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Niccolò Machiavelli Il Principe Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

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Niccolò Machiavelli

Il Principe

Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

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Edizioni di riferimentoelettronicheLiz, Letteratura Italiana Zanichelli

a stampaNiccolò Machiavelli, Tutte le opere, I, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni,1971

DesignGraphiti, Firenze

ImpaginazioneThèsis, Firenze-Milano

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3Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Niccolò Machiavelli Il Principe

Sommario

Dedica ................................................................................................................................................. 5Capitolo I – Quot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur ........................................... 6Capitolo II – De principatibus hereditariis ........................................................................................... 6Capitolo III – De principatibus mixtis ................................................................................................. 7Capitolo IV – Cur Darii regnum quod Alexander occupaverat a successoribus suis post Alexandri

mortem non defecit .................................................................................................... 12Capitolo V – Quomodo administrandae sunt civitates vel principatus, qui, antequam occuparentur,

suis legibus vivebant .................................................................................................... 14Capitolo VI – De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur ................................. 15Capitolo VII – De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur ................................. 18Capitolo VIII – De his qui per scelera ad principatum pervenere ....................................................... 23Capitolo IX – De principatu civili ...................................................................................................... 26Capitolo X – Quomodo omnium principatuum vires perpendi debeant............................................. 29Capitolo XI – De principatibus ecclesiasticis ...................................................................................... 30Capitolo XII – Quot sint genera militiae et de mercenariis militibus .................................................. 32Capitolo XIII – De militibus auxiliariis, mixtis et propriis ................................................................. 36Capitolo XIV – Quod principem deceat circa militiam ...................................................................... 38Capitolo XV – De his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur ....... 40Capitolo XVI – De liberalitate et parsimonia ..................................................................................... 41Capitolo XVII – De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra................ 43Capitolo XVIII – Quomodo fides a principibus sit servanda .............................................................. 45Capitolo XIX – De contemptu et odio fugiendo ................................................................................ 47Capitolo XX – An arces et multa alia quae cotidie a principibus fiunt utilia an inutilia sint................ 55Capitolo XXI – Quod principem deceat ut egregius habeatur ............................................................ 58Capitolo XXII – De his quos a secretis principes habent .................................................................... 61Capitolo XXIII – Quomodo adulatores sint fugiendi ......................................................................... 61Capitolo XXIV – Cur Italiae principes regnum amiserunt.................................................................. 63Capitolo XXV – Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum .......... 64Capitolo XXVI – Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam ......... 66

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

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DedicaNicolaus Maclavellus ad Magnificum Laurentium Medicem

Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia ap-presso uno Principe, farsegli incontro con quelle cose che infra le loro abbino piùcare, o delle quali vegghino lui più delettarsi; donde si vede molte volte essereloro presentati cavalli, arme, drappi d’oro, pietre preziose e simili ornamentidegni della grandezza di quelli. Desiderando io, adunque, offerirmi alla VostraMagnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non hotrovato, intra la mia suppellettile, cosa quale io abbi più cara o tanto esistimiquanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me conuna lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique;le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, è orain uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra.

E benché io giudichi questa opera indegna della presenzia di quella,tamen confido assai che per sua umanità li debba essere accetta, consideratocome da me non gli possa essere fatto maggiore dono che darle facultà a potere inbrevissimo tempo intendere tutto quello che io, in tanti anni e con tanti miadisagi e periculi, ho conosciuto e inteso. La quale opera io non ho ornata néripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunquealtro lenocinio o ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le loro cosedescrivere e ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che sola-mente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata. Né vogliosia reputata presunzione se uno uomo di basso ed infimo stato ardisce discorreree regolare e’ governi de’ principi; perché, così come coloro che disegnano e’ paesi sipongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e perconsiderare quella de’ bassi si pongono alti sopra e’ monti, similmente, a conosce-re bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’principi, bisogna essere populare.

Pigli, adunque, Vostra Magnificenzia, questo piccolo dono con quelloanimo che io lo mando; il quale se da quella fia diligentemente considerato eletto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio, che Lei pervenga a quellagrandezza che la fortuna e le altre sue qualità gli promettano. E se VostraMagnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi inquesti luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande econtinua malignità di fortuna.

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Capitolo IQuot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur.

Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperiosopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati. È principatisono o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungotempo principe, o e’ sono nuovi. È nuovi, o sono nuovi tutti, come fuMilano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato eredi-tario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna.Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe,ousi ad essere liberi; e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o perfortuna o per virtù.

Capitolo IIDe principatibus hereditariis.

Io lascerò indrieto el ragionare delle republiche, perché altra voltane ragionai a lungo. Volterommi solo al principato, e andrò tessendo gliorditi soprascritti, e disputerò come questi principati si possino gover-nare e mantenere.

Dico, adunque, che negli stati ereditarii e assuefatti al sangue delloro principe sono assai minori difficultà a mantenerli che ne’ nuovi;perché basta solo non preterire l’ordine de’ sua antenati, e di poi tem-poreggiare con gli accidenti; in modo che, se tale principe è di ordinariaindustria, sempre si manterrà nel suo stato, se non è una estraordinariaed eccessiva forza che ne lo privi, e privato che ne fia, quantunque disinistro abbi lo occupatore, lo riacquista.

Noi abbiamo in Italia, in exemplis, il duca di Ferrara; il quale nonha retto agli assalti de’ Viniziani nello ’84, né a quelli di papa Iulio nel’10, per altre cagioni che per essere antiquato in quello dominio. Perchéel principe naturale ha minori cagioni e minore necessità di offendere;donde conviene che sia più amato; e se estraordinarii vizii non lo fannoodiare, è ragionevole che naturalmente sia benevoluto da’ sua. E nellaantiquità e continuazione del dominio sono spente le memorie e le ca-gioni delle innovazioni; perché sempre una mutazione lascia loaddentellato per la edificazione dell’altra.

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Capitolo IIIDe principatibus mixtis.

Ma nel principato nuovo consistono le difficultà. E prima, se non ètutto nuovo, ma come membro (che si può chiamare tutto insieme quasimisto), le variazioni sua nascono in prima da una naturale difficultà, qualeè in tutti e’ principati nuovi: le quali sono che li uomini mutano volentierisignore, credendo migliorare; e questa credenza gli fa pigliare l’arme controa quello; di che e’ s’ingannono, perché veggono poi per esperienza averepeggiorato. Il che depende da una altra necessità naturale e ordinaria, qualefa che sempre bisogni offendere quelli di chi si diventa nuovo principe econ gente d’arme e con infinite altre iniurie che si tira dietro el nuovoacquisto; in modo che tu hai inimici tutti quelli che hai offesi in occuparequello principato, e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti hannomesso, per non li potere satisfare in quel modo che si erano presupposto eper non potere tu usare contro a di loro medicine forti, sendo loro obligato;perché sempre, ancora che uno sia fortissimo in sugli eserciti, ha bisognodel favore de’ provinciali a intrare in una provincia. Per queste cagioniLuigi XII re di Francia occupò subito Milano, e subito lo perdé; e bastò atorgnene, la prima volta, le forze proprie di Lodovico; perché quelli populiche gli avevono aperte le porte, trovandosi ingannati della opinione loro edi quello futuro bene che si avevano presupposto, non potevono sopporta-re e’ fastidii del nuovo principe.

È ben vero che, acquistandosi poi la seconda volta e’ paesi rebellati, siperdono con più difficultà; perché el signore, presa occasione dalla rebellione, èmeno respettivo ad assicurarsi con punire e’ delinquenti, chiarire e’ suspetti,provvedersi nelle parti più debole. In modo che, se a fare perdere Milano aFrancia bastò, la prima volta, uno duca Lodovico che romoreggiassi in su’ con-fini, a farlo di poi perdere la seconda gli bisognò avere, contro, el mondo tutto,e che gli eserciti suoi fussino spenti o fugati di Italia; il che nacque dalle cagionisopradette. Nondimanco, e la prima e la seconda volta, gli fu tolto.

Le cagioni universali della prima si sono discorse; resta ora a direquelle della seconda, e vedere che remedii lui ci aveva, e quali ci può avereuno che fussi ne’ termini sua, per potersi meglio mantenere nello acquistoche non fece Francia. Dico, pertanto, che questi stati, quali acquistandosi siaggiungono a uno stato antiquo di quello che acquista, o e’ sono della

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medesima provincia e della medesima lingua, o non sono. Quando e’ sieno,è facilità grande a tenerli, massime quando non sieno usi a vivere liberi; e apossederli securamente basta avere spenta la linea del principe che li domi-nava, perché nelle altre cose, mantenendosi loro le condizioni vecchie enon vi essendo disformità di costumi, gli uomini si vivono quietamente:come si e visto che ha fatto la Borgogna, la Brettagna, la Guascogna e laNormandia, che tanto tempo sono state con Francia; e benché vi sia qual-che disformità di lingua, nondimeno e’ costumi sono simili, e possonsi fraloro facilmente comportare. E chi le acquista, volendole tenere, debbe ave-re dua respetti: l’uno, che il sangue del loro principe antiquo si spenga;l’altro, di non alterare né loro legge né loro dazii; talmente che in brevissi-mo tempo diventa, con loro principato antiquo, tutto uno corpo.

Ma, quando si acquista stati in una provincia disforme di lingua, dicostumi e di ordini, qui sono le difficultà; e qui bisogna avere gran fortunae grande industria a tenerli. E uno de’ maggiori remedii e più vivi sarebbeche la persona di chi acquista vi andassi ad abitare. Questo farebbe piùsecura e più durabile quella possessione: come ha fatto il Turco, di Grecia;il quale, con tutti gli altri ordini osservati da lui per tenere quello stato, senon vi fussi ito ad abitare, non era possibile che lo tenessi. Perché, standovi,si veggono nascere e’ disordini, e presto vi puoi rimediare; non vi stando,s’intendono quando e’ sono grandi e che non vi è più remedio. Non è, oltredi questo, la provincia spogliata da’ tuoi officiali; satisfannosi e’ sudditi delricorso propinquo al principe; donde hanno più cagione di amarlo, volen-do essere buoni, e, volendo essere altrimenti, di temerlo. Chi degli esternivolessi assaltare quello stato, vi ha più respetto; tanto che, abitandovi, lopuò con grandissima difficultà perdere.

L’altro migliore remedio è mandare colonie in uno o in duo luoghiche sieno quasi compedes di quello stato; perché è necessario o fare questo otenervi assai gente d’arme e fanti. Nelle colonie non si spende molto; esanza sua spesa, o poca, ve le manda e tiene; e solamente offende coloro achi e’ toglie e’ campi e le case per darle a’ nuovi abitatori, che sono unaminima parte di quello stato; e quelli ch’egli offende, rimanendo dispersi epoveri, non gli possono mai nuocere, e tutti gli altri rimangono da unocanto inoffesi, e per questo doverrebbono quietarsi, dall’altro paurosi dinon errare, per timore che non intervenisse a loro come a quelli che sonostati spogliati. Concludo che queste colonie non costono, sono più fedeli,

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offendono meno; e gli offesi non possono nuocere sendo poveri e dispersi,come è detto. Per il che si ha a notare che gli uomini si debbano o vezzeg-giare o spegnere; perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi nonpossono: sì che l’offesa che si fa all’uomo debba essere in modo che la nontema la vendetta. Ma tenendovi, in cambio di colonie, gente d’arme sispende più assai, avendo a consumare nella guardia tutte le intrate di quellostato in modo che lo acquisto gli torna perdita, e offende molto più, perchénuoce a tutto quello stato, tramutando con gli alloggiamenti il suo esercito;del quale disagio ognuno ne sente, e ciascuno gli diventa inimico; e sonoinimici che gli possono nuocere rimanendo battuti in casa loro. Da ogniparte, questa guardia è inutile, come quella delle colonie è utile.

Debbe ancora chi è in una provincia disforme come è detto, farsicapo e defensore de’ vicini minori potenti, ed ingegnarsi di indebolire e’potenti di quella, e guardarsi che, per accidente alcuno, non vi entri unoforestiere potente quanto lui. E sempre interverrà che vi sarà messo dacoloro che saranno in quella mal contenti o per troppa ambizione o perpaura: come si vidde già che gli Etoli missero e’ Romani in Grecia; e in ognialtra provincia che gli entrorono, vi furono messi da’ provinciali. E l’ordinedelle cose è che, subito che uno forestiere potente entra in una provincia,tutti quelli che sono in essa meno potenti gli aderiscano, mossi da invidiahanno contro a chi è suto potente sopra di loro: tanto che, respetto a questiminori potenti, lui non ha a durare fatica alcuna a guadagnarli, perchésubito tutti insieme volentieri fanno uno globo col suo stato che lui vi haacquistato. Ha solamente a pensare che non piglino troppe forze e troppaautorità, e facilmente può, con le forze sua e col favore loro, sbassare quelliche sono potenti, per rimanere, in tutto, arbitro di quella provincia. E chinon governerà bene questa parte, perderà presto quello arà acquistato; ementre che lo terrà, vi arà, dentro, infinite difficultà e fastidii.

È Romani, nelle provincie che pigliorono, osservorono bene questeparti; e’ mandorono le colonie, intratennono e’ meno potenti sanza cresce-re loro potenzia, abbassorono e’ potenti, e non vi lasciorono prendere repu-tazione a’ potenti forestieri. E voglio mi basti solo la provincia di Grecia peresemplo: furono intratenuti da loro gli Achei e gli Etoli; fu abbassato elregno de’ Macedoni; funne cacciato Antioco; né mai e’ meriti degli Achei odegli Etoli feciono che permettessino loro accrescere alcuno stato; né lepersuasioni di Filippo gli indussono mai ad esserli amici sanza sbassarlo, né

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la potenzia di Antioco possé fare gli consentissino che tenessi quella provin-cia alcuno stato. Perché e’ Romani feciono, in questi casi, quello che tutti e’principi savi debbono fare; li quali, non solamente hanno ad avere riguardoagli scandoli presenti, ma a’ futuri, e a quelli con ogni industria obviare;perché, prevedendosi discosto, facilmente vi si può rimediare; ma, aspet-tando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia èdivenuta incurabile. E interviene di questa, come dicono e’ fisici dello eti-co, che, nel principio del suo male, è facile a curare e difficile a conoscere,ma, nel progresso del tempo, non l’avendo in principio conosciuta né me-dicata, diventa facile a conoscere e difficile a curare. Così interviene nellecose di stato; perché, conoscendo discosto (il che non è dato se non a unoprudente) e’ mali che nascono in quello, si guariscono presto; ma quando,per non li avere conosciuti si lasciono crescere in modo che ognuno li cono-sce, non vi è più remedio.

Però e’ Romani, vedendo discosto gli inconvenienti, vi rimediornosempre; e non li lasciorno mai seguire per fuggire una guerra, perchésapevono che la guerra non si leva, ma si differisce a vantaggio di altri; peròvollono fare con Filippo e Antioco guerra in Grecia per non la avere a farecon loro in Italia; e potevano per allora fuggire l’una e l’altra; il che nonvolsero. Né piacque mai loro quello che tutto dì è in bocca de’ savi de’nostri tempi, di godere el benefizio del tempo, ma sì bene quello della virtùe prudenzia loro; perché il tempo si caccia innanzi ogni cosa, e può condur-re seco bene come male, e male come bene.

Ma torniamo a Francia, ed esaminiamo se delle cose dette ne ha fattaalcuna; e parlerò di Luigi, e non di Carlo come di colui che, per averetenuta più lunga possessione in Italia, si sono meglio visti li suoi progressi:e vedrete come egli ha fatto il contrario di quelle cose che si debbano fareper tenere uno stato in una provincia disforme.

El re Luigi fu messo in Italia dalla ambizione de’ Viniziani, che volsonoguadagnarsi mezzo lo stato di Lombardia per quella venuta. Io non vogliobiasimare questo partito preso dal re; perché, volendo cominciare a mettereuno piè in Italia, e non avendo in questa provincia amici, anzi, sendoli, perli portamenti del re Carlo, serrate tutte le porte, fu forzato prendere quelleamicizie che poteva; e sarebbegli riuscito el partito ben preso, quando neglialtri maneggi non avessi fatto errore alcuno. Acquistata, adunque, il re laLombardia, si riguadagnò subito quella reputazione che gli aveva tolta Car-

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lo: Genova cedé; e’ Fiorentini gli diventorono amici, marchese di Mantova,duca di Ferrara, Bentivogli, madonna di Furlì, signore di Faenza, di Pesaro,di Rimino, di Camerino, di Piombino, Lucchesi, Pisani, Sanesi, ognuno segli fece incontro per essere suo amico. E allora posserno considerare e’Viniziani la temerità del partito preso da loro; i quali, per acquistare duaterre in Lombardia, feciono signore, el re, del terzo di Italia.

Consideri ora uno con quanta poca difficultà posseva il re tenere inItalia la sua reputazione, se egli avessi osservate le regole soprascritte, etenuti securi e difesi tutti quelli sua amici, li quali, per essere gran numero,e deboli e paurosi, chi della Chiesa, chi de’ Viniziani, erano sempre neces-sitati a stare seco; e per il mezzo loro posseva facilmente assicurarsi di chi cirestava grande. Ma lui non prima fu in Milano, che fece il contrario, dandoaiuto a papa Alessandro, perché egli occupassi la Romagna. Né si accorse,con questa deliberazione, che faceva sé debole, togliendosi gli amici e quelliche se gli erano gittati in grembo, e la Chiesa grande, aggiugnendo allospirituale, che gli dà tanta autorità, tanto temporale. E fatto uno primoerrore, fu costretto a seguitare; in tanto che, per porre fine alla ambizione diAlessandro e perché non divenissi signore di Toscana, fu costretto venire inItalia. Non gli bastò avere fatto grande la Chiesa e toltisi gli amici, che, pervolere il regno di Napoli, lo divise con il re di Spagna; e dove lui era, prima,arbitro d’Italia, e’ vi misse uno compagno, a ciò che gli ambiziosi di quellaprovincia e mal contenti di lui avessino dove ricorrere; e dove posseva la-sciare in quello regno uno re suo pensionario, e’ ne lo trasse, per metterviuno che potessi cacciarne lui.

È cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di acquistare; esempre, quando gli uomini lo fanno che possono, saranno laudati o non biasi-mati; ma quando non possono e vogliono farlo in ogni modo, qui è lo errore eil biasimo. Se Francia, adunque, posseva con le forze sua assaltare Napoli, dove-va farlo; se non poteva, non doveva dividerlo. E se la divisione fece, co’ Viniziani,di Lombardia, meritò scusa per avere con quella messo el piè in Italia; questamerita biasimo, per non essere escusata da quella necessità.

Aveva, dunque, Luigi fatto questi cinque errori: spenti e’ minori po-tenti; acresciuto in Italia potenzia a uno potente; messo in quella uno fore-stiere potentissimo; non venuto ad abitarvi non vi messe colonie. È qualierrori ancora, vivendo lui, possevano non lo offendere, se non avessi fatto elsesto: di tôrre lo stato a’ Viniziani; perché, quando e’ non avessi fatto gran-

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de la Chiesa né messo in Italia Spagna, era ben ragionevole e necessarioabbassarli; ma avendo preso quelli primi partiti, non doveva mai consentirealla ruina loro: perché, sendo quelli potenti, arebbono sempre tenuti glialtri discosto dalla impresa di Lombardia, sì perché e’ Viniziani non viarebbono consentito sanza diventarne signori loro; sì perché gli altri nonarebbono voluto torla a Francia per darla a loro; e andare a urtarli tutti edua non arebbono avuto animo. E se alcuno dicesse: il re Luigi cede adAlessandro la Romagna e a Spagna il Regno per fuggire una guerra, respondo,con le ragioni dette di sopra: che non si debbe mai lasciare seguire unodisordine per fuggire una guerra; perché la non si fugge, ma si differisce atuo disavvantaggio. E se alcuni altri allegassino la fede che il re aveva obligataal papa, di fare per lui quella impresa per la resoluzione del suo matrimonioe il cappello di Roano, respondo con quello che per me di sotto si dirà circala fede de’ principi e come la si debbe osservare.

Ha perduto, adunque, il re Luigi la Lombardia per non avere osser-vato alcuno di quelli termini osservati da altri che hanno preso provincie evolutole tenere. Né è miracolo alcuno questo, ma molto ordinario e ragio-nevole. E di questa materia parlai a Nantes con Roano, quando il Valentino(che così era chiamato popularmente Cesare Borgia, figliuolo di papa Ales-sandro) occupava la Romagna; perché, dicendomi el cardinale di Roanoche gli Italiani non si intendevano della guerra, io gli risposi che e’ Franzesinon si intendevano dello stato; perché, se se n’intendessono, nonlascerebbono venire la Chiesa in tanta grandezza. E per esperienza si è vistoche la grandezza, in Italia, di quella e di Spagna è stata causata da Francia, ela ruina sua causata da loro. Di che si cava una regola generale, la quale maio raro falla: che chi è cagione che uno diventi potente, rovina; perché quel-la potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l’una e l’altra diqueste due è sospetta a chi è diventato potente.

Capitolo IVCur Darii regnum quod Alexander occupaverat a successoribus suis post Alexandrimortem non defecit.

Considerate le difficultà le quali si hanno a tenere uno stato di nuovoacquistato, potrebbe alcuno maravigliarsi donde nacque che AlessandroMagno diventò signore della Asia in pochi anni e, non l’avendo appena

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occupata, morì; donde pareva ragionevole che tutto quello stato si rebellassi,nondimeno e’ successori di Alessandro se lo mantennono; e non ebbono, atenerlo, altra difficultà, che quella che intra loro medesimi, per ambizione pro-pria, nacque. Respondo come e’ principati de’ quali si ha memoria si trovonogovernati in dua modi diversi: o per uno principe e tutti gli altri servi, e’ qualicome ministri, per grazia e concessione sua, aiutano governare quello regno; oper uno principe e per baroni, e’ quali, non per grazia del signore, ma perantiquità di sangue tengano quel grado. Questi tali baroni hanno stati e sudditiproprii, li quali li riconoscono per signori e hanno in loro naturale affezione.Quegli stati che si governano per uno principe e per servi hanno el loro princi-pe con più autorità, perché in tutta la sua provincia non è alcuno che riconoscaper superiore se non lui; e se obediscano alcuno altro, lo fanno come ministro eoffiziale, e non gli portano particulare amore.

Gli esempli di queste due diversità di governi sono, ne’ nostri tempi,el Turco e il re di Francia. Tutta la monarchia del Turco è governata da unosignore; gli altri sono sua servi; e, distinguendo il suo regno in Sangiachi, vimanda diversi amministratori, e li muta e varia come pare a lui. Ma il re diFrancia è posto in mezzo d’una moltitudine antiquata di signori, in quellostato, riconosciuti da’ loro sudditi e amati da quelli hanno le loropreeminenzie; non le può il re tôrre loro sanza suo pericolo. Chi considera,adunque, l’uno e l’altro di questi stati, troverrà difficultà nello acquistare lostato del Turco, ma, vinto che sia, facilità grande a tenerlo. Così per adverso,troverrete per qualche rispetto più facilità a occupare lo stato di Francia, madifficultà grande a tenerlo.

Le cagioni della difficultà in potere occupare il regno del Turco sonoper non potere essere chiamato da’ principi di quello regno, né sperare, conla rebellione di quelli ch’egli ha d’intorno potere facilitare la sua impresa. Ilche nasce dalle ragioni sopradette; perché sendogli tutti stiavi e obligati, sipossono con più difficultà corrompere; e quando bene si corrompessino, sene può sperare poco utile, non possendo quelli tirarsi drieto e’ populi per leragioni assignate. Onde, chi assalta il Turco, è necessario pensare di averlo atrovare tutto unito, e gli conviene sperare più nelle forze proprie che ne’disordini d’altri. Ma, vinto che fussi, e rotto alla campagna in modo chenon possa rifare eserciti, non si ha a dubitare di altro che del sangue delprincipe; il quale spento, non resta alcuno di chi si abbia a temere, nonavendo gli altri credito con li populi: e come el vincitore, avanti la vittoria,

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non poteva sperare in loro, così non debbe, dopo quella, temere di loro.El contrario interviene ne’ regni governati come quello di Francia, per-

ché con facilità tu puoi intrarvi, guadagnandoti alcuno barone del regno, per-ché sempre si trova de’ mal contenti e di quelli che desiderano innovare; costo-ro, per le ragioni dette, ti possono aprire la via a quello stato e facilitarti lavittoria. La quale di poi, a volerti mantenere, si tira drieto infinite difficultà, econ quelli che ti hanno aiutato e con quelli che tu hai oppressi. Né ti bastaspegnere il sangue del principe, perché vi rimangono quelli signori che si fannocapi delle nuove alterazioni; e non li potendo né contentare né spegnere, perdiquello stato qualunque volta venga la occasione.

Ora, se voi considerrete di qual natura di governi era quello di Dario, lotroverrete simile al regno del Turco; e però ad Alessandro fu necessario primaurtarlo tutto e torli la campagna; dopo la quale vittoria, sendo Dario mortorimase ad Alessandro quello stato sicuro per le ragioni di sopra discorse. E lisuoi successori, se fussino suti uniti, se lo potevano godere oziosi; né in quelregno nacquono altri tumulti che quelli che loro proprii suscitorno. Ma li statiordinati come quello di Francia è impossibile possederli con tanta quiete. Diqui nacquono le spesse rebellioni di Spagna, di Francia e di Grecia da’ Romani,per li spessi principati che erano in quegli stati: de’ quali mentre durò la memo-ria, sempre ne furono e’ Romani incerti di quella possessione; ma, spenta lamemoria di quelli, con la potenzia e diuturnità dello imperio, ne diventoronosecuri possessori. E posserno anche, quelli, combattendo di poi infra loro, cia-scuno tirarsi drieto parte di quelle provincie, secondo l’autorità vi aveva presadentro; e quelle, per essere el sangue de’ loro antiqui signori spento, non rico-noscevano se non e’ Romani. Considerato adunque tutte queste cose, non simaraviglierà alcuno della facilità ebbe Alessandro a tenere lo stato di Asia e delledifficultà che hanno avuto gli altri a conservare lo acquistato, come Pirro emolti. Il che non è nato dalla molta o poca virtù del vincitore, ma dalla disformitàdel subietto.

Capitolo VQuomodo administrandae sunt civitates vel principatus, qui, antequamoccuparentur, suis legibus vivebant.

Quando quelli stati che si acquistano, come è detto, sono consueti avivere con le loro leggi e in libertà, a volerli tenere ci sono tre modi: elprimo, ruinarle; l’altro, andarvi ad abitare personalmente; el terzo, lasciarle

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vivere con le sue leggi, traendone una pensione e creandovi drento unostato di pochi che te le conservino amiche. Perché, sendo quello stato crea-to da quello principe, sa che non può stare sanza l’amicizia e potenzia sua,e ha a fare tutto per mantenerlo; e più facilmente si tiene una città usa avivere libera con il mezzo de’ suoi cittadini, che in alcuno altro modo,volendola preservare.

In exemplis ci sono li Spartani e li Romani. Li Spartani tennono Atenee Tebe creandovi uno stato di pochi, tamen le riperderno. Li Romani, pertenere Capua, Cartagine e Numanzia, le disfeciono, e non le perderono;volsero tenere la Grecia quasi come tennono li Spartani, faccendola libera elasciandoli le sue leggi, e non successe loro: in modo che furono costrettidisfare di molte città di quella provincia, per tenerla. Perché, in verità, nonci è modo securo a possederle, altro che la ruina. E chi diviene patrone diuna città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfattoda quella, perché sempre ha per refugio, nella rebellione, el nome dellalibertà e gli ordini antichi suoi; li quali né per la lunghezza de’ tempi né perbenefizii mai si dimenticano. E per cosa che si faccia o si provvegga, se nonsi disuniscono o dissipano gli abitatori, e’ non sdimenticano quel nome néquegli ordini, e subito in ogni accidente vi ricorrono; come fe’ Pisa dopocento anni che ella era suta posta in servitù da’ Fiorentini. Ma quando lecittà o le provincie sono use a vivere sotto uno principe, e quel sangue siaspento, sendo da uno canto usi ad obedire, dall’altro non avendo el princi-pe vecchio, farne uno infra loro non si accordano, vivere liberi non sanno:di modo che sono più tardi a pigliare le armi, e con più facilità se li può unoprincipe guadagnare e assicurarsi di loro. Ma nelle republiche è maggiorevita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia, né può lasciareriposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura via è spe-gnerle o abitarvi.

Capitolo VIDe principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur.

Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati altutto nuovi, e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli; per-ché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, eprocedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri

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al tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe unouomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelliche sono stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi arriva,almeno ne renda qualche odore; e fare come gli arcieri prudenti, a’ qualiparendo el loco dove disegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino aquanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il locodestinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma perpotere, con lo aiuto di sì alta mira, pervenire al disegno loro.

Dico, adunque, che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovoprincipe, si trova a mantenerli più o meno difficultà, secondo che più omeno è virtuoso colui che gli acquista. E perché questo evento di diventare,di privato, principe, presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra diqueste dua cose mitighi, in parte, di molte difficultà; nondimanco, coluiche è stato meno in sulla fortuna, si è mantenuto più. Genera ancora faci-lità essere il principe costretto, per non avere altri stati, venire personal-mente ad abitarvi. Ma per venire a quelli che, per propria virtù e non perfortuna, sono diventati principi, dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro,Romulo, Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendosuto uno mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamendebbe essere ammirato solum per quella grazia che lo faceva degno di parla-re con Dio. Ma consideriamo Ciro e gli altri che hanno acquistato o fonda-to regni: li troverrete tutti mirabili; e se si considerranno le azioni e ordiniloro particulari, parranno non discrepanti da quelli di Moisè, che ebbe sìgran precettore. Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelliavessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia apotere introdurvi dentro quella forma parse loro; e sanza quella occasionela virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasionesarebbe venuta invano.

Era dunque necessario a Moisè trovare il populo d’Isdrael, in Egitto,stiavo e oppresso dagli Egizii, acciò che quelli, per uscire di servitù, sidisponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capissi in Alba, fussistato esposto al nascere, a volere che diventassi re di Roma e fondatore diquella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ Persi mal contenti dello imperiode’ Medi, e li Medi molli ed effeminati per la lunga pace. Non possevaTeseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi. Questeoccasioni, pertanto, feciono questi uomini felici, e la eccellente virtù loro

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fece quella occasione essere conosciuta; donde la loro patria ne fu nobilitatae diventò felicissima.

Quelli e’ quali per vie virtuose, simili a costoro, diventino principiacquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e ledifficultà che gli hanno nello acquistare el principato, in parte nascono da’nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro ela loro securtà. E debbasi considerare come non è cosa più difficile a tratta-re, né più dubia a riuscire, né più periculosa a maneggiare che farsi capo aintrodurre nuovi ordini; perché lo introduttore ha per nimici tutti quelliche degli ordini vecchi fanno bene e ha tepidi defensori tutti quelli chedegli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per pa-ura degli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulitàdegli uomini, li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne vegganonata una ferma esperienza: donde nasce che qualunque volta quelli chesono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e que-gli altri defendano tepidamente: in modo che insieme con loro si periclita.

È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esami-nare se questi innovatori stiano per loro medesimi o se dependano da altri;cioè, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, ovvero possonoforzare. Nel primo caso càpitano sempre male e non conducano cosa alcu-na; ma quando dependono da loro proprii e possono forzare, allora è cherare volte periclitano. Di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono e lidisarmati ruinorono. Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ populi èvaria; ed è facile il persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quellapersuasione; e però conviene essere ordinato in modo che, quando e’ noncredono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulonon arebbono possuto fare osservare loro lungamente le loro costituzioni sefussino stati disarmati: come ne’ nostri tempi intervenne a fra’ GirolamoSavonerola; il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine co-minciò a non credergli; e lui non aveva modo a tenere fermi quelli cheavevano creduto, né a far credere e’ discredenti. Però questi tali hanno nelcondursi gran difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via e conviene checon la virtù li superino: ma superati che gli hanno, e che cominciano adessere in venerazione, avendo spenti quelli che di sua qualità li avevanoinvidia rimangono potenti, securi, onorati, felici.

A sì alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene

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arà qualche proporzione con quelli e voglio mi basti per tutti gli altri simili:e questo è Ierone Siracusano. Costui, di privato diventò principe di Siracusa,né ancora lui conobbe altro dalla fortuna che la occasione; perché, sendo e’Siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano donde meritò d’esserefatto loro principe. E fu di tanta virtù, etiam in privata fortuna, che chi nescrive, dice: “quod nihil illi deerat ad regnandum praeter regnum”. Costuispense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò le amicizie antiche,prese delle nuove; e come ebbe amicizie e soldati che fussino suoi, possé insu tale fondamento edificare ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica inacquistare e poca in mantenere.

Capitolo VIIDe principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur.

Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi, conpoca fatica diventano, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultàfra via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti. Equesti tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per graziadi chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e diEllesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua securtàe gloria; come erano fatti ancora quegli imperadori che, di privati, per corruzio-ne de’ soldati, pervenivano allo imperio. Questi stanno semplicemente in sullavoluntà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime einstabili; e non sanno e non possono tenere quel grado. Non sanno, perché, senon è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo semprevissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possono, perché non hannoforze che li possino essere amiche e fedeli. Di poi, gli stati che vengano subito,come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non posso-no avere le barbe e corrispondenzie loro; in modo che el primo tempo avversole spegne; se già quelli tali, come è detto, che sì de repente sono diventatiprincipi, non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro ingrembo, e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che glialtri hanno fatti avanti che diventino principi, li faccino poi.

Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti, circa il diventareprincipe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì dellamemoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. France-

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sco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò ducadi Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca faticamantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino,acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; nonostanteche per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno pru-dente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe sue in quelli statiche l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi Perché, come di sopra sidisse, chi non fa e’ fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farlipoi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo delloedifizio. Se, adunque, si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà luiaversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico super-fluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a unoprincipe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se gli ordini suoi non liprofittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria edestrema malignità di fortuna.

Aveva Alessandro VI, nel volere fare grande el duca suo figliuolo,assai difficultà presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo faresignore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa; e volgendosi a tôrrequello della Chiesa, sapeva che el duca di Milano e Viniziani non gneneconsentirebbano; perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protezionede’ Viniziani. Vedeva, oltre di questo, l’arme di Italia, e quelle in spezie dichi si fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano temerela grandezza del papa: e però non se ne poteva fidare, sendo tutte negliOrsini e Colonnesi e loro complici. Era, adunque, necessario che si turbassinoquegli ordini, e disordinare li stati di coloro per potersi insignoriresecuramente di parte di quelli. Il che li fu facile, perché trovò e’ Vinizianiche, mossi da altre cagioni, si erono volti a fare ripassare e’ Franzesi in Italia;il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzionedel matrimonio antiquo del re Luigi. Passò, adunque, il re in Italia con loaiuto de’ Viniziani e consenso di Alessandro; né prima fu in Milano, che ilpapa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna; la quale gli fu consentitaper la reputazione del re.

Acquistata, adunque, el duca la Romagna, e sbattuti e’ Colonnesi,volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose:l’una, l’arme sua che non gli parevano fedeli, l’altra, la volontà di Francia:cioè che l’arme Orsine, delle quali s’era valuto, gli mancassino sotto, e non

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solamente l’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acquistato, e cheil re ancora non li facessi el simile. Degli Orsini ne ebbe uno riscontroquando dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che li vidde anda-re freddi in quello assalto: e circa il re, conobbe l’animo suo quando, presoil ducato di Urbino, assaltò la Toscana; dalla quale impresa el re lo fecedesistere. Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme e fortu-na di altri. E la prima cosa, ’ndebolì le parti Orsine e Colonnese in Roma;perché tutti gli aderenti loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò,faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provvisioni; e onorolli,secondo le loro qualità, di condotte e di governi; in modo che in pochi mesinegli animi loro l’affezione delle parti si spense, e tutta si volse nel duca.Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere e’ capi Orsini, avendo di-spersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio.Perché, avvedutisi gli Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesaera la loro ruina, feciono una dieta alla Magione, nel Perugino; da quellanacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna e infiniti periculidel duca; li quali tutti superò con lo aiuto de’ Franzesi. E ritornatogli lareputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non leavere a cimentare, si volse agli inganni. E seppe tanto dissimulare l’animosuo, che gli Orsini medesimi, mediante el signor Paulo, si riconcilioronoseco; con il quale el duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurar-lo, dandogli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse aSinigaglia nelle sue mani. Spenti, adunque, questi capi, e ridotti li partigia-ni loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenziasua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendogli, massi-me, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli,per avere cominciato a gustare el bene essere loro.

E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri,non la voglio lasciare indrieto. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovan-dola suta comandata da signori impotenti, li quali più presto avevano spo-gliato e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non diunione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe edi ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurrepacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi preposemesser Remirro de Orco uomo crudele ed espedito, al quale dette pienissi-ma potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissi-

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ma reputazione. Di poi iudicò el duca non essere necessario sì eccessivaautorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudiciocivile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo,dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorositàpassate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quellipopuli e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcunaera seguita, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. Epresa sopr’a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere indua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sangui-noso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in unotempo rimanere satisfatti e stupidi.

Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi il duca as-sai potente e in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato asuo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo poteva-no offendere, gli restava, volendo procedere con lo acquisto, il respetto delre di Francia; perché conosceva come dal re, il quale tardi si era accortodello errore suo, non li sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercaredi amicizie nuove, e vacillare con Francia, nella venuta che feciono gli Franzesiverso el regno di Napoli contro agli Spagnuoli che assediavono Gaeta. El’animo suo era assicurarsi di loro; il che gli sarebbe presto riuscito, se Ales-sandro viveva.

E questi furono e’ governi suoi quanto alle cose presenti. Ma quantoalle future, lui aveva a dubitare, in prima, che uno nuovo successore allaChiesa non li fussi amico e cercassi torli quello che Alessandro gli avevadato. Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tôrre al papa quellaoccasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come èdetto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzo, ridurre el collegiopiù suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papamorissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto. Diqueste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quar-ta aveva quasi per condotta; perché de’ signori spogliati ne ammazzò quantine possé aggiugnere, e pochissimi si salvorono, e’ gentili uomini romani siaveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte: e, quanto al nuo-vo acquisto, aveva disegnato diventare signore di Toscana, e possedeva digià Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E come non

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avessi avuto ad avere respetto a Francia (ché non gliene aveva ad avere più,per essere di già e’ Franzesi spogliati del Regno dagli Spagnoli, di qualitàche ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua), e’ saltava inPisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fio-rentini, parte per paura; e’ Fiorentini non avevano remedio. Il che se li fusseriuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì), si acqui-stava tante forze e tanta reputazione,che per sé stesso si sarebbe retto, e nonsarebbe più dependuto dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia evirtù sua. Ma Alessandro morì dopo cinque anni ch’egli aveva cominciato atrarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato,con tutti gli altri in aria, intra dua potentissimi eserciti inimici, e malato amorte. Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù e sì bene conosceva comegli uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fonda-menti che in sì poco tempo si aveva fatti, che, se lui non avessi avuto queglieserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà. E ch’e’fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più diuno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e benché Baglioni,Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui: posséfare, se non chi e’ volle papa, almeno che non fussi chi non voleva. Ma senella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E luimi disse, ne’ dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessinascere, morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che nonpensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.

Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprenderlo;anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che perfortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio. Perché lui avendol’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti,e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malat-tia sua. Chi, adunque, iudica necessario nel suo principato nuovo assicu-rarsi de’ nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude,farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati, spegnere quelliche ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordiniantiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la miliziainfedele, creare della nuova, mantenere le amicizie de’ re e de’ principi inmodo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto, nonpuò trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui. Solamente si può

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accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale lui ebbe mala ele-zione; perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo, e’poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papa-to di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati papi, avessino adavere paura di lui. Perché gli uomini offendono o per paura o per odio.Quelli che lui aveva offesi erano, infra gli altri, San Piero ad Vincula, Co-lonna, San Giorgio, Ascanio; tutti gli altri, divenuti papi, aveano a temerlo,eccetto Roano e li Spagnuoli: questi per coniunzione e obligo; quello perpotenzia, avendo coniunto seco il regno di Francia. Pertanto el duca, in-nanzi a ogni cosa, doveva creare papa uno spagnolo, e, non potendo, dove-va consentire che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede chene’ personaggi grandi e’ benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vec-chie, s’inganna. Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagionedell’ultima ruina sua.

Capitolo VIIIDe his qui per scelera ad principatum pervenere.

Ma perché di privato si diventa principe ancora in dua modi, il chenon si può al tutto o alla fortuna o alla virtù attribuire, non mi pare dalasciarli indrieto, ancora che dell’uno si possa più diffusamente ragionaredove si trattassi delle republiche. Questi sono, quando o per qualche viascellerata e nefaria si ascende al principato, o quando uno privato cittadinocon il favore degli altri suoi cittadini diventa principe della sua patria. Eparlando del primo modo, si mostrerrà con dua esempli, l’uno antiquol’altro moderno, sanza intrare altrimenti ne’ meriti di questa parte, perchéio iudico che basti, a chi fussi necessitato, imitargli.

Agatocle Siciliano, non solo di privata ma di infima e abietta fortuna,divenne re di Siracusa. Costui, nato di uno figulo, tenne sempre, per ligradi della sua età, vita scellerata: nondimanco, accompagnò le sue scellera-tezze con tanta virtù di animo e di corpo, che, voltosi alla milizia, per ligradi di quella pervenne ad essere pretore di Siracusa. Nel quale gradosendo costituito, e avendo deliberato diventare principe e tenere con violenziae sanza obligo d’altri quello che d’accordo gli era suto concesso, e avuto diquesto suo disegno intelligenzia con Amilcare cartaginese, il quale con glieserciti militava in Sicilia, raunò una mattina il populo e il Senato di Siracusa,

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come se egli avessi avuto a deliberare cose pertinenti alla republica; e, aduno cenno ordinato, fece da’ sua soldati uccidere tutti li senatori e li piùricchi del popolo; li quali morti, occupò e tenne il principato di quella cittàsanza alcuna controversia civile. E benché da’ Cartaginesi fussi due volterotto e demum assediato, non solum possé defendere la sua città, ma, lasciatoparte delle sue genti alla difesa della obsidione, con le altre assaltò l’Affrica,e in breve tempo liberò Siracusa dallo assedio e condusse e’ Cartaginesi inestrema necessità: e furono necessitati accordarsi con quello, essere conten-ti della possessione di Affrica, e ad Agatocle lasciare la Sicilia.

Chi considerassi, adunque, le azioni e vita di costui, non vedrà cose,o poche, le quali possa attribuire alla fortuna; con ciò sia cosa, come disopra è detto, che, non per favore d’alcuno, ma per li gradi della milizia, liquali con mille disagi e periculi si aveva guadagnati, pervenissi al principa-to, e quello di poi con tanti partiti animosi e periculosi mantenessi. Non sipuò ancora chiamare virtù ammazzare e’ sua cittadini, tradire gli amici,essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fareacquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù diAgatocle nello entrare e nello uscire de’ periculi, e la grandezza dello animosuo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché egli abbiaad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano;nondimanco, la sua efferata crudeltà e inumanità, con infinite scelleratez-ze, non consentono che sia infra gli eccellentissimi uomini celebrato. Nonsi può, adunque, attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una el’altra fu da lui conseguito.

Ne’ tempi nostri, regnante Alessandro VI, Liverotto firmano, sendopiù anni innanzi rimaso piccolo, sanza padre, fu da uno suo zio materno,chiamato Giovanni Fogliani, allevato, e ne’ primi tempi della sua gioventùdato a militare sotto Paulo Vitelli, acciò che, ripieno di quella disciplina,pervenissi a qualche eccellente grado di milizia. Morto di poi Paulo, militòsotto Vitellozzo suo fratello; e in brevissimo tempo, per essere ingegnoso, edella persona e dello animo gagliardo, diventò el primo uomo della suamilizia. Ma parendogli cosa servile lo stare con altri, pensò, con lo aiuto dialcuni cittadini di Fermo a’ quali era più cara la servitù che la libertà dellaloro patria, e con il favore vitellesco, di occupare Fermo; e scrisse a Giovan-ni Fogliani come, sendo stato più anni fuora di casa, voleva venire a vederelui e la sua città, e in qualche parte riconoscere el suo patrimonio; e perché

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non si era affaticato per altro che per acquistare onore, acciò che e’ suoi cittadinivedessino come non aveva speso el tempo in vano, voleva venire onorevole eaccompagnato da cento cavalli di sua amici e servidori; e pregavalo fussi con-tento ordinare che da’ Firmani fussi ricevuto onoratamente; il che non sola-mente tornava onore a lui, ma a sé proprio, sendo suo allievo. Non mancò,pertanto, Giovanni di alcuno offizio debito verso el nipote, e fattolo ricevere da’Firmani onoratamente, si alloggiò nelle case sua: dove, passato alcuno giorno, eatteso ad ordinare secretamente quello che alla sua futura scelleratezza era ne-cessario, fece uno convito solennissimo, dove invitò Giovanni Fogliani e tutti liprimi uomini di Fermo. E consumate che furono le vivande e tutti gli altriintrattenimenti che in simili conviti si usano, Liverotto, ad arte, mosse certiragionamenti gravi, parlando della grandezza di papa Alessandro e di Cesaresuo figliuolo, e delle imprese loro. A’ quali ragionamenti respondendo Giovan-ni e gli altri, lui a un tratto si rizzò, dicendo quelle essere cose da parlarne in locopiù secreto; e ritirossi in una camera, dove Giovanni e tutti gli altri cittadini gliandorono drieto. Né prima furono posti a sedere, che de’ luoghi secreti diquella uscirono soldati, che ammazzorono Giovanni e tutti gli altri. Dopo ilquale omicidio, montò Liverotto a cavallo, e corse la terra, e assediò nel palazzoel supremo magistrato; tanto che, per paura, furono costretti obedirlo, e ferma-re uno governo del quale si fece principe. E morti tutti quelli che, per essere malcontenti, lo potevono offendere, si corroborò con nuovi ordini civili e militari;in modo che, in spazio d’uno anno che tenne el principato, non solamente luiera sicuro nella città di Fermo, ma era diventato pauroso a tutti e’ sua vicini. Esarebbe suta la sua espugnazione difficile come quella di Agatocle, se non sifussi lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando a Sinigaglia, come di sopra sidisse, prese gli Orsini e Vitelli; dove, preso ancora lui, in uno anno dopo elcommisso parricidio, fu, insieme con Vitellozzo, il quale aveva avuto maestrodelle virtù e scelleratezze sua, strangolato.

Potrebbe alcuno dubitare donde nascessi che Agatocle e alcuno simi-le, dopo infiniti tradimenti e crudeltà, possé vivere lungamente sicuro nellasua patria e defendersi dagli inimici esterni, e da’ suoi cittadini non gli fumai cospirato contro; con ciò sia che molti altri, mediante la crudeltà nonabbino, etiam ne’ tempi pacifici, possuto mantenere lo stato, non che ne’tempi dubbiosi di guerra. Credo che questo avvenga dalle crudeltà maleusate o bene usate. Bene usate si possono chiamare quelle (se del male èlicito dire bene) che si fanno a uno tratto, per la necessità dello assicurarsi,

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e di poi non vi si insiste drento ma si convertiscono in più utilità de’ sudditiche si può. Male usate sono quelle le quali, ancora che nel principio sienopoche, più tosto col tempo crescono che le si spenghino. Coloro che osser-vano el primo modo, possono con Dio e con gli uomini avere allo stato loroqualche remedio, come ebbe Agatocle; quegli altri è impossibile simantenghino.

Onde è da notare che, nel pigliare uno stato, debbe l’occupatore diesso discorrere tutte quelle offese che gli è necessario fare; e tutte farle a untratto, per non le avere a rinnovare ogni dì, e potere, non le innovando,assicurare gli uomini e guadagnarseli con beneficarli. Chi fa altrimenti, oper timidità o per mal consiglio, è sempre necessitato tenere il coltello inmano né mai può fondarsi sopra li sua sudditi non si potendo quelli, per lefresche e continue iniurie, assicurare di lui. Perché le iniurie si debbonofare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno: e’benefizii si debbono fare a poco a poco, acciò si assaporino meglio. E debbe,sopra tutto, uno principe vivere con li suoi sudditi in modo che verunoaccidente o di male o di bene lo abbi a far variare; perché, venendo, per litempi avversi, le necessità, tu non se’ a tempo al male, e il bene che tu fainon ti giova, perché è iudicato forzato, e non te n’è saputo grado alcuno.

Capitolo IXDe principatu civili.

Ma venendo all’altra parte, quando uno privato cittadino, non perscelleratezza o altra intollerabile violenzia, ma con il favore degli altri suoicittadini diventa principe della sua patria (il quale si può chiamare princi-pato civile; né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta fortuna, ma piùpresto una astuzia fortunata), dico che si ascende a questo principato o conil favore del populo o con quello de’ grandi. Perché in ogni città si trovonoquesti dua umori diversi; e nasce da questo, che il populo desidera nonessere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano comandaree opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città unode’ tre effetti, o principato o libertà o licenzia.

El principato è causato o dal populo o da’ grandi, secondo che l’unao l’altra di queste parti ne ha la occasione. Perché, vedendo e’ grandi nonpotere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di

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loro, e fannolo principe per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appe-tito. El populo ancora, vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la repu-tazione a uno, e lo fa principe, per essere con la autorità sua difeso. Coluiche viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficultàche quello che diventa con lo aiuto del populo; perché si truova principecon di molti intorno che li paiano essere sua equali, e per questo non li puòné comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principatocon il favore popolare, vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimiche non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfarea’ grandi e sanza iniuria d’altri, ma sì bene al populo: perché quello delpopulo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere,e quello non essere oppresso. Praeterea del populo inimico uno principenon si può mai assicurare, per essere troppi; de’ grandi si può assicurare,per essere pochi. El peggio che possa aspettare uno principe dal populoinimico, è lo essere abbandonato da lui, ma da’ grandi, inimici, non solodebbe temere di essere abbandonato, ma etiam che loro li venghino contro;perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzono sempre tempoper salvarsi, e cercono gradi con quello che sperano che vinca. È necessitatoancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo; ma può benfare sanza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì, e tôrree dare, a sua posta, reputazione loro.

E per chiarire meglio questa parte dico come e’ grandi si debbanoconsiderare in dua modi principalmente: o si governano in modo, col pro-cedere loro, che si obligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quelli che siobligano, e non sieno rapaci, si debbono onorare ed amare; quelli che nonsi obligano, si hanno ad esaminare in dua modi. O fanno questo per pusil-lanimità e defetto naturale di animo; allora tu ti debbi servire di quellimassime che sono di buono consiglio, perché nelle prosperità te ne onori, enon hai nelle avversità da temerne; ma quando non si obligano ad arte e percagione ambiziosa, è segno come pensano più a sé che a te; e da quelli sidebbe el principe guardare, e temerli come se fussino scoperti inimici, per-ché sempre, nelle avversità, aiuteranno ruinarlo.

Debbe, pertanto, uno che diventi principe mediante il favore delpopulo, mantenerselo amico; il che li fia facile, non domandando lui senon di non essere oppresso. Ma uno che, contro al populo, diventi principecon il favore de’ grandi debbe innanzi a ogni altra cosa, cercare di guada-

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gnarsi el populo; il che li fia facile, quando pigli la protezione sua. E perchégli uomini, quando hanno bene da chi credevano avere male, si obliganopiù al benificatore loro, diventa el populo, subito, più suo benivolo che sesi fussi condotto al principato con li favori suoi. E puosselo el principeguadagnare in molti modi; li quali, perché variano secondo el subietto, nonse ne può dare certa regola, e però si lasceranno indrieto. Concluderò soloche a uno principe è necessario avere el populo amico, altrimenti non ha,nelle avversità, remedio.

Nabide, principe delli Spartani, sostenne la obsidione di tutta Greciae di uno esercito romano vittoriosissimo e difese contro a quelli la patriasua e il suo stato; e li bastò solo, sopravvenente il periculo, assicurarsi dipochi: che se egli avessi avuto el populo inimico, questo non li bastava. Enon sia alcuno che repugni a questa mia opinione con quello proverbiotrito, che chi fonda in sul populo, fonda in sul fango; perché quello è veroquando uno cittadino privato vi fa su fondamento e dassi a intendere che ilpopulo lo liberi, quando e’ fussi oppresso da’ nimici o da’ magistrati (inquesto caso si potrebbe trovare spesso ingannato, come a Roma e’ Gracchie a Firenze messer Giorgio Scali); ma sendo uno principe che vi fondi su,che possa comandare, e sia uomo di core, né si sbigottisca nelle avversità, enon manchi delle altre preparazioni, e tenga con lo animo e ordini suoianimato lo universale, mai si troverrà ingannato da lui, e li parrà avere fattili suoi fondamenti buoni.

Sogliono questi principati periclitare quando sono per salire dalloordine civile allo assoluto. Perché questi principi, o comandano per loromedesimi, o per mezzo de’ magistrati; nell’ultimo caso, è più debole e piùpericuloso lo stare loro, perché gli stanno al tutto con la voluntà di quellicittadini che sono preposti a’ magistrati: li quali, massime ne’ tempi avversi,li possono tôrre con facilità grande lo stato, o con farli contro o con non loobedire. E el principe non è a tempo, ne’ periculi, a pigliare la autoritàassoluta, perché li cittadini e sudditi, che sogliono avere e’ comandamentida’ magistrati, non sono, in quelli frangenti, per obedire a’ suoi; e arà sem-pre, ne’ tempi dubii, penuria di chi lui si possa fidare. Perché simile princi-pe non può fondarsi sopra quello che vede ne’ tempi quieti, quando e’cittadini hanno bisogno dello stato; perché allora ognuno corre, ognunopromette, e ciascuno vuole morire per lui, quando la morte è discosto; mane’ tempi avversi, quando lo istato ha bisogno de’ cittadini, allora se ne

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trova pochi. E tanto più è questa esperienzia periculosa, quanto la non sipuò fare se non una volta. E però uno principe savio debba pensare unomodo per il quale li sua cittadini, sempre e in ogni qualità di tempo, abbinobisogno dello stato e di lui; e sempre poi li saranno fedeli.

Capitolo XQuomodo omnium principatuum vires perpendi debeant.

Conviene avere, nello esaminare le qualità di questi principati, un’al-tra considerazione: cioè, se uno principe ha tanto stato che possa, biso-gnando, per se medesimo reggersi, ovvero se ha sempre necessità delladefensione di altri. E per chiarire meglio questa parte, dico come io iudicocoloro potersi reggere per se medesimi, che possono, o per abundanzia diuomini o di danari, mettere insieme uno esercito iusto e fare una giornatacon qualunque li viene ad assaltare: e così iudico coloro avere sempre ne-cessità di altri, che non possono comparire contro al nimico in campagna,ma sono necessitati rifuggirsi drento alle mura e guardare quelle. Nel primocaso, si è discorso e per lo avvenire direno quello ne occorre. Nel secondocaso non si può dire altro, salvo che confortare tali principi a fortificare emunire la terra propria, e del paese non tenere alcuno conto. E qualunquearà bene fortificata la sua terra, e circa gli altri governi con li sudditi si fiamaneggiato come di sopra è detto e di sotto si dirà, sarà sempre con granrispetto assaltato; perché gli uomini sono sempre nimici delle imprese dovesi vegga difficultà, né si può vedere facilità assaltando uno che abbi la suaterra gagliarda e non sia odiato dal populo.

Le città di Alamagna sono liberissime, hanno poco contado, eobediscano allo imperadore quando le vogliono, e non temono né quelloné altro potente che le abbino intorno; perché le sono in modo fortificate,che ciascuno pensa la espugnazione di esse dovere essere tediosa e difficile.Perché tutte hanno fossi e mura conveniente; hanno artiglieria a sufficienzia;tengono sempre nelle canove publiche da bere e da mangiare e da ardereper uno anno; e oltre a questo, per potere tenere la plebe pasciuta e sanzaperdita del pubblico, hanno sempre in comune, per uno anno, da poteredare loro da lavorare in quegli esercizii che sieno il nervo e la vita di quellacittà e delle industrie de’ quali la plebe pasca. Tengono ancora gli eserciziimilitari in reputazione, e sopra questo hanno molti ordini a mantenerli.

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Uno principe, adunque, che abbi una città forte e non si facci odiare,non può essere assaltato; e se pure fussi chi lo assaltassi, se ne partirebbe convergogna; perché le cose del mondo sono sì varie, che egli è quasi impossi-bile che uno potessi con gli eserciti stare uno anno ozioso a campeggiarlo. Echi replicasse: se il populo arà le sue possessioni fuora, e veggale ardere, nonci arà pazienza, e il lungo assedio e la carità propria li farà sdimenticare elprincipe, respondo che uno principe potente e animoso supererà sempretutte quelle difficultà, dando a’ sudditi ora speranza che el male non fialungo, ora timore della crudeltà del nimico, ora assicurandosi con destrezzadi quelli che gli paressino troppo arditi. Oltre a questo, el nimico, ragione-volmente, debba ardere e ruinare el paese in sulla sua giunta, e ne’ tempiquando gli animi degli uomini sono ancora caldi e volonterosi alla difesa; eperò tanto meno el principe debbe dubitare, perché, dopo qualche giornoche gli animi sono raffreddi, sono di già fatti e’ danni, sono ricevuti e’ mali,e non vi è più remedio: e allora tanto più si vengono a unire con il loroprincipe, parendo che lui abbia, con loro, obligo, sendo loro sute arse lecase, ruinate le possessioni, per la difesa sua. E la natura degli uomini è, cosìobligarsi per li benefizii che si fanno, come per quelli che si ricevano. Onde,se si considerrà bene tutto, non fia difficile a uno principe prudente tenereprima e poi fermi gli animi de’ sua cittadini nella obsidione, quando non limanchi da vivere né da difendersi

Capitolo XIDe principatibus ecclesiasticis.

Restaci solamente, al presente, a ragionare de’ principati ecclesiastici,circa quali tutte le difficultà sono avanti che si possegghino; perché si ac-quistano o per virtù o per fortuna, e sanza l’una e l’altra si mantengano,perché sono sustentati dagli ordini antiquati nella religione, quali sono sutitanto potenti e di qualità che tengono e’ loro principi in stato, in qualun-que modo si procedino e vivino. Costoro soli hanno stati, e non li defendano;sudditi, e non li governano: e li stati, per essere indifesi, non sono loro tolti;e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, né pensano népossono alienarsi da loro. Solo, adunque, questi principati sono sicuri efelici. Ma sendo quelli retti da cagioni superiore, alle quali mente umananon aggiugne, lascerò il parlarne; perché, sendo esaltati e mantenuti da

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Dio, sarebbe offizio di uomo prosuntuoso e temerario discorrerne.Nondimanco, se alcuno mi ricercassi donde viene che la Chiesa, nel tem-porale, sia venuta a tanta grandezza, con ciò sia che, da Alessandro indrieto,e’ potentati italiani, e non solum quelli che si chiamavono e’ potentati, maogni barone e signore, benché minimo, quanto al temporale, la estimavapoco, e ora uno re di Francia ne trema, e lo ha possuto cavare di Italia eruinare e’ Viniziani; la qual cosa, ancora che sia nota, non mi pare super-fluo ridurla in buona parte alla memoria.

Avanti che Carlo re di Francia passassi in Italia, era questa provinciasotto lo imperio del papa, Viniziani, re di Napoli, duca di Milano e Fioren-tini. Questi potentati avevano ad avere dua cure principali: l’una, che unoforestiero non entrassi in Italia con le armi; l’altra, che veruno di loro occu-passi più stato. Quelli a chi si aveva più cura erano Papa e Viniziani. E atenere indrieto e’ Viniziani, bisognava la unione di tutti gli altri, come funella difesa di Ferrara, e a tenere basso el Papa, si servivano de’ baroni diRoma; li quali, sendo divisi in due fazioni, Orsini e Colonnesi, sempre viera cagione di scandolo fra loro; e stando con le arme in mano in su gliocchi al pontefice, tenevano il pontificato debole e infermo. E benché surgessiqualche volta uno papa animoso, come fu Sisto, tamen la fortuna o il saperenon lo possé mai disobligare da queste incommodità. E la brevità della vitaloro ne era cagione; perché in dieci anni che, ragguagliato, viveva uno papa,a fatica che potessi sbassare una delle fazioni; e se, verbigrazia, l’uno avevaquasi spenti e’ Colonnesi, surgeva uno altro inimico agli Orsini, che lifaceva resurgere, e gli Orsini non era a tempo a spegnere.

Questo faceva che le forze temporali del papa erano poco stimate inItalia. Surse di poi Alessandro VI, il quale, di tutti e’ pontefici che sono statimai, mostrò quanto uno papa, e con il danaio e con le forze, si possevaprevalere; e fece, con lo instrumento del duca Valentino e con la occasionedella passata de’ Franzesi, tutte quelle cose che io discorro di sopra nelleazioni del duca. E benché lo intento suo non fussi fare grande la Chiesa, mail duca, nondimeno ciò che fece tornò a grandezza della Chiesa; la quale,dopo la sua morte, spento il duca, fu erede delle sue fatiche. Venne di poipapa Iulio; e trovò la Chiesa grande, avendo tutta la Romagna e sendospenti e’ baroni di Roma e, per le battiture di Alessandro, annullate quellefazioni; e trovò ancora la via aperta al modo dello accumulare danari, nonmai più usitato da Alessandro indrieto. Le quali cose Iulio non solum segui-

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tò, ma accrebbe; e pensò a guadagnarsi Bologna e spegnere e’ Viniziani e acacciare e’ Franzesi di Italia: e tutte queste imprese li riuscirono; e con tantapiù sua laude, quanto fece ogni cosa per accrescere la Chiesa e non alcunoprivato. Mantenne ancora le parti Orsine e Colonnese in quelli termini chele trovò; e benché tra loro fussi qualche capo da fare alterazione, tamen duacose li ha tenuti fermi: l’una, la grandezza della Chiesa, che gli sbigottisce;l’altra, el non avere loro cardinali, li quali sono origine de’ tumulti infraloro. Né mai staranno quiete queste parti, qualunque volta abbino cardina-li, perché questi nutriscono, in Roma e fuora, le parti, e quelli baroni sonoforzati a defenderle: e così dalla ambizione de’ prelati nascono le discordie eli tumulti infra e’ baroni. Ha trovato, adunque, la Santità di papa Leonequesto pontificato potentissimo; il quale si spera, se quelli lo feciono gran-de con le arme, questo, con la bontà e infinite altre sue virtù, lo farà gran-dissimo e venerando.

Capitolo XIIQuot sint genera militiae et de mercenariis militibus.

Avendo discorso particularmente tutte le qualità di quelli principatide’ quali nel principio proposi di ragionare, e considerato, in qualche parte,le cagioni del bene e del male essere loro, e mostro e’ modi con li qualimolti hanno cerco di acquistarli e tenerli, mi resta ora a discorrere general-mente le offese e difese che in ciascuno de’ prenominati possono accadere.Noi abbiamo detto di sopra come a uno principe è necessario avere e’ suafondamenti buoni; altrimenti, di necessità, conviene che ruini. È principalifondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi o misti, sono lebuone legge e le buone arme: e perché non può essere buone legge dovenon sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone leg-ge, io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme.

Dico, adunque, che l’arme con le quali uno principe defende il suostato, o le sono proprie o le sono mercenarie, o ausiliarie, o miste. Le mer-cenarie e ausiliarie sono inutile e periculose: e se uno tiene lo stato suofondato in sulle arme mercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché lesono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra gli amici;fra e’ nimici, vile; non timore di Dio, non fede con gli uomini; e tanto sidifferisce la ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se’ spogliato da

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loro, nella guerra da’ nimici. La cagione di questo è che le non hanno altroamore né altra cagione che le tenga in campo, che uno poco di stipendio, ilquale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono beneessere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene,o fuggirsi o andarsene. La qual cosa doverrei durare poca fatica a persuade-re, perché ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essere inspazio di molti anni riposatasi in sulle arme mercenarie. Le quali fecionogià per alcuno qualche progresso, e parevano gagliarde infra loro; ma, comevenne el forestiero, le mostrorono quello che elle erano; onde che a Carlo redi Francia fu licito pigliare la Italia col gesso. E chi diceva come e’ n’eranocagione e’ peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che crede-va, ma questi che io ho narrati: e perché elli erano peccati de’ principi, nehanno patito la pena ancora loro.

Io voglio dimostrare meglio la infelicità di queste arme. È capita-ni mercenarii, o e’ sono uomini nelle armi eccellenti, o no: se sono, nonte ne puoi fidare, perché sempre aspireranno alla grandezza propria, ocon lo opprimere te che li se’ patrone, o con lo opprimere altri fuoradella tua intenzione; ma, se non è il capitano virtuoso e’ ti rovina perl’ordinario. E se si responde che qualunque arà le arme in mano faràquesto, o mercenario o no, replicherei come le arme hanno ad essereoperate o da uno principe o da una republica: el principe debbe andarein persona, e fare lui l’offizio del capitano; la republica ha a mandaresua cittadini; e quando ne manda uno che non riesca valente uomo,debbe cambiarlo; e quando sia, tenerlo con le leggi, che non passi elsegno. E per esperienzia si vede a’ principi soli e republiche armate fareprogressi grandissimi, e alle arme mercenarie non fare mai se non dan-no; e con più difficultà viene alla obedienzia di uno suo cittadino unarepublica armata di arme proprie, che una armata di armi esterne.

Stettono Roma e Sparta molti secoli armate e libere. È Svizzeri sonoarmatissimi e liberissimi. Delle armi mercenarie antiche in exemplis sono e’Cartaginesi; li quali furono per essere oppressi da’ loro soldati mercenarii,finita la prima guerra con li Romani, ancora che e’ Cartaginesi avessino,per capi, loro proprii cittadini. Filippo Macedone fu fatto da’ Tebani, dopola morte di Epaminunda, capitano delle loro genti; e tolse loro, dopo lavittoria la libertà. È Milanesi, morto il duca Filippo, soldorono FrancescoSforza contro a’ Viniziani; il quale, superati gli inimici a Caravaggio, si

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congiunse con loro per opprimere e’ Milanesi suoi patroni. Sforza, suopadre, sendo soldato della regina Giovanna di Napoli, la lasciò in un trattodisarmata; onde lei, per non perdere el regno, fu costretta gittarsi in grem-bo al re di Aragona. E se Viniziani e Fiorentini hanno per lo adrieto cresciu-to lo imperio loro con queste armi, e li loro capitani non se ne sono peròfatti principi ma li hanno difesi, respondo che e’ Fiorentini in questo casosono suti favoriti dalla sorte; perché de’ capitani virtuosi, de’ quali poteva-no temere, alcuni non hanno vinto, alcuni hanno avuto opposizione, altrihanno volto la ambizione loro altrove. Quello che non vinse fu GiovanniAucut, del quale, non vincendo, non si poteva conoscere la fede; ma ognu-no confesserà che, vincendo, stavano e’ Fiorentini a sua discrezione. Sforzaebbe sempre e’ Bracceschi contrarii, che guardorono l’uno l’altro. France-sco volse l’ambizione sua in Lombardia; Braccio contro alla Chiesa e ilregno di Napoli.

Ma vegnàno a quello che è seguìto poco tempo fa. Feciono e’ Fioren-tini Paulo Vitelli loro capitano, uomo prudentissimo, e che, di privata for-tuna aveva presa grandissima reputazione. Se costui espugnava Pisa, verunofia che nieghi come conveniva a’ Fiorentini stare seco; perché, s’e’ fussidiventato soldato di loro nemici, non avevano remedio; e se lo tenevano,aveano a obedirlo. È Viniziani, se si considerrà e’ progressi loro, si vedràquelli avere securamente e gloriosamente operato mentre ferono la guerraloro proprii (che fu avanti che si volgessino con le loro imprese in terra)dove co’ gentili uomini e con la plebe armata operorono virtuosissimamente;ma come cominciorono a combattere in terra, lasciorono questa virtù, eseguitorono e’ costumi delle guerre di Italia. E nel principio dello augumentoloro in terra, per non vi avere molto stato e per essere in grande reputazio-ne, non aveano da temere molto de’ loro capitani; ma, come egli ampliorono,che fu sotto el Carmignuola, ebbono uno saggio di questo errore; perché,vedutolo virtuosissimo, battuto che loro ebbono sotto il suo governo elduca di Milano, e conoscendo dall’altra parte come egli era raffreddo nellaguerra, iudicorono non potere con lui più vincere perché non voleva, népotere licenziarlo, per non riperdere ciò che aveano acquistato; onde chefurono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo. Hanno di poi avuto perloro capitani Bartolommeo da Bergamo, Ruberto da San Severino, Contedi Pitigliano, e simili; con li quali aveano a temere della perdita, non delguadagno loro; come intervenne di poi a Vailà, dove, in una giornata,

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perderono quello che in ottocento anni, con tanta fatica, avevano acquista-to. Perché da queste armi nascono solo e’ lenti, tardi e deboli acquisti, e lesubite e miraculose perdite. E perché io sono venuto con questi esempli inItalia, la quale è stata molti anni governata dalle armi mercenarie, le vogliodiscorrere più da alto, acciò che veduto la origine e progressi di esse, sipossa meglio correggerle.

Avete dunque a intendere come, tosto che in questi ultimi tempi loimperio cominciò a essere ributtato di Italia e che il papa nel temporale viprese più reputazione, si divise la Italia in più stati; perché molte delle cittàgrosse presono le armi contro a’ loro nobili, li quali, prima, favoriti dalloimperatore, le tenevono oppresse; e la Chiesa le favoriva per darsi reputa-zione nel temporale; di molte altre e’ loro cittadini ne diventorono principi.Onde che, essendo venuta l’Italia quasi che nelle mani della Chiesa e diqualche republica, ed essendo quelli preti e quegli altri cittadini usi a nonconoscere arme, cominciorono a soldare forestieri. El primo che dette re-putazione a questa milizia fu Alberigo da Conio, romagnolo. Dalla discipli-na di costui discese, intra gli altri, Braccio e Sforza, che ne’ loro tempifurono arbitri di Italia. Dopo questi, vennono tutti gli altri che fino a’nostri tempi hanno governato queste armi. E il fine della loro virtù è stato,che Italia è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando evituperata da’ Svizzeri. L’ordine che egli hanno tenuto, è stato, prima, perdare reputazione a loro proprii, avere tolto reputazione alle fanterie. Fecionoquesto, perché, sendo sanza stato e in sulla industria, e’ pochi fanti nondavono loro reputazione, e li assai non potevono nutrire; e però si ridussonoa’ cavalli, dove con numero sopportablle erano nutriti e onorati. Ed eranoridotte le cose in termine, che in uno esercito di ventimila soldati non sitrovava dumila fanti. Avevano, oltre a questo, usato ogni industria per leva-re a sé e a’ soldati la fatica e la paura, non si ammazzando nelle zuffe, mapigliandosi prigioni e sanza taglia. Non traevano la notte alle terre; quellidelle terre non traevano alle tende; non facevano intorno al campo né stec-cato né fossa; non campeggiavano il verno. E tutte queste cose erano per-messe ne’ loro ordini militari, e trovate da loro per fuggire, come è detto, ela fatica e li pericoli: tanto che gli hanno condotta Italia stiava e vituperata.

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Capitolo XIIIDe militibus auxiliariis, mixtis et propriis.

L’armi ausiliarie, che sono l’altre armi inutili, sono quando si chiama unopotente che con le armi sue ti venga ad aiutare e defendere: come fece ne’prossimi tempi papa Iulio; il quale, avendo visto nella impresa di Ferrara latrista prova delle sue armi mercenarie, si volse alle ausiliarie, e convenne conFerrando re di Spagna che con le sue gente ed eserciti dovesse aiutarlo. Questearme possono essere utile e buone per loro medesime, ma sono, per chi lechiama, quasi sempre dannose: perché, perdendo rimani disfatto; vincendo,resti loro prigione. E ancora che di questi esempli ne siano piene le anticheistorie, non di manco io non mi voglio partire da questo esempio fresco di papaIulio II; il partito del quale non possé essere manco considerato, per volereFerrara, cacciarsi tutto nelle mani d’uno forestiere. Ma la sua buona fortunafece nascere una terza cosa, acciò non cogliessi el frutto della sua mala elezione:perché, sendo gli ausiliarii suoi rotti a Ravenna, e surgendo e’ Svizzeri checacciorono e’ vincitori, fuora di ogni opinione e sua e d’altri, venne a nonrimanere prigione degli inimici, sendo fugati, né degli ausiliarii sua, avendovinto con altre armi che con le loro. È Fiorentini, sendo al tutto disarmati,condussono diecimila Franzesi a Pisa per espugnarla; per il quale partitoportorono più pericolo che in qualunque tempo de’ travagli loro. Lo imperadoredi Costantinopoli, per opporsi alli suoi vicini, misse in Grecia diecimila Turchi;li quali, finita la guerra, non se ne volsono partire, il che fu principio dellaservitù di Grecia con gli infedeli.

Colui, adunque, che vuole non potere vincere, si vaglia di questearmi; perché sono molto più pericolose che le mercenarie. Perché in questeè la ruina fatta: sono tutte unite, tutte volte alla obedienzia di altri; ma nellemercenarie, a offenderti, vinto che le hanno, bisogna più tempo e maggioreoccasione, non sendo tutto uno corpo, ed essendo trovate e pagate da te;nelle quali uno terzo che tu facci capo, non può pigliare subito tanta auto-rità che ti offenda. In somma, nelle mercenarie è più pericolosa la ignavia,nelle ausiliarie, la virtù.

Uno principe, pertanto, savio, sempre ha fuggito queste arme, e vol-tosi alle proprie; e ha volsuto piuttosto perdere con li sua che vincere congli altri, iudicando non vera vittoria quella che con le armi aliene si acqui-stassi. Io non dubiterò mai di allegare Cesare Borgia e le sue azioni. Questo

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duca intrò in Romagna con le armi ausiliarie, conducendovi tutte gentefranzesi; e con quelle prese Imola e Furlì, ma non li parendo poi tale armesecure, si volse alle mercenarie, iudicando in quelle manco periculo; e soldògli Orsini e Vitelli; le quali poi nel maneggiare trovando dubie ed infedeli epericulose, le spense, e volsesi alle proprie. E puossi facilmente vedere chedifferenzia è infra l’una e l’altra di queste arme, considerato che differenziafu dalla reputazione del duca, quando aveva e’ Franzesi soli e quando avevagli Orsini e Vitelli, a quando rimase con li soldati suoi e sopra se stesso: esempre si troverrà accresciuta; né mai fu stimato assai, se non quando cia-scuno vidde che lui era intero possessore delle sue armi.

Io non mi volevo partire dagli esempli italiani e freschi; tamen nonvoglio lasciare indrieto Ierone Siracusano, sendo uno de’ sopranominati dame. Costui, come io dissi, fatto da’ Siracusani capo degli eserciti, conobbesubito quella milizia mercenaria non essere utile, per essere condottieri fatticome li nostri italiani; e parendoli non li potere tenere né lasciare, li fecetutti tagliare a pezzi: e di poi fece guerra con le arme sua, e non con lealiene. Voglio ancora ridurre a memoria una figura del Testamento Vec-chio, fatta a questo proposito. Offerendosi David a Saul di andare a com-battere con Golia, provocatore filisteo, Saul, per dargli animo, l’armò dellearme sua; le quali, come David ebbe indosso, recusò, dicendo con quellenon si potere bene valere di se stesso, e però voleva trovare el nimico con lasua fromba e con il suo coltello.

In fine, l’arme d’altri, o le ti caggiono di dosso o le ti pesano o le tistringono. Carlo VII, padre del re Luigi XI, avendo, con la sua fortuna evirtù, libera Francia dagli Inghilesi, conobbe questa necessità di armarsi diarme proprie, e ordinò nel suo regno l’ordinanza delle gente d’arme e dellefanterie. Di poi il re Luigi, suo figliuolo, spense quella de’ fanti e cominciòa soldare Svizzeri: il quale errore, seguitato dagli altri, è, come si vede ora infatto, cagione de’ pericoli di quello regno. Perché avendo dato reputazionea’ Svizzeri, ha invilito tutte le arme sua; perché le fanterie ha spento in tuttoe le sue genti d’arme ha obligato alle armi d’altri; perché, sendo assuefatte amilitare con Svizzeri, non par loro di potere vincere sanza essi; di qui nasceche Franzesi contro a Svizzeri non bastano, e, sanza Svizzeri, contro ad altrinon provano. Sono, dunque, stati gli eserciti di Francia misti, partemercenarii e parte proprii: le quali armi tutte insieme sono molto miglioriche le semplici ausiliarie o le semplici mercenarie, e molto inferiore alle

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proprie. E basti lo esemplo detto; perché el regno di Francia sarebbe insuperabile,se l’ordine di Carlo era accresciuto o perservato. Ma la poca prudenzia degliuomini comincia una cosa, che, per sapere allora di buono, non si accorge delveleno che vi è sotto: come io dissi, di sopra, delle febbre etiche.

Pertanto colui che in uno principato non conosce e’ mali quandonascono, non è veramente savio; e questo è dato a pochi. E se si considerassila prima cagione della ruina dello imperio romano, si troverrà essere sutosolo cominciare a soldare e’ Goti; perché da quello principio comincioronoa enervare le forze dello imperio romano; e tutta quella virtù che si levavada lui si dava a loro.

Concludo, adunque, che, sanza avere arme proprie, nessuno princi-pato è securo; anzi è tutto obligato alla fortuna, non avendo virtù che nelleavversità con fede lo difenda. E fu sempre opinione e sentenzia degli uomi-ni savi, “quod nihil sit tam infirmum aut instabile quam fama potentiaenon sua vi nixa”. E l’armi proprie son quelle che sono composte o di sudditio di cittadini o di creati tuoi: tutte l’altre sono o mercenarie o ausiliarie. Eil modo a ordinare l’armi proprie sarà facile a trovare, se si discorrerà gliordini de’ quattro sopra nominati da me, e se si vedrà come Filippo, padredi Alessandro Magno, e come molte republiche e principi si sono armati eordinati: a’ quali ordini io al tutto mi rimetto.

Capitolo XIVQuod principem deceat circa militiam.

Debbe, adunque, uno principe non avere altro obietto né altro pen-siero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra e ordini edisciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda; edè di tanta virtù, che non solamente mantiene quelli che sono nati principi,ma molte volte fa gli uomini di privata fortuna salire a quel grado; e, peradverso, si vede che e’ principi, quando hanno pensato più alle delicatezzeche alle armi, hanno perso lo stato loro. E la prima cagione che ti fa perderequello, è negligere questa arte; e la cagione che te lo fa acquistare, è lo essereprofesso di questa arte.

Francesco Sforza, per essere armato, di privato diventò duca di Mila-no; e’ figliuoli, per fuggire e’ disagi delle arme, di duchi diventorono priva-ti. Perché, intra le altre cagioni che ti arreca di male lo essere disarmato, ti fa

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contennendo: la quale è una di quelle infamie dalle quali il principe sidebbe guardare, come di sotto si dirà; perché da uno armato a uno disarma-to non è proporzione alcuna; e non è ragionevole che chi è armato obediscavolentieri a chi è disarmato, e che il disarmato stia securo intra servitoriarmati; perché, sendo nell’uno sdegno, e nell’altro sospetto, non è possibileoperino bene insieme. E però uno principe che della milizia non si intenda,oltre alle altre infelicità, come è detto, non può essere stimato da’ sua soldatiné fidarsi di loro.

Debbe, pertanto, mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra,e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra: il che può fare in duomodi; l’uno con le opere, l’altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre altenere bene ordinati ed esercitati li suoi, debbe stare sempre in sulle cacce,e mediante quelle assuefare el corpo a’ disagi; e parte imparare la natura de’siti, e conoscere come surgono e’ monti, come imboccano le valle, comeiacciono e’ piani, ed intendere la natura de’ fiumi e de’ paduli; e in questoporre grandissima cura. La qual cognizione è utile in due modi: prima, siimpara a conoscere el suo paese, e può meglio intendere le difese di esso: dipoi, mediante la cognizione e pratica di quelli siti, con facilità comprendereogni altro sito che di nuovo li sia necessario speculare. Perché li poggi, levalli, e’ piani, e’ fiumi, e’ paduli che sono, verbigrazia, in Toscana, hannocon quelli delle altre provincie certa similitudine; tal che, dalla cognizionedel sito di una provincia, si può facilmente venire alla cognizione dell’altre.E quel principe che manca di questa perizia, manca della prima parte chevuole avere uno capitano; perché, questa, insegna trovare il nimico, pigliaregli alloggiamenti, condurre gli eserciti, ordinare le giornate, campeggiare leterre con tuo vantaggio.

Filipomene, principe degli Achei, in tra le altre laude che dagli scrit-tori gli sono date, è che ne’ tempi della pace non pensava mai se non a’modi della guerra e quando era in campagna con gli amici, spesso si ferma-va e ragionava con quelli: — Se li nimici fussino in su quel colle, e noi citrovassimo qui col nostro esercito, chi di noi arebbe vantaggio? come sipotrebbe ire, servando gli ordini, a trovarli? se noi volessimo ritirarci, comearemmo a fare? se loro si ritirassino, come aremmo a seguirli? — e propo-neva loro, andando, tutti e’ casi che in uno esercito possono occorrere;intendeva la opinione loro, diceva la sua, corroboravala con le ragioni: talche, per queste continue cogitazioni, non posseva mai, guidando gli eserci-

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ti, nascere accidente alcuno, che lui non avesse el remedio.Ma quanto allo esercizio della mente, debbe il principe leggere le

istorie, e in quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti; vedere comesi sono governati nelle guerre; esaminare le cagioni delle vittorie e perditeloro, per potere queste fuggire, e quelle imitare; e, sopra tutto, fare come hafatto per lo adrieto qualche uomo eccellente, che ha preso ad imitare sealcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato, e di quello ha tenuto sempree’ gesti ed azioni appresso di sé: come si dice che Alessandro Magno imitavaAchille; Cesare, Alessandro; Scipione, Ciro. E qualunque legge la vita diCiro scritta da Senofonte, riconosce di poi nella vita di Scipione quantoquella imitazione li fu di gloria, e quanto, nella castità, affabilità, umanità,liberalità Scipione si conformassi con quelle cose che di Ciro da Senofontesono sute scritte.

Questi simili modi debbe osservare uno principe savio, e mai ne’tempi pacifici stare ozioso; ma con industria farne capitale, per potersenevalere nelle avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi paratoa resisterle.

Capitolo XVDe his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur.

Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di unoprincipe con sudditi o con gli amici. E perché io so che molti di questohanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso,partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri.Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso piùconveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che allaimaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati chenon si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto disco-sto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quelloche si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che laperservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte profes-sione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde ènecessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere esserenon buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità.

Lasciando, adunque, indrieto le cose circa uno principe imaginate, e

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discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti gli uomini, quando se neparla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcunedi queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcunoè tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché ava-ro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, miserochiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenutodonatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago,l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso; l’unoumano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astu-to; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave l’altro leggieri, l’uno religioso l’al-tro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbelaudabilissima cosa in uno principe trovarsi di tutte le soprascritte qualità,quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né intera-mente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli ènecessario essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia di quelli viziiche li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, seegli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciareandare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanzaquali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà benetutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe laruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtàe il bene essere suo.

Capitolo XVIDe liberalitate et parsimonia.

Cominciandomi, adunque, alle prime soprascritte qualità, dico comesarebbe bene essere tenuto liberale: nondimanco la liberalità, usata in modoche tu sia tenuto, ti offende; perché se la si usa virtuosamente e come la sidebbe usare la non fia conosciuta, e non ti cascherà la infamia del suocontrario. E però, a volersi mantenere infra gli uomini el nome del liberale,è necessario non lasciare indrieto alcuna qualità di suntuosità; talmente chesempre uno principe così fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà,e sarà necessitato alla fine se si vorrà mantenere el nome del liberale, gravaree’ populi estraordinariamente ed essere fiscale, e fare tutte quelle cose che sipossano fare per avere danari. Il che comincerà a farlo odioso con sudditi, e

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poco stimare da nessuno, diventando povero; in modo che, con questa sualiberalità, avendo offeso gli assai e premiato e’ pochi, sente ogni primodisagio, e periclita in qualunque primo periculo; il che conoscendo lui, evolendosene ritrarre, incorre subito nella infamia del misero.

Uno principe, adunque, non potendo usare questa virtù del liberale,sanza suo danno, in modo che la sia conosciuta, debbe, s’egli è prudente,non si curare del nome del misero: perché col tempo sarà tenuto semprepiù liberale, veggendo che con la sua parsimonia le sua intrate li bastano,può defendersi da chi li fa guerra, può fare imprese sanza gravare e’ populi;talmente che viene a usare liberalità a tutti quelli a chi non toglie, che sonoinfiniti, e miseria a tutti coloro a chi non dà, che sono pochi. Ne’ nostritempi noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che sono statitenuti miseri; gli altri essere spenti. Papa Iulio II, come si fu servito delnome del liberale per aggiugnere al papato, non pensò poi a mantenerselo,per potere fare guerra; el re di Francia presente ha fatto tante guerre sanzaporre uno dazio estraordinario a’ suoi, solum perché alle superflue spese hasumministrato la lunga parsimonia sua; el re di Spagna presente, se fussitenuto liberale, non arebbe fatto né vinto tante imprese.

Pertanto, uno principe debbe esistimare poco, per non avere a rubaree’ sudditi, per potere defendersi, per non diventare povero e contennendo,per non essere forzato di diventare rapace, di incorrere nel nome del mise-ro, perché questo è uno di quelli vizii che lo fanno regnare. E se alcunodicessi: Cesare con la liberalità pervenne allo imperio e molti altri, per esse-re stati ed essere tenuti liberali, sono venuti a gradi grandissimi; rispondo: otu se’ principe fatto, o tu se’ in via di acquistarlo: nel primo caso, questaliberalità è dannosa; nel secondo, è bene necessario essere tenuto liberale. ECesare era uno di quelli che voleva pervenire al principato di Roma; ma se,poi che vi fu venuto, fussi sopravvissuto, e non si fussi temperato da quellespese, arebbe destrutto quello imperio. E se alcuno replicassi: molti sonostati principi, e con gli eserciti hanno fatto gran cose, che sono stati tenutiliberalissimi, ti rispondo: o el principe spende del suo e de’ sua sudditi o diquello d’altri; nel primo caso, debbe essere parco; nell’altro, non debbelasciare indrieto parte alcuna di liberalità. E quel principe che va con glieserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di taglie, maneggia quello di altri,li è necessaria questa liberalità; altrimenti, non sarebbe seguìto da’ soldati.E di quello che non è tuo, o de’ sudditi tuoi, si può essere più largo dona-

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tore, come fu Ciro, Cesare ed Alessandro; perché lo spendere quello di altrinon ti toglie reputazione, ma te ne aggiugne: solamente lo spendere el tuoè quello che ti nuoce. E non ci è cosa che consumi sé stessa quanto laliberalità: quale mentre che tu usi, perdi la faculta di usarla, e diventi opovero e contennendo, o, per fuggire la povertà, rapace e odioso. E in tratutte le cose di che uno principe si debbe guardare, è lo essere contennendoe odioso; e la liberalità all’una e l’altra cosa ti conduce. Pertanto è più sapienziatenersi el nome del misero, che parturisce una infamia sanza odio, che, pervolere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome del rapace,che parturisce una infamia con odio.

Capitolo XVIIDe crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra.

Scendendo appresso alle altre preallegate qualità, dico che ciascunoprincipe debbe desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele: nondimancodebbe avvertire di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgiacrudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna,unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considerrà bene, si vedràquello essere stato molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, perfuggire el nome del crudele, lasciò destruggere Pistoia. Debbe, per tanto,uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere li sudditisuoi uniti e in fede; perché, con pochissimi esempli, sarà più pietoso chequelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che nenasca occisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una universalitàintera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono unoparticulare. E intra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggireel nome del crudele, per essere li stati nuovi pieni di periculi. E Virgilio,nella bocca di Dido, dice:

Res dura, et regni novitas mea talia coguntmoliri, et late fines custode tueri.

Nondimanco debbe essere grave al credere e al muoversi, né si farepaura da sé stesso; e procedere in modo temperato con prudenzia e umani-tà, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzianon lo renda intollerabile.

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Nasce da questo una disputa: s’egli è meglio essere amato che temu-to, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perchéegli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato,quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché degli uomini si puòdire questo generalmente: che sono ingrati, volubili, simulatori e dissimu-latori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene,sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopradissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivolta-no. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosinudo di altre preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano colprezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma le non sihanno, e a’ tempi non si possono spendere. E gli uomini hanno meno respettoa offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perchél’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gli uominitristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto dauna paura di pena che non ti abbandona mai.

Debbe nondimanco el principe farsi temere in modo che se non ac-quista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insiemeessere temuto e non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla robade’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro. E quando pure libisognasse procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi siaiustificazione conveniente e causa manifesta; ma, sopra tutto, astenersi dal-la roba d’altri; perché gli uomini sdimenticano più presto la morte del pa-dre che la perdita del patrimonio. Di poi, le cagioni del tôrre la roba nonmancono mai; e, sempre, colui che comincia a vivere con rapina, truovacagione di occupare quel d’altri; e, per adverso, contro al sangue sono piùrare e mancono più presto.

Ma quando el principe è con gli eserciti e ha in governo moltitudinedi soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome del crudele;perché, sanza questo nome, non si tenne mai esercito unito né disposto adalcuna azione. Intra le mirabili azioni di Annibale si connumera questa,che, avendo uno esercito grossissimo, misto di infinite generazioni di uo-mini, condotto a militare in terre aliene, non vi surgessi mai alcunadissensione, né infra loro né contro al principe, così nella cattiva come nellasua buona fortuna. Il che non poté nascere da altro che da quella sua inu-mana crudeltà; la quale insieme con infinite sua virtù, lo fece sempre, nel

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cospetto de’ suoi soldati, venerando e terribile; e, sanza quella, a fare quelloeffetto le altre sua virtù non li bastavano. E li scrittori, in questo pococonsiderati, dall’una parte ammirarono questa sua azione, e dall’altradannono la principale cagione di essa.

E che sia vero che l’altre sua virtù non sarebbano bastate, si puòconsiderare in Scipione, rarissimo non solamente ne’ tempi sua, ma in tuttala memoria delle cose che si sanno: dal quale gli eserciti suoi in Ispagna sirebellorono; il che non nacque da altro che dalla troppa sua pietà, la qualeaveva data a’ suoi soldati più licenzia che alla disciplina militare non siconveniva. La qual cosa li fu da Fabio Massimo in senato rimproverata, echiamato da lui corruttore della romana milizia. È Locrensi, sendo stati dauno legato di Scipione destrutti, non furono da lui vendicati, né la insolenziadi quello legato corretta, nascendo tutto da quella sua natura facile: talmen-te che, volendolo alcuno in senato escusare, disse come egli erano di moltiuomini che sapevano meglio non errare che correggere gli errori; la qualnatura arebbe col tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se egli avessicon essa perseverato nello imperio; ma, vivendo sotto el governo del senato,questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma li fu a gloria.

Concludo, adunque, tornando allo essere temuto e amato, che, aman-do gli uomini a posta loro, e temendo a posta del principe, debbe unoprincipe savio fondarsi in su quello che è suo, non in su quello che è d’altri:debbe solamente ingegnarsi di fuggire l’odio, come è detto.

Capitolo XVIIIQuomodo fides a principibus sit servanda

Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere conintegrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede, peresperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose, che dellafede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondatiin sulla lealtà.

Dovete, adunque, sapere come sono dua generazioni di combattere:l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo,quel secondo è delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta,conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe è necessario sapere

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bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principicopertamente dagli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille e moltialtri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, chesotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere perprecettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno prin-cipe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.

Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia,debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe aconoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplice-mente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signoreprudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni con-tro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uominifussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sonotristi, e non la osservarebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro.Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorire lainosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni emostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite e vane per lainfidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è me-glio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed esseregran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tantoobediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà semprechi si lascerà ingannare.

Io non voglio, degli esempli freschi, tacerne uno. Alessandro VI nonfece mai altro, non pensò mai ad altro, che a ingannare uomini: e sempretrovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggioreefficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, chela osservassi meno: nondimeno sempre li succederono gli inganni ad votum,perché conosceva bene questa parte del mondo.

A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte lesoprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò didire questo, che, avendole e osservandole sempre sono dannose, e parendodi averle, sono utili, come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso,ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando nonessere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, cheuno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle

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cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, permantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro allaumanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia uno animodisposto a volgersi secondo ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle coseli comandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, masapere intrare nel male, necessitato.

Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non gli esca maidi bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia,a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità,tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questaultima qualità. E gli uomini, in universali, iudicano più agli occhi che allemani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vedequello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi nonardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello statoche li defenda; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ principi,dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque unoprincipe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicationorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va sempre preso conquello che pare, e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo,e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi.Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predi-ca mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una el’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazio-ne o lo stato.

Capitolo XIXDe contemptu et odio fugiendo.

Ma perché, circa le qualità di che di sopra si fa menzione, io hoparlato delle più importanti, l’altre voglio discorrere brevemente sotto que-ste generalità: che il principe pensi, come di sopra in parte è detto, di fug-gire quelle cose che lo faccino odioso e contennendo; e qualunque voltafuggirà questo, arà adempiuto le parti sua e non troverrà nelle altre infamiepericulo alcuno. Odioso lo fa, sopra tutto, come io dissi, lo essere rapace eusurpatore della roba e delle donne de’ sudditi: di che si debbe astenere; equalunque volta alle universalità degli uomini non si toglie né roba né

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onore, vivono contenti; e solo si ha a combattere con la ambizione di pochi,la quale in molti modi, e con facilità si raffrena. Contennendo lo fa esseretenuto vario, leggieri, effeminato, pusillanime, irresoluto: da che uno prin-cipe si debbe guardare come da uno scoglio, e ingegnarsi che nelle azionisua si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza, e, circa e’ maneggiprivati de’ sudditi, volere che la sua sentenzia sia irrevocabile; e si mantengain tale opinione, che alcuno non pensi né a ingannarlo né ad aggirarlo.

Quel principe che dà di sé questa opinione, è reputato assai; e controa chi è reputato con difficultà si coniura, con difficultà è assaltato, purché siintenda che sia eccellente e reverito da’ suoi. Perché uno principe debbeavere dua paure: una drento, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, perconto de’ potentati esterni. Da questa si defende con le buone arme e con libuoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici; e sempre sta-ranno ferme le cose, di drento, quando stieno ferme quelle di fuora, se giàle non fussino perturbate da una coniura; e quando pure quelle di fuoramovessino, s’egli è ordinato e vissuto come ho detto, quando non si abban-doni, sempre sosterrà ogni impeto, come io dissi che fece Nabide spartano.Ma circa e’ sudditi, quando le cose di fuora non muovino, si ha a temereche non coniurino secretamente: del che il principe si assicura assai, fug-gendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui;il che è necessario conseguire, come di sopra a lungo si disse. E uno de’ piùpotenti rimedii che abbi uno principe contro alle coniure, è non essereodiato dallo universale: perché sempre chi coniura crede, con la morte delprincipe satisfare al populo; ma quando creda offenderlo, non piglia animoa prendere simile partito, perché le difficultà che sono dalla parte de’coniuranti sono infinite. E per esperienzia si vede molte essere state le coniure,e poche avere avuto buon fine; perché chi coniura non può essere solo, nepuò prendere compagnia se non di quelli che creda esser mal contenti; esubito che a uno mal contento tu hai scoperto l’animo tuo, gli dai materiaa contentarsi, perché manifestamente lui ne può sperare ogni commodità:talmente che, veggendo el guadagno fermo da questa parte, e dall’altraveggendolo dubio e pieno di periculo, conviene bene o che sia raro amico,o che sia, al tutto, ostinato inimico del principe, ad osservarti la fede. E perridurre la cosa in brevi termini, dico che, dalla parte del coniurante, non èse non paura, gelosia, sospetto di pena che lo sbigottisce; ma, dalla parte delprincipe, è la maestà del principato, le leggi, le difese degli amici e dello

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stato che lo defendano: talmente che, aggiunto a tutte queste cose la benivolenziapopulare, è impossibile che alcuno sia sì temerario che coniuri. Perché, per loordinario, dove uno coniurante ha a temere innanzi alla esecuzione del male, inquesto caso debbe temere ancora poi (avendo per inimico el popolo) seguìto loeccesso, né potendo per questo sperare refugio alcuno.

Di questa materia se ne potria dare infiniti esempli; ma voglio soloessere contento di uno, seguìto alla memoria de’ padri nostri. Messer Anni-bale Bentivogli, avolo del presente messer Annibale, che era principe inBologna, sendo da’ Canneschi, che gli coniurorono contro ammazzato, nérimanendo di lui altri che messer Giovanni, che era in fasce, subito dopotale omicidio, si levò il populo e ammazzò tutti e’ Canneschi. Il che nacquedalla benivolenzia populare che la casa de’ Bentivogli aveva in quelli tempi:la quale fu tanta, che, non restando di quella alcuno in Bologna che potessi,morto Annibale, reggere lo stato, e avendo indizio come in Firenze era unonato de’ Bentivogli che si teneva fino allora figliuolo di uno fabbro, vennonoe’ Bolognesi per quello in Firenze, e li dettono el governo di quella città, laquale fu governata da lui fino a tanto che messer Giovanni pervenissi in etàconveniente al governo.

Concludo, pertanto, che uno principe debbe tenere delle coniurepoco conto, quando il popolo li sia benivolo, ma, quando li sia inimico eabbilo in odio debbe temere d’ogni cosa e d’ognuno. E li stati bene ordinatie li principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non desperare e’grandi, e di satisfare al populo e tenerlo contento; perché questa è una dellepiù importanti materie che abbia uno principe.

Intra’ regni bene ordinati e governati, a’ tempi nostri, è quello diFrancia: e in esso si trovano infinite costituzione buone, donde depende lalibertà e sicurtà del re. Delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità;perché quello che ordinò quel regno, conoscendo la ambizione de’ potentie la insolenzia loro e iudicando essere loro necessario uno freno in boccache li correggessi e, dall’altra parte, conoscendo l’odio dello universale con-tro a’ grandi fondato in sulla paura, e volendo assicurarli, non volse chequesta fussi particulare cura del re, per torli quel carico ch’e’ potessi avereco’ grandi favorendo e’ populari, e con li populari favorendo e’ grandi; eperò costituì uno iudice terzo, che fussi quello che, sanza carico del re,battessi e’ grandi e favorissi e’ minori. Né possé essere questo ordine miglio-re né più prudente, né che sia maggiore cagione della securtà del re e del

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regno. Di che si può trarre un altro notabile: che li principi debbano le cosedi carico fare sumministrare ad altri, quelle di grazia a loro medesimi. Dinuovo concludo che uno principe debbe stimare e’ grandi, ma non si fareodiare dal populo.

Parrebbe forse a molti, considerato la vita e morte di alcuno impera-tore romano, che fussino esempli contrarii a questa mia opinione, trovandoalcuno essere vissuto sempre egregiamente e mostro grande virtù d’animo,nondimeno avere perso lo imperio, ovvero essere stato morto da’ suoi chegli hanno coniurato contro. Volendo, pertanto, rispondere a queste obie-zioni, discorrerò le qualità di alcuni imperatori, mostrando le cagioni dellaloro ruina, non disforme da quello che da me si è addutto; e parte metteròin considerazione quelle cose che sono notabili a chi legge le azioni di quellitempi. E voglio mi basti pigliare tutti quegli imperatori che succederonoallo imperio da Marco filosofo a Massimino: li quali furono Marco,Commodo suo figliuolo, Pertinace, Iuliano, Severo, Antonino Caracallasuo figliuolo, Macrino, Eliogabalo, Alessandro e Massimino. Ed è, prima,da notare che dove negli altri principati si ha solo a contendere con la am-bizione de’ grandi e insolenzia de’ populi, gli imperadori romani avevanouna terza difficultà: di avere a sopportare la crudeltà e avarizia de’ soldati.La qual cosa era sì difficile che la fu cagione della ruina di molti, sendodifficile satisfare a’ soldati e a’ populi; perché e’ populi amavono la quiete, eper questo amavono e’ principi modesti, e li soldati amavono el principe dianimo militare e che fussi insolente, crudele e rapace; le quali cose volevanoche lui esercitassi ne’ populi, per potere avere duplicato stipendio e sfogarela loro avarizia e crudeltà. Le quali cose feciono che quegli imperadori che,per natura o per arte, non aveano una grande reputazione, tale che conquella tenessino l’uno e l’altro in freno, sempre ruinavono. E li più di loro,massime quelli che come uomini nuovi venivano al principato, conosciutala difficultà di questi dua diversi umori, si volgevano a satisfare a’ soldati,stimando poco lo iniuriare il populo. Il quale partito era necessario: perché,non potendo e’ principi mancare di non essere odiati da qualcuno, si deb-bano prima forzare di non essere odiati dalle università, e, quando nonpossano conseguire questo, si debbano ingegnare con ogni industria fuggi-re l’odio di quelle università che sono più potenti. E però quegli imperatoriche per novità avevano bisogno di favori estraordinarii, si aderivano a’ sol-dati più tosto che a’ populi; il che tornava loro, nondimeno, utile o no,

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secondo che quel principe si sapeva mantenere reputato con loro.Da queste cagioni sopradette nacque che Marco Pertinace e Alessan-

dro, sendo tutti di modesta vita, amatori della iustizia, inimici della crudel-tà, umani, benigni, ebbono tutti, da Marco in fuora, tristo fine. Marco solovisse e morì onoratissimo, perché lui succedé allo imperio iure hereditario,e non aveva a riconoscere quello né da’ soldati né da’ populi; di poi, sendoaccompagnato da molte virtù che lo facevano venerando, tenne sempre,mentre che visse l’uno ordine e l’altro intra e’ termini suoi, e non fu mai néodiato né disprezzato. Ma Pertinace, creato imperatore contro alla vogliade’ soldati, li quali, sendo usi a vivere licenziosamente sotto Commodo,non poterono sopportare quella vita onesta alla quale Pertinace li volevaridurre, onde avendosi creato odio, e a questo odio aggiunto il disprezzo,sendo vecchio, ruinò ne’ primi principii della sua amministrazione.

E qui si debbe notare che l’odio s’acquista così mediante le buoneopere, come le triste: e però, come io dissi di sopra, volendo uno principe,mantenere lo stato, è spesso forzato a non essere buono; perché, quandoquella università, o populi o soldati o grandi che sieno, della quale tu iudichiper mantenerti avere bisogno, è corrotta, ti conviene seguire l’umore suopel satisfarle, e allora le buone opere ti sono nimiche. Ma vegnamo adAlessandro: il quale fu di tanta bontà, che intra le altre laude che li sonoattribuite è questa, che in quattordici anni che tenne lo imperio, non fumai morto da lui alcuno iniudicato; nondimanco, sendo tenuto effemina-to, e uomo che si lasciassi governare alla madre, e per questo venuto indisprezzo, conspirò in lui lo esercito, e ammazzollo.

Discorrendo ora, per opposito, le qualità di Commodo, di Severo,Antonino, Caracalla e Massimino, li troverrete crudelissimi e rapacissimi; liquali, per satisfare a’ soldati, non perdonorono ad alcuna qualità di iniuriache ne’ populi si potessi commettere; e tutti, eccetto Severo, ebbono tristofine. Perché in Severo fu tanta virtù, che, mantenendosi e’ soldati amici,ancora che i populi fussino da lui gravati, possé sempre regnare felicemen-te; perché quelle sua virtù lo facevano nel conspetto de’ soldati e de’ populisì mirabile, che questi rimanevano quodammodo attoniti e stupidi, e queglialtri reverenti e satisfatti.

E perché le azioni di costui furono grandi e notabili in uno principenuovo, io voglio mostrare brevemente quanto bene seppe usare la personadella golpe e del lione: le quali nature io dico di sopra essere necessarie

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imitare a uno principe. Conosciuto Severo la ignavia di Iuliano imperatore,persuase al suo esercito, del quale era in Stiavonia capitano, che gli era beneandare a Roma a vendicare la morte di Pertinace, il quale da’ soldati pretorianiera stato morto. E sotto questo colore, sanza mostrare di aspirare allo imperio,mosse lo esercito contro a Roma, e fu prima in Italia che si sapessi la suapartita. Arrivato, a Roma, fu dal senato, per timore, eletto imperatore emorto Iuliano. Restava, dopo questo principio, a Severo due difficultà, vo-lendosi insignorire di tutto lo stato: l’una in Asia, dove Pescennio Nigro,capo degli eserciti asiatici, si era fatto chiamare imperatore; e l’altra in po-nente, dove era Albino, quale ancora lui aspirava allo imperio. E perchéiudicava periculoso scoprirsi inimico a tutti e dua, deliberò di assaltare Nigroe ingannare Albino. Al quale scrisse come, sendo dal senato eletto impera-tore, voleva partecipare quella dignità con lui; e mandogli il titulo di Cesaree, per deliberazione del senato, se lo aggiunse collega: le quali cose furonoda Albino accettate per vere. Ma, poiché Severo ebbe vinto e morto Nigro,e pacate le cose orientali, ritornatosi a Roma, si querelò, in senato, comeAlbino, poco conoscente de’ benefizii ricevuti da lui, aveva dolosamentecerco di ammazzarlo, e per questo lui era necessitato andare a punire la suaingratitudine. Di poi andò a trovarlo in Francia, e li tolse lo stato e la vita.

Chi esaminerà, adunque, tritamente le azioni di costui, lo troverràuno ferocissimo lione e una astutissima golpe; e vedrà quello temuto ereverito da ciascuno e dagli eserciti non odiato, e non si maraviglierà se lui,uomo nuovo, arà possuto tenere tanto imperio, perché la sua grandissimareputazione lo difese sempre da quello odio ch’e’ populi per le sue rapineavevano potuto concipere. Ma Antonino, suo figliuolo, fu ancora lui uomoche aveva parte eccellentissime e che lo facevano maraviglioso nel conspettode’ populi e grato a’ soldati; perché era uomo militare, sopportantissimod’ogni fatica, disprezzatore d’ogni cibo delicato e d’ogni altra mollizie: laqual cosa lo faceva amare da tutti gli eserciti; nondimanco la sua ferocia ecrudeltà fu tanta e sì inaudita, per avere, dopo infinite occisioni particulari,morto gran parte del populo di Roma e tutto quello di Alessandria, chediventò odiosissimo a tutto il mondo. E cominciò ad essere temuto etiamda quelli ch’egli aveva intorno; in modo che fu ammazzato da uno centurionein mezzo del suo esercito. Dove è da notare che queste simili morti, le qualiseguano per deliberazione di uno animo ostinato, sono da’ principi inevita-bili; perché ciascuno che non si curi di morire lo può offendere; ma debbe

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bene el principe temerne meno, perché le sono rarissime. Debbe solo guar-darsi di non fare grave iniuria ad alcuno di coloro de’ quali si serve, e che gliha d’intorno al servizio del suo principato: come aveva fatto Antonino, ilquale aveva morto contumeliosamente uno fratello di quel centurione, elui ogni giorno minacciava; tamen lo teneva a guardia del corpo suo; il cheera partito temerario e da ruinarvi, come gli intervenne.

Ma vegnamo a Commodo; al quale era facilità grande tenere loimperio, per averlo iure hereditario, sendo figliuolo di Marco; e solo li ba-stava seguire le vestigie del padre, e a’ soldati e a’ populi arebbe satisfatto.Ma, sendo d’animo crudele e bestiale, per potere usare la sua rapacità ne’popoli, si volse a intrattenere gli eserciti e farli licenziosi; dall’altra parte,non tenendo la sua dignità, discendendo spesso ne’ teatri a combattere co’gladiatori, e faccendo altre cose vilissime e poco degne della maestà impe-riale, diventò contennendo nel conspetto de’ soldati. Ed essendo odiatodall’una parte e disprezzato dall’altra, fu conspirato in lui, e morto.

Restaci a narrare le qualità di Massimino. Costui fu uomobellicosissimo; ed essendo gli eserciti infastiditi della mollizie di Alessandro,del quale ho di sopra discorso, morto lui, lo elessono allo imperio. Il qualenon molto tempo possedé; perché dua cose lo feciono odioso e contennendo:l’una, essere vilissimo per avere già guardato le pecore in Tracia (la qual cosaera per tutto notissima e gli faceva una grande dedignazione nel conspettodi qualunque); l’altra, perché, avendo, nello ingresso del suo principato,differito lo andare a Roma ed intrare nella possessione della sedia imperiale,aveva dato di sé opinione di crudelissimo, avendo per li sua prefetti, inRoma e in qualunque luogo dello Imperio, esercitato molte crudeltà. Talche, commosso tutto el mondo dallo sdegno per la viltà del suo sangue, edallo odio per la paura della sua ferocia, si rebellò prima Affrica, di poi elsenato con tutto el popolo di Roma, e tutta Italia gli conspirò contro. A chesi aggiunse el suo proprio esercito; quale, campeggiando Aquileia e trovan-do difficultà nella espugnazione, infastidito della crudeltà sua, e per vederlitanti inimici, temendolo meno, lo ammazzò.

Io non voglio ragionare né di Eliogabalo né di Macrino né di Iuliano,li quali, per essere al tutto contennendi, si spensono subito; ma verrò allaconclusione di questo discorso. E dico che li principi de’ nostri tempi han-no meno questa difficultà di satisfare estraordinariamente a’ soldati ne’ go-verni loro; perché, nonostante che si abbi ad avere a quelli qualche conside-

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razione, tamen si resolve presto, per non avere, alcuno di questi principi,eserciti insieme che sieno inveterati con li governi e amministrazione delleprovincie, come erano gli eserciti dello imperio romano. E però, se alloraera necessario satisfare più a’ soldati che a’ populi, era perch’e’ soldati pote-vano più ch’e’ populi; ora è più necessario a tutti e’ principi, eccetto che alTurco e al Soldano, satisfare a’ populi che a’ soldati, perché e’ populi posso-no più di quelli. Di che io ne eccettuo el Turco, tenendo sempre quellointorno a sé dodicimila fanti e quindicimila cavalli, da’ quali depende lasecurtà e la fortezza del suo regno: ed è necessario che, posposto ogni altrorespetto, quel signore se li mantenga amici. Similmente el regno del Soldanosendo tutto in mano de’ soldati, conviene che ancora lui, sanza respetto de’populi, se li mantenga amici. E avete a notare che questo stato del Soldanoè disforme da tutti gli altri principati, perché egli è simile al pontificatocristiano, il quale non si può chiamare né principato ereditario né principa-to nuovo; perché non e’ figliuoli del principe vecchio sono eredi e rimango-no signori, ma colui che è eletto a quel grado da coloro che ne hannoautorità. Ed essendo questo ordine antiquato, non si può chiamare princi-pato nuovo, perché in quello non sono alcune di quelle difficultà che sonone’ nuovi; perché, sebbene el principe è nuovo, gli ordini di quello statosono vecchi, e ordinati a riceverlo come se fussi loro signore ereditario.

Ma torniamo alla materia nostra. Dico che qualunque considerrà elsoprascritto discorso, vedrà o l’odio o il disprezzo essere suto cagione dellaruina di quegli imperadori prenominati; e conoscerà ancora donde nacqueche parte di loro procedendo in uno modo e parte al contrario, in qualun-que di quelli, uno di loro ebbe felice e gli altri infelice fine. Perché a Perti-nace ed Alessandro, per essere principi nuovi, fu inutile e dannoso volereimitare Marco, che era nel principato iure hereditario; e similmente aCaracalla, Commodo e Massimino essere stata cosa perniziosa imitare Se-vero, per non avere avuta tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigie sua.Pertanto, uno principe nuovo, in uno principato nuovo, non può imitare leazioni di Marco, né ancora è necessario seguitare quelle di Severo; ma debbepigliare da Severo quelle parti che per fondare el suo stato sono necessarie,e da Marco quelle che sono convenienti e gloriose a conservare uno statoche sia di già stabilito e fermo.

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Capitolo XXAn arces et multa alia quae cotidie a principibus fiunt utilia an inutilia sint.

Alcuni principi, per tenere securamente lo stato, hanno disarmato e’loro sudditi; alcuni altri hanno tenuto divise le terre subiette; alcuni hannonutrito inimicizie contro a sé medesimi; alcuni altri si sono volti a guada-gnarsi quelli che gli erano suspetti nel principio del suo stato; alcuni hannoedificato fortezze; alcuni le hanno ruinate e destrutte. E benché di tuttequeste cose non si possa dare determinata sentenzia, se non si viene a’particulari di quelli stati dove si avessi a pigliare alcuna simile deliberazio-ne, nondimanco io parlerò in quel modo largo che la materia per sé mede-sima sopporta.

Non fu mai, adunque, che uno principe nuovo disarmassi e’ sua sud-diti; anzi, quando gli ha trovati disarmati, sempre gli ha armati; perché,armandosi, quelle arme diventano tua; diventano fedeli quelli che ti sonosospetti; e quelli che erano fedeli si mantengono e di sudditi si fanno tuoipartigiani. E perché tutti e’ sudditi non si possono armare, quando si bene-fichino quelli che tu armi, con gli altri si può fare più a sicurtà: e quelladiversità del procedere che conoscono in loro, li fa tua obligati; quegli altriti scusano, iudicando essere necessario quelli avere più merito che hannopiù periculo e più obligo. Ma quando tu li disarmi, tu cominci a offenderli;mostri che tu abbi in loro diffidenzia o per viltà o per poca fede: e l’una el’altra di queste opinioni concepe odio contro di te. E perché tu non puoistare disarmato, conviene ti volti alla milizia mercenaria, la quale è di quellaqualità che di sopra è detto, e quando la fussi buona, non può essere tantache ti defenda da’ nimici potenti e da’ sudditi sospetti. Però, come io hodetto, uno principe nuovo, in uno principato nuovo, sempre vi ha ordinatole armi, e di questi esempli ne sono piene le istorie.

Ma quando uno principe acquista uno stato nuovo che, come mem-bro, si aggiunga al suo vecchio, allora è necessario disarmare quello stato,eccetto quelli che nello acquistarlo sono suti tuoi partigiani; e quelli anco-ra, col tempo e con le occasioni, è necessario renderli molli ed effeminati, eordinarsi in modo che solo le armi di tutto el tuo stato sieno in quelli tuasoldati proprii, che nello stato tuo antiquo vivono appresso di te.

Solevano gli antiqui nostri, e quelli che erano stimati savi, dire comeera necessario tenere Pistoia con le parti e Pisa con le fortezze; e per questo

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nutrivano in qualche terra loro suddita le differenzie, per possederle piùfacilmente. Questo, in quelli tempi che Italia era in uno certo modo bilan-ciata, doveva essere ben fatto; ma non credo che si possa dare oggi perprecetto: perché io non credo che le divisioni facessino mai bene alcuno;anzi è necessario, quando il nimico si accosta, che le città divise si perdinosubito; perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne, el’altra non potrà reggere.

È Viniziani, mossi, come io credo, dalle ragioni soprascritte, nutriva-no le sétte guelfe e ghibelline nelle città loro suddite; e benché non lilasciassino mai venire al sangue, tamen nutrivano fra loro questi dispareri,acciò che, occupati quelli cittadini in quelle loro differenzie, non si unissinocontro di loro. Il che, come si vide, non tornò loro poi a proposito; perché,sendo rotti a Vailà, subito una parte di quelle prese ardire, e tolsono lorotutto lo stato. Arguiscano, pertanto, simili modi debolezza del principe,perché in uno principato gagliardo mai si permetteranno simili divisioni;perché le fanno solo profitto a tempo di pace, potendosi, mediante quelle,più facilmente maneggiare e’ sudditi; ma venendo la guerra, mostra simileordine la fallacia sua.

Sanza dubbio e’ principi diventano grandi quando superano ledifficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, massimequando vuole fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore neces-sità di acquistare reputazione che uno ereditario, li fa nascere de’ nemici, eli fa fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle, esu per quella scala che gli hanno porta e’ nimici sua, salire più alto. Peròmolti iudicano che uno principe savio debbe, quando ne abbi la occasionenutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne séguitimaggiore sua grandezza.

Hanno e’ principi, et praesertim quelli che sono nuovi, trovato piùfede e più utilità in quegli uomini che nel principio del loro stato sono sutitenuti sospetti, che in quelli che nel principio erano confidenti. PandolfoPetrucci, principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che li furonosospetti che con li altri. Ma di questa cosa non si può parlare largamente,perché la varia secondo el subietto. Solo dirò questo, che quegli uomini chenel principio di uno principato erono stati inimici, che sono di qualità chea mantenersi abbino bisogno di appoggiarsi, sempre el principe con facilitàgrandissima se li potrà guadagnare; e loro maggiormente sono forzati a

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servirlo con fede, quanto conoscano essere loro più necessario cancellarecon le opere quella opinione sinistra che si aveva di loro; e così il principene trae sempre più utilità, che di coloro che, servendolo con troppa sicurtà,straccurono le cose sua.

E poiché la materia lo ricerca, non voglio lasciare indrieto ricordare a’principi che hanno preso uno stato di nuovo mediante e’ favori intrinseci diquello, che considerino bene qual cagione abbi mosso quelli che lo hannofavorito, a favorirlo; e, se ella non è affezione naturale verso di loro, mafussi solo perché quelli non si contentavano di quello stato, con fatica edifficultà grande se li potrà mantenere amici, perché e’ fia impossibile chelui possa contentarli. E discorrendo bene, con quegli esempli che dalle coseantiche e moderne si traggono, la cagione di questo vedrà esserli molto piùfacile guadagnarsi amici quegli uomini che dello stato innanzi sicontentavono, e però erano suoi inimici, che quelli che, per non se necontentare li diventorono amici e favorironlo a occuparlo.

È suta consuetudine de’ principi, per potere tenere più sicuramentelo stato loro, edificare fortezze, che sieno la briglia e il freno di quelli chedisegnassino fare loro contro, e avere uno refugio securo da uno subitoimpeto. Io laudo questo modo, perché gli è usitato ab antiquo. Nondimanco,messer Niccolò Vitelli, ne’ tempi nostri, si è visto disfare dua fortezze inCittà di Castello, per tenere quello stato. Guido Ubaldo, duca di Urbino,ritornato nella sua dominazione, donde da Cesare Borgia era suto cacciato,ruinò funditus tutte le fortezze di quella provincia, e iudicò sanza quelle piùdifficilmente riperdere quello stato. È Bentivogli, ritornati in Bologna,usorono simili termini. Sono, dunque, le fortezze utili o no, secondo e’tempi; e se le ti fanno bene in una parte, ti offendano in una altra. E puossidiscorrere questa parte così: quel principe che ha più paura de’ populi chede’ forestieri, debbe fare le fortezze, ma quello che ha più paura de’ forestie-ri che de’ populi, debbe lasciarlo indrieto. Alla casa Sforzesca ha fatto e faràpiù guerra el castello di Milano, che vi edificò Francesco Sforza, che alcunoaltro disordine di quello stato. Però la migliore fortezza che sia, è non essereodiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze, e il populo ti abbiin odio, le non ti salvono; perché non mancano mai a’ populi, preso che glihanno l’armi, forestieri che li soccorrino. Ne’ tempi nostri non si vede chequelle abbino profittato ad alcuno principe, se non alla contessa di Furlì,quando fu morto el conte Girolamo suo consorte; perché, mediante quella,

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possé fuggire l’impeto populare, e aspettare el soccorso da Milano, e recu-perare lo stato. E li tempi stavano allora in modo, che il forestiere nonposseva soccorrere el populo. Ma di poi valsono ancora a lei poco le fortez-ze, quando Cesare Borgia l’assaltò, e che il populo suo inimico si coniunsecol forestiero. Pertanto, allora e prima, sarebbe suto più sicuro a lei nonessere odiata dal populo che avere le fortezze.

Considerato, adunque, tutte queste cose, io lauderò chi farà le for-tezze e chi non le farà; e biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze,stimerà poco essere odiato da’ populi.

Capitolo XXIQuod principem deceat ut egregius habeatur.

Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno le grandiimprese e dare di sé rari esempli. Noi abbiamo ne’ nostri tempi Ferrando diAragona, presente re di Spagna. Costui si può chiamare quasi principe nuovo,perché, di uno re debole, è diventato per fama e per gloria el primo re de’Cristiani; e se considerrete le azioni sua, le troverrete tutte grandissime equalcuna estraordinaria. Lui nel principio del suo regno assaltò la Granata:e quella impresa fu il fondamento dello stato suo. Prima, e’ la fece ozioso esanza sospetto di essere impedito: tenne occupati in quella gli animi diquelli baroni di Castiglia, li quali, pensando a quella guerra, non pensavanoa innovare. E lui acquistava, in quel mezzo, reputazione e imperio sopra diloro, che non se ne accorgevano; possé nutrire, con danari della Chiesa ede’ populi, eserciti, e fare uno fondamento, con quella guerra lunga, allamilizia sua; la quale lo ha di poi onorato. Oltre a questo, per potere intra-prendere maggiori imprese, servendosi sempre della religione, si volse a unapietosa crudeltà, cacciando e spogliando, el suo regno, de’ Marrani: né puòessere questo esemplo più miserabile né più raro. Assaltò, sotto questomedesimo mantello, l’Affrica: fece l’impresa di Italia: ha ultimamenteassaltato la Francia; e così sempre ha fatte e ordite cose grandi, le qualisempre hanno tenuto sospesi e ammirati gli animi de’ sudditi e occupatinello evento di esse. E sono nate queste sua azioni in modo, l’una dall’altra,che non ha dato mai, infra l’una e l’altra, spazio agli uomini di poterequietamente operarli contro.

Giova ancora assai a uno principe dare di sé esempli rari circa e’

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governi di dentro, simili a quelli che si narrano di messer Bernabò da Mila-no, quando si ha l’occasione di qualcuno che operi qualche cosaestraordinaria, o in bene o in male, nella vita civile, e pigliare uno modo,circa premiarlo o punirlo, di che s’abbia a parlare assai. E sopra tutto, unoprincipe si debbe ingegnare dare di sé in ogni sua azione fama di uomogrande e d’ingegno eccellente.

È ancora stimato uno principe, quando egli è vero amico e vero ini-mico; cioè quando, sanza alcuno respetto, si scuopre in favore di alcunocontro ad un altro. Il quale partito fia sempre più utile che stare neutrale;perché se dua potenti tuoi vicini vengono alle mani, o sono di qualità che,vincendo uno di quelli, tu abbi a temere del vincitore, o no. In qualunquedi questi dua casi, ti sarà sempre più utile lo scoprirti e fare buona guerra;perché, nel primo caso, se tu non ti scuopri sarai sempre preda di chi vince,con piacere e satisfazione di colui che è stato vinto, e non hai ragione nécosa alcuna che ti defenda né che ti riceva; perché, chi vince non vuoleamici sospetti e che non lo aiutino nelle avversità, chi perde, non ti riceve,per non avere tu voluto con le arme in mano correre la fortuna sua.

Era passato in Grecia Antioco, messovi dagli Etoli per cacciarne e’Romani. Mandò Antioco oratori agli Achei, che erano amici de’ Romani, aconfortarli a stare di mezzo; e da altra parte e’ Romani li persuadevano apigliare le arme per loro. Venne questa materia a deliberarsi nel conciliodegli Achei, dove il legato di Antioco li persuadeva a stare neutrali: a che illegato romano respose: “Quod autem isti dicunt non interponendi vos bel-lo, nihil magis alienum rebus vestris est; sine gratia, sine dignitate, praemiumvictoris eritis”.

E sempre interverrà che colui che non è amico ti ricercherà dellaneutralità, e quello che ti è amico ti richiederà che ti scuopra con le arme.E li principi mal resoluti per fuggire e’ presenti periculi, seguono el piùdelle volte quella via neutrale, e il più delle volte ruinano. Ma quando elprincipe si scuopre gagliardamente in favore d’una parte, se colui con chi tuti aderisci vince, ancora che sia potente e che tu rimanga a sua discrezione,egli ha teco obligo, e vi è contratto l’amore; e gli uomini non sono mai sìdisonesti, che con tanto esemplo di ingratitudine ti opprimessino; di poi, levittorie non sono mai sì strette, che il vincitore non abbi ad avere qualcherespetto, e massime alla giustizia. Ma se quello con il quale tu ti aderisciperde, tu se’ ricevuto da lui; e mentre che può ti aiuta, e diventi compagno

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d’una fortuna che può resurgere.Nel secondo caso, quando quelli che combattono insieme sono di

qualità che tu non abbi a temere di quello che vince, tanto è maggioreprudenzia lo aderirsi, perché tu vai alla ruina di uno con lo aiuto di chi lodoverrebbe salvare, se fussi savio; e, vincendo, rimane a tua discrezione, edè impossibile, con lo aiuto tuo, che non vinca.

E qui è da notare che uno principe debbe avvertire di non fare maicompagnia con uno più potente di sé, per offendere altri, se non quando lanecessità lo stringe, come di sopra si dice; perché, vincendo, rimani suoprigione: e li principi debbano fuggire, quanto possono, lo stare a discre-zione di altri. È Viniziani si accompagnorono con Francia contro al duca diMilano, e potevono fuggire di non fare quella compagnia; di che ne resultòla ruina loro. Ma quando non si può fuggirla (come intervenne a’ Fiorenti-ni quando il papa e Spagna andorono con gli eserciti ad assaltare la Lom-bardia) allora si debba il principe aderire per le ragioni sopradette. Né credamai alcuno stato potere sempre pigliare partiti securi, anzi pensi di avere aprenderli tutti dubbii; perché si trova questo nell’ordine delle cose, che mainon si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro; mala prudenzia consiste in sapere conoscere le qualità degli inconvenienti epigliare il meno tristo per buono.

Debbe ancora uno principe mostrarsi amatore delle virtù dando re-capito alli uomini virtuosi, e onorare gli eccellenti in una arte. Appresso,debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare gli eserciziloro, e nella mercanzia e nella agricultura e in ogni altro esercizio degliuomini; e che quello non tema di ornare le sua possessioni per timore che legli sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; madebbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, e a qualunque pensa, inqualunque modo, ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo,ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste espettaculi. E perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere contodi quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esemplo diumanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma nondimanco la maestàdella dignità sua, perché questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.

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Capitolo XXIIDe his quos a secretis principes habent.

Non è di poca importanzia a uno principe la elezione de’ ministri; liquali sono buoni o no, secondo la prudenzia del principe. E la primaconiettura che si fa del cervello di uno signore, è vedere gli uomini che luiha d’intorno e quando e’ sono sufficienti e fideli, si può sempre reputarlosavio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fideli. Ma quan-do sieno altrimenti, sempre si può fare non buono iudizio di lui; perché elprimo errore che fa, lo fa in questa elezione.

Ma come uno principe possa conoscere il ministro, ci è questo modoche non falla mai: quando tu vedi el ministro pensare più a sé che a te, e chein tutte le azioni vi ricerca drento l’utile suo, questo tale così fatto mai fiabuono ministro, mai te ne potrai fidare; perché quello che ha lo stato diuno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma al principe, e non li ricordaremai cosa che non appartenga a lui. E dall’altro canto, el principe, per man-tenerlo buono, debba pensare al ministro, onorandolo, faccendolo ricco,obligandoselo, participandoli gli onori e carichi, acciò che vegga che nonpuò stare sanza lui, e che gli assai onori non li faccino desiderare più onori,le assai ricchezze non li faccino desiderare più ricchezze, gli assai carichi lifaccino temere le mutazioni. Quando, dunque, e’ ministri e li principi circae’ ministri sono così fatti possono confidare l’uno dell’altro, e quando altri-menti, sempre il fine fia dannoso o per l’uno o per l’altro.

Capitolo XXIIIQuomodo adulatores sint fugiendi.

Non voglio lasciare indrieto uno capo importante e uno errore dalquale e’ principi con difficultà si defendano, se non sono prudentissimi, ose non hanno buona elezione. E questi sono gli adulatori, de’ quali le cortisono piene; perché gli uomini si compiacciono tanto nelle cose loro propriee in modo vi si ingannano, che con difficultà si defendano da questa peste;e a volersene defendere, si porta periculo di non diventare contennendo.Perché non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che gliuomini intendino che non ti offendino a dirti el vero; ma quando ciascunopuò dirti el vero, ti manca la reverenzia. Pertanto uno principe prudente

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debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, esolo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlargli la verità, e di quellecose sole che lui domanda, e non d’altro. Ma debbe domandarli d’ognicosa, e le opinioni loro udire, e di poi deliberare da sé, a suo modo; econ questi consigli, e con ciascuno di loro, portarsi in modo che ognu-no conosca che, quanto più liberamente si parlerà, tanto più li fia accet-to: fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare drieto alla cosa de-liberata ed essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e’precipita per gli adulatori, o si muta spesso per la variazione de’ pareri:di che ne nasce la poca estimazione sua.

Io voglio a questo proposito addurre uno esemplo moderno. Pre’Luca, uomo di Massimiliano, presente imperadore, parlando di suamaestà disse come e’ non si consigliava con persona, e non faceva mai dialcuna cosa a suo modo: il che nasceva dal tenere contrario termine alsopradetto. Perché lo imperadore è uomo secreto, non comunica li suadisegni con persona, non ne piglia parere; ma, come, nel metterli adeffetto, si cominciono a conoscere e scoprire, li cominciono ad esserecontradetti da coloro che lui ha d’intorno; e quello, come facile, se nestoglie. Di qui nasce che quelle cose che fa uno giorno, destrugge l’al-tro; e che non si intenda mai quello si voglia o disegni fare; e che non sipuò sopra le sua deliberazioni fondarsi.

Uno principe, pertanto, debbe consigliarsi sempre; ma quando luivuole e non quando vuole altri, anzi debbe tôrre animo a ciascuno di con-sigliarlo d’alcuna cosa, se non gnene domanda. Ma lui debbe bene esserelargo domandatore, e di poi circa le cose domandate paziente auditore delvero; anzi, intendendo che alcuno per alcuno respetto non gnene dica, tur-barsene. E perché molti esistimano che alcuno principe, il quale dà di séopinione di prudente, sia così tenuto non per sua natura ma per li buoniconsigli che lui ha d’intorno, sanza dubbio s’ingannano. Perché questa èuna regola generale che non falla mai: che uno principe, il quale non siasavio per sé stesso, non può essere consigliato bene, se già a sorte non sirimettessi in uno solo che al tutto lo governassi, che fussi uomoprudentissimo. In questo caso, potria bene essere, ma durerebbe poco, per-ché quello governatore in breve tempo li torrebbe lo stato. Ma, consiglian-dosi con più d’uno, uno principe che non sia savio non arà mai e’ consigliuniti, né saprà per sé stesso unirli; de’ consiglieri, ciascuno penserà alla

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proprietà sua; lui non li saprà correggere né conoscere. E non si possonotrovare altrimenti; perché gli uomini sempre ti riusciranno tristi, se da unanecessità non sono fatti buoni. Però si conclude che li buoni consigli, daqualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del principe, enon la prudenzia del principe da’ buoni consigli.

Capitolo XXIVCur Italiae principes regnum amiserunt.

Le cose soprascritte, osservate prudentemente, fanno parere, unoprincipe nuovo, antico e lo rendono subito più securo e più fermo nellostato, che se vi fussi antiquato drento. Perché uno principe nuovo è moltopiù osservato nelle sue azioni che uno ereditario; e quando le sono cono-sciute virtuose, pigliano molto più gli uomini e molto più gli obligano cheil sangue antico. Perché gli uomini sono molto più presi dalle cose presentiche dalle passate; e quando nelle presenti truovono il bene, vi si godono enon cercano altro; anzi, piglieranno ogni difesa per lui, quando non man-chi nelle altre cose a sé medesimo. E così arà duplicata gloria, di avere datoprincipio a uno principato nuovo, e ornatolo e corroboratolo di buonelegge di buone arme e di buoni esempli, come quello ha duplicata vergo-gna, che, nato principe, lo ha per sua poca prudenzia perduto.

E se si considerrà quelli signori che in Italia hanno perduto lo stato a’nostri tempi, come il re di Napoli, duca di Milano, e altri, si troverrà in loroprima, uno comune defetto quanto alle armi, per le cagioni che di sopra alungo si sono discorse; di poi, si vedrà alcuno di loro o che arà avuto inimici e’populi, o, se arà avuto el populo amico, non si sarà saputo assicurare de’ grandi:perché, sanza questi difetti, non si perdono li stati che abbino tanto nervo chepossino tenere uno esercito alla campagna. Filippo Macedone, non il padre diAlessandro, ma quello che fu vinto da Tito Quinto, aveva non molto stato,respetto alla grandezza de’ Romani e di Grecia che lo assaltò: nondimanco, peressere uomo militare e che sapeva intrattenere el populo e assicurarsi de’ grandi,sostenne più anni la guerra contro a quelli, e se alla fine perdé il dominio diqualche città, li rimase nondimanco el regno.

Pertanto, questi nostri principi, che erano stati molti anni nel princi-pato loro, per averlo di poi perso non accusino la fortuna, ma la ignavialoro: perché, non avendo mai ne’ tempi quieti pensato che possono mutarsi

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(il che è comune defetto degli uomini, non fare conto, nella bonaccia, dellatempesta), quando poi vennono i tempi avversi, pensorono a fuggirsi e nona defendersi; e sperorono che e’ populi, infastiditi dalla insolenzia de’ vinci-tori, gli richiamassino. Il quale partito, quando mancono gli altri, è buono;ma è bene male avere lasciati gli altri remedii per quello: perché non sivorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti ricolga; il che, o nonavviene, o, s’egli avviene, non è con tua sicurtà, per essere quella difesa sutavile e non dependere da te. E quelle difese solamente sono buone, sonocerte, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla virtù tua.

Capitolo XXVQuantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum.

È non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione chele cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gliuomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbinoremedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudaremolto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è sutapiù creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sonoviste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando,io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro.Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potereessere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma cheetiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quellaa uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani,ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono daquell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanzapotervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però chegli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimen-ti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano peruno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso.Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dovenon è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa chenon sono fatti gli argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete l’Italia, cheè la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedreteessere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi

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riparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, oquesta piena non arebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sareb-be venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo opporsi alla fortu-na, in universali.

Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questoprincipe felicitare, e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura oqualità alcuna. Il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sonolungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che si appoggiatutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che siafelice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’tempi, e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordanoe’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che li conducono al finequale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente,l’uno con respetto, l’altro con impeto, l’uno per violenzia, l’altro con arte;l’uno per pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diver-si modi vi può pervenire. Vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire alsuo disegno, l’altro no, e similmente dua equalmente felicitare con duadiversi studii, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasceda altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col proce-dere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando,sortiscono el medesimo effetto; e dua equalmente operando, l’uno si con-duce al suo fine, e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione delbene; perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e’ tempi e lecose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma,se li tempi e le cose si mutano, e’ rovina, perché non muta modo di proce-dere. Né si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo; sìperché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina; sì etiamperché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non sipuò persuadere partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando egli ètempo di venire allo impeto, non lo sa fare, donde rovina; che, se si mutassidi natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.

Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tantoe’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempresortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di Bologna, vivendoancora messer Giovanni Bentivogli. È Viniziani non se ne contentavano; elre di Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale im-

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presa; e nondimanco, con la sua ferocia e impeto, si mosse personalmente aquella espedizione. La quale mossa fece stare sospesi e fermi Spagna eViniziani; quelli per paura, e quell’altro per il desiderio aveva di recuperaretutto el regno di Napoli; e dall’altro canto si tirò drieto el re di Francia,perché, vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassaree’ Viniziani, iudicò non poterli negare le sua gente sanza iniuriarlo manife-stamente. Condusse, adunque, Iulio, con la sua mossa impetuosa, quelloche mai altro pontefice, con tutta la umana prudenzia, arebbe condotto:perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme etutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai liriusciva; perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse, e gli altri messomille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue azioni, che tutte sono statesimili, e tutte li sono successe bene. E la brevità della vita non gli ha lasciatosentire il contrario; perché, se fussino venuti tempi che fussi bisognatoprocedere con respetti, ne seguiva la sua ruina: né mai arebbe deviato daquelli modi a’ quali la natura lo inclinava.

Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando gli uomi-ni ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e,come discordano, infelici. Io iudico bene questo: che sia meglio essereimpetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario,volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia piùvincere da questi, che da quelli che freddamente procedano; e però sem-pre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, piùferoci e con più audacia la comandano.

Capitolo XXVIExhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam.

Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensandomeco medesimo se, al presente, in Italia correvano tempi da onorare unonuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente evirtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla universitàdegli uomini di quella; mi pare concorrino tante cose in benefizio di unoprincipe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se,come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populod’Isdrael fussi stiavo in Egitto; e a conoscere la grandezza dello animo di

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Ciro, ch’e’ Persi fussino oppressati da’ Medi e la eccellenzia di Teseo, che gliAteniesi fussino dispersi, così, al presente, volendo conoscere la virtù diuno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine cheella è di presente, e che la fussi più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e’ Persi,più dispersa che gli Ateniesi; sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata,lacera, corsa; ed avessi sopportato d’ogni sorte ruina.

E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, dapotere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si èvisto da poi, come, nel più alto corso delle azioni sue, è stato dalla fortunareprobato. In modo che, rimasa come sanza vita, aspetta qual possa esserequello che sani le sue ferite, e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle tagliedel Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungotempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che laredima da queste crudeltà ed insolenzie barbare, vedesi ancora tutta prontae disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci sivede, al presente, in quale lei possa più sperare che nella illustre casa vostra,quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla Chiesa, della qualeè ora principe, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia moltodifficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopranominati. E benchéquegli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimanco furono uomini, edebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente; perché la impresaloro non fu più iusta di questa, né più facile, né fu a loro Dio più amico chea voi. Qui è iustizia grande: iustum enim est bellum quibus necessarium, etpia arma ubi nulla nisi in armis spes est. Qui è disposizione grandissima; népuò essere, dove è grande disposizione grande difficultà pur che quella piglidegli ordini di coloro che io ho proposti per mira. Oltre di questo, qui siveggano estraordinarii sanza esemplo condotti da Dio: el mare si è aperto;una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovutola manna; ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovetefare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tôrre el libero arbitrio eparte di quella gloria che tocca a noi.

E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati Italiani non ha possutofare quello che si può sperare facci la illustre casa vostra; e se, in tanterevoluzioni di Italia e in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che inquella la virtù militare sia spenta. Questo nasce che gli ordini antiqui diessa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de’

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nuovi: e veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quan-to fa le nuove legge e li nuovi ordini trovati da lui. Queste cose, quandosono bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabi-le. E in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma; qui è virtùgrande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi. Specchiatevi ne’duelli e ne’ congressi de’ pochi, quanto gli Italiani sieno superiori con leforze, con la destrezza, con lo ingegno; ma, come si viene agli eserciti, noncompariscono. E tutto procede dalla debolezza de’ capi; perché quelli chesanno, non sono obediti, e a ciascuno pare di sapere, non ci sendo infino aqui alcuno che si sia saputo rilevare, e per virtù e per fortuna, che gli altricedino. Di qui nasce che, in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passativenti anni, quando egli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fattomala pruova. Di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua,Genova, Vailà, Bologna, Mestri.

Volendo, dunque, la illustre casa vostra seguitare quegli eccellentiuomini che redimerno le provincie loro, è necessario, innanzi a tutte le altrecose, come vero fondamento d’ogni impresa provvedersi d’arme proprie;perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati. Ebenché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori,quando si vedranno comandare dal loro principe e da quello onorare edintratenere. È necessario, pertanto, prepararsi a queste arme, per poterecon la virtù italica defendersi dagli esterni. E benché la fanteria svizzera espagnola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto, per ilquale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro ma confidaredi superarli. Perché li Spagnoli non possono sostenere e’ cavalli, e li Svizzerihanno ad avere paura de’ fanti, quando li riscontrino nel combattere ostinaticome loro. Donde si è veduto e vedrassi per esperienzia, li Spagnoli nonpotere sostenere una cavalleria franzese, e li Svizzeri essere rovinati da unafanteria spagnola. E benché di questo ultimo non se ne sia visto interaesperienzia, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna,quando le fanterie spagnole si affrontorono con le battaglie todesche lequali servono el medesimo ordine che le svizzere, dove li Spagnoli, conl’agilità del corpo e aiuti de’ loro brocchieri erano intrati, tra le picche loro,sotto e stavano securi a offenderli sanza che li Todeschi vi avessino remedio,e se non fussi la cavalleria che li urtò, gli arebbano consumati tutti. Puossi,adunque, conosciuto el difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordi-

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narne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti: ilche farà la generazione delle armi e la variazione degli ordini. E queste sonodi quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e grandezza a unoprincipe nuovo.

Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò chela Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimerecon quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patitoper queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede,con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbano? quali populigli negherebbano la obedienzia? quale invidia se gli opporrebbe? quale Ita-liano gli negherebbe l’ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio.Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto con quello animo econ quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la suainsegna, e questa patria ne sia nobilitata, e, sotto li sua auspizi, si verifichiquel detto del Petrarca:

Virtù contro a furoreprenderà l’arme, e fia el combatter corto;ché l’antico valorenell’italici cor non è ancor morto.