omenica federico rampini domenica dicembre 2008 di...

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i sapori “Azzurro”, il nostro inno-ombra cultura l’attualità DOMENICA 14 DICEMBRE 2008 D omenica La di Repubblica N ON MARCO POLITI L e modalità con cui il papato ha preso decisioni e le ha comunicate sono state diverse nel corso della sua lunga storia. La pubblicazione di enci- cliche ha coinvolto da un secolo — in particolare dal pontificato di Leone XIII (1878-1903) in poi (si pensi alla Rerum Novarum) — sempre di più questioni di carattere sociale oltre che dottrinale e discipli- nare (per il clero). Le encicliche medievali — quando si pos- sono così definire — erano per lo più contingenti e politiche. Gesti e momenti di contatto con il pubblico — si pensi al- l’Angelus della domenica o all’udienza del mercoledì matti- na — non sono attestati in questa misura nel Medioevo o in epoca moderna. Lo stesso termine di definizione ex cathedra merita una spiegazione. Nel Medioevo, il termine di cattedra rinvia so- prattutto alla funzione di vescovo o di papa, più che al pro- nunciamento di posizioni dottrinali. (segue nelle pagine successive) AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI spettacoli EDMONDO BERSELLI Polenta, il piatto color nostalgia LICIA GRANELLO e PAOLO RUMIZ l’incontro La seconda vita di Carlo Fruttero SILVANA MAZZOCCHI FOTO ANSA A Stoccolma coi fantasmi dei Nobel Cina & capitale, compleanno di crisi FEDERICO RAMPINI ROBERTO SAVIANO CITTÀ DEL VATICANO L’ autunno di papa Ratzinger si presenta con un rosario di no. Il presidente Sarkozy lancia a no- me dei paesi dell’Unione europea la proposta di una risoluzione dell’Onu per depenalizzare l’o- mosessualità nel mondo? Il Vaticano si oppone. Ventiquat- tr’ore dopo la Santa Sede comunica anche il rifiuto di firmare la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei disabili, per- ché nel documento c’è un paragrafo riguardante la «salute ri- produttiva», cioè l’aborto legale e sicuro. Ed è fresca di pubbli- cazione una nuova Istruzione del Sant’Uffizio che intreccia una corona di veti. Niente ricerca sulle cellule staminali em- brionali, niente fecondazione in vitro, niente utilizzazione de- gli embrioni congelati, niente selezione degli embrioni da im- piantare nell’utero di una donna anche a rischio di far nascere un bimbo gravemente malato e destinato a morire. No, no, no. (segue nelle pagine successive) Un lungo rosario di “no” caratterizza le ultime prese di posizione vaticane Come se per Benedetto XVI la dottrina contasse più del rapporto con i fedeli P O S S V M V S Repubblica Nazionale

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i sapori

“Azzurro”, il nostro inno-ombra

cultura

l’attualità

DOMENICA 14DICEMBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

NON

MARCO POLITI

Le modalità con cui il papato ha preso decisioni ele ha comunicate sono state diverse nel corsodella sua lunga storia. La pubblicazione di enci-cliche ha coinvolto da un secolo — in particolaredal pontificato di Leone XIII (1878-1903) in poi (sipensi alla Rerum Novarum) — sempre di più

questioni di carattere sociale oltre che dottrinale e discipli-nare (per il clero). Le encicliche medievali — quando si pos-sono così definire — erano per lo più contingenti e politiche.Gesti e momenti di contatto con il pubblico — si pensi al-l’Angelus della domenica o all’udienza del mercoledì matti-na — non sono attestati in questa misura nel Medioevo o inepoca moderna.

Lo stesso termine di definizione ex cathedra merita unaspiegazione. Nel Medioevo, il termine di cattedra rinvia so-prattutto alla funzione di vescovo o di papa, più che al pro-nunciamento di posizioni dottrinali.

(segue nelle pagine successive)

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI spettacoli

EDMONDO BERSELLI

Polenta, il piatto color nostalgiaLICIA GRANELLO e PAOLO RUMIZ

l’incontro

La seconda vita di Carlo FrutteroSILVANA MAZZOCCHI

FO

TO

AN

SA

A Stoccolma coi fantasmi dei Nobel

Cina & capitale, compleanno di crisiFEDERICO RAMPINI

ROBERTO SAVIANO

CITTÀ DEL VATICANO

L’ autunno di papa Ratzinger si presenta con unrosario di no. Il presidente Sarkozy lancia a no-me dei paesi dell’Unione europea la proposta diuna risoluzione dell’Onu per depenalizzare l’o-

mosessualità nel mondo? Il Vaticano si oppone. Ventiquat-tr’ore dopo la Santa Sede comunica anche il rifiuto di firmarela convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei disabili, per-ché nel documento c’è un paragrafo riguardante la «salute ri-produttiva», cioè l’aborto legale e sicuro. Ed è fresca di pubbli-cazione una nuova Istruzione del Sant’Uffizio che intrecciauna corona di veti. Niente ricerca sulle cellule staminali em-brionali, niente fecondazione in vitro, niente utilizzazione de-gli embrioni congelati, niente selezione degli embrioni da im-piantare nell’utero di una donna anche a rischio di far nascereun bimbo gravemente malato e destinato a morire. No, no, no.

(segue nelle pagine successive)

Un lungo rosario di “no” caratterizza

le ultime prese di posizione vaticane

Come se per Benedetto XVI la dottrina

contasse più del rapporto con i fedeli

POSSVMVS

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

Naturalmente dal Palazzoapostolico verrà poi laspiegazione che la SantaSede non si schiera dallaparte dei novantunoPaesi nei quali l’omoses-

sualità è reato (punito con il carcere, lafrusta o la morte). «Occorre ribadirecon chiarezza — afferma la Radio vati-cana — che la Chiesa sostiene la depe-nalizzazione dell’omosessualità ma ècontro l’intenzione di porre sullo stes-so piano ogni orientamento sessuale».Ma l’affanno nell’aggiustare il tiro tra-disce la falsa partenza. È sintomaticoche alla pubblicazione del documentoDignitatis Personae, fitto di proibizioniin tema di fecondazione e di ricerchescientifiche sugli embrioni, il portavo-ce vaticano padre Lombardi abbia sen-tito l’esigenza di diffondere una di-chiarazione preventiva: «Il nuovo do-cumento sulla bioetica può dare, a unaprima lettura superficiale, l’impressio-ne di essere una raccolta di divieti…». È

esattamente questo che l’opinionepubblica percepisce.

Valeria, una giovane madre che ha vi-sto il suo bimbo morire per atrofia mu-scolare spinale (Sma) di primo grado,non sa che fare con un testo che vieta ladiagnosi pre-impianto, bollata comepratica «eugenetica». Valeria, cattolica,può raccontare solo che il bimbo è natoin primavera con una difficoltà cre-scente e inesorabile a deglutire e unadomenica di dicembre papà e mammal’hanno visto «diventare nero, nero...Per un pochino il cuore ha continuato abattere, poi si è spento». Chi dice che ungrumo di cellule ha un’esistenza comeun bambino nato, dice Valeria, «do-vrebbe trovarsi di fronte a un bambinoche gli muore davanti, e accanto avereuna piastra di coltura con degli embrio-ni. E forse comincerebbe a chiedersi seil diritto alla vita non sia anche il dirittoa non nascere di persone che sono de-stinate solo a morire».

Tre anni di pontificato di Joseph Rat-zinger trasmettono all’opinione pub-blica l’immagine di una Chiesa e di unpontefice perennemente arroccati.

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14DICEMBRE 2008

la copertinaNon possumus

Al terzo anno di pontificato Joseph Ratzingertrasmette l’immagine diuna Chiesaarroccata in difesa dei princìpi, che raffreddail cuore delle persone in carne e ossa

È fuorvianteil paragonecon Pio XII,che fu a suo modoun modernizzatore

Tutti i “no”di papa

Benedetto

MARCO POLITI Non è ciò che Benedetto XVI vorrebbe.La missione che si è posta, racconta unsuo intimo, è di «tutelare l’integrità del-la fede e trasmettere che il cristianesi-mo è gioia». Dei due obiettivi, il secon-do non arriva alla gente. Prevale l’im-magine di una difesa di princìpi cheraffredda il cuore delle persone in car-ne ed ossa.

Sbagliato è paragonarlo a Pio XII. Pa-pa Pacelli, pur nella visione di unaChiesa che tutto giudicava e tutto sa-peva, era un modernizzatore. Basti ri-cordare il suo discorso alle ostetriche,in cui sdoganava per la Chiesa cattoli-ca il parto indolore, o le prime autoriz-zazioni a celebrare la liturgia nelle lin-gue nazionali in Francia e in Germania.Il pontificato di Ratzinger è fermo. Daanni il pontefice tiene nel cassetto unariforma delle nullità matrimoniali, chedarebbe ai vescovi la facoltà di scio-gliere il vincolo, risolvendo la situazio-ne di milioni di cattolici divorziati e ri-sposati che non possono accedere al-l’eucaristia. Nessun cambiamento no-tevole si è registrato al Sinodo per dareuna reale partecipazione all’episcopa-to mondiale nel governo della Chiesa.E dinanzi all’enorme crisi di vocazioniil Papa non si decide ad affrontare il no-do dei «viri probati», l’ordinazione sa-cerdotale di uomini sposati, maturi e diprovata moralità.

Più che a una transizione il pontifi-cato assomiglia ad una grande pausa.Aveva esordito Ratzinger nella Cappel-la Sistina, appena eletto, proclamandoche era sua «ambizione e impellentedovere» lavorare senza risparmio dienergie alla ricostituzione della «pienae visibile unità di tutti i seguaci di Cri-sto». Tre anni dopo, a Sidney, annunciache l’ecumenismo è arrivato a «unpunto critico» e la strada verso l’unità«resta ardua». Anche gesti emozionan-ti come la preghiera insieme al granmuftì turco nella Moschea blu di Istan-bul sono rimasti senza seguito. Anzi,poche settimane fa, è arrivata la gelatacon la lettera di Benedetto XVI a Mar-cello Pera, in cui il pontefice mostra diaderire all’idea che un «dialogo inter-religioso nel senso stretto della parolanon è possibile», mentre c’è spazio so-lo per un «dialogo interculturale». Conciò riducendo drasticamente la poten-zialità del rapporto tra ebrei, cristiani emusulmani che credono nello stessoDio di Abramo.

Al dunque, le uniche due riforme va-rate nel regno ratzingeriano sono il ri-pristino universale della messa pre-conciliare in latino e il cambiamentodelle uniformi della gendarmeria: orala vigilanza, con i kepì di tipo francese,ha di nuovo un aspetto più militaresco.Giovanni Miccoli, storico, commentache il pontificato di Ratzinger si rivelaricco di dichiarazioni, ma «povero difatti». Non è tanto questione di lineadottrinale (uguale a quella di Wojtyla),

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 14DICEMBRE 2008

Secco il no della SantaSede all’interruzionedell’alimentazione artificialee al testamento biologicoLa vita, per papa Ratzinger,va tutelata “dal concepimentoal suo termine naturale”

Il Vaticano si opponealla proposta francesedi una risoluzione dell’Onuper depenalizzarel’omosessualità nel mondoBenedetto XVI è fermamentecontrario alle unioni gay

Il Vaticano non ha firmatonemmeno la convenzione Onusui diritti dei disabili perchénel documento c’è un paragraforiguardante la “saluteriproduttiva”, vale a direl’aborto legale e sicuro

Nella lettera inviata a Marcello Peraper il nuovo libro, il ponteficescrive che un “dialogointerreligioso nel senso strettodella parola non è possibile”mentre c’è spazio soloper un “dialogo interculturale”

Nel testo di due giorni fadella Congregazioneper la dottrina della fede,il Vaticano ribadisce il noalla ricerca con cellule staminali,alla fecondazione assistitae alla diagnosi prenatale

spiega, quanto di un’insufficiente ca-pacità di parlare al mondo e di averepresa sulla situazione planetaria, co-me invece riusciva a fare Giovanni Pao-lo II. Per non dire che sul piano internodella Chiesa viene propugnata una «vi-sione minimalista del Concilio», tuttaall’insegna della continuità.

Già il linguaggio di tanti documenti èarcigno e di sapore antico. Gianni Ge-raci, animatore del portale cattolicogay Gionata, riferendosi alle polemi-che vaticane sull’iniziativa di Sarkozyall’Onu, sostiene che basterebbe pocoper dire le stesse cose in modo da nonferire. «Un conto — dice — sarebbe in-vitare gli omosessuali alla castità, re-spingendo subito ogni condanna pe-nale e repressione del loro orienta-mento. Un conto è mettere in primapiano l’affermazione che non sono pa-ragonabili agli eterosessuali. È questoche colpisce». È come se ci fosse, sog-giunge, costantemente l’ansia di voler«pulire» la dottrina da interpretazioniche la possano «sporcare».

Resta da capire fino a che punto Rat-zinger voglia realmente entrare in co-municazione con l’opinione pubblica.Il rapporto con i mass media è impre-

scindibile nella società contempora-nea qualunque sia la linea perseguita.Che sia un Reagan o un Obama, un lea-der deve saper parlare al suo popolo eservirsi della stampa. Benedetto XVI latiene a distanza. Mentre in Wojtyla erachiara l’intenzione di usare i media, re-candosi durante i trasferimenti in ae-reo — lui — al posto di ognuno dei gior-nalisti al seguito dei suoi viaggi, Ratzin-ger si ferma a distanza concedendo larisposta a cinque domande già filtrate.Se incontra reporter durante le sue va-canze, le prime parole che affioranosulle sue labbra sono «Grazie, nientedomande».

Così si crea uno schermo, che l’opi-nione pubblica ha percepito da tempo.È impressionante, da giornalista, sen-tirsi chiedere ancora tre anni dopo l’av-vento di Benedetto XVI la stessa fraseda tanti uomini e donne diversi: «Mah,com’è questo papa?». Un interrogativoche tradisce mancanza di sintonia.Commenta il professor Mario Morcel-lini, grande esperto di comunicazione,che Ratzinger ha iniziato giustamenteil pontificato evitando di imitare il suo

predecessore: «Ma ora appare in diffi-coltà a rompere il guscio comunicativoe ad entrare in contatto con le masse».È un fatto intenzionale, si chiede Mor-cellini? Dipende dai media?

Dalla stampa non dipende certo il fat-to che in Messico siano comparsi deiciondoli su cui è scritto «Juan Pablo,non sai quanto ci manchi». Per molticredenti o anche non credenti Ratzin-ger non riesce a rompere la lastra di cri-stallo per arrivare a “toccarli” diretta-mente. Non aiuta neanche il recuperodi paramenti trionfalistici di altre sta-gioni o la croce di Pio IX, che ha sostitui-to il pastorale con il Cristo sofferenteportato da Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Eppure il papa tedesco è bifronte.Quando pronuncia l’omelia in unaparrocchia o in una cerchia in cui sisente a suo agio, Benedetto XVI dimo-stra una sorprendente capacità dicoinvolgimento e anche una grande te-nerezza. Il cardinale Paul Poupard, uo-mo di lettere, lo descrive come una per-sonalità in grado di trasferire «con stu-penda semplicità ai fedeli la sua gran-de intensità di meditazione delle Scrit-ture». Chi ha letto il suo libro su Gesù,sa che Benedetto XVI nell’illustrare il

Discorso della Montagna, la Paraboladel Samaritano o i passaggi chiave delPadre Nostro può essere trascinante.Alla messa dei malati di Lourdes, nelsettembre scorso, le sue parole sul«sorriso di Maria» e sulla presenza diCristo che «entra» nell’isolamento enella crudele sofferenza di chi è piega-to dal morbo, ha commosso profonda-mente l’uditorio. In questo senso egli èun grande predicatore e non solo unimportante teologo.

Ma nei confronti del vasto pubblico,quella folla planetaria dove si mescola-no indistintamente credenti e diversa-mente credenti, il gap rimane. È calataanche l’attrazione che nel primo annodi pontificato aveva portato alle ceri-monie e alle udienze papali più fedeli diquanto ne venissero negli ultimi annidel pontificato di Wojtyla. Se il primoanno del regno di Ratzinger i pellegrinierano stati oltre quattro milioni, per ilsecondo anno la Prefettura della Casapontificia ne ha registrati tre milioni etrecentomila. Mentre per tutto l’anno2007 i fedeli sono stati due milioni e ot-tocentotrentamila.

(segue dalla copertina)

Ipapi venivano “incattedrati” nel momento in cui sali-vano sulla Cattedra di San Pietro o su altre cattedre oseggi (come davanti al palazzo del Laterano) per ren-

dere visibile la loro elezione a pontefice. Innocenzo III, ilprimo papa del Duecento e forse anche il più potente delMedioevo, salì sulla Cattedra di San Pietro il 22 febbraio1198 «non senza un evidente presagio e con l’ammirazio-ne di tutti », come racconta il suo biografo. Il primo Giubi-leo cristiano fu però decretato da Bonifacio VIII il 22 feb-braio 1300, festa della Cattedra diSan Pietro. Quel giorno il papa salìsull’ambone di marmo situato nellanavata centrale della basilica vatica-na «parata di drappi di seta» e pro-nunziò «un discorso alla folla».

La storia dei pronunciamenti delpapato seguì dunque, per motivistorici contingenti, itinerari diversi.Le più importanti decisioni dottri-nali del cristianesimo furono preseda concili presieduti da imperatori,primo fra tutti Costantino (morto nel337). Per molti secoli, il papato preseposizione su questioni che gli veni-vano sottoposte da vescovi e autoritàsovrane della cristianità. Nel Dodi-cesimo secolo, il papato si fa peròpromotore di una riforma della so-cietà cristiana, appoggiandosi suiconcili lateranensi. Il Lateranense IV(1215), presieduto da Innocenzo IIIche aveva preso come modello gliantichi concili della cristianità, si in-teressò all’intera società, tanto sulpiano dottrinale (furono ad esempiocondannate le tesi trinitarie diGioacchino da Fiore), che pastorale(obbligo della confessione annuale) e sociale (legislazio-ne sul matrimonio, sugli ebrei, sull’usura…).

Già da qualche decennio il papato aveva svolto semprepiù frequentemente il ruolo di arbitro di questioni dottri-nali. Allorché Bernardo di Chiaravalle lesse pubblica-mente al Concilio di Sens (1140) l’elenco delle tesi in di-scussione, Abelardo si mise subito in viaggio per Roma perappellarsi al papa. Sei settimane dopo, Innocenzo II con-dannò però tutte le tesi dottrinali di Abelardo, lo costrinsea un silenzio completo e alla reclusione monastica e or-dinò di bruciare i suoi libri.

Le decisioni del papato aventi valenza generale, semprepiù numerose in quei secoli Dodicesimo-Tredicesimo,furono definite «decretali». Numerose riguardavano an-che fenomeni di società, si pensi al divieto di smembrarei cadaveri per rispetto della loro integrità (Bonifacio VIII,1299 e 1300). I papi del Duecento fecero raccogliere e in-

viare le decretali alle università (Bologna, Parigi) affinchéservissero all’insegnamento del diritto e potessero così es-sere adottate dai canonisti. Il papato aveva bisogno delleuniversità per confortare la sua funzione di magistero, an-che se fin dall’inizio del Duecento si erano moltiplicati se-gni di controllo e non mancarono momenti di frizione, co-me quando, nel 1290, il legato papale Benedetto Caetani,futuro Bonifacio VIII, non esitò a lanciare pubblicamentela sfida ai maestri dell’Università di Parigi: «Il mondo è sta-to affidato alla nostra cura: noi dobbiamo preoccuparcinon di ciò che può piacere a voi, non di voi sapienti e dei

vostri capricci, ma di ciò che è utile atutto l’universo». È vero che da papaBonifacio VIII produrrà uno dei piùaudaci documenti solenni del Me-dioevo pontificio, la bolla UnamSanctam (18 novembre 1302), chetermina con la celebre affermazionesecondo cui «ogni creatura umana èin tutto, per necessità di salvezza,sottoposta al pontefice romano».Non a caso, intorno al 1300, inco-mincia a circolare l’idea secondo cuiil papa sarebbe infallibile (più di cin-que secoli prima della definizionedel dogma, 1870): «È perché il papa...è immagine di Cristo», osservò conspirito critico lo spirituale francesca-no Pietro di Giovanni Olivi (1295)che «alcuni dicono che il papa è in-fallibile come Cristo».

Una forte reazione si farà stradaun secolo dopo, allorquando i fauto-ri del movimento conciliarista riu-sciranno a far adottare dal Conciliodi Costanza, per risolvere il GrandeScisma d’Occidente, il decreto Haecsancta (6 aprile 1415) che affermavala superiorità del concilio sul papa:

«Questo santo sinodo di Costanza… riceve il proprio po-tere direttamente dal Cristo e chiunque, di qualunquecondizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto adobbedirgli in ciò che riguarda la fede e l’estirpazione del-lo scisma».

Negli ultimi secoli del Medioevo, la società cristianaaveva sperimentato vari livelli di autorità, da quella, mo-rale, di vescovi di grande prestigio (si pensi a RobertoGrossatesta, fondatore dell’Università di Oxford, mortonel 1253) a quella, dottrinale, dell’Università di Parigi (e difamosi teologi come Tommaso d’Aquino), a quella, eccle-siale, del conciliarismo, le cui tesi, contingenti, non eranoperò destinate a durare. Tra la metà del Quattrocento e lametà del Cinquecento, il conflitto con l’Impero ottomanoe il Concilio di Trento (1545-1563), inteso come rispostaalla Riforma protestante, confermeranno infatti il papatonel suo ruolo di magistero.

Quel giorno del Medioevoin cui il pontefice salì in cattedra

AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

Due sole riforme:ripristino universaledella messa in latinoe nuove uniformidella gendarmeria

Quando è a suo agio,il successore di Pietrodimostra capacitàdi coinvolgimentoe grande tenerezza

Eutanasia Omosessualità Aborto Dialogo interreligioso Bioetica

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SIGILLI D’OROLe immagini dei sigilli

che illustrano queste paginesono tratte dal volume Sigilli d’oro

dell’Archivio Segreto Vaticanopubblicato nel 1984

da Franco Maria Ricci

Repubblica Nazionale

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l’attualitàRisvegli

Il 18 dicembre 1978, per volontà del leader di alloraDeng Xiaoping, il partito comunista introdusse degli incentividi guadagno per i contadini più produttivi. Fu l’iniziodel sommovimento epocale che ha portato la Cina ai verticidell’economia mondiale. Trent’anni dopo, però, l’anniversarioè amaro: il boom appare minacciato dalla crisi globale

Prima di oggiil gigante asiaticoera stato al riparo

dagli effetti dei ciclieconomici negativi

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14DICEMBRE 2008

PECHINO

Wang Shan era un gio-vane medico di 22 an-ni, Yang Yin un’infer-miera di 19, quando si

presentarono all’ufficio matrimonialenella loro cittadina dello Hunan. Ciascu-no aveva in mano la lettera della «unità dilavoro», la cellula del partito comunistache li autorizzava a sposarsi. Nessun fo-tografo, niente abito da sposa. «Con unsalario di 30 yuan (3 euro) al mese — diceWang — il banchetto nuziale fu una di-stribuzione di caramelle ai colleghi di la-voro. Per avere un letto matrimoniale do-vetti prendere in prestito una brandinadell’ospedale». Il sogno della giovanecoppia? «Un futuro radioso per noi vole-va dire poterci comprare una bicicletta,una macchina da cucire; forse perfino unorologio da polso, e il lusso estremo diuna radiolina a transistor», ricorda Yang.Era una vigilia d’inverno di trent’anni fa.Wang e Yang non potevano sapere che ilgiorno stesso delle loro nozze nei palazzidel potere di Pechino maturava una de-cisione che avrebbe cambiato il resto del-la loro vita, il loro orizzonte e i loro sogni,consegnando a generazioni di figli e ni-poti una Cina irriconoscibile.

La data: 18 dicembre 1978. Quel gior-no, alla terza sessione plenaria dell’11esi-mo Comitato centrale del partito comu-nista, il leader Deng Xiaoping presentavauna mozione di cui pochi capirono laportata. Una modesta riforma: così sem-brava, nel tipico stile gradualista e pru-dente di Deng. Raccomandava ai villaggiagricoli di introdurre un sistema di «re-sponsabilità» — è la definizione sibillinadel testo ufficiale — per legare il guada-gno dei contadini alla produttività dei lo-ro raccolti individuali. Era l’inizio dellacontro-rivoluzione. L’abbandono del-l’egualitarismo maoista. Il primo germedell’economia di mercato, introdotto al-la chetichella nell’immenso corpo indo-lente della Cina rurale, il gigante addor-mentato del Terzo mondo. Il virus delguadagno, iniettato a centinaia di milio-ni di contadini, in pochi anni fece cresce-re i raccolti a livelli mai visti, affrancandoper sempre la Repubblica popolare dalflagello delle carestie. Di lì a poco Dengavrebbe varato un esperimento ancorapiù importante, creando le «zone econo-miche speciali» nella regione meridiona-le del Guangdong. Erano porti franchi

aperti agli investimenti stranieri, su cui silanciarono per primi gli scaltri capitalisticinesi d’oltremare, da Hong Kong eTaiwan. L’inizio del prodigio industrialecinese.

Da quel Plenum del partito comunistadi trent’anni fa parte una catena di even-ti che ha cambiato il destino di un miliar-do di persone e la storia del mondo. Hastravolto le gerarchie tra le nazioni, ha di-segnato la fisionomia della globalizza-zione. La sorte ora gioca uno scherzo cru-dele a questo anniversario. Per mesi i lea-

der di Pechino avevano curato i prepara-tivi della celebrazione: il secondo grandeevento del 2008 dopo le Olimpiadi, per l’i-conografia del regime. Ma proprio quan-do arriva la data fatidica per commemo-rare i trent’anni di economia di mercato,sulla Repubblica popolare soffia un ven-to sinistro. Lo spettro di una Grande De-pressione è in cima ai pensieri di tutti.Non è aria di festeggiamenti ma di inter-rogativi angosciosi. Uno domina su tutti:quale sarà il prezzo da pagare per esserebalzati ai vertici del capitalismo mondia-

le? Per una nazione che non ha una veramemoria storica del 1929 (allora la suaeconomia era troppo decadente e perife-rica per sentire davvero gli effetti delcrac), poi fu isolata a lungo dall’autarchiamaoista, questo è il primo impatto vera-mente drammatico con un rovescio delciclo economico. Le riflessioni sulla svol-ta storica di trent’anni fa assumono dicolpo un tono diverso. Dai racconti sul“come eravamo” affiora una curiositànuova, la voglia di riscoprire esperienzesepolte nel passato dei genitori e dei non-ni, ricordi di privazioni, rinunce, miseriequotidiane.

Yu Manxiang oggi ha 58 anni, è infer-miera all’ospedale Ruijin di Shanghai. Lafiglia di Yu compiva due anni alla vigiliadelle riforme di Deng Xiaoping. «Nel 1978— ricorda Yu — avevamo ancora la tes-sera del razionamento alimentare. Unchilo di uova al mese, nemmeno un uovoal giorno per la mia bambina. Il diritto auna bottiglia di latte quotidiana era sca-duto al compimento del suo primo anno.Vivevamo in un appartamento diviso trapiù famiglie, in un caseggiato popolaresenza accesso alle fognature. Ogni matti-na facevamo i turni per pulire la latrinacollettiva. Anche l’unico rubinetto del-l’acqua corrente dovevamo usarlo a tur-no». Sua figlia Zhou Zhuxin si è sposatanel 28esimo anniversario delle nozze deigenitori. Per il banchetto si è fatta trucca-re da un celebre coiffeur-stilista; ha affit-tato un salone privato in un hotel a cin-que stelle, con orchestra e piattaforma daballo liscio; un cameraman professiona-le ha prodotto un dvd dell’evento comeomaggio per tutti gli ospiti. I giovani spo-si, laureati e dipendenti di multinaziona-li straniere, si sono trasferiti in un appar-tamento di 150 metri quadri che all’epo-ca dei genitori avrebbe ospitato cinquefamiglie. La mamma della sposa insiemealla gioia sente un velo d’inquietudine:«Quando eravamo giovani non avrem-mo mai immaginato tanto benessere.Quello che è accaduto in trent’anni è an-dato ben oltre i nostri sogni. Ma sarà lostesso per questi ragazzi?».

Xue Deyu ha 64 anni. Nel 1978 lavora-va come impiegata per un’azienda far-maceutica di Shanghai, salario 40 yuan almese (quattro euro). Ricorda gli acciac-chi di quegli inverni. «Quando si avvici-nava il Capodanno lunare — racconta —scattava l’ansia di fare provviste alimen-tari con settimane di anticipo, visto chemancava tutto. Chi arrivava ultimo almercato poteva restare a mani vuote.Perciò si organizzavano file notturne da-

Gli incubi del Sogno CineseFEDERICO RAMPINI

Repubblica Nazionale

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“Non avremmo maiimmaginato

tanto benessereMa sarà lo stessoper i nostri figli?”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 14DICEMBRE 2008

vanti al negozio di quartiere, lunghe co-de per essere pronti a scattare il mattino,e quando apriva la saracinesca era un pa-rapiglia, liti e risse. Faceva talmente fred-do durante quelle attese che al Capodan-no arrivavamo regolarmente ammalati».Da quel momento in poi, la sua storia èuna ricostruzione esemplare del formi-dabile boom economico innescato daDeng. Nel 1984 Xue e il marito sono pro-mossi manager in riconoscimento dei lo-ro studi (durante gli anni del radicalismomaoista, al contrario, le competenze era-no un demerito e una causa di persecu-zione). Lo stesso anno comprano il loroprimo televisore in bianco e nero. Nel1986 il primo frigo. Nell’88 la tv a colori,nel ‘92 il telefono individuale in casa e laprima motocicletta del marito.

È una storia qualunque. È moltiplican-dola per centinaia di milioni che si capi-sce l’eccezionalità di questo trentennio.L’epoca in cui il “pianeta delle biciclette”ha lasciato il posto alle megalopoli futu-ristiche di Pechino e Shanghai, capitali diun mercato automobilistico da 15 milio-ni di vetture. Da quel fatidico Plenum co-munista del 1978, per trent’anni di fila lanazione più popolosa del pianeta si è lan-ciata in una corsa fenomenale. Una cre-scita economica che non ha precedentinella storia umana: in media 9 per centodi aumento del Prodotto interno lordo al-l’anno. Il reddito pro capite dei suoi abi-tanti è decuplicato. Trecento milioni dipersone hanno varcato la soglia della po-vertà e hanno avuto accesso a un benes-sere moderno. Questa Cina che ce l’hafatta è la più vasta “middle class” del pia-neta, grande quanto tutta la popolazioneamericana. E lo stereotipo del “capitali-smo autoritario” — semplificazione invoga in Occidente — non rende l’ideadell’esplosione di libertà individuali cosìcome la percepisce il ceto medio cinese.Oggi nessuno per sposarsi deve presen-tare la lettera della cellula comunista;neanche per avere il passaporto e andareall’estero. Il dinamismo, la velocità delcambiamento, la fiducia nel futuro han-no fatto della popolazione cinese la piùottimista del mondo, in tutti i sondaggiinternazionali degli ultimi anni. La para-bola fantastica che in trent’anni ha por-tato la Cina dall’1 per cento del Pil plane-tario (un nano irrilevante all’epoca dellasvolta di Deng) fino alla sfida con gli StatiUniti per il primato mondiale, ora incon-tra il suo primo serio incidente di percor-so. Più grave forse perfino del massacrodi Tienanmen, che schiacciò nel sangueil sogno democratico di una minoranza.

Oggi le ombre della recessione siestendono sulla Cina tutta intera, un mi-liardo e trecento milioni di persone. Nel-la sola provincia del Guangdong, proprioquella dove Deng inaugurò le sue «zoneeconomiche speciali» trent’anni fa, han-no chiuso per bancarotta 67.000 fabbri-che. Le boom-city che furono gli avam-posti della nuova frontiera, Canton eShenzhen, sono le prime a subire il crol-lo delle esportazioni verso l’Occidente.La velocità con cui si propaga la crisi hacolto tutti di sorpresa. Ancora all’inizio di

quest’anno la Repubblica popolare eral’Eldorado di Airbus e Boeing: la febbredel turismo faceva esplodere il trafficopasseggeri; la settimana scorsa il governoha ordinato a tutte le compagnie aeree dicancellare gli acquisti già prenotati dinuovi apparecchi. Dall’automobile all’e-lettronica, dal cemento all’acciaio, ogniindustria è in stato di choc. Il calo degli or-dini dall’Europa e dall’America ha un ef-fetto moltiplicatore sui consumatori ci-nesi, che in preda alla paura smettono dispendere a loro volta.

Un’impresa che va a gonfie vele invecesono le ferrovie dello Stato. «Ogni giorno— ha detto un capostazione dello Hunan— arrivano treni stracolmi di operai li-cenziati dalle fabbriche, tornano qui nel-le campagne che avevano abbandona-to». È l’inizio di un contro-esodo di mas-sa? Commenta cinicamente un dirigen-te della banca centrale: «Il nostro unicoWelfare State è l’agricoltura: chi perde illavoro torna a lavorare la terra». Per que-sti immigranti di ritorno è la fine del gran-de sogno cinese. Circolano stime semi-segrete che fanno rabbrividire i leader diPechino: l’anno prossimo il ritmo di cre-scita potrebbe dimezzarsi. Dall’11,7 percento di aumento del Pil nel 2007 si ri-schia di scendere al 6, uno sviluppo in-sufficiente per creare i venti milioni di po-sti di lavoro necessari a impedire un’epi-demia di disoccupazione di massa.

Proprio come nel 1929 e alla fine di tut-te le “bolle” speculative occidentali, an-che in Cina gli scandali accompagnano isegni premonitori del disastro. HuangGuangyu, il fondatore dell’impero elet-tronico Gome, in vetta alla top ten dei mi-liardari cinesi, è nelle mani della poliziaincriminato per una serie di reati finan-ziari. A Pechino e Shanghai l’unica pro-fessione che conosce un successo ina-spettato è quella degli psicologi. È una fi-gura sconosciuta nella tradizione cinese,che preferisce l’erboristeria tradizionale,i saggi buddisti o i chiromanti. Ma la pau-ra di una Grande Depressione si accom-pagna alla depressione minuscola, ma-lattia moderna che si diffonde tra i giova-ni colletti bianchi delle grandi città.

I discendenti di Deng avvertono il ri-schio che si stia chiudendo una fase glo-riosa, il Trentennio Dorato. Il presidenteHu Jintao ha dichiarato che questa crisi«mette alla prova la capacità di governodel partito comunista». Sono parole in-consuete, tradiscono l’insicurezza delregime che ha gestito il più audace espe-rimento capitalistico del XX secolo. Perora Hu non mette in discussione le sceltefatte da Deng in quel dicembre del 1978.Nessuno la evoca apertamente, ma tra-spare in alcune frange del partito e del-l’opinione pubblica la tentazione di in-nalzare una nuova muraglia cinese, didenunciare la crisi come un complottoamericano, di tornare a forme di prote-zionismo per isolarsi dal contagio del-l’Occidente. Ma se si spezza il sogno cheha tenuto unito questo popolo, e gli hadato la forza di compiere imprese inau-dite, nessuno sa veramente che cosa puòaccadere dopo.

LE TAPPE

LA SVOLTA DEL 1978

In dicembre DengXiaoping, successoredi Mao, promuoveal Comitato centraledel partito comunistacinese l’abbandonodel modello di economiacollettivista per quellodi economia-Statodi tipo capitalista

LE IMPRESE PRIVATE

Nel 1982 la revisionedella Costituzionedel 1975 definiscele imprese privatecome “complementari”a quelle pubblicheCon il nuovo corsoil tasso di crescitaeconomica annualesi attesta intorno al 10%

L’ADESIONE AL WTO

Nel 2001 la Cinaaderisce al Wto,l’Organizzazionemondiale del commercioIl governo cinesecontrolla ancoracapillarmente i flussidi capitale. Nel 2004il Pil nazionale è secondosolo a quello degli Usa

IL VENTO DELLA CRISI

I media di Pechinoparlano di 70mila aziendefallite nel primo semestre2008. La provinciadel Guangdong, la stessadove iniziarono le riformedi Deng Xiaoping, è trale regioni più interessatedalla crisi. Il crac colpiràanche l’impero cinese?

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 14DICEMBRE 2008

la memoriaDocumenti

Un libro basato su carte trovate negli Archives Nationalesracconta una storia inquietante. La storia di un anarchicosospettato, nella Savoia del 1904, di vendere i compagnialla polizia; la storia di un politico interventista foraggiatoda Parigi nel 1914; e la storia di un dittatore che fecechiudere in manicomio un testimone di quei fatti

Ho trovato “alcunetue missive”, scrissel’avvocato Donatinial duce, e “mi parveoffesa la proposta

fattami di disfarmeneper cinquecento

sterline”

Nel novembre del 1922, apochi giorni dalla marciasu Roma, due informato-ri della Sureté Nationaletrasmettevano ai loro su-periori alcune indiscre-

zioni, raccolte negli ambienti politici diParigi, sui rapporti intercorsi fra BenitoMussolini e esponenti del governofrancese nel 1914, subito dopo lo scop-pio della Prima guerra mondiale. Si fa-ceva riferimento, in particolare, alle in-genti somme di denaro, circa dieci mi-lioni di franchi, che il futuro duceavrebbe incassato dal deputato Char-les Dumas, capo di gabinetto del mini-stro Jules Guesdes, per caldeggiare sulsuo Popolo d’Italia l’entrata in guerradell’Italia al fianco delle potenze allea-te. In un’altra nota riservata, poi, Mus-solini veniva addirittura indicato come«un agente del Ministero francese a Ro-ma».

I documenti inediti, che rimettono indiscussione il giudizio di Renzo De Fe-lice, massimo biografo di Mussolini,sui legami di quest’ultimo con la Fran-cia, sono stati scoperti dallo storico pie-montese Roberto Gremmo agli Archi-ves Nationales di Parigi. Li ha pubblica-ti nel suo libro Mussolini e il soldo infa-me (edito da Storia Ribelle, casella po-stale 292, Biella). Oltre a riaprire il capi-tolo sullo spionaggio, ridando valorealle accuse rilanciate, dopo la Libera-zione, dall’ex anarchica Maria Rygier,Gremmo testimonia che nel 1941, nel-la Francia occupata dai tedeschi, gliemissari fascisti fecero sparire i dossierdi polizia su Filippo Naldi, uno dei fi-nanziatori de Il Popolo d’Italia. È per-tanto impossibile, annota lo storico,che gli agenti non avessero esaminatoe sottratto gli incartamenti intestati aMussolini, che in effetti non sono maistati ritrovati nella loro interezza. Checosa si temeva? Non solo che emerges-sero le vicende connesse all’interventi-smo, ma pure quelle sulla frequenta-

zione della polizia francese fin dal 1904,durante i suoi viaggi oltre confine?

È su questi aspetti che Gremmo svol-ge le sue indagini. E lo fa occupandosianche dell’avvocato Salvatore Donati-ni, del quale si serbava una vaga me-moria in qualche citazione sugli annigiovanili di Mussolini. Nato nel 1877,militante socialista, senese, lo avevaaiutato e ospitato ad Annemasse, in Sa-voia, fra il gennaio e il febbraio del 1904.È il periodo in cui «i rapporti dei poli-ziotti di Annemasse furono strana-mente benevoli nei confronti di un in-dividuo come Mussolini, fotografato eschedato come un delinquente» daiservizi di sicurezza di altri paesi. Comemai? Forse perché aveva cominciato afare l’informatore della polizia, spian-

do i suoi compagni «sovversivi»? Di Do-natini non si era saputo più niente.Consultando i fascicoli che lo riguarda-no conservati all’Archivio centrale del-lo Stato di Roma, l’autore del libro hascoperto che «un robusto filo nero» le-ga le vicende dell’avvocato toscano aquelle di Ida Dalser, la donna trentinache aveva dato un figlio a Mussolini eche questi fece rinchiudere in manico-mio.

Pure Donatini finì in un ospedale psi-chiatrico. E a mandarcelo fu il duce. Dimezzo, come nel caso Dalser, c’erano leaccuse per i suoi legami con i francesi.La sua amante di Trento aveva denun-ciato che si era venduto a loro all’epocadella Grande guerra, e venne dunqueinternata. Il socialista senese, alle pre-

se nel 1930 con gravi difficoltà fi-nanziarie, ebbe invece la ma-laugurata idea di scrivere aMussolini, confidandogli diavere trovato alcune sue lette-re risalenti al soggiorno in Sa-voia: «Nel frugare le carte perriordinarle trovai alcune tuemissive che mi fece piacereaverle ritrovate. (...) Non

avevo alcuna idea di disfarmeneper cui mi parve offesa la proposta fat-tami da un affarista di disfarmene perCinquecento sterline. Oggi la cosa nonmi pare così offensiva ne (sic) bassa co-sa il venderle». Aveva premesso chenelle lettere «non vi è niente che ti fac-cia torto», ma la sua iniziativa, che ave-va lo scopo di farsi dare del denaro, al-larmò il duce.

Bisognava agire e recuperare quellacorrispondenza che, per una ragione oper l’altra, era considerata compro-mettente. Erano le prove del «soldo in-fame»? Può essere. Certo è che Musso-lini ordinò di mettere Donatini nellecondizioni di non nuocere. Fu dispostaperciò la traduzione in manicomio.Vennero cercate le lettere, ma senzatrovarle. Si scoprì però una pistola nel-lo studio del legale. Dimesso dopo po-che ore, venne tuttavia minacciato diessere inviato al confino e condannatoper il possesso dell’arma. La lezionenon gli bastò. Riprese a scrivere a Mus-solini e, nel febbraio del 1931, firmò lasua morte civile: denunciò alla magi-stratura nientemeno che il duce «nellasua qualità di Ministro dell’interno protempore del Regno d’Italia», chieden-do inoltre il risarcimento dei danni su-biti. Fu spedito ancora in manicomio,questa volta per diversi mesi. Neppurela rivelazione del contenuto delle fa-mose lettere, che non erano quelle rite-nute compromettenti, lo salvò. Sospe-so dall’esercizio della professione, ma-lato, morì nell’aprile del 1933. Avevafatto una fine analoga alla Dalser. Esempre nel nome, «proibito», dellaFrancia.

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(segue dalla prima pagina)

All’aeroporto sono tutti nervosi per la tempesta, invece ame uscire in quel bianco dà un senso di gioia infantile,anche se la temperatura è artica e il mio cappotto, buo-no per gli inverni mediterranei, in Svezia si rivela quasiinutile. La prima cosa che mi spiegano, non appena ar-rivo all’Accademia, sono le regole: severe, inderogabi-

li. Bisogna indossare un abito elegante e ogni gesto dev’essere con-cordato. Gli accademici sono nominati a vita, diciotto membri che iomi figuro come ultimi aruspici che vaticinano il futuro delle lettere: ve-nerati, odiati, mitizzati, sminuiti, presi in giro per il loro potere, cor-teggiati da tutto il mondo. Non riesco a immaginarmeli. Nella sala ri-servata incontro i primi due: un anziano signore che si era tolto le scar-pe e una signora che cerca di dargli una mano a infilarsele di nuovo.Con un’eleganza naturale, mi stringe la mano e poi mi dice: «Il suo li-bro mi è entrato nel cuore». Capisco presto che la Svezia è attentissi-ma a ciò che accade altrove, il paese che forse più di tutti al mondo sen-te le contraddizioni di altri paesi come proprie. Alcuni accademici mirivolgono domande sull’Italia, in un modo, però, che non mi sareiaspettato. Tutti, ma proprio tutti, mi chiedono di Dario Fo, di come stae cosa sta facendo, e infine mi raccomandano di portargli i loro saluti,come dando per scontato che ci frequentiamo abitualmente. E poi michiedono come sono considerati da noi Giorgio La Pira, il mitico sin-daco di Firenze degli anni Cinquanta, e anche Danilo Dolci, Lelio Bas-so, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un’Italia dimenticata dagliitaliani che lì non solo ricordano ma considerano l’unica degna di me-moria. Un signore si avvicina per mettermi il microfono, mi parla initaliano e io reagisco con stupore: «Perché si stupisce? Lei qui è al No-bel dove parliamo tutte le lingue del mondo».

Salman Rushdie aspetta già nella stanzetta riservata. Ci abbraccia-mo. La generosità che mi dimostra sin da quando ci siamo incontratila prima volta nasce da chi non dimentica quel che ha passato. Vuoletrasmettermi qualcosa di quel che ha imparato sulla sua pelle, vuole

come se il pubblico a cui è dovuto fosse impossibile pensarlo di-versamente da una massa acritica. È soprattutto nei confrontidi quest’ultimo che commettono un torto enorme, perché se èvero che i libri non sono tutti uguali tantomeno lo sono i lettori.I lettori possono cercare di divertirsi o di capire, possono appas-sionarsi alla fantasia più illimitata o al racconto della realtà più do-lorosa e difficile, possono persino essere la stessa persona in mo-menti differenti: ma sono capaci di scegliere e di distinguere. E se unoscrittore questo non lo vede, se non confida più che la bottiglia da get-tare in mare approdi nelle mani di qualcuno disposto ad ascoltarlo, eci rinuncia, rinuncia non a scrivere e pubblicare, ma a credere nellacapacità delle sue parole di comunicare e di incidere. Allora fa un tor-to pure a se stesso e a tutti quelli che lo hanno preceduto.

Quando Salman prende la parola, ricorda che la letteratura nasce daqualcosa che è consustanziale alla natura umana: dal suo bisogno dinarrare storie, perché è grazie alla narrazione che gli uomini si rappre-sentano a se stessi e quindi solo un’umanità libera di raccontarsi comevuole è un’umanità libera. Rushdie non ha mai voluto essere altro chequesto, un tessitore di storie, un romanziere senza vincoli, e quel chepiù lo ferisce non è il verdetto di un’ideologia che non poteva tollerar-lo, ma la diffamazione di chi, proprio nel mondo libero, voleva far cre-dere che non potesse essere soltanto questa la sua aspirazione, che do-vesse essere guidato da secondi fini: i soldi, la carriera, la celebrità.

Mi sale una sorta di magone in gola. Penso ai dieci anni blindatissi-mi di Rushdie e a come abbia fatto a non impazzire, penso che soltan-to chi ha una vita molto riparata e tranquilla possa immaginarsi pos-sibile un baratto fra l’ombra della morte e la libertà. Ma Salman con-tinua senza scomporsi, termina il suo discorso e passiamo all’ultimaparte di dialogo. Alla fine, quando ci alziamo, ricevendo gli applausidel pubblico e degli accademici, ci consegnano dei fiori e io penso chei ragazzi della scorta mi sfotteranno per questa cosa considerata da si-gnore giù da noi. Ceniamo in una stanza dove sono passati tutti i pre-miati. Ci dicono che il cuoco è quello della regina, ma io quel cibo nonriesco ugualmente quasi a mandarlo giù fino a quando non arriva untrionfo di gelato alla cannella e mele caramellate.

Finisce la cena. L’etichetta prevede che nessuno possa alzarsi sino aquando non lo fa il presidente. Ripassiamo per la stanza della premia-zione. La sala di legno è vuota. Le luci sono bassissime. Rushdie mi di-ce senza più l’ironia del suo discorso pubblico: «Continua ad avere fi-ducia nella parola, oltre ogni condanna, oltre ogni accusa. Ti darannola colpa di essere sopravvissuto e non morto come dovevi. Fregatene.Vivi e scrivi. Le parole vincono». Saliamo sui legni del podio e ci faccia-

troppo spesso e a torto valutato come un’anomalia. Ma quel che diconon ha a che fare solo col Sud Italia oppresso dalle mafie, e nemmenocon l’Italia in quanto tale. Per quanto a me questo sembri evidente, te-mo che per molti, tolti i riferimenti alla mia condizione, il quadro nonsia altrettanto chiaro. Molti intellettuali, mentre rimpiangono la loroperdita di ruolo nelle società occidentali, continuano a considerare ilsuccesso con diffidenza o con disprezzo, come se invalidasse auto-maticamente il valore di un’opera, come se non potesse essere altroche il risultato dei meccanismi manipolativi del mercato e dei media,

forse che io possa fare meno fatica a reimpadronirmi di qualche bran-dello della mia libertà, ma già comprendere di non essere solo con lamia esperienza per me è prezioso. Sembra incredibile. Quando rice-vette la sua condanna, ero un bambino, andavo appena alle elemen-tari. La sua fatwa khomeinista e le mie minacce camorriste nasconoda contesti diversissimi, ma le conseguenze sulle nostre vite, le riper-cussioni sulle nostre storie di scrittori finiscono per essere pressochéidentiche. Lo stesso peso della prigionia che nessuno riesce a coglie-re fino in fondo, la stessa ansia continua, la solitudine, lo stesso scon-trarsi con una diffidenza che può divenire diffamazione e che è la co-sa che più ti ferisce con la sua ingiustizia, che meno tolleri. Tutto quelche Rushdie dirà nel suo discorso sulle difficoltà di attraversare unastrada, prendere un aereo, trovare una casa, e tutto quel che rende im-possibile una vita blindata, mi farà pensare: «È vero, è proprio così».

Discutiamo di come organizzare l’incontro. Anche qui le regole so-no precise. Dopo esser stato invitato a parlare, devo fare la mia prolu-sione, non restare troppo tempo ad accogliere gli eventuali applausima tornare presto a sedermi. Poi sarà il turno di Rushdie, e seguirà undialogo. Finito quello, non dobbiamo stringere la mano a nessuno néfirmare libri, dobbiamo attraversare la sala e andare via. Quando tut-to è chiarito, entriamo nella sala dell’Accademia. Me l’ero immagina-ta completamente diversa: un teatro enorme, sontuoso, un tripudiodi palco e platea. Come ogni mito si rivela invece esattamente il con-trario. Una sala in legno, deliziosa ed elegante, ma raccolta, intima. C’èuna specie di recinto al centro, dove sono seduti gli ospiti, gli editori, ifamiliari, il segretario permanente dell’Accademia Horace Engdahl,più qualche selezionato giornalista.

Mentre Engdahl fa il suo discorso introduttivo, io mi sento pres-sappoco come quando aspettavo di discutere la mia tesi di laurea. Tut-to ciò che hai preparato svanisce. Senti solo la testa vuota, il cuore inpetto come un grumo ingombrante, la gola secca. Mi aggrappo ai no-mi degli scrittori che hanno ricevuto il Nobel su quello stesso podiodove presto dovrò salire a parlare anch’io. Sento che in quella stanzasi sono depositate le loro parole, che sono rimasti impressi nel legno idiscorsi di Saramago, Kertesz, Pamuk, Szymborska, Heaney, Mar-quez, Hemingway, Faulkner, Eliot, Montale, Quasimodo, Solgenit-syn, Singer, Hamsun, Camus. Elenco nella mente quelli che ricordo,quelli che conosco meglio o ho più amato, quasi mi gira la testa, è unavertigine. Come avrà appoggiate le mani su quel palchetto Pablo Ne-ruda? Pirandello avrà chinato il viso sugli appunti o avrà fissato in vol-to gli accademici? Samuel Beckett avrà sorriso o sarà rimasto imper-turbabile? Elias Canetti a chi avrà avuto la sensazione di parlare, almondo o solo a una platea? Thomas Mann, mentre era lì, avrà pre-sentito la tragedia che dopo pochi anni avrebbe vissuto la sua Germa-nia?

Cerco di respirare forte, un po’ per calmarmi, un po’ per fare comequando ti portano al mare da bambino e ti dicono che le scorpacciatedi iodio inalate sulla spiaggia avranno il potere di proteggerti controle influenze e i catarri dell’inverno. Così cerco di inalare le sedimenta-zioni di tutti quelli che sono stati in questa sala, sperando che ancheloro mi aiutino a resistere all’inverno. Tocca a me. Salgo sul palco tan-to temuto. Vorrei dire molte cose, portare più esempi di chi oggi sten-ta ad avere libertà di parola e di chi vive sotto minacce per aver dato fa-stidio al potere criminale: scrittori e giornalisti, dal Messico dove i nar-cos hanno ucciso Candelario Pérez Pérez, alla Bulgaria dove è statoammazzato lo scrittore Georgi Stoev.

Ma mi hanno detto che non devo mettere troppa carne al fuoco,parlare troppo a lungo, e così mi concentro su quel che per me rima-ne l’esperienza più importante. La letteratura e il potere, la scritturache diviene pericolo solo grazie a ciò che di più pericoloso esiste: il let-tore. Spiego come nelle democrazie non è la parola in sé che fa pauraai poteri, ma quella che riesce a sfondare il muro del silenzio. Esprimola mia fiducia in una letteratura in grado di trasportare chiunque neiluoghi degli orrori più inimmaginabili, ad Auschwitz con Primo Levi,nei gulag con Varlam Šalamov, e ricordo Anna Politovskaja che ha pa-gato con la vita la sua capacità di rendere alla Cecenia cittadinanza nelcuore e nella mente dei lettori di tutto il mondo. La differenza fra me eRushdie è questa: lui condannato da un regime che non tollera alcu-na espressione contraria alla sua ideologia; mentre laddove la censu-ra non esiste ciò che ne prende le veci è la disattenzione, l’indifferen-za, il rumore di fondo del fiume di informazioni che scorrono senzaavere capacità di incidere.

A volte mi sembra di essere considerato uno che viene da un paese

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14DICEMBRE 2008

Insieme a Salman Rushdie, l’autore di “Gomorra” è stato invitatodall’Accademia che assegna il premio più famoso del mondo per parlaredella sua vita sotto scorta. Ecco il diario del suo viaggio a Stoccolma

e di quell’esperienza memorabile. Tra rituali e incontri straordinari, il racconto e l’emozionedi un giovane scrittore nel pantheon contemporaneo della letteratura mondiale

CULTURA*

ROBERTO SAVIANO

SAVIANO

NobelIo e i fantasmidei

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 14DICEMBRE 2008

L’ILLUSTRAZIONE Le pagine sono illustrate da un disegno di Riccardo Mannelli

mo fotografare con i nostri cellulari. Ridendo, abbracciandoci come sefossimo ragazzini in gita che hanno scavalcato le recinzioni e giocanoa fare Pericle nel Partenone. Ci chiamano, dobbiamo uscire, prendereil caffè, salutare tutti e andare via. Le luci si spengono completamente

e resto lì fermo, al buio. E lì al buio cerco ancora di raccogliere apieni polmoni quell’odore di umido e di legno che sembra

aver conservato tutte le presenze di chi è stato premia-to in quella sala.

«Personalmente, non posso vivere senza la miaarte. Ma non l’ho mai posta al di sopra di ogni co-sa. Mi è necessaria, al contrario, perché non sidistacca da nessuno dei miei simili e mi per-mette di vivere, come quello che sono, a livel-lo di tutti. Ai miei occhi l’arte non è qualcosa dacelebrare in solitudine. Essa è un mezzo perscuotere il numero più grande di uomini of-frendo loro un’immagine privilegiata delle

sofferenze e delle gioie comuni. Essa obbligadunque l’artista a non separarsi. Lo sottomette

alla verità più umile e a quella più universale. Espesso colui che ha scelto il suo destino d’artista

perché si sentiva diverso apprenderà presto che nonnutrirà né la sua arte né la sua differenza, se non am-

mettendo la sua somiglianza con tutti […] Nessuno di noi ègrande abbastanza per una simile vocazione. Ma in tutte

le circostanze della propria vita, che sia oscuro o provvi-soriamente celebre, legato dai ferri della tirannia o tem-poraneamente libero di esprimersi, lo scrittore può ri-trovare il sentimento di una comunità vivente che lo giu-stificherà, alla sola condizione che accetti, come può, idue incarichi che fanno la grandezza del suo mestiere: ilservizio della verità e quello della libertà». Mi sembra

quasi di poterlo toccare, Albert Camus, che ha pro-nunciato queste parole nel 1957, tre anni prima di mo-rire in un incidente stradale. E vorrei ringraziarlo, vor-rei potergli dire che quel che aveva detto allora, è an-

cora vero. Che le parole scuotono e uniscono. Che vin-cono su tutto. Che restano vive.

© Roberto Saviano 2008. Published by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

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Nata nel 1968, balneare ma rivoluzionaria, compiequarant’anni la canzone che secondo molti è il nostrovero inno nazionale.Un libro ricostruisce il lavoro

magistrale di tre geni della musica: Conte, Celentano e Pallavicini,l’uomo che nessuno ricordama che diede la spinta fondamentale

SPETTACOLI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14DICEMBRE 2008

‘‘Giorgio FalettiLo so perché io c’ero. Un poco in ritardocon l’età ma la città era la stessae dividevamo gli stessi spicchi di cielo e la stessa piazza deserta nelle ore di soleEra il nostro mondo ed era fatato e perquesto nel ricordo tutto è rimasto azzurro

‘‘Curzio MalteseAzzurro è il mio SessantottoAvevo otto anni e a questacanzone è legato uno dei ricordi più belli della mia vitaNulla di speciale, una gitaal lago. Ma era una giornataperfetta, felice. Per tuttoil viaggio ascoltammo musica,lagne sentimentali,roba da SanremoAll’improvviso spuntòquesta canzone incredibile

Sta diventando un’idea piut-tosto diffusa l’opinione cheAzzurro sia il vero inno na-zionale degli italiani. È l’ar-gomento centrale del libro diFabio Canessa Azzurro, sot-

totitolo Conte, Celentano, un pomerig-gio…, che l’editore Donzelli manda inlibreria in questi giorni (116 pagine, 16euro). Ma dietro un’idea collettiva c’èsempre un problema. E nel caso di Az-zurro, canzone che festeggia i suoi pri-mi quarant’anni, in sorprendente e an-titetica coincidenza con il Sessantotto,il problema è soprattutto di attribuzio-ne. Sotto questo aspetto il libro di Ca-nessa è chiaro: messe agli atti le testi-monianze, brillanti, che l’autore porta asuffragio dell’importanza sociale dellacanzone di Paolo Conte, da Renzo Ar-bore a Dario Fo, da Stefano Bollani aGiulio Giorello, ecco che il problemaviene fuori imponente, forse irrisolvibi-le, e riassumibile in una sola domanda:di chi è Azzurro?

Facile, di Paolo Conte, lo stranoto av-vocato di Asti. Quello della macaia e del-la milonga. E invece no, magari fosse co-sì facile. Lo stesso impianto del saggio diCanessa dimostra l’esistenza di un mo-numentale problema di attribuzione,dal momento che è diviso in tre partifondamentali: una dedicata ad AdrianoCelentano, la seconda a Conte, e infinel’ultima, che complica tutto, centratasulla figura dell’autore del testo, VitoPallavicini.

Pallavicini rende tutto più complessoperché è la parte eccentrica del tutto.Celentano infatti è facile da mettere afuoco, anche per ciò che riguarda l’in-terpretazione di Azzurro. Sente quasimedianicamente la canzone, con quel-la musica che «va su mentre credevo cheandasse in giù» e viceversa, come disse aConte dopo averla ascoltata. E la cantaalla sua maniera, con Conte felicissimodi sentirla eseguire da lui, un cantantecon una voce unica, e che nelle canzoni“parla” un italiano realistico, non le fin-zioni linguistiche dei cantanti qualsiasi.

Per Paolo Conte, che all’epoca è an-cora un autore di canzonette, un facito-

re di successi, capacissimo di combina-re la sua sensibilità di musicista conqualunque moda si presentasse nel-l’ambiente, passando dal beat al melo-dico senza problemi, Celentano è prati-camente perfetto nel dare voce a quellamarcetta allegra e insieme malinconi-ca, che allinea reperti marittimi e me-morie di parrocchia e d’oratorio, il cele-bre «neanche un prete per chiacchie-rar». Gli automatismi di Celentano in-troducono un sovrappiù di distrazione,di nonchalance stralunata che contri-buiscono a fare del brano una “cosa” fa-miliare, domestica, intima anche secontornata da un imprendibile alone diesotismo.

Il problema esplode con il ritratto diVito Pallavicini, che comporta unostravolgimento ermeneutico formida-bile. Vale a dire, quale sarà la ragioneper cui tutti, diconsi tutti, attribuisco-no Azzurro, la sua atmosfera, il suo cli-ma intellettuale, il suo gozzanismo sra-dicato, al musicista Conte, quando in-

EDMONDO BERSELLI

Il problemaviene fuoriimponente,forse irrisolvibile,e riassumibilein una sola domanda:di chi è davveroquesto brano?

MOLLEGGIATOQui sopra, Adriano Celentanoa Canzonissima nel 1969;nel tondo nell’altrapagina, Paolo Conte

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Il paroliere ha scrittotremila testi,116 solo per SanremoTra i suoi successi,“Ghiaccio bollente”,“Le mille bolle blu”e “Amore scusami”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 14DICEMBRE 2008

vece l’invenzione del pezzo si deve alnon sufficientemente considerato pa-roliere Pallavicini? Il quale aveva carat-teristiche non da poco. Basta scorrerela produzione di questo stacanovistadella canzone per trovarci diversi ca-polavori minimi ma fondamentali perla musica italiana, a cominciare da In-

sieme a te non ci stopiù, anche quella scritta

in coppia con Paolo Conte, edestinata a diventare, dopo l’in-

terpretazione di Caterina Caselli, unadi quelle canzoni atemporali, che dura-no sempre, e sempre emozionano perragioni insieme chiarissime e oscure,quindi più attinenti ai misteri dellapoesia che alla prosaicità del lavoro diparoliere.

E allora? Pallavicini, scomparso nel2007, è stato l’autore di tremila canzoni,ne ha portate a Sanremo centosedici, ese si può indicare una sua specializza-zione la si può trovare forse in canzonifondate su invenzioni lessicali, come

l’ossimoro di Ghiaccio bollente perTony Dallara, o la trovata surrealista e“piena di elle” di Le mille bolle blu perMina; senza dimenticare canzoni im-pegnative e fortunate nel mondo comeIo che non vivo senza te di Pino Donag-gio o il rhythm’n’blues all’italiana di De-borah, scritta per il «negro bianco», co-me si diceva allora, Fausto Leali (e nondimentichiamo la strepitosa Tripoli ‘69di Patty Pravo, nonché la romanticissi-ma Amore scusami di John Foster).

Una volta che il mistero si è infittito,nulla vale a scioglierlo. Lo stesso Ca-nessa fa il possibile per lasciarlo in so-speso, affollando il suo saggio di infor-mazioni preziosissime per i collezioni-

sti di curiosità e non di rado inedite,tanto che il suo libro risulterà una fon-te primaria in materia di musica, e nonsoltanto riguardo alla genesi di Azzur-ro. Ma, dietro i dettagli, forse la tesi im-plicita è che, partorita dalla personalitàdi tre talenti diversi, la canzone è statacomposta e ricomposta dai milioni diitaliani che l’hanno canticchiata. Perquesto è diventata una canzone-inno,molto più che popolare, una canzoneegemonica. Ed è possibile che a ogniascolto, ancora oggi, riveli agli italianiqualcosa di sé che ancora ignorano:quindi, semplice stregoneria di unamusica, infinita meraviglia e magia diuna canzone.

Il lungo pomeriggio italiano

‘‘Renzo ArboreSarebbe la canzone ideale per diventare davvero l’innodell’Italia, l’unica musica che rispecchia benissimo il nostro paese. Un innonazionale meraviglioso, non retorico e ispiratissimo:un po’ crepuscolare, gioiosoe sofisticato, non aggressivoe non solo festoso, come sono un po’tutti gli inni nazionali,ma soprattutto elegante

‘‘Antonio DipollinaSe sei un fanaticodella canzone d’autoresei obbligato a pensare che Azzurro non sia tra le canzoni più belledi Paolo Conte. SparringPartner è superiore. AncheBoogie ed HemingwayMa i fanatici non vanno beneE quindi uno razionale e pienamente consapevoledeve inchinarsi con rispettoe gioia autentica

‘‘Dario FoAzzurro è una canzone che adoro. Che evoca in me,come in tutti i ragazzidell’oratorio di un tempolontano, ricordi e memorie innumerevoliÈ una canzone proiettata,molto intelligentementeCara ai giovani di quarant’anni faQuando, per raggiungere la ragazza, c’era ancorail treno

‘‘Gianni MuraForse Conte la considera poco sua, infatti ne è autoreanche PallaviciniForse la confina, senza odio ma senza amore, nel recintodelle cose carine, che hannoavuto successo grazie ad altri,ma non all’altezza di tantealtre sue canzoniSe è così, la penso come luiVa giù bene, come un vinobianco in agosto. Non è pocoe non è nemmeno il massimo

IL LIBRO

Si intitola Azzurro. Conte, Celentano, un pomeriggio...

il libro scritto da Fabio Canessa, pubblicato da Donzelli(126 pagine, 16 euro), in libreria in questi giorniÈ la storia della canzone uscita nel 1968: una rivoluzione nei dischi per l’estate. A quarant’annidalla sua composizione, l’autore ripercorre la genesi,analizzandone gli ingredienti e le influenze sul costumedegli italiani, sulla storia della musica, la letteratura e il cinema. Nel libro anche le testimonianze inedite, i ricordi e le opinioni di cultori ed esperti come quelle citatein queste pagine

L’ORIGINALELa copertina del 45 giri originale, 1968

IN EUROPAIl 45 giri commercializzato in Olanda

LIVEConte canta Azzurro dal vivo nel 1985

Per essere al 100%

dai 50 anni in su

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i saporiCibo da focolare

È il massimo del comfort food, depositato nella memoriadi ciascuno col gusto unico e inimitabile della ricetta di casaI cuochi di nuova generazione – forse anche in coincidenzacon il vento della crisi – vanno oltre, giocano con ingredienti,tecnica, fantasia per sposare tradizione e innovazione

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14DICEMBRE 2008

Tempodi polenta, non plus ultra deicibi caldi, carezzevoli, corrobo-ranti, modulabile secondo tutte lenuances della tavolozza culinaria,arrendevole praticamente contutti i companatici del mondo. Si fa

presto a dire polenta. La memoria d’infanziaidentifica un ricordo culinario. Che in questocaso è assolutamente specifico. Perché si pen-sa che quella e quella sola sia la “vera” polenta.Chi è cresciuto in Val d’Aosta (e non solo) sgra-na tanto d’occhi a sentir parlare di polentabianca. Nella cultura alimentare montana, laconoscenza della farina macinata fine è un’e-sperienza rara. In molte valli, la polenta è mi-schiata, figlia di cereali diversi, per ottimizza-re le ultime manciate residue di sacchi e sac-chetti. Nelle zone che ancora proteggono e va-lorizzano i boschi, la polenta è tutt’uno con lafarina di castagne.

Se l’economia rurale applicata al cibo si tra-duce in cento farine da polenta differenti,ognuno rivendica il primato della sua: biologi-ca e macinata a pietra, di grano saraceno, fari-na fioretto, miglio, orzo, farro, a macinaturamista (fine e grossa) o di un solo calibro. Il tut-to, con corposa scia di ricette al seguito: conciao taragna, morbida quasi da cucchiaio o com-patta da tagliare con lo spago, da mangiarebollentissima o sbocconcellare appena tiepi-da, fritta o tostata, ammorbidita dal latte, in-golosita dai formaggi, resa succulenta dai su-ghi.

Mai come nel caso della polenta la scelta del-la materia prima è vincolante, dato che — al dilà della mano del cuciniere — gli unici altri in-gredienti contemplati sono l’acqua e il sale.Nella scala delle paure alimentari, le aflatossi-ne delle farine occupano i primissimi posti. Di-cono che basterebbe liberalizzare gli ogm perevitarle, mentre i veri guai sono la fine dei co-voni — con quel passar di forcone che ossige-nava il granturco, impedendo lo sviluppo deifunghi — le coltivazioni super-intensive, glistoccaggi prolungati e maldestri. Finito il tem-po in cui le popolazioni più povere (mangia-polenta) pagavano con la pellagra — una terri-bile forma di avitaminosi — l’impossibilità diintegrare le deficienze nutrizionali della farinastracotta, oggi la polenta fa capolino nei menù

dei ristoranti tanto quanto nella dispensa quo-tidiana.

Felice coincidenza o primi refoli di recessio-ne, all’ultimo Salone del gusto, due mesi fa, ibravi produttori delle varie farine sono statipresi d’assalto da visitatori occasionali e ap-passionati gastrocolti. E pazienza se insiemeall’incremento della qualità — farine buone,naturali, integrali — crescono in manieraesponenziale anche i tempi di preparazione:pur di ritrovare il senso originario della roma-na pultem (da polvere) gli appassionati sonodisposti a superare abbondantemente — avolte addirittura raddoppiando — la tradizio-nale ora di cottura.

I cuochi di nuova generazione vanno oltre,reinventando consistenze e abbinamenti, apartire da cereali insoliti, o invece comuni mamai pensati alla stregua di farina. Una voltascelto l’ingrediente di partenza, tecnica e fan-tasia fanno il resto: spalmata sottilissima e sec-cata per farne una sfoglia appetitosa, mante-cata come una mousse o soffiata a mo’ di lie-vissima nuvola, la polenta entra nella compo-sizione di piatti sfiziosi e originali.

Se volete cimentarvi in prima persona, ma lanostalgia culinaria è inversamente proporzio-nale ad abilità e pazienza, sappiate che paiolielettrici e termomix (il mitico Bimby) arrivanolà dove bicipiti e cucchiaio di legno danno for-fait. Ovviamente vietate le scorciatoie: la po-lenta precotta vi farà irrimediabilmente preci-pitare nel gradimento familiare, rischio da evi-tare a tutti i costi, con Babbo Natale alle porte.

LICIA GRANELLO

Il piatto color nostalgiaadesso è in carriera

da IL SERGENTE NELLA NEVE

Mario Rigoni SternAlla sera, prima

che uscissero le pattuglie,era pronta la polenta caldaDiavolo! Era polenta dura,alla bergamasca, e fumava

su un tagliere veroche aveva fatto Moreschi

PolentaL’altra

‘‘

Remouage italiano.

2008

www.trento

doc.com

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 14DICEMBRE 2008

Povera e nobiletosta e allegra...Made in Italy

PAOLO RUMIZ

La vedo così. Al centro una polentazza padanafumante, enorme, rovesciata sul tavolo. Unapolenta larga di pianura, fatta a brani in pochi

minuti, in una fattoria nebbiosa stile Albero deglizoccoli. Intorno, una costellazione di polente alpine,una corona di polente montanare federate che cir-condano il Grande Fiume e disegnano l’anima plu-rale del Nord. Bossi vide giusto quando lasciò per-dere le tristi risaie del professor Miglio e cercò il gial-lo-oro allegro della polenta. I “polentoni” rivendica-vano dignità, e avevano ragione. In mille viaggi ita-liani, tutti i mangiatori di polenta che ho incontratoerano vere bestie in salita. Gonfi e pigri erano gli spa-ghettari.

«Leva su, bella, che leva la Luna / il gallo canta, lapolenta fuma». La trovi nelle canzoni, nei nomi del-le montagne. Definisce atmosfere, evoca inverni du-ri. C’è una Val Polenta, tra Cividale e Caporetto, e po-co in là, nelle Alpi Giulie austriache fino a no-vant’anni fa, la gente cantava «Eine Schuessel Po-lenta / und ein Schottsuppe drauf», in un dialetto te-desco imbastardito d’italiano e sloveno. Una pi-gnatta di polenta, con un bel sugo sopra: il sogno èsempre quello. Cosa trova il fante lombardo DelfinoBorroni, classe 1898, prigioniero abbandonato dagliaustriaci in ritirata, quando arriva morto di fame dal-le parti del Livenza? Un’indimenticabile montagnagialla fumante e una donna caritatevole che gliela of-fre, «con un buco al centro, piena di sugo rosso di fa-gioli».

Nulla realizza meglio lo sposalizio dell’Italia mon-tanara col mare. In Veneto si dice: «Se i mari fussi detocio / e i monti de polenta / ohi mama che tociade/ polenta e bacalà». Udite, romani: “tocio” è moltomeglio di “scarpetta”, perché il contatto col sugonon si limita al pane e indica appetiti più robusti, daalpino. E poi, il baccalà. Il geniale abbinamento colpesce più universale del mondo, capace di batteremari spagnoli e norvegesi, di ingolosire tanto i mao-mettani d’Arabia quanto i veneziani della Serenissi-ma. La polenta consente armistizi con i vicini più im-prevedibili. Sul confine orientale, con i duri salami-ni slavi detti “globasse”. In Veneto, con salsicce dalnome greco di “lugàneghe”.

Immagini, spesso di pioggia. Una sera in ValleSpluga, dove il mondo dei Lumbard finisce e comin-cia la “Via Mala” col Reno che spumeggia in un orri-do, quando, accanto a una stufa di pietra ollare, unabionda taverniera mi scodellò una Taragna gron-dante formaggi svizzeri. E poi la neve bagnata a Ca-steldelfino, sui monti di Cuneo, con una croccantepolenta fritta consumata con fette di un Castelma-gno così forte che per un mese mi impestò il maglio-ne con inestirpabile odore di caglio. E che dire del bi-vacco con temporale assieme a Mauro Corona — bi-vacco talebano sotto gli strapiombi dell’Antro di Ta-marìa — e della polenta a fette scaldata sul fuoco as-sieme a un cacio padellato friulano di nome “frico”.

Facile dire polenta. Me ne ricordo di ogni tipo. Acroste, il meglio del meglio, staccate a fatica dal fon-do di un paiolo in rame. Polenta secca tirolese, mes-sa nello zaino assieme a speck, chiodi e martello, altempo delle prime arrampicate in Dolomiti. Polen-ta veneta bianca come la neve, fatta ai ferri in un ca-sone della Laguna. Polenta partigiana, come quellache in Val d’Arda, sull’Appennino di Piacenza, i val-ligiani passarono di nascosto per due inverni allo“Slavo”, imprendibile comandante della Resisten-za. Polenta emigrante, abbrustolita sotto il cielo del-le Fiandre. Polenta di trincea, messa sul fuoco allependici del Grappa, dove scaglie di balistite dellaGrande guerra — ancora infiammabili — esconodalla terra in quantità da paura. Polenta povera e no-bile, resistente e ostinata. Italiana.

itinerari

Popolata in egual misura

da appassionati

della montagna e turisti

da gioco, la cittadina

valdostana

sa accontentare

gli uni e gli altri

con i suoi piatti fortemente radicati

nella tradizione valligiana. Su tutti, la polenta

lavorata con fontina d'alpeggio

DOVE DORMIREHOTEL LA CHANCE

Viale Duca d'Aosta 14

Tel. 0166-502573

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDEL VIALE

Viale Piemonte 7

Tel. 0166-512569

Chiuso giovedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRARELES SAVEURS D'ANTAN - I SAPORI DI UN TEMPO

Via Chanoux 100

Tel. 0166-513329

Saint-Vincent (Ao)La cittadina costruita

all'ombra dell'Abetone

ha un passato

di cucina povera,

dove la castagna

regnava sovrana

Ancora oggi

con la farina di castagne si prepara una gustosa

polenta, arricchita da rigatino (pancetta)

abbrustolito e uova fritte

DOVE DORMIREIL POGGIOLO (con cucina)

Via del Poggiolo 52

Tel. 0573-630153

Camera doppia da 60 euro

DOVE MANGIAREAGRITURISMO IL VOLPINO (con camere)

Via Le Torri. Località Il Volpino

Tel. 0573-68395

Senza chiusura, menù da 25 euro

DOVE COMPRARELA BOTTEGA DELLA ROBA BUONA

Via Ximenes 502. Località Limestre

Tel. 0573-630102

San Marcello Pistoiese (Pt)In equilibrio

tra vocazione agricola

e sistema industriale,

la città umbra condivide

con l’intera regione

un meraviglioso

patrimonio

enogastronomico. Preparazioni succulente —

funghi, tartufi e selvaggina — per condire

adeguatamente la polenta

DOVE DORMIREVILLA MAFALDA

Strada di Collescipoli 327. Frazione Piediluco

Tel. 0744-282456

Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA MORA

Via San Martino 42

Tel. 0744-421256

Chiuso martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREGASTRONOMIA GALLI

Viale Cesare Battisti 44

Tel. 0744-403276

Terni

CastagneNon solo castagnaccio e frittelle, dalla regina

della cucina povera di montagna. La polenta,

di consistenza morbida, veniva servita

con latte o ricotta. È perfetta con formaggi

di pascolo e piatti a base di maiale

CeciInsieme a roveje e cicerchie, i legumi tipici

del centro Italia sono trasformati in farine,

per farne focacce come la farinata ligure

La polenta viene servita con lardo, acciughe,

pecorino, umidi di carne, baccalà

BramataLa farina più apprezzata per gli abbinamenti

tradizionali con formaggi o carne si ottiene

macinando a pietra e a grana grossa diversi tipi

di mais. Quella di grano saraceno, invece,

ha un colore grigio ed è macinata sottile

BiancaPoco diffusa, ma amatissima nelle zone

di produzione — Padova, Treviso, Venezia —

la farina di mais bianco (macinata fine,

da tagliare col filo a cottura ultimata)

è la più indicata con i piatti a base di pesce

Consistenze con fegatelliWALTER FERRETTO

Il Cascinale Nuovo, Isola d'Asti (Asti). Polenta

in due consistenze: crema morbida e cialda

croccante. I fegatelli di coniglio sono glassati

con salsa concentrata di porto invecchiato

Dolce di polenta di BausFABRIZIA MEROI

Laite, Sappada (Belluno). Dolce di polenta,

uova e colostro di mucca, con dadolada di pere,

zabaione al vino rosso montato con panna

e riduzione di vin brulè al profumo di arance

Polenta all’olio e zafferanoANIKO ROMITO

Il Reale, Rivisondoli (L'Aquila). Emulsione

di polenta con extravergine e brodo profumato

allo zafferano. Sopra, tortelli di mais ripieni

di pecorino liquido e lamelle di tartufo bianco

Memoria di campagnaILARIO VINCIGUERRA

Antica Trattoria, Monte Costone (Varese)

La polenta appoggiata su fonduta di mozzarella

e profumata con il crescione. Sopra, tuorlo

marinato al tè nero, pancetta e frutta secca

Il bergamasco Luca Brasi coniuga tradizione localee creatività nel ristorante “La Lucanda”, all’internodel Devero Hotel di Cavenago Brianza, MilanoTra i suoi piatti, la polenta e latte ai crostacei

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le tendenzeVerso Natale

L’orologio è un classicodel regalo last minute

Ecco quale è la moda del momento

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 14DICEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 14DICEMBRE 2008

AURELIO MAGISTÀ

Sezionare gli istanti è l’ansia del presen-te. In un passato nemmeno tanto remo-to la giornata era scandita dai cicli mo-nastici — mattutino, laudi, vespro,compieta —, con un lento fluire deltempo di cui Umberto Eco ci ha dato un

rigoroso esempio nel Nome della rosa. Oggi che iltempo è diventato il bene più prezioso e sembranon bastare mai, abbiamo imparato a pesare an-che gli attimi. In fondo il multitasking, quella capa-cità in cui si distinguono i ragazzi di fare tante cosenello stesso tempo, che cosa è se non l’estrema ot-timizzazione del tempo?

L’ansia delle ore perdute ha un’icona: il crono-grafo. Continua infatti la fortuna dell’orologio chemisura tempi molto brevi, fino a frazioni di secon-do ben oltre il margine d’errore delle nostre dita suipulsanti che fanno partire e arrestano le sfere sulquadrante. Una volta era al polso di atleti e militari.Oggi aggiunge una nota virile a mani di modelle eattrici. Persa la connotazione strettamente compe-titiva, il cronografo annuncia all’universo mondoche abbiamo poco tempo, che nessuno ci deve farperdere tempo, che viviamo spaccando il secondo.

In realtà sappiamo bene che non è così. I nostrigiorni sono come gli acquedotti di molte delle no-stre città: tormentati da perdite occulte. A ben po-co ci servono i frammenti di secondi quando il no-stro tempo viene inghiottito dal ritardo di un aereo,da un amico poco puntuale all’appuntamento,dall’attesa della risposta di un telefono che restamuto, dal traffico dell’ora di punta. Però, esibireun’ossessiva attenzione al tempo è lo spirito deltempo. Che possiamo assecondare grazie ai nuovicronografi, sempre più numerosi (e, fra l’altro,sempre molto apprezzati come regali).

Diversi cronografi, sottolineano il loro legame

con lo sport, l’avventura e le attività estreme. Peresempio il Ducati corse Ref. CW00015, con il cintu-rino in gomma che cita il battistrada delle mitichemoto made in Italy; o il Red Devil Bang di Hublot,orologio ufficiale dei Red Devils, i giocatori delManchester United; o lo Speedmaster della Ome-ga, l’orologio che la Nasa ha voluto nello spazio eche esce con la versione MoonWatch AlaskaProject riprendendo un prototipo degli anni Set-tanta pensato per le temperature estreme, da quel-le dell’Alaska a quelle prossime allo zero assolutodel buio siderale; o ancora il Sector 42,195 Collec-tion, con dettagli come l’acciaio anallergico.

Altri cronografi invece sottolineano i contenutitecnici, tanto più che quelli meccanici, predilettidai puristi, costano molto di più perché spesso so-no piccoli capolavori di eccellenza costruttiva: peresempio la versione Grande Taille (43 mm. di dia-metro) del Chrono4 di Eberhard & Co., l’orologioche grazie a una innovazione tecnica si distingueper i quattro contatori allineati; o il Prominente,cronografo di Cuervo Y Sobrinos che piace ai culto-ri delle forme classiche; o il Centigraphe Souveraindi F. P. Journe, che tra un brevetto e l’altro ha vintoil prestigioso Aguille D’or del Grand Prix dell’orolo-geria di Ginevra.

Infine, poiché i cronografi sono di moda, ci so-no quelli che esibiscono il loro flirt con le tenden-ze, siano spudoratamente fashion come quellidella nuova collezione ToyWatch, dove si distin-guono il Purple Rain e il Blue Jeans versione fluo;siano più design, come il Dashboard P’6612 PTCdi Porsche Design; siano, più sobriamente, ecolo-gici e pragmatici come l’Eco Drive Crono Pilot diCitizen, a carica infinita grazie alla luce solare edestremamente preciso perché si autoregola gra-zie a un segnale su onde radio.

ART DÉCOCita nelle forme l’Art Décoil cronografo ProminenteCuervo y Sobrinos,con cassa oblunga in acciaioo oro rosa 18 caratiRiserva di carica di 42 ore

OVER SIZEIl Chrono 4 di Eberhard & Co.

è ora Grande Taille(43 mm di cassa)

I contatori sono allineatiorizzontalmente

per una lettura immediata

MANCHESTER UNITEDIl Red Devil Bang di Hublot

è l’orologio ufficialedel Manchester UnitedContatore di 45 minuti,

durata di un tempo

SOTTO CONTROLLOMovimento Eco Drive(a carica luce infinita),crono a 1/20di secondo, dual time,allarme, calendarioperpetuo: è il CitizenEco Drive Crono Pilotradiocontrollato

VELOCITÀIl Centigraphe

Souveraindi F.P. Journe

ha scaletachimetriche

che convertonole unità di tempo

in velocità

MAXII nuovi Sector 42,195 sonochrono 1/5 di secondo dotatidi allarme e datario. In trecolori, cassa di 40.20 mm

MISSIONI SPAZIALILo Speedmaster Alaska

Project Omega, certificatoNasa, resiste a temperature

tra -148 e +260 gradi

DURO E PUROGrazie alla tecnologia Dlcil Dashboard P’6612 PTCdi Porsche Design è superresistente a usura e graffi

PORPORAIl Purple Rain è uno dei nove

orologi Fluo WinterCollectiondi Toy Watch. Omaggio

al colore moda della stagione

SQUADRA CORSEDa Ducati Corse il crono Ref.CW00015 con cassa 44 mmin acciaio e dettagli “rossoDucati”. Le viti sulla coronarichiamano quelle delle moto

SPACCARE IL SECONDOIl cronografo catturalo spirito del tempo

In una società che corre e che riempie di ansiale sue giornate, l’arte di sezionare gli attiminon è più solo prerogativa di atleti e militari

E l’industria si è rapidamente adeguata

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14DICEMBRE 2008

‘‘

‘‘l’incontroNuove sfide

CASTIGLION DELLA PESCAIA

C ustodisce un amabile vez-zo infantile con l’umiltà deigrandi Carlo Fruttero, ot-

tantadue anni. Sorride leggermente indi-cando il registratore digitale, «cosa è, unsottomarino?», scherza con l’abituale ve-na ironica. Finora il celebre scrittore, le-gato per cinquant’anni a Franco Lucenti-ni in un indissolubile sodalizio letterario,non aveva mai scritto libri per ragazzi.Ma, nell’età che ad alcuni regala ancora ilsapore della sfida, forte del suo passato dicostante narratore di fiabe per figlie e ni-poti, ha affrontato nientemeno che la Ge-nesi con una filastrocca, La Creazione(Gallucci, illustrazioni di Cristina Lastré-go & Testa, 13 euro): «L’unica forma pos-sibile, secondo me». Una sarabanda do-ve accade di tutto e dove il mondo primasi forma e poi si perfeziona. Per finire ilsettimo giorno con il comprensibile dub-bio del «cosa mai voglia dire il pur nobileguazzabuglio», disincantata introduzio-ne per una chiusa laica e intelligente:«Nessuno lo sa, francamente. Dovremoaspettare il cimitero, virgola, temo».

Ma come mai l’ex direttore di Urania,l’uomo divenuto scrittore grazie a un’a-dolescenza passata a leggere e a una gio-vinezza immolata a tradurre, l’autore conLucentini di una ventina di libri dallemolte e fortunate edizioni, a partire dal-l’indimenticabile La donna della dome-nica, ha cambiato pelle per dedicarsi auna filastrocca sulla creazione dell’uni-verso, seguendo la versione ufficiale del-la Bibbia e «sotto l’alto patrocinio del-l’Onnipotente?».

«L’idea l’ha avuta l’editore, ne ha par-lato con Furio Scarpelli che gli ha sugge-rito di provare con me. Lì per lì mi sembròun’assurdità. Come si fa, mi sono detto, ascrivere un libro sulla Genesi? Che puoi fa-

re con il linguaggio della Bibbia? La paro-dia goliardica? Il dislivello tra il raccontoepico e una lettura più o meno infantile èimmenso. Non vedevo via d’uscita. Poi,dopo una decina di giorni, di colpo mi èvenuta in mente la filastrocca. Un generecomplicato, non so se poetico, ma certodifficile. Ci ho messo un mese a scriverla,lavorando al mattino». «Meno di un me-se», lo corregge Carlotta, la figlia con cuiabita vicino al mare in Toscana. «Papàdetta a me tutto quello che scrive, poi ri-legge e cambia al massimo qualche ag-gettivo». Riprende lui: «Dopo un po’ misono lasciato affascinare dalle rime; pri-ma d’ora non mi ero mai cimentato conle filastrocche. Mentre con le poesie sì,quando pubblicai con LucentiniL’idrau-lico non verrà (1970), per Il Melangolo.

Un ricordo del passato per annunciareil libro futuro. «Si tratta di un’autobiogra-fia dal titolo un po’ truffaldino, Mutandi-ne di chiffon», azzarda con malizia fan-ciullesca. «Uscirà forse in primavera. In-tendiamoci, non è una vera autobiogra-fia, almeno non in senso classico; per far-lo bisognerebbe avere un’idea statuariadi se stessi o l’ambizione di lasciare unatraccia, il che oggi suona ridicolo... Le miesono piuttosto memorie occasionali.Qualcuno mi aveva fatto notare che ave-vo scritto vari pezzi sulla mia vita, uno suParigi, uno sulla guerra, uno sul Monfer-rato, uno sul castello di Passerano dove sipuò dire che sono nato. Tutti articoli ca-suali, come quello che una volta mi chie-se Tv Sorrisi e Canzoni, sulla vendemmia.E io raccontai di come andavo a farla, dabambino, a Passerano. O un’altra voltache, mentre mi stavo occupando di Si-menon, mi venne di scrivere del paesag-gio francese e dei luoghi bellissimi doveavevo girato in macchina. Anche Mutan-dine di chiffonè un pezzetto di memoria.Di quando, durante la guerra, abitavo coimiei in affitto sulle precolline torinesi eandavo a portare i soldi ogni mese al pa-drone di casa. Un tipo grasso, che se nestava sempre con il suo sigaro in bocca…Accadde che, dopo la guerra, un mio ami-co mi portò in un teatro all’aperto lungo ilfiume a sentire un famoso cantante deglianni Venti, quello che cantava Balocchi eprofumi... E lo fece anche quella sera, ave-va le lacrime agli occhi. Poi, però, passò abrani più spigliati. E tra questi c’era Mu-tandine di chiffon. L’indomani, a casa,quel motivetto mi tornò in mente e mimisi a canticchiarlo. Finiva in modo paz-zesco (ammicca divertito): “…quando viaffacciate, quante cose sollevate”. A uncerto punto mia madre mi fa: “Cosa fai,canti le canzoni di Bel Ami?”. E mi rivelache Bel Ami era nientemeno il nostro pa-drone di casa, l’autore di successo di Mu-tandine di Chiffon».

Stralci di memoria «per di più occasio-nali, perché mancano molti pezzi dellamia di vita. Per esempio il periodo in cuiho vissuto a Londra o a Parigi. Fu tra il ’47e il ’53. Me ne ero andato dall’Italia, che inquel momento trovavo terribile, per nonstare a Torino. Ed ero pronto: durante laguerra ero stato in campagna, in casa di

fisico… diventammo subito amicissimi.Avevamo in comune, come dicevamo al-lora, molti disinteressi, ed eravamo am-bedue un po’ diversi da tutti gli altri. A uncerto punto curammo insieme una gros-sa antologia di fantascienza: Le meravi-glie del possibile, che per Einaudi fu ungrandissimo successo. Leggemmo tre-cento racconti per sceglierne trenta. E ve-rificammo che andavamo davvero moltod’accordo. Allora ci siamo detti: adessoche abbiamo letto tutto il possibile, per-ché non proviamo a scrivere qualcosa in-sieme? Così un’estate, a Forte dei Marmi,c’era già la mia prima figlia, cominciam-mo a lavorare a una tragedia elisabettia-na. Era una parodia, si chiamava La bat-taglia di Vercelli. Scrivemmo solo un attoe mezzo... poi abbiamo lasciato perdere,volevamo tentare con un romanzo, conun poliziesco. Era La donna della dome-nica, ci lavorammo dal ’66 al ’72. Un tem-po lungo, perché nel frattempo doveva-mo fare Urania».

Fu quando Alberto Mondatori, trovan-dosi senza direttore, vi offrì quel posto va-cante? «Noi accettammo, con grandissi-ma indignazione di Einaudi e di Calvino.Per loro un conto era curare una raccoltachic di racconti di fantascienza, altra co-sa era andare a dirigere un quindicinaleper tutti. Il nostro era considerato un tra-dimento, qualcosa di incomprensibile,un abbandono della serietà. Non capiva-no che noi di quel loro club c’eravamo unpo’ stufati. Quella svolta cambiò la nostravita: scegliere quel genere così poco daclub ci aiutò a scrivere La donna della do-menicain un modo popolare, il che portòil libro al successo. Ma fu anche una scel-ta di umiltà. Di gente che, come noi, ave-va il senso delle proporzioni. Perché, do-po Proust, dopo Kafka, dopo Flaubert,dopo Tolstoi, cosa vai a parlare dell’ani-mo umano? Sarebbe insensato. Il nostrofu un modo per marginalizzarsi, per tro-vare un sentierino e per girargli attorno.Non ci aspettavamo quel successo, pen-savamo fosse un buon romanzo, maniente di più. Tra l’altro era il ’72, c’eranole occupazioni, cominciava il fenomenodelle Brigate rosse, il momento era diffi-cile e quello era solo un poliziesco… daquel momento il mio sodalizio con Lu-centini si consolidò definitivamente: lanostra fu una specie di carriera comune,portata avanti tra difficoltà enormi, per-ché tutto era difficile. Io andavo spesso dalui, nella sua casetta vicino Fontainbleauo lui veniva da me. Quando eravamo in-sieme, con Lucentini, nessuno di noi hapensato di scrivere qualcosa da solo, civeniva bene in due e basta. Per i romanzici siamo sempre divisi i capitoli, perchéscrivere insieme è impossibile. Solo la ri-lettura può essere comune. L’avventuradi Urania, durò più di vent’anni, fino al1986. Io vivevo dei miei libri e dei mieiscritti; pubblicavo sulla Stampa, su L’E-spresso, su Panorama. A un certo punto,nel ’92, mettendo insieme tutti gli artico-li, venne fuori Il ritorno del Cretino,un al-tro successo».

Nel 2002 Lucentini morì e lei decise di

mia nonna. E poiché, per mia fortuna, incima alla montagna c’era un enorme ca-stello con un’immensa biblioteca, inmancanza d’altro avevo passato interegiornate a leggere. E avevo imparato l’in-glese, da un prete. Ci andavo in bicicletta.Quel periodo condizionò la mia vita persempre. Presi a scrivere raccontini su tut-to quello che avevo visto: partigiani, ra-strellamenti… li pubblicai anche, due otre uscirono su Il Ponte. Intanto nel ’52,tramite amici che erano in Giustizia e Li-bertà, ero entrato in contatto con Einau-di. E cominciai a tradurre. Mi portavo il la-voro a Parigi, a Londra. In seguito mi chie-sero di entrare nella casa editrice. Io erocontrario, mi sembrava di rinunciare al-la libertà, ma alla fine accettai. Il mio pri-mo lavoro fu correggere il testo italianodel Diario di Anna Frank; l’aveva fatto unolandese, perché allora traducevanospesso gli stranieri, in quanto nel nostropaese certe lingue non le conosceva nes-suno».

«Nel ’53 incontrai Franco Lucentini, aParigi. Lui aveva scritto un bellissimo rac-conto per Nuovi argomenti, molto meta-

scrivere un romanzo da solo. «Non ho de-ciso niente. Sono stato lì rannicchiato perun po’. Poi, con il tempo, quasi per caso,è riaffiorata un’idea che mi ronzava in te-sta da una quindicina d’anni. Andandoda Parigi in Germania, in stazione, mi eracapitato di comprare Jacques le fatalistedi Diderot: non un gran libro ma con, in-castrata nel contesto, una storia che micolpì molto. Di una marchesa che rompela relazione con l’amante marchese. Ma,poiché lui si dice d’accordo, lei ci restamale e si vuole vendicare. Va in un bor-dello, trova una prostituta bellissima esua madre: con una borsa d’oro le con-vince a fingersi una famiglia impoverita eirreprensibile che prega e fa opere di be-ne. La marchesa fa conoscere al marche-se le due donne e lui s’innamora della ra-gazza. La corteggia, le offre regali, la vuo-le per sé. Ma lei si nega, sempre, finché luila sposa. E solo dopo si rivela per quelloche era. Allora lui va su tutte le furie, lavuole cacciare, alla fine però ci ripensa el’amore trionfa. La storia mi piacque im-mensamente, ne parlai con Franco, mainsieme convenimmo che trasferire lastoria a Torino non aveva senso. In segui-to, dopo la sua morte, cominciai a sentiretante storie di badanti, di accompagna-trici ucraine, rumene, anche ex prostitu-te, giovani e belle. Allora capii che Torinopoteva ormai reggere una storia così, per-ché c’era questa novità sociologica del-l’arrivo delle donne dell’est».

Così nel 2006 nacque Donne informa-te sui fatti. Un successo personale. Ne èstato felice? «Non più alla mia età. Solo unpiacere, niente di più. Mentre con Ti tro-vo un po’ pallida, ho voluto fare un ritrat-to di Pietro Citati. Era il rifacimento di unlibro scritto con Franco anni prima. Pie-tro è un mio grande amico. È sferzante,ma molto affettuoso con me e viene spes-so a trovarmi. Gli ho mandato una copiadella Creazione. Era fuori di sé dalla gioia.Mi ha detto: “Come hai fatto, vecchio co-me sei?”».

“La donnadella domenica”ebbe molto successoperché era scrittain modo popolareFu una sceltadi umiltà,avevamo il sensodelle proporzioni

Dopo una vita passata a leggere,tradurre e poi scrivere romanziin coppia con Lucentini, ora conosceuna nuova stagione di creativitàHa appena pubblicato una lunga

filastrocca per spiegarela “Genesi” ai bambinie sta preparandoun’autobiografiaintitolata “Mutandinedi chiffon” . Ma ci scherza:“Non è una veraautobiografia. Per farla

bisogna avere un’idea statuariadi se stessi, o l’ambizione di lasciareuna traccia, il che suona ridicolo”

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A3

SILVANA MAZZOCCHI

Carlo Fruttero

(Grosseto)

Repubblica Nazionale