saviano, insieme per scoprirein tempi diversi ed in luoghi diversi come vincere la perdita di città;riorientarsi, usando il navigatore dell’anima, per non sentirsi solinella propria città.

A differenza di Caccioppoli e di altri, Saviano doveva avere la spe-ranza dell’improbabile, inventare un modo nuovo di entrare in città,di vivere gli intervalli, una nuova partitura doveva uscire dalla suamente, doveva nuovamente rischiare.

Fu così che le stanze delle caserme diventarono stanza di compo-sizione, non sarebbe diventato campana. Si ricordò di Altiero Spinellie di altri rinchiusi a Ventotene, ancora un’isola che divenne nave,portatrice del progetto europeo di nuova convivenza.

Nonostante le tante informazioni avverse, la guerra e la prigionecome status del vivere, essi scrivevano parole nuove per l’Europadella pace, l’uscita dall’inferno attraverso le emozioni del progetto,la musica astratta, concettuale, diventava inno alla gioia ancor primache ne fosse scelto un altro.

Questa volta Saviano, per la sua espressività, si esprimerà come unuccello, uscirà dalla sua gabbia da uno spazio invisibile e canterà va-riando ritmo e melodia.

Per far questo, trasforma il suo libro in pièce, dedica questa a

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Neda Soltani e Taraneh Moussavi, le giovani donne uccise dalla re-pressione del governo di Ahmadinejad.

Nel giorno dell’esordio attende il suo intervistatore, il giornalistadi «La Repubblica» Carlo Brambilla, nella sale delle prove; il giorna-lista si emoziona due volte, assiste all’ultima messa a punto dello spet-tacolo-monologo, fatto di racconti e storie spiegate, rivelate comemusica nuova, e prepara poi l’intervista.

Saviano mette ritmo alla partitura che racconta del fucile mitra-gliatore Kalashnikov, dal nome del generale russo MichaelKalashnikov; farà sentire il suono del mitra che ha ucciso più uomininella storia degli uomini, e poi, ancora con le parole farà esploderela dinamite nel cuore del suo inventore, Alfred Nobel.

Il progetto della dinamite era nato per sollevare l’uomo dalla fa-tica, diventa, invece, la più grande invenzione di pensieri tristi, nelladefinizione di Remo Bodei.

Odiare, attentare, vendicarsi, distruggere diventano i verbi dellacontemporaneità e gli uomini si trasformano in bombe moltiplicandola paura dell’altro.

Saviano scopre a poco a poco che può parlare di bellezza, suonarecon le parole melodie d’amore, passioni per le cose semplici, la bel-lezza diventa ogni forma di resistenza che è capace di sottrarre inferno.

«Domani», pensa, «se tutto andrà bene, avrò la possibilità di cam-biare, potrò incontrare altre persone, persone diverse. Avrò la possi-bilità di leggere per cambiare le melodie, di scrivere per suonare conla mente, inventare i contrappunti sublimi, quelli della ribellione adogni gesto di sottrazione della libertà».

L’introduzione lunga all’intervista servirà a spiegare il significatodella sua dedica, la dedica per la sua pièce; e mentre la farà, il suo in-tervistatore piangerà. Questi metterà un tempo lungo per scrivere ilpezzo, quasi a voler tenere dentro, per più tempo, la bellezza delleparole ascoltate.

Neda significa voce e Taraneh significa canzone.Neda il 20 giugno 2008 manifesta per i presunti brogli elettorali.

Era con il suo cellulare a riprendere la verità di quello che accadeva.Il cellulare raccontava la verità e questa prova di verità diventa provadi colpevolezza.

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Il poliziotto spara, ed il filmato che farà vedere il cellulare èl’inferno che si racconta.

Neda muore per vivere, diventa segno incancellabile della mortenecessaria, testimonianza della vitalità della morte, un’ecologia del-l’esistenza, la sottrazione istantanea di tutte le ridondanze del nostrovivere quotidiano.

Taraneh, invece, viene costretta a perdere l’onore più volte, stu-prata per sette giorni e sette notti, il suo corpo verrà bruciato per farsparire le prove; una storia parallela a quella di Gelsomina Verdebruciata a Scampia, Napoli.

Taraneh era una ragazza bellissima, lei si truccava, curava la suabellezza, in un paese dove la bellezza, che spesso è solo capacità diesprimersi, o intesa come semplice verità, andava nascosta.

A Taraneh spettava la morte se voleva vivere di bellezza, di verità.Sì! Saviano era diventato cellula nuova, questa interattività con-

quistata lo faceva vivere come muscolo. Come un pugile che non sail numero di riprese che lo porteranno alla vittoria, egli rischiava dimorire ma non di perdere.

È così che il suo libro, Inferno e Bellezza, diventa il suo significato, li-bro-libertà. Con lo spettacolo ha la possibilità di vivere le libertà dispo-nibili, la nuova situazione consente a Saviano di guardare in faccia lagente, godere negli intervalli della bellezza del silenzio, la musica astrattalo può accompagnare trovando i numeri della sequenza giusta. Le pa-role del libro diventano pièce che si rinnova; ad ogni rappresentazionepuò contare e vedere quelli che lo aiuteranno a differire la condanna ma-ligna; morire per la libertà della sua terra, Napoli allargata, non più solocorona di spine ma inferno di difficoltà, e terreno di battaglia.

Finché la sua partitura saprà raccontare nuove verità e un coro dilibertà accompagnerà la sua esecuzione, sarà possibile salvare la cittàdegli uomini e delle donne di libertà.

La Napoli della città degli uomini dovrà essere destrutturata e ri-costruita e sarà nuovamente città della bellezza. «La Camorra nonabita più qui», è il coro d’amore per la città possibile che la popola-zione aveva cantato insieme a Saviano in una sera lontana; quella serafu anche l’inizio della sua vita sotto scorta. Poi, la sentenza definitivacon sedici ergastoli ai Casalesi era diventata la voce e la canzone giu-

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sta; Neda e Taraneh ancora vive, come la sua felicità, vista come ca-pacità di uscire dalle difficoltà, inferno e bellezza ancora insieme macon nuove sequenze d’amore.

Non a caso dopo la sentenza Saviano sente la necessità di ringra-ziare tutti coloro che hanno avuto il coraggio della verità, tutti coloroche sono morti per vivere la bellezza di essere se stessi.

Finalmente, certo non basta, bisogna saper andare oltre, ma la sen-tenza restituisce tutta la verità. Non è più esagerato parlare di ca-morra e ’ndragheta a Milano più che a Napoli, all’estero più che nelMezzogiorno.

Tutti i comportamenti ambigui sono stati smascherati, imprendi-tori e politici dovranno dire nuove verità. I detrattori dovranno par-lare meno, la denigrazione è un’arma spuntata, e la speranza dell’im-probabile riempie il cuore di quelli che vivono di Napoli.

Grazie ai resistenti come Saviano, Neda è anche il nome di tutti igiudici che hanno lavorato per la verità: Federico, Franco, Francesco,Carlo, ancora Francesco, Raffaele, Raffaello, Antonello e Lello ed al-tri di cui è meglio nascondere anche il nome, sono tutti insiemeTaraneh, canzone nuova di vitalità per tutti gli uccisi.

Lo spettacolo inizia e si sente la voce di Saviano che ringrazia DonPeppe Diano, che aveva scritto, «per amore non tacerò, SalvatoreNuvoletta, carabiniere ucciso per vendetta, Federico Del prete cheha fondato un sindacato contro i clan, Antonio Cangiano per nonaver voluto violare le norme sull’appalto».

E poi ricorda che l’inchiesta Spartacus ha avuto un buon finale;Spartacus, dirà Saviano, non è un nome scelto a caso, è il nome delgladiatore tracio che nel 73 a.c. sfidò un impero insieme a tutti co-loro che chiedevano libertà.

L’idea che il diritto e la giustizia potessero riprendersi quelle terre,sottrarle al potere dei clan si è affermato ed una nuova vitalità puòguadagnare spazio, sia politico che di azione civile.

Voce e Canzone, sono diventati a Napoli nomi di molte persone epossono cantare della speranza della metamorfosi, l’inferno di Crocenon è quello di Saviano e la bellezza può ancora sostituire il paradisomancato. Napoli ritrova i frammenti da illuminare ed il futuro che sipoggia sulla Napoli contraddetta diventa immagine vitale.

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«C’è un progetto di partenza che coinvolge Casa Kaplan», questoè il messaggio implicito della lettera di ringraziamento che RobertKaplan invia a tutti gli amici che hanno contribuito a creare lo spaziogalleria che da Kaplan Project n.1 e n.3 si è trasformato in casa-cittàe luogo accogliente.

Uno spazio diventa luogo ed un luogo si fa casa, poi la casa si tra-sforma in città, interna ed esterna; per molti diventa comunalità con-temporanea, città dove andare.

Una storia urbana naturale, une cité qui est apparue, GiuseppeZevola, Poul Thoral, Paolos Stampa, Carlo Stara, Barbara Lambrecht,Anoine Esquilat, Ninee Louisde Montelambert, Sylvia Schldge,Fredéric Maria, Joeg e Jutta Huber, Emanuelle Heidsiek e PhilippeLeduc, Antonio Martiniello, Rosaria Di Blasio, Clelia Santoro,Nathalie Borel, Sergio Cappelli, Cedric Reversade, Caterina Occhio,Renaud Séchan, Alos Cavdar, Raffaella Nappi, Patricia Grund eNathalie Haidsiek rimasero solo in parte sorpresi.

Il progetto e tutti coloro che avevano contribuito a farlo nasceree crescere come una cellula di un tessuto organico predisposto, ave-vano fatto parte della vita di un milieu riconoscibile nella storia deltempo giusto: Napoli città d’arte, Napoli città della comunanza,Napoli come casa d’artisti, Napoli città della poesia, Napoli cosmo-polita, Napoli e l’arte contemporanea, Napoli della poesia visiva esonora, Napoli del vivere quotidiano, Napoli città della polifoniadiffusa, erano tutte città vivibili durante la loro vita temporanea. Lalettera di Kaplan faceva balenare l’idea della scomparsa di un grannumero di esse. La Napoli città ostile era stata comunicata almondo facendo perdere massa critica al progetto di costruzionedelle altre città.

PARTENZE RALLENTATE

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La lettera comunicava che questa nuova immagine offerta almondo aveva reso insostenibile la manutenzione di casa Kaplan.

Da sola, casa Kaplan non riusciva a vincere la comunicazione con-tro, anche per le oggettive nuove condizioni di contorno. EppureNathalie le aveva pronunciate tutte le parole chiave della Napoli pos-sibile, da vivere: «Napoli reseau pour découvrir l’espace commun»era la risonanza comunicata.

Vivere casa Kaplan era stato un desiderio di proximité vissuto, undispositivo di relazioni regolato dal vivere insieme, anche insieme al-l’arte, all’artigianato d’eccellenza.

Sì, Casa Kaplan era un luogo pieno d’arte, dove l’artista si ricono-sceva nei viandanti d’amore che incontrava, tutti in cerca della pro-pria città. La città e la casa si arricchivano di nuovi arrivi e di nuoveresistenze alla partenza.

Oggi le partenze sono diminuite e gli arrivi affrettati, la casa nonrespira abbastanza e la distanza tra oggetti e persone si è dilatata, glioggetti hanno perso affettività e l’eros ha perso i profumi, il pensieroè altrove e casa Kaplan si è trasferita dalla mente di molti prima an-cora dello smantellamento fisico, che avverrà forse fra pochi anni.

Nathalie l’aveva definita «un lieu d’une commune visibilité», unluogo capace di essere un’espressione del vivere la città senza che ilvivere fosse solo l’abitare.

La casa era anche un nuovo modo di rivisitare il concetto di spa-zio urbano, la spazio diventava quasi-pubblico perché la somma deicomportamenti individuali produceva beni condivisi, innovativi, dinuova urbanità.

Nell’era dell’espansione delle reti, quel luogo aveva resistito allaframmentazione, anzi era diventato nodo di reti a densità variabile,di polifonia desiderata.

La densità è scomparsa, le reti ostili dicono di saltare il nodo diCasa Kaplan, la città di Prometeo ha preso il sopravvento: PourNathalie la cité a disparu, l’idée de ville n’est plus, du moins celle deKaplan, il n’a plus de hors.

Nathalie è presa da una malinconia interiore che non ha niente ache fare con le analisi di Mike Davis, City of quartz: Los Angeles estencore une ville?

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La malinconia di Nathalie è di altra specie, è una malinconia le-gata alla scomparsa dei suoi luoghi interni, dei luoghi che lei avevacostruito con la mente e con il ventre, pieni di valori di appartenenza,di concentrazione dell’arte, un mosaico di emozioni dentro casa.

Domande vecchie e domande nuove si erano mischiate. La molte-plicità dei centri d’arte, la numerosità dei creativi, le densità artigia-nali, l’ospitalità diffusa, la produzione di cultura avevano perso forzad’attrazione?

Casa Kaplan non veniva più percepita come luogo città, la casache anche grazie a Nathalie riusciva a coniugare tutti i comporta-menti quotidiani come emozioni del vivere.

Era accaduto qualcosa in poco tempo; negli ultimi dieci anni sierano incattiviti i comportamenti. Una nuova aggressività aveva per-vaso la città ed i rapporti di ‘vicinalité’ cari a Nathalie si stavano di-radando, in certi casi la vicinanza si era trasformata in fatto ostile, ocontraddittorio; la folla in attesa numerata per una pizza d’autoreaveva contaminato il luogo, da autentico a desiderato come moda enon per esigenza.

Casa Kaplan non era più l’isola intra muros, il non silenzio prove-niente da fuori dominava e ti accompagnava nella casa dell’arte edella poesia visiva, fino a farti vivere l’estraneità attuale della riso-nanza del luogo.

Ma Casa Kaplan poteva sparire, dopo dodici anni di vissuto signi-ficante, una storia sui due decumani, una storia fondante del tempo-raneo contemporaneo?

Oggi la mente ed il cuore di Nathalie vedevano la futura scom-parsa come un segno di un potenziale mancante, di una opportunitànon pienamente colta, come la sparizione di una densità ancora ne-cessaria ad una città in metamorfosi.

Ritornava il rapporto tra locale e globale; era stata la comunicazioneavversa ed il racconto delle storie locali, che inondando i centri cultu-rali sparsi nel mondo, avevano causato la scomparsa delle reti genera-tive di nuove densità, oppure vi era una tendenza più generale?

La frammentazione dei luoghi urbani significativi è un fenomenoche avvolge tutte le città?

Basterà pensare ai luoghi cospicui delle città europee dove le ma-

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fie di tutto il mondo concentrano traffici variegati alimentando il de-grado morale e visivo, spingendo la politica a cavalcare l’onda dellainsicurezza sociale che è diventata l’emergenza delle emergenze.

Ancora anni di manutenzione del progetto senza la speranza dellaripartenza? I decumani di Napoli hanno visto morire e nascere pro-getti. Un cambio d’uso dei luoghi che dura da duemila anni, un mi-scuglio di vitalità e abbandoni, resistenza e persistenza delle formehanno spesso dato stabilità all’idea di città, la speranza del subentrodi nuove densità si è sempre incontrata con la storia del luogo. ErriDe Luca ci dice che gli uomini e le donne sono ciò che possono rac-contare, le loro storie sono la città, e Napoli, con il suo centro sto-rico più grande d’Europa per densità di storia e di storie, ha ancorada raccontare migliaia di storie di persone che vivono di Napoli emuoiono di Napoli, accanto a storie di persone che vivono perNapoli.

Napoli accoglie storie e persone che decidono di vivere e morire aNapoli, non ha nemmeno paura di guardare la realtà, ascolta coloroche dicono che la cultura e la vitalità stanno morendo con Napoli,ma Napoli ha ancora la speranza piena della metamorfosi?

La storia del già fatto da Nathalie e da Casa Kaplan è una storiadi emozioni e di cultura da raccontare, storie di Napoli, ed anche dimalinconia per Napoli.

Storie di un laboratorio per il cambiamento, un tentativo necessa-rio e forte di riscoperta e ricostruzione dello spazio comune, con-temporaneo, fuori da schemi tradizionali, di riscoperta di modelliabusati.

Nathalie aveva sentito Napoli come luogo ancora autentico, ri-spetto all’omologazione delle città della globalizzazione accelerata; isuoi continui viaggi nel mondo e nel mondo dell’antica Persia finoad oriente erano stati sempre viaggi di ricerca, viaggi di ricerca di luo-ghi nuovi perché genuini, autentici, luoghi dove il sociale può esseredefinito solo guardando l’insieme dei comportamenti. Aveva sentitoil bisogno di una nuova ecologia dell’arte, con esperimenti di poesiasonora come chiave di lettura degli scenari. Il suo comportamento dimercante alla ricerca di storie nei tappeti del mondo, era un com-portamento di ricerca, di rigenerazione o manutenzione dei luoghi,

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un tentativo di moltiplicare il sentire comune. Ecco perché casaKaplan era diventata un nuovo perimetro sociale, inclusivo delmondo dentro i limiti urbani.

Erano i comportamenti degli abitanti che delimitavano la città,erano essi stessi che la perimetravano dando importanza ai fatti urbani.

Non a caso quando i fatti del fuori casa hanno condizionatol’abitare la città comune, l’interno delle persone con vogliad’incontro è sparito e la città di Kaplan si è dissolta.

Quello che fino a ieri era il rifiuto dell’esclusione contro la globa-lizzazione delle omogeneità, era diventata una sottrazione.

Casa Kaplan è una storia di apprendimento, di un nuovo modo di«partager ce monde comun fait tout d’abord de pratiques interrela-tionnelles tels liens le voicinage e tout ce par quoi s’exprime un modede vie e de rancontrés alèatoires», ripeteva Nathalie.

Non lo diceva solo a se stessa, presto lo avrebbe potuto scrivere,non appena si sarebbe allontanata dalla città. «Andata e ritorno nellestrade dei decumani, acquisti e scontri nelle densità artigianali locali,il mischiarsi di densità laiche e densità sacre, l’alternarsi di silenzi in-terni e densità sonore esterne dovute alle mille iniziative di associa-zioni, di confraternite, di nuovi entranti, consentivano agli abitantidi Casa Kaplan di vivere le loro mille città interne e le mille cittàesterne, visibili ed invisibili»; era questo, in fondo, anche un pensierorelativo al vissuto di Nathalie.

Questo mescolarsi e contraddirsi dei linguaggi e dei gusti, del ve-stirsi e dell’amare l’arte, dell’ordine vernacolare e del disordine po-polare diventava ricerca continua sul significato di spazio pubblico edi ambiente urbano. Non molte città del mondo e pochissime inEuropa, hanno la possibilità di vivere questo spazio di sperimenta-zione, di apprendimento. Questo spazio di vita potenziale a densitàvariabile, con libertà di isolamento in luoghi sacri o luoghi nascosti,crea un miscuglio di atmosfere, un’etologia urbana, che può essereraccontata in mille modi.

In questo senso, casa Kaplan rimane ancora l’ennesimo esperi-mento di scelta della strada significativa per l’impianto di una den-sità moltiplicativa, fatta di progetti a impatto ampliato, fino a poteraffermare che la città, Napoli, esiste perché desideriamo abitarla. E

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Casa Kaplan era e forse sarà ancora il desiderio di abitare Napoli.Costruire il progetto, abitare il progetto e pensare al progetto sonoancora i fondamenti dell’abitare in città, sono ancora ricerca di spazidi nuova densità, che chiamiamo città.

L’intuizione di Kaplan, come pensiero di molti, era ancora desi-derio di investire in ricerca di nuove modalità d’incontro; Nathalie eCasa Kaplan rimangono sinonimi di voicinage, civilité, visibilité, di-versité; un riconoscersi come ritornello urbano: habiter la ville è ha-biter le monde. Casa Kaplan ancora oggi a Napoli è casa e cosmo.

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Ermanno Rea leggeva del maestro Muti e della promessa fatta du-rante la visita guidata al San Carlo ristrutturato. Leggeva anche diBassolino che rivendicava il ruolo della Regione nel processo di am-modernamento e rilancio del Teatro.

Il Maestro promise che sarebbe tornato spesso nel teatro più bellodel Mondo, annunciava il giornale. Il commissario Salvatore Nastasiaveva predisposto una macchina complessa per evitare l’interruzionedelle attività e la restituzione del teatro alla città prevedeva anche unampliamento del potenziale.

Erano previste nuove sale di prova di registrazione con sonoritàsublimi.

Con il suo gioiello Napoli potrà travolgere i visitatori, come fececon Stendhal, potrà emozionare di più producendo nuova musica.

Mozart era vissuto a Napoli ma anche di Napoli. Egli sarebbe statosempre un genio della musica, ma senza la sosta a Napoli e l’incontrocon l’enorme patrimonio musicale napoletano esistente sarebbe statoun altro Mozart. Questo pensiero di Muti era suffragato dalla storiae dalle storie del vissuto di Mozart, delle ispirazioni avute a Napoli edal confronto con i grandi musicisti napoletani del suo tempo.

Ancora una volta luoghi e persone si mischiavano e Napoli segna-lava le sue densità. Per la prima della stagione viene scelta ancoraun’opera di Mozart a conferma della voglia di produrre nuove em-patie: Ronconi in regia per La Clemenza di Tito.

Dopo duecento anni ‘Napoli siccome immobile’, a detta di AldoMasullo, accoglie la stessa opera e la rilegge.

Ermanno Rea riflette sulla presentazione di Ronconi, subito sichiede se l’uomo pensoso di cui parla il regista, non sia Bassolino.

Tito viene rappresentato come il politico che si pone il tema del

INCHIESTA SULLA SCOMPARSA DI BASSOLINO

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modello ideale di imperatore.Bassolino in televisione aveva già tentato un’analisi del genere,

un’auto analisi che portava a chiedere clemenza per sé, ma quella erala clemenza di un imperatore per se stesso, non era la Clemenza diTito.

Il modello da indagare, forse, presuppone gradi di libertà che‘l’imperatore napoletano’ non ha mai avuto, ma può basarsi anche edesclusivamente sull’analisi dei gradi di libertà disponibili per vederese essi sono stati sottovalutati.

Bassolino come lui era stato comunista. Rea, da comunista, si erasentito molto più vicino a Caccioppoli e ai tanti che tra il 1956, 1957,1958 e 59 si erano suicidati. Nei suoi romanzi e nelle sue inchieste viera stato sempre un urlo, a volte lancinante, altre volte sommesso maradicale. Certo sembrava letteratura ma era anche storia sociale.Aveva finito per condividere i temi della recensione del suo ultimolibro, Napoli Ferrovia, l’ipotesi dello sdoppiamento, del comunista edello scrittore, lo aveva intrigato; il primo anche lui urla con la suapartenza definitiva, il secondo torna sempre innamorato di Napoli,un morire di Napoli e vivere di Napoli che si toccano fino a diven-tare la stessa cosa.

Lo scrittore ha ancora voglia di raccontare la sua Napoli, della suaframmentazione politica. La malinconia per Napoli, raccontata nelpassato Maggio alla chiesa di San Ferdinando, poteva diventarenuova metodologia di racconto. Non se la sentiva di aderire comple-tamente alla tesi di Masullo e Scamardella sulla città immobile dera-gliata e sospesa. E poi a lui piacevano le storie degli uomini, senzainfierire sulle loro debolezze.

Si sarebbe messo nelle vesti di Tito per difendere le ragioni dellasua città, le ragioni della vitalità dei suoi abitanti, delle speranze tra-dite o male accompagnate.

Il giornalista di sempre, lo scrittore sublime, l’analista sociale po-tevano rientrare tutti insieme e scrivere una storia, un’opera nuovasui temi della clemenza e della tolleranza possibile.

Avrebbe potuto rivisitare la Napoli esistente con gli occhi dellapolitica necessaria, quella delle partenze e degli arrivi nei luoghi delledecisioni e degli impegni.

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Sarebbe stata anche un’inchiesta sulla speranza dell’improbabileche è sparita, senza sentenze definitive, un’inchiesta sulle incapacitàed i contesti, sulle forze potenziali e sulle sconfitte inevitabili.Raccontare di tutti quelli che oggi vivono e muoiono di Napoli, comemisura della città emergente, della città che verrà. Perché Napolideve avere nuove risposte ogni giorno. La città vive anche senza ri-sposte; ma raccontare la bellezza e l’inferno deve essere una possibi-lità per molti.

Doveva raccontare di Napoli e per Napoli, interrogarsi sulla cle-menza possibile e sulla tolleranza necessaria, trovare il trade-off ca-pace di farci capire l’alternativa in campo.

Il concetto di clemenza doveva essere elaborato come punto di ar-rivo, l’uomo che entrava nel San Carlo e si affacciava dal palco realeinsieme al presidente Napolitano era lo stesso che era entrato conCiampi in occasione del G7?

Come mai non era un comunista urlante e suicida? Come mai in-vocava la clemenza e la tolleranza?

«Colui che nei primi anni Novanta era parso l’uomo nuovo diNapoli, Antonio Bassolino, si era a sua volta arroccato invitando lagente alla calma: niente denunce, niente mobilitazione di popolo,niente stati generali, penso io a tutto, lasciatemi lavorare con calma...magari “l’uomo nuovo” fosse stato capace di promuovere una cro-ciata...» ha scritto Rea nella introduzione di Rosso Napoli.

Bassolino re di Napoli era scomparso, e il filosofo Aldo Masulloparla della scomparsa di un uomo debole, troppo innamorato del po-tere, cui il popolo-imperatore infligge la pena con tolleranza zero. Ilpolitico debole non è diventato mai classe dirigente? Quello del com-promesso necessario è destinato a scomparire o è solo una cadutatemporanea?

Forte è chi ha il coraggio di perseguire fino in fondo un obbiet-tivo di interesse generale. Essere comunista è ancora solo questo.

Bassolino viene ucciso più che uccidersi con consapevolezza?L’uomo non ha visto che ad un certo punto della sua sfida aveva bi-sogno di altro? Non si è accorto che la sottrazione continua di gradidi libertà, di scelte, gli aveva sottratto il potere desiderato? Non si èribellato e ne è diventato vittima?

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Vi è stata una sovrapposizione continua tra potere ed identità?Ecco, questa volta, ancora per una volta, Rea potrebbe mettere il

suo saper raccontare di Napoli e dei luoghi, la sua capacità di rac-contare storie e di scriver di storia, al servizio di un progetto di cle-menza, tutto ancora da definire. La clemenza di Napoli, la sua capa-cità di perdonare i re fino a rappresentarli come il bene, dovrebbeavere un filtro, un racconto di verità, sulla storia del comunista sdop-piato o addirittura a più facce.

Sapere se quel comunista è morto di Napoli, a Napoli o per Napolinon è un’inchiesta banale; è un’inchiesta su tutti coloro che vivonoincrociando la storia della città.

Nessuno meglio dello scrittore comunista e saggista potrà raccon-tare del perché, pur essendo il principale bersaglio della tempestamediatica contro Napoli, egli non si sia dimesso ed abbia voluto vi-vere la sua parabola fino in fondo, senza pentimenti, rispettando ilprincipio che un uomo politico non abbandona il potere nemmenoun momento prima del tempo in cui sarà travolto.

La nascita del Partito personale era necessaria?Lo svuotamento delle funzioni istituzionali dei partiti e del par-

tito, l’occupazione lobbistica delle istituzioni era una strategia percombattere gli altri partiti personali o una difesa? I Berlusconi, iD’Alema, i Mastella, i De Mita, come i Gava erano da combattere oda imitare?

Napoli era caduta nella solita trappola, aveva creduto di poter sa-lutare un altro Carlo V, appena propostosi per Napoli.

La voglia di diventare imperatore incrina molti rapporti, quelli fa-miliari, quelli d’amicizia, quelli del convivio e del sorriso, quelli dellaprogettazione e del confronto. Inseguire l’evento come metodo perfar apparire la forza del potere diventa un paradigma politico.

Lo scrittore, forse, non scarterà l’ipotesi della morte per Napoli,ma Napoli come città da raccontare e città del vivere o del morirenon potrà morire e scomparire; Napoli ha ancora tutte le storie delmondo dentro il suo perimetro ed oggi che questo perimetro è sal-tato, Napoli è ancora città contemporanea smisurata. Ha moltipli-cato le contraddizioni del mondo e le contiene tutte come paradossourbano.

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A Napoli è possibile tentare una gamma aperta di ricerche sullacittà possibile, è per questo che qui è possibile coltivare tutte insiemela speranza dell’improbabile, la speranza della metamorfosi e la spe-ranza di farsi storia nuova.

Un imperatore è scomparso, e forse come gli altri non è morto nédi Napoli né per Napoli.

E Rea, pur lasciando suicida il Rea comunista per congiungersi aisuoi contemporanei utopisti radicali, affida all’altro che è in sé la spe-ranza di ricongiungersi a Croce, sentire ancora Napoli come patria eraccontare ancora di Napoli. Rea parlerà ancora della sua città, den-tro conserverà la sua malinconia, ma d’incanto appariranno nuova-mente le storie di Napoli recenti, storie di personaggi temporanei, dipartenze e di arrivi, di progetti intermedi, di pulcinella ancora abi-tanti della città e dei pulcinella che non abitano più lì.

Il parlare di Napoli non sarà sospetto, l’etica dello scrittore non ènegoziabile, la clemenza non è tolleranza, e un comunista lo sa.

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Eduardo Souto de Mura, l’architetto portoghese alle prese con ilProgetto della Stazione Metropolitana di Piazza Municipio, era ar-rivato stravolto, le difficoltà progettuali si erano moltiplicate, buro-crazia ed esigenze elettorali spingevano il progetto verso incoerenzeconcettuali, e la sua semplicità progettuale non poteva diventare ge-nialità espressiva. L’adeguatezza dei modelli e dei linguaggi non ri-usciva a riflettere la struttura della realtà, i vincoli non si potevanotrasformare in opportunità, il modello adattivo prendeva il soprav-vento, nemmeno il contraddetto di Italo Ferraro poteva mostrarsicon chiarezza.

Era già accaduto con la scelta degli alberi da installare nelle partiall’aperto. Nessuna vera riflessione sul significato urbano era nata. Illeccio e non il pino, ma perché non la felce e l’orchidea, o una delletante palme ammalate? Nessuna risposta importante era emersa. Soloil modello adattivo si mostrava come possibile razionalità decisionale.L’architetto importante sentiva il peso delle antinomie che si eranorivelate. Non vi erano percorsi complementari da proporre, si sen-tiva come un osservatore della propria marginalità. Egli voleva usareun linguaggio fra mille esistenti in città; ma nello stesso tempo, millefenomeni per lui significativi, dai materiali alle pietre, dalle regole aldisordine, erano preclusi soltanto per limiti contingenti di comuni-cazione. La conoscenza si mostrava come intreccio di storie indivi-duali, di eventi irripetibili, di approssimazioni incredibili, di motiva-zioni pretestuose, di opacità sopravvenute.

Forse, per tutte queste ragioni, fu severo con i giovani architettidel master d’eccellenza, essi non si esprimevano più come architetti,possessori di un linguaggio destinato a risolvere il problema dell’abi-tare in città.

IL RITORNO DEL PRINCIPE NELLE SUE SCUDERIEDI PALAZZO SANSEVERO: UNA RIGENERAZIONE URBANA

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Si erano fatti tentare dalle ragioni del progetto visibile, concor-rente con i linguaggi di successo, senza avere tutta l’umiltà del dise-gno e del segno dialogante con la storia e i problemi del luogo.

Le sue difficoltà si erano trasformate in avvertenze: la prossimavolta avrebbe voluto vedere più architettura, più disegno semplice,più lettura dello spazio dell’abitare. L’idea che ogni oggetto dise-gnato, sia esso muro, casa, o spazio, in quanto oggetto dell’architet-tura come disciplina, deve avere una storia, deve sottoporsi ad unacritica sulla genesi e sulla sua evoluzione.

Sembrava che il disegno urbano proposto dai giovani fosse a-tem-porale, gli oggetti proposti sembravano scomponibili, separabilimolto più di quanto non fosse nelle intenzioni degli architetti.

Non si riusciva a percepire il cambiamento dello sfondo,l’invariante della città non aveva un disegno certo da contrapporre alcontraddetto o alla discontinuità necessaria, magari solo persistenzachiara. Gli esperimenti percettivi si erano confusi dentro al labirintodei segni.

Lo sfondo della città doveva essere percepito come costruito, sidoveva indurre una riconversione dell’atteggiamento, il venir menodelle regole e degli attributi di permanenza e di necessità avrebberofatto sparire il costruito per far spazio ad una pluralità di oggetti. Unaprospettiva non chiara oltre che non sostenibile sul piano ammini-strativo e politico.

Il maestro doveva fare il maestro, ed il rimprovero doveva servireda stimolo e non da sentiero da perseguire, la contrapposizione eranecessaria.

L’effetto fu diverso; la discussione provocò silenzi; ma nonostanteciò molti nuovi punti di vista emersero, la realtà si mostrava a più di-mensioni. Ogni parte di progetto si mostrava con i tempi evolutivi delleipotesi base completamente fuori squadra. Era successo, però, chequelle difficoltà avevano chiarito il da farsi: i nuovi rapporti di com-plementarietà, di sussidiarietà, di esclusione, di gerarchia avevano fattoesplodere una nuova consapevolezza sulla revocabilità degli stessi, illoro valore euristico diventava metodologia per le nuove indagini.

Al termine della lezione-correzione, gli architetti del master, agruppi separati si avviarono verso la parte alta di Piazza San Domenico,

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i loro professori, invece, avevano inseguito l’architetto portoghese,quasi a voler assecondare ogni sua parola. Una nuova lapide era stataapposta sul palazzo Sansevero. «In questo palazzo visse operò morìRaimondo Di Sangro VII, letterato mecenate ed inventore nella Napolidei primi Lumi. Ingegno straordinario celebre indagatore dei più re-conditi misteri della Natura».

Entrarono nel palazzo e nello studio di Lello Esposito che avevasubito una metamorfosi definitiva. La tela enorme, Pulcinella nonabita più qui, aveva fatto spazio ad una tela altrettanto impegnativache raffigurava il principe rigenerato, riapparso per contribuire nuo-vamente alla rinascita dei luoghi dentro e fuori del suo palazzo. Comeun tempo, la Napoli dei Misteri di prima era nuovamente la Napolida riscoprire.

Del resto gli studi del Di Sangro e le sue rappresentazioni sulla cir-colazione sanguigna del corpo umano erano stati ripresi come iconadi comunicazione per le scoperte di alcuni scienziati napoletani suitemi dell’angiogenesi, le nuove scoperte erano nuovamente al centrodi studi per inibire lo sviluppo dei tumori.

Quasi come metafora del nuovo spazio ‘le scuderie Sansevero’avrebbero rappresentato il simbolo della possibilità di rigenerare iluoghi, allontanare le espressioni tumorali della città fino a riempirladi nuovi significati.

Lello Esposito lo aveva annunciato con la sua nuova inaugura-zione, il principe al posto di pulcinella; poteva parlarsi di una nuovastoria strutturante, l’annuncio di una metamorfosi compiuta delluogo e della città?

Per contenere tutti gli invitati al concerto presso la cappella e lacena presso le scuderie, l’evento era stato sdoppiato, due giorni di ri-flessione sul significato delle celebrazione per il terzo centenario dellanascita. «1710-2010» scritto da Lello sulle mura bianche descrive-vano in sintesi mille storie di una città in cammino, in metamorfosilunga, interpretando mille città intermedie di persistenza e contrad-dizioni. Una ricerca ancora da fare, un inventario infinito di personeche vivono di Napoli e per Napoli, uno spazio mille volte più grandedi quello delle persone.

Spesso le altre storie di partenze e di arrivi sono meno interessanti

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delle storie silenziose di quelli che vivono a Napoli e che aspettanouna città migliore.

Lello si fece riconoscere, si era imbucato in altri spazi del palazzo,progettava partenze e ritorni, voleva portare il segno della ripartenzain ogni luogo, identità e sviluppo come nuovo paradigma di riferi-mento, la speranza della metamorfosi piuttosto che la malinconia delvivere.

I giovani architetti furono contaminati da quella forza del viverel’arte come linguaggio della persistenza e dell’innovazione, della ri-generazione urbana e morale. La metamorfosi del luogo era avvenutain un tempo più veloce del loro nuovo segno, capirono la raccoman-dazione dell’architetto portoghese ed il comportamento di Lello, tor-narono nel loro laboratorio e disegnarono; disegnarono la loro meta-morfosi, il loro passaggio dalla certezza del progetto alla capacità divivere la pianificazione debole e felice, quella consapevole dei limitima capace di essere fertile, innovativa nella ripartenza, per città chesaranno.

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L’artista di Napoli città madre, Ugo Marano, aveva scritto un manife-sto-libro su Caggiano, «la città dei numeri sette».

Il testo del libro propone una profonda sottrazione di spazi costruitinel centro antico del piccolo paese, posto a oltre 900 metri sul livellodel mare.

Un esperimento da fare per avere risposte contemporanee al tema delfuturo di numerosissimi borghi e paesi abbandonati.

Questa volta il centro storico è stato abbandonato lentamente e la suamemoria è stata addirittura rimossa, forse è più viva nelle due comunitàcaggianesi insediate a New York, in due parti della città.

Nel castello ristrutturato, dopo un convegno di studio dedicato altema della sottrazione nella pianificazione, con la lezione introduttiva diMassimo Pica Ciamarra, era stata organizzata la presentazione del libro.L’invito era stato rivolto a Elena Sassi, la professoressa di Fisica, napole-tana, ma lei non poteva essere disponibile, promise però di raggiungereCaggiano in giugno, anche lei era incuriosita dalla notizia: alcuni modellidi grafi, elaborati anche da Renato Caccioppoli erano custoditi in un pa-lazzo del centro antico. Giovanni Bilo aveva custodito tracce scritte diquesta presenza a Caggiano, ma la morte improvvisa di Bilo aveva la-sciato in sospeso sia l’inaugurazione di questi spazi che la visione di unaltro documento importante, ritrovato a Caggiano, che documenta ilpassaggio e la sosta dei Templari in quei territori.

La topologia o studio dei luoghi è una delle più importanti branchedella matematica moderna. Si caratterizza come lo studio delle figure edelle forme che non cambiano struttura quando viene effettuata una de-formazione.

Uno dei primi risultati topologici si deve ad Eulero. Nel 1736 eglipubblicò un lavoro sulla soluzione del problema dei ponti di

CAGGIANO, LA CITTÀ DEI NUMERI SETTEE L’ENIGMA DI NAPOLI AL QUADRATO

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Königsberg. Eulero stava lavorando con un nuovo tipo di geometria, incui la distanza non era rilevante. Egli anticipava di tre secoli problemati-che che appartengono all’era della globalizzazione, la logistica delle città.

Alcune premesse ancora necessarie, i Nylon sono gli abitanti in con-temporanea di due città globali, New York e Londra. Le densità delledue città sono più importanti della loro distanza.

400000 persone vivono frammenti densi delle due città fornendospunti a nuove riflessioni su Topos e Logos delle due città, ma ancheverso la definizione di una nuova città vissuta componendo i frammentidi più città.

Il problema di Eulero, il problema dei sette ponti di Königsberg, èun problema ispirato da una città reale e da una situazione concreta.Questa cittadina, enclave dell’unione sovietica, diventata famosa dopo inatali a Immanuel Kant, è percorsa dal fiume Pregel e dai suoi affluenti,e presenta due estese isole che sono connesse tra loro e con le due areeprincipali della città da sette ponti.

Ci si pone la questione se sia possibile con una passeggiata seguire unpercorso che attraversa ogni ponte una e una volta sola e tornare al puntodi partenza. Senza volerlo questa informazione è anche un indicatore in-diretto della vitalità di un luogo. È come se oggi ci ponessimo la do-manda su quanti percorsi esistono a Napoli e a Milano per farci incon-trare 30 o più artigiani senza incontrare mai la stessa tipologia merceolo-gica; oppure quanti percorsi esistono con riferimenti a chiese o monu-menti cospicui, o a luoghi di ricerca e di accumulazione di saperi.

Trovare soluzioni significative aiuta a definire l’identità di un luogo.Il merito di Eulero è quello di aver formulato il problema in termini

di teoria dei grafi, astraendo dalla situazione specifica. Egli rimpiazzòogni area urbana con un punto, ora chiamato nodo o vertice ed ogniponte con un segmento di linea chiamato arco o collegamento. Il cam-mino semi-euleriano è quello che passa una sola volta per un nodo co-spicuo e si conclude dove era partito.

Quante volte è possibile, partendo da un’opportuna zona della città,attraversare i luoghi dell’anima con un cammino semi-euleriano?

E Napoli, rispetto ad altre città del mondo, quanti cammini semi-eu-leriani ha in più?

Eulero fissa una tassonomia dei nodi, facendoci capire le connessioni

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tra teoria dei grafi e topologia. La forma di una città può essere modifi-cata ma rimanere se stessa; la metamorfosi di un luogo può essere inda-gata come evoluzione della struttura complessa, come sistema aperto.

Scopriremo allora che l’esistenza di un percorso è una proprietà dellacittà (grafo) e non dipende dalla nostra capacità di trovarlo.

Le reti della città possono limitare o favorire ciò che possiamo farecon loro, ma spesso non lo sappiamo. Le potenzialità sono allora invisi-bili e nascoste ma esistono, per scoprirle dobbiamo vivere la città.Tredici ponti di Parigi sono stati studiati e un percorso semieuleriano èstato trovato. Nella mente delle persone che amano Parigi vi sono per-corsi unici, loro non sanno se sono anch’essi semieuleriani.

A Caggiano esistono risposte sui percorsi semieuleriani di Napoli?Il teorema del punto fisso di Banach e Caccioppoli è una importante

teoria degli spazi metrici; esso fornisce un metodo costruttivo per deter-minare mappe. Ambedue gli studiosi sono arrivati alla soluzione in ma-niera autonoma sebbene in tempi diversi.

Giovanna Bimonte, una giovane matematica dell’università di Salernoera stata chiamata a sostituire la prof.ssa Sassi, e lei si prepara vivendomille emozioni.

Il giorno 7 di un freddo gennaio si avviò verso Caggiano, anche lei eraattratta, come l’artista, da questo numero magico. Arrivò con molto an-ticipo, il Castello della conferenza ed il centro antico erano deserti.

Era un invito a trovare i nodi cospicui di Caggiano? Non conoscevaElena Sassi di persona ma sapeva chi era, sentiva dentro un senso dicolpa, come se le stesse rubando emozioni, sarebbe andata presto da leiper raccontare ogni suo passo; anche perché non se la sentiva di scio-glier l’enigma dei modelli nascosti, l’enigma dei grafi e quello della pre-senza di Caccioppoli a Caggiano. I modelli parleranno di Napoli e deipercorsi nascosti? Ci diranno anch’essi delle difficoltà di entrare in città?

Ci diranno della difficoltà di abitare Napoli e di vivere di Napoli?La giovane matematica aveva preparato la presentazione, si sarebbe

fatta accompagnare da Eulero, voleva ricomporre la storia della topolo-gia in maniera semplice, Topos e Logos sarebbero emersi come concettiastratti per poi poggiarsi sui luoghi cospicui di Caggiano.

Lei e l’artista si sarebbero abbracciati nel Castello, si sarebbero rico-nosciuti, i linguaggi differenti sarebbero diventati ricchezza; avrebbero

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liberato il paese da tutti i nodi dispari, per moltiplicare i percorsi eule-riani. Avrebbero scoperto se la casa dei Bonito Oliva e quella degliAbbamonte erano ancora nodi vitali per la piccola città interrogativa.

Storie nuove avrebbero liberato la città dalle vecchie, sottraendole allamemoria ed alla fisicità dei luoghi. Avrebbero fatto, insieme al noto ar-chitetto Pica Ciamarra, l’elogio del vuoto. Avrebbero parlato delle nuoveopportunità dell’architettura, capace questa volta di contribuire alla re-silienza del sistema di paesaggio.

C’era ancora del tempo a sua disposizione e lei ebbe l’opportunità diincamminarsi nel centro storico, via Roma è solo due metri di larghezzaed é la strada principale. Si sentiva abbracciata dalle case antiche, nobilie popolari, tutte unite da un arco matematico per connettersi a SantaVeneranda, la chiesa bizantina seduta su una rupe. Lei si fermò davantiad una di quelle case, sentiva di essere arrivata in prossimità dei grafi na-scosti, sapeva che quel giorno non li avrebbe visti e fece un gioco nuovo,ne disegnò due, essi parlavano di Caggiano e di Napoli.

Fu contenta dei risultati, Caggiano era anche topos e logos di NewYork e viceversa, i caggianesi di New York avevano abbracciato il ca-stello con le opere di Lello Esposito, con esse e con Lello si erano messia passeggiare durante la processione rituale che porta la Madonna diCaggiano da un luogo ad un altro della città del mondo.

E per Napoli, quali ‘strappi’, quali ‘incollature’, quali ‘sovrapposi-zioni’ avevano cambiato la città?

Quali erano le nuove convergenze, i nuovi limiti, le contiguità neces-sarie, le connessioni vitali?

C’era una nuova compattezza da scoprire, un nuovo equilibrio da rag-giungere?

Le risposte non arrivavano o forse le voleva conservare, voleva con-frontarsi con la scienziata che non conosceva, potevano, insieme, ritor-nare in estate e confrontare le loro risposte con quelle del grande ma-tematico.

Renato, Elena e Giovanna, un passaggio di testimone, oppure insiemeper l’emozione di una scoperta: Napoli ancora città desiderata?

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Nicola Giuliano Leone decise di andare incontro alla sua classe,sarebbe salito sul Bus dei suoi allievi ed avrebbe accompagnato il lorosguardo, dall’autostrada fino al centro storico. Avrebbe ricordato itre termini di Martin Heidegger «batir, habiter, penser», avrebbecommentato le mille articolazioni della città, segnalando le contrad-dizioni evidenti. Il Bus si fermò a Piazza Dante, era visibile il pro-getto di spazio urbano immaginato dalla Gae Aulenti. Ribadì che lalezione avrebbe approfondito i temi della crisi della città, risalironosalita Pontecorvo fino al Museo Nitsch, si affacciarono sulla città.Gloria e grandezza dell’abitare erano indistricabilmente confusenelle altre densità urbane, un groviglio di prossimità, un mondo ri-composto nelle mura della città insieme al vomito urbano evidente,sconfinante rispetto al disegno suggerito dalla natura.

Tutte le civilizzazioni erano visibili, i segni della storia della cittàapparivano come museo all’aperto, una storia dell’architettura rap-presentabile in una sola foto. Come avrebbe fatto l’architettura a rin-novare l’invito-domanda ‘Entriamo in città? Qual è la nuova portadella città?’

La passeggiata fatta risalendo la collina aveva mostrato arcipelaghidi vita mischiata ma anche la necessità di mantenere la presenza fortedi luoghi dell’architettura. Occorreva allora identificare o proporre diidentificare le funzioni obsolete, i corpi dell’architettura oramai as-senti; ancora una indicazione semplice, occorreva rifare l’analisi deglispazi comuni e di quelli che non lo erano più. Occorreva allora pen-sare nuovamente all’urbanistica ed all’architettura, risemantizzare lospazio costruito e dare un nome a quello da costruire. Come aggiun-gere ai segni esistenti, delle antiche città del mondo, i nuovi segni delvivere contemporaneo senza omologare la città esistente? Barcellona

LA LEZIONE SU NAPOLI

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era lontana ed era giusto che rimanesse lontana, oggi la sua crisi, intermini di ripetizione della visione dello spazio urbano, è evidente.Come trovare i percorsi semi-euleriani legati all’età della informazionee della comunicazione? Come vedere l’invisibile che connette la nuovapopolazione urbana? Come mischiare lo spazio virtuale con lo spazioconcreto per i corpi? Lo spazio nuovo di relazioni, personali e istitu-zionali, si è ridotto, in alcune città è scomparso; il concetto caro agliarchitetti di strada e piazza deve essere reinventato. Ma questa è unabuona prospettiva per l’architettura.

I pensieri del professore stavano andando verso proposizioni di ri-cerca; ancora non aveva presentato Napoli con le sue magnifiche tavole.

Entrarono nel Museo e tutti furono abbagliati dalle opere, dal lororacconto, erano restituzione viva del teatro delle azioni. Nitsch comeguerriero contemporaneo, un guerriero maledetto come Caravaggio,oggi, invece che guerriero maledetto e famoso come Caravaggio, fa-moso e dolce ammiratore di paesaggi urbani e non urbani, con il pia-cere di vivere di pensieri di nuova filosofia dentro le sue case-museodi Napoli e in Austria.

Ma il museo del quartiere dell’arte era anche città accogliente,forse una porta nuova per vedere ed ascoltare chi vuole vivere dellacittà. Loro stessi, allievi e professori, potevano essere i portatori dinuove visioni utili alla città.

Entrarono nella sala conferenza, le opere di Nitsch abbracciaronola classe. Il professore-presidente della società italiana di urbanisticacominciò la sua lezione e le parole diventarono musica per la ricerca.

Egli commentò in sequenza i suoi disegni, ingranditi ed illuminatiessi già parlavano da soli.

«Disegnare territori e fare dei paesaggi di territori ha sempre si-gnificato costruire il sistema interrelato di segni, questo è, ancora, in-trecciare le parole di Heiddeger, costruire, abitare e pensare.

La catena di segni che vi mostro – ribadiva il professore – è an-cora capace di sollecitare la memoria di un paesaggio conosciuto, maanche la voglia di partecipare alla costruzione del nuovo.

Non importa se il paesaggio in memoria è lo stesso di quello rap-presentato, è importante che quello rappresentato sia in grado di sug-gerire i nuovi segni che dovranno diventare progetti di conoscenza,

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di esplorazione; i nuovi segni serviranno a costruire una nuova signi-ficazione dei luoghi senza che la loro morfologia dia luogo a omoge-neità indistinta.

Essi dovranno restituire nelle forme le qualità specifiche delle sin-gole realtà, dall’altra dovranno presentare una realtà propria dellaconformazione orografica».

I temi della didattica si mischiavano a quelli della ricerca, era giànata un’atmosfera di impazienza. Si era moltiplicata la voglia di visi-tare nuovamente la città con i nuovi occhi forniti dal maestro.

Nicola Giuliano Leone aveva fornito la doppia scala dei segni, unaquasi artistica e l’altra astratta; ambedue servono alla costruzione delpercorso potenziale, danno forza al laboratorio di progettazione.Veniva, poi, ribadita l’importanza di guardare alla tradizione del fareurbanistica con rispetto, senza rinunciare al contributo delle altre di-scipline che sanno anch’esse rappresentare il territorio, fino a saperrappresentare i pensieri di tutti gli abitanti del luogo.

Ogni cittadino è un portatore di storie singolari ed è dentro unanicchia eco-urbana specifica. A Napoli ed in altre città il quartiere haancora un significato non amministrativo; in definitiva esso è ancorauna città fino a quando sarà un luogo abitabile; fino a quando essodarà agli appartenenti la certezza che quello è un luogo di residenzasulla terra, quel luogo ha la potenzialità di diventare nuova densitàurbana, un nodo urbano significativo.

«L’utopia progettuale allora non è quella di riprodurre tutte lefunzioni utili, ma progettare lo sguardo del luogo, cioè la nuova ca-pacità di riconnettersi.

Bisognerà allora saper ripartire dalle cose semplici, dalle distanzegiuste, anche del vicinato e dell’incontro, affinché queste si trasfor-mino nuovamente in distanza di appartenenza. Troviamo nella cittàl’arcipelago dei luoghi e tentiamo di combattere la frammentazioneincombente; dare scala alla progettazione è l’urbanistica possibile,entriamo nuovamente nella logica del noi, noi del ritornello dellacittà desiderata. Inventiamone ogni giorno uno per non farci sor-prendere dalla obsolescenza dei consumi imposti. Investiamo innuovi bisogni, solo così la città resiste ed esiste nei diversi luoghi di-

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ventati densità contemporanee contrapposte a quelle della globaliz-zazione e della comunicazione.

Costruiamo nuove fertilità, dell’abitare, del lavoro, dell’interagire,dell’amicizia, del desiderio di nuove presenze; solo così l’architetturaavrà qualità, avrà risposto all’esigenza di metamorfosi del tempo li-quido. L’architettura intelligente è quella che sa vivere oltre la suaepoca, per non rischiare dobbiamo anche saper progettare il tempo-raneo».

L’applauso arrivò forte, sembrò che pure senza averlo mai incon-trato la classe avesse percepito l’importanza del teorema del puntofisso di Banach e Caccioppoli: la funzione della mappa non è in-fluenzata dalla mappa.

L’immagine del luogo è il luogo stesso, la sua forza non dipendedalla mappa della città.

Tutti possiamo diventare città, tutti possiamo vivere per costruirela mappa senza farsi condizionare dalla mappa esistente, ma alloraera vero, aveva ragione la professoressa dagli occhi color Napoli,Lello Esposito e Caccioppoli appartenevano alla stessa vitalità e laloro genialità era anche la nuova mappa di Napoli. Lo stesso valevaper Rea, Saviano, Nathalie e Morra, e per tutti coloro che avevanodeciso di vivere di Napoli fino a dare densità alla loro città; la sommadi queste città singolari sarà la città che verrà. Napoli accoglie ancoratutta la ricerca da fare sullo spazio pubblico e quello privato, è unadelle poche città del mondo che possono diventare laboratorio con-temporaneo sulla città degli uomini e delle donne, la città fatta delvivere di originalità e diversità, accanto al saper vivere di semplicità.La malvagità della finanza che insegue il caos nelle città del mondopotrà essere sconfitta.

La lezione continua: entriamo in città!

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Città Monumento già Cosmica

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Città Macchina e Frammentazione Urbana

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