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OPERE DI ROMANO GUARDINI

ROMANO GUARDINI

LO SPIRITO DELLA LITURGIA

I SANTI SEGNI

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera: Vom Geist der Liturgie (1918) Von heiligen Zeichen (1922)

© Matthias Grünewald Verlag - Mainz 1927 © Verlag Ferdinand Schöningh - Paderborn

© Tutti i diritti d'autore sono della Katholische Akademie in Bayern

Traduzione di Mario Bendiscioli

© 1930 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

Decima edizione: settembre 2005

www.morcelliana. it

ISBN 88-372-1605-X Tipografia Camuna S.p.A. - Filiale di Brescia, Via A. Soldini 25

Lo spirito della liturgia

PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE ITALIANA

Quando nel 1919 venne pubblicato in Germania que-sto saggio di Guardini su lo Spirito della liturgia, il movi-mento liturgico stava pericolosamente attraversando la sua crisi di adolescenza secondo le grandi leggi della vita: la leg-ge della crescita, della complessità, della lotta con l'ambien-te. Le opposizioni provenivano da ogni direzione: dall'in-terno del mondo religioso e dall'esterno, dalla cultura, dalla pietà, dal mondo dell'azione. La natura e il serrarsi delle forze avverse indusse qualcuno a definire il movimen-to liturgico: primavera senza estate.

Il contesto umano del primo ventennio del XX secolo con-correva fortemente a rendere più probabile simile profezia di sterilità e di morte. In realtà l'umanità stava generando nella pena un'epoca nuova nella quale l'uomo aveva cessato di guardare a Dio per concentrarsi esclusivamente sopra se stesso convinto di poter, in tal modo, meglio usufruire di tutte le sue possibilità in vista di un compimento del suo de-stino terrestre. L'uomo – non più Dio – diveniva il centro d'interesse della vita; ma – un uomo non più rassegnato e alienato nella propria indigenza metafisica, ma deciso a di-ventare: autocreatore e autoredentore. Questa la nota specifica della nuova epoca: l'uomo si spogliava del divino e quindi dell'eterno. Difatti una nuova dimensione si era fatta strada fino a divenire predominante: l'istante: un

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tempo nel quale il passato non è definitivamente finito, né l'avvenire così incerto, né il presente così fluido. L 'istante divenne, nella febbre del vivere, un momento con valore e in-tensità esteme. In tale atmosfera invadente, quale senso e im-portanza poteva avere per l'ambita promozione dell'uomo, un mondo immobilista e crepuscolare di simboli e di riti? Quale comunicazione possibile tra un 'era specificata dalla ve-locità afferrante anime e corpi, e la liturgia gelosa non solo dell'immobilità del sacro, ma ancora della lingua, del gesto, del simbolo che lo esprimono?

Tali interrogativi non provenivano da un mondo trop-po radicato e deciso nella sua nuova esperienza laicizzatri-ce dell'universo, ma dallo stesso mondo credente dominato da un complesso d'inferiorità, ossessionato dalla statura e armatura del mondo contemporaneo – troppo dimentico della propria fionda e delle cinque bianchissime pietre che brillavano nel torrente. Allora due correnti si delineavano, due correnti intercomunicanti e integrative l'una dell'al-tra, perché l'una forniva il braccio al regno di Dio e l'altra la coscienza. L'una e l'altra possedevano verità e forze ma avulse dal tutto. L'una vide una nuova sacralizzazione del mondo mediante l'azione, cioè attraverso la compenetrazio-ne graduale del mondo della potenza nei suoi vari settori: quello del denaro, della tecnica, del potere, del divertimen-to, della cultura – l'altra invece cercò forza e rifugio in nuo-ve forme di spiritualità. Si è pensato: l'uomo che va in Chie-sa trova nel culto un muro di nebbia: segni, parole, lingue del passato; e allora perché non cercare vie a Dio più sem-plici, più vicine alle umili esigenze dell'uomo della strada? Ne venne una germinazione spontanea di devozioni, di spi-ritualità, di paraliturgie, non tutte di eguale valore, né condannabili in sé perché espressione della inalienabile li-bertà delle anime nelle forme di accesso a Dio; ma tutte con-

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correvano ad allontanare dalla via maestra della liturgia, tutte si sovrapponevano a essa fino a soffocarla nel suo cen-tro, nel suo ciclo, nel suo spirito, nei suoi insuperabili ap-porti di verità, di pietà, di efficacia, di bellezza. Spesso tale devozionismo si spinse e si spinge – secondo il rinnovato monito di Giovanni XXIII – a mettersi in contrasto proprio con i tre primi precetti del decalogo. Solamente il rinnova-mento degli studi biblici, storici, patristici, ecclesiastici, in-dusse molti studiosi, nella seconda metà del secolo scorso, a riesaminare l'immenso patrimonio liturgico che le abbazie benedettine avevano non solo custodito, ma amorosamente tradotto in vita nel loro mirabile colloquio quotidiano con Dio. E di tale patrimonio si cominciò a precisare il nucleo essenziale iniziale, gli sviluppi logici e vitali, le sovrapposi-zioni e deformazioni di uomini e di tempi più intenti ad al-largare il culto della personalità che il culto di Dio. Questo lavoro di indagine critica e di approfondimento della sa-pienza liturgica si incontrò con la grande ansia pastorale del XX secolo. L'azione non radicata nella rivelazione di-sperdeva pecore e agnelli – il devozionismo cresciuto fuori della grande tradizione orientale e occidentale creava un cristianesimo facile per il quale tutto diventa centro al di fuori del solo centro quod positum est – nel quale l'io por-ta tutte le sue impurità a danno della vita ecclesiale impo-verita ed esangue. Di qui nacque l'interrogazione accorata dei pastori: perché il grande culto tradizionale che ha for-mato, nutrito, cresciuto generazioni eroiche oggi è arrivato a tal punto di estraneità e di opacità per gli uomini del XX secolo? Perché l'autentico mistero della Parola del Sangue di Cristo non realizza più la salvezza del mondo? La rispo-sta venne dallo studio e dall'esperienza, dall'università e dalla parrocchia, dallo Spirito che non cessa di animare la Chiesa e dallo zelo per la casa di Dio che bruciava nel cuore

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di pastori d'avanguardia: perché epoche di staticità e di stanchezza hanno rifiutato ogni fatica di adattamento del culto a un 'umanità che, pure restando identica a se stessa, non cessa di mutare e di evolversi secondo la legge del tutto – perché troppi rubricismi chiusi in se stessi hanno soffocato il culto in ispirito e verità quale venne profetato a Sicar e precisato a Corinto da Paolo: «Pregherò con lo spirito ma pregherò anche con l'intelligenza – canterò inni con lo spi-rito ma canterò pure con l'intelligenza». Così in ambiente turbato e polemico – tra archeologi immobilisti e innovatori ignari del punto di arrivo delle loro riforme – tra giocolieri e dilettanti del divino e spiriti sprezzanti e diffidenti d'ogni gesto esteriore – tra individualisti che guardano al divino solo per mezzificarlo al servizio del proprio egoismo, egrega-risti solo assertori di un 'assemblea ove ogni slancio personale a Dio è eliminato, tra materialisti del rito e spiritualisti che non scoprono che impurità in ogni incarnazione – in tale ambiente problematico e arroventato appare quest'opera di Guardini. Ora, dopo quarantanni se ne può misurare la profondità e l'equilibrio, la preveggenza nel segnalare gli scogli del movimento liturgico, la sua capacità di centrare i problemi e di formulare nel linguaggio, e nelle inquadratu-re del nostro tempo. Guardini ha così efficacemente concor-so ad attirare l'elemento colto verso la lingua scoprendo in essa non qualche cosa di marginale ma di essenziale nel cri-stianesimo.

La liturgia introduce l'intera ampiezza della verità nel-la preghiera; anzi essa non è che dogma pregato, verità vis-suta pregando. Quindi un ordine domina nella liturgia, ordine spesso violato e misconosciuto: il primato del Lògos sull'Ethos; non primato dell'estetico, ma del salvifico. La liturgia è vita divina per Cristo affluente negli uomini e vita umana per Cristo affluente al Padre. Tutto l'anno li-

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turgico segna, per la liturgia, tale duplice meditazione ascendente e discendente del Cristo: «problema spietata-mente serio della salute eterna». Ma tale salvezza viene rea-lizzata mediante un continuo processo d'incarnazione e di espressione, cioè di passaggio al mondo invisibile attraverso la ricchezza del mondo visibile. Di qui la difficoltà, la deli-catezza, il pericolo di ogni realizzazione liturgica: tutta la realtà divina deve tradursi in apparenza espressiva: «che sia detto tutto quanto deve essere detto e niente più; che sia-no impiegati tutti gli elementi formali che necessitano e solo questi; che nulla di inespressivo, morto, vuoto rimanga nel-la figura esteriore bensì tutto vi risulti animato e parlante, che ogni nota, ogni parola, ogni superficie, colore, movi-mento obbedisca a una esigenza interiore, contribuisca alla rivelazione del contenuto complessivo – e costituisca con gli altri un'unità matura e senza suture».

Ora il movimento liturgico è entrato infuse di maturità: «segno di disposizioni provvidenziali di Dio per il nostro tempo e della presenza dello Spirito Santo nella Chiesa» (Pio XII). La sua maturità si misura dalla dimensione con-ferita alla liturgia nel Concilio Vaticano II in confronto ai precedenti concilii. Perché indagini ed esperienze hanno dimostrato il rapporto profondo tra liturgia e vita ecclesia-le: la Chiesa si esprime nella sua liturgia che è il suo atto salvifico per eccellenza – ma soprattutto perché al movi-mento liturgico ha portato la sua adesione l'aristocrazia del mondo missionario. Nel grande congresso di studio della li-turgia missionaria tenuto a Nimega nel '59 si è affermato: «Ciò che importa è di condurre il mondo a Dio: per conse-guenza tutti gli sforzi devono essere orientati verso il culto del Padre che prende la sua forma concreta dalla Chiesa». Per questo il mondo missionario chiede una grande opera di adattamento che afferri non la superficie ma le profondi-

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tà dell'anima dei vari popoli. Per questo la liturgia è in cerca di vie di comunicazione tra Cristo e tutto ciò che vi è di autenticamente umano anche fuori della civiltà occi-dentale.

Un altro segno dei tempi – uno dei più specifici del-l'epoca contemporanea – mette in luce l'importanza della liturgia per la ripresa del colloquio degli uomini con Dio. Il nostro mondo è il mondo che ha sostituito l'immagine al ra-gionamento. Non si tratta qui di giudicare ma di constata-re. Oggi la concezione della vita, la sua effettiva orientazio-ne deriva dall'immagine. Forse dopo orge di astrazioni, l'uomo ha creduto questa la sola via per ritornare al reale. Così il cinema è divenuto il più formidabile strumento per la comunicazione universale delle idee, – per la sua tecnica meravigliosa che fonde visione, suono, colore, ritmo, paro-la, che, attraverso il doppiaggio, comunica con tutte le razze. Vera arte che ha saputo realizzare la sintesi più completa e ac-cessibile alle mentalità più diverse. La sapienza liturgica ha preceduto da secoli quest'arte di sintesi, non per esprimere la storia della perdizione ma la storia della salvezza. Sono fi-nite le sue divine e umane possibilità? Guardini, tra i pri-mi, i più veggenti, non esita a rispondere: no; perché la li-turgia è Cristo operante nel tempo e nello spazio, e dove è Cristo non vi è perdizione.

Brescia, luglio 1961 Giulio Bevilacqua

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CAPITOLO PRIMO

LA PREGHIERA LITURGICA

Un antico detto teologico afferma:

«La natura e la grazia non fanno nulla indarno».

La natura e la grazia hanno le loro regole. Vi sono, cioè, alcuni presupposti determinanti che condizio-nano la sanità, la crescita, la fioritura della vita spiri-tuale sia naturale che soprannaturale. Queste leggi possono essere violate in casi particolari, quando lo giustificano ovvero lo scusano una veemente emozio-ne, una grave necessità, una costituzione psichica sin-golare, un grande scopo o qualcosa di simile. Ma, a lungo durare, questo non avviene impunemente. Allo stesso modo che la vita del corpo intristisce ed entra in crisi quando le condizioni preliminari del suo svi-luppo vengono a lungo trascurate, così avviene della vita dello spirito e della religione: essa intristisce, per-de la sua freschezza, la sua forza, la sua unità.

Questo vale poi specialmente nella vita religiosa di una comunità ordinata da una regola. Nella vita dei singoli l'eccezione ha ancora grande spazio per inter-venire. Non appena, però, viene in questione l'attività d'una collettività di persone, non appena s'ha a che fare con concrete istituzioni, pratiche, preghiere, che disciplinano il complesso permanente degli atti di pietà comuni, allora assurge a problema d'esistenza

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per la vita di questa comunità il fatto che le leggi fon-damentali della sana vita naturale e soprannaturale vi vengano rispettate o no. Non sono più, infatti, in que-stione forme d'atteggiamento religioso, che devono soddisfare un bisogno religioso soltanto momenta-neo, bensì istituzioni durature, che esercitano di con-tinuo il loro influsso sull'atteggiamento religioso del-le anime. Esse non devono tanto dar espressione a uno stato d'animo del tutto singolare, quanto soddi-sfare le esigenze della media vita religiosa quotidiana. Esse rappresentano la forma della vita spirituale non di una persona, che ha un determinato temperamen-to, bensì di una comunità in cui sono rappresentati i più vari temperamenti. Riesce pertanto chiaro che ogni errore costruttivo si farà sentire con inesorabile necessità. Da principio esso può ben essere nascosto dalle circostanze particolari, da emozioni, da esigenze speciali, che hanno suscitato la forma corrispettiva di atteggiamento religioso. Man mano, però, che queste vengono meno e si ristabilisce la condizione di spirito normale, anche quel difetto intrinseco emerge con forza progressiva, agendo, quale elemento perturba-tore, in ampiezza e profondità.

Quelle condizioni fondamentali appariranno nella maggiore limpidezza là dove la vita religiosa di una grande comunità potè svilupparsi in un lungo perio-do di tempo. Qui le intime leggi della vita avranno quindi avuto il tempo necessario per potersi afferma-re pienamente. Nella vita comune di uomini dal tem-peramento più diverso, appartenenti a differenti ceti sociali, forse anche di nazionalità diversa, nel corso di epoche storicamente e culturalmente differenti, ciò ch'è casuale, ch'è singolare, sarà fino a un certo grado

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venuto meno, e l'universale, il necessario sarà emer-so: la forma adeguata dell'atteggiamento religioso si sarà oggettivata.

L'espressione perfetta di una siffatta disciplina del-la vita religiosa, è offerta concretamente dalla liturgia della Chiesa cattolica. Essa si è potuta sviluppare katà toû ólou, cioè da ogni lato, secondo il tempo, il luogo e tutte le forme della civiltà. In tal caso essa viene a co-stituire pure la migliore guida per la vita ordinaria, per l'ordine essenziale della vita religiosa comune1.

Il significato della liturgia deve pertanto essere me-glio definito. E innanzitutto è da stabilire in quale rap-porto esso stia con la vita religiosa non liturgica. Lo scopo prossimo e specifico della liturgia non è quello di dar espressione al culto individuale di Dio: essa non deve edificare il singolo come tale, suscitare ed educare la sua vita religiosa. Nella liturgia non è il sin-golo che agisce e che prega. E neppure il complesso di una molteplicità di persone, come potrebbe essere la riunione in una chiesa, di una «comunità», quale mera unità nel tempo, nello spazio, nei sentimenti. Il

1. Non è casuale che il «Papa religioso» abbia messo mano così deci-samente al riordinamento della liturgia. Il rinnovamento religioso gene-rale non farà passi in avanti fino a che la liturgia non avrà riavuto il posto che le spetta. Anche il movimento eucaristico potrà svolgere la sua auspi-cata efficacia solo se si manterrà in stretto contatto con la liturgia. Lo stes-so Papa che ha emanato il decreto per la comunione frequente ha pure detto: «Voi non dovete pregare durante la Messa, voi dovete fare della Messa la vostra preghiera!». Solo quando la Comunione è intesa e pratica-ta nello stesso modo in cui l'intende e la pratica la liturgia, essa può avere quell'efficacia che se ne riprometteva Pio X per il rinnovamento religioso del mondo. (Allo stesso modo che l'efficacia morale dell'Eucarestia può essere dispiegata pienamente solo quando essa sia messa in relazione con i compiti concreti della vita sociale e familiare, della carità cristiana e del proprio lavoro professionale.)

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soggetto, l'io, della liturgia è piuttosto l'unione della comunità credente come tale, è qualcosa che trascen-de la semplice somma dei singoli credenti, è insom-ma, la Chiesa. La liturgia è il culto ufficiale e legale della Chiesa e viene praticato e diretto da ministri da essa scelti e incaricati appositamente di ciò, i sacerdo-ti. In essa, Dio deve essere venerato dall'unità sociale religiosa come tale, e questa in tale venerazione e per tale venerazione deve essere «edificata». È assai im-portante intendere questo carattere essenziale e og-gettivo della liturgia; qui infatti si distingue il concetto cattolico del culto comunitario dalla concezione pro-testante prevalentemente individualistica. Che poi il singolo credente, proprio dal suo immergersi in que-sta superiore unità, venga intimamente e specifica-mente liberato ed educato, questo ha il suo fonda-mento nella natura individuale e sociale insieme dell'uomo.

Accanto alle forme di devozione strettamente ri-tuali, del tutto oggettive, ve ne sono altre in cui il mo-mento soggettivo si presenta con maggior forza. Que-ste sono le «devozioni popolari», ad esempio le preghiere pomeridiane dei libri di Chiesa, le devozio-ni per luoghi, tempi, circostanze determinate, ecc. Esse portano assai più l'impronta del tempo partico-lare e dell'ambiente, sono espressione immediata del-le speciali caratteristiche della comunità. Per quanto in ogni caso più universali e oggettive che le preghie-re affatto private dei singoli, tuttavia sono pure a loro volta più particolari, più «private» della preghiera del-la Chiesa, della liturgia. In essa perciò si fa sentire maggiormente il particolare bisogno di edificazione del singolo. Di conseguenza, le forme e leggi della vita

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liturgica non possono senz'altro costituire regola per la preghiera extraliturgica. Mai si potrà pretendere che la liturgia costituisca la forma esclusiva della vita religiosa comune. Questo significherebbe miscono-scere le esigenze religiose del popolo credente. Piut-tosto vi saranno sempre, accanto alle forme liturgi-che, quelle della pietà popolare variamente atteggiate in corrispondenza alle mutevoli condizioni storiche, nazionali, sociali, locali. Nulla sarebbe più errato del voler sopprimere, per amore della liturgia, sane e pre-ziose forme di vita religiosa popolare; oppure anche solo del voler adattare queste ultime alla prima. Quan-tunque, però, la liturgia e la pietà popolare abbiano ambedue i propri presupposti e scopi legittimi, tutta-via il primato deve essere riconosciuto al culto liturgi-co. La liturgia è e rimane la Lex orandi. La preghiera non liturgica deve sempre svolgersi sulle direttive di essa, e in essa sempre rinnovarsi, se vuol rimanere vi-tale. Non si può certo dire che la liturgia stia di fronte alla preghiera popolare allo stesso modo che il dog-ma al ripensamento individuale della fede; ma una certa corrispondenza con quel rapporto normativo esiste. Mettendosi a confronto con la liturgia, ogni al-tra forma di pietà può sempre riconoscere nel modo più facile le proprie manchevolezze e rimettersi così sicuramente sulla via ordinaria. Le mutevoli esigenze dei luoghi, dei tempi, delle speciali circostanze si fan-no sentire da sé nella vita religiosa popolare; ma di fronte a essa c'è la liturgia, da cui irraggiano chiara-mente le leggi fondamentali, identiche sempre e do-vunque, della sana e genuina devozione.

In seguito verrà fatto il tentativo di ricavare dalla li-turgia alcune di queste leggi. Solo un tentativo, però,

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il quale nei suoi risultati non vuol essere né definitivo né completo.

La liturgia mostra innanzitutto che la vita di pre-ghiera della comunità dev'essere sostenuta dal pen-siero. Le sue preghiere sono intieramente dominate e compenetrate efficacemente dal dogma. Chi non ab-bia ancora ben capito la preghiera liturgica, prende tali preci spesso come delle abili formulazioni teologi-che, fino a che però egli avverte che queste proposizioni ben levigate e ben combinate traboccano d'interiore emozione. Tali sono innanzitutto i mirabili Oremus delle messe domenicali. Anche dove la corrente della preghiera si effonde più abbondante, essa è sempre diretta e padroneggiata dalla chiarezza del pensiero. Messa e Breviario sono intessuti di brani presi dalla S. Scrittura oppure dalle opere dei Padri della Chiesa e costringono così continuamente a pensare. Queste le-zioni vengono spesso introdotte e concluse da brevi preghiere di carattere particolarmente meditativo (Responsori), nelle quali quanto è stato udito o letto ha modo di riecheggiare nel cuore e di penetrarvi in pro-fondo2. La Lex orandi, la liturgia, secondo l'antico det-to, è pure la Lex credendi, la legge della fede; è quindi tutta sostanziata del tesoro di verità della Rivelazione.

Con ciò non deve essere certo detto che cuore e sentimento non abbiano alcuna importanza nella vita di preghiera. Pregare è certamente

«un elevare 1 'animo a Dio».

Ma l'animo deve essere diretto, sostenuto, rischia-

2. Vedi in proposito R. Guardini, Heilige Zeit, Mainz 1930.

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rato dal pensiero. In casi particolari e per tempera-menti determinati può essere possibile il preservare in un mero moto del cuore, che sorge spontaneamen-te oppure scaturisce da un felice impulso, e il trarne così anche un reale vantaggio religioso. Una preghie-ra invece, che si ripeta di frequente, deve adattarsi ai più diversi stati d'animo, giacché nessun giorno si eguaglia ai precedenti. Ora, se il contenuto di queste forme di preghiera è prevalentemente sentimentale, esso porterà in sé l'impronta d'una conformazione spirituale del tutto determinata poiché, tra tutti i pro-cessi psichici, il sentimento è quello che più tende ver-so l'individuale. Così, tale preghiera riuscirà sempre inadatta, quando la sua intonazione almeno in parte non si accordi con quella che domina nella persona che vuol pregare. Altrimenti essa riesce inutile oppu-re altera addirittura il sentimento. La stessa conclu-sione si raggiunge considerando che tale preghiera deve servire ai temperamenti più diversi. Se pertan-to una preghiera comune deve effettivamente valere per il suo scopo, essa deve essere sostenuta e domi-nata da chiare e ricche idee dogmatiche. Solo allora le riesce possibile servire a una comunità che risulta di tipi diversi ed è agitata da sentimenti mutevoli.

Solo il pensiero conserva sana anche la vita religio-sa. Buona è solo quella preghiera che viene dalla veri-tà. Il che non significa soltanto che essa non può pro-cedere dall'errore, ma anche che deve scaturire dalla piena verità. La verità rende potente la preghiera, co-municandole quel vigore aspro, ma vivificante e pre-servatore senza del quale essa riesce debole e sdolci-nata. Se questo vale per la preghiera dei singoli, vale ancor di più per quella del popolo che sotto certi

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aspetti inclina alla sentimentalità. Il pensiero dogma-tico ci scioglie dalla schiavitù del sentimento, dalla sua vaporosità e inerzia. Esso rende la preghiera chia-ra ed efficace sulla vita.

Ma codesto pensiero dogmatico, se vuol effettiva-mente soddisfare al compito che gli spetta nei riguar-di della comunità, deve introdurre nella preghiera la verità religiosa nella sua integrale pienezza.

Le singole verità della Rivelazione mostrano una certa affinità elettiva con determinati atteggiamenti spirituali e con determinate condizioni della vita inte-riore. È facile osservare come persone dotate d'una certa natura e disposizione, mostrino un'accentuata preferenza per determinate verità della fede. Ciò si manifesta ad esempio per il concetto dogmatico, da cui nelle conversioni le anime furono dapprima colpi-te e convinte, oppure per quello dal quale ricevettero la spinta definitiva; ciò si palesa ancora per le verità che al sorgere del dubbio costituiscono il sostegno dell'intiero edificio della fede. E parimenti si può os-servare che anche il dubbio non sorge a caso, bensì per lo più investe le verità di fede che sono più estra-nee ai temperamenti in questione.

Se, pertanto, una preghiera desse valore esclusivo o anche solo eccessivo a una qualunque verità di fede, a lungo durare potrebbe riuscir adeguata solo alle na-ture che vi inclinano, e anche in queste susciterebbe col tempo il bisogno della verità integrale. Se, ad esempio, una preghiera si volesse occupare solo della misericordia perdonante di Dio, essa finirebbe col non soddisfare neppure un'anima incline alla tene-rezza. Questa verità della misericordia fa appello a quella che ne è il completamento: la maestà e la giusti-

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zia di Dio. Così dunque l'integrale pienezza delle veri-

tà della fede deve dipingersi in quelle forme di pre-ghiera che debbono soddisfare, a lungo andare, una comunità.

Anche qui la liturgia è maestra. Essa introduce l'in-tera ampiezza della verità nella preghiera; anzi essa è null'altro che il dogma pregato, la verità rivissuta pre-gando. E invero sono le grandi verità fondamentali3

quelle che innanzi tutto sostanziano la liturgia: Dio nella sua immensa realtà, pienezza e grandezza, l'Uno e Trino; la creazione, la provvidenza, la onnipresenza divina; il peccato, la giustizia, l'anelito alla redenzio-ne; la redenzione; il Redentore e il suo regno; i novis-simi. Soltanto una verità così ricca non stancherà mai; solo essa potrà essere realmente tutto a tutti e ogni giorno nuova.

Una preghiera comune pertanto riuscirà feconda, a lungo andare, solo quando non si limiterà, con esclusione e con preferenza, a parti determinate della verità rivelata, bensì includerà, nel limite del possibi-le, l'intero contenuto dell'insegnamento divino. Que-sto ha particolare importanza nel popolo, che facil-mente inclina a curare in modo unilaterale qualche verità preferita4. D'altra parte, come invece talvolta

3. Una nuova prova della sguardo acuto di Pio X l'abbiamo nel fatto che egli ha voluto valorizzare più energicamente quelle parti della liturgia che lasciano emergere le realtà fondamentali della fede: le domeniche, l'uf-ficiatura della settimana, in modo particolare anche le Messe dei giorni fe-nali della Quaresima. Sarebbe cosa deplorevole che il suo lavoro gradual-mente venisse annullato.

4. Con il che non si vuol dire che i tempi determinati (ad esempio di guerra) oppure condizioni particolari (ad esempio gli speciali bisogni d'una popolazione di agricoltori o marinai e simili) non possano rendere di particolare attualità verità determinate. Qui si tratta di una regola ge-nerale che però è duttile e deve tener conto delle speciali circostanze.

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avviene, la preghiera non deve essere sovraccarica e costretta così a esprimere tutti i concetti possibili.

Senza ampio respiro la vita religiosa intristisce: si fa gretta e meschina. «La verità vi farà liberi» dalla ser-vitù dell'errore non soltanto, ma anche atti a penetra-re l'infinita ampiezza del regno di Dio.

E se il pensiero ha da essere messo in rilievo, ciò non deve avvenire fino all'eccesso di un freddo cerebrali-smo. Le forme della pietà richiedono piuttosto d'essere avvivate da una calda corrente di fervore.

La liturgia anche a questo riguardo ha parecchio da dire. Sono pensieri vivi quelli che la pervadono, vale a dire pensieri che sgorgano da un cuore com-mosso e che a loro volta devono commuovere un cuo-re ben disposto. Il culto della Chiesa sovrabbonda di profonda sensibilità, d'una vita del sentimento vigo-rosa, anzi talvolta addirittura appassionata. Quanto di frequente e con che intensità, ad esempio, sono commossi i salmi! Con quale vigore s'esprime la no-stalgia nel Salmo 41, la contrizione nel Miserere, il giu-bilo nei salmi di ringraziamento, lo sdegno per la giusti-zia offesa nei salmi di maledizione! Quale straordinaria intensità di emozione si manifesta tra la tragedia del venerdì santo e l'esultanza del mattino di Pasqua!

Ma questa emotività liturgica è straordinariamen-te istruttiva. Essa possiede certo momenti di altissima tonalità in cui tutti i vincoli vengono spezzati, come nella traboccante esaltazione gioiosa dell'Exsultet, nel-la veglia pasquale. Di regola, però, essa è attutita. Il cuore parla forte; però, contemporaneamente s'affer-ma non meno vigoroso il pensiero; formule di pre-ghiere sono riccamente articolate, contessute accura-tamente nel rapporto delle parti. Così, nonostante la profonda sensibilità dei salmi, si ha un'intonazione

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generale contenuta. La liturgia, come tale, non ama l'esuberanza del sentimento. Questo arde in essa, ma come in un vulcano, il cui vertice si leva limpido e chiaro nella fresca atmosfera. La liturgia è sentimento appie-no dominato. E questo si percepisce particolarmente nella santa Messa, sia nelle parti fisse che nelle pre-ghiere proprie dei singoli giorni; qui troviamo veri ca-polavori del più nobile atteggiamento spirituale.

Questo riserbo della preghiera liturgica è talvolta così rilevato, che alla prima impressione sembra una fredda costruzione concettuale; fino a che, però, non si sia vissuti più a lungo in tale mondo e non si abbia avuto modo di constatare quale intensità di vita ferva nelle forme ben dominate.

E come è necessaria questa disciplina! In certi mo-menti, in determinate occasioni il sentimento può ef-fondersi più generoso. Però una preghiera che è de-stinata a ogni giorno e alla comunità deve rimanere misurata. Se invece si ammettono sentimenti assai tesi e non equilibrati, ci si espone a un doppio perico-lo: o l'atteggiamento viene preso sul serio da chi pre-ga, e allora può succedere ch'egli debba esercitare su di sé una coercizione interiore per provare sentimen-ti, che non ha mai avuto o che, almeno in codesto istante, non ha; e questo potrebbe rendere il suo sen-timento religioso innaturale, insincero; oppure la na-tura si vendica; le frasi vengono accolte e ripetute freddamente, come formule indifferenti, e con ciò la parola viene depauperata del suo valore.

La preghiera scritta deve certo anche educare, ele-vare dunque a una sensibilità religiosa più delicata. Ma la distanza dalla sensibilità della media dei fedeli non deve diventare troppo grande. Se una preghiera

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deve riuscire efficace e feconda durevolmente e per una collettività, deve essere dominata da una tonalità di sentimento vigorosa, sì, e profonda, ma insieme anche calma e misurata. Tornano a proposito qui i mirabili versi d'un inno quasi intraducibili nella loro trasparente chiarezza:

Laeti bibamus sobriam Ebrietatem Spiritus ...5.

Certo, non si può pretendere di fissare con preci-sione matematica al sentimento religioso la sua misu-ra; ma dove basta l'espressione nuda e schietta, non si deve usare quella accesa, e la frase semplice è sempre da preferirsi a quella sovraccarica.

La liturgia, poi, ci fa intendere come debbano essere le emozioni religiose perché riescano durevolmente effi-caci a una collettività di persone. Non sentimenti troppo ricercati, che valorizzino speciali settori del patrimonio dogmatico, bensì sentimenti fondamen-tali, umani e religiosi, quali, ad esempio, i salmi tanto chiaramente esprimono: adorazione, anelito a Dio, ringraziamento, preghiera, timore, rimorso, amore, sacrificio, rassegnazione, fede, fiducia e via dicendo. Non emozioni troppo raffinate, troppo tenere, trop-po sdilinquite, bensì forti, chiare, con la semplicità della natura.

E proseguendo: la liturgia possiede un mirabile ri-serbo. Certo forme di abbandono essa le accenna ap-pena, oppure le circonda e vela con tanta profusione di immagini che l'anima vi si sente quasi protetta e ce-

5. Breviario dell'ordine benedettino, Laudes cioè, preghiera del crepu-scolo mattutino del martedì.

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lata. La preghiera della Chiesa non mette in pubblico i misteri del cuore. Essa si trattiene nella sfera del pen-siero e del simbolo; suscita certamente profondissimi e delicatissimi moti e processi spirituali, ma li lascia, però, nello stesso tempo, nella loro segreta intimità. Certi sentimenti d'abbandono, certe parole che rivela-no l'intimità più sacra, ben di frequente non possono essere espresse senza pericolo per il pudore dell'ani-ma. La liturgia ha compiuto l'opera magistrale e ha reso possibile all'uomo di esprimere in essa la sua vita religiosa interiore nell'intera sua pienezza e profondi-tà, pur conservando occulto il suo mistero: Secretum meum mihi. Egli può effondersi, può esprimersi, ep-pur non sente portato in pubblico nulla di ciò che deve rimanere nascosto6.

Lo stesso vale per l'atteggiamento morale implici-to nella preghiera.

L'azione liturgica, la preghiera liturgica procedo-no da premesse morali: dall'anelito alla giustizia, dal-la contrizione, dallo spirito di sacrificio ecc., e si con-cludono, spesso, a lor volta, in atti di carattere morale. Pure si può anche qui osservare delicatezza di tatto. La liturgia non richiede facilmente azioni mora-li di grande impegno, specialmente quelle che impli-

6. La liturgia compie qui nel campo religioso la stessa funzione che ha nella vita quotidiana la nobile forma della cortesia, creata attraverso una lunga tradizione da persone delicate di sentire. Questa rende possibi-le all'uomo la familiarità con altri, garantendolo però da ogni illegittima violazione del suo intimo; egli può essere cordiale senza perdere la pro-pria dignità; ha un ponte verso il prossimo, senza perciò avvilirsi nella massa. In modo analogo la liturgia assicura all'anima la libertà dei movi-menti religiosi mediante una mirabile combinazione di naturalezza e di raffinata delicatezza di tratto. Essa forma come urbanitas la più bella anti-tesi alla barbarie, perché la barbarie si presenta quando naturalezza e civil-tà sono insieme andate perdute.

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chino una decisione interiore. Essa le esige là dove l'importanza della cosa lo giustifica realmente: ad esempio, l'abiura in occasione del Battesimo, il voto al ricevimento degli Ordini sacri. Quando però si trat-ta di esprimere nella preghiera quotidiana ordinaria i quotidiani propositi e sentimenti morali, la liturgia si mostra molto riservata. La liturgia non pronuncia fa-cilmente una promessa solenne, un distacco assoluto e perpetuo dal peccato, una perpetua dedizione tota-le, una consacrazione che impegni tutto l'essere, un completo rinnegamento e una rinuncia al mondo, una promessa di amore esclusivo e simili. Tali pensieri certo si presentano, ma di regola nel senso che il credente prega per avere questi sentimenti, ovvero ne conside-ra la nobiltà e bontà, oppure a essi è esortato. La litur-gia evita di usare preghiere, in cui siano contenuti addi-rittura impegni morali di questo genere, quali forme di devozione da ripetersi frequentemente.

E com'è giusto questo! Nelle ore dell'entusiasmo, in certi momenti decisivi, codeste espressioni posso-no essere giustificate, persino necessarie: ma appena si ha a che fare con la consueta vita spirituale d'una comunità, con la religiosità quotidiana, allora espres-sioni siffatte, spesso ripetute, mettono il credente di fronte a una scelta penosa. O egli prende la preghiera in questione sul serio e cerca di suscitare in sé il senti-mento morale da essa espresso, ed ecco ch'egli esperi-menta di poterla compiere, con interiore veracità, solo di rado, oppure mai addirittura, esponendosi così al pericolo di rendere insincera la sua vita inte-riore, di essere costretto a sentimenti e azioni che gli sono ancora troppo difficili, di abbassare alla ripeti-zione quotidiana processi morali, che di loro natura non si compiono di frequente. Oppure egli prende le

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parole semplicemente come espressione d'una pas-seggera disposizione religiosa, e allora si affievolisce il significato morale di cui sono sostanziate quelle pre-ghiere. Una formula siffatta può ben essere usata di frequente con interiore veracità; essa rimane però svalutata nella sua significazione morale.

Anche qui vale la parola del Signore:

«Il vostro dire sia: sì, sì; no, no»7.

La liturgia ha risolto il problema di spronare co-stantemente alle più elevate mète morali e insieme di rimaner schietta e sincera non trascurando la realtà d'ogni giorno.

Un altro aspetto del problema della preghiera co-mune è quello della sua forma. Lo si può all'incirca formulare così: quale forma di preghiera può suscita-re una emozione religiosa in un gran numero di per-sone, assicurandone un'adeguata persistenza?

Il tipo d'ogni preghiera comune ci è offerto dalla preghiera corale della Chiesa. Per essa ogni giorno nu-merose comunità si riuniscono a ore determinate. Se mai in qualche luogo, proprio qui veniva offerta la condizione preliminare perché le leggi formali della preghiera comune giungessero a espressione8.

Soprattutto l'intera radunanza vi deve prendere parte viva. Se ad esempio, ci si limitasse ad ascoltare

7. Mt 5,37. 8. A questo riguardo non è da trascurare che la preghiera corale della

Chiesa presuppone a sua volta speciali condizioni e circostanze, che non sono senz'altro implicate nella vita dei credenti; quali: un maggior agio che dia allo spirito il tempo di raccogliersi più profondamente, una speciale for-mone spirituale che dischiuda il segreto della ricchezza dei pensieri, e via dicendo.

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chi dirige la preghiera, il movimento degli animi pre-sto s'arresterebbe. Tutti i presenti perciò vi debbono prendere parte. E invero non basta che la comunità risponda con parole sempre identiche a chi dirige la preghiera. Anche questa forma di preghiera è accolta dalla liturgia, ad esempio, nelle litanie. Essa ha la sua piena giustificazione, e sarebbe misconoscere le esi-genze dell'anima umana il volerla respingere. Nelle li-tanie la comunità risponde ai diversi appelli di chi di-rige l'orazione con un atto religioso identico, cioè con la supplica. In tal modo codesto atto deve ottene-re ogni volta un nuovo contenuto e una nuova pro-fondità. Nasce così una intensità progressiva, la quale è adatta come poche altre forme a esprimere una di-sposizione d'animo vigorosa, una dedizione a Dio che, per così dire, raccoglie d'ogni lato, e, incalzante, impegna tutte le sue forze. La liturgia però non usa molto di frequente queste forma di preghiera; si po-trebbe anzi dire che se ne vale di rado, se si considera l'intero ambito del culto divino.

E ha ragione poiché essa nasconde il pericolo di in-torpidire il movimento dell'anima9.

9. Già da quello che si è detto più sopra delle litanie emerge con suf-ficiente chiarezza che forme di preghiera quali il rosario hanno una funzione necessaria e insostituibile nella vita religiosa. In esse si esprime in modo par-ticolarmente acuto la differenza tra la preghiera liturgica e quella popola-re. La liturgia ha per principio Ne bis idem (nulla dev'essere ripetuto): esi-ge un costante procedere del pensiero, del tono spirituale, della volizione. La preghiera popolare invece ha una tendenza fortemente contemplativa e si compiace di persistere, senza rapidi mutamenti di pensiero, in alcune semplici immagini, idee o sentimenti religiosi. Per essa le forme della de-vozione sono spesso soltanto mezzi per stare dinanzi a Dio, presso Dio. Perciò essa ama la ripetizione. Le invocazioni sempre rinnovate del Pater noster, dell'Ave ecc. diventano per il popolo come vasi in cui si riversa l'esu-beranza del suo cuore.

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La liturgia si vale piuttosto come di tipo fonda-mentale della preghiera comune, della forma dram-matica. Essa divide i partecipanti in due cori e fa sì che la preghiera si dispieghi in un movimento di dia-logo. Ciò attira la massa nella corrente e ve la mantie-ne, poiché ciascuno è obbligato a tener dietro per lo meno con una certa attenzione; ognuno sa che dipen-de da lui il procedere della comune recitazione della preghiera.

Con ciò la liturgia accenna a una legge fondamen-tale del movimento dell'anima che non può essere trascurata impunemente10.

Per quanto siano giustificate anche le forme di preghiera puramente responsoriali, la forma fonda-mentale della preghiera in comune è quella che si svolge drammaticamente: questo c'insegna la Lex orandi. E il problema oggi tanto sentito del come ri-guadagnare alla vita ecclesiale gli uomini adulti, è in strettissima relazione con quanto stiamo discutendo. Poiché proprio l'uomo esige movimento che vital-mente progredisca, attiva partecipazione.

Ma la massa fluente di questo movimento di ani-me richiede una forma, una disciplina. Ci deve esse-re un direttore che fissi il principio, le parti e la fine

10. Più anticamente nella Chiesa fu preferita la cosiddetta forma re-sponsoriale nella salmodia. L'antifonario recitava un verso dopo l'altro e il popolo rispondeva a ogni verso con la stessa formula integralmente o in parte ripetuta. Contemporaneamente si seguiva però anche un'altra for-ma: il popolo si divideva in due cori e recitava scambievolmente ciascuno un versetto del salmo. È pertanto molto significativo per la sicurezza del senso liturgico che la prima forma sia stata del tutto eclissata dalla secon-da. Cfr. L. Einsenhofer, Handbuch der katholischen Liturgik, vol. I, Freiburg 1930, pp. 220 ss.

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e così organizzi anche esteriormente l'intero svolgi-mento dell'azione. Ed egli la deve anche ordinare interiormente; così, deve suggerire il pensiero diret-tivo, assumersi personalmente i brani più difficili affin-ché essi risultino espressi con sufficiente cura, dare un'espressione sintetica al sentimento comune in cer-ti momenti culminanti della preghiera, procurare so-ste di riposo mediante intermezzi di meditazione o letture e così via. Questo è il compito del direttore del coro che deve aver ricevuto nella liturgia una forma-zione accurata e graduale.

Fu detto più sopra come nella liturgia si dispieghi una vita di sentimento sempre vigorosa e ricca. Lo stesso si può dire delle due potenze fondamentali del-la esistenza umana: della natura e della cultura. Nella liturgia la voce della natura parla con forza. Basta solo leggere i salmi dove l'uomo intero emerge così com'è, senza attenuazioni. Qui l'anima si mostra coraggiosa e timida, lieta e triste, piena di nobili slanci, ma anche non ignara di conflitti interiori e di colpe, zelante per ogni cosa buona e, ancora, spossata e abbattuta. Op-pure consideriamo le lezioni tolte dall'Antico Testa-mento. Come vi appare in piena luce la natura uma-na! Nulla è inorpellato o mitigato. E altrettanto nelle parole di consacrazione della Chiesa, nelle preghiere che accompagnano l'amministrazione dei Sacramen-ti. In tutte domina una naturalezza vivificante. Qui le cose vengono chiamate con il loro nome. L'uomo è pieno di difetti e debolezze e come tale è accolto dalla liturgia; la sua natura è intreccio di nobiltà e di mise-ria, di aspirazioni elevate e di sentimenti volgari, e così si presenta nelle preghiere della Chiesa. Non una figura d'uomo riveduta e corretta da cui sian stati can-

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celiati prudentemente i tratti sconcertanti e men bel-li, bensì l'uomo qual è.

D'altra parte, non meno ricco è il tesoro di cultura nella liturgia. Vi si avverte il lavoro di più secoli che vi hanno sedimentato quanto di meglio avevano. Ricca-mente elaborata la parola; riccamente sviluppato il mondo dei pensieri e dei concetti; suggestivamente combinate le forme della composizione, a cominciar dai corti versetti e dalla fine membratura degli Ore-mus fino all'artistica costruzione della giornata liturgica nell'«ufficio» oppure della santa Messa: il tutto culmi-nante nell'opus complessivo dell'anno ecclesiastico. Forme drammatiche, epiche, liriche si combinano tra loro e tra loro reagiscono. Lo stile delle singole parti varia di continuo adeguandosi allo specifico contenuto: si ha così lo stile semplice e chiaro dell'ufficio proprio del tempo, quello denso di mistero dei giorni della Ma-donna, le officiature suggestivamente delicate delle vergini martiri del cristianesimo primitivo. A questo punto s'aggiungono la ricchezza degli atteggiamenti e dei gesti liturgici, i vasi, gli arredi, gli utensili, i para-menti, le opere dell'architettura, della scultura, della pittura, il canto e l'organo.

In tutto ciò si nasconde un insegnamento assai im-portante per la vita spirituale. La religione si serve della cultura. Con questo termine noi intendiamo il complesso di ciò che di buono e di significativo l'uma-nità ci ha procurato, creando, dando forma, ordinan-do: la scienza, le opere d'arte, le istituzioni sociali, e via dicendo. La cultura ha qui il compito di dischiude-re, mediante un continuo lavoro, il tesoro delle veri-tà, istituzioni, atti di culto, che Dio, mediante la sua Rivelazione, ha trasmesso all'umanità, di svelarne il

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contenuto e metterlo in relazione con la vita nella sua molteplicità. La cultura non può creare nessuna reli-gione; le mette però a disposizione i mezzi opportuni affinché essa possa dispiegare appieno la sua efficacia benedetta. Questo è il senso dell'antico detto: Philoso-phia ancilla theologiae, la filosofia è ancella della teolo-gia. Esso vale per l'intera cultura e a esso si è sempre attenuta la Chiesa. Così questa sapeva bene quello che faceva quando impose addirittura al generoso Ordine di S. Francesco, esuberante di forze e di impulsi religiosi, la cultura (la scienza, una certa distinzione nel contegno esteriore, un certo minimo di possesso, ecc.). La Chiesa ha assicurato con ciò all'Ordine fran-cescano la condizione necessaria della sua vita ulterio-re sana e feconda. L'uomo singolo o un breve perio-do d'entusiasmo possono fare a meno della cultura fino a un limite anche assai notevole. Lo provano gli inizi degli ordini eremitici d'Egitto, gli inizi degli ordi-ni mendicanti; lo provano sante persone in ogni tem-po. Ma per la media e a lungo andare una certa misu-ra non piccola di beni genuini della civiltà si rivela necessaria al fine di mantenere feconda la vita religio-sa. Così essa si conserva vivace, limpida, generosa e aperta; così si premunisce da quanto non è sano, dall'esagerato, dall'unilaterale che può intaccarla. La cultura e la civiltà forniscono alla vita religiosa i mezzi per esprimersi, l'aiutano a rendersi sempre più consa-pevoli di se stessa, a distinguere l'importante dall'insi-gnificante, il mezzo dallo scopo, la vita dalla mèta. La Chiesa ha sempre condannato ogni tentativo di intac-care la legittimità della scienza, dell'arte o della pro-prietà e simili. La stessa Chiesa che rivela tanto ener-gicamente l'unum necessarium e, nella dottrina dei

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consigli evangelici, insegna con la più grande insisten-za che si deve essere pronti a sacrificare per la salute eterna, dunque per il bene religioso, ogni cosa, ha pure voluto che la vita religiosa fosse nutrita sempre del sale preservatore d'una cultura autentica e nobile.

Allo stesso modo la vita spirituale abbisogna delle basi d'una natura sana e vigorosa:

«La grazia presuppone la natura».

Quel che pensa a questo riguardo, la Chiesa l'ha detto chiaramente nelle lotte gigantesche contro la gnosi e il manicheismo, contro catari e albigesi, con-tro i giansenisti e tutte le specie di fanatici. E questo lo ha fatto quella stessa Chiesa che così potentemente, contro Pelagio e Celestio, contro Gioviniano ed Elvi-dio e contro ogni esagerata esaltazione della natura, ha richiamato alla grazia e al soprannaturale e ha riaffer-mato che il cristiano deve vincere la natura. Il difetto di una ricca e nobile formazione culturale condannereb-be la vita religiosa all'irrigidimento e alla grettezza; se essa perdesse il fondo di una sana natura dovrebbe cadere nella sdolcinatura, nell'insincerità, nell'inna-turalezza, nella sterilità. E se si trascurano i valori cul-turali della vita di preghiera, ecco il pensiero impove-rirsi, la lingua imbarbarire, le immagini irrigidirsi, i sentimenti farsi grossolani e monotoni; come pure, quando la natura non la irrora più di sangue vivo e vigo-roso, il pensiero si svuota, il sentimento s'impoverisce diventando artificioso; le similitudini e le metafore impallidiscono. Le due cose unite, il difetto di vigore naturale e la mancanza di schietta cultura, costituisco-no ciò che si deve chiamare «barbarie»; la perfetta an-titesi di quella Scientia vocis che si manifesta nella pre-

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ghiera liturgica e dalla stessa liturgia è celebrata come lo splendido privilegio del santo Spirito creatore.

Sana, semplice, vigorosa dev'essere, dunque, la vita di preghiera. Deve mantenere i contatti con la realtà e non temere di chiamar le cose col loro nome. L'uomo deve ritrovare nella preghiera tutta la sua vita. D'altra parte, essa deve essere ricca di pensieri e d'immagini efficaci, deve possedere una espressione matura e colta, ma insieme ben dominata, riuscir chiara e trasparente nella composizione, comprensi-bile all'uomo semplice, ricca di eccitamenti e di linfa vivificante per la persona colta. Deve essere compene-trata di una cultura che in nessun modo riesca importu-na, bensì consista innanzitutto nell'ampiezza dell'oriz-zonte intellettuale, nell'interiore misura del pensiero e della dinamica della volontà e del sentimento.

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CAPITOLO SECONDO

LA COMUNITÀ LITURGICA

La liturgia non dice «io», bensì «noi», salvo il caso in cui l'azione liturgica esiga espressamente il singola-re (ad esempio quando si tratta di una dichiarazione di volontà personale, oppure in talune preghiere del vescovo, del sacerdote, e simili). La liturgia non è ope-ra del singolo, bensì della totalità dei fedeli. Questa totalità non risulta soltanto dalla somma delle perso-ne che si trovano in chiesa in un determinato momen-to, e non è neppure l'«assemblea» riunita. Essa si dila-ta piuttosto oltre i limiti di uno spazio determinato e abbraccia tutti i credenti della terra intera. E travalica anche i limiti del tempo, in quanto la comunità che prega sulla terra si sente una cosa sola anche con i beati, che vivono nell'eternità. Solo, la nota dell'uni-versalità non esaurisce ancora il concetto della comu-nità liturgica. Il soggetto, che compie l'azione liturgica del-la preghiera, non è il semplice totale di tutti i singoli partecipi della stessa fede. È l'insieme dei fedeli, ma in quanto la loro unità ha un valore autonomo, pre-scindendo dalla quantità dei credenti che la formano: la Chiesa.

Qui si presenta qualcosa di analogo a quello che costituisce la vita dello Stato. Lo Stato è qualcosa di più che somma dei cittadini, delle autorità, delle leggi e istituzioni e simili. I membri dello Stato non si sen-

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tono solo parti di un numero più grande, bensì in un certo modo membri d'una vivente unità superiore.

Qualcosa di corrispondente, in un ordine essen-zialmente differente, nell'ordine soprannaturale, pre-senta la Chiesa.

Essa è chiusa in sé come un sistema compiuto: come un complesso organico di manifestazioni di vita straordinariamente varie, di mezzi e di scopi, di uomi-ni, istituzioni, leggi e simili. Essa è costituita di cre-denti; ma è qualcosa di più che la loro mera somma, nutrita dalle stesse convinzioni e abbracciata dagli stessi ordinamenti. I fedeli sono piuttosto stretti insie-me da un reale principio comune di vita. Questa vita comune è il Cristo vivente: la sua vita è la nostra vita; noi siamo «incorporati» in Lui, siamo il «suo corpo», Corpus Christi mysticum1. Vi è una potenza reale che domina questa grande unità di vita, che incorpora in sé il singolo, lo fa partecipe della vita comune, ve lo mantiene: lo «Spirito di Cristo», lo Spirito Santo2. Ogni singolo credente è una cellula di questa unità vi-tale, un membro di questo corpo. In molteplici occa-sioni il credente si rende consapevole di questa unità che l'avvolge soprattutto nella liturgia. In essa egli scorge che non sta di fronte a Dio come individualità a sé stante, bensì come membro di questa unità. È la liturgia che parla a Dio, il fedele parla con essa e in essa. E da lui essa esige che sia consapevole d'essere suo membro e tale voglia essere. Nel rapporto liturgi-

1. Cfr. Rm 12,4 ss.; 1 Cor 12,4 ss.; Ef capp. 1-4; Col 1,15 ss. e altrove. 2. Cfr. 1 Cor 12, 4 ss.; M.J. Scheeben, Die Mysterien des Christentums

(Freiburg 1912), pp. 814-508; cfr. tr. it. di I. Gorlani, Morcelliana, Brescia 19603, pp. 359-604.

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co, il singolo sperimenta vitalmente la comunità ec-clesiastica. Il credente – qualora voglia celebrare con partecipazione viva l'azione liturgica – deve rendersi consapevole che egli, come membro della Chiesa, e la Chiesa in lui, prega e agisce; deve sentirsi con tutti gli altri fedeli una cosa sola in questa unità superiore e con essi voler formare una sola cosa.

Di qui scaturisce un problema assai delicato e assai av-vertito, che si può ricondurre alla questione più genera-le dei rapporti tra il singolo e la totalità. La comunità re-ligiosa, come ogni altra comunità, esige dal singolo due cose. In primo luogo un sacrificio: in quanto e fin-ché è membro attivo della comunità, egli deve rinun-ciare a ciò che in lui vuol essere solo per sé ed esclude-re gli altri. Deve dimenticare sé per essere con gli altri, sacrificare alla comunità una parte della sua au-tonomia e indipendenza. In secondo luogo, un con-tributo positivo: si esige da lui che accolga come pro-prio un più ampio contenuto di vita e precisamente quello della comunità; che vi dispieghi le sue energie, che lo porti nella coscienza, vi consenta e lo valorizzi.

L'esigenza può assumere aspetto diverso a secon-da del temperamento spirituale del credente. Così può riferirsi particolarmente al contenuto oggettivo della vita religiosa della comunità: ai pensieri che per-meano quest'ultima, all'ordine dei suoi mezzi e scopi, alle prescrizioni, regole, leggi stabilite; alle azioni da compiere, ai doveri e diritti e via dicendo. Rinuncia e contributo, come fu detto più sopra, assumono di conseguenza un carattere oggettivo.

Il singolo deve rinunziare a pensar a modo pro-prio e a percorrere vie proprie, giacché deve perse-guire fini e intenti e seguire pensieri e vie, che la litur-

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gia gli propone. Deve rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto proprio; ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi secondo il proprio volere. Compito dell'individuo è inoltre di «realizzare» il mondo delle idee liturgiche; deve uscire dalla cerchia consueta dei suoi pensieri e ap-propriarsi un mondo spirituale più vasto e compren-sivo; deve andar oltre i suoi scopi personali per acco-gliere le finalità formative della grande comunità liturgica umana. Così vien da sé che il credente debba partecipare a esercizi, che non corrispondono alle particolari esigenze da lui sentite in quel momento; ch'egli debba pregare per cose che immediatamente non lo toccano; accogliere ed esprimere a Dio nella preghiera istanze che gli sono estranee e che sono de-terminate dalle necessità della Chiesa universale, deve certo, infine, (e questo è inevitabile in un organi-smo tanto riccamente dotato di preghiere, azioni, simboli) talvolta anche seguire cerimonie che non comprende nel loro specifico significato oppure non intende interamente.

Qui si presenta effettivamente un grave problema, doppiamente sentito dall'uomo d'oggi, che tanto dif-ficilmente rinunzia alla propria indipendenza. Giac-ché questi è, sì, pronto a inserirsi nel sistema dei vin-coli dello Stato e della vita economica; però tanto più suscettibilmente e appassionatamente rifiuta di rego-la la propria vita religiosa secondo norme, che non siano quelle delle esigenze più personali. Quanto la li-turgia richiede si può pertanto esprimere con una sola parola: umiltà. Umiltà come rinuncia: cioè sacrifi-cio della propria autorità e indipendenza. E insieme

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umiltà come contributo: cioè accettazione di un con-tenuto di vita religiosa già dato, oltrepassante l'ambi-to di quella personale. L'esigenza sociale della liturgia assume un altro aspetto per quelle persone, che nella vita sociale vedono meno il lato oggettivo che quello personale o soggettivo: l'uomo vivo e operante. Il problema più grave della comunità per costoro non è già quello del come far proprio il contenuto spirituale oggettivo e universale della vita associata e inserirsi in essa. Più gravosa essi sentono l'esigenza della vita co-mune con altri uomini concreti, la necessità di dilatare l'intimità tutta personale del loro sentimento ammet-tendovi altre persone, condividendone i sentimenti e le aspirazioni, riconoscendosi e sentendosi tutt'uno con esse in un'unità superiore. L'unione invero, non con questo o con quello, oppure con una piccola cer-chia di persone, a cui ci leghino uguali interessi o rap-porti personali, bensì con tutti, anche con persone che ci riescano indifferenti, antipatiche o addirittura ostiche.

L'esigenza qui è dunque di abbattere in certo qual modo i limiti, che proprio chi ha una sensibilità più delicata ha segnato tanto nettamente intorno alla sua vita religiosa, di uscire da essi, entrare nella folla, prender parte alla sua vita. Mentre nella forma di rap-porto esaminata più sopra la comunità era sentita come un grande ordinamento oggettivo, qui invece essa è sentita come un vasto tessuto di rapporti perso-nali, come un intreccio infinitamente vario di rappor-ti tra «io» e «tu». Là era richiesto il sacrificio della rinunzia all'autonomia personale nell'attività religio-sa; qui il sacrificio del proprio isolamento, di quello «stare a sé» che compete alla vita personale. Là si trat-

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tava di inserirsi oggettivamente in un ordine stabilito, qui di vivere insieme con altri uomini. Là si richiedeva umiltà, qui si esige carità, un generoso aprirsi agli al-tri. In quel primo caso occorreva far proprio il conte-nuto spirituale presentatoci dalla liturgia; in questo secondo occorre partecipare alla vita degli altri mem-bri del corpo di Cristo, includere le loro preghiere nelle proprie, sentire i loro bisogni come propri. Nel primo caso il «noi» era espressione d'una oggettività dimentica di se stessa, in questo caso significa che co-lui che lo pronuncia estende agli altri il suo sentimen-to accogliendo insieme questi ultimi nella sua vita personale. Là bisognava vincere la superbia che vuol rimanere in se stessa, la grettezza del particolarismo, che inorridisce al pensiero di far proprio l'ampio mondo dei fini e delle concezioni della comunità; qui occorre superare l'avversione per la vita estranea, ma-teriale, che si svolge attorno a noi, la ritrosia ad aprire la propria interiorità, il sentimento di «aristocrazia» spirituale, di chi vuol stare solo con coloro che perso-nalmente ha scelto, a cui spontaneamente si è aperto. Un costante spirito di rinunzia è dunque qui richiesto all'anima, un permanente uscire da sé per gli altri, un amore grande che sia pronto a partecipare alla vita al-trui, a farla propria.

Tuttavia questo inserimento di se stessi è facilitato da una particolarità della vita della comunità liturgica. Essa forma l'antitesi che integra le peculiarità più sopra esposte. Chiamiamo individualistico, per fissar dei termini, l'atteggiamento spirituale da cui abbiamo preso le mosse. A esso si contrappone l'atteggiamen-to spirituale sociale che ovunque spinge alla comuni-tà, che vive nel «noi», altrettanto spontaneamente che

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quello nel chiuso «io». Quando agisca nel campo reli-gioso, questo atteggiamento sociale cercherà d'istinto persone dello stesso sentire; e invero questa propen-sione per la comunità religiosa sarà caratterizzata da un impeto che alla liturgia è estraneo. Basta solo ri-cordare le forme dell'influsso religioso e lo spirito di conventicola di certe sètte. Qui i limiti tra le singole persone sono abbattuti al punto da violare e il riserbo intimo e talvolta anche quello esteriore. Questo indi-ca naturalmente solo un estremo, che mostra però la tendenza inerente all'istinto sociale-religioso di siffat-ti temperamenti. Costoro, perciò, non si troveranno a loro agio nella liturgia; sentiranno nella comunità li-turgica qualcosa di freddo e di compassato. Dal che segue che la socievolezza della liturgia, per quanto piena e sincera essa sia, è ben lontana dall'esigere l'il-limitato sacrificio della propria personalità. La tenden-za che porta alla comunità è, nella liturgia, investita da una vigorosa controcorrente che assicura l'inviolabili-tà di certi limiti. Il singolo è certamente membro del tutto, ma non solo membro: egli non vi si disperde completamente. Vi è inserito, ma in modo tale che egli tuttavia rimane quello che è, sussistente per sé, personalità che riposa su se stessa. Questo si manife-sta particolarmente nel fatto che l'unione dei membri non ha luogo immediatamente tra uomo e uomo, bensì si compie nell'orientamento degli spiriti verso la stessa mèta, nel loro riposare nella stessa finalità ul-tima ch'è Dio, nella medesima professione di fede, nel medesimo sacrificio, nello stesso sacramento. Del tutto eccezionali sono nella liturgia i casi in cui il par-lare e il rispondere, il gesto o l'azione sono immedia-tamente diretti da un membro della comunità liturgi-

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ca all'altro3. E quando ciò ha luogo è molto istruttivo osservare quanto riserbati siano tali atti e da quali se-vere prescrizioni siano disciplinati. Il singolo non è mai tratto a contatti troppo famigliari col suo vicino. È sempre riserbata a lui la misura in cui ricercare la comunione spirituale in ciò che li unisce ambedue, vale a dire in Dio, che loro sovrasta.

Questo è assai importante. Non è necessario de-scrivere ciò che avverrebbe se il sentimento della co-munità liturgica si esprimesse immediatamente, sen-za regole, tra fedele e fedele. La storia delle sètte è, a questo riguardo, assai ricca di esempi istruttivi. Per-ciò nella liturgia sono fissati dei limiti rigorosi tra per-sona e persona, che diffondono sulla vita comune un sentimento sempre vigile di riserbo, e la moderano in un mutuo rispetto. Nonostante ogni comunanza, l'uno non può mai violare l'intimità dell'altro, ottene-re influsso sulla sua preghiera e sul suo agire, impor-gli le sue peculiarità e la sua sensibilità. La comunan-za sta nei sentimenti, nei pensieri, nelle parole, nel dirigere gli occhi e il cuore alla stessa mèta; essa con-siste nel credere tutti alla medesima verità, nell'offri-re tutti il medesimo sacrificio, nel mangiare tutti dello stesso pane divino; nell'essere tutti stretti in una mi-steriosa unità da un unico Dio e Signore. Tra di loro, però, come personalità determinate e concrete, non si usurpano reciprocamente il campo della intimità.

È unicamente questo atteggiamento, alla lunga, che rende possibile la comunità liturgica, la quale al-

3. Diversa è la questione nei riguardi delle relazioni tra i credenti e le persone costituite in autorità. In questo caso tale legame è costante e immediato.

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trimenti non sarebbe sopportabile. Per esso vien te-nuto lontano dalla liturgia ciò che «fa volgari». Esso non fa sorgere mai nell'anima il sentimento d'essere stretti a forza con altre persone, d'essere minacciati nella propria autonomia e intimità spirituale.

Se dunque si esige dal temperamento individuali-stico ch'esso accetti il sacrificio di stare con altri, così al temperamento socievole si chiede che si adatti al con-tenuto riserbo di questa vita collettiva veramente distin-ta. Mentre i primi debbono apprendere a frequentare gli uomini e a riconoscere che essi sono soltanto uo-mini tra uomini, i secondi imparino a comportarsi in quel modo distinto e contenuto, che si conviene nella casa dell'altissima Maestà divina.

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CAPITOLO TERZO

LO STILE LITURGICO

La parola stile può essere innanzitutto intesa in un senso generale. In tal caso essa indica la particolare ca-ratteristica che ogni strutturazione genuina e signifi-cativa (opera d'arte, personalità, costituzione politi-ca) come tale, porta in sé: l'aperto contrassegno del fatto che un elemento determinato della vita ha trova-to la sua espressione verace ed esauriente. Ma questa piena manifestazione di sé deve aver tale carattere che l'essere particolare ottenga con essa e in essa an-che un significato universale, oltrepassante la sua cer-chia limitata. L'essere di ogni individuo include, infatti, in sé due elementi: uno singolare, peculiare, irripro-ducibile; l'altro universale, che sta in relazione con tutti gli altri individui della sua specie e perciò testi-monia, nella sua costituzione ontologica, dei tratti che sono pure comuni ad altri. Una cosa particolare è tanto più significativa quanto più è originaria e ricca di energia spontanea e quanto più comprensivamen-te è in grado nello stesso tempo di esprimere l'essen-za universale che è propria della sua specie1.

Quando dunque una personalità, una creazione

1. L'essenza del geniale, della persona geniale e, in genere, della grande opera d'arte, sta nel fatto che essa possiede una originalità incom-mensurabile e tuttavia offre una interpretazione della vita umana di valo-re universale.

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dell'arte, una forma della vita sociale nel proprio esse-re e agire non solo esprimono persuasivamente come esse siano se stesse nella loro irripetibilità, ma insie-me in questa loro peculiarità non rappresentino un arbitrario capriccio dell'essere, bensì abbiano relazio-ni con la vita nella sua universalità, allora possiamo dire ch'esse possiedono dello «stile».

In questo senso la liturgia possiede certamente stile; né è necessario spendere molte parole per mostrarlo. Ma la parola può essere presa anche in un senso più ristretto. Perché mai percepiamo più vivamente la presenza dello stile dinanzi a un tempio greco che di-nanzi a un duomo gotico? L'intima efficacia delle due creazioni ha la stessa forza di convinzione. Ognuna costituisce l'espressione perfetta d'una forma deter-minata nel senso dello spazio e delle masse. Ognuna rivela la peculiarità di un popolo e offre contempora-neamente una profonda visione dell'anima e, in senso assoluto, della realtà universale. Eppure noi sentiamo dinanzi al tempio di Segesta uno «stile» più vigoroso che dinanzi al duomo di Colonia oppure alla cattedra-le di Reims.

Perché? Per qual motivo alla persona di sensibilità non colta Giotto presenta uno stile più intenso a con-fronto di Grünewald, certo non meno potente, se non più grande? Oppure una statua di re egiziana a confronto delle mirabili figurazioni donatelliane di San Giovanni?

La parola «stile» ha qui un significato particolare, giacché è intesa nel senso che nella figura considerata il singolare passa in seconda linea lasciando emergere l'universale. Ciò ch'è contingente, condizionato ri-spetto al tempo e allo spazio; quanto val solo per certi

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uomini determinati, per certi esseri particolari, è re-spinto sullo sfondo da ciò ch'è necessario, o almeno è più necessario, da quanto vale per molte epoche, per molti luoghi e persone. L'individuale è così assorbito in notevole misura da ciò ch'è tipico. In un'opera di tale genere una complicata situazione spirituale, che potrebbe trovare la sua espressione solo in un confu-so grido dell'anima oppure in un'azione irripetibile, viene semplificata e ricondotta alle potenze fonda-mentali dell'anima2. Perciò essa si è resa comprensibile a tutti; quel confuso ribollimento di emozioni è stato ri-dotto a una forma costante di motivazione psichica. E, divenuto così trasparente, può chiarire anche ad altri l'intreccio di cause ed effetti quale appare a ciascuno nella propria vita. Nell'avvenimento storico e singola-re vien fatta emergere la significazione permanente e universale della vita. La personalità che s'è presentata in un momento unico del tempo e dello spazio assur-ge a personificazione di caratteristiche comuni alla specie. L'emozione irrequieta e arbitraria nei suoi svi-luppi vien disciplinata ed equilibrata. Mentre, per l'in-nanzi, essa era legata totalmente a condizioni date, a un determinato temperamento, ora essa può fino a una certa misura essere rivissuta da ognuno3. Cose, arredi, utensili vengono spogliati dal loro aspetto ca-suale, liberati nelle forme essenziali, chiariti nella loro finalità pratica, potenziati nella loro capacità espressi-va per determinati sentimenti o pensieri. In una paro-la: mentre l'una forma d'arte cerca di dar espressione

2. Cfr. ad esempio la psicologia di drammi moderni: Gli spettri con le tragedie antiche, per esempio l'Edipo.

3. Così sorgono le forme di cortesia.

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proprio all'individuale, l'altra mira invece a far risalta-re ciò che ha un significato universale! La semplice realtà che si presenta sempre particolare è trasfigura-ta in modo da farne emergere il tipico, vale a dire, essa è sublimata nella forma, stilizzata. E noi percepiamo lo «stile», nello stretto senso della parola, là dove la confusa varietà della vita ha subito tale semplificazio-ne, dove la sua normativa interiore è sottolineata e dove dal particolare è tratta una significazione univer-sale. Certo, una linea non facile a tracciarsi separa lo «stile» dallo «schema». Se la trasvalutazione formale è spinta all'eccesso, se la concezione viene elaborata in base a concetti e regole anziché scaturire da una ne-cessità interiore, se infine la forma non nasce dalla vi-vida intuizione ma è escogitata e calcolata, allora si ot-tiene una figura ch'è solo generica e perciò vuota e morta. Il vero stile, anche nelle sue forme più severe, conserva la forza suggestiva di un'espressione matu-ra. Solo ciò ch'è vivente ha stile: il mero cerebralismo, il nudo schema non ne possiede affatto.

La liturgia (almeno nella gran parte dell'ambito suo) possiede stile nel senso stretto. Essa non è l'espres-sione immediata di un atteggiamento spirituale deter-minato nei suoi pensieri e detti, e neppure nei suoi movimenti, nelle sue azioni, nei suoi arredi. Si con-frontino gli Oremus delle Messe domenicali con le preghiere di un Anselmo di Canterbury ovvero di un Newman, il contegno del sacerdote all'altare con gli involontari movimenti di una persona in preghiera che si creda inosservata; si paragonino le prescrizioni della Chiesa sull'arredamento dell'altare, sugli ogget-ti di culto e i paramenti sacri col modo in cui il popolo adorna le sue Chiese oppure si abbiglia per sacre festi-

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vita; il canto corale gregoriano con la canzone religio-sa del popolo. Nell'ambito della liturgia la forma reli-giosa di espressione, si tratti di parole o di gesti, di co-lori e oggetti, è sempre spogliata, fino a una certa misura, della sua particolarità individuale, intensifica-ta, composta, elevata a una significazione universale.

A questo hanno contribuito molte cose. Innanzi tutto il lungo trascorrer del tempo, che ha sempre meglio smussato, limitato, adeguato le forme liturgi-che. In secondo luogo deve essere tenuta in conto l'azione fortemente generalizzatrice del pensiero teo-logico. Infine, pure l'influsso dello spirito greco-lati-no, la sua specifica propensione allo stile nello stretto senso della parola, ebbe particolare importanza.

Se ora si riflette che queste forze creatrici di stile si esplicarono non nell'espressione della vita religiosa di un singolo individuo, bensì in un'unità sociale della grandezza, compattezza e forza di coscienza sociale ch'è propria della Chiesa cattolica; se si considera che la vita tanto multiforme di quest'ultima era tutta pro-tesa verso l'Al di là, che essa si mise con decisione sul-la via che conduce oltre questo mondo alla sfera del Soprannaturale e perciò fin da principio si segnò del sigillo dell'eterno, del sublime, del sovrumano; se si afferra tutto ciò, si comprende come venissero poste e date in tal modo tutte le condizioni preliminari del-la creatività stilistica più possente. Necessariamente qui doveva maturare uno stile sublime di vita religio-sa. E in realtà questo è avvenuto. Se poi si considera la liturgia nel suo complesso e nei suoi elementi essen-ziali – non invero nella forma trascurata in cui talora si presenta, ma così come dovrebbe essere – in mo-menti felici si potrà percepire la meraviglia di uno sti-

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le addirittura grandioso. Si vedrà e sentirà come un mondo interiore di un'ampiezza e profondità immen-sa si è qui creato la sua espressione, una espressione così ricca, di tale pienezza e insieme di tanta chiarezza e universalità, quale mai altrove si è offerta.

Stile è pertanto, nel senso specifico della parola, chiaro discorso, movimento misurato, disposizione severamente elaborata dello spazio, degli oggetti, dei colori, dei suoni; derivazione di tutto (pensieri, paro-le, gesti, immagini) dalle forze elementari della vita spirituale, così da assicurare all'espressione ricchezza, varietà e insieme trasparenza. E la severità di questo stile è ancor più accentuata dal fatto che la liturgia della parola in una lingua che è sottratta all'uso quoti-diano; ed è anzi classica4. Da tutto ciò riesce evidente quale forza suggestiva possieda la forma liturgica d'espressione; come essa riesca, per il fedele che la comprende, una scuola di formazione religiosa e deb-ba apparire anche all'esterno un prodotto culturale nobilissimo. Non si deve negare però, che queste pro-prietà della liturgia presentano a ogni uomo, special-mente a quello d'oggi, grandi difficoltà. Egli – special-mente quando ha un temperamento indipendente – vuole che la preghiera sia espressione immediata del suo stato d'animo. E invece egli deve accogliere un mondo di pensieri, preghiere, azioni religiose come espressione della sua vita interiore, espressione che nella sua universalità gli riesce troppo ampia, che per-ciò non gli si confà. La sente di conseguenza fredda, quasi vuota. E di questo ha particolare consapevolez-

4. Prima del Vaticano II (n.d.r.).

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za quando la confronta con una preghiera che erom-pe con freschezza sorgiva dell'animo. Le formule li-turgiche non conquidono immediatamente, come fa-rebbero le parole di una persona spiritualmente affi-ne; gli atti liturgici non parlano così immediatamente come i movimenti irriflessi di commozione, in una persona dal temperamento simile al nostro; i moti del cuore nella liturgia non trovano una rispondenza così facile come uno slancio religioso, che sale spontaneo dall'anima. Specie all'uomo moderno che è così sensi-bile a tutto ciò che riguarda la vita individuale e che dovunque cerca il profumo della terra e in ogni cosa guarda al tono personale, – proprio all'uomo moder-no – queste forme limpide susciteranno facilmente l'impressione del gelo. Costui facilmente troverà schematiche le parole e i gesti freddamente regola-mentari. Può così avvenire di frequente che egli si ri-fugi in preghiere e pratiche devote, che rimangono molto inferiori in valore religioso alla liturgia, ma che, però, ai suoi occhi sembrano presentare un pre-gio: quello di scaturire dal proprio tempo, oppure dall'anima di persone spiritualmente affini.

Chi vuol poi abbracciare questo problema in tutta la sua ampiezza, deve rilevare come la figura del Signo-re si presenti nella liturgia e come invece si presenti negli Evangeli. In questi tutto è vita individualizzata; il letto-re respira il profumo della terra; avverte i segni di un determinato tempo, vede Gesù camminare per le strade, muoversi tra la folla; ascolta le sue parole ini-mitabili e così convincenti, le sente riversarsi da cuore a cuore. Tutto l'incanto di ciò che è storicamente vivo è diffuso intorno alla figura del Signore: Egli è vera-mente «uno di noi», una determinata persona, pro-

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prio Gesù, «il figlio del falegname», che abitava a Na-zareth, in quella determinata contrada, portava quel certo vestito, parlava così e così. E questo è proprio ciò di cui l'uomo moderno è assetato. Questo è ciò che lo allieta tanto profondamente: il fatto che in que-sta figura storica abita tuttavia la Divinità eterna e in-finita in forma viva, personale, essenzialmente unita così che Egli è «vero Dio e vero uomo» nel senso più pieno della parola.

Quanto diversamente ci parla nella liturgia la figu-ra di Gesù! Qui Egli è il Mediatore pieno di maestà tra Dio e l'uomo, l'eterno supremo sacerdote, il Maestro divino, il giudice dei vivi e dei morti, Colui che è cela-to nel Sacramento, Colui che nel suo corpo stringe in modo misterioso tutti i fedeli nella grande comunità di vita nella Chiesa, il Dio-Uomo, la Parola che si è fat-ta carne. Così Egli si presenta nella Messa, così nelle preghiere liturgiche. L'umano – involontariamente vien sulle labbra l'espressione teologica – la natura umana è certamente del tutto salvaguardata; le lotte contro Eutiche non vennero combattute invano. Egli è vero e perfetto uomo, con anima e corpo, e real-mente ha vissuto; ma del tutto trasfigurato in gloria dalla Divinità; investito dalla luce dell'eternità, sot-tratto alla storia, al di là del tempo e dello spazio. Egli è il Signore che «siede alla destra del Padre», il Cristo mistico, che continua a vivere nella sua Chiesa.

Si obietterà che nei vangeli delle Messe si legge pure l'intera storia della vita di Gesù. Certamente. Se si cerca, però, di percepire con attenzione e di imme-desimarsi nell'azione, questi racconti appaiono illu-minati in una maniera particolare dal complesso in cui si trovano. Essi sono un brano della Messa, del My -

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sterium magnum, immersi nel sacro mistero, inseriti nel complesso della corrispondente officiatura domenicale del proprio tempo, nel grande sistema dell'anno litur-gico, trascinati dal moto possente verso l'Al di là che pervade l'intera liturgia. Così ciò ch'essi contengono viene parimenti stilizzato; noi li udiamo nel linguag-gio straniero e li sentiamo cantati in tono corale. Vien da sé di badare non tanto ai tratti particolari ch'essi contengono quanto al significato eterno, sovrastorico che hanno.

Con il che, però, la liturgia non ha falsificato la fi-gura evangelica di Cristo, come per esempio il prote-stantesimo rimprovera alla Chiesa. Con questo essa non ha posto in luogo del Gesù vivente una rigida im-magine concettuale. Già gli Evangeli lasciano emerge-re, ciascuno secondo lo scopo particolare della pro-pria narrazione, più vigorosamente, ora questo ora quell'aspetto della personalità e dell'azione di Gesù. E di fronte alla figura dei sinottici, che lo rappresenta-no a preferenza nella sua realtà umilmente umana, emerge già nelle lettere di San Paolo il Signore che misticamente continua a vivere nella sua Chiesa e nell'anima dei credenti. Il Vangelo di San Giovanni mostra «la Parola, che si è fatta Carne» e infine l'Apo-calisse ci tratteggia il Signore nella sua gloria eterna. Ma neppur qui è esclusa la sua realtà umana e storica, bensì è sempre presupposta e abbastanza di frequen-te espressamente sottolineata5. La liturgia non ha dunque fatto nulla di diverso da quanto fece la stessa Sacra Scrittura. Essa, senza sacrificare neppure un

5. Così, ad esempio, sin dalle prime parole del prologo dell'Evange-lo giovanneo e della prima lettera di San Giovanni.

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piccolo tratto del Cristo storico, per i suoi speciali in-tenti religiosi, ha messo in rilievo maggiormente il so-vratemporale nella sua figura. Poiché la Liturgia non è una semplice commemorazione di quanto un gior-no fu, bensì un vivo presente: è la vita permanente di Gesù Cristo in noi e dei credenti in Cristo, nel Cristo Uomo-Dio eternamente vivente. Ma appunto perciò perdura la difficoltà spirituale; ed è bene metterla in chiara luce. Specialmente l'uomo d'oggi la sente in modo acuto. Più di uno – ubbidendo al suo primo im-pulso – sacrificherebbe il più luminoso concetto teo-logico pur di vedere Gesù camminare per le strade, pur di percepire con quale accento si rivolgeva ai suoi discepoli. E rinuncerebbe alla più splendida preghie-ra liturgica, qualora potesse udire come Gesù gli ri-volgerebbe il discorso e potesse dire allo stesso Gesù una parola dal profondo del cuore in un vivo collo-quio diretto.

Dove si trova il motivo che permette di superare queste difficoltà? Nella constatazione che non è affat-to permesso contrapporre la vita religiosa individuale con tutta la sua personale determinatezza alla vita li-turgica con la sua stilizzazione. Non si può imporre: questo o quest'altro, bensì l'uno e l'altro in viva colla-borazione.

Nella preghiera individuale noi ci eleviamo a Dio con le peculiarità del tutto singolari del nostro essere, e usiamo le parole che proprio le nostre disposizioni e le nostre esperienze ci suggeriscono. Questo è un nostro buon diritto che la Chiesa è l'ultima a volerci contestare. Qui noi viviamo la nostra propria vita, noi siamo, per così dire, soli con Dio. Qui Egli è proteso verso di noi così come verso nessun altro; qui vera-

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mente Egli è per ciascuno proprio «il suo Dio»; poi-ché questo appunto costituisce la infinita ricchezza di Dio, che Egli può essere per ognuno il suo Dio, a ognuno nuovo, non appartenente all'uno allo stesso modo che all'altro. Il linguaggio che usiamo qui s'adatta perfettamente a noi, e molte delle sue parole verosimilmente valgono solo per noi. Le possiamo pronunziare tranquillamente perché Dio le compren-de; e, all'infuori di Lui, non v'è persona alcuna, che debba comprenderle.

Ma noi non siamo soltanto esseri individuali: fac-ciamo parte anche di una comunità. Non siamo solo «storia»; bensì qualcosa di noi appartiene anche all'ordine intemporale. È a quest'ultima esigenza che provvede la liturgia. In essa noi preghiamo come membri della Chiesa; in essa ci eleviamo al regno eter-no che è al di sopra dei singoli e, perciò, a tutti acces-sibile; a tutti i temperamenti, a tutte le età, a tutti i luo-ghi. Ma per quest'ordine di cose lo stile della liturgia, – oggettivo, limpido, accessibile a tutti –, è anche l'unico possibile. Ogni altra forma di preghiera che procedesse da una sensibilità speciale riuscirebbe di sicuro inaccessibile a chi possedesse una sensibilità di-versa. Soltanto uno stile della vita e del pensiero che sia veramente cattolico, vale a dire universale, oggetti-vo, può essere accolto da ognuno senza sospetti di violenza spirituale. Non è certo con ciò escluso ogni sacrificio; ognuno deve farsi violenza, deve superarsi. Ma in tal modo egli non si perde, bensì al contrario si fa più libero, più ricco, più versatile.

Ambedue le forme di preghiera devono svolgersi in mutua armonia, giacché stanno in vivo rapporto scambievole. L'una riceve fecondità e luce dall'altra.

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Nella liturgia l'anima apprende a muoversi nell'am-pio mondo delle realtà religiose oggettive: e qui essa acquista – se è lecito il paragone – quella libertà, quel-la contenuta nobiltà di atteggiamenti e movenze inte-riori che impara, nell'ambito delle relazioni puramen-te naturali, quando frequenta una società veramente distinta di persone, che si comportano secondo un'antica tradizione di correttezza sociale. Si educa a quella ampiezza di sensibilità e limpidezza di espres-sione spirituale che è il risultato di un intimo com-mercio con le grandi opere d'arte. In poche parole: l'anima nella liturgia acquista il grande stile della vita religiosa. Cosa questa che non si può mai apprezzare abbastanza. D'altra parte proprio la Chiesa non si stanca mai di ammonire – e lo mostra l'esempio dell'ordine vivente nella liturgia – che accanto alla vita liturgica deve esplicarsi non meno fervida la de-vozione privata, nella quale l'anima si abbandona tut-ta, così com'è, nelle sue disposizioni particolari. Il che col tempo conferisce anche alla sua vita liturgica calo-re e colorazione personale.

Se la devozione personale mancasse, se la liturgia fosse l'unica forma della vita religiosa, questa rischie-rebbe facilmente di diventare un freddo sistema di ce-rimonie; ma se vien meno la liturgia, le conseguenze non devono essere meno fatali.

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CAPITOLO QUARTO

IL SIMBOLISMO LITURGICO

Nella liturgia il credente incontra un mondo ricco di segni e immagini dense di contenuto: gesti, movi-menti, azioni, oggetti, luoghi e tempi significativi e via dicendo. Dinanzi a essi sorge il problema: quale si-gnificato ha mai tutto questo nelle relazioni tra l'ani-ma e Dio?

Dio è al di là di ogni spazio; cosa ha Egli a che fare con minute prescrizioni riguardanti lo spazio?

Dio è al di sopra di ogni tempo; che valore ha per le relazioni con Lui tutta la divisione e distribuzione del tempo, a cominciare dalle ore liturgiche fino all'anno ecclesiastico?

Dio è assoluta semplicità: come lo possono riguarda-re movimenti, azioni, oggetti rituali? Ma rinunciando ad approfondire oltre la questione, e accontentando-ci di riaffermare che Dio è Spirito, non possiamo ele-vare questo dubbio: può, in genere, quanto è materia-le avere un significato nelle relazioni tra l'anima e Dio, puro spirito? Non è fatale che codesto elemento materiale falsi e abbassi tali relazioni? E, pur conce-dendo che l'uomo è costituito di anima e di corpo, ch'egli pertanto non essendo puro spirito, deve subi-re influssi da parte del corpo nella sua vita spirituale, non costituisce questo una deficienza, cui opporsi? Non deve essere compito del vero culto di elevarsi a una «adorazione di Dio in spirito e verità» e di tende-

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re, per lo meno nei limiti del possibile, a eliminare il corporeo e il materiale?

Anche tale problema conduce al cuore di ciò ch'è la liturgia.

Che valore ha mai per noi l'elemento materiale come mezzo di ricezione e di traduzione di realtà spi-rituali, come mezzo di impressione ed espressione spirituale?

Il nucleo più intimo della questione sta nel modo in cui l'io vive nell'ambito del proprio essere spiritua-le – materiale, nel rapporto tra anima e corpo.

In una forma determinata di questa esperienza di sé «lo spirito» si presenta fortemente distinto dal «corporeo». Lo spirituale appare un mondo in sé chiuso, che si trova al di qua, o meglio, al di là del cor-poreo e con questo ha poco o nulla a che fare. Spiri-tuale e corporeo sono sentiti come due ordini di real-tà, che stanno l'uno accanto all'altro, fra i quali esiste, sì, un commercio, ma tale soltanto, che sembra più un passaggio o trasposizione dall'uno all'altro che una immediata collaborazione reciproca. È una con-cezione spiritualistica che ha ricevuto la sua espressio-ne metafisica estrema per esempio nella monadolo-gia di Leibniz e quella psicologica nella dottrina del parallelismo psicofisico.

È chiaro che, su queste basi, all'elemento corporeo può essere attribuito solo un significato più o meno contingente nei riguardi dello spirito. Il corporeo è sì unito con lo spirituale, questo ha sì pure bisogno di quello, ma, per la specifica vita del secondo, il corpo-reo non deve assumere importanza. Lo spirito deve sentirlo come un impedimento e una contaminazio-ne. Ciò che esso cerca – la verità, l'impulso morale, il bene religioso, Dio e il divino – esso si sforza di rag-

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giungerlo per via meramente spirituale. E anche se non ignora che ciò gli è irraggiungibile, s'affatica tutta-via ad avvicinarsi alla pura spiritualità, almeno quanto è possibile. Il corporeo per un uomo siffatto è una tara, un'imperfezione che fatalmente trova in sé e cerca di eliminare. Nel caso migliore egli attribuisce al corpo-reo una certa importanza esteriore, lo accoglie quale mezzo di spiegazione dell'elemento spirituale, come «esempio», come allegoria; ma sempre con la piena consapevolezza di far propriamente una concessione inammissibile. E coerentemente il corpo non sarà per lo spirito neppure organo adatto a esprimere adegua-tamente la sua vita interiore. Anzi, esso non avrà nep-pure l'esigenza di esprimere in forme sensibili il con-tenuto della sua vita spirituale, giacché per esso lo spirituale riposerà in se stesso, oppure s'esprimerà nella semplicità dell'atto morale o della nuda parola.

La persona che ha tale disposizione deve incontra-re grosse difficoltà nella liturgia. Essa inclina natural-mente a una pietà severamente spiritualistica che cerca di respingere il corporeo, di dare una forma al possi-bile semplice e nuda a ogni manifestazione dell'ani-mo, e attribuisce il massimo valore alla mera parola come alla forma «spirituale» della comunicazione.

A questo temperamento spirituale se ne contrap-pone un altro. Per questo spirituale e materiale si tro-vano intimamente uniti; anzi esso inclina a una fusio-ne dei due domini. Se quello tende a separare il corporeo è lo spirituale, questo si sforza invece di ri-durli all'unità. Per codesto tipo l'anima diventa facil-mente il semplice aspetto interiore del corpo; il corpo l'aspetto esteriore, la condensazione, la sensibilizzazio-ne dell'anima. Ogni realtà spirituale trapassa immedia-tamente e si traduce in condizioni o movimenti cor-

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porei; ogni azione esterna è sentita immediatamente anche come qualcosa di spirituale. Questo sentimen-to dell'unità fondamentale di corpo e spirito può dila-tarsi anche oltre l'ambito della propria personalità e accogliere in sé anche le cose esteriori. Allo stesso modo che queste vengono facilmente considerate quali rivelazioni di un contenuto spirituale, così pos-sono anche essere valorizzate quale mezzo di espres-sione per la propria vita interiore. In tal maniera si possono vedere espresse negli oggetti, nelle vesti, nel-le istituzioni sociali, nelle cose della natura, anzi nella realtà universale, condizioni, desideri, aspirazioni, lotte del proprio intimo essere. Una concezione spiri-tuale di questo tipo sembra a prima vista avere rela-zioni più strette con la liturgia. Essa infatti sente assai più immediatamente la forza comunicativa del movi-mento e dell'azione liturgica come pure degli oggetti liturgici e riesce assieme con facilità a servirsi di questi fenomeni esteriori quali espressioni della propria vita interiore. Eppure anche a essa la liturgia presenta le sue difficoltà. Dove lo spirituale e il corporeo sono sentiti come qualcosa che trapassa l'uno nell'altro, che si presenta ora nell'una e nell'altra forma, riesce difficile legare la manifestazione del proprio intimo a forme d'espressione determinate, collegare certe for-me, azioni, oggetti e significati espressivi nettamente definiti. La vita interiore è un perpetuo fluire, si muta a ogni istante. Codesta mentalità non può creare nes-suna forma espressiva chiaramente e nettamente de-finita, giacché per essa manca una vera e propria se-parazione tra spirito e corpo. E non meno difficile riesce a una persona così orientata leggere in date forme di comunicazione sempre gli stessi contenu-ti; essa sente piuttosto il loro messaggio come cosa

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sempre nuova e diversa, in dipendenza dalle proprie disposizioni del momento1.

In altre parole: nonostante la stretta relazione in cui stanno, in questo tipo psichico, il corporeo e lo spiritua-le, a esso manca tuttavia la capacità di legare certi conte-nuti spirituali a forme esteriori determinate: si tratti di esprimere il proprio intimo o di accogliere e compren-dere un pensiero o stato d'animo altrui che venga dal di fuori. Il che significa che a esso difetta un elemento necessario della potenza simbolizzatrice. Quel tempe-ramento spirituale che abbiamo descritto per il primo (lo «spiritualistico») non sapeva raggiungere il simbo-lo, per la propria incapacità di cogliere l'intima rela-zione che stringe insieme lo spirituale e il materiale. Esso sapeva, sì, distinguere, delimitare, ma lo faceva in misura troppo grande, al punto che le relazioni an-davano perdute. Il secondo tipo di sensibilità descrit-to possiede la capacità di questa relazione; giacché per esso l'interiore si riversa immediatamente nella forma esteriore. Gli manca, però, il senso della distin-zione e della distanza. Invece, relazione e distinzione sono ambedue necessarie a creare un simbolo2.

1. Di qui la tendenza propria di siffatti temperamenti a evadere dal-la Chiesa con le sue forme nettamente definite e a rifugiarsi nella natura, per cercarvi una espressione adeguata alla loro sensibilità indeterminata e cangiante e per trarre dalla natura quell'eccitamento di cui sentono l'esigenza.

2. Per tutta la questione cfr. R. Guardini, Liturgische Bildung, Roth-enfels 1929 [tr. it. Formazione liturgica, OR, Milano 1988]. Su tutta l'analisi del simbolo presentata qui, debbo dire ora che essa rimane totalmente sul piano psicologico-razionale. La più recente indagine storica e sistematica sul simbolo offre importanti indicazioni per il lavoro da svolgere. Certo non si dovrebbe dimenticare che quest'ultimo tipo d'analisi è completamente na-turalistico e non ha alcuna notizia né della persona autentica né dello pneu-ma. Il compito dovrebbe essere contemporaneamente critico e costruttivo.

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Un simbolo sorge quando qualcosa d'interiore, di spirituale, trova la sua espressione nell'esteriore, nel corporeo; non quando, come nell'allegoria, qualche realtà spirituale è arbitrariamente collegata dall'este-riore corrispondenza a qualcosa di materiale, come ad esempio «la giustizia» alla figura della bilancia. Ciò ch'è interiore deve piuttosto tradursi nell'esteriore vi-talmente, con necessità che scaturisce dalla sua essen-za. Così il corpo è il simbolo naturale dell'anima, così un movimento spontaneo è simbolo di un fatto psi-chico. Inoltre il simbolo nella pienezza del suo signifi-cato richiede d'essere chiaramente definito, così che la sua forma espressiva non possa valere anche per qualcosa d'altro. Esso deve parlare un linguaggio lim-pido e ben determinato e perciò tale che, presuppo-ste le condizioni normali, riesca a tutti comprensibile. Il vero simbolo sorge quale espressione naturale di uno stato d'animo reale e specifico.

Così, una volta configurato, possiede contempora-neamente una validità generale non di rado assai am-pia, a tutti comprensibile e piena di significato ma in-sieme, come l'opera d'arte, deve innalzarsi al di sopra del puramente individuale. Deve esprimere non con-tenuti psichici unici e irripetibili, ma dire qualcosa sull'anima in universale, sulla vita dell'uomo in se stessa. Affinché sorga pertanto un simbolo genuino, debbono, al momento giusto, collaborare ambedue le complessioni psichiche che abbiamo più sopra de-scritte. L'accordo perfetto può risultare solo dal vitale intreccio dei due motivi: dello spirituale e del mate-riale. Contemporaneamente lo spirito deve dominare con sguardo vigile e chiaroveggente ogni linea della sua creazione, discernere con sicurezza, delimitare

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con fine sensibilità, ponderare illuminatamente, af-finché determinati contenuti spirituali ottengano la loro inequivocabile espressione sensibile. E questa fi-gurazione simbolica ha tanto maggior valore e tanto più merita il suo nome, quanto più universalmente valida, pura, limpida, esauriente è riuscita la compe-netrazione della forma sensibile da parte del rispetti-vo contenuto spirituale. Allora si svincola dalla crea-tura singola, da cui era scaturita dapprima, e diviene patrimonio della comunità; e ciò accade in tanto mag-gior misura, quanto più profonda è la vita da cui è sor-ta e quanto più chiara, per così dire, necessaria, è la forma che ha assunta.

Questa forza simboleggiatrice si è manifestata ad esempio nella creazione delle forme fondamentali di tatto. In esse rientrano le maniere in cui l'uno manife-sta all'altro la sua riverenza o simpatia, quelle con cui si esprime il mondo interiore della vita sociale e simi-li. Vengono poi – cosa particolarmente significativa per il nostro assunto – i gesti religiosi: il fatto, cioè, che l'uomo nell'emozione religiosa si inginocchia, si in-china, congiunge o stende le mani, allarga le braccia, si batte il petto, offre qualcosa, e via dicendo. Questi gesti elementari possono svilupparsi più riccamente oppu-re intrecciarsi e combinarsi l'un con l'altro. Sorgono così molteplici «gesti cultuali», ad esempio il bacio della pace o la benedizione. Oppure pensieri determi-nati trovano la loro espressione in movimenti adegua-ti, come la fede nel mistero della redenzione, nel se-gno della croce. Da ultimo un'intera serie di tali movimenti può combinarsi, dando luogo all'azione rituale, in cui una realtà spirituale riccamente svilup-pata ottiene un'espressione concreta, plastica: per

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esempio un sacrificio. Nell'atto, pertanto, in cui si compie quell'estensione del sentimento di sé alle cose che stanno fuori dell'ambito personale di cui già par-lammo, emerge nel simbolo il momento materiale. Le cose intensificano la forza espressiva del corpo e dei suoi movimenti; sono, per così dire, un amplia-mento dell'ambito del corpo oltre i suoi confini natu-rali. Così avviene quando in un'azione di offerta il dono è presentato non sulla semplice mano bensì so-pra un piatto. La superficie del piatto accentua l'effet-to espressivo della palma della mano, e ne risulta per così dire un piano dilatato e aperto verso l'alto, verso la Divinità, che spicca potentemente di contro alla li-nea verticale del braccio. Oppure si consideri la nuvo-la d'incenso che sale ondeggiando; essa accentua l'espressione del protendersi verso il cielo, che è insi-ta nelle mani dei fedeli e nei loro sguardi drizzati ver-so l'alto. La colonna del cero che si drizza snella, ver-so la cima lievemente si assottiglia, sul cui vertice brilla la fiamma, e che bruciando si consuma, personi-fica il sentimento dell'offerta, presentata volontaria-mente con nobile disposizione dell'animo.

A codesta creazione del simbolo hanno dunque parte ambedue i temperamenti considerati. L'uno, mediante il suo sentimento dell'affinità esistente tra spirituale e corporeo, offre, per così dire, la materia, quale prima condizione preliminare della creazione simbolica. L'altro vi contribuisce con la sua capacità di distinzione e la sua consapevolezza della distanza tra i due domini, assicurando chiarezza e determinazione formale. Pure ambedue incontrano nella liturgia dif-ficoltà che contrastano con la loro natura. Ma poiché ambedue hanno collaborato alla creazione dei simbo-

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li liturgici, essi possono anche superare queste diffi-coltà, appena il credente si sia convinto della dignità obbligante, almeno in certo modo, della liturgia.

Per temperamenti della prima categoria si tratta di limitare una spiritualità esagerata, di riconoscere l'ef-fettiva affinità del corporeo con lo spirituale, di aprire l'animo proprio alla ricchezza che si cela nei simboli liturgici. Essi devono uscire dal loro riserbo, vincere la ritrosia con cui si cautelano da ogni espressione dello spirituale nel materiale, accogliere infine real-mente quest'ultimo quale organo capace di rivelare la vita interiore. Questo sacrificio assicurerà un arricchi-mento e un calore tutto nuovo alla loro sensibilità.

I tipi dell'altra specie devono invece sforzarsi di ar-ginare l'esuberanza della loro sensibilità, di contene-re in limpide forme quanto v'è, in loro, d'indetermi-nato e di fluido. Per costoro, è assai importante riconoscere che la lingua nei suoi simboli è immune da ogni materialismo3, che le forme naturali sponta-nee nella liturgia appaiono tutte trasformate (si rive-da quanto si disse più sopra intorno allo stile) in for-me riflesse di cultura. Così per tali temperamenti il mondo di immagini proprio della liturgia assurge a una scuola di misura e di disciplina spirituale.

Chi partecipa con vera dedizione alla liturgia può sperimentare che in genere il materiale, movimento e azione corporea, possiede effettivamente un grande

3. Come invece non accade nei culti naturalistici, le cui cerimonie si svolgono immediatamente nella stessa natura, nella foresta, sulla riva del mare, e via dicendo. La liturgia, al contrario si dispiega in edifici elevati dalla mano dell'uomo. Sarebbe compito di una ricerca particolare e assai interessante l'investigare come i suoni, le forme, le cose naturali siano as-surti a elementi cultuali.

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significato. Esso ha grandi possibilità di suscitar im-pressioni, suggerir conoscenze, intensificare l'espe-rienza religiosa, rendere una verità più efficace e con-vincente della semplice parola.

Possiede esso, quindi, anche un'efficacia liberatrice, in quanto permette alla vita interiore un'espressione più adeguata di quel che lo possa la mera parola4.

4. (La concreta applicazione di questi princìpi alle cose e ai riti della liturgia Guardini ce l'ha offerta nel breve saggio I santi segni, che segue in questo volume: essi sono lo sviluppo degli accenni ai «gesti cultuali» di cui più sopra a pp. 65-66.)

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CAPITOLO QUINTO

LA LITURGIA COME G I O C O

Certe nature gravi e serie, tutte rivolte alla ricerca e alla contemplazione della verità, che in ogni cosa ve-dono il compito morale e dovunque cercano il fine, incontrano facilmente nella liturgia una difficoltà sin-golare. La liturgia appare loro facilmente come qual-cosa senza scopo, un cumulo superfluo di cose, una realtà inutilmente complicata, artificiosa. Costoro si scandalizzano che la liturgia fissi con tanta minuziosi-tà ciò che si deve compiere prima e ciò che deve avve-nire dopo, se a destra o a sinistra, ad alta voce o pia-no. A che scopo tutto ciò? L'essenziale nella Santa Messa, l'offerta e la consumazione del cibo divino, può essere compiuto così semplicemente: perché tale grande spiegamento di un rituale levitico? Le necessa-rie consacrazioni potrebbero essere fatte così sempli-cemente con poche parole, i sacramenti essere ammi-nistrati senza complicazioni rituali: a che pro ' tutte quelle preghiere e cerimonie? La liturgia può avere per costoro un carattere di gioco e di teatralità. Que-sto problema si deve prendere sul serio. Esso non si presenta a tutti; ma non appena affiora, costituisce sempre la rivelazione di un temperamento spirituale inteso all'essenziale. Esso sembra aver stretta relazio-ne con la questione dello scopo in assoluto. Scopo, in senso proprio, noi denominiamo quel principio d'or-dine, per cui cose e azioni si subordinano le une alle altre, in modo che l'una serva all'altra, l'una si presen-

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ti in funzione dell'altra. Ciò ch'è subordinato, il mez-zo, ha significato solo in quanto è in grado di servire a ciò ch'è sopraordinato, allo scopo. Chi agisce non s'indugia spiritualmente in esso, giacché per lui costi-tuisce solo un passaggio ad altro, via che conduce allo scopo, dove propriamente stanno la mèta e il riposo. Da questo punto di vista ogni mezzo deve saperci assi-curare se e in che limiti è in grado di portarci allo sco-po. Questo esame ha per intento di escludere tutto ciò che non appartiene alla cosa, ciò che è marginale, su-perfluo. Domina qui il principio economico di raggiun-gere il fine nel modo più perfetto possibile col minore impiego di forza, tempo e materia. Il corrispondente stato d'animo è caratterizzato da una certa febbrilità, da una tensione senza riguardo e da una rigida oggettività.

Questo atteggiamento spirituale è legittimo e ne-cessario nella totalità della vita. Le assicura serietà e salda direzione. Corrisponde anche alla struttura del-la realtà nella misura in cui ogni cosa in certo modo cade sotto il punto di vista dello scopo. Molti dati di fatto possono essere giustificati quasi totalmente dal punto di vista dello scopo, come ad esempio, la vita economica e i processi della tecnica; tutti poi possono esserlo almeno in parte e per qualche riguardo. Nes-sun fenomeno, però, cade esclusivamente sotto que-sto concetto; di molti, anzi, solo una piccola parte. Ovvero, per dir meglio: ciò che assicura alle cose, ai processi il diritto dell'esistenza e la giustificazione del-la loro peculiarità è, per talune, non solamente, per altre, non certo in prima linea, la loro attitudine a uno scopo. Le foglie e i fiori hanno uno scopo? Certa-mente, giacché sono organi delle piante; ma a tale scopo essi non devono assumere proprio quella for-ma, quel colore, quel profumo determinato. A che

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scopo pertanto la prodigalità di forme, colori, profu-mi della natura? A che pro ' la molteplicità delle spe-cie? Le cose potrebbero andare anche con maggior semplicità. L'intera natura potrebbe essere piena di esseri, la cui riproduzione potrebbe essere ottenuta in una maniera assai più rapida e «funzionale». L'indi-scriminata applicazione del finalismo alla natura non rimane per nulla immune da contestazioni. E per ap-profondire maggiormente il problema: quale scopo deve avere in genere l'esistenza di questa o quella pianta, di questo o quell'animale? Forse quello di ser-vir da nutrimento ad altri? Certo no! Se noi applichia-mo soltanto il criterio dell'esteriore funzionalità, tro-viamo che molte cose della natura sono funzionanti solo in parte, e nessuna è utile in tutto e per tutto. Molte cose anzi, alla luce di questo criterio, appaiono senza scopo. In una creazione della tecnica, sia una macchina o un ponte, tutto risponde a uno scopo: al-trettanto in un'impresa commerciale, nella burocra-zia d'uno Stato; eppure neanche per queste cose il concetto della finalità basta a risolvere tutti i proble-mi relativi al loro diritto di esistere1. Se, pertanto, vo-gliamo renderci pieno conto della cosa, dobbiamo as-sumere un angolo visuale più ampio. Il concetto di scopo pone il centro di gravità d'una cosa al di fuori e al di là di essa; tale concetto la considera quale trami-te per un movimento che va oltre e precisamente si di-rige alla mèta. Ogni cosa, pertanto, è anche – e taluna lo è quasi del tutto – un quid a sé stante, uno scopo a sé, nella misura in cui si può applicare ancora questo concetto in tale più ampia significazione, cui si adatta

1. Cfr. R. Schwarz, Wegweisung der Technik, Potsdam 1929.

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meglio il concetto di senso. Tali cose non hanno scopo nella stretta accezione della parola; hanno però un sen-so. E questo senso è mostrato, non dal fatto ch'esse producono fuori di sé un effetto ovvero contribuisco-no alla costituzione o alla modificazione di qualcosa d'altro, bensì il loro significato consiste nel loro esse-re quello che sono. Nella rigorosa accezione dei voca-boli, esse sono senza scopo, ma piene di senso.

Scopo e senso sono i due modi di presentarsi del fat-to che una cosa esistente ha motivo e diritto al pro-prio essere. Dal punto di vista dello scopo, una cosa si inserisce in un ordine che va oltre di essa; nei riguardi del senso, essa riposa in se stessa.

Qual è ora il senso di ciò che è? D'esistere e d'esse-re un riflesso del Dio infinito. E qual è il senso di ciò che vive? Di vivere, esplicare l'intima essenza propria, di fiorire quale rivelazione naturale del Dio vivente.

Questo non vale solo per la natura, ma anche per la vita dello spirito. La scienza ha forse uno scopo nel sen-so proprio della parola? No. Il pragmatismo vuol attri-buirgliene uno: quello di incitar gli uomini a migliorarsi moralmente. Ma questo significa misconoscere la digni-tà sovrana della conoscenza. Essa non ha alcun scopo, ha però un senso, che riposa in se stesso: la verità.

L'attività legislativa di un parlamento ad esempio ha uno scopo; essa intende far valere nella vita statale una direttiva nettamente determinata. La scienza del diritto invece non ne ha, mirando solo a conoscere la verità nelle questioni giuridiche.

E così è di ogni autentica scienza, che è, in base alla sua essenza, conoscenza della verità, servizio della ve-rità.

Neppur l'arte ha uno scopo. Si dovrebbe altrimen-ti pensare che la sua ragione d'essere sia la necessità

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dell'artista di procurarsi con essa di che nutrirsi e di che vestirsi. Oppure, come pensava l'illuminismo, che l'arte sia destinata a offrire esempi intuitivi della verità di ragione e a insegnare la virtù. L'opera d'arte non ha scopo, bensì ha un senso, e precisamente quel-lo ut sit, d'essere concretamente, e che in essa l'essen-za delle cose, la vita interiore dell'uomo-artista otten-ga un'espressione sincera e pura. L'opera d'arte deve essere soltanto splendor veritatis.

Quando la vita si sottrae al rigoroso ordine dei fini, allora diventa un gioco di dilettanti. Muore, però, anche quando la si vuol costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. I due elementi si integrano reciprocamente. Lo scopo è il fine dello sforzo, del lavoro, dell'ordine; il senso è il contenuto dell'esistenza, della vita che fiorisce e ma-tura. I due poli dell'essere pertanto sono: scopo e sen-so, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinamen-to e creazione.

Anche la vita della Chiesa universale si svolge tra queste due direzioni.

Ecco la possente struttura degli scopi nel diritto ca-nonico, nella costituzione e nell'amministrazione della Chiesa. Qui tutto è mezzo ordinato a un unico scopo, quello di mantenere in efficienza la grande macchina della amministrazione ecclesiastica. Decisivo qui è il criterio, se l'istituzione o l'ordinanza considerata ri-sponda alla finalità generale, se essa la raggiunga col minor impegno di forze e tempo2. Lo spirito della pra-

2. Quantunque l'organismo della Chiesa debba essere considerato pure qui da un altro punto di vista, quale creazione di Dio. Cfr. F. Pilgram, Fisiologie der Kirche, nuova ed. a cura di W. Becker, Mainz 1932.

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ticità deve costituire la forza determinante in questa ampia organizzazione del lavoro. La Chiesa, però, ha pure un altro aspetto. La sua vita abbraccia un campo in cui essa rimane libera dallo scopo nel senso pro-prio della parola. Questo campo è la liturgia. Anche questa certo include un complesso di scopi, i quali co-stituiscono, per così dire, l'armatura che la sostiene; così i Sacramenti hanno il compito di comunicare de-terminati doni di grazia. Ma questa comunicazione, presupposte le condizioni richieste, può anche aver luogo in forma assai semplificata. L'amministrazione d'urgenza dei Sacramenti offre l'esempio di un'azio-ne liturgica rigidamente limitata al suo mero scopo.

Si può anche affermare che la liturgia, ogni sua azione e ogni sua preghiera, ha lo scopo di educare religiosamente. E questo è pur vero. Però essa non ha un piano d'educazione preordinato e voluto di pro-posito. Per comprendere la differenza, si confronti il discorso di una settimana dell'anno ecclesiastico con gli esercizi di Sant'Ignazio. In questi ultimi tutto è consapevolmente pesato, tutto organizzato allo sco-po di raggiungere un determinato effetto pedagogico sulla vita spirituale; ogni esercizio, ogni preghiera, anzi le stesse ore di riposo sono indirizzate allo scopo fondamentale di determinare la conversione della vo-lontà. Non così avviene nella liturgia: è già abbastanza significativo che la liturgia non abbia posto alcuno ne-gli esercizi3. Anch'essa vuole formare, ma non attraver-so un sistema di influssi educativi calcolato apposita-

3. I Benedettini, e anche i tentativi d'altri, ve lo assegnano, però ven-gono così a praticare manifestamente un altro tipo di esercizi spirituali, diverso da quello che si proponeva Sant'Ignazio.

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mente in vista del fine, bensì creando semplicemente una perfetta atmosfera religiosa in cui l'anima si di-spieghi religiosamente. Vi è una differenza simile a quella che passa tra una palestra ginnica, dove ogni attrezzo, ogni esercizio è calcolato, e l'aperta campa-gna o la foresta. Là tutto è sviluppo consapevole delle forze, qui tutto è vita naturale, crescita delle intime energie nella natura e con la natura. La liturgia crea un ampio mondo esuberante di intensa vita spirituale e fa sì che l'anima vi si muova e vi si sviluppi. Questa ricchezza di preghiere, pensieri, azioni; questo intero ordinamento di tempi rimane incomprensibile, se lo si commisura all'unità lineare della funzionalità rigo-rosamente oggettiva.

La liturgia non ha «scopo», o almeno non può es-sere ridotta soltanto sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì – almeno in una certa misura – fine a sé. Essa, secondo le vedu-te della Chiesa, non è una tappa sulla via che conduce a una mèta che sta fuori di essa, bensì un mondo di realtà viventi che riposa in se stesso. Questo è l'impor-tante: se lo si trascura, ci si sforza di trovare nella litur-gia intenti pedagogici d'ogni specie, che possono in qualche modo esservi introdotti, ma che non vi occu-pano però un posto essenziale.

La liturgia non può avere «scopo» alcuno anche per questo motivo: perché essa, presa in senso pro-prio, ha la sua ragione d'essere non nell'uomo, ma in Dio. Nella liturgia l'uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo. In essa l'uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la glo-ria di Dio. Il senso della liturgia è pertanto questo:

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che 1'anima stia dinanzi a Dio, si effonda dinanzi a Lui, si inserisca nella Sua vita, nel m o n d o santo delle realtà, verità, misteri, segni divini, e così si assicuri la vera e reale vita sua propria4 . Ci sono due passi mol to profondi nella Sacra Scrittura che avviano alla solu-zione definitiva di questo problema, pe r n o n dire che p ronunz iano la parola liberatrice. L 'uno sta nella vi-sione d'Ezechiele5. Quest i fiammeggianti Cherubini

«andavano diritti dove il vento li spingeva [...], né si voltava-no nell'andare [...], andavano e venivano come la vampa della folgore [...], andavano [...] e stavano [...] e si alzavano dal suolo [...]; il fruscio delle loro ali assomigliava al mur-mure di molt'acqua [...], e quando si fermavano abbassava-no nuovamente le ali...».

C o m e sono «senza scopo» codeste creature! C o m e sono addir i t tura sconfortanti pe r u n o zelatore della funzionalità raziocinata! Essi sono «soltanto» mero movimento possente e maestoso che si dispiega come lo spirito lo sollecita; che null 'altro vuole se n o n espri-mere l ' intimo essere dello spirito, rivelarne esterior-men te l ' intimo fervore e l ' impetuosa forza; ecco una viva immagine della liturgia!

E in un altro passo6 parla l 'Eterna Sapienza e dice:

«Io stavo presso di Lui intenta ad ordinare le cose tutte, ed

4. È appunto in stretta relazione con questo il fatto che la liturgia «moralizza» così poco. In essa l'anima si forma; ma non attraverso una ela-borata dottrina della virtù o un esercizio sistematico, bensì vivendo nella luce dell'eterna Verità, nell'ordine genuino naturalmente e soprannatu-ralmente sano.

5. Ez 1,4 ss., e specialmente i versetti 12, 17, 20, 24, e 10,9 ss. 6. Prv 8, 30-31.

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ero tutta compiacenza giorno per giorno, ricreandomi (lu-dens) in sua presenza ogni momento, ricreandomi sul glo-bo terrestre ...».

Questa è la parola decisiva! Il Padre eterno si compiace che la Sapienza, il Fi-

glio, la Pienezza assoluta d'ogni verità, dispieghi di-nanzi a Lui in un'inesprimibile bellezza questo conte-nuto infinito senza alcuna «mira» – a che dovrebbe Egli «mirare»? –; ma nella pienezza più definitiva del senso, in mera e schietta gioiosità di vita: Egli «gioca» dinanzi a Lui.

E questa è la vita degli esseri più elevati, degli An-geli; essi, senza scopo, come lo Spirito li sollecita, si muovono dinanzi a Dio in un senso misterioso, sono dinanzi a Lui un gioco e un canto vivente.

Anche nell'ambito delle cose terrene vi sono due fenomeni che accennano alla stessa tendenza: il gioco del bambino e la creazione dell'artista.

Nel gioco il bambino non si propone di raggiunge-re nulla, non ha alcun scopo. Non mira ad altro che a esplicare le sue forze giovanili, a espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle paro-le, delle azioni, e con ciò a crescere, a diventar sempre più perfettamente se stesso. Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita; e il senso non è altro che questo: che essa si manifesti senza im-pedimenti, nei pensieri, nelle parole, nei movimenti, nelle azioni, si renda padrona dell'essere suo, semplice-niente esista. E giacché non mira a nulla di particolare, giacché si dispiega così spontaneamente e senza coerci-zioni, appunto perciò anche l'espressione riesce armo-nica, la forma limpida e suggestiva: il suo gesto si tramu-ta da sé in ritmo e immagine, in rima, melodia, canto.

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Questa è gioco: espandersi disinteressato della vita che prende possesso della propria pienezza, e ch'è piena di senso anche nella sua mera esistenza, ed è bella quando la si lascia a sé, quando non vi vengono introdotti in-tenti riflessi con precettistica mal illuminata pedago-gizzante, rendendola in tal modo innaturale.

Con l'avanzare degli anni, si presentano anche le lotte: la vita si sente agitata da conflitti e odiosa. L'uomo si pone dinanzi agli occhi ciò che egli vuole, ciò che egli deve, e cerca di realizzarlo nella sua vita e nell'essere suo. Ma qui esperimenta quante forze vi contrastino, e constata quanto di rado egli è veramen-te ciò che dovrebbe e vorrebbe essere.

Questa contraddizione tra ciò ch'egli potrebbe es-sere e quello ch'è in realtà, cerca di superarla in un al-tro ordine di realtà, nel mondo irreale dell'immagina-zione, nell'arte. Nell'arte l'uomo cerca di ristabilire l'unità tra ciò che vuole e ciò che ha; tra ciò che dev'essere e ciò che è; tra l'anima ch'è dentro di noi e la natura ch'è fuori di noi; tra il corpo e lo spirito. Tali sono le creazioni dell'arte. Non hanno dunque alcu-no scopo istruttivo, non mirano a insegnare determi-nate verità o virtù. Nessun artista si è mai proposto questo. Nell'arte l'artista non mira ad altro che a risol-vere questa tensione interiore, a dar espressione nel mondo dell'immaginazione a quella vita superiore a cui anela e che nella realtà raggiunge solo approssi-mativamente. L'artista non vuol altro se non dare una realtà esteriore al suo essere intimo e al suo anelito, assicurare alla verità interiore forma concreta. E an-che chi contempla l'opera d'arte non deve proporsi null'altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muo-versi liberamente, prendere consapevolezza della par-te migliore del suo essere, anelare al compimento del-

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la propria brama intima. Non deve perciò riflettere sopra con imbronciata critica «raziocinante» o cercar-vi dottrina o savî ammonimenti.

Ora la liturgia fa qualcosa di ancor più elevato. In essa viene offerta all'uomo l'occasione di realizzare, sostenuto dalla grazia, il senso più singolare e proprio del suo essere, d'essere quale egli dovrebbe e vorrebbe essere in conformità alla sua vocazione divina: un «figlio di Dio». Nella liturgia, dinanzi a Dio, egli deve «allietarsi della sua giovinezza». Questa è certamente una cosa del tutto soprannaturale, corrispondente però, nello stes-so tempo, alla natura intima dell'uomo. E poiché que-sta vita è più elevata di quella a cui dà occasione ed espressione la realtà consueta, essa trae forme e im-magini adeguate da quel dominio nel quale soltanto le può trovare, vale a dire nell'arte. Essa parla in ritmi e melodie; si muove con gesti solenni e misurati; si ri-veste di colori e paludamenti che non appartengono alla vita consueta; si svolge in luoghi e momenti che sono stabiliti e organizzati secondo leggi superiori. Diventa così, in un senso più elevato, una vita filiale e infantile in cui tutto è immagine, ritmo e canto7.

Questo pertanto il fatto mirabile che si offre nella liturgia: arte e realtà diventano un'unica cosa nella condizione soprannaturale del figlio e fanciullo insie-me, sotto lo sguardo di Dio. Ciò che altrimenti è dato solo nel regno dell'irreale, nell'immaginazione artistica, vale a dire le forme dell'arte come espressione della vita umana pienamente consapevole, qui è realtà. Le forme

7. Pur qui vale quanto s'è detto alla nota 2 del cap. Il simbolismo litur-gico, p. 63. In realtà la liturgia non desume le sue forme dall'arte, ma è in-vece il culto che sta al principio e l'arte della nostra epoca moderna è una creazione culturale che si è staccata e isolata da esso.

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dell'arte diventano la traduzione espressiva di una vita reale, sia pur soprannaturale. E anche questa ha un ele-mento comune con quella del bambino e dell'artista: è libera da ogni scopo, e perciò appunto piena del senso più profondo. Non è lavoro, ma gioco.

Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un'opera d'arte, questo costituisce il nucleo più inti-mo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa perce-piamo. E solo chi sa prendere sul serio l'arte e il gioco può comprendere perché con tanta severità e accura-tezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di pre-scrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, gli oggetti di culto.

Hai tu veduto mai con quale serietà i bambini stabi-liscono le regole nei loro giochi, in che modo deve svol-gersi il loro girotondo, come tutti debbano tenere le mani, che significhi questo bastoncino o quell'albero? Tutto ciò appare sciocco solo a chi non avverte il suo si-gnificato o senso e sa vedere la giustificazione d'un atto soltanto negli scopi che se ne possono addurre.

E non hai letto mai, oppure direttamente speri-mentato, con quale spietata serietà l'artista stia al ser-vizio dell'arte, come egli soffra sotto «la parola» che non si presenta adeguata all'idea, quale padrona esi-gente sia la forma?

E tutto ciò per qualcosa che non ha scopo! No, l'arte non ha nulla a che fare con gli scopi.

Qualcuno crede seriamente che l'artista si assog-getterebbe alle mille emozioni, alla febbre ardente della creazione, se con l'opera sua non mirasse ad altro che a dar ai lettori o agli spettatori un insegnamento che avrebbe potuto esprimere non meno bene in un paio di

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frasi trovate senza fatica, oppure in qualche esempio tratto dalla storia, ovvero con alcune fotografie ben azzeccate? Certo no! Essere artista significa lottare per esprimere la vita profonda, affinché, espressa che sia, essa possa esistere. E null'altro: ma non è già mol-to questo? È niente di meno che un'imitazione della creatività divina, della quale si dice che abbia fatto le cose ut sint, perché semplicemente esistano.

La stessa cosa fa la liturgia. Anch'essa ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressio-ne in mille forme alla vita dell'anima, vita santa alimen-tata da Dio, mirando a null'altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere. Con severissime leggi essa ha regolato il santo gioco che l'anima svolge dinanzi a Dio. Se vogliamo attingere il nucleo intimo di questo mistero, dobbiamo riconoscere: è lo Spirito Santo, lo Spirito del fervore e della santa disciplina, «che ha po-tere sulla parola»8; è esso che ha regolato il gioco, che l'eterna Saggezza dispiega dinanzi al Padre celeste nella Chiesa, il suo regno sulla terra. «E la sua delizia», pertanto, «sta nell'essere tra i figli degli uomini».

Può comprendere la liturgia solo chi non si scan-dalizza di questo, come ha fatto innanzitutto ogni ra-zionalismo. Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d'arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d'essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e «di-ventare come bambini»; rinunciando, una volta per

8. Terza della Ufficiatura di Pentecoste, responsorio.

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sempre, a essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersi a giocare, come fa-ceva Davide quando danzava dinanzi all'Arca dell'al-leanza. Può certo avvenire che persone troppo assen-nate, le quali, con la piena maturità, hanno perduto la libertà e la freschezza dello spirito, non lo compren-dano e ne facciano argomento di scherno. Ma anche Davide dovette sopportare che Michol ridesse di lui.

Il compito, pertanto, della educazione liturgica com-prende anche questo aspetto: l'anima deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sen-sibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo «adulta», bensì deve sapere anche vivere semplice-mente. Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell'attività utilitaria, imparare a essere prodiga di tempo per Dio; deve tro-var parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi a ogni momento: a che scopo e perché? Non voler far sempre qualche cosa, raggiungere qual-che cosa, qualcosa produrre od ottenere di utile, ben-sì apprendere a fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da Lui regolato della liturgia.

Da ultimo, anche la vita eterna non sarà che il com-pimento di questo gioco. E chi non comprende que-sto, potrà afferrare poi che il compimento celeste del-la nostra vita è «un cantico eterno di lode»? Non finirà costui per rientrare nella categoria delle perso-ne attive, che trovano inutile e noiosa tale eternità?

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CAPITOLO SESTO

LA SERIETÀ DELLA LITURGIA

La liturgia è arte divenuta vita. Quanto siano elabo-rate le sue forme, quanto proporzionati i suoi rapporti, quanto ricchi i suoi mezzi d'espressione, lo avverte chiaramente chiunque abbia un po' di sensibilità. Sor-ge così il pericolo che costui apprezzi il culto della Chiesa soltanto nei suoi valori estetici. Si può, infine, comprendere che la letteratura poetica colga della li-turgia prevalentemente il lato artistico; più preoccu-pante riesce la cosa, se questo lato viene messo troppo in rilievo anche in scritti che si occupano in modo parti-colare del culto liturgico. Basti ricordare ad esempio libri di valore come Geist des Christentums (Spirito del cristia-nesimo) dello Staudenmaier, oppure L'oblat dell'Huys-mans. L'autore, temendo che il suo libretto contro le sue intenzioni possa agire nella stessa direzione, si sente costretto a riprendere la questione nel presente capitolo.

Anche il solo considerare esteticamente l'opera d'arte le fa torto. Ciò che essa significa dal punto di vista puramente estetico, può essere valutato pienamente solo se lo si mette in relazione con la vita intera. Il puro logico o il moralista riesce meno pericoloso all'opera d'arte, perché egli non ha nessun rapporto con essa in linea di principio. Realmente rovinoso le riesce invece proprio chi la vuol concepire solo esteti-camente; l'«esteta», prendendo la parola e la cosa nel

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significato estremo e deteriore che essa ha assunto da Oscar Wilde in poi.

Questo vale ancora più quando s'ha a che fare non col mondo fantastico dell'opera d'arte, bensì con l'uomo reale, ovvero addirittura con quella possente unità a cui lo stesso Creatore-Artista, lo Spirito Santo, ha dato realtà di vita e forma d'arte, vale a dire l'Opus Dei della liturgia.

Gli esteti sono dovunque dei cattivi ospiti, scrocco-ni che partecipano da parassiti alla vita; ma in nessun luogo suscitano maggior sdegno che nel santuario. L'uomo di ristretti orizzonti che nella messa cantata non vuol altro che compiere il debito servizio al suo Dio; la donna affaticata che viene in chiesa per alleg-gerirsi un poco del peso delle sue sofferenze; l'amusi-ca moltitudine rozza che non percepisce nulla di tutta la bellezza che attorno le parla, le canta, le risplende, bensì cerca soltanto un po' di forza per la sua fatica quotidiana – tutti costoro comprendono la peculiare essenza della liturgia meglio del conoscitore, il quale «gusta» dopo la pienezza sonora di un Graduale la so-bria bellezza del Prefazio.

Tutto ciò conduce a formulare la questione speci-fica: cosa significa la bellezza nel complesso dell'Opus liturgico?

Innanzitutto una breve digressione che, però, non è inutile. Si ebbe già occasione di rendere attenti sul fatto che la vita della Chiesa si svolge in due direzioni.

In primo luogo essa costituisce una vita sociale operante, un possente tessuto di attività consapevol-mente funzionali, che trovano la loro unità nella me-desima costituzione ecclesiastica, avente sì molte membra, ma anche una struttura unitaria.

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Tale unità presuppone potenza e rappresenta essa stessa una potenza. Il che a sua volta suscita la questio-ne: che significa «potenza» nel campo religioso? La questione si presenta a ciascuno, a seconda del suo temperamento, in modo diverso. Per l'uno essa signi-fica riconoscere che ogni comunità, quindi anche la comunità religiosa, abbisogna di potenza, se vuol vi-vere. Essa non tradisce l'idea, se, dietro l'insegnamen-to, l'esortazione, l'ordinamento, pone la potenza. Questa forza esteriore non può mettersi al posto del-la verità e del diritto, né voler coartare i sentimenti: ciò è indiscusso. Non appena, però, si tratta di una re-ligione che non si limita alle idee e ai sentimenti, ben-sì mira a elevare la personalità reale e l'umanità reale al regno di Dio, pur esso reale, la religione deve aver anche della potenza. È questa che fa di una verità, di un ordinamento di vita religioso-morale, una forma concreta d'esperienza e convivenza sociale.

Ma se si danno temperamenti che sopportano a fa-tica che cose quali il diritto e la potenza, vengano senz'altro nominate assieme con realtà così intime e spirituali come le convinzioni religiose o la vita reli-giosa, ve ne sono pure altri dal carattere tutto oppo-sto. Un'immensità di potenza, qual è quella offerta dalla Chiesa cattolica, agisce su costoro con tale im-mediatezza che trascurano con facilità quello che a tutta codesta potenza dà il suo significato. Essa infatti è solo mezzo inteso allo scopo, strumento per elevare il mondo reale a vero regno di Dio, ancella della veri-tà e della grazia divina. Se si volesse una comunità spi-rituale senza una disciplina dotata di potere, essa fini-rebbe per svanire in schemi e ombre. Se, però, uno elevasse l'ancella a signora, il mezzo a scopo, lo stru-mento a spirito determinante, allora la religione fini-

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rebbe per soffocare nel meccanismo e nella servitù. Allo stesso modo che la potenza della Chiesa risiede nella sua vita attiva, la sua bellezza sta nella sua vita contemplativa. Questa non è soltanto una struttura funzionale per se stessa, bensì anche realtà, piena di senso, la quale diventa arte. Tale essa è quando prega: nella liturgia.

Il capitolo precedente ha cercato di mostrare in che cosa consista codesto valore d'arte e di finalismo autonomo della liturgia. Solo un gretto cerebralismo può cercare la giustificazione di una forma di vita esclusivamente negli scopi di carattere istruttivo o pratico, che se ne possono addurre. A questo riguar-do non si deve però dimenticare che il valore artisti-co, la bellezza, costituisce, per chi ne possiede una sensibilità particolare, un pericolo allo stesso modo che la potenza nel campo della vita sociale attiva. Il pericolo della potenza è superato solo da chi sa ren-dersi chiaro conto di ciò ch'essa è e dello scopo al quale serve. Allo stesso modo il fascino ingannatore della bellezza può essere spezzato soltanto da chi si sforza di coglierne il senso.

Una cosa che sta a sé è quella donde un valore spi-rituale trae la sua validità, sia che l'abbia per sé sia che la debba a un'altra superiore, sopraordinata. Del tut-to differente da questa è l'altra questione, in quale re-lazione, cioè, stia una validità riconosciuta come auto-noma rispetto agli altri valori pure autonomamente validi. Il primo problema cerca di ricondurre un'idea all'altra, ad esempio la validità della giurisprudenza al diritto in sé. Il secondo si preoccupa di chiarire se tra valori, la cui forma di validità è uguale, esista un ordi-ne determinato, che non possa essere sconvolto.

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La verità vale in sé, perché è verità, il diritto perché è diritto, la bellezza perché è e nella misura in cui è bellezza. Nessuna cosa che rientri in questo ambito può ottenere la sua validità da una cosa che apparten-ga a un'altra cerchia, bensì non può averla che da se stessa. Il pensiero più profondo e vero non rende bel-la un'opera, e il migliore sentimento dello scultore ancor meno, se ciò ch'egli ha creato non ha inoltre preso corpo, non s'è fatto immagine, non ha vigoria di forma, vale a dire, non è bello. La bellezza, come tale, è valida per sé, indipendente da ogni verità e si-mili. Bella è un'opera d'arte oppure una cosa reale, se l'intima sua essenza e significazione risulta perfetta-mente espressa nelle sue fattezze esteriori. Il fatto del-la bellezza implica questo «essere espressi in modo perfetto». Che tutto l'essere della cosa o dell'azione, quindi anche la sua relazione con la realtà tutta e col mondo spirituale, al primo sguardo, assuma forma dai limiti intimi del suo essere, che questa struttura in-teriore sia entrata pure in un'apparenza, in un feno-meno dotato di forza espressiva e si sia chiusa in una compiuta unità plastica; che sia detto tutto quanto dev'essere detto e niente di più; che siano impiegati tutti gli elementi formali che necessitano e solo que-sti; che nulla di morto e di vuoto rimanga nella figura esteriore, bensì tutto vi risulti animato e parlante; che ogni nota, ogni parola, ogni superficie, colore, movi-mento ubbidisca a una esigenza interiore, contribui-sca alla rivelazione del contenuto complessivo, s'arti-coli con gli altri a comporre un'unità matura e senza suture, questa espressione piena, limpida, necessaria della verità della vita interiore nell'apparenza esterna costituisce la bellezza. Pulchritudo est splendor veritatis

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– est species boni, dice l'antica filosofia: la bellezza è lo splendore di perfezione nel rivelarsi dell'intima verità essenziale e della bontà dell'essere.

Essa dunque è un valore a sé, non è né verità né bontà, e neppure può essere dedotta da queste. Tut-tavia sta in uno strettissimo rapporto con codeste due cerchie di valori. Il che significa: deve esserci qualcosa che possa rivelarsi all'esterno, una verità essenziale che urga all'espressione, un fatto intimo che voglia tradursi in forme concrete, perché la bellezza possa aver luogo. Il primo dato perciò – non per dignità né per validità, bensì per ordine – è la verità, non la bel-lezza, per l'artista forse non senz'altro, sebbene nella profondità intima lo sia anche per lui; certamente lo è per la totalità della vita umana.

«Il bello è lo splendore del vero», dice la scolastica. A noi uomini d'oggi questa affermazione sa di freddo intellettualismo. Se riflettiamo, però, che questa sen-tenza scaturisce dallo spirito di uomini, che furono ar-chitetti incomparabili di pensieri, che disciplinarono concetti, fissarono conclusioni, elevarono sistemi au-daci come le loro cattedrali, tutto questo ci ammonisce a penetrar più addentro il significato di queste parole. «Verità» non significa arida precisione di concetti, ben-sì adeguato inserimento nell'essere, interiore validità vitale; significa la forza e pienezza integrale di un'esi-stenza ricca di contenuto. E la bellezza è il gioioso splendore che ne promana, quando la verità nascosta all'ora giusta può rivelarsi, quando l'apparenza esterio-re in ogni suo particolare è la pura e piena espressione della realtà interiore. Dunque, perfezione espressiva e non solo in superficie, ma dall'inizio primo dell'atti-vità formante: si può forse definire con maggior pro-fondità e insieme brevità l'essenza del bello?

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Al bello, pertanto, rende giustizia solo chi rispetta questo ordine e lo intende come lo splendore della verità ontologica perfettamente espressa.

Ma si presenta un grande pericolo, tale da essere difficilmente evitabile per molte nature: il pericolo di invertire l'ordine stabilito, di anteporre la bellezza alla verità, oppure di rendere del tutto indipendente la prima dalla seconda: la perfezione formale dal con-tenuto, l'espressione dall'anima e dal senso. È appun-to questo il pericolo della visione del mondo estetica, che finisce poi in snervato estetismo.

Il suo rischio è di scivolare con maggior o minore rapidità dal quid dell'oggetto considerato al quomodo, dal contenuto al modo della sua rappresentazione, dal valore reale al valore formale, dalla verità nella sua serietà, dall'esigenza morale inflessibile, all'armo-nia dissolvente del bello. La qual cosa può avvenire con maggiore o minore consequenzialità, con maggior o minore consapevolezza; ma alla fine codeste nature concludono a un atteggiamento spirituale che ignora tanto la specifica verità del contenuto col suo rigoro-so «Questo e non altro», quanto l'idea morale col suo incondizionato dilemma «O questo o quello»; bensì ricerca la pienezza del significato soltanto nella forma e nell'espressione. Il reale, si tratti di una cosa della natura o di un fatto della storia, d'un uomo, d'un do-lore, d'una simpatia, di un lavoro, di questioni di di-ritto, di conoscenze, di idee – tutto fino alla realtà più elevata – riesce, come cosa concreta, insignificante. Ciò vale solo come presupposto del fatto espressivo1.

1. Le Intentions (1891) di Oscar Wilde parlano a questo riguardo in tutta la chiarezza desiderabile.

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Sorge cosi l'ombratile struttura della forma assolu-ta, un quomodo senza quid, uno splendore senza fiamma, un'azione in cui non pulsa alcun vigore2.

A chi pensa così riesce inafferrabile la profondità dell'opera d'arte e il criterio per misurarne la vera grandezza. Egli non la concepisce più ormai quale essa è intrinsecamente: superamento e confessione. E non riuscirà neppure a render giustizia alla stessa for-ma alla quale soltanto egli è pure inteso, poiché il sen-so della forma sta nell'essere espressione di un conte-nuto, modo di esistere di un essere.

L'anima della bellezza è la verità. Chi non guarda a questa luce, alla luce di ciò che realmente è e realmen-te vale, costui degrada il suo gioco gioioso e pure tan-to profondamente serio a vano dilettantismo. In ogni creazione schietta e grande v'è qualcosa d'eroico, per-ché qui un fatto interiore si è conquistato, nonostante ogni resistenza, la sua espressione verace. Qui è stata combattuta una buona battaglia, qui un essere consa-pevole della sua parte migliore ha respinto da sé tutto ciò che di estraneo gli si era abbarbicato, ha ridotto in chiara disciplina tutti gli elementi confusi che vi turbi-navano, si è sottomesso alla propria legge fondamen-tale. Un mondo interiore ha così dato testimonianza di ciò ch'esso era e doveva essere, e di ciò che in esso si celava quale sua verace missione e funzione essen-ziale. Ma tutto questo diventa per l'esteta vano diver-timento (Spielerei).

E c'è ancora dell'altro. L'estetismo, nel suo fondo, è senza pudore, mentre la vera bellezza è casta. Que-

2. Pure queste determinazioni e contrapposizioni sono troppo sem-plici; possono comunque servire sempre a un'ulteriore elaborazione.

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sta parola non deve essere presa in un senso superfi-ciale. Essa non riguarda la questione se questa o quel-la cosa si possa fare, dire, rappresentare; bensì signifi-ca piuttosto quest'altro: ogni manifestazione del proprio intimo deve essere sostenuta da un imperati-vo interiore, giustificata da valori eterni, da essi per-messa, anzi comandata. Ma il criterio di questa liceità e obbligatorietà si radica soltanto nella verità, nella verità oggettiva del contenuto ideale e in quella sog-gettiva della schietta esperienza interiore. Al contra-rio, una manifestazione di sé che cerchi il suo fonda-mento nel mero fatto di rivelarsi, nella stessa forma ed espressione, non ha più dignità.

Siamo condotti ancor più oltre da queste rifles-sioni. Nonostante l'impulso più autentico e la giustifi-cazione nella più schietta verità spirituale, ogni vera interiorità rifugge dal manifestarsi, proprio quando essa ridonda di ogni dote positiva. È anzi questa la do-lorosa necessità di ogni vita interiore: di potersi libe-rare dall'oppressione del proprio mutismo solo espri-mendosi, e, tuttavia, di ripugnare a codesto uscir da se stessa, per tema di perdere con ciò quanto di più nobile possiede. La pienezza di ogni vita interiore sta nell'attimo in cui essa, lievitando, si dischiude in forma adeguata al suo essere. Ma subito essa sente, come in un contraccolpo doloroso, che qualcosa di ineffabilmen-te prezioso s'è perduto irrimediabilmente.

Questo fatto avviene in ogni creazione artistica ge-nuina. Come un rossore per la parola certo pronun-ziata volentieri, a cui però segue, quale segreto rim-provero, un disagio spesso indefinibile, sorgente da lontananze mai conosciute fino a quel momento, come un rapido rinserrarsi delle labbra che vorrebbe-

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ro riprendersi la confessione fatta. E chi intende dav-vero intravvede abissi ancora inespressi e ricchezze castamente serbate dietro a ciò che, abbandonandosi, ha preso forma. Proprio questo dare e possedere an-cor altro, questo apparire e ritrarsi di luminose pro-fondità, questo lottare per l'espressione, questo vitto-rioso e giubilante prorompere insieme con un rinchiudersi pudicamente doloroso – proprio tutto ciò costituisce il fascino più delicato del bello.

Ma tutto questo, tutta la bellezza contenuta quasi gemma primaverile nella creazione genuina, va per-duta per l'esteta senza reverenza, e riesce impercetti-bile agli occhi miopi di chi cerca la bellezza per la bel-lezza, l'espressione per l'espressione.

Chi aspira a una «vita in bellezza», innanzi tutto non può voler null'altro che essere vero e buono. Se la sua vita è vera, essa riesce anche bella di per sé, allo stesso modo che la luce irraggia, non appena la fiam-ma è accesa. Ma se uno cerca per prima cosa il bello, in tal caso gli accade come a Edda Gabler, di rimane-re, cioè, alla fine soprattutto nauseato.

Allo stesso modo, per quanto strana possa suonare l'affermazione, neppure l'artista nell'atto di creare può cercar la bellezza come tale, quando almeno sot-to il nome di bellezza intenda qualcosa di più profon-do che una certa grazia delle forme esteriori o un or-pello piacevole. Egli deve piuttosto impegnare tutte le forze dell'anima sua nel diventare vero e giusto, nel cogliere in schietta veracità e nel vivere personalmen-te quanto riempie il mondo interiore ed esteriore. E di conseguenza egli, nemico com'è di ogni effetto ap-pariscente e di ogni verità deve esprimersi così come deve essere, senza neppure una linea di più. Allora

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anche la sua opera, nel caso ch'egli sia veramente un artista, riesce bella, deve riuscire bella. Ma se l'artista cerca di evitare codesta via certamente faticosa della verità e vuol conquistare la forma partendo dalla for-ma, in tal caso il suo prodotto sarà un'opera vana ca-pace solo di abbagliare.

E chi vuol cogliere un uomo, o una creazione arti-stica nella sua bellezza, – non diciamo «gustare», pa-rola antipatica, che pone la bellezza allo stesso livello di una leccornia e trae la sua origine da quel mondo senza dignità che combattiamo, – chi dunque vuol pe-netrare nel loro intimo segreto, deve partire dalla loro anima. Innanzitutto e in linea di principio, farà bene a non soffermarsi troppo sull'espressione e sull'armonia dei suoni e dei colori, bensì piuttosto a cercare di cogliere l'interiore verità di questo organi-smo vivente. Per questa via al momento giusto egli av-vertirà come questo mondo si è tradotto nella sua for-ma, nel complesso e nei particolari, e sperimenterà il lieto prodigio di questa fioritura. In tal modo egli sarà penetrato nell'intimo nucleo della bellezza, forse sen-za riconoscerla – fosse pure soltanto perché gode la felicità di sentire un'esistenza piena e chiara.

Chi invece persegue la bellezza per se stessa, se la vede sfuggire, e insieme sconvolge la propria vita e la propria opera, perché ha peccato contro l'ordine fon-damentale dei valori. Quando invece uno non vuol che vivere sinceramente nella verità, esser cioè vero, e dire la verità, e a essa tiene aperta la propria anima, costui incontra la bellezza senza che la cerchi, inspera-tamente, come il luminoso evento di una vita ricca, casta, compiuta nella sua forma.

Colleghiamo adesso quanto finora dicemmo alla

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liturgia. Incombe il pericolo che anche qui si affermi l'estetismo, che la liturgia sia prima esaltata, poi ap-prezzata esteticamente, particolare per particolare, nelle sue preziosità, infine che la santa bellezza della casa di Dio venga gustata con raffinatezza da compe-tenti, fino al punto da ridurre «la casa della preghie-ra», sia pur in modo nuovo, «a spelonca di ladroni».

Ma questo non può essere e a motivo di Colui che abita in essa, e a motivo dell'anima nostra!

Non per creare delle immagini, frasi armoniose, cerimonie suggestive e solenni la Chiesa ha edificato l'«Opus Dei» bensì – poiché non si prefiggeva altro scopo all'infuori dell'onore di Dio – per i bisogni più seri delle nostre anime. Qui s'è dovuto esprimere ciò che costituisce la vita intima dell'umanità cristiana: la vita divina, nella persona del Cristo, nell'atto in cui si inserisce nella creatura per opera dello Spirito Santo, la rinascita di questa creatura a un'esistenza nuova, realmente e veramente rinnovata nell'essere e nella vita; la crescita, lo sviluppo, il dispiegamento di que-sta vita nuova per virtù di Dio nel sacramento e nella grazia e per contributo dell'uomo nel sacrificio e nel-la preghiera; e tutto questo nel rinnovamento costan-te, misteriosamente reale della vita di Cristo nel de-corso dell'anno ecclesiastico. Liturgia è appunto il fatto complesso per cui tutto ciò si compie, si manife-sta, viene insegnato, comunicato, accolto in forme de-terminate della parola, del gesto, degli oggetti di culto, del simbolo. Di realtà, pertanto, dell'avvicinamento della creatura reale al Dio vero, della questione spie-tatamente seria della salute eterna – di questo si tratta qui anzitutto e soprattutto. Nessuna bellezza qui do-veva essere rivelata, bensì l'umanità perduta del pec-

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cato doveva trovare la sua salute. È della verità che qui si tratta, del destino delle anime, della vita vera, anzi, in ultima analisi, dell'unica vita reale. Questo doveva essere manifestato attraverso ogni mezzo e forma d'espressione. Ed ecco, che tutto ciò è assurto a bel-lezza3. Nessuna meraviglia giacché colui che qui ha agito è lo Spirito insieme della verità e della potenza espressiva. Ciò che dentro ferveva, si è espresso nella più schietta veracità; tutta la pienezza di vita qui si è tradotta adeguatamente; le profondità abissali sono emerse in limpide forme. Uno splendore di eccelsa maestà è così irradiato da questa nascita della verità: e non poteva essere altrimenti.

Ma per noi la liturgia dev'essere innanzitutto que-stione di salvezza. La sua verità e il suo significato vita-le devono occupare per noi il primo piano. Quando recitiamo le preghiere e i salmi, dobbiamo lodare Dio e pregarlo, e nulla più. Quando partecipiamo alla Santa Messa, dobbiamo saperci vicini alla fonte della grazia.

Quando assistiamo a una consacrazione sacerdota-le, non dobbiamo vedere nella cerimonia null'altro che un elemento dell'umanità investito dalla grazia di Dio. Non si tratta dunque per noi di riti intensamente espressivi e di parole possenti per stile, quasi stessimo dinanzi a un palcoscenico dello spirituale, bensì di av-vicinarci un po' di più con la realtà della nostra anima

3. Giustamente perciò l'ab. Idelfons Herwegen dice: «Io insisto, la liturgia è divenuta opera d'arte, non è stata consapevolmente foggiata dal-la Chiesa c o m e opera d'arte. La liturgia portava in sé tanto dell 'essenza del bello, che di per sé doveva maturare a opera d'arte. Il principio però c h e dall 'interno dava forma e figura era l'essenza del cristianesimo». Cfr. Das Kunstprinzip der Liturgie, Paderborn 1916, p. 18.

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alla realta di Dio per esigenze nostre, spietatamente serie, che promanano dalla nostra intima personalità. Solo quando agiamo così, ci viene elargita anche la sua bellezza. Solo quando viviamo la realtà liturgica con la serietà della più intima partecipazione, ci si rende manifesto se, e come, e con quale perfezione questo contenuto di vita si sia espresso. Solo quando moviamo dalla verità della liturgia, ci si aprono gli oc-chi, così da permetterci di percepire quanto essa sia bella. Questo può avvenire in gradi diversi, a seconda della nostra sensibilità maggiore o minore per il mon-do estetico. Forse è solo una sensazione di compia-cenza – non per altro molto consapevole – per la pro-fonda rispondenza di tutte le parole e dei riti alle esigenze del mondo interiore, il senso di una tranquil-la naturalezza, la coscienza che tutto è in ordine ed è proprio come dovrebbe essere. Sopra e oltre questa coscienza indistinta, ecco rifulgerci un bel giorno un Offertorio che nella cerimonia è incastonato come un gioiello. La struttura di un Oremus diventa trasparen-te e noi sperimentiamo la preziosa meraviglia di una profondità assieme limpidissima e abissale. Oppure, una parte dopo l'altra, ci si rivela la possente succes-sione delle alte cime della Santa Messa, come emergo-no dalla nebbia diradantesi e pareti e dossi e vette d'una montagna, pure e luminose, così che a noi sem-bra di vederle per la prima volta. Ci può accadere allo-ra di lasciar cadere il libro e di indugiare in una lunga sosta, ravvivata di letizia, ma anche pervasa dal brivi-do della reverenza, quando intuiamo come le verità supreme che compiono tutte le nostre aspirazioni hanno trovato qui la loro parola.

Ma codesti sono brevi momenti, che noi dobbia-

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mo prendere, quando vengono, come trovati, come donati.

Al contrario per la vita quotidiana vale anche in questo caso la regola: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia», «e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù»; tutto, quindi anche l'esperienza del bello.

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CAPITOLO SETTIMO

IL PRIMATO DEL LÒGOS SULL'ETHOS

La liturgia mostra un'altra caratteristica che la ren-de estranea ai temperamenti attivistici dalle disposi-zioni particolari alla gravità morale: la sua posizione particolare rispetto all'ordine morale.

Anzitutto, codesti temperamenti sentono nella li-turgia questa mancanza: che la sua etica non ha rap-porti molto immediati con la vita reale di ogni giorno. Essa non offre allo sforzo e alla lotta quotidiana alcun impulso traducibile immediatamente in azione e nep-pure pensieri immediatamente valorizzagli. Le è pro-prio un certo riserbo, un certo distacco dalla vita con-creta; essa si compie nell'ambito del santuario, solenne e sempre alquanto appartato dal mondo. C'è un con-trasto tra lo studio, la fabbrica, l'officina dell'organiz-zazione scientifica odierna, tra le arene della vita politi-ca e sociale e i santi luoghi consacrati al culto solenne di Dio; tra il robusto realismo d'oggi e il mondo di pensieri e d'intenti nobilmente misurato della litur-gia, nelle sue forme limpide e distinte.

Non si può tradurre senz'altro nell'azione quello che la liturgia presenta. Così saranno sempre necessa-rie delle forme di devozione, sorte da una relazione più stretta con l'attuale realtà esteriore della vita; de-vozioni popolari, in cui la Chiesa risponde ai bisogni particolari dell'esistenza d'oggi, con cui essa afferra

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immediatamente l'anima contemporanea e la condu-ce a conclusioni pratiche. Alla liturgia spetta invece, prima di tutto, di suscitare i fondamentali sentimenti cristiani. Essa vuol condurre l'uomo a inserirsi nell'ordi-ne esatto ed essenziale che s'accentra in Dio, a divenire intimamente «giusto» nell'adorare Dio e nel rendergli i dovuti omaggi, nella fede e nell'amore, nello spirito di penitenza e di sacrificio. Quando verrà posto nella condizione di agire, egli farà certamente ciò ch'è giu-sto, in conformità a quello stesso orientamento.

La questione, però, conduce oltre. Che atteggia-mento tiene in genere la liturgia di fronte all'ordine morale? In quale rapporto sta in essa il volere rispetto alla conoscenza, il valore di verità rispetto al valore di bontà? In che relazione, per formulare in due parole il problema, stanno in essa Lògos ed Ethos? Ci sia per-messo, per rispondervi, di rifarci alquanto indietro.

Il Medioevo, lo si può ben affermare, ha prevalen-temente risolto la questione dei due valori fondamen-tali, ponendo, almeno teoricamente, la conoscenza al di sopra dell'azione. Per esso il Lògos aveva il primato sull'Ethos. Prova ne è il modo in cui certe questioni frequentemente discusse vennero risolte1, l'incondi-zionata superiorità riconosciuta alla vita contemplati-va rispetto a quella attiva2; ciò emerge infine quale

1. Cfr. le discussioni sulla funzione della teologia, sul suo carattere di scienza «pura» ovvero orientata verso il miglioramento morale; sull'es-senza dell'eterna beatitudine, se questa consista nella visione di Dio oppu-re nell'amore; sulla dipendenza della volontà dalla conoscenza e simili.

2. È significativo che gli ordini attivi femminili cominciarono a sor-gere solo nel secolo XVII, e tra l'avversione universale. Istruttiva a questo riguardo è in particolare la storia dell'ordine della Visitazione.

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aspirazione fondamentale da tutta la mentalità me-dioevale orientata verso l'al di là.

L'età moderna portò a questo riguardo una pro-fonda mutazione. I grandi organismi politico-sociali: associazioni di ceto e di mestiere, comuni, impero, s'incrinarono. L'autorità ecclesiastica non ebbe più l'incondizionata validità, anche temporale, di prima. Dovunque emerse il singolo sempre più vigorosa-mente e si assicurò un'indipendenza sempre maggio-re. Questo carattere individualistico generò innanzi-tutto la critica scientifica, e in modo particolare la critica alla stessa conoscenza. Il problema dell'essen-za del conoscere, prima posto a preferenza in modo costruttivo, assunse ora, in conseguenza di profondi sconvolgimenti spirituali, la sua forma propriamente critica. Il conoscere divenne problematico, di conse-guenza il punto di sostegno e il baricentro della vita spirituale passò poco alla volta nel volere. L'azione della persona, che si fondava su se stessa, divenne sempre più importante. Così la vita attiva venne ante-ponendosi a quella contemplativa, la volontà alla co-noscenza. Nello stesso ambito dell'attività scientifica, che pure è essenzialmente impostata sul conoscere, venne attribuito alla volontà uno specifico significato. Dall'antica indagine intesa a penetrare la verità data come tale e sicura, si passò ora all'insonne investiga-zione della verità ignota e incerta. Al posto della riela-borazione ed esposizione scolastica si generalizzò sempre più l'educazione alla ricerca autonoma. L'in-tero mondo scientifico assunse un carattere di intra-presa e di conquista violenta. Esso divenne una pos-sente comunità di lavoro, che crea senza posa.

Questa caratteristica fondamentale attivistica fu

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anche affermata dottrinalmente, come principio. E questo avvenne nel modo più rigorosamente logico da parte di Kant. Egli pose accanto al mondo della rappresentazione, della natura, il solo accessibile all'intelletto, il mondo della realtà, della libertà, in cui agisce il volere. Dai postulati della volontà egli fa sca-turire un terzo mondo, il mondo noumenico di Dio e dell'anima contrapposto all'esperienza. E mentre l'in-telletto per conto proprio non può affermare nulla intorno a questi ultimi oggetti, poiché esso è chiuso nell'ordine della natura, tuttavia, dalle esigenze della volontà, impotente a vivere e ad agire senza quelle realtà superiori, riceve la fede nella loro realtà e il su-premo orientamento per la sua visione del mondo. Con ciò è data la giustificazione del «primato della vo-lontà». La volontà – e con essa la gerarchia dei valori morali del bene che le appartiene – ha il primato sull'intelletto e sulla gerarchia dei valori che gli è pro-pria: L'Ethos ha ottenuto il primato sul Logos.

Il ghiaccio è rotto; ora tien dietro tutta quella linea d'evoluzione filosofica che, al posto del «puro vole-re», concepito da Kant logicamente, pone il volere psicologico e fa di questo l'unico padrone della vita; Fichte, Schopenhauer, von Hartmann, fino a che essa trova la sua estrema espressione in Nietzsche. Questi proclama la «volontà di potenza»: per lui è vero ciò che rende sana e nobile la vita, ciò che fa progredire l'umanità sulla via che conduce al «superuomo».

In tal modo è pure dato il pragmatismo: la verità nel campo filosofico e religioso non costituisce un va-lore autonomo, bensì l'espressione concettuale del fatto che una proposizione o un modo di pensare promuove la vita attiva, nobilita il carattere, l'intero

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atteggiamento della volontà3. La verità nella sua so-stanza è un fatto morale.

Questa preminenza del volere e dei suoi valori co-munica all'epoca presente la sua peculiarità. Di qui la sua insonne spinta in avanti, la folle velocità del suo lavoro, la furia del suo godere; di qui la venerazione del successo, della forza, dell'azione; di qui la sua aspi-razione alla potenza; di qui, in genere, lo spiccato sen-so per il valore del tempo e la tendenza a sfruttarlo at-tivamente fino all'ultimo. Da qui viene anche che istituzioni spirituali come gli antichi ordini contemplati-vi, già viste come qualcosa di ovvio nel complesso della vita religiosa, oggetto di predilezione per tutto il mon-do credente, ora non trovano spesso comprensione neppure presso cattolici, e debbono essere di conti-nuo difese dai loro amici dalla taccia di ozioso perdi-tempo. E se questo atteggiamento spirituale è già tan-to spiccato in Europa, la cui cultura ha profonde radici nel passato, nel nuovo mondo esso si manifesta completamente, senza attenuazioni né compromessi. Un accentuato attivismo domina tutto; l'Ethos ha la netta preminenza sul Lògos, l'aspetto attivo della vita su quello contemplativo.

Che atteggiamento tiene la religione cattolica di fronte a questo sviluppo? Bisogna riaffermare subito il principio che il bene di ogni età e di ogni conforma-zione spirituale può trovare il suo compimento in quella religione, che sa essere veramente tutto a tutti.

3. Questa corrente ha avuto il suo influsso anche sul pensiero teolo-gico cattolico. Qualche teoria modernista rappresenta il tentativo di far dipendere il dogma, la verità teologica, dalla vita cristiana e di cercare il suo significato non nel suo «valore di verità», bensì esclusivamente nel suo «valore di vita».

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Anche il possente dispiegamento di forze che caratte-rizza l'ultimo mezzo millennio ha potuto essere accol-to dalla Chiesa e dalla vita cattolica, che ha così potu-to manifestare nuovi aspetti della sua inesauribile pienezza. Occorrerebbe una lunga ricerca per mo-strare quante significative personalità, istituzioni, fat-ti, dottrine siano state suscitate nella vita cattolica da questa tendenza del tempo.

Deve essere anche detto, però, che questa spiccata preminenza della volontà sulla conoscenza, dell'Ethos sul Lògos, contraddice allo spirito del cattolicesimo.

Il protestantesimo nelle sue forme diverse, dalla tendenza ortodossa all'estremo appiattimento della libera critica, rappresenta l'espressione più o meno religioso-cristiana di questo spirito; e con pieno dirit-to Kant è detto il suo filosofo. Questo spirito ha pro-gressivamente sacrificato la salda verità religiosa, e ha fatto della convinzione religiosa, sempre più di gior-no in giorno, un mero oggetto del giudizio, del senti-mento, dell'esperienza personale. La verità scivolò così dal dominio dell'oggettivamente saldo a quello del soggettivamente fluttuante. In tal modo venne da sé che la volontà assumesse la funzione direttiva. Dal momento che il credente in fondo non aveva più una «vera fede», bensì solo un'esperienza della fede del tutto personale, l'unica cosa salda diveniva logica-mente non più un contenuto di fede professabile e in-segnabile, bensì la dimostrazione della rettitudine dello spirito mediante la rettitudine dell'azione. Qui non si può più parlare ormai di una cristiana afferma-zione dell'essere in senso proprio. Il credente si era radicato non più nell'eternità, ma nel tempo, e l'eter-nità prendeva figura ed entrava in relazione col tem-

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po solo per la mediazione del sentimento, non in via immediata. In tal modo la religione prese un orienta-mento sempre più mondano (weltfreudig). Essa diven-ne sempre più la consacrazione dell'esistenza umana temporale nei suoi aspetti più vari, una santificazione dell'attività terrena: del lavoro professionale, della vita sociale, della famiglia e simili. Ma chiunque abbia considerato per un certo tempo queste cose, rileva quanto inadeguata sia questa spiritualità, quanto con-traddica alle leggi supreme dell'esistenza e dell'ani-ma. Essa è falsa e perciò innaturale nel più profondo significato di questa parola. Qui sta la fonte specifica dell'angustia dell'età nostra. Essa ha infatti invertito il santo ordine della natura. Goethe ha realmente toc-cato l'intimo nucleo della situazione quando fece scri-vere al suo Faust, preso dal dubbio, le parole: «In principio era l'azione» al posto della frase: «In princi-pio era il Verbo».

Passando il centro di gravità della vita dalla cono-scenza al volere, dal Lògos all'Ethos, la vita si fece sem-pre più instabile. Alla persona singola si richiese di reggersi su se stessa. Ma questo può farlo solo una vo-lontà che sia realmente creativa nel senso più assoluto della parola; proprietà questa che è soltanto della vo-lontà divina4. Si pretese dall'uomo un contegno che presuppone l'uomo essere Dio. E siccome egli non lo è, s'insinua nel suo essere una specie di convulsione

4. La stessa ragione anzi ci dice che Dio è assieme verità e bontà, non mera volontà assoluta; la Rivelazione ha suggellato anche questa come ogni conoscenza di realtà religiose, mostrandoci come il «primo» momento della vita trinitaria divina sia la generazione del Figlio dalla co-noscenza del Padre, e come solo «secondo» sia il momento dello spirare dello Spirito Santo dall'amore d'entrambi.

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spirituale, un atteggiamento di violenza impotente che talvolta appare tragico, ma negli spiriti dalle pic-cole proporzioni riesce strano, anzi ridicolo. Su que-sta mentalità ricade la colpa del fatto che l'uomo d'og-gidì assomiglia tanto spesso a un cieco che brancola nel buio; giacché la forza fondamentale su cui egli ha poggiato la sua vita, vale a dire il volere, è cieca. La vo-lontà può volere, agire e creare, non, però, vedere. Di qui procede anche tutta quella irrequietudine che non trova riposo in nessun luogo. Nulla perdura, nul-la rimane saldo, tutto si muta, e la vita è un perenne divenire, un anelare, un ricercare, un pellegrinare senza posa.

La religione cattolica si oppone con tutta la sua forza a questa mentalità. La Chiesa perdona ogni al-tra mancanza più facilmente che un attentato alla ve-rità. Essa sa bene che, se uno manca ma non intacca la verità, egli può ritrovarsi e riprendersi. Ma s'egli in-tacca il principio, in tal caso è lo stesso santo ordine della vita che è levato dai cardini. La Chiesa ha pure guardato sempre con profonda diffidenza a ogni con-cezione moralistica della verità, del dogma. Ogni ten-tativo infatti di fondare il valore di verità del dogma sul suo valore per la vita, è nel suo intimo, anticattoli-co. La Chiesa pone la verità, il dogma come un dato assoluto, riposante su se stesso, che non abbisogna di nessuna fondazione sulla base dell'ambito morale o pratico. La verità è verità, perché è la verità. È in sé e per sé indifferente ciò che la volontà le dice o se essa possa dare inizio con la verità a qualche intrapresa. Il volere non deve giustificare la verità, né essa ha biso-gno di giustificarsi dinanzi a esso, bensì quello deve ri-conoscersi del tutto incompetente di fronte a questa.

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Il volere non crea la verità, ma la trova; deve ricono-scersi cieco e perciò bisognoso di luce, della guida, della potenza ordinatrice e formatrice della verità. Il volere deve fondamentalmente riconoscere il primato della conoscenza sulla volontà, del Lògos sull'Ethos5.

Questo «primato» è stato frainteso. Non è questio-ne qui di una preminenza di valore o di dignità, e nep-pur si vuol dire che il conoscere sia per la vita umana più importante che l'agire. E ancor meno si son volu-te dare indicazioni, se una cosa debba essere colta con il pensiero o con l'azione. L'uno ha tanto valore, dignità, importanza per la vita complessiva quanto l'altra. Dipende dalle disposizioni individuali il fatto che nella vita di una persona l'accento cada sul cono-scere piuttosto che sull'agire; e una disposizione vale quanto l'altra. Si tratta qui piuttosto di una delle que-stioni supreme della filosofia della cultura e precisa-mente: a qual valore, nel complesso della civiltà e del-la vita umana, spetta la funzione direttiva? Si tratta dunque di un primato d'ordine, non di dignità, signi-ficato o frequenza d'uso.

Se però si esamina più da vicino e più a lungo la questione, si avverte facilmente che la formula «pri-mato del Lògos sull'Ethos» potrebbe anche non essere la decisiva e suprema. Forse si deve dire piuttosto: nell'ambito complessivo della vita il primato definiti-vo deve averlo non l'agire, bensì l'essere. In fondo non si tratta dell'agire, ma del divenire: non ciò che si

5. Si parla di conoscenza, non del concetto; del primato della vita cono-scitiva sulla pratica, della contemplativa sulla attiva, nel senso in cui l'ha intesa il Medio Evo, sia pur senza le sue peculiarità storico-culturali. Dalla signoria del mero concetto invece, quale esso se l'è assicurata da un mez-zo secolo, non possiamo mai svincolarci abbastanza radicalmente.

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fa, bensì ciò che è costituisce il valore supremo. E il va-lore definitivo non sta nella visione del mondo mo-ralistica, ma in quella metafisica, non nel giudizio sul valore, ma in quello sull'essere, non nello sforzo, ma nell'adorazione.

Questi pensieri però conducono fuori dell'ambito di questo libretto.

La questione ulteriore, se non debba essere rico-nosciuto un supremo primato dell'amore, sembra rientrare in un'altra serie di considerazioni. La deci-sione relativa è forse tale che può ritrovarsi nelle pos-sibilità esaminate più sopra. Ammesso infatti che la verità sia il valore decisivo, non è con ciò ancora stabi-lito se essa sia «la verità cercata nell'amore» oppure una fredda maestà; l'Ethos può essere un dovere della legge, come presso Kant, oppure un dovere che sca-turisce dall'amore creativo. E anche rispetto all'essere rimane aperta la questione se esso ci stia dinanzi come alcunché di inesorabilmente incombente, in su-prema istanza, oppure esso stesso costituisca l'amore che supera ogni misura, in cui anche l'impossibile di-venta possibile, a cui la speranza può appellarsi con-tro ogni speranza. Tutto questo vuol significare il pro-blema, se l'amore non sia la realtà più grande. E in verità lo è. Niente altro infatti che questo ci ha annun-ziato «la lieta novella».

In questo senso dunque, per il primato della verità ma «nell'amore», deve essere risolta la questione del-la quale ci siamo occupati.

Non appena questo primato venga ristabilito, si of-fre anche il fondamento della sanità spirituale. L'ani-ma infatti abbisogna di un terreno assolutamente sal-do su cui reggersi. Essa abbisogna di un appoggio da

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cui possa spingersi oltre se stessa, di un punto sicuro fuori di essa, e questo punto non può essere che la ve-rità. Il riconoscimento della verità oggettiva è il fatto fondamentale della liberazione spirituale: «la verità vi farà liberi»6. L'anima abbisogna di quella liberazione interiore in cui la concitazione del volere si placa, l'ir-requietudine dell'anelito si calma, il grido della bra-ma tace; e questo si verifica fondamentalmente e in prima linea nell'atto intenzionale in cui il pensiero ri-conosce la verità, lo spirito ammutolisce dinanzi alla maestà sovrana della verità.

Il dogma, il fatto della verità incondizionata, che sussiste indipendentemente da ogni giustificazione d'utilizzabilità pratica, immobile ed eterna, è davvero qualcosa di ineffabilmente grande. E se esso in un'ora fortunata s'accosta un poco più da vicino allo spirito, quest'ultimo sente come di toccare la garanzia miste-riosa della sanità del mondo, intuisce che il dogma è in certo modo il guardiano dell'essere tutto, che esso è veramente e realmente la roccia su cui tutto riposa. «In principio era il Verbo, il Lógos!».

Perciò il tono di fondo della vita genuina e sana è contemplativo. L'energia della volontà, dell'azione, della ricerca, per quanto intensa possa diventare, deve riposare sopra una profondità che è calma, che s'affisa nelle immutabili verità eterne. Questo è il sen-tire che ha le sue radici nell'eternità. Esso ha la pace; possiede quella serenità immune da tensioni che rap-presenta la vittoria sopra la vita. Non ha fretta, ha tempo: può pertanto attendere e lasciar crescere7.

6. Gv 8, 32. 7. Cfr. in proposito R. Guardini, Wille und Wahrheit (Esercizi spiri-

tuali), Mainz 1934; tr. it. Volontà e verità, Morcelliana, Brescia 1978.

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Questo atteggiamento spirituale è veramente cat-tolico. E se è pur vero che, per qualche riguardo, il cattolicesimo è «arretrato» rispetto alle altre confes-sioni, transeat! Esso non poteva partecipare alla furio-sa caccia a cui si è abbandonata la volontà sciolta da ogni pastoia dopo aver spezzato le leggi eterne. Esso ha, però, conservato qualcosa di insostituibilmente prezioso: il primato del Logos sull'Ethos, e in tal modo l'accordo con le leggi immutabili d'ogni vita.

Quantunque in tutto questo discorso non si sia an-cora parlato della liturgia, tuttavia tutto fu detto per essa. Nella liturgia il Lògos ha la preminenza, che gli spetta, sulla volontà. Di qui la sua mirabile placidità, la sua calma profonda. Di qui s'intende com'essa sem-bri totalmente risolversi in contemplazione, adorazio-ne, esaltazione della verità divina. Di qui la sua appa-rente indifferenza alle piccole miserie quotidiane. Di qui la sua scarsa preoccupazione di «educare» imme-diatamente e di insegnare la virtù. La liturgia ha in sé qualcosa che fa pensare alle stelle, al loro corso eter-namente uguale, alle loro leggi inviolabili, al loro fondo silenzio, all'ampiezza infinita in cui si trovano. Sembra, però, soltanto che la liturgia si preoccupi così poco del-le azioni e delle aspirazioni, e della condizione morale degli uomini. Poiché in realtà essa sa assai bene prov-vedervi: chi infatti vive realmente in essa, si assicura la verità, la sanità e la pace nell'intimo dell'essere.

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I santi segni

PREFAZIONE DELL'AUTORE

I capitoletti di questo libro sono venuti alla luce nel cor-so di dieci anni e hanno voluto contribuire alla comprensio-ne del mondo liturgico. Me li andava suggerendo la sensa-zione che tale risultato non si poteva ottenere chiarendo semplicemente in quale periodo storico e sotto quali influssi abbia avuto origine questo rito o quella preghiera. E nep-pure con un commento che spiegasse il significato dei diver-si riti, attribuendo in tal modo alle cerimonie liturgiche un senso che può essere certo profondo ma non viene ricavato da esse direttamente e personalmente, bensì soltanto dedotto da un concetto didattico. Nella liturgia non si tratta preci-puamente di concetti, bensì di realtà. E non di realtà passa-te bensì di realtà presenti, che si ripetono costantemente in noi e per noi; di realtà umane in figura e gesto. E a esse non ci si avvicina dicendo semplicemente: son sorte in quel certo tempo e si sono sviluppate così e così. E neppure attribuen-do loro qualche occulto significato, bensì cercando di coglie-re nella forma corporea l'elemento interiore: nel corpo l'ani-ma, nel processo materiale la recondita forza spirituale.

La liturgia è un mondo di vicende misteriose e sante di-venute figura sensibile: ha perciò carattere soprannaturale. È dunque necessario innanzitutto apprendere l'atto di vita con cui il credente intende, riceve, compie i santi «segni vi-sibili della grazia invisibile». Si tratta in primo luogo di «educazione liturgica», non di insegnamento liturgico che naturalmente non è da disgiungersi dalla prima: di un av-

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viamento, o almeno di una sollecitazione a vedere e compie-re, in pienezza di vita, i «santi segni».

E a questo scopo mi parve giusto ed efficace prendere gli inizi dalle cose più semplici; dagli elementi da cui si svolgo-no poi le creazioni superiori della liturgia. Doveva essere scosso ciò che nell'uomo corrisponde a quei segni elementa-ri. Doveva venir portato a consapevolezza dell'uomo che questi sono segni, simboli. Se siffatti segni venissero colti dalla viva forza espressiva con cui l'uomo attinge in modo sempre nuovo l'intimo delle figure che gli si presentano, ed esprime negli atteggiamenti della sua persona il proprio in-timo; se essi si liberassero dalle forme convenzionali assur-gendo nuovamente a simboli genuini: allora sì che ci sareb-be veramente da sperare che essi vengano pure intesi dalla coscienza cristiana quando dispiega o contempla le forme liturgiche. L'uomo infatti a cui esse si rivolgono, è battezza-to nell'anima e nel corpo: in tal modo – e questo era l'inten-to – esse verrebbero intese quali simboli santi, quali elemen-ti dei sacramenti e dei sacramentali.

Quel che s'è tentato praticamente in questi brevi schizzi – senz'alcuna pretesa di compiutezza – ha ottenuto poi la sua più profonda giustificazione nello scritto dell'autore dal titolo: Liturgische Bildung (Magonza 1923)1.

Ma è sempre una cosa di dubbia efficacia il ripresentare dopo qualche tempo ciò ch'è scaturito da motivi determinati ed è cresciuto col maturare della vita di determinate perso-ne. E io so fin troppo bene quanto si potrebbe eliminare in questi saggi; come essi non siano abbastanza dominati dall'oggetto, ma piuttosto lirici e soggettivi; non abbastan-za fondati sulla necessità logica, bensì impressionistici, ca-suali; a prescindere dalle loro deficienze letterarie. Rimane

1. Ed. it., R. Guardini, Formazione liturgica. Saggi, OR, Milano 1988.

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giusto solo il loro concetto fondamentale. E, malgrado ogni lato discutibile, mi sembra che abbiano sempre il diritto di presentarsi al pubblico. Infatti anche se non raggiungono tutto il loro intento, accennano almeno a qualcosa che deve essere visto e ricercato; e, nell'attuale letteratura liturgica, non ho ancora incontrato nulla che veda e ricerchi questo in modo migliore.

Io saprei bene chi potrebbe qui dir meglio e più giusto: una madre che, formata per proprio conto liturgicamente, insegnasse al suo bambino a fare bene il segno della santa Croce; a veder nella candela che arde una persona che apre il suo intimo sentire; a star nella casa del Padre con tutta la sua viva umanità ...; e tutto questo non mediante conside-razioni estetiche, bensì proprio come un vedere, un fare: non quindi come un arido pensare e riflettere che contempli opere, gesti e atteggiamenti come figure appese tutt'all'in-torno! Oppure un maestro che viva davvero con i suoi sco-lari; che li renda capaci di sentire e celebrare la domenica per quel che essa è; e così pure la festività, l'anno ecclesiasti-co con le sue partizioni; il portale e le campane, la Chiesa e le rogazioni... Gente siffatta potrebbe dire come si evocano a vita i santi segni...

La via che conduce alla vita liturgica non si dispiega at-traverso la mera istruzione teorica, bensì è offerta innanzi-tutto dalla pratica. Osservare e agire sono le due forze fon-damentali in cui ha da essere radicato tutto il resto. Un osservare e agire illuminato da chiara dottrina e radicato nella tradizione cattolica mediante un adeguato insegna-mento storico: questo certo. Ha da essere però un agire – e invero un «agire» reale è qualcosa di più d'un mero «eserci-tarsi» perché il gesto venga appreso direttamente! L'agire è qualcosa di elementare; qualcosa in cui l'uomo ha da ritro-varsi tutto con le proprie forze creative; un eseguire compe-netrato di vita; un 'esperienza viva: cogliere, contemplare.

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Quando finalmente educatori siffatti parlassero dei san-ti segni attingendo alla loro esperienza, questo libretto po-trebbe sparire dalla circolazione. Fino a questo momento però ha il diritto e anche il dovere di parlare: come meglio può.

Primavera 1927 ROMANO GUARDINI

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PREMESSA

Eccoti un libretto ben modesto nelle mani. Esso parla di cose che forse ti sembrano di poca importan-za; eppure, quel che vuole propriamente dirti, è qual-cosa di grande. Noi viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduto la realtà da essi significata. Non pensiamo più cose, bensì parole. Quando una perso-na dice «faggio», le sta veramente dinanzi agli occhi un nobile fusto grigio-argenteo, un ampio sviluppo di rami modellati con forza e insieme con delicatezza fin nelle ultime propaggini, delle foglie compatte e senza pieghe, soffuse alla luce solare di riflessi così delicati nelle loro iridescenze verdi-gialle? Forse! Ma per talu-no «faggio» è proprio solo una parola; una parola con la quale intende quell'albero, allo stesso modo che una moneta gli fa pensare a un determinato valore numeri-co. Quando la pronunzia, forse gli guizza attraverso lo spirito un'immagine fuggevole, ricordo sbiadito di qualche gita in montagna, ma niente di più.

Oppure uno dice «miseria». Ma la sua parola è davvero gravata dall'oscuro far-

dello che pesa sul cuore dell'uomo? Sente egli come una stretta al cuore l'amarezza che queste tre sillabe significano oppure queste sono per lui soltanto quasi fredda moneta ch'egli trasmette senza commozione, come un infermiere comunica all'altro il numero

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d'una stanza, senza riflettere a quel che è chiuso in quello spazio contrassegnato da una morta piastrina di ottone? Cosa proviamo quando diciamo di aver meritato tante e tante lire? Sentiamo quale giudizio è implicito in questa parola «meritato»? Soddisfaci-mento tranquillamente consapevole, oppure un'in-giustizia che esige espiazione, ovvero addirittura una beffa crudele? E così per molte altre parole ...

Parole, parole! Per questo il nostro pensiero ha sì poca importanza nei riguardi della realtà che non af-ferra affatto saldamente. Per questo la nostra parola è così pallida e fioca, esangue e priva di forza figurativa. Per questo ciò che udiamo non ci tocca l'anima. Altri-menti potremmo ascoltare e leggere ogni giorno tan-te cose? Se le parole fossero per noi qualcosa di più d'un suono che significa alcunché, d'una struttura so-nora accompagnata da fugaci sensazioni e da immagi-ni evanescenti, come potremmo leggere tanti giornali e prestare ascolto a tante novità?

Pensa alla schiatta terribile dei luoghi comuni! Se vuoi percepire quanto sia vuoto il nostro discorrere pubblico, presta attenzione ai luoghi comuni. Rabbri-vidirai fin nelle intime fibre. Essi sono vuoti, irrispet-tosi e distruttori come soltanto il vuoto può esserlo. La cosa più bella è resa volgare. Se per avventura una parola sgorga dal fervore del cuore, tutta piena di san-gue e di forza, in pochi giorni i giornali e le chiacchie-re della gente ne prendono possesso, la sbiadiscono a luogo comune, la rendono scipita fino alla nausea. Oh, noi dovremmo apprendere a custodire le nostre parole più care, affinché la volgarità del pubblico chiacchierìo non le insozzi!

E il nostro agire! Noi eseguiamo delle forme e non

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delle azioni! Diciamo delle larve di parole; compiamo delle ombre di azioni.

Siamo consapevoli di quello che facciamo quando stringiamo la destra a qualcuno? Ci è chiaro che noi gli diamo la nostra fiducia, la nostra anima? Se lo sa-pessimo, lo faremmo con minor frequenza. Ma così tale atto è una vera formalità, che solo di rado è com-penetrata di realtà spirituale, al punto che possiamo dare la destra all'amico intimo come a chi ci è indiffe-rente o, addirittura, spregevole. I saluti, gli auguri, i doni e la comunanza della tavola, le svariate forme della deferenza, hanno esse ancora un'anima? In caso diverso non potremmo scialarle con tanta facilità. Noi diciamo delle mere parole. Noi compiamo delle formalità. Viviamo in un mondo di segni, ma la realtà che essi significano l'abbiamo perduta.

Fintanto che le cose rimangono così, non c'è da parlare di una nuova civiltà. Questo lo possiamo anzi fare, solo perché si tratta di mere parole, che, se con esse noi parlassimo di cose, sentiremmo subito quan-to insignificanti esse siano. Solo attingendo il reale, la nostra vita potrà rinnovarsi. Solo rifacendosi all'infi-nità dell'essere, la nostra civiltà può ringiovanire. Fino a tanto però che non ci poniamo dinanzi al rea-le, alle cose, all'anima; fino a tanto che non ne perce-piamo l'urto, donde ha mai da scaturire la realtà nuo-va? Sorgono nuove parole, godono per breve tempo una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine; ma presto sono ridotte a un paio di luo-ghi comuni e nulla più. Tutto rimane oratoria da co-mizio, articolume da giornale, fino a che non evadia-mo dalla parvenza e riattingiamo l'essenza e la realtà.

Immagini significative di cose, corpi sonori di fatti

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spirituali: questo han da essere le parole. Le azioni de-vono essere compenetrate di realtà interiore e debbo-no a lor volta abbracciare realtà. E riconosciamo vera forza di rinnovamento là ove l'uomo è di nuovo sensi-bile all'urto dell'essere, vi si arresta dinanzi, ammira, interroga; dove questo urto, ripercuotendosi, gli fog-gia la parola e l'opera.

E il significato più profondo del movimento giova-nile, in quanto è movimento e non solo mera organiz-zazione, sta appunto in questo: nella sua volontà pro-tesa al reale. Basta con le larve di parole: rimettiamoci dinanzi alle cose! Evadiamo dalle nebbie infide delle idee indeterminate e adusate e riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale! Deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte! Rioffriamo il petto all'impres-sione delle cose, di modo che esso, nello stupore, nel dolore, nella gioia, ne percepisca la potenza!

Certo, al primo momento, questo sconcerterà e renderà muti. Le parole sembrano non più usabili, es-sendo state prostituite da un lungo abuso. Ricomin-cia una specie di balbettìo. Molte cose vengono sco-perte di nuovo e in modo nuovo vissute; gli oggetti, visti e sentiti in una nuova maniera, debbono cercarsi il proprio corpo verbale: allora la parola acquista una potenza nuova, e la più semplice comincia a risplen-dere con la maggiore intensità.

È così anche con le formalità. Via le maschere che non rivelano più i sentimenti, bensì li occultano! Via i formalismi che si frappongono tra cuori viventi e li in-gannano! La gioventù ha da sperimentare di nuovo nel profondo ciò che vuol dare al prossimo, ciò che vuol essere per lui. Essa sente inoltre che nelle forme correnti non sopravvive molto di questa sincerità. Ne

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rimane sconcertata. E la si rimprovera di sconvenien-za perché non ne vuol più sapere ormai di questi ca-daveri di azioni. C'è anche il disorientamento della ri-cerca che qui comincia; ma dopo qualche giravolta essa giunge di nuovo a vere forme. E per questa via essa scoprirà come forme nuove anche le vecchie, sca-turite dalla stessa essenza umana: esse vivranno allora della vita di questo essere e la semplice stretta di mano, i doni, la comunanza della tavola riassurgeran-no a verace espressione di realtà interiori.

Tutto ciò ha da portare qualcosa di sconcertante, un cercare ed errare penoso. Chi lo esperimenta ap-pare spesso scontroso, perché non può più scialare a chiunque ciò che per lui ha un significato così profon-do; deve apparire come un originale, perché prende sul serio cose che nessuno più avverte; perché vede problemi che da tempo sono svaniti nella cecità di tut-ti gli occhi. Ma beata questa pena: da essa sta per sca-turire una civiltà nuova vitale.

Strano! Anni fa il Papa Pio X ha detto: «Ridate alle parole il loro senso!». Quanto profondamente ci pe-netra oggi nell'anima questa esortazione! Si, ridare alle parole il loro senso, e così pure alle forme e azioni della vita. Questo dovrà fare la gioventù.

Perché ho parlato di tutto questo? Perché in nes-sun ambito la profanazione della parola, lo svuota-mento dell'agire, la vanificazione del segno è così ter-ribile quanto nella vita religiosa.

Cosa deve succedere alla nostra anima, quando essa ha disimparato a soffermarsi dinanzi alle realtà della salvezza? Quando essa pronunzia sante parole che sono una vuota eco? Quando ha santi segni e

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compie sante cerimonie senza più avvertire la realtà che vi è rinchiusa?

Dillo tu stesso, che peso hanno per noi le parole: «Dio», «Cristo», «grazia»? Cos'è per noi fare il segno della croce? Il piegare le ginocchia? Rivelazione di una realtà soprannaturale? Oppure una figura d'ombra? Un'ascesa verso il cielo? O piuttosto un compiere del-le formalità? Non è troppo spesso la seconda cosa? E tutto questo non perché in noi rigettiamo quelle veri-tà, bensì perché in noi non v'è più quella viva coscien-za della realtà di cui qui si tratta. Perché la nostra fede non ha più capacità di presa né forza visiva?

La fede è coscienza di realtà soprannaturali. La fede è vita in un mondo di realtà invisibili. Abbiamo noi questa fede?

Qui dobbiamo iniziare il rinnovamento. Non di-struggere l'«invecchiato» e trovare il «nuovo». Le grandi parole e le grandi forme della Chiesa scaturi-scono dalle profondità essenziali. Cosa mai deve esse-re qui mutato? Puoi forse modificare la struttura della ruota o quella del martello? Esse sono corrispondenti all'essenza; appena sono viste, sono anche foggiate, e rimangono. Oppure credi di poter mutare l'afferrar della mano, ovvero il modo in cui l'occhio si fissa sull'oggetto? Molte delle parole e delle forme della Chiesa sono di questo genere.

Ci è possibile però un'altra cosa: «ridar loro il pro-prio senso». Cioè: vedere la realtà che dietro di esse giace. Rivivere ciò che si pronunzia. Allora le forme si svolgeranno dall'interiore pienezza.

Questo libretto vorrebbe esser di sussidio a tale scopo. Vuol mostrare come si possa cogliere un senso

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dietro le parole che diciamo ogni giorno; come si pos-sano vivere i segni che ripetiamo di continuo. Vuol apprendere e avvertire il nucleo delle forme di cui è intessuta la nostra vita. Allora sperimenteremo davve-ro l'urto delle realtà che ci giganteggiano dinanzi nel-la Chiesa e nelle sue consuetudini. E queste consuetu-dini riprenderanno a vivere quasi fossero totalmente nuove.

Non vuol essere però un libro didattico. Racconte-rò, come mi capita, ciò che mi è successo. E così come l'ho visto io, vedilo tu, meglio, più precisamente, più chiaramente; e buona fortuna.

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DEL SEGNO DELLA CROCE

Quando fai il segno della croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare. No, un segno della croce giu-sto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Senti come esso ti abbraccia tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tut-ti i pensieri e tutto l'animo tuo, mentre esso si dispie-ga dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, corpo e anima, ti racco-glie, ti consacra, ti santifica.

Perché? Perché è il segno della totalità ed è il se-gno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce Egli santifica l'uomo nella sua totalità, fin nelle ultime fibre del suo essere.

Perciò lo facciamo prima della preghiera, affinché esso ci raccolga e ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la pre-ghiera affinché rimanga qui in noi quello che Dio ci ha donato. Nella tentazione, perché ci irrobustisca. Nel pericolo, perché ci protegga. Nell'atto della bene-dizione, perché la pienezza della vita divina penetri nell'anima e vi renda feconda e consacri ogni cosa.

Pensa quanto spesso fai il segno della croce. È il se-gno più santo che ci sia. Fallo bene: lento, ampio, con-sapevole. Allora esso abbraccia tutto l'essere tuo, cor-

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pò e anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, e tutto diviene irrobustito, segnato, consacrato nella forza di Cristo, nel nome del Dio uno e trino.

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LA MANO

L'intero corpo è strumento ed espressione dell'ani-ma. Questa non è semplicemente nel corpo come una persona che siede nella propria casa, bensì risiede e agisce in ogni membro e in ogni fibra. Parla da ogni li-neamento, da ogni forma e moto del corpo. Però, dell'anima, specialmente il viso e la mano sono stru-mento e specchio. Del viso ciò è senz'altro evidente. Ma osserva una persona – o anche te stesso – e nota come ogni moto dell'animo, – gioia, stupore, attesa – si manifestano contemporaneamente anche nella mano. Un repentino alzar della mano oppure una sua lieve morsa non dice spesso di più che la stessa paro-la? La parola espressa non appare talvolta grossolana accanto al linguaggio delicato e significativo della mano? Essa è, dopo il viso, la parte più spirituale del corpo, se così si può dire.

È salda e vigorosa quale strumento del lavoro, qua-le arma di offesa e di difesa, ma pur tuttavia è anche una cosa finemente costruita, ben articolata, mobile, percorsa da nervi delicatamente sensibili. Quindi ve-ramente uno strumento per cui l'uomo può rivelare la propria anima, e insieme accogliere l'anima altrui. Anche questo egli fa con la mano.

Non è un accogliere l'anima altrui lo stringere le mani che uno ci tende? Con tutto quanto esse espri-mono di fiducia, di gioia, di approvazione, di dolore?

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Così non può non avvenire che la mano abbia il suo linguaggio anche là dove l'anima parla e riceve in modo tutto particolare; vale a dire dinanzi a Dio. Dove l'anima vuol dare se stessa e ricevere Dio; vale a dire nella preghiera.

Quando uno si raccoglie tutto in se stesso ed è nel-la sua anima solo con Dio, allora la mano si stringe sal-damente nell'altra, il dito s'incrocia col dito. Come se il flusso interiore che vorrebbe dilagare, dovesse venir condotto da una mano nell'altra e riportato nell'inter-no, affinché tutto rimanga dentro, un custodire il Dio nascosto. E così parla:

«Dio è mio, e io sono suo, e noi siamo soli, l'uno con l'altro, in intimità».

Altrettanto fa la mano quando un'interiore angu-stia, una necessità, un dolore, minaccia di erompere. La mano si stringe di nuovo nella mano, e l'anima dentro, lotta con se stessa fino a che si è dominata, placata.

Ma se uno sta dinanzi a Dio in atteggiamento inte-riormente umile e reverente, allora la mano aperta aderisce pianamente all'altra, palmo a palmo. Il che parla di severa disciplina, di contenuta reverenza. Ed è un esprimere umile e, ben determinato la propria parola e un ascoltare il divino con attenzione. Oppu-re esprimiamo devozione, dedizione, quando si ab-bandonano, per così dire, le mani con cui ci difendia-mo alla stretta delle mani di Dio.

Avviene anche che l'anima si apra tutta dinanzi a Dio, in gran giubilo o ringraziamento. Sì che in essa, quasi in un organo, si aprano tutti i registri lasciando profluire la piena interiore. Oppure, anelante, essa

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invoca: allora l'uomo apre bene le mani e le solleva a palme dispiegate affinché la piena dell'anima fluisca liberamente e l'anima possa compiutamente ricevere quanto brama.

E infine può capitare che uno si raccolga in se stes-so con tutto quanto esso è e possiede, per offrirsi in pura dedizione a Dio, conscio di accedere a un sacrifi-cio. E allora stringe mani e braccia sul petto, nel se-gno della croce.

Bello e grande è il linguaggio della mano. Di essa la Chiesa dice che ci è data affinché «vi portiamo l'ani-ma».

Perciò prendi sul serio la mano, questo santo lin-guaggio. Dio l'ascolta e tende l'orecchio a quanto essa Gli dice dell'intimo dell'anima. Essa può anche parla-re di pigrizia di cuore, di dissipazione e d'altre cose poco belle. Tieni bene le mani e procura che l'intimo tuo spirito coincida davvero con questo atteggiamen-to esteriore!

Cosa delicata quella di cui abbiamo qui parlato; di cose siffatte non si parla volentieri, ma quasi con av-versione. Con tanta maggiore severità vogliamo ri-spettare queste esigenze nella realtà. Non farne cioè un gioco vano e affettato, bensì un linguaggio in cui il corpo, in schietta veracità, esprima a Dio quello che l'anima intende.

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DELL'INGINOCCHIARSI

Cosa fa una persona quando s'inorgoglisce? Si drizza, alza il capo, irrigidisce le spalle e l'intera figu-ra. Tutto in essa dice:

«Io sono più grande di te! Io sono da più di te!».

Quando uno invece è di nobile sentimento e si sen-te piccolo, china il capo, la sua persona si rattrappi-sce: egli «si abbassa». Tanto più profondamente, quanto più grande è colui che gli sta dinanzi; quanto meno egli sente di valere agli stessi propri occhi.

Ma quando mai percepiamo noi più chiaramente la nostra pochezza di quando stiamo dinanzi a Dio? Al grande Iddio che era ieri come è oggi, tra secoli e mil-lenni! Al grande Iddio che riempie questa stanza e l'intera città e il vasto mondo e l'incommensurabile cielo stellato, dinanzi a cui tutto è come un granello di sabbia! Al Dio santo, puro, giusto, infinitamente su-blime ... come è grande Lui... e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi a con-fronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla! Non è vero – e vien con tutta evidenza da sé – che non si può stare da superbi dinanzi a Lui? Ci si «fa piccoli»; si vorrebbe impicciolire la propria persona, perché essa non si presenti così, con tanta presunzione: l'uomo s'inginocchia. E se al suo cuore questo non ba-

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sta ancora, egli può inoltre prostrarsi. E la persona profondamente chinata dice:

«Tu sei il Dio grande, mentre io sono un nulla!».

Quando pieghi il ginocchio, non farlo né frettolo-samente né sbadatamente. Dà all'atto tuo un'anima! Ma l'anima del tuo inginocchiarti sia che anche inte-riormente il cuore si pieghi dinanzi a Dio in profonda reverenza. Quando entri in chiesa o ne esci, oppure passi davanti all'altare, piega il tuo ginocchio profon-damente, lentamente; che questo ha da significare:

«Mio grande Iddio! ...».

Ciò infatti è umiltà ed è verità e ogni volta farà bene all'anima tua.

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LO STARE IN PIEDI

Abbiamo detto che la reverenza al Dio infinito esi-ge un contegno determinato. Egli è sì grande e noi così piccoli dinanzi a Lui che codesta coscienza si ma-nifesta anche esteriormente: ci fa piccoli, ci impone di inginocchiarci.

Il rispetto può però manifestarsi anche in altro modo. Immagina d'essere seduto, di riposare o di chiacchierare e che d'improvviso giunga una persona per cui hai rispetto e si diriga verso di te. Subito balze-resti in piedi e ascolteresti e risponderesti stando così ritto. Che cosa significa questo? Lo stare in piedi si-gnifica innanzitutto che ci raccogliamo. Anziché l'at-teggiamento libero dello stare seduti, ne assumiamo uno dominato, rigido. Significa che siamo attenti. Nello stare in piedi infatti c'è qualche cosa di teso, di desto. E infine significa che siamo pronti; chi sta in piedi, infatti, può subito aprir la porta e uscirne, può senza indugio eseguire un incarico, o iniziare un lavo-ro, appena gli sia assegnato.

Questo è l'altro aspetto della reverenza dinanzi a Dio. Nello stare in ginocchio si esprimeva quello di chi adora, di chi perdura nel riposo; qui invece si pre-senta l'atteggiamento desto, attivo. Tale reverenza, tutta propria del servo premuroso e del guerriero ar-mato, si manifesta nello stare in piedi.

Sorgiamo in piedi quando riecheggia la lieta novel-

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la; all'Evangelo, nella Santa Messa. Stanno in piedi i padrini al Battesimo, quando pronunziano per il bambino il voto della fedeltà alla fede. Stanno in piedi i fanciulli, quando, alla loro prima Comunione, rin-novano questi voti battesimali. Stanno in piedi gli spo-si, quando, dinanzi all'altare, mediante la parola della fedeltà, si uniscono in matrimonio. E così pure in di-verse altre cerimonie.

Anche per il singolo il pregare in piedi può essere talvolta un'espressione vigorosa del suo intimo. I pri-mi Cristiani lo hanno fatto volentieri. Conosci certa-mente la figura dell'orante nelle catacombe, della persona stante, dalla veste ricadente in nobili pieghe e dalle braccia aperte. Essa sta libera, ma tutta domi-nata da schietta disciplina; tranquillamente intenta alla Parola divina e pronta all'agire gioioso.

Talvolta non ci si può neppure inginocchiare bene; ci si sente impacciati. Allora è opportuno stare in pie-di: ci si assicura il nostro agio. Che sia però uno stare in piedi per davvero! Su ambedue i piedi, senza ap-poggiarsi, a ginocchia tese, senza alcuna pigra rilassa-tezza. Ritti e composti.

In quest'atteggiamento si irrigidisce anche la pre-ghiera e insieme si libera in reverenza e prontezza d'azione.

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L'INCEDERE

Quanti sanno camminare con dignità, incedere? Non è affatto un affrettarsi e correre, bensì un movi-mento composto. Non un pigro trascinarsi innanzi, bensì un avanzare virile. Chi incede cammina con agi-le piede, non strascica; diritto, senza impacci, non curvo; non incerto, bensì in saldo equilibrio.

È cosa piena di nobiltà un giusto incedere. Senza impacci eppur composto in distinto contegno. Lieve ed energico, diritto e vigoroso, senza sforzo, eppure pieno di forza protesa in avanti. Si tratti dell'incedere dell'uomo e della donna, in questa forza si presenta una nota di gravezza o di letizia: essa porta un peso esteriore oppure un mondo interiore di pace luminosa.

E com'è bello quest'incedere quando è pio! Può assurgere a schietta liturgia. Quale semplice portarsi dinanzi a Dio in consapevolezza e reverenza, come quando si avanza in chiesa, nella casa dell'altissimo Si-gnore e in speciale maniera sotto i Suoi occhi. Oppu-re assurge ad accompagnamento di Dio, come quan-do incediamo nelle processioni: il pensiero forse ti corre ai disordinati pigia-pigia, allo strascinarsi e cu-riosare annoiato di tante processioni. Potrebbe mai esservi cosa più festosa e lieta dei fedeli che accompa-gnano il Signore per le vie della città o per i campi, «sua proprietà», procedendo tutti con cuore orante, gli uomini con passo vigoroso, le donne nella loro di-

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gnità materna, le fanciulle liete, nella loro giovinezza, di pura grazia, i giovani nella loro forza contenuta? ...

Così una rogazione potrebbe assurgere a preghie-ra corporea! Coscienza del bisogno e della colpa fatta persona potrebb'essere, e tuttavia dominata dalla fi-ducia cristiana non ignara che, come nell'uomo v'è una forza sopra tutte le altre sue forze, il volere calmo e sicu-ro di se stesso, così v'è una potenza sovrastante a tutti i bisogni e a tutte le colpe: il Dio vivente.

L'incedere non è un'espressione della nobiltà del-la natura umana? La figura diritta, signora di se stes-sa, che si porta da sola, calma e sicura, codesta figura rimane un privilegio riservato all'uomo. Camminare eretti significa essere uomini.

Ma non siamo più soltanto uomini: siamo più che uomini. «Stirpe divina siete», dice la Scrittura. Rige-nerati da Dio a una vita nuova. Cristo vive in noi, in maniera particolarmente profonda nel Sacramento dell'altare: il suo corpo viene a far parte del nostro corpo; il suo sangue circola nel nostro sangue. Poiché

«chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui»,

Egli ha detto. Cristo cresce in noi e noi cresciamo in lui, in tutte le dimensioni, fino a che «abbiamo rag-giunto la maturità di Gesù Cristo»; fino a che Egli «ab-bia preso forma in noi», e pertanto tutto l'essere e l'agire,

«sia che mangiamo o che dormiamo o attendiamo a qual-che altra cosa»,

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lavoro o gioco, gioia o lacrime, tutto sia divenuto vita in Cristo.

La consapevolezza di questo mistero potrebbe in tal modo trovare un'espressione gioiosa, rilucente di bellezza e compenetrata di forza, nel giusto incedere. Potrebbe essere l'attuazione trasfigurata in profonda similitudine del comandamento:

«Cammina dinanzi a me e sii perfetto».

Ma in semplicità e veracità! Solo dalla verità, non dal vano volere, può fiorire

la bellezza.

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DEL BATTERSI IL PETTO

La santa Messa è cominciata. Il sacerdote sta ai pie-di dell'altare. I fedeli, oppure i chierici in loro vece, pregano:

«Io confesso a Dio Onnipotente [...] che ho molto peccato con pensieri, parole ed opere per mia colpa, mia colpa, per mia grandissima colpa».

E quante volte pronunziano la parola «colpa», si battono il petto.

Cosa significa dunque questo battersi il petto? Penetriamo bene questo senso. A tale scopo, dob-

biamo compiere bene l'atto. Non toccarci appena le punte delle dita il vestito; il pugno chiuso deve colpire il petto. Forse hai visto già in vecchi quadri San Giro-lamo inginocchiato nel deserto, che, nella piena della commozione, si batte il petto con una pietra nella mano. È una percossa, non un gesto cerimonioso. Ha da attraversare le porte del nostro mondo interiore e scuoterlo. Allora comprendiamo cosa significa.

Questo mondo ha da essere pieno di vita, pieno di luce, forza e attività vigorosa. Ma come si presenta esso in verità? Gravi esigenze ci si presentano, doveri, bisogni, inviti alla decisione, ma a stento taluna di esse ha un'eco dentro di noi. Così, siam magari grava-ti da qualche colpa, ma non ce ne preoccupiamo. «Nel fervore della vita siamo circondati dalla morte»,

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ma non vi pensiamo. Ma ecco una voce di Dio che am-monisce:

«Destati! Guardati attorno! Rifletti con te stesso! Converti-ti! Fa' penitenza!».

Questo monito prende forma concreta nella per-cossa del petto. Questa ha da penetrare; ha da scuote-re, intimorire il mondo interiore, affinché si desti, apra gli occhi, si converta a Dio.

Si rende l'anima consapevole della sua condizio-ne? In tal caso le salta all'occhio, come abbia sciupato in sciocchezze la vita, ch'è una cosa seria, come abbia trasgredito il comandamento del Signore, come ab-bia trascurato i suoi doveri, «per sua colpa». In questa colpa essa si trova incarcerata, e c'è solo una via per uscirne, e precisamente che riconosca senza riserve:

«Ho peccato in pensieri, parole, opere ed omissioni contro il Santo Iddio e la comunione dei Santi».

In tal modo si mette dalla parte di Dio e prende partito per Lui contro se stessa. Pensa di sé quel che pensa Dio. Si sdegna dei propri peccati e si colpisce nella percossa.

Questo è dunque il significato del battersi il petto: l'uomo vi si desta. Desta il suo mondo interiore, affin-ché percepisca l'appello di Dio. Si mette dalla parte di Dio e si punisce. Riflessione pertanto, rimorso e con-versione.

Per questo sacerdote e popolo si battono il petto quando nell'Introito confessano i loro peccati. Lo fac-ciamo pure quando, prima della Comunione, ci viene mostrato il corpo del Signore e diciamo:

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«Signore, io non sono degno che Tu entri sotto il mio tet-to»1;

q u a n d o nelle litanie ci confessiamo colpevoli e dicia-mo :

«Noi peccatori, Ti supplichiamo, ascoltaci».

Il significato dell 'uso si è anche a t tenuato . Così i fe-deli si ba t tono il pe t to anche all'elevazione dell 'Ostia e del Calice. O p p u r e quando , con l'Angelus Domini di-ciamo:

«Ed il Verbo si è fatto carne».

Qu i il senso p ropr io e originario s'è pe rdu to e il gesto è r imasto ancora quale mera espressione gene-rica di reverenza e umiltà. Ma gli dovrebbe essere conservata l 'aspra severità d 'un moni to alla consape-volezza di sé e d 'una punizione che il cuore contr i to infligge a se stesso.

1. Nella liturgia attuale: «di accostarmi alla tua mensa» (n.d.r.).

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I GRADINI

Noi abbiamo riflettuto su diverse cose: ti è riuscito chiaro quello che abbiamo fatto a questo riguardo? Si è sempre trattato di cose da lungo tempo conosciute; eppure ci sono apparse nuove. Erano cose viste mille volte; ma ora le abbiamo considerate nella giusta luce, ed esse si sono aperte e ci hanno rivelato genui-na bellezza. Abbiamo prestato orecchio ed esse han-no incominciato a parlare. Di azioni che abbiamo compiuto già tante volte abbiamo penetrato il giusto senso, le abbiamo eseguite consapevolmente, ed ecco n'è emerso tutto quello che in esse si nasconde. Che grande scoperta è questa! Così dobbiamo conquista-re quanto già da tempo possediamo, perché diventi realmente nostro. Dobbiamo apprendere a veder giu-sto, a udire giusto, a operare giustamente. Qui sta il grande imparare a vedere, il diventare sapiente. Fin-ché questo non avviene, tutto ciò rimane muto e oscu-ro; ma se lo raggiungiamo, allora tutto si manifesta, rivela il suo intimo e da questa sua essenza l'aspetto esteriore riceve figura. Ne farai l'esperienza: proprio le cose più intuitive, le azioni d'ogni giorno, nascon-dono la realtà più profonda. Nelle cose più semplici si nasconde il più grande mistero.

Ecco ad esempio i gradini. Li hai saliti infinite vol-te. Ma hai penetrato quello che, in quel mentre, avve-

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niva in te? Avviene infatti qualcosa in noi quando ascen-diamo. Soltanto, è cosa molto delicata e silenziosa, che si può facilmente lasciar perdere senza percepirla.

Qui si manifesta un grande mistero. Uno di quei fenomeni che procedono dal fondamento della no-stra essenza umana; enigmatico, non lo si può risolve-re in concetti, eppure ognuno lo intende, perché è il nostro intimo che vi parla.

Quando saliamo i gradini, non sale soltanto il piede, bensì anche tutto l'essere nostro. Anche spiritualmente noi saliamo. E se lo facciamo consapevolmente, presen-tiamo di ascendere a quell'altezza dove tutto è grande e compiuto; cioè al cielo in cui abita Dio.

Tuttavia percepiamo egualmente il mistero. È dunque Dio lassù? Ma per Lui non c'è alto né basso! Ma a Dio giungiamo soltanto rendendoci più puri, più sinceri, migliori! E che cosa ha a che fare il diventare migliori con l'ascendere materiale? Che cosa ha a che fare «l'essere puro» con lo «stare in alto»? E invero qui non si può spiegare ulteriormente. È dall'essenza nostra che ci scaturisce il senso che il basso è similitudine del meschino, del pravo, l'alto similitudine del nobile e del buono, e che il salire ci parla dell'ascesa del nostro essere all'«Altissimo», a Dio. Non lo possiamo spiega-re, però è così: lo percepiamo, lo intuiamo.

Perciò dei gradini che conducono dalla strada alla chiesa; essi dicono:

«Tu sali alla casa della preghiera, più vicino a Dio».

E dalla navata della chiesa al coro nuovi gradini2, che dicono:

2. Non sempre nelle chiese costruite ai nostri giorni (n.d.r.).

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«Ora ti introduci presso l'Altissimo».

E altri gradini portano su all'altare. A chi li ascen-de essi sussurrano quello che già ebbe a dire il Signo-re a Mosè sul monte Horeb:

«Levati i calzari, perché questo terreno è sacro».

L'altare è la soglia dell'eternità. Com'è grande questo! Salirai ora consapevolmen-

te i gradini, sapendo di ascendere? E lascerai tutto il meschino in basso e salirai davvero «all'alto»?

E questo ha da suggerirti molte cose. Che tu ne ri-manga interiormente compreso; che «le ascese del Si-gnore» si compiano in te; – questo è tutto.

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IL PORTALE

Spesso siamo entrati per esso in chiesa e ogni volta esso ci ha detto qualcosa. L'abbiamo invero percepi-to? A che scopo c'è il portale? Forse ti meravigli di questa domanda. «Perché si entri e se ne esca», pensi tu; la risposta non sarebbe invero difficile. Certo; ma per entrare e uscire non occorre alcun portale. Una apertura più ampia nella parete servirebbe pure allo scopo e un saldo assito di panconi e forti tavole baste-rebbe all'apertura e alla chiusura. La gente potrebbe entrare e uscire: sarebbe anche di minor costo e più rispondente allo scopo. Non sarebbe però un «porta-le». Questo intende a qualcosa di più che non sia il soddisfacimento di un mero scopo; esso parla.

Presta attenzione quando lo varchi e sentirai:

«Ora io lascio l'esterno: entro».

Fuori c'è il mondo, bello, fervido di vita e di crea-zione possente. Frammezzo però vi è anche molto d'odioso, di basso. Esso ha in sé qualcosa del mercato; in esso ognuno corre attorno, tutto qui si fa largo. Non lo vogliamo chiamare non-santo; eppure qualco-sa di questo il mondo tiene indubbiamente in sé. At-traverso il portale però entriamo in un interno, sepa-rato dal mercato, calmo e sacro: nel santuario. Certo, tutto è opera e dono di Dio. Dovunque Egli può muo-

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verci incontro. Ogni cosa la dobbiamo ricevere dalle mani di Dio e santificarla con un sentimento di pietà. Pur tuttavia gli uomini fin dall'inizio hanno saputo che luoghi determinati sono in modo particolare con-sacrati, riserbati a Dio.

Il portale sta tra l'esterno e l'interno; tra ciò che appartiene al mondo e ciò che è consacrato a Dio. E quando uno lo varca, il portale gli dice:

«Lascia fuori quello che non appartiene all'interno, pensie-ri, desideri, preoccupazioni, curiosità, leggerezza. Tutto ciò che non è consacrato, lascialo fuori. Fatti puro, tu entri nel santuario».

Non dovremmo varcare così frettolosamente, quasi di corsa, il portale! In raccolta lentezza dovremmo supe-rarlo e aprire il nostro cuore perché avverta quello che il portale gli dice. Dovremmo, anzi, prima sostare un poco in raccoglimento perché il nostro avanzare sia un avanzare della purezza e del raccoglimento.

Ma il portale dice ancora di più. Fai attenzione: quando entri, involontariamente alzi il capo e gli occhi. Lo sguardo si volge all'alto e abbraccia la vastità dell'am-biente; il petto si dilata e l'anima pure. L'ambiente vasto e alto della chiesa è similitudine dell'eternità infinita, del cielo in cui abita Dio. Certo, i monti sono ancora più elevati, e incommensurabile l'azzurra distesa. Però è tutta aperta, non ha limite né figura. Qui inve-ce lo spazio è riservato per Dio. Lo sentiamo nei pila-stri che si drizzano verso l'alto, nelle pareti ampie e robuste, nella volta elevata: sì, questa è la casa di Dio, l'abitazione di Dio in una maniera speciale, interiore.

E il portale introduce l'uomo a questo mistero. Esso dice:

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«Deponi ciò ch'è meschino. Liberati da quanto è gretto e angustiante. Scrolla quanto t'opprime. Dilata il petto. Alza gli occhi. Libera l'anima! Tempio di Dio è questo, e una si-militudine di te stesso. Poiché tempio del Dio vivente sei proprio tu, il tuo corpo e la tua anima. Rendilo ampio, ren-dilo limpido ed elevato!».

«Alzatevi, chiusure! Apritevi, o porte eterne, che il Re della gloria entri!»,

così s'invoca nella Sacra Scrittura. Presta ascolto a questo gr ido. A che ti giova la casa di legno e di pietra, se n o n sei tu stesso una casa vivente di Dio? A che ti giova che i portali alti s 'incurvino e i pesanti bat tent i si schiudano, se in te non s 'apre alcuna por ta e il Re della gloria n o n p u ò entrare?

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IL CERO

Come tutto è peculiare e caratteristico nell'anima nostra! Con tutte le cose del mondo succede allo spi-rito quello che capitò già al primo uomo quando Dio lo invitò a denominare gli animali: in nessuna parte trovò un compagno partecipe dello stesso suo essere. Dinanzi a ogni cosa l'anima sente: «Io sono diversa». Nessuna scienza del mondo le turba questa certezza e nessuna bassezza gliela spegne:

«Io sono diversa da tutte le altre cose del mondo. Straniera a tutto, a Dio solo parente».

Eppure l'anima possiede d'altro canto una certa parentela con tutte le cose. Presso ogni cosa si sente in certo qual modo a casa sua. Tutto le parla, ogni fi-gura, ogni movimento, ogni lineamento. Ed essa cer-ca senza posa di esprimere in esse il proprio intimo, di elevarle a simbolo della propria vita. Dovunque in-contra una forte figura, vi sente espresso qualcosa del proprio essere, vi sente come un ricordo di se stessa.

Non è forse così? Qui sta il fondamento di ogni so-miglianza. Troppo intimamente estranea a tutte le cose, l'anima dice a ognuna di esse: «Io non sono que-sto». Ma d'altra parte essendo con tutto misteriosa-mente in parentela, essa sente cose e avvenimenti quali immagini del proprio essere.

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Vi è una similitudine, bella ed efficace a preferen-za di molte: il cero. Non ti dico nulla di nuovo; l'hai certamente sentito tu pure non una volta sola.

Vedi com'esso sta sul candelabro. Ampio e grave sta il piedistallo; sicuro si erge il fusto; e, saldamente stretto dal calice, dal piatto come ampio risalto, si drizza il cero. La sua figura leggermente si assottiglia, sempre però compatta per quanto in alto si spinga. Così essa sta nello spazio, snella, in una intatta purez-za; eppure nel suo colore ha una calda accentuazione e si sottrae per la sua netta linea a ogni confusione.

In alto è sospesa la fiamma e in essa il cero trasmu-ta il suo corpo immacolato, in luce calda e irraggian-te. Non senti tu innanzi a essa il ridestarsi di qualcosa tutto nobile? Guarda come sta, salda e sicura al suo posto, drizzata verso l'alto, pura e dignitosa. Nota come tutto in essa proclami: «Io sono pronta!»; come essa stia dove merita stare, dinanzi a Dio. Nulla in essa fugge, nulla si sottrae: tutto è limpida prontezza.

E si consuma nella sua vocazione, senza cessa, tra-sformandosi in luce e vampa.

Tu dici forse:

«Cosa ne sa il cero? Esso invero non possiede anima!».

Così gliela dai tu! Fa' che assurga a espressione della tua anima. Ri-

desta dinanzi a esso ogni nobile prontezza: «Signore, sono qui!». Allora tu sentirai la sua figura snella e pura quale espressione del tuo proprio sentimento. Irrobustisci tutta la tua prontezza fino a renderla ade-guata fedeltà. Allora sentirai:

«Signore, in questo cero io sto dinanzi a Te!».

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Non abbandonare la tua destinazione. Persistivi. Non chiedere di continuo intorno al perché e al dove. Il senso più profondo della vita sta nel consumarsi in verità e amore per Dio, come il cero in luce e vampa.

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L'ACQUA BENEDETTA

Misteriosa è l'acqua. Tutta pura e modesta, «casta» l'ha chiamata San Francesco. Senza pretese, come se non volesse significare nulla per se stessa. Per così dire ignara di sé, esistente solo per servire ad altri, per mondare e ristorare. Ma non hai mai guardato dove essa s'indugia a gran profondità e non ti ci sei mai im-merso con anima sensitiva? Hai percepito come fosse misteriosa quella profondità? Come essa sembrasse tutta piena di meraviglie, attraente e insieme spaven-tevole? Oppure ti sei mai raccolto in ascolto quando l'acqua in fiumana trascorre a valle, senza posa fluendo e mormorando? Oppure quando i vortici disegnano i loro cerchi, e fan mulinelli e risucchi? Allora ne può sorgere una tale impressione di forza opprimente che il cuore dell'uomo le si deve sottrarre ...

Misteriosa è l'acqua. Semplice, limpida, disinteres-sata; pronta a mondare ciò ch'è sordido, a ristorare ciò ch'è assetato. E nello stesso tempo profonda, in-sondabile, irrequieta, piena di enigmi e di forza. Im-magine adeguata dei fecondi abissi da cui sorga la vita e immagine della vita stessa che sembra così chiara ed è così misteriosa.

Ora comprendiamo bene come la Chiesa faccia dell'acqua il simbolo e il veicolo della vita divina, della grazia.

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Dal Battesimo noi siamo usciti uomini nuovi,

«rinati in virtù dell'acqua e dello Spirito Santo».

E con l'«acqua santa», con l'acqua benedetta, noi bagnamo nel segno della Croce fronte e petto, spalla e spalla; con l'elemento originario, misterioso, limpi-do, semplice, fecondo, che è simbolo e strumento del-la vita soprannaturale, la grazia.

Benedicendola, la Chiesa ha reso monda l'acqua: l'ha purificata dalle oscure forze che in essa sonnec-chiano. E queste non sono parole vuote! Chi possiede un'anima sensibile ha già percepito l'incanto della forza naturale che può sprigionarsi dall'acqua. E que-sto è semplicemente potenza della natura? O non è qualcosa di oscuro, di extranaturale? Nella natura, in tutta la sua ricchezza e bellezza, vi è anche il male, il demoniaco. La città intontitrice delle anime ha reso l'uomo ottuso al punto ch'egli spesso non ha più sen-so per questo. La Chiesa però non lo ignora e «purifi-ca» l'acqua da ogni elemento contrario a Dio, la «con-sacra» e prega Dio che la renda strumento della Sua grazia.

Orbene, il cristiano, quando varca la soglia della casa del Signore, si inumidisce la fronte, il petto e le spalle, vale a dire tutto l'essere suo, con l'acqua pura e purificante, affinché l'anima sua diventi monda. Non è bello questo modo in cui vengono a incontrarsi la natura depurata dal peccato, la grazia e l'umanità anelante alla purezza, e tutto nel segno della Croce? Oppure la sera.

«La notte non è amica dell'uomo»,

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dice il proverbio. C'è del vero in questo. Noi siamo creati per la luce. Appena l'uomo si abbandona alla potenza del sonno e dell'oscurità in cui si spengono la luce della coscienza e la luce del giorno, allora egli si fa il segno della Croce con l'acqua santa, simbolo del-la natura riscattata, liberata dal peccato: che Dio lo protegga da tutto ciò ch'è oscuro! E quando al matti-no si ridesta dal sonno uscendo dall'oscurità e dall'in-coscienza e ricomincia la sua vita, lo fa di nuovo. È come un lieve ricordo di quell'acqua santa per cui nel battesimo è uscito alla luce di Cristo. E bello è pure quest'uso. In esso s'incontrano l'anima redenta e la natura redenta nel segno della Croce.

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LA FIAMMA

A sera avanzata te ne vai un giorno di autunno per la campagna. Intorno a te è buio e freddo. L'anima si sente tutta sola nella morta distesa. Il suo anelito di vi-vente cerca tutt'attorno qualcosa a cui possa appog-giarsi; ma nulla risponde. L'albero nudo, il sentiero freddo, la pianura vuota – tutto morto! Essa è l'unico essere vivente nel deserto circostante. Ma ecco irrag-gia d'un tratto, a una svolta della strada, un lume ... Non ha esso chiamato? Quasi rispondendo al cercare ansioso dell'anima, come qualcosa di atteso, di fami-gliare?

Oppure tu siedi sul tardi nella stanza buia. Le pare-ti stanno grigie e indifferenti, gli oggetti muti. Ecco si avanza un passo ben noto; un'abile mano accende la stufa, un crepitìo s'alza di dentro, la fiamma lingueg-gia, e dalla porticina aperta una rossa fiamma investe la stanzetta, un tepore ristorante ne esce: come tutto è mutato, nevvero? Tutto ha riavuto anima. Come quando in un viso esangue si accende d'un tratto la vita di un sorriso.

Sì, il fuoco ha parentela con i viventi: è il simbolo più puro della nostra anima, è fervida vita. Immagine di tutto quello che noi vivendo sperimentiamo nel no-stro intimo: caldo e luminoso, sempre in movimento, sempre proteso verso l'alto. Quando vediamo la fiam-ma senza posa lingueggiare, sensibile a ogni corrente

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d'aria, ma tenace nel mantenere la sua direzione ver-so l'alto, radiante di luce e generosa di calore, non sentiamo una profonda parentela con quell'elemento che in noi pure arde senza interruzione ed è luce e tende all'alto, nonostante venga respinto in basso tutt'attorno dalle potenze avverse? E quando vedia-mo come la fiamma investe, anima, trasfigura tutto l'ambiente; come assurge subito a centro vivente di tutto – là dove arde – non costituisce essa un'immagi-ne della luce misteriosa che in noi è accesa in questo mondo per trasfigurare tutto e dargli una Patria?

Sì, è così! Quale simbolo della vita interiore, arde in noi la fiamma dell'Anelante, dell'Illuminante, del Forte, dello Spirito? Dove incontriamo la fiamma, sentiamo attraverso il suo tremolio e la sua vampa come un di-scorso che ci rivolga una persona vivente. E se voglia-mo esprimere la nostra vita, lasciar in qualche modo parlare la nostra vita, suscitiamo una fiamma.

Così comprendiamo anche perché essa debba ar-dere là ove noi dovremmo sempre essere, dinanzi all'altare. Là noi dovremmo trovarci sempre in vigile adorazione, concentrando tutte le nostre energie vita-li, tutta l'intelligenza e forza nostra nella vicinanza mi-steriosa e santa. Dio rivolto a noi e noi rivolti a Dio. Così dovrebbe essere. E questo confessiamo accen-dendo là, all'altare, l'immagine e l'espressione della nostra vita, la fiamma.

La fiamma là, nella lampada eterna – non ci hai an-cora pensato? – Sei tu! Essa significa l'anima tua. Si-gnifica la tua anima ... dovrebbe significare l'anima tua! Per sé solo, il lume terreno non dice naturalmente nulla a Dio. Tu devi elevarlo a espressione della tua vita protesa a Dio. Il santuario della santa vicinanza

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deve realmente essere il luogo in cui arde l'anima tua, dove essa è tutta vivente, tutta fiamma, tutta luce per Lui. Vi deve essere tanto a suo agio che la silenziosa fiamma, che si sprigiona là in alto dalla lampada, sia veramente espressione della tua vita intima.

Dirigi i tuoi sforzi in questo senso. Non è cosa sem-plice. Ma se tu riesci ad approssimarti a tale mèta, ben puoi dopo siffatti istanti di luminosa calma, riprende-re tranquillamente la tua vita tra gli uomini. Poiché la fiamma ritorna al luogo della santa vicinanza e tu puoi dire a Dio:

«Signore, questa è la mia anima. Essa è sempre presso di te».

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LA CENERE

Al margine del bosco sorge un ranuncolo, un fior cappuccio. Netto il contorno delle foglie d'un verde scuro. Finemente pieghevole eppur vigoroso l'agile stelo. I fiori, come tagliati in spessa seta e d'un azzur-ro così luminoso di turchese, che tutta l'aria all'intor-no ne riverbera. E ora che uno capiti lì, strappi il fiore e in seguito se ne infastidisca e lo getti nel fuoco ... po-chi istanti e tutta quella fulgida pompa si riduce a un pizzico di grigia cenere.

Quello però che il fuoco ha fatto qui in brevi istan-ti, la fa di continuo il tempo a ciò che è vivente: alla felce leggiadra, all'alto verbasco, alla quercia possen-te. Lo fa alla leggera farfalla come alla rondine veloce. All'agile scoiattolo e al grave toro. È sempre lo stesso destino, sia che si compia rapido oppur lento; può es-sere una ferita oppure una malattia, il fuoco o la fame o qualcosa d'altro: a un certo momento tutto quel fio-rire di vita si riduce a cenere. La vigorosa figura si ri-solve in un mucchietto di polvere. I colori luminosi si spengono in una farina grigiastra. La vita, tutta fervo-re e sentimento, si riduce a terra povera e morta; a meno che terra: a cenere! Così succede anche di noi. Come rabbrividiamo, quando si figge lo sguardo in una tomba aperta e vi si vedono accanto ad alcune ossa pochi pugni di grigia cenere!

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Pensaci, uomo; Sei polvere, Ed in polvere ritornerai®

Caducità: ecco cosa significa la cenere. La nostra caducità, non quella degli altri. La nostra; la mia! Essa mi parla del mio trapassare, quando il sacerdote al principio della quaresima, come la cenere dei rami un dì freschi e verdi della trascorsa domenica delle pal-me, mi disegna sulla fronte una croce:

Memento homo Quia pulvis es, Et in pulverem reverteris!

Tutto diventa cenere. La mia casa, il mio abito, i miei arredi, il mio danaro; campi, prati, boschi. Il cane che mi accompagna, e il bestiame ch'è nella stal-la. La mano con cui scrivo, l'occhio che legge, l'intero mio corpo. Le persone che ho amate; le persone che ho odiate; le persone che ho temute. Quello che mi è apparso grande sulla terra, quello che m'è sembrato piccolo, quello che stimai pregevole: tutto cenere, tutto ...

3. Attualmente, nel rito delle Ceneri, il sacerdote pronuncia la for-mula: «Convertitevi e credete al Vangelo» (n.d.r.).

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L ' I N C E N S O

«Io vidi venire un angelo, e portava un incensiere d'oro e si presentava all'altare. E gli fu dato molto incenso. E la fra-granza dell'incenso saliva dalle mani dell'angelo attraverso le preghiere dei santi su su fino a Dio».

Così parla l'Apocalisse. Vi è tanta nobile bellezza in questo distr ibuire i

granelli dal preciso con to rno sulla vampa, e in questo levarsi del fumo odoroso dell ' incensiere agitato. È come u n a melodia fatta di movimento domina to e di p rofumo. Senza alcun scopo, pu ra come u n a canzo-ne. U n a bella prodigalità di cose preziose. A m o r e che dona , che elargisce tut to .

C o m e un giorno, q u a n d o i l Signore sedeva in Be-fania, e Maria gli recò na rdo prezioso e glielo versò sui santi piedi, e li asciugò con i suoi capelli e la fra-granza riempiva l ' intera casa. U n o spirito gret to mor-morò :

«A che scopo tanto dispendio?».

Ma il Figlio di Dio ammonì :

«Lasciate fare, è per il giorno della mia sepoltura».

V'era qui un mistero della mor te , del l 'amore, della fragranza, dell'offerta.

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E lo stesso è pure nell'incenso: un mistero della bellezza che ignora ogni scopo, ma sale libera; dell'amore che arde e si consuma e trapassa nella morte. E anche qui si presenta lo spirito arido che do-manda:

«A che scopo tutto questo?».

Un'offerta della fragranza, lo dice la stessa Scrittu-ra: ecco cosa sono le preghiere dei santi. Simbolo del-la preghiera è l'incenso, e proprio di quella preghiera che non mira ad alcuno scopo; che nulla vuole e sale come il Gloria dopo ogni salmo, che adora e vuol rin-graziare Dio, «perché è così grande e magnifico».

Certo in siffatto simbolo si può insinuare della vani-tà. Le nubi di profumo possono anche portare un tiepi-do sentimento del mistero, uno spasso religioso dei sen-si. Se è così, ha piena ragione la coscienza cristiana di sollevar obiezioni e di richiamare «allo spirito e alla verità»; di raccomandare d'essere casti e onesti. Ma c'è anche nella religione un filisteismo che proviene da meschinità di sentire, da aridità di cuore, come la mormorazione di Giuda Iscariota. Qui la preghiera si riduce a utilità spirituale; e in tal senso ha certo da es-sere misurata e borghesemente ragionevole.

Questa mentalità però ignora del tutto la pienezza regale della preghiera che vuol donare. Ignora appieno la profonda adorazione; ignora appieno l'anima della preghiera che non domanda nessun «perché» né «a che scopo», bensì sale perché è amore e fragranza e bellezza. E quanto più essa ama, tanto più è anche of-ferta, e la fragranza scaturisce da fuoco consumante.

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LUCE E CALORE

Noi aneliamo all'unione con Dio; vi siamo sospinti da un'intima necessità. Due vie ci mostra la nostra ani-ma. Sono diverse ma sboccano però alla stessa mèta.

La prima via dell'unione passa attraverso la cono-scenza e l'amore.

Conoscere è unirsi. Noi penetriamo le cose cono-scendole e le attiriamo a noi. Diventano nostra pro-prietà: elementi della nostra vita. Anche l'amore è unione. Non una semplice brama, bensì è esso stesso di per sé unione. L'uomo intanto ama una cosa in quanto gli appartiene.

Questo amore però ha una maniera particolare, che si esprime quando si dice di esso ch'è «spirituale». Però la parola non esprime con precisione il concet-to; spirituale è anche un altro amore di cui si ha da parlare più avanti. L'amore di cui parliamo è questo: è l'amore che attua l'unione non nell'essere, bensì in un movimento; nella coscienza e nella vita affettiva. C'è pertanto una figurazione esterna per questo? Una similitudine? Certo, e magnifica: luce e calore. Qui v'è un cero: porta luminosa una fiammella. Il nostro occhio ne vede la luce e l'accoglie in sé, se ne compe-netra diventando una cosa sola con essa; eppure non lo tocca. La fiamma rimane in sé e l'occhio pure; tut-tavia ha luogo un'intima unificazione; un'unione pie-

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na di reverenza e verecondia, si potrebbe dire, senz al-tro e senz'alcuna mescolanza, in mera visione.

Profonda similitudine di quell'unione che si com-pie tra Dio e l'anima nella conoscenza. «Dio è la veri-tà», dice la Sacra Scrittura. Chi conosce la verità, la possiede nello Spirito. Dio è presente nel pensiero che lo conosce rettamente. Dio vive nello spirito che pensa a Lui veramente. Perciò «conoscere Dio» vuol dire: unirsi con Lui, come l'occhio con la fiamma nel-la visione della luce.

Con questa vi è anche un'unione mediante il calore. Lo avvertiamo sul viso, sulla mano. Notiamo com'esso ci compenetra riscaldandoci; eppure la fiamma sta, non tocca, in se stessa.

E questo è pure l'amore: un compenetrarsi con la fiamma di Dio mediante il calore, senza toccarla per nulla. Perché Dio è buono e chi ama il bene se lo trova anche già vivente nello spirito. Il bene è mio non ap-pena io l'amo; ed esso appartiene a me in quanto e per quel tanto ch'io lo amo; eppure io non lo tocco. «Dio è amore», ha detto San Giovanni,

«e chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio è in lui».

Conoscere Dio e amare Dio significa unirsi con Lui. Perciò la felicità eterna sarà un contemplare e amare. Il che non significa un bramoso stare innanzi a Dio, bensì una profondissima partecipazione all'inti-mità, compimento e soddisfacimento.

Abbiamo già visto come la fiamma sia similitudine dell'anima. Ora riconosciamo in essa anche la simili-tudine del Dio vivente, «perché Dio è la luce e nessu-na tenebra v'è in Lui». Come la fiamma emette luce, così Dio elargisce verità. E l'anima accoglie in sé la ve-

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rità e si unisce in essa con Dio, allo stesso modo che il nostro occhio vede la luce e in essa si unifica con la fiamma. E la fiamma manda calore; così Dio profon-de calda bontà. Ma chi ama Dio, diventa nella bontà una cosa sola con Lui, come la mano e il viso con la fiamma, quando ne percepiscono il calore. Ma la fiamma rimane in sé, intatta, pure, nobile. Come è stato detto di Dio, che «abita nella luce inaccessibile».

Fiamma luminosa e ardente – tu sei immagine del Dio vivente!

Come lo comprendiamo bene ora, quando nella consacrazione del sabato santo il cero pasquale diven-ta simbolo di Cristo! Quando il diacono saluta con giubilo la fiamma lumen Christi, e le luci della chiesa vengono accese, affinché dovunque illuminino e ri-scaldino la luce e il calore del Dio vivente!

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PANE E VINO

Ma un'altra via ancora conduce a Dio: di essa non si potrebbe parlare se la stessa parola di Dio non vi ac-cennasse e la liturgia non la percorresse con tanta fi-ducia.

Non vi è solo l'unione della visione, dell'amore, della coscienza e del sentimento. Vi è anche l'unione dell'essere vivente con Dio. Non soltanto tende a Lui il nostro conoscere e il nostro volere, bensì l'intero nostro essere.

«Il mio cuore e tutta la mia carne anelano al Dio vivente»,

dice il salmo, e noi sentiamo calmata la nostra sete solo quando siamo uniti con Lui anche nell'essere e nel vivere. Questo non significa mescolanza di essere né confusione di vita. Affermare cosa siffatta, sarebbe non soltanto temerario, ma insensato, perché nulla di creato può mischiarsi col divino. Eppure c'è un'unio-ne diversa da quella del mero conoscere e amare: l'unione della vita reale.

Noi vi tendiamo, dobbiamo tendervi e per questo anelito v'è un'espressione veramente profonda. La stessa Sacra Scrittura con la liturgia ce la mette sulle labbra: vorremmo essere uniti a Dio con la nostra vita personale come il nostro corpo con il cibo e con la be-vanda. Noi siamo affamati e assetati di Dio. Non sol-

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tanto lo vorremmo conoscere, non soltanto amare: lo vorremmo anche stringere a noi, trattenere, possede-re – sì, diciamo fiduciosi – lo vorremmo mangiare, bere, tutto in noi, fino a che ne fossimo sazi, del tutto paghi, del tutto compenetrati. La liturgia della festa del Corpus Domini lo dice anzi con le parole del Signore:

«Il Padre vivente Mi ha mandato. Come Io vivo nel Padre, così chi si ciba di Me, vive in Me».

È questo, nevvero? Non oseremmo esigere una cosa siffatta come nostro diritto; dovremmo temere di contaminarci con un sacrilegio. Ma ora è Dio in persona che parla così, che dice al nostro intimo:

«Così dev'essere!».

E inoltre: nulla di irriverente deve essere con que-sto pensato. Nulla che faccia sorgere il sospetto che noi si voglia cancellare i confini separanti noi, creatu-re, da Dio. Ma possiamo bene avvalerci di quello che Egli spesso ha posto come esigenza in noi. Possiamo allietarci di quanto la Sua bontà straordinariamente grande ci dona. È Cristo che parla:

«La mia Carne è veramente un cibo ed il mio sangue vera-mente una bevanda [...] Chi mangia la mia Carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui [...] Come il Padre mi ha dato di avere la vita proprio in me, allo stesso modo chi mi mangia, avrà in me la vita».

Mangiare la Sua Carne ... bere il Suo sangue, nu-trirsi di Lui ... accogliere in noi l'Uomo-Dio vivente, ciò che esso è e possiede, non è più di quanto noi avremmo potuto desiderare per conto nostro? È tut-

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tavia proprio tutto quello che il nostro intimo ha da desiderare?

Questo mistero trova così limpida espressione ap-punto nelle figure del pane e del vino.

Il pane è nutrimento, onesto, che realmente nutre. Sapido e vigoroso, da non annoiarci mai. Il pane è ve-race. E buono è pure: prendi la parola nel suo senso caldo e profondo. Ma nella figura del pane Dio diven-ta vitale nutrimento per noi uomini. Sant'Ignazio di Antiochia scrive ai fedeli di Efeso:

«Spezziamo un pane: che esso ci sia pegno dell'immortalità».

È un cibo che nutre tutto il nostro essere con il Dio vivente e fa sì che noi siamo in Lui ed Egli in noi.

Il vino è bevanda. Anzi, per parlar rettamente, non soltanto bevanda che spegne la sete; questa è l'acqua propriamente. Il vino mira a qualcosa di più.

«Esso rende lieto il cuore dell'uomo»,

dice la Scrittura. Senso del vino non è solo di spegne-re la sete, bensì d'essere la bevanda della gioia, della pienezza, della esuberanza.

«Com'è bella la mia coppa piena di ebbrezza!»,

dice il salmo. Comprendi cosa significa questo? Che qui ebbrezza ha un significato completamente diver-so da eccesso? Bellezza scintillante è il vino, profumo e forza che tutto dilata e trasfigura. Ed è sotto la figu-ra del vino che Cristo elargisce il suo Sangue divino. Non come bevanda ragionevolmente misurata, bensì come sovrabbondanza della prelibatezza divina.

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«Sanguis Christi, inebria me – sangue di Cristo inebriami»,

pregava Sant'Ignazio di Loyola, l 'uomo dal caldo sangue cavalleresco. E Agnese parla del Sangue di Cristo come d'un mistero d'amore e d'inesprimibile bellezza:

«Miele e latte ho succhiato dalla Sua bocca, e il Suo Sangue ha reso amabili le mie guance»:

così si dice nelle preghiere della sua festa. Cristo ci è divenuto pane e vino in un sacramento: cibo e bevan-da. Noi Lo possiamo mangiare e bere. Il pane è fedel-tà e salda costanza. Il vino è audacia, gioia oltre ogni misura terrena, profumo e bellezza, ampiezza di desi-derio ed esaudimento senza limiti, ebbrezza della vita: possedere, prodigare ...

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L'ALTARE

Forze molteplici vi sono nell'uomo: conoscendole, egli può abbracciare tutt'intorno le cose, stelle e mon-tagne, mari e fiumi, piante e animali e tutta l'umanità ch'è vicino a lui, e così arricchire il suo mondo inte-riore. Egli le può amare, le può odiare e respingere; può porsi contro di esse oppure tendervi e attirarle a sé. Può agire sul mondo circostante e modificarlo se-condo il proprio volere. Un vario ondeggiare di gioia e di brama, di afflizione e d'amore, di calma e di ecci-tazione accompagna il ritmo del cuore.

La sua forza più nobile è però questa: il riconosce-re che v'è qualcosa di più alto sopra di lui; il venerare codesto qualcosa di più alto e inserirvisi. L'uomo può conoscere al di sopra di sé Dio, Lo può adorare e può offrire se stesso «affinché Dio sia glorificato». Questa è l'offerta: che la sublimità di Dio risplenda nello spi-rito; che l'uomo adori questa sublimità; non si attardi egoisticamente nei propri possessi, bensì li trascenda, impegni se stesso affinché l'eccelso Iddio venga glori-ficato.

La forza più profonda dell'anima è la sua capacità di offerta. È nell'intimo dell'uomo che hanno sede la calma e la limpidezza donde sale l'offerta a Dio.

Appunto di questo nucleo più intimo, calmo e for-te, proprio dell'uomo, l'altare di pietra è il segno visi-

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bile. Esso sta nella parte più santa della chiesa, elevato dai gradini sul resto dello spazio, che pure è distinto esteriormente dalle altre opere dell'uomo, distaccato come il santuario dell'anima. Saldamente eretto sullo zoccolo sicuro, come il volere verace dell'uomo che non ignora Dio ed è deciso a impegnarsi per Lui. E sullo zoccolo la «mensa», un luogo ben preparato su cui è presentata l'offerta. Nessuna angolosità, superficie tutta libera. Nessuna penombra né azione nell'oscuri-tà, bensì aperta a tutti gli sguardi. Così, come l'offerta ha da aver luogo nel cuore. Tutta dispiegata dinanzi allo sguardo di Dio, senza riserve né secondi fini.

Ma l'uno è in intima relazione con l'altro: l'altare esteriore con quello interiore. Quello è il cuore del-la chiesa; questo la realtà più profonda di un petto umano che palpiti, del tempio interiore, del quale l'esterno con le sue pareti e vòlte è espressione e simi-litudine.

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I L I N I

Vengono spiegati sull'altare. Vi sono sull'altare dov'è distesa la tovaglia. Vi sono

sotto il calice e l'ostia dove si dispiega il «corporale», la veste del Signore. N'è rivestito il sacerdote che, quando compie il sacro rito, indossa l'«alba», il cami-ce. E n'è coperta pure la balaustra4, la tavola del Si-gnore, da cui vien porto il pane divino ...

Preziosi sono i veri lini; candidi, fini e robusti. Quando si dispiegano sì bianchi e freschi, io debbo pensare a un viottolo di bosco invernale. Mi sono d'un tratto portato sopra un versante tutto rivestito di neve da poco caduta e biancheggiante tra il nereggia-re degli alberi. Non ho osato corrervi sopra con le mie scarpe pesanti; mi ci sono mosso tutto pieno di reve-renza ... Allo stesso modo sono dispiegati i lini per il Santo.

Innanzitutto non possono mancare sull'altare, dove è innalzata l'offerta divina. Abbiamo già parlato dell'altare: come esso se ne stia elevato quale luogo santissimo del santuario; come l'altare esteriore sia si-militudine di quello interiore ch'è nell'anima. Anzi, più che similitudine: l'altare visibile non simboleggia

4. Prima della riforma liturgica, quando ci si accostava alla Comu-nione inginocchiati (n.d.r.).

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soltanto l'altare del cuore, dell'interiore disposizio-ne all'offerta, bensì altare visibile e altare del cuore sono intimamente uniti. In maniera misteriosa for-mano una cosa sola. L'altare vero e proprio, quello cui si è offerto il sacrificio di Cristo, è l'unità vivente di ambedue.

Perciò i lini parlano così efficacemente al cuore. Noi avvertiamo che a essi qualcosa ha da rispondere nel nostro intimo. Li sentiamo come un'ingiunzione, un rimprovero, un'aspirazione. Solo da cuor puro s'innalza la vera offerta, e i lini personificano appunto la purezza quale ha da essere nel cuore, affinché l'of-ferta riesca ben accetta a Dio.

E ci dicono qualcosa sulla purezza. I veri lini sono fini e nobili. Una natura grossolana e violenta non co-stituisce per sé purezza alcuna; ma neppure essa ha a che fare con facce accigliate. La sua forza è la forza della finezza: la sua disciplina è nobile. Ma in essa vi-bra del vigore. I lini schietti sono robusti. Non leggeri tessuti che si sfilacciano a ogni soffio di vento. La vera purezza non è cosa da malati, non fugge dinanzi alla vita, non si avanza consumandosi in sogni equivoci o perseguendo ideali esagerati. La vera purezza ha le guance rosee della vita gioiosa e la mossa energica e sicura della lotta valorosa.

E ancor una cosa suggeriscono i lini a chi ha sensi aperti e spirito riflessivo: essi non furono subito così fini e candidi come si presentano ora. Da principio erano rozzi, senza decoro: e si dovette lavarli spesso e lavorare perché ottenessero codesta freschezza odo-rosa. Neppur la purezza esiste fin da principio. Certo essa è grazia; certo vi sono degli uomini che la porta-no qual dono nelle loro anime, così che l'intera loro

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natura possiede la vigorosa freschezza d 'un ' in t ima ca-stità naturale. Ciò invero che negli altri casi si chiama purezza è spesso u n a cosa mol to dubbia e significa che nessun turbine l 'ha ancora investita. La vera pu-rezza n o n sta all'inizio, bensì alla fine. Solo con lunga e indomita fatica essa viene conquistata. I lini s tanno dispiegati sull 'altare, candidi, fini, robusti; sono pu-rezza, nobiltà di cuore , freschezza di forza.

Nell 'Apocalisse di San Giovanni si parla in un cer-to p u n t o d i

«una grande schiera che nessuno avrebbe saputo numera-re, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Essa stava in pie-di dinanzi al trono ed ognuno indossava una veste bianca»,

e u n o domanda :

«Quelli là che sono vestiti di bianco, chi sono e donde sono venuti?».

E fu data risposta:

«Sono coloro che vengono dalla grande tribolazione e han-no lavato e purificato le loro vesti nel sangue dell'Agnello. Perciò stanno ora dinanzi al trono di Dio e Lo servono giorno e notte». «Avvolgimi in una bianca veste, o Signore»,

prega il sacerdote, q u a n d o indossa il camice per il santo Sacrificio ...

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IL CALICE

Un giorno, sono passati molti anni ormai, ho appre-so a conoscere il calice. Ne avevo già visti molti, ma di conoscerlo appieno m'è avvenuto soltanto a Beuron, allorché il monaco cortese, cui erano affidati gli arre-di sacri, mi ebbe a mostrare i tesori della sacrestia.

Esso si reggeva saldo sull'ampio piede, senza vacil-lare sul tavolo. Il fusto saliva energico, sottilissimo. Si sentiva quasi la forza saliente, compressa, portante. Alquanto sopra la metà, il capitello dalla modanatura profonda, e infine, il culmine del fusto, là dove un pic-colo anello raccoglieva in un'ultima disciplina la nobi-le forza, spuntavano le foglie delicate e severe tra cui riposava il cuore del calice, la «coppa».

Come ho sentito allora il santo mistero! Come il fusto portante si drizzi dalla base sicura e

pesante, in uno slancio severamente contenuto, e da esso fiorisca quella figura che ha un solo significato: accogliere, custodire.

O puro, o santo! Tu, arcano, tu, coppa, che na-scondi nel fondo scintillante le gocce divine, l'inespri-mibile mistero del Sangue tremendo e dolce ch'è puro fuoco, puro amore!

E il pensiero correva ... No, non era un pensare; era piuttosto un intravvedere, un intuire: non sta for-se qui il mondo?

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La creazione che, in fondo, ha un unico senso? L'uomo, quello vivente, anima e corpo, dal cuore pal-pitante? ...

Agostino non ha pronunziato la grande parola: l'intimo nucleo della mia umanità è costituito dal fat-to che sono «capace di cogliere Dio»?

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LA PATENA

Era mattina. Ero salito sulla vetta e mi volgevo in-dietro. Sotto, al fondo, si raccoglieva il lago e tutt'at-torno nella luce dell'alba sorgevano i monti, solenni e calmi. Tutto era così puro; lo spazio in alto e gli alberi con i loro rami dalle nobili forme così freschi; in me stesso tutto l'essere così pervaso da vigore schietto e gioioso, che mi pareva stillassero sorgenti invisibili, si-lenziose, e tutto si illuminasse dilatandosi.

Compresi allora come a un uomo possa gonfiarsi il cuore, e come egli s'arresti, alzi il viso, apra le mani come una patena, sollevandole su verso l'infinitamen-te Buono, il Padre della luce, il Dio che è amore, of-frendogli tutto quanto d'attorno e nel mondo cresce e risplende in calma strabocchevole. Per lui dev'esse-re come se dalla patena, che le sue mani sostengono, tutto salga terso e santo verso l'alto.

Proprio come un giorno Cristo s'è portato sulla vetta dello spirito e ha offerto al Padre il suo amore, il respiro della sua vita quale sacrificio totale. Su quella vetta di cui era stato un gradino il monte Moria, sul quale Abramo aveva compiuto il suo sacrificio. E pri-ma ancora il luogo in cui il Sacerdote regale aveva of-ferto la sua espiazione. E, risalendo ancora, quello dove nei tempi primitivi salì al cielo, tutto puro, il dono di Abele.

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Questa altitudine s'eleva sempre, e sempre si pro-tende la m a n o divina, e sempre sale il d o n o , quando il sacerdote – n o n l 'uomo, che, la persona, è invero s t rumento insignificante – è all'altare e leva in alto, aper te le palme, la pa tena su cui è disposto il bianco pane .

«Accogli, o Padre santo, onnipotente ed eterno Dio, quest'of-ferta immacolata, che io, indegno tuo servo, presento a Te, mio Dio vivo e vero, per i miei innumerevoli peccati e le tante mie offese e negligenze; per tutti quelli che sono qui attorno, affinché e a me e a loro sia di profitto per la salvez-za nella vita eterna».

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LA BENEDIZIONE

Benedire può soltanto chi possiede autorità. Be-nedire può solo chi sa creare. Benedire può soltan-to Iddio.

Dio, benedicendo, ferma lo sguardo sulla sua creatu-ra: la chiama per nome. Il suo amore onnipotente si vol-ge al cuore e all'intimo nucleo della creatura e dalla mano di Dio si effonde la forza che rende buoni:

«Vi guarderò e vi farò crescere».

Solo Dio può benedire. Perché benedire è dispor-re di quanto è e agisce. La benedizione è una parola di potenza che pronuncia il Signore della creazione: ac-consentimento e promessa del Signore della Provvi-denza. Benedizione è destino felice.

Nietzsche ha pronunciato una parola di ribellione, quando ha detto:

«Da supplici dobbiamo farci benedicenti».

E sapeva bene quello che voleva dire. Solo Dio in-fatti può benedire, perché Egli è il Signore della vita. Noi invece siamo essenzialmente dei supplici.

Il contrapposto della benedizione è la maledizio-ne. Questa significa sentenza di morte, sigillo di per-dizione. Anch'essa si dirige a un viso, a un cuore. E il

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comando del Signore che serra le fonti della vita. Però, di questo potere di benedire e di maledire, Dio ha fatto partecipi tutti quelli che sono chiamati a su-scitare la vita: i genitori – «la benedizione del padre edifica le case ai figli» – e i sacerdoti. Essi hanno da evocare la vita: la vita della natura i primi; quella della grazia i secondi. A questo sono destinati dalla loro na-tura e dal loro ufficio.

E uno può pretendere la facoltà di benedire quan-do è tutto puro; quando non cerca più se stesso, bensì vuol essere in tutto servitore del vivente Iddio. Il pote-re però è sempre di Dio. Esso viene meno quando si pretende di possederlo per virtù propria. Per natura noi siamo dei supplici. Solo per grazia diveniamo be-nedicenti – allo stesso modo che solo per grazia divi-na abbiamo il potere di comandare efficacemente.

E come per la prerogativa di benedire, così è per la facoltà di maledire: «La maledizione della madre ab-batte le case ai figli»; le «case», la vita, la salute.

Ciò che nella natura è prefigurato, trova il suo compimento nella grazia. Quello infatti che nella be-nedizione propriamente profluisce, - nella vera bene-dizione, in quella di cui tutta la realtà naturale è solo similitudine – è appunto la vita stessa di Dio. Iddio be-nedice con se stesso: vi elargisce se stesso, la sua bene-dizione è produzione di vita divina:

«Partecipazione alla natura divina».

E però grazia, puro dono elargitoci in Cristo. Tale è la benedizione in cui Dio si dona a noi nel

segno della croce. Questa forza di benedizione divina Egli l'ha partecipata a quelli che fanno le sue veci: per il mistero del Matrimonio cristiano la possiede il pa-

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dre, la possiede la madre. Per il mistero della Consa-crazione presbiterale la tiene il sacerdote. Per il Batte-simo e il sacerdozio regale della Cresima ne sono fatti partecipi quelli che

«amano Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le loro forze».

A tutti costoro Dio ha dato il potere di benedire con la Sua propria vita: a ciascuno in modo diverso, secondo la maniera della sua missione.

La benedizione ha la sua espressione nella mano; il compimento nel gesto della medesima. Essa si posa sul capo nella Cresima e nella Consacrazione sacerdotale, affinché per essa si effonda quanto viene dall'Alto e sgorga dallo Spirito di Dio. Essa traccia il segno della Croce sulla fronte oppure sopra la persona, affinché vi si riversi la pienezza di Dio. La mano infatti è la for-za elargitrice: essa crea, essa forma, essa dona.

Ma la benedizione suprema si ha quando è impar-tita con Io stesso santissimo, con il Corpo di Cristo nel Sacramento dell'Altare. Ha, però, da compiersi in grande reverenza e nella disciplina del mistero.

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SANTO SPAZIO

Lo spazio naturale ha delle direzioni: le tre che co-nosciamo. Esse indicano ch'è spazio ordinato, non caos. Ordine del contiguo, del sovrapposto, del sotto-posto. Tale spazio fa sì che la nostra vita possa cresce-re e muoversi in pienezza di senso; che possiamo edi-ficare case, dar loro forma, abitarle.

Anche lo spazio soprannaturale, lo spazio santo, ha un ordine: che è radicato nel divino mistero.

La chiesa è orientata da Occidente a Oriente, ver-so il sorgere del sole. L'anelito alla luce solare la per-corre e la vivifica. Essa ne ha da ricevere i primi e gli ultimi raggi. Cristo è infatti il sole del mondo sacro. La direzione della sua vita è l'ordine dello spazio san-to, di ogni costruzione e di ogni figura che è ben indi-rizzata verso la vita eterna.

Quando ha da essere letto il Vangelo, il messale vie-ne portato a sinistra, vale a dire, verso Nord, giacché l'al-tare è vòlto a Oriente. La santa Parola viene dal Sud e va verso il Nord. Questo non richiama soltanto il fatto storico che tale parola mosse dal Mediterraneo: il Sud è inoltre pienezza della luce, similitudine della chiari-tà soprannaturale. Il Nord è simbolo del freddo e del-la tenebra. È dalla luce che muove la Parola di Dio: da Dio che è la luce del mondo e risplende nelle tenebre e penetra l'oscurità qualora venga accolta.

Una terza direzione è quella dall'alto al basso.

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Quando il sacerdote si appresta all'offerta, leva in alto la patena e il calice. Dio infatti è «lassù», «il Santo del-la sublimità». Il supplice volge verso l'alto lo sguardo e le mani; de profundis «alle sante altezze». E quando il vescovo benedice o il sacerdote consacra, essi abbas-sano le mani posandole sul capo del fedele inginoc-chiato, oppure sulle cose che loro stanno innanzi. Ogni creatura infatti è «in basso», e la benedizione proviene dall'altissimo. È la terza direzione dello spa-zio santo. La direzione dell'anima: dell'anelito, della preghiera e dell'offerta. La direzione di Dio: della gra-zia, della pienezza, del Sacramento.

Tali sono le direzioni dello spazio santo: Verso il sole sorgente che è Cristo. Qui si dirige lo

sguardo del credente; di qui penetra nel nostro cuore il raggio della luce divina. È la grande orientazione dell'anima e la linea della discesa di Dio.

Da Nord a Sud, da dove la tenebra si volge alla luce che irradia dalla parola divina. E questa viene dall'ar-denza del cuore per illuminare e per riscaldare.

E infine dal basso verso l'alto: è il movimento dell'anima nell'anelito, nella preghiera, nell'offerta, dalle profondità della propria miseria al trono dell'al-tissimo Iddio. A esso risponde il compimento, che si dispiega nella grazia, nella benedizione, nel Sacra-mento.

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LE CAMPANE

Dentro, lo spazio della chiesa parla di Dio. Esso ap-partiene al Signore, è tutto compenetrato della sua santa presenza. È anzi casa di Dio, separata dal mon-do da pareti e volte. Codesto spazio è vólto all'inter-no, al Nascosto, e parla del mistero di Dio.

E lo spazio di fuori? La grande vastità sopra il piano che si distende all'infinito da tutti i lati? Che si dispiega fino alle cime, protesa nell'infinito? Che riempie in profondo riposo le valli recinte dalle montagne? Non è essa pure collegata con il santuario?

O certo, anch'essa! Dalla casa di Dio il campanile si drizza nella libera atmosfera e ne prende per così dire possesso per conto di Dio. Sul campanile, incastella-te, sono sospese le campane, gravi di bronzo. Esse oscillano nella vibrazione, e tutto il loro corpo dalla nitida forma oscilla e manda rintocchi su rintocchi lontano nella vastità dello spazio. Onde di note armo-niche: limpide e rapide, gravi e piene, oppure profon-de e nella loro lentezza quasi minacciose. Sciamano via, percorrono la vastità immensa e la riempiono dell'annuncio del santuario.

Il messaggio della vastità; il messaggio di Dio senza limiti né confini; il messaggio dell'anelito e del suo in-finito soddisfacimento.

Esse chiamano l'«uomo dell'anelito»; l'uomo il cui cuore è aperto all'immensa vastità.

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Sì, quando udiamo le campane, noi sentiamo la va-stità! Quando esse oscillano dal campanile verso la pianura, in tutte le direzioni dell'infinito, anche l'ane-lito dispiega con esse le ali verso la lontananza, finché comprende che il soddisfacimento non si trova al mar-gine della pianura evanescente nell'azzurrino, bensì dentro.

Quando i rintocchi delle campane dalla chiesetta montana inondando la valle oppure salgono nell'az-zurro del cielo, il petto si allarga e sente d'essere mol-to più ampio di quanto altrimenti credesse.

Oppure i rintocchi giungono da lontano nel bosco attraverso la verde calma del crepuscolo, né sai di dove, lontano, lontano. Oh, come tutto si desta qui! Cose da lungo dimenticate riaffiorano, così che ci si arresta, si ascolta, ci si domanda:

«Ma cos'è questo? ... Cosa? ... ».

Qui si percepisce la vastità. Come essa sia un dila-tarsi dell'anima, un ipertendersi, un rispondere all'in-vito lontano della infinità.

«Così vasto il mondo», dicono le campane. «Così pieno di nostalgia ... Dio chiama ... In Lui solo è la pace ... ».

O Signore, più vasta del mondo è la mia anima. Più profondo di tutte le valli è il suo sospiro e il suo anelito è più doloroso del rintocco che va perdendosi nelle lontananze.

Tu, Signore, Tu solo lo puoi soddisfare, Tu solo ...

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T E M P O S A N T I F I C A T O

Ogni ora del giorno ha una tonalità sua propria . Sono pe rò tre quelle che si presentano con una fisio-nomia par t icolarmente distinta: il mat t ino, la sera e, tra l 'una e l'altra, il mezzodì. E tutte sono consacrate.

Il mattino

Il volto del mat t ino risplende energico e luminoso più d 'ogni altra ora. È un inizio: il mistero della nasci-ta che si r innova ogni matt ina. Ci dest iamo dal sonno in cui il nostro essere s'è ringiovanito e percepiamo ne t to e forte: «Io vivo, io sono!». E questo essere rivi-ficato si fa preghiera:

«Signore, Tu mi hai creato; io ti ringrazio della mia vita. Ti ringrazio per quello che possiedo e sono».

E la vita r innovata percepisce le sue forze e si pro-t ende all 'azione:

«Signore, io comincio la giornata nel Tuo nome e nella Tua forza. Essa vuole essere un operare per Te!».

Ques ta è l 'ora del matt ino. La vita si ridesta. E, p ro fondamente consapevole di sé, porge a Dio il p u r o r ingraziamento della creatura. Sorge a nuove

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creazioni e si applica all'opera quotidiana movendo da Dio e nella forza di Dio.

Comprendi quanto dipende dalla prima ora del giorno? Essa è il suo inizio. Non lo si può incomincia-re senza un pensiero e un proposito. Altrimenti non è affatto una «giornata», bensì un brandello di tempo senza senso né volto. Una giornata è un'opera; esige perciò illuminato volere. Una giornata è la tua vita in-tera. E la tua vita è come la tua giornata: perciò questa ha da avere una fisionomia.

Una volontà, dunque, una direzione, un volto af-fissato in Dio: tutto questo è opera del mattino.

La sera

Anch'essa ha il suo mistero: il mistero della morte. Il giorno volge al termine; l'uomo si appresta a com-porsi nel silenzio del sonno. Il mattino era compene-trato d'un vigoroso sentimento di forza rinnovata; a sera la vita è stanca e cerca il riposo. E in essa echeggia il mistero della morte. Spesso non lo percepiamo af-fatto: il nostro spirito è ancora dominato dalle imma-gini e dai propositi del giorno che ha da seguire. Tal-volta vi si fa sentire come un presentimento lontano. Ma ci sono anche delle sere in cui avvertiamo come la vita inclini verso la grande tenebra

«dove nessuno può agire più».

E tutto dipende dalla nostra maggiore o minore capacità di comprendere il mistero della morte. Mori-re non significa soltanto che la vita volge al termine. Morire è anche l'ultimo atto di questa vita: il suo atto

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estremo, decisivo di tutto. Ciò che avviene nella vita, sia d'un individuo che d'un popolo, non è mai com-piuto ed esaurito. Ha pur sempre importanza grande quello che l'individuo o il popolo ne fanno: quale at-teggiamento prendono al riguardo; se dall'accaduto sanno trarre o meno qualcosa di nuovo, in bene o in male. Immagina che una grande disgrazia si sia abbat-tuta sopra un popolo. Certo essa è avvenuta; non è però ancora finita. Codesto popolo può abbandonar-si alla disperazione, ma può anche riprendersi, rico-minciare. Solo in questo secondo momento si compie ciò che pur da tempo è accaduto. Così la morte, nelle sue profondità, significa questo: essa è l'ultima parola che una persona pronunzia sulla sua vita passata; il volto definitivo che essa le dà. La grande decisione di-pende da una duplice alternativa: che la persona strin-ga un'ultima volta nelle mani l'intera sua vita; che il ri-morso l'avverta di quanto fu manchevole e lo consumi col suo fervore; che per il bene fatto essa attribuisca a Dio, in spirito di gratitudine e umiltà, l'onore, e tutto abbandoni al Signore con generosità incondizionata; oppure che tal persona si sgomenti e la sua vita giun-ga al termine senza dignità né forza. In tal caso la vita non viene affatto ad avere un termine: essa viene sem-plicemente meno. Non ha né aspetto né decoro.

Questa è l'«arte sublime di morire»: l'arte di far as-surgere la vita passata a un unico atto di devozione a Dio.

Ora bada: ogni sera deve costituire una esercitazio-ne in quest'arte sublime di dare alla vita la conclusio-ne reale che assicuri a tutto il passato un valore defini-tivo e un volto eterno.

L'ora della sera è l'ora del compimento. Stiamo di-

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nanzi a Dio prevedendo che ci troveremo un giorno dinanzi a Lui faccia a faccia, a rendere l'ultimo conto. Sentiamo quel che si nasconde nella parola: «È avve-nuto»: il bene; il male; perdere e dilapidare. Ci ponia-mo dinanzi a Dio, a Quegli per «cui tutto vive», il pas-sato come il futuro, e che può persino ridonare al cuore contrito i beni perduti. E dinanzi a Lui diamo al giorno trascorso il volto definitivo. Ciò che in esso non fu giusto, lo fissi il rimorso e lo «riveda»; ciò che vi fu di buono, il ringraziamento, umilmente sincero, lo spogli di ogni vanità. E tutto quanto è incerto, in-soddisfacente, meschino e torbido, venga immerso dalla piena fiducia nell'onnipotente amore di Dio.

L'ora del mezzodì

Al mattino la vita risorge, sale, prima, rapida e gioiosa; poi, cumulandosi gli ostacoli, più lenta. Rag-giunge alfine il culmine del mezzodì e riposa alquan-to tempo. Accenna però presto alla curva discenden-te: s'affievolisce sempre più, finché, dopo una nuova breve ripresa, si compone nel silenzio della notte. Tra il sorgere e il tramontare però, al vertice del giorno, respira un attimo breve, meraviglioso: il mezzodì. Qui la vita non guarda all'avvenire perché non vi si pro-tende. Non si volge ancora al passato, perché il di-scendere della parabola non s'è accennato ancora. Si arresta e sta; ma non è stanca: questa sosta è ancora vi-gorosa di tutto l'impeto della corsa. È una sosta nel mero presente. E il suo sguardo si spinge nell'immen-sità - no, non s'affisa affatto nello spazio o nel tempo: si spinge nell'eternità.

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Com'è profondo l'attimo del mezzodì! Nella città non l'avverti, giacché qui tutto è rumore e non v'è si-lenzio né intimità. Ma va' fuori, per i seminati, oppure in un calmo boschetto, d'estate, quando il sole è allo zenith e la distesa è tutta una vampa – come ti riesce profondo tutto questo! Ti arresti e il tempo ti sfugge: l'eternità ti guarda faccia a faccia. L'eternità infatti parla sì ogni ora; a mezzodì però essa ci è vicina. Qui il tempo fa una sosta, quasi si apre. Il mezzodì è puro presente, la pienezza del giorno.

Pienezza del giorno ... Vicinanza dell'eternità ... Sostare e aprirsi ... Da lontano squilla la campana dell'Angelus ... Proferisce nel meriggio silente la paro-la redentrice:

«In principio era la Parola e la Parola era presso Dio e Dio era la Parola». «E la parola si è fatta carne. E ha preso abitazione tra noi».

Si presentò una volta l'ora meridiana del giorno dell'umanità, la «pienezza dei tempi». Ed era persona umana quella in cui si presentò questa pienezza, sostan-dovi: Maria. Ella non ebbe fretta: non guardò né in-nanzi né indietro. La pienezza dei tempi si trovava in Lei, schietto presente, aperto all'eternità, e attende-va. E l'eternità si piegò a Maria, venne l'annunzio e la Parola eterna si fece carne nel suo purissimo grembo.

La campana evoca questo mistero nella nostra giornata. Nel bel mezzo della giornata cristiana si rav-viva sempre di nuovo il mistero del meriggio umano: in ogni tempo echeggia la pienezza dei tempi.

La nostra vita intera dovrebbe essere vicina all'eternità. In noi dovrebbe esserci sempre la calma raccolta che è aperta all'Eterno e gli presta ascolto.

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Ma la vita è rumorosa e soverchia la voce dell'eternità. Così, almeno nell'ora consacrata del mezzodì all'An-gelus, abbiamo da raccoglierci, sgombrare l'animo da quanto ci sollecita, far silenzio e prestar orecchio al mistero in cui

«la Parola eterna, quando tutto si fu composto in profondo silenzio, scese dal trono regale»;

un dì nella concreta realtà storica; ora, in modo sem-pre nuovo, in ogni anima.

E quanto profondamente ci si può sentire, in quest'attimo di raccoglimento, una cosa sola con gli altri di fuori, che stanno in eguale raccoglimento! Quale profonda comunione si può avere così; quale ampia comunità salutare e benedire fin lontano, lon-tano ...

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NEL N O M E DI DIO

Noi uomini siamo divenuti grossolani. Di molte cose delicate e profonde non sappiamo più nulla, e la parola è una di queste. Pensiamo ch'essa sia qualcosa di esteriore, perché non avvertiamo più la sua realtà interiore. Pensiamo che sia qualcosa di labile, perché non ne sentiamo più la forza. Essa non urta più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e di timbro. Invece è un fine involucro per racchiudere al-cunché di spirituale. L'essenza di una cosa, e la nota della nostra propria anima dinanzi a ogni cosa, s'in-contrano nella parola e vi ottengono espressione. O meglio così dovrebbe essere. E certamente nel primo uomo era così.

Nella prima pagina della Sacra Scrittura si legge che Dio «condusse innanzi all'uomo gli animali» per-ché li denominasse. L'uomo con aperti sensi e anima veggente spinse lo sguardo attraverso la figura nell'es-senza, ed espresse quest'ultima nel nome. E la sua ani-ma rispose alla creatura. Si sentì toccata in qualcosa che stava in particolare relazione con l'essenza di quella creatura, giacché nell'uomo si presenta la sintesi e l'uni-tà della creazione intera. E questi due elementi: Ves-senza della cosa, fuori e la risposta a quest'ultima nell'uomo, dentro – elementi ambedue vitalmente uniti – espresse egli nel nome.

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Nel nome dunque si combinarono insieme un ato-mo del mondo e una nota dell'interiorità umana. E quando l'uomo pronunziò il nome, la fisonomia es-senziale della cosa emerse nel suo spirito, e a questa intuizione corrispose nella voce quello ch'era stato ri-sposto dal suo intimo. In tal modo il nome divenne un segno misterioso, per cui l'uomo prese possesso del mondo e di se stesso.

Le parole sono nomi. E il parlare è l'arte sublime di usare dei nomi delle cose; di cogliere l'essenza del-le cose e l'essenza della propria anima nella loro ar-monia da Dio voluta.

Questa intima relazione però, col creato e col pro-prio Io, non fu durevole. L'uomo peccò, il vincolo fu spezzato. Le cose gli divennero estranee, anzi nemi-che. Egli non le penetrò più con occhio puro, bensì cupidamente, da tiranno e insieme con lo sguardo malsicuro del colpevole. Esse però gli chiusero la loro essenza. E anche il fondo del proprio essere gli fuggì, perché aveva voluto attuarlo egoisticamente. Non vis-se più guardando infantilmente nella propria anima. Questa gli sfuggì ed egli divenne ignaro di se stesso e impotente di fronte a se stesso.

La parola «nome» non stringe ormai più per lui, in un'unità vivente, l'essenza della cosa all'essenza del-l'uomo. In tale parola non lo investe più ormai il pen-siero divino della creazione ordinata nella pace. L'uomo vi vede solo una figura lacerata e sconvolta, vi percepisce come un motivo stonato, soffuso di cupi presentimenti e di aneliti oscuri. E quando per avven-tura ode in modo giusto la parola, allora si arresta, presta ascolto, riflette, e non ne trova più il senso. La parola rimane confusa, enigmatica, ed egli sente do-lorosamente che il paradiso è perduto.

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Ma neppure questo succede più. Noi uomini sia-mo divenuti così superficiali, che non proviamo più ormai il dolore per le parole distrutte. Abbiamo pre-so a pronunciare i nomi in modo sempre più rapido, più superficiale ed esteriore, pensando sempre meno alle essenze espressevi. Le abbiamo trasmesse ad altri, come si passa una moneta da una mano all'altra; non si sa che aspetto abbia, cosa ci sia sopra; si sa soltanto che per essa si riceve tanto. Così le parole sono corse celermente di bocca in bocca. Il loro intimo non ha parlato più; l'essenza della cosa non si è fatta più udi-re; l'anima non si è più rivelata in esse. Si ridussero ormai solo a parole-monete: indicarono la cosa, senza però rivelarla. Si ridussero a meri segni, che permet-tessero agli altri di intendere la propria volontà. Così il linguaggio coi suoi vocaboli, non è più un commer-cio pieno d'anelito con l'essenza delle cose, né un in-contro di cose e anima. Non è più ormai nostalgia del paradiso perduto, bensì un frettoloso sonar delle pa-role-monete, quasi una macchina numeratrice che di-stribuisca le monete e nulla sappia di esse.

Solo qualche volta ci scotiamo. Quando d'un trat-to ci viene un richiamo da una parola tale che sembra echeggiare da abissi. L'essenza ci parla. Oppure la pa-rola sta sulla carta, e dal segno nero s'accende come una luce. È il «nome» che si presenta, l'essenza, la ri-sposta dell'anima. Qui riproviamo l'esperienza origina-ria da cui è scaturita la parola, l'esperienza in cui l'ani-ma incontrò l'essenza della cosa. Proviamo la visione stupefacente, la stretta spirituale con cui l'uomo colse l'essenza del nuovo che gli sta dinanzi e lo coniò, at-tingendo al suo intimo, nella creazione del nome. Avanziamo in una distesa immensa, precipitiamo in

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un abisso, ed ecco che la parola ci ridiventa quell'ope-ra prima a cui Dio chiamò lo spirito umano. Certo, una parola logorata, immiserita. Eppure presto tutto si disperde di nuovo e la macchina numeratrice tintin-na di nuovo ...

Non lasciar perdere questi istanti. Forse il nome «Dio» ti si può presentare in modo

siffatto. Quando riflettiamo a tutto questo, ben pos-siamo comprendere perché i fedeli dell'Antico Testa-mento non pronunciassero affatto il nome di Dio. A esso sostituivano il nome di «Signore». Infatti da questo è appunto costituita la particolare lezione del popolo ebraico: dal fatto che esso ha sentito più immediata-mente degli altri popoli la realtà di Dio, la vicinanza di Dio. La sua grandezza, la sua sublimità e terribilità Israele l'ha sentita più fortemente di ogni altra nazio-ne. Agli Ebrei Dio aveva manifestato attraverso Mosè il suo nome:

«Colui che è, questo è il mio nome».

«L'Esistente», che non ha bisogno di alcun altro, che riposa tutto in se stesso, sintesi e sostanza di tutto l'essere e di ogni forza.

Il nome di Dio era per essi immagine della Sua es-senza. Quest'essenza di Dio la vedevano irraggiare dal Suo nome. Il quale era per essi come Dio stesso, e li riempiva di timore come quando un giorno avevano temuto sul Sinai il Signore in persona. E invero Dio parla del suo nome come di se stesso: «Il mio nome ha da esser là»: Egli dice del Tempio. E nell'Apocalisse promette al fedele perseverante che «lo eleverà a co-lonna del tempio di Dio» e che

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«scriverà il proprio nome su di lui».

Lo vuol così consacrare e fargli dono di se stesso. Così comprendiamo il comandamento:

«Non nominare invano il nome di Dio, tuo Signore».

Comprendiamo perché il Salvatore ci insegni a pregare:

«Venga santificato il tuo nome».

E perché dobbiamo incominciare «nel nome di Dio» quanto facciamo. Misterioso è il nome di Dio, l'essenza dell'Infinito ne irradia; l'essenza di «Colui che è» in pienezza incommensurabile e in elevatezza infinita.

E in questa parola vibrano anche le scaturigini più profonde della nostra anima. Il nostro essere più inti-mo risponde a Dio, poiché appartiene indissolubil-mente a Lui. Creato da Lui e per Lui, non ha pace, fino a che non è unito con Lui. Il nostro Io anzi non ha altro senso che quello di restituirsi nella comunio-ne d'amore con Dio. Tutto questo, tutta la nostra no-biltà, l'anima della nostra anima, si trova racchiusa nella parola «Dio» e «Mio Dio». La mia origine e il mio fine, inizio e termine del mio essere, adorazione, anelito, rimorso: tutto.

Il nome di Dio è propriamente tutto. Così lo pre-ghiamo che c'insegni a «non nominare invano il suo nome», bensì a «santificarlo». Lo preghiamo che il suo nome ci risplenda nella gloria. Tale nome non deve mai diventare per noi una moneta che passa

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inerte da una mano all'altra: ci deve piuttosto restare infinitamente prezioso, tre volte santo.

Onoreremo pertanto il Nome di Dio, come Dio stesso. E in esso onoreremo anche il santuario del-l'anima nostra.

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INDICE

Lo spirito della liturgia

Prefazione di Giulio Bevilacqua 9

CAPITOLO PRIMO La preghiera liturgica 15

CAPITOLO SECONDO La comunità liturgica 37

CAPITOLO TERZO Lo stile liturgico 47

CAPITOLO QUARTO Il simbolismo liturgico 59

CAPITOLO QUINTO La liturgia come gioco 69

CAPITOLO SESTO La serietà della liturgia 83

CAPITOLO SETTIMO Il primato del Lògos sull'Ethos 99

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I santi segni

Prefazione dell'Autore 113

Premessa 117

Del segno della Croce 125

La mano 127

Dell'inginocchiarsi 131

Lo stare in piedi 133

L'incedere 135

Del battersi il petto 139

I gradini 143

Ilportale 147

II cero 151

L'acqua benedetta 155

Lafiamma 159

La cenere 163

L'incenso 165

Luce e calore 167

Pane e vino 171

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L'altare 175

I lini 177

Il calice 181

La patena 183

La benedizione 185

Santo spazio 189

Le campane 191

Tempo santificato 193Il mattino, 193 - La sera, 194 - L'ora del mezzodì, 196.

Nel nome di Dio 199

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Romano Guardini Opera Omnia

VI. Scritti politici, a cura di Michele Nicoletti

Opere

Accettare se stessi, 3 ed. L'Angelo. Cinque meditazioni Ansia per l'uomo, 2 voli, (in ristampa) Appunti per un'autobiografia Contemplazione sotto gli alberi La conversione di S. Agostino, 2 ed. La coscienza. Il bene - Il raccoglimento, 3 ed. riv. Dante, 4 ed. Diario. Appunti e testi dal 1942 al 1964 Il diritto alla vita prima della nascita Dostojewskij. Il mondo religioso, 5 ed. Elogio del libro, 2 ed. L'esistenza e la fede (in ristampa) L'essenza del cristianesimo, 9 ed. Etica, a cura di M. Nicoletti e S. Zucal, 2 ed. Europa. Compito e destino, a cura di S. Zucal Fede - Religione - Esperienza. Saggi teologici, 2 ed. La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, 4 ed. La fine dell'epoca moderna - Il potere, 10 ed. Hólderlin. Immagine del mondo e religiosità, 2 voll. Introduzione alla preghiera, 9 ed.

Lettere dal lago di Como. La tecnica e l'uomo, 3 ed. Lettere sull'autoformazione, 6 ed. Libertà - Grazia - Destino, 3 ed. Linguaggio - Poesia - Interpretazione, 3 ed. aumentata La Madre del Signore. Una lettera, 2 ed. 77 messaggio di San Giovanni. Meditazioni sui testi dei discorsi dell'addio e della prima lettera, 2 ed. Miracoli e segni, 2 ed. Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, a cura di S. Zucal, 2 ed. La morte di Socrate. Interpretazione dei dialoghi pla-tonici Eutifrone, Apologia, ditone e Fedone, 4 ed. Natale e Capodanno. Pensieri per far chiarezza, 2 ed. Natura - Cultura - Cristianesimo. Saggi filosofici L'opera d'arte, 2 ed. L'opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente Parabole Pascal, 5 ed. La Pasqua. Meditazioni Pensatori religiosi, 2 ed. Preghiera e verità. Meditazioni sul Padre Nostro, 3 ed. Preghiere teologiche, 6 ed. Rainer Maria Rilke. Le Elegie duinesi come interpre-tazione dell'esistenza, 2 ed. La realtà della Chiesa, 5 ed.

La realtà umana del Signore. Saggio sulla psicologia di Gesù (in ristampa) Ritratto della malinconia, 5 ed. La Rosa Bianca, a cura di M. Nicoletti, 8 ill. f.t., 2 ed. Il Rosario della Madonna, 5 ed. San Francesco, 2 ed. La Santa Notte. Dall'Avvento all'Epifania Sapienza dei Salmi (in ristampa) 77 senso della Chiesa (in ristampa) Lo spirito della liturgia -I santi segni, 10 ed. Tre interpretazioni scritturistiche. In principio era il Verbo - L'amore cristiano - L'attesa della creazione Tre scritti sull'università, a cura di M. Farina Virtù. Temi e prospettive della vita morale, 4 ed. La visione cattolica del mondo, a cura di S. Zucal, 2 ed. La vita della fede (in ristampa) Volontà e verità. Esercizi spirituali, 2 ed.

Lo spìrito della liturgia è una classica interpretazione del-la spiritualità liturgica, germinata da una straordinaria po-tenza d'intuizione e da una perspicacia anticipatrice dei movi-menti storici, quale il Guardini ha sempre testimoniate.

Il volume, che uscì nel 1919 nella collezione «Ecclesia orans» promossa dall 'abate Ildefons Herwegen di Maria Laach, nulla ha pe rdu to a tutt 'oggi della sua forza di pene-trazione, del suo vigore di sintesi.

L'essenza della liturgia, al di là dei rubricismi come del-le trascuratezze colpevoli, è intesa come culto oggettivo, sot-t rat to alle fluttuazioni del sent imento individuale, comuni-tario, quindi tale da espr imere e nello stesso t empo foggiare l 'unità degli oranti .

Ne I santi segni l 'Autore avvia ad una calda comprensio-ne della liturgia e del suo simbolismo. Gli si apre dinanzi così, intatta, la ricchezza di allusione e di appello religioso insita nel segno della croce, nell''inginocchiarsi, nel vario atteg-giarsi della mano di chi prega, nell'incedere processionale, nel battersi il petto, nel cero, nell'acqua benedetta, nella fiamma sa-cra, nella cenere penitenziale, nell'incenso, nella luce, emble-ma della verità di Dio, nel pane e nel vino, nell'altare coi suoi lini, nel calice e nella patena, nella benedizione, nelle campane. Lo spazio nelle sue direzioni, il tempo con l'avvi-cendarsi dei ritmi quotidiani, rivelano, essi pure , un'arca-na consacrazione liturgica. Profondità cristiana e sensibili-tà lirica si fondono a rmonicamente in queste pagine.

ROMANO GUARDINI (1885-1968) è stato una delle maggiori figure della storia culturale europea del sec. xx. Presso la Morcelliana è in corso di stampa l'Opera Omnia.