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Modelli e strumenti di insegnamento di Flavia Santoianni Il modello comportamentista e la ricetta nozione-imitazione Il modello cognitivista e la ricetta significato-elaborazione Il modello meta riflessivo e la ricetta gestione-riflessione Il modello contestuali sta e la ricetta mediazione-negoziazione Il modello culturalista e la ricetta esempio-responsabilità Il modello costruttivista e la ricetta guida-cambiamento Il modello comportamentista e la ricetta nozione-imitazione Il modello teorico Cosa pensa un insegnante comportamentista? Quali sono le sue caratteristiche comportamentali? Per un insegnante comportamentista l’apprendimento è una risposta a uno stimolo. Sollecitato da una stimolazione formativa, lo studente risponde. Si tratta di una attività di associazione tra uno stimolo e una risposta, tra un incentivo e un’abitudine condizionata. L’apprendimento è una forma di condizionamento e l’insegnamento serve a fare apprendere abitudini, attraverso le associazioni stimolo/risposta e la ripetizione. Gli studi sul comportamento nascono all’inizio del Novecento in opposizione alle indagini sulla mente attraverso le intuizioni personali e l’introspezione. La mente invece non può essere conosciuta perché è una scatola nera (black box). Ciò che possiamo analizzare di uno studente è l’insieme delle azioni che manifesta. Quindi è possibile valutarne solo i comportamenti direttamente osservabili. Questo modello non è elaborativo in quanto spiega come da uno stimolo si arrivi direttamente una risposta senza proprio considerare la mente. L’apprendimento è dunque un’associazione tra uno stimolo e una risposta. La stimolazione è esterna allo studente (insegnamento) mentre la risposta può variare a seconda delle reazioni individuali allo stimolo (apprendimento). I soggetti formano un personale repertorio comportamentale di abitudini condizionate. Se l’apprendimento è un condizionamento e forma abitudini, l’ambiente esterno a chi apprende ne condiziona i processi. L’apprendimento varia allora in funzione delle opportunità di imparare? Nasce l’idea che l’ambiente definisca le condizioni e le opportunità per imparare. In ambito formativo, questo aspetto ha influenzato nel tempo il senso di responsabilità di chi organizza, gestisce e sostiene un ambiente di apprendimento. In effetti, l’apprendimento non varia soltanto in funzione delle opportunità di imparare. Le variabili endogene, non esogene — ad esempio le variabili relative alla singolarità individuale — qui non vengono considerate. Se invece l’apprendimento è un condizionamento, ogni aspetto del comportamento può essere acquisito dall’ambiente, tranne i riflessi innati e le emozioni primarie. L’individuo è una spugna che assorbe dall’ambiente, all’interno del circolo tra insegnamento, apprendimento, condizionamento e comportamento. In questo circolo, la motivazione all’apprendimento è intrinseca o estrinseca? In altre parole, si sviluppa in modo autonomo nel soggetto che apprende oppure è acquisita dallo studente in relazione alle possibilità di imparare che gli vengono offerte? In questo modello la motivazione non precede l’apprendimento ma ne consegue, cioè si sviluppa solo in conseguenza di stimolazioni esterne. L’apprendimento è regolato da motivazioni estrinseche relative a fattori indipendenti dall’individuo. La responsabilità di motivare gli alunni allo studio è dell’insegnante. Si tratta infatti di un modello teacher centred. Questo modello focalizza l’attenzione sulla figura docente come trasmissiva, mentre il ruolo

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Modelli e strumenti di insegnamento di Flavia Santoianni

Il modello comportamentista e la ricetta nozione-imitazione

Il modello cognitivista e la ricetta significato-elaborazione

Il modello meta riflessivo e la ricetta gestione-riflessione

Il modello contestuali sta e la ricetta mediazione-negoziazione

Il modello culturalista e la ricetta esempio-responsabilità

Il modello costruttivista e la ricetta guida-cambiamento

Il modello comportamentista e la ricetta nozione-imitazione

Il modello teorico Cosa pensa un insegnante comportamentista? Quali sono le sue caratteristiche comportamentali? Per un insegnante comportamentista l’apprendimento è una risposta a uno stimolo. Sollecitato da una stimolazione formativa, lo studente risponde. Si tratta di una attività di associazione tra uno stimolo e una risposta, tra un incentivo e un’abitudine condizionata. L’apprendimento è una forma di condizionamento e l’insegnamento serve a fare apprendere abitudini, attraverso le associazioni stimolo/risposta e la ripetizione. Gli studi sul comportamento nascono all’inizio del Novecento in opposizione alle indagini sulla mente attraverso le intuizioni personali e l’introspezione. La mente invece non può essere conosciuta perché è una scatola nera (black box). Ciò che possiamo analizzare di uno studente è l’insieme delle azioni che manifesta. Quindi è possibile valutarne solo i comportamenti direttamente osservabili. Questo modello non è elaborativo in quanto spiega come da uno stimolo si arrivi direttamente una risposta senza proprio considerare la mente. L’apprendimento è dunque un’associazione tra uno stimolo e una risposta. La stimolazione è esterna allo studente (insegnamento) mentre la risposta può variare a seconda delle reazioni individuali allo stimolo (apprendimento). I soggetti formano un personale repertorio comportamentale di abitudini condizionate. Se l’apprendimento è un condizionamento e forma abitudini, l’ambiente esterno a chi apprende ne condiziona i processi. L’apprendimento varia allora in funzione delle opportunità di imparare? Nasce l’idea che l’ambiente definisca le condizioni e le opportunità per imparare. In ambito formativo, questo aspetto ha influenzato nel tempo il senso di responsabilità di chi organizza, gestisce e sostiene un ambiente di apprendimento. In effetti, l’apprendimento non varia soltanto in funzione delle opportunità di imparare. Le variabili endogene, non esogene — ad esempio le variabili relative alla singolarità individuale — qui non vengono considerate. Se invece l’apprendimento è un condizionamento, ogni aspetto del comportamento può essere acquisito dall’ambiente, tranne i riflessi innati e le emozioni primarie. L’individuo è una spugna che assorbe dall’ambiente, all’interno del circolo tra insegnamento, apprendimento, condizionamento e comportamento. In questo circolo, la motivazione all’apprendimento è intrinseca o estrinseca? In altre parole, si sviluppa in modo autonomo nel soggetto che apprende oppure è acquisita dallo studente in relazione alle possibilità di imparare che gli vengono offerte? In questo modello la motivazione non precede l’apprendimento ma ne consegue, cioè si sviluppa solo in conseguenza di stimolazioni esterne. L’apprendimento è regolato da motivazioni estrinseche relative a fattori indipendenti dall’individuo. La responsabilità di motivare gli alunni allo studio è dell’insegnante. Si tratta infatti di un modello teacher centred. Questo modello focalizza l’attenzione sulla figura docente come trasmissiva, mentre il ruolo

dell’alunno è di acquisizione passiva. Chi insegna trasmette e chi apprende usa procedure imitative. L’apprendimento avviene attraverso forme di apprendistato in cui lo studente prova a riprodurre associazioni e abitudini che gli sono state insegnate. Lo studente riceve l’informazione trasmessa e cerca di rifarsi all’esempio che ha avuto. Ognuno può apprendere se gli si mostra come e che cosa dovrebbe imparare. La conoscenza procedurale (know how, “come fare”) è simile alla conoscenza proposizionale (know that, “sapere che”). Nel modello comportamentista si tende a precostituire un’aspettativa di risultato comune a tutti gli studenti; uno standard di mastery performance che ci si aspetta possa essere raggiunto da tutti. Si pensa che la maggior parte degli studenti sia in grado di acquisire la padronanza di ogni materia. Il concetto implicito è che tutti possano imparare tutto in tutti i modi. Data una stimolazione iniziale, tutti possono e devono apprendere. Se non tutti riescono allo stesso modo, il difetto è da attribuire alla stimolazione. Non si prendono, invece, in considerazione le storie dei percorsi di formazione e le diversità individuali che ogni alunno presenta al suo ingresso nell’istituzione scolastica.

La ricetta applicativa Nella ricetta nozione-imitazione, chi insegna trasmette informazioni nozionistiche, da imparare senza rielaborazione critica. Ognuno può imparare qualsiasi cosa se gliela si mostra. Lo studente attiva infatti procedure imitative durante l’apprendimento. Scopo dell’insegnamento è condizionare l’apprendimento attraverso associazioni stimolo-risposta, acquisizione di abitudini, modifiche del comportamento. L’insegnamento prende la forma di una modalità di controllo. La classe va tenuta sotto controllo con stimoli specifici, gesti convenzionali quasi sempre associabili alle stesse risposte. Per esempio, battere le mani sulla cattedra è un gesto che ricorda la richiesta di fare silenzio in una classe rumorosa. Aprire il registro fa riferimento all’idea di interrogare. Se il docente si avvicina alla lavagna indica di volere cominciare una spiegazione. Il docente, accorgendosene o senza accorgersene, fa uso di una serie di gesti convenzionali. In pratica, è possibile individuare alcuni atteggiamenti abitudinari dell’insegnante che in genere condizionano il comportamento degli studenti. Per ottenere attenzione e silenzio, si battono le mani, ci si alza in piedi e si impone la propria figura corporea, si scende dalla cattedra e si avanza verso la classe. Si ripetono parole chiave ad alta voce: “basta”, “fuori” e, appunto, “silenzio”. In tutti questi casi, l’insegnante si aspetta che il condizionamento attraverso abitudini incentivi negli studenti risposte comportamentali disciplinate. Questa ricetta attribuisce alle stimolazioni, intese come rinforzi esterni strutturati dall’ambiente di apprendimento, la funzione di modellaggio dei comportamenti. Ciò può avvenire anche attraverso elogi e riconoscimento di meriti, funzioni socialmente condivise all’interno della classe. Lo stesso meccanismo può valere per la punizione degli errori. Si tratta di un punto controverso, perché la punizione può rappresentare un rinforzo di comportamenti già acquisiti. I docenti sono coinvolti in forme di revisione del proprio insegnamento eterodirette, cioè dipendenti da fattori esterni a sé, quali la valutazione di colleghi o di superiori. Solo più tardi, nei modelli successivi, la valutazione del proprio operato sarà autodiretta. La revisione sociale dei comportamenti è un aspetto che coinvolge la sfera emotiva e si associa all’elaborazione cognitiva. Ambedue le componenti — emotiva e cognitiva — sono legate tra loro nell’apprendimento. Le risposte emotive e cognitive si imparano attraverso gli stessi processi e insieme influenzano la resa soggettiva di ogni singolo studente. In questa ricetta, si pensa che gli stati emotivi giochino a favore dell’apprendimento, anche se si tratta di stati emotivi ansiosi. La tensione emotiva può stimolare negli studenti una sorta di “potenziamento cognitivo”. Il timore ansioso per un’interrogazione orale, una verifica scritta, un esame imminente alla fine dell’anno può indurre maggiore attenzione, studio, completezza nella preparazione. La strumentalizzazione degli stati emotivi ansiosi è considerata necessaria alla gestione della

classe, ad esempio scorrere la penna sul registro prima di interrogare. L’uso strumentale delle emozioni può tuttavia avere effetti negativi sul rapporto adattivo tra studente e ambiente di apprendimento, come sarà messo in luce da studi successivi. L’apprendimento può essere considerato il risultato di un condizionamento che consiste in abitudini acquisite nelle interazioni con l’ambiente. Ciò non toglie che il processo di formazione possa avere tra i suoi obiettivi insegnare l’autocontrollo, l’automodellaggio, l’autoshaping. Infatti lo studente ideale è quello che reagisce positivamente alle stimolazioni ambientali. L’interiorizzazione delle stimolazioni gli consente di raggiungere lo standard di mastery performance predefinito. Il condizionamento dello studente diviene controllo su se stesso per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Lo studente che si autocontrolla si autoregola e diviene autonomo nello studio. Di conseguenza, l’eventuale aiuto che gli alunni possono ricevere a casa rappresenta un potenziale ostacolo al raggiungimento dell’autonomia personale. Altri modelli, invece — come quelli culturalisti e contestualisti — evidenziano il ruolo di molti fattori, distali e prossimali, nell’apprendimento. Tra i fattori contestualmente più vicini allo studente possono esservi le sollecitazioni culturali dell’ambiente nel quale si sviluppa. Queste spesso si veicolano proprio attraverso l’aiuto nello svolgimento di alcuni compiti. In questa ricetta l’apprendimento è un processo di integrazione di informazioni che ogni studente mette a punto nel suo percorso di crescita in modo sequenziale. Si attua per piccoli passi, dei quali ognuno ha lo stesso valore del precedente e del successivo. Si tratta di una sequenza del tipo 1 + 1 + 1 ..., dove il punto iniziale e quello finale hanno lo stesso valore, la stessa difficoltà. Il percorso di insegnamento va diviso in brevi unità che rappresentano serie di passaggi successivi. In questa ricetta occorre programmare la didattica secondo indicatori espliciti predefiniti all’inizio del percorso di formazione. E necessaria la chiarezza sugli argomenti da insegnare e sugli obiettivi da conseguire. Si ha inoltre bisogno di parametri certi per potere valutare se uno studente è preparato. Come si fa per sapere se ha studiato? Lo studente manifesta se ha studiato. In altre parole, si può valutare se uno studente è preparato se lo esprime, con le parole e/o i comportamenti. Nella ricetta nozione-imitazione l’insegnante si aspetta che lo studente mostri tutto ciò che sa. Non si può valutare positivamente uno studente che ha studiato un argomento ma non sa spiegarlo, non si esprime bene oppure si è intimidito nell’esposizione. Se lo studente “parla” — se alza la mano per fare domande — allora sarà studioso, perché manifesterà apertamente di avere studiato. Gli studenti dovrebbero essere interrogati subito dopo la spiegazione. Non è necessario lasciare alcun momento di riflessione e/o di interiorizzazione personale a chi apprende perché rielabori le informazioni ricevute. Se la classe viene sollecitata da uno stimolo, ne dovrebbe seguire una risposta. La ricetta prevede infatti che l’insegnante controlli subito se allo stimolo segue la risposta. Si possono effettuare verifiche immediate per monitorare se lo studente è stato attento e se ha capito. Le risposte sono considerate manifestazioni del comportamento proprio in quanto osservabili dall’esterno. Lo studente bravo è quello che “fa capire” di avere studiato. In questa interpretazione, lo studente che risponde subito alla domanda ricevuta, che parla velocemente nell’esposizione orale, che non perde il filo se viene interrotto, viene qualificato come studioso. Se, invece, indugia a riflettere prima di rispondere, se parla lentamente, se si blocca e si ferma a pensare, è probabile che non abbia studiato. Le risposte degli studenti, d’altra parte, sono sempre apprese dall’esterno, cioè sono il risultato delle stimolazioni offerte dall’ambiente di apprendimento. L’insegnante risulta particolarmente coinvolto e responsabilizzato in questo processo. Nella ricetta l’apprendimento si rinforza attraverso l’esercizio che tende, con la ripetizione, a consolidare le risposte correttamente apprese. A questo scopo, interrogare subito dopo la spiegazione può essere un azione preventiva per evitare incomprensioni e inesattezze. Nello stesso tempo può contribuire a impedire la formazione di “lacune”, cioè di “salti” nella sequenza degli apprendimenti. La ricetta nozione-imitazione prevede infine che il tempo per apprendere sia ridotto e ottimizzato. La quantità di tempo necessaria a svolgere il compito è data dalla media dei risultati

usualmente ottenuti dalla classe. Tutti possono apprendere tutto, in tutti i modi e nello stesso tempo.

Il modello cognitivista e la ricetta significato-elaborazione

Il modello teorico Nel modello cognitivista, l’apprendimento è considerato una forma di elaborazione gestita da processi mentali. Il passaggio interpretativo che qui si mette in luce consiste nell’avere riconosciuto la presenza dei fenomeni mentali. Questi fenomeni, pur non essendo del tutto indagabii e comunque non indagabili con certezza attraverso indagini scientifiche, vengono tuttavia presi in considerazione per un’analisi dei meccanismi della mente. All’interno della formula classica stimolo-risposta, ideata dal comportamentismo, viene innestata la variabile organismo. Per questo motivo, la formula stimolo-risposta diviene stimolo-organismo-risposta. Il modello di paragone è il computer, l’analogia è tra la mente e il computer. In altre parole, se il computer ha un funzionamento analogo a quello della mente, allora sarà possibile studiare la mente attraverso il computer, riproducendola e simulandola con esso. Uno stimolo, il cosiddetto input, per usare una terminologia computazionale, sollecita l’organismo, al cui interno si attivano i meccanismi della mente e vengono elaborate le informazioni. Al termine del processo elaborativo, l’organismo produce una risposta comportamentale —output — che sarà la risultante dei processi di apprendimento. L’apprendimento è dunque un processo elaborativo; l’information processing, cioè l’elaborazione delle informazioni, è un concetto che implica la coesistenza, all’interno di ogni sistema cognitivo, di più funzioni gestite da componenti diverse tra loro che lavorano in modo gerarchico. Ciò significa che ogni componente del sistema è legata a un’altra, secondo una sequenza di attivazione che non è variabile, è composta da più aspetti e presiede all’elaborazione delle informazioni. La stimolazione percettiva che proviene dall’ambiente viene filtrata dal soggetto attraverso processi selettivi che vengono chiamati processi di codifica perché il soggetto che li attiva traduce le informazioni che riceve dall’esterno utilizzando i propri codici interpretativi. Se un soggetto non traduce in modo personale quanto ha selezionato oppure la traduzione non avviene in modo efficace potrà esserci un problema in ingresso o nel corso dell’elaborazione da prendere in considerazione.

Le informazioni — una volta selezionate, tradotte e codificate dal soggetto che apprende — prendono la forma di “rappresentazioni mentali”. Le rappresentazioni mentali consistono in simboli, linguistici e numerici, che costituiscono il patrimonio cognitivo di ciascuno.

Il modello cognitivista computazionale dell’apprendimento ha influenzato l’idea di senso comune che la mente elabori informazioni in modo astratto e si esprima attraverso rappresentazioni.

Tuttavia spesso sono proprio gli aspetti non rappresentazionali della mente, come ad esempio il linguaggio corporeo, a esprimerne idee, teorie e concetti. In ogni modo, in questo modello vengono messi a fuoco i processi attraverso i quali la mente elabora le informazioni sino a personalizzarle in rappresentazioni soggettive mentali e astratte.

I dati elaborati dalla mente vengono archiviati in due memorie, a breve termine e a lungo termine, che presiedono al recupero delle informazioni e servono al sistema per gestire la pianificazione delle risposte. Il sistema cognitivo cioè si garantisce attraverso gli archivi delle memorie di poter rispondere a un compito sia nel momento in cui viene chiesto di farlo sia in un momento successivo.

Al pari di un computer, in questo modello la mente viene considerata un sistema a capacità limitata, cioè un sistema “contenitore” che può racchiudere in sé un numero predefinito di informazioni.

È opportuno riflettere su come sia differente una considerazione della mente come analoga al computer da un’interpretazione della mente come correlata al cervello. Il cervello ha infatti capacità strutturali e funzionali che non sono del tutto quantificabili e misurabili e non hanno un limite precisamente definito come quello dell’unità operativa di un computer.

Da un punto di vista quantitativo, è possibile valutare attraverso test le potenzialità intellettive della mente. Più complesso è il punto di vista qualitativo, che si propone di individuare la composizione strutturale e funzionale della mente.

Da un punto di vista quantitativo, l’interpretazione della mente nel modello cognitivista può essere definita come semplicistica e riduttiva, eppure serve — ed è servita molto, come supporto di orientamento ai processi di insegnamento — perché, in linea generale, vedere la mente quale sistema a capacità limitata può aiutare a interagire in modo semplice con il sistema operativo stesso, inteso come contenitore. In particolare, si tratta di un sistema che si attiva ed elabora informazioni utilizzando regole predefinite, cioè regole che sono preliminari alle diverse fasi operative. In altre parole, l’insegnamento di un dato argomento può seguire un iter ben predefinito: prima vengono spiegate tutte le regole, poi si lascia che gli studenti le mettano in pratica. Come il computer elabora le informazioni in modo sequenziale e gerarchico, almeno per quanto riguarda il modello computazionale classico, anche l’apprendimento sarà allora interpretato come una sequenza crescente di acquisizione di informazioni. Questo concetto è in effetti simile all’idea comportamentista che l’apprendimento sia una sequenza di passaggi; tuttavia, in questo caso, si tratta di una sequenza crescente e non più di una somma. Si va, cioè, dal semplice al complesso e i singoli passaggi sono tra loro differenti per intensità e per difficoltà. Diversamente, nel modello comportamentista, la sequenza di passaggi comportava che ognuno di essi fosse calibrato allo stesso modo. La considerazione sequenziale del processo di apprendimento, dal semplice al complesso, ha consolidato nel tempo la cosiddetta visione ascensionale della conoscenza. Questa visione, diffusa nel mondo occidentale insieme all’idea che la mente sia governata dalla ragione al di là dell’emozionalità, della corporeità e dell’organismicità, interpreta l’apprendimento come un processo lineare che progredisce in senso crescente dai percetti ai concetti, dalla percezione alla concettualizzazione. In questo modello la mente è intesa come un elaboratore razionale di informazioni, definito da regole e in grado di operare astrazioni sempre più complesse. Gli apprendimenti avvengono in modo sequenziale e, differentemente dal modello comportamentista, per essere efficaci devono veicolare specifiche unità di significato. Dall’acquisizione di informazioni si passa infatti alla gestione di unità di significato, facilmente memorizzabili proprio perché compattate intorno a concetti particolarmente significativi. L’apprendimento stesso deve essere significativo, in quanto prodotto da un elaboratore razionale, la mente. La mente tuttavia ha una propria dimensione che ne definisce le potenzialità elaborative, rappresentative ed espressive. Non è più una scatola nera, come nel modello comportamentista, ma è pur sempre una scatola, un contenitore le cui dimensioni sono prestabilite. Una scatola apribile, cioè indagabile, stavolta, in quanto l’interesse della ricerca cognitivista è proprio quello di scoprire cosa c’è dentro e come funziona; quali componenti — come quelle elettroniche di un computer — ne rappresentano gli ingranaggi.

La ricetta applicativa Nella ricetta significato-elaborazione, chi insegna veicola unità di significato, chi impara le rielabora in modo autonomo e personale. La mente è considerata, come l’hard disk di un computer, un sistema operativo a capacità limitata, un contenitore, una scatola non più "nera" e non conoscibile (come nel modello comportamentista) bensì apribile e aperta: si pensi alla comune metafora dei cassetti della memoria. Scopo dell’insegnamento è indagare quante informazioni possono entrare nel “contenitore mente” e come sia possibile farle entrare in modo che le informazioni stesse siano individualmente decodificate e comprese, rielaborate e memorizzate. Uno dei problemi più ricorrenti dell’insegnante cognitivista è quello di misurare la quantità di informazioni che possono essere apprese. Il presupposto è che fornire troppe informazioni può generare confusione, mentre offrirne poche può demotivare gli studenti. L’insegnante deve dunque “calibrare” il numero di informazioni che può veicolare nel tempo a sua disposizione. Il fatto stesso che l’insegnante si ponga il problema di calibrare le informazioni da erogare in classe è un punto di vista che rivela di per sé un’intenzione di predefinire il rapporto con la classe e di generalizzare in modo standardizzato l’offerta formativa. Il nodo di discussione a questo proposito è se sia davvero possibile nel concreto definire in anticipo la quantità di informazioni da proporre nell’ambito di una singola sessione di apprendimento. Questo fattore va messo in diretta corrispondenza con il feedback che chi apprende produce

continuamente mentre impara. La programmazione dell’offerta formativa ha infatti un potenziale carattere di dinamicità in continua trasformazione, per il quale la programmazione stessa varia tendenzialmente non soltanto a seconda delle esigenze degli studenti, ma soprattutto in relazione alle risposte che gli studenti elaborano nel corso del loro personale itinerario di apprendimento. Per quanto riguarda invece il problema circa le modalità attraverso le quali è possibile inserire le informazioni nel “contenitore mente”, il percorso di insegnamento delineato prevede che la trasmissione avvenga in modo graduale, attraverso sequenze di istruzioni. A differenza della ricetta precedente, le sequenze di istruzioni sono strutturate gerarchicamente, dal semplice al complesso, cosicché il soggetto è coinvolto in un crescendo — sequenziale e lineare — di richieste apprenditive e interpretative. Il soggetto che apprende elabora, rielabora e memorizza continuamente le informazioni; con il passare del tempo, acquisisce conoscenze e competenze sempre più complesse, anche perché si vanno a innestare sulle informazioni precedentemente acquisite; diviene così in grado di gestire un carico sempre maggiore di dati, seppure nei limiti predefiniti. Questa specifica caratteristica della ricetta significato-elaborazione, cioè insegnare i contenuti dal semplice al complesso, viene inaugurata con il modello cognitivista e ha avuto un lungo successo nell’orientare l’insegnamento. Tuttavia non è incontrovertibile: anche offrire agli studenti in ingresso, all’inizio del percorso di apprendimento, informazioni molto strutturate — e spiegare in un secondo momento come dall’analisi di un punto di vista complesso ne possano scaturire gli aspetti più semplici che lo caratterizzano — è una metodologia operativa che può rivelarsi efficace. L’idea che sia opportuno procedere nell’insegnamento dal semplice al complesso è strettamente legata a una considerazione dell’apprendimento come processo ascensionale, sequenziale e lineare. In questo senso, le informazioni inizialmente fornite devono essere “di base”. Questo aspetto comporta due implicazioni. La prima riguarda il passaggio dal pensiero concreto a quello astratto. Quanto più gli studenti sono all’inizio del proprio percorso di studi, la programmazione prevede spesso l’utilizzo del gioco nell’apprendimento e il coinvolgimento corporeo di chi apprende; gradualmente lo studio diviene più astratto e, in modo inversamente proporzionale alla crescita dello studente, la dimensione organismica riveste sempre minore importanza. Il rapporto “corporeo” del soggetto che apprende con la materia di studio, l’incorporamento e la situatività della conoscenza vengono sotto-valutati nella ricetta significato-elaborazione. Se la mente è paragonata a un computer, le cui funzioni elaborative sono razionali e astratte, il legame con la concretezza della persona che apprende, in quanto organismo, o della situazione di apprendimento, in quanto ambiente in una specifica dimensione spaziale e temporale, diviene più debole rispetto ad altri modelli di insegnamento. La seconda implicazione riguarda la nascita di idee, teorie e concetti in rapporto ai percetti. Il problema è se si tratti di un percorso unidirezionale, organizzato in modo gerarchico dalla percezione alla concettualizzazione, oppure se i due livelli interagiscano reciprocamente in modo continuo e interdipendente. Per comprendere il problema occorre riflettere sul rapporto tra acquisizione sensoriale di un’informazione ed elaborazione concettuale della stessa. Tradizionalmente questi due momenti vengono considerati l’uno antecedente all’altro: in altre parole, prima si percepisce un dato e successivamente lo si elabora. Questa considerazione ha portato a credere che la percezione sia essenzialmente e soltanto un processo di primo livello e che la formazione di concetti sia uno specifico processo di secondo livello la cui attivazione dipende in modo sequenziale dal livello della percezione.

La ricerca in ambito neuroscientifico ha tuttavia mostrato come i livelli primari della percezione, come ad esempio la corteccia sensoriale, siano essi stessi in grado di acquisire, elaborare e memorizzare informazioni — si pensi alla memoria sensoriale — comportandosi così alla pari di processi cognitivi di livello superiore.

Nello stesso tempo la ricerca in ambito psicologico ha mostrato come la formazione di concetti non dipenda necessariamente da un incremento progressivo di conoscenze a partire da un nucleo di base. La formazione di concetti può infatti avvenire anche per cambiamento concettuale, cioè attraverso la subitanea integrazione di più elementi già presenti nel sistema cognitivo come patrimonio teorico individuale e non invece acquisiti nel tempo dall’interazione

sensoriale con l’ambiente. Ritornando al problema dell’insegnante circa le modalità da utilizzare per inserire le

informazioni nel “contenitore mente”, un punto nodale della ricetta significato-elaborazione è appunto l’idea di attribuire significati specifici ai contenuti di apprendimento.

I contenuti di apprendimento infatti possono essere memorizzati soltanto se vengono pienamente compresi, cioè interpretati e approfonditi nel loro specifico significato. Ciò implica d’altra parte che i contenuti stessi vengano semplificati e compattati in unità didattiche contraddistinte proprio dai significati che si propongono di esprimere.

Il percorso formativo ne risulta distinto e definito in diversi moduli, le unità didattiche appunto, che non veicolano necessariamente la stessa quantità di informazioni, come nella ricetta trasmissione-imitazione, quanto piuttosto si distinguono tra loro per i significati specifici che veicolano come particolare bagaglio formativo organizzato in quantità crescenti di informazioni.

Perché dunque un’informazione sia memorizzata a lungo termine e si stabilizzi come acquisizione cognitiva di lunga durata occorre che lo studente ne comprenda a fondo i nessi interpretativi e le qualità significative. Occorre anche però che lo studente elabori tali nessi e qualità e sia in grado di produrre risposte cognitive appropriate.

In altre parole, affinché si completi in modo efficace il processo di elaborazione che caratterizza la comprensione stessa, lo studente deve mostrare di sapere interpretare i significati, cioè di rielaborarli in modo autonomo e personale. La rielaborazione personale rappresenta infatti la prova che i dati acquisiti siano stati compresi in modo significativo e quindi memorizzati a lungo termine.

In questo senso possono esservi diverse prove dell’avvenuto apprendimento. Una di esse è la capacità dello studente di produrre domande circa gli argomenti da apprendere. Nella ricetta significato-elaborazione, la domanda non rappresenta una reazione allo stimolo formativo, come nella ricetta nozione-imitazione, quanto piuttosto l’indizio che lo studente ha interiorizzato le informazioni ricevute, le ha fatte proprie e può riflettere attivamente su di esse. La produzione di domande da parte dello studente va tuttavia considerata alla luce di due differenti aspetti; i tempi e i modi attraverso i quali ogni soggetto apprende e quindi elabora le risposte agli stimoli formativi. Per quanto riguarda i tempi di apprendimento, dall’elaborazione/rielaborazione di un argomento, cioè dalla riflessione personale e approfondita su di esso, può scaturire una domanda da parte dello studente, ma non è detto che avvenga subito dopo — o in diretta corrispondenza con — la percezione della stimolazione, a testimonianza dell’avvenuto apprendimento. L’elaborazione/rielaborazione cognitiva può richiedere tempi lunghi, diacronici rispetto all’offerta formativa, e può avvenire in modo implicito. Può capitare di ripensare dopo qualche giorno a informazioni ricevute in precedenza e trovarne improvvisamente il senso, mentre spesso agli studenti si chiede che il processo di “ripensamento” avvenga in modo immediato; ad esempio, far nascere una discussione subito dopo la visione di un film. Per quanto riguarda i modi dell’apprendere, questi sono strettamente interrelati alle modalità espressive che manifestano l’avvenuta acquisizione di idee, teorie e concetti. Se la modalità linguistica non è la preferita, per motivi che possono riguardare sia la sfera cognitiva, sia la sfera emozionale, la possibile espressione di una domanda da parte di uno studente potrebbe non emergere affatto. Occorre dunque prestare attenzione alla considerazione implicita secondo la quale se uno studente pone domande allora è intelligente/studia bene mentre in caso contrario non è uno studente bravo oppure non ha compreso l’argomento. Può darsi infatti che si tratti di uno studente che necessita di maggiore tempo per fare propria la lezione oppure di uno studente che non privilegia la modalità espressiva linguistica. Se la capacità di fare domande non può essere considerata di per sé una prova dell’avvenuto apprendimento, ci si chiede quali altre prove possano essere prese in considerazione nella ricetta significato-elaborazione. In particolare, si può fare riferimento ai modi attraverso i quali ogni soggetto elabora in maniera specifica e singolare i concetti da acquisire. Perché un concetto sia conservato nella memoria a lungo termine e quindi rappresenti in se stesso un apprendimento avvenuto, è necessario che lo studente ne abbia compreso a fondo il significato originario, lo abbia ristrutturato e gli abbia attribuito un significato proprio, a carattere personale.

Per questo motivo, l’insegnante cognitivista utilizza la frase stereotipata “non è farina del tuo

sacco”. Si presume infatti che lo studente abbia un “sacco” personale — in questo caso, la mente come contenitore — e che una garanzia dell’avvenuto apprendimento sia proprio la produzione autonoma di farina da quello stesso sacco.

L’idea che gli apprendimenti significativi siano quelli strutturati nella memoria a lungo termine distingue questa ricetta dalla precedente. Mentre infatti nella ricetta nozione-imitazione le informazioni acquisite venivano continuamente ripetute affinché potessero essere conservate il più a lungo possibile, nella ricetta significato-elaborazione invece l’obiettivo di ottenere apprendimenti duraturi si persegue attraverso la stabilizzazione nel tempo delle informazioni nella memoria a lungo termine.

Per questo motivo lo studente viene messo alla prova nel lungo periodo e, una volta interrogato, deve saper rispondere non soltanto della lezione del giorno, ma anche delle precedenti; in altre parole, deve potere essere preparato su quanto ha acquisito: se si tratta di apprendimenti effettivamente avvenuti, si tratta anche di apprendimenti significativi, quindi strutturati nella memoria a lungo termine e richiamabili in qualsiasi momento nella loro immediatezza.

Questo aspetto svincola la valutazione degli apprendimenti dalla contingenza dell’interrogazione; volendo, sono consentite e intenzionalmente predisposte le interrogazioni programmate, attraverso le quali lo studente può organizzare il proprio ritmo di studio in modo continuo, senza lasciare che si formino “zone d’ombra” negli apprendimenti.

D’altra parte, così come allo studente viene permesso di potere usufruire delle interrogazioni programmate, nello stesso tempo gli si chiede di rispondere sul programma in un modo asincrono, cioè la sessione di verifica, separata dalla fase di acquisizione, può riguardare apprendimenti avvenuti in qualsiasi altro momento.

Un altro aspetto da tenere in considerazione riguarda l’organizzazione linguistica dei concetti. La ricetta significato-elaborazione mette in luce come il processo di comprensione, di elaborazione e di memorizzazione avvenga attraverso il linguaggio. Il modello cognitivista focalizza l’attenzione sulla gestione dei simboli, aspetto questo che sarà conservato anche da alcuni modelli del postcognitivismo.

La gestione dei simboli linguistici ha infatti dato luogo alla nascita del concetto di rappresentazione mentale come la risultante dei processi di codifica e di traduzione simbolica dei linguaggi. Come si è detto il processo elaborativo delle informazioni, che presiede alla strutturazione degli apprendimenti, si basa sulla selezione e successivamente sulla codifica degli input, cioè delle stimolazioni esterne al sistema stesso. La codifica di un input significa che il sistema cognitivo, per poter interiorizzare un’informazione, deve prima codificarla, cioè tradurla nel proprio linguaggio, nel sistema di simboli che riesce a padroneggiare.

In altre parole, il sistema cognitivo tenta di dare alle informazioni che riceve una “forma” simbolica e, in questo modello, prevalentemente linguistica al suo interno che può esprimersi appunto come una rappresentazione mentale, cioè la codifica linguistica di un’informazione appresa. Si pensi ad esempio agli script, ai frame ecc., cioè a tutte quelle interpretazioni che in ambito cognitivista hanno cercato di definire le possibili espressioni linguistiche delle rappresentazioni mentali: come un testo, un copione teatrale, una cornice interpretativa ecc.

Si è detto che nel modello cognitivista l’apprendimento è considerato un processo prevalentemente di comprensione piuttosto che di memorizzazione, perché si basa soprattutto sulla capacità elaborativa e rielaborativa individuale; o, meglio, che i processi di memorizzazione dipendono da quelli della comprensione e, in particolare, della comprensione significativa.

Nella ricetta significato-elaborazione, di conseguenza, ci si chiede se le informazioni, per essere comprese e memorizzate in modo significativo, debbano essere offerte in modo singolare e relativo alle modalità di apprendimento di ciascun soggetto, oppure possano ancora seguire le direzioni generali e univoche proprie dell’insegnamento nella ricetta nozione-imitazione.

In altre parole, le modalità di insegnamento possono e/o devono essere individualmente differenziate?

Uno degli aspetti che maggiormente qualificano questa ricetta e che ha contribuito in modo rilevante a riformulare la teoria della didattica è stato il ripensamento di un approccio univoco e unidirezionale all’insegnamento, in favore di approcci differenziati e multivariati.

Infatti, mentre precedentemente si pensava che la valutazione potesse riguardare soltanto la “quantità” dell’intelligenza di uno studente, per esempio attraverso le scale del quoziente di intelligenza, con la ricetta significato-elaborazione si considera invece come — e non solo quanto

— un individuo può essere intelligente. Valutare questo aspetto significa inaugurare una corrente di pensiero che implica proprio la

possibile “componibilità” del sistema cognitivo, che per la prima volta viene interpretato come differenziato al suo interno e distinto in una pluralità di aspetti. Questi aspetti tuttavia non riguardano soltanto la sfera percettiva, seppure possono investirla: riguardano anche la sfera elaborativa. In altre parole, non ci si chiede soltanto se uno studente per imparare preferisca ascoltare una lezione, favorendo la modalità uditiva, oppure leggere un libro e/o visualizzare i contenuti da apprendere, attraverso modalità differenti di visualizzazione grafica. Non ci si chiede soltanto se sia opportuno lasciare che lo studente si muova oppure manipoli qualcosa mentre apprende. Ci si chiede quali possano essere le modalità preferenziali attraverso le quali ciascuno studente riesce ad apprendere nel modo migliore. Nello stesso tempo, queste stesse modalità vengono analizzate in relazione alle ipotesi sul tipo di intelligenza che quel soggetto può avere e si valutano le caratteristiche distintive e integrative tra le varie qualità dell’intelligenza e le specifiche sinergie organizzative tra le caratteristiche del singolo e gli ambiti di conoscenza/campi del sapere collettivamente condivisibili. Si fa cioè riferimento ad aspetti di natura elaborativa, secondo i quali la mente elabora le informazioni che riceve in modo differente per ciascun individuo, in relazione appunto alle modalità preferenziali utilizzate dai singoli soggetti per apprendere. Questa riflessione comporta un’attenzione specifica all’individualizzazione dell’insegnamento, un punto nodale che rappresenta spesso lo zoccolo duro di ogni forma di ripensamento delle strategie di insegnamento. Individualizzare la didattica sembra infatti essere considerato un problema difficilmente risolvibile nel concreto e che quindi risulta inutile o comunque non fruttuoso affrontare. Tra l’altro, la didattica andrebbe non soltanto individualizzata ma anche personalizzata, cioè strutturata e ristrutturata in considerazione di una visione dello studente come persona unica e singolare, complessa e variabile come lo è il rapporto che si instaura di giorno in giorno con l’insegnante. Tuttavia ripensare la didattica per individualizzarla e personalizzarla non significa necessariamente ristrutturarla in tanti modi diversi quanti sono gli alunni; piuttosto, in questa ricetta si propone di dare una varietà di chiavi di lettura — sia sul piano percettivo sia sul piano elaborativo — che rispecchino alcune delle principali impostazioni sulla pluralità dell’intelligenza. Nel concreto, queste chiavi di lettura possono essere utilizzate per realizzare la divisione del gruppo classe in nuclei di studenti ai quali rivolgere l’offerta formativa in modo differente. Naturalmente la divisione della classe può anche non essere esplicitata a tutti ma nota solo all’insegnante; in questo caso, risulta particolarmente utile per affrontare le difficoltà di qualche studente in particolare che possono derivare dalla mancata integrazione con il modello di apprendimento-insegnamento naturalmente gestito dall’insegnante. Ciò non significa che ogni insegnante debba necessariamente porsi l’obiettivo di ricostruire il proprio modello di apprendimento-insegnamento quanto piuttosto che si dia agli studenti anche la possibilità di approcciare lo studio e di esprimere la propria personalità elaborativa in modi differenti da quelli dell’insegnante o, più in generale, da quelli usualmente previsti. Nella ricetta significato-elaborazione quindi ciascuno apprende in modo personale e individualmente variabile.

Il modello metariflessivo e la ricetta gestione-riflessione

Il modello teorico Il modello metariflessivo può essere considerato uno dei quattro modelli raggruppabili sotto

la denominazione “postcognitivismo” (metariflessivo, costruttivista, contestualista e culturalista) che si sono diffusi a partire dalla fine del Novecento, in particolare negli ultimi vent’anni del secolo scorso. Questi quattro modelli sono tutti ascrivibili a un ripensamento del concetto di mente, di apprendimento e di insegnamento che rompe con gli schemi precedenti, del comportamentismo e del cognitivismo, in modo evidente. Tuttavia il modello metariflessivo rappresenta, tra i modelli postcognitivisti, quello che resta più legato alle matrici di pensiero precedenti e, per questo, può rappresentare l’anello di congiunzione, il trait d’union più significativo tra le ricette tradizionali e attuali della formazione.

I modelli postcognitivisti sono dunque raggruppabili, in linea generale, nella formula 1 + 3. Ciò avviene perché il modello metariflessivo condivide, con la tradizione comportamentista e cognitivista, l’idea che l’insegnamento sia un processo asimmetrico che implica comunque una trasmissione da chi ne sa di più a chi ne sa di meno. Spesso, in ogni modo, questo modello viene utilizzato in abbinamento a uno o più degli altri modelli postcognitivisti, e ciò può attenuare questa sua caratteristica distintiva. In effetti, si tratta dell’ultimo dei modelli trasmissivi, nella linea continua che va dal comportamentismo (per il quale è rilevante ciò che si apprende, cioè i contenuti, le nozioni) al cognitivismo (per il quale è significativo come si apprende, cioè le strategie utilizzate per elaborare le informazioni). Nel modello metariflessivo invece si mettono a fuoco i processi attraverso i quali il sistema cognitivo gestisce la conoscenza di ciò che ha appreso, e soprattutto di come lo ha appreso, proprio attraverso la consapevolezza ditali processi.

In altre parole, se l’insegnante comportamentista valuta la quantità dei contenuti appresi, in modo nozionistico, e l’insegnante cognitivista valuta la qualità delle strategie con le quali i contenuti appresi possono essere elaborati, in modo singolare, l’insegnante metariflessivo valuta invece la consapevolezza individuale delle modalità di utilizzo delle strategie, cognitive e anche emotive, attraverso le quali i contenuti stessi sono stati appresi.

In questo modello l’insegnante valuta dunque la capacità soggettiva di ciascuno studente di gestire le diverse modalità di monitoraggio e di controllo che ogni sistema cognitivo attua — o dovrebbe attuare — nei processi di acquisizione, sia quando utilizza le proprie strategie cognitive sia quando regola il flusso degli apprendimenti.

E proprio dalla conoscenza consapevole del funzionamento del proprio sistema cognitivo e dalla riflessione — sia personale sia condivisa — sui vincoli e sulle possibilità che lo guidano che nasce la funzione autoregolativa della gestione autonoma dei processi dell’apprendimento. Nel modello metariflessivo quindi l’insegnante incentiva lo sviluppo delle proprietà gestionali delle strategie e dei contenuti cognitivi all’interno della classe attraverso lo strumento della riflessione.

La riflessione è allora una visione (e revisione) delle proprie conoscenze e delle modalità attraverso le quali le conoscenze stesse sono state acquisite, elaborate ed eventualmente gestite da ogni studente; in questo senso, non implica necessariamente condivisione, co-costruzione e radicamento all’interno della classe, sebbene se ne possa giovare.

Nello stesso tempo, l’insegnante costituisce un esempio — il migliore esempio — di organizzazione gestionale dei concetti, autoregolativa, controllata e monitorata in modo autonomo e autoriflessivo. Perciò questo modello può essere considerato l’ultimo a condividere una visione chiaramente asimmetrica dell’insegnante e, relativamente a questo aspetto, può non escludere modalità trasmissive nella relazione di apprendimento e di insegnamento.

Se il lavoro riflessivo riguarda la consapevolezza delle modalità attraverso le quali ciascun sistema cognitivo utilizza le proprie risorse, si tratta di un lavoro di livello superiore, di secondo livello, e per questo viene indicato come apprendimento metariflessivo, sia esso metacognitivo oppure metaemotivo.

La riflessione di secondo livello viene utilizzata dall’insegnante per rendere esplicite — cioè consapevoli, riferibili e verbalizzabii — conoscenze di natura implicita che possono innestarsi tra le acquisizioni. L’emergere delle conoscenze implicite (circa la realtà, relativamente alle esperienze oppure alle idee, alle teorie e ai concetti che la riguardano; circa la propria persona o la mente di chi si viene a conoscere ecc.) comporta che queste vengano revisionate — convalidate, parzialmente trasformate oppure radicalmente reinterpretate — dal pensiero esplicito. Ogni studente, come d’altra parte ogni insegnante, ha infatti un potenziale di apprendimento sia esplicito sia implicito. Quando si impara, lo si può fare in modo consapevole, ad esempio leggendo un libro mentre si sta seduti alla propria scrivania in casa oppure nel banco situato all’interno della propria classe, intesa come luogo formale dell’istruzione. In questa situazione, lo studente è consapevole dell’occasione di apprendimento. Eppure non è possibile affermare che questa sia l’unica situazione nella quale si può apprendere. Le occasioni dell’apprendimento sono molteplici e riguardano contesti anche formali, non formali e informali dell’istruzione; sono molte le informazioni che si imparano senza che vi sia la consapevolezza di stare apprendendo, senza volerlo, cioè senza prestare attenzione intenzionale al fatto stesso che si sta imparando qualcosa. In queste occasioni si acquisiscono informazioni

implicite che possono veicolare qualità positive e negative. Gli apprendimenti impliciti riguardano sia il corpo, sia la mente. Anzi la dimensione corporea rappresenta, attraverso gli apprendimenti impliciti percettivi e motori, una delle possibili espressioni della sfera implicita della mente, con la quale continuamente interagisce. Negli apprendimenti automatici e automatizzati, ad esempio, il corpo ripete movimenti e sequenze di azioni che acquisisce dall’ambiente, nelle molteplici relazioni con esso, e che impara a fare propri. Si tratta di abitudini cognitive che possono essere anche di natura elaborativa, come ad esempio il consolidarsi di un modo di studiare, piuttosto che di un altro; un modo che si è scelto in modo preferenziale nel corso della propria storia personale degli apprendimenti. Gli apprendimenti impliciti automatici e automatizzati riguardano dunque comportamenti abitudinari, siano essi percettivi, motori o elaborativi, i quali non comportano di per sé una specifica accezione positiva o negativa. Infatti si tratta spesso di strategie utilizzate dal sistema cognitivo per semplificare e/o accelerare i propri processi di funzionamento. In altre parole, se si impara a guidare, non sempre è necessario riflettere sul coordinamento dei movimenti di guida come quando si era alle prime armi; il sistema cognitivo non necessita più lo stesso richiamo di attenzione e nello stesso tempo forse un’attenzione eccessiva può avere anche effetti controproducenti. In questa interpretazione dunque il sistema cognitivo lascerebbe intenzionalmente automatizzare l’insieme di gesti appresi e necessari per una guida sicura; in questo modo, ogni volta che si entra in macchina non si ha più bisogno di ripetere a se stessi quali siano le azioni da compiere per metterla in moto e per condurla.

Tuttavia alcuni di questi apprendimenti impliciti possono avere una valenza negativa. Ciò accade perché non è sempre possibile ricostruire l’occasione di apprendimento, la situazione nella quale specifici apprendimenti sono stati acquisiti e successivamente strutturati. Se un apprendimento non viene localizzato nel tempo, perché avviene in un momento non precisato, al quale il soggetto non presta attenzione consapevole, oppure avviene in modo ripetuto e si stabilizza successivamente all’interno del sistema cognitivo, questo stesso apprendimento può sia agevolare sia disturbare il funzionamento dell’intero sistema.

Si pensi ad esempio agli apprendimenti che riguardano il campo della cucina: molte persone si regolano “a occhio” per dosare gli ingredienti. Questa modalità regolativa si struttura nel tempo in base all’esperienza; raramente è il frutto di una sessione di apprendimento definita. Si tratta invece di acquisizioni avvenute senza prestare particolare attenzione a ciò che si stava imparando, spesso attraverso i meccanismi dell’osservazione e dell’imitazione.

Questo tipo di apprendimenti impliciti facilita il funzionamento del sistema cognitivo. La mente lavora usualmente in implicito e, se tutto ciò che si apprende fosse sempre presente al sistema cognitivo in modo consapevole, la mente stessa non riuscirebbe più a controllare i processi di gestione.

Tuttavia, da un punto di vista formativo, l’apprendimento implicito rappresenta anche un punto interrogativo, perché è la porta principale attraverso la quale il sistema cognitivo assorbe dall’ambiente numerose informazioni in modo potenzialmente disordinato e disorganizzato. Si tratta di informazioni da elaborare in un secondo momento e che il sistema stesso potrebbe non essere preparato a, oppure non essere capace di, gestire.

Uno studente apprende potenzialmente molto di più di quanto non impari a scuola oppure a casa, in modo intenzionale e diretto. Ogni individuo apprende infatti, anche senza accorgersene, dalla maggior parte dei contesti con i quali entra in contatto, dei quali fa esperienza e che vengono a costituire per lui un punto di riferimento anche transitorio.

Ciò avviene in modo particolarmente significativo nella costruzione del pensiero nelle prime fasi dello sviluppo; all’inizio del processo formativo ciascuno prende coscienza in modo graduale del mondo circostante e degli accadimenti che avvengono al suo interno. Rispetto agli adulti, che cercano di interiorizzare in modo consapevole e il prima possibile quanto vedono e sentono accadere intorno a se stessi, i bambini invece non comprendono sempre immediatamente il senso e le motivazioni di ciò che percepiscono dall’ambiente intorno a loro. In altre parole, i bambini e, più in generale, i soggetti che si trovano nelle prime fasi della loro formazione, o all’inizio di processi di costruzione di strutture della conoscenza nello sviluppo del pensiero, tendono ad assorbire informazioni dall’ambiente in modo non consapevole, cioè senza necessariamente operare attività di elaborazione. In questo senso, uno degli obiettivi del modello metariflessivo dell’insegnamento risiede proprio nel tentativo di rendere esplicite le acquisizioni implicite, in particolare quelle che non possono costituire un motivo di agevolazione bensì possono rappresentare un potenziale generativo di

disagio per il funzionamento del sistema cognitivo stesso. E dal momento che non è immediatamente evidente all’insegnante quali apprendimenti possano considerarsi espliciti e quali impliciti — sebbene vi siano differenze strutturali, come la riferibilità linguistica —, in questo modello il docente tendenzialmente fa un uso sistematico del lavoro metariflessivo per rendere gli studenti il più possibile in grado di riconoscere e di gestire il proprio patrimonio di apprendimenti. Questo aspetto però ha implicato due conseguenze nel campo della formazione i cui risvolti vanno presi in considerazione. Da un lato infatti l’apprendimento implicito ha assunto una valenza costantemente negativa e se ne sono valutati soprattutto gli aspetti di rischio per la formazione. In questo senso si è ritenuto necessario operare sempre per l’esplicitazione degli impliciti; in altre parole, l’insegnante metariflessivo si propone continuamente di fare emergere le idee, le teorie, i concetti ma anche le considerazioni personali, gli atteggiamenti comportamentali che possono essersi strutturati in modo implicito negli studenti e, servendosi della verbalizzazione, cerca di lasciarli esprimere attraverso la sfera dell’esplicito. Da un altro lato, come conseguenza delle precedenti motivazioni, questo modello tende a non prendere in considerazione la dimensione dell’implicito in se stessa, cioè nei suoi risvolti adattivi e conoscitivi, e quindi a non fare leva — sempre in modo implicito, quindi al di là della riferibilità e della verbalizzazione — proprio sugli aspetti impliciti dell’apprendimento, intesi come potenziali meccanismi funzionali la cui valenza può rivelarsi anche di natura positiva, come sarà successivamente messo in evidenza dalla formulazione, tra i modelli sperimentali della formazione, degli ambienti di apprendimento adattivi.

La ricetta applicativa Nella ricetta gestione-riflessione, chi insegna fa attenzione a che ogni studente impari a gestire il proprio sistema cognitivo, chi impara si dedica invece all’attivazione di processi di riflessione anch’essi stimolati dal docente, ma anche autonomi — relativi appunto al funzionamento cognitivo individuale.

Il ruolo dell’insegnante metariflessivo è allora quello di rendere gli studenti consapevoli dei modi attraverso i quali apprendono, con attenzione specifica per ciascuno di loro. Se infatti uno studente riesce a riflettere (e a metariflettere) sulle modalità attraverso le quali è in grado di gestire le proprie strategie di apprendimento, sarà probabilmente anche capace di valutare da solo (o verificandolo tra gruppi di studenti) la propria preparazione e quindi potrà orientare lo studio personale in modi sempre più efficaci. Lo studio personale va infatti sostenuto attraverso l’attivazione di processi di monitoraggio e di controllo delle funzioni cognitive che servono allo studente per organizzare il proprio lavoro. Tra i processi di monitoraggio e di controllo del sistema cognitivo vi è l’Ease of Learning (EoL), che fa riferimento alla facilità di apprendimento del materiale presentato dall’offerta formativa e avviene prima della fase di acquisizione.

Ad esempio, l’insegnante — prima di iniziare a spiegare la lezione chiede agli studenti di valutare se ritengono l’argomento che sarà oggetto della spiegazione presumibilmente facile o difficile, anche se non lo conoscono ancora, basandosi sulle informazioni al riguardo già in loro possesso oppure sulla forma espressiva di esso già evidente dal libro (in quante pagine l’argomento viene svolto sul testo, se ci sono appunti da scrivere sul quaderno, se ci sono riferimenti ad argomenti precedentemente trattati ecc.). Dopo avere svolto la lezione e, quindi, avere spiegato l’argomento, oppure dopo averne discusso in classe e/o averlo assegnato come compito di studio individuale da svolgere a casa, l’insegnante chiede nuovamente agli studenti di stimare la facilità dell’argomento e di valutare le eventuali difficoltà incontrate. In questo modo lo studente si può rendere conto della validità più o meno efficace del proprio giudizio di stima circa un argomento da studiare e, nello stesso tempo, diviene consapevole del proprio modo di approcciare lo studio e di alcune delle variabili che lo possono influenzare. Può capitare infatti che l’eventuale malfunzionamento di questo processo metacognitivo di monitoraggio e di controllo dell’attività cognitiva influenzi gli studenti e provochi in loro reazioni di scoraggiamento. Si tratta ad esempio della tipologia di studente che, non appena inizia ad applicarsi a un compito, sia pure di diversa natura, afferma di non capire e — invece di provare a entrare nel processo della comprensione si tira indietro a partire da una sfiducia aprioristica circa le proprie possibilità. La natura cognitiva di questo comportamento (che investe naturalmente anche la

singolare personalità di ogni studente e la relativa sfera emotiva) può implicare in effetti proprio una mancata acquisizione delle proprietà gestionali del processo di monitoraggio e di controllo EOL.

Di conseguenza ciò può complessificare le chance di recupero di uno studente rimasto indietro su un determinato argomento. Se lo studente crede di non potercela fare, perché vede il compito da svolgere come troppo difficile, si convincerà probabilmente di non potere fare leva sulle proprie forze per recuperare. Questo aspetto è responsabile di possibili stati di abbandono della motivazione a studiare e si lega a processi adattivi, come si vedrà nei modelli sperimentali della formazione.

Un altro processo di monitoraggio e di controllo del sistema cognitivo è lo Judgment of Learning (JoL), cioè la valutazione circa la probabilità di ricordare un’informazione appresa, in altre parole il giudizio personale dello studente circa la propria capacità di ritenere un dato argo-mento, sia durante il processo di memorizzazione sia alla conclusione di esso.

Questo processo si attiva ad esempio durante lo studio individuale, quando lo studente deve decidere quanto tempo gli occorre per svolgere i compiti assegnati. Naturalmente, se lo studente non calcola in modo efficace il tempo che gli è necessario per effettuare e completare i compiti, potrà riservare loro troppo poco tempo e quindi studiare in modo non adeguato oppure non studiare.

Nello stesso tempo, lo JOL entra in gioco e interagisce con i processi dell’attenzione. Ad esempio, mentre l’insegnante spiega una lezione, gli studenti valutano, in modo implicito, se è il caso di seguirla: se danno un giudizio negativo circa le proprie possibilità di apprendere e ricordare la lezione, in quanto non si sentono in grado di seguirla — perché sembra loro troppo complessa, difficile da comprendere, non alla loro portata ecc. — potrebbero in via preliminare, senza avere valutato effettivamente il problema e le loro personali possibilità di riuscita, decidere di non seguire del tutto la spiegazione dell’insegnante.

In effetti è come se gli studenti valutassero da soli, in anteprima rispetto alla stimolazione del docente, le proprie capacità di apprendere e ciò finisse con l’influenzare implicitamente il modo in cui ogni studente si pone verso le possibilità di apprendere proposte dall’offerta formativa. In un certo senso è come se in questo caso si autoescludessero dalla relazione di apprendimento e di insegnamento. Per migliorare questo processo di monitoraggio e di controllo, si può chiedere agli studenti di prendere l’abitudine, mentre studiano a casa, di segnare sul quaderno il voto che essi stessi si darebbero rispetto alla preparazione che pensano di aver raggiunto. Una volta in classe, se vengono interrogati, potranno esplicitare il voto che si sono autoattribuiti per ipotesi e controllare se i due voti (attribuiti a casa e a scuola, dallo studente e dell’insegnante) coincidono: l’eventuale distanza nella stima della preparazione e l’esercizio stesso di autovalutazione possono costituire spunti di riflessione utili allo studente per imparare a gestire e autoregolare l’acquisizione degli apprendimenti.

Un altro tra i processi di monitoraggio e di controllo è il Feeling of Knowing (FoK), la misura della “sensazione di conoscere un informazione presumibilmente appresa che tuttavia non si riesce a ricordare consapevolmente; la sensazione di conoscere che genera il fenomeno: “l’ho sulla punta della lingua”, ma non riesco a ricordare. Questo fenomeno può costituire l’occasione per parlarne con gli studenti e analizzare insieme quante volte può capitare durante un’interrogazione (se, ad esempio, c’è un limite da condividere) e quali possono esserne i motivi.

Dietro la sensazione di conoscere senza ricordare ci può infatti essere sia l’emotività — in questo caso, con il rallentarsi della tensione, le informazioni in linea generale ritornano gradualmente “a galla” — sia una ritenzione mnemonica a breve termine, e non a lungo termine; le informazioni, cioè, erano disponibili al richiamo immediato, al momento della preparazione a casa, ma non lo sono più dopo alcune ore. In entrambi i casi parlarne con la classe può servire a rinforzare la consapevolezza circa i processi di elaborazione degli apprendimenti e può migliorare la relazione formativa.

Ancora tra i processi di monitoraggio e di controllo vi è il Prediction of Total Recali (PTR), che regola la previsione della “quantità” del ricordo finale rispetto a una sessione di apprendimento; riguarda cioè il ricordo totale, in altre parole l’autovalutazione di quanto lo studente ricorderà di ciò che ha studiato. Questo processo va messo in relazione con la valutazione circa la probabilità di ricordare un’informazione appresa e con il tempo che lo studente dedica allo studio perché lo considera necessario allo svolgimento del compito assegnato.

Alcuni studenti, una volta interrogati, non conseguono risultati soddisfacenti eppure affermano di aver studiato. Così potrebbe essere se il processo pm o i suoi correlati non vengono esercitati in modo efficace in un sistema cognitivo; uno studente può credere di avere dedicato allo studio il tempo necessario senza rendersi conto, cioè senza essere consapevole, che il tempo impiegato non era affatto bastevole. A questo proposito, quando assegna un compito, l’insegnante può indicare il tempo medio nel quale pensa che andrebbe svolto oppure può chiedere agli studenti di segnare sul quaderno in quanto tempo hanno svolto il compito e successivamente discuterne insieme. In effetti, proprio per quanto riguarda i tempi di apprendimento, non è sempre possibile definirli in modo ottimale, perché ogni studente ha il proprio specifico tempo di apprendimento. Tuttavia questo esercì zio non serve tanto agli studenti che impiegano più tempo degli altri a studiare, perché hanno necessità di approfondire le materie più lentamente, in rapporto a bisogni specifici; può essere, invece, maggiormente utile per quella tipologia di studenti che tende a studiare molto velocemente e spesso in modo superficiale.

Ritornando al processo PTR, uno studente può dunque provare a prevedere in modo adeguato la quantità del ricordo finale di un argomento di studio basandosi su diversi aspetti, come il tempo mediamente impiegato di solito per studiare, la facilità di studio stimata oppure la consapevolezza delle strategie da utilizzare. La capacità di gestire un aspetto può quindi interfacciarsi con tante altre variabili e si intreccia in modo sinergico con le diverse fasi elaborative che ogni sistema cognitivo attraversa; i processi di monitoraggio e di controllo riguardano infatti sia l’acquisizione delle informazioni, sia il mantenimento e il recupero di esse nelle/dalle memorie.

La ricetta metariflessiva propone un insegnamento basato su attività di gestione cognitiva che investono continue azioni di riflessione che non riguardano soltanto gli studenti, ma anche l’insegnante: il docente utilizza il metodo metariflessivo per rivedere le proprie strategie di insegnamento ed eventualmente modificarle. Nello stesso tempo, il docente approva quando gli studenti collaborano tra loro, perché è interessato all’idea che si misurino reciprocamente e attraverso questo processo imparino a giudicare, a svalutare e a regolare da soli la quantità e soprattutto la qualità degli apprendimenti.

Le ricette attuali Premessa

Le ricette attuali della formazione caratterizzano gli ultimi decenni del Novecento e, come le ricette tradizionali, si sviluppano prima nel contesto anglosassone e successivamente vengono importate nell’ambiente italiano. A differenza delle ricette tradizionali, tuttavia, non vi è una scansione cronologica lineare che definisce l’insorgere dei diversi modelli.

Le differenti tipologie di insegnamento riconoscibili in questo ambito — costruttivista, culturalista e contestualista — emergono invece in modo parallelo e reciprocamente interagente, motivo per il quale è particolarmente complesso distinguerle. Nello stesso tempo queste tipologie presentano anche caratteri similari, che le rendono tutte assimilabili all’interno della più ampia cornice interpretativa denominata postcognitivismo.

I modelli postcognitivisti condividono, rispetto al cognitivismo e al comportamentismo, un modo radicalmente diverso di rapportarsi al soggetto che apprende. L’interazione cognitiva infatti non implica soltanto l’attivazione astrattamente mentale del livello elaborativo ma coinvolge anche la dimensione emotiva, corporea, organismica e, nel concreto, avviene in situazioni definite e definibili nello spazio e nel tempo.

La sostanziale critica del postcognitivismo ai modelli precedenti, in particolare al cognitivismo, riguarda infatti l’idea che la conoscenza possa avvenire in modo astratto e decontestualizzato, in un ambito ideale accessibile soltanto alla parte razionale della mente, studiata a livello individuale. Ciò ha comportato uno spostamento dallo studio della mente in vitro — in altre parole, come se fosse possibile osservare il funzionamento cognitivo al microscopio, ponendolo in un vetrino — allo studio della mente in vivo, cioè nelle sue componenti funzionali e dinamiche che la legano alla realtà organismica e ambientale. In questo senso l’aspetto emotivo si lega inscindibilmente al cognitivo: le due componenti non possono più essere separate, né ignorandone una (come nel caso del cognitivismo), né strumentalizzandola (come nel caso del comportamentismo). La componente emotiva invece viene considerata, al pari di quella cognitiva, un elemento primario e interagente nei processi elaborativi che regolano gli apprendimenti; anzi, lo stesso concetto di “cognitivo” viene a

mutare, includendo nella propria accezione anche i concetti di emotività e di organismicità. L’apprendimento dunque non è più un processo task oriented, cioè essenzialmente finalizzato

alla risoluzione di un compito che specificamente viene affidato al soggetto che apprende, quanto piuttosto è un processo incorporato, situato e distribuito attraverso il quale il soggetto entra in una relazione positiva ed efficace con l’ambiente di apprendimento.

In linea generale, nei modelli postcognitivisti la mente non è più intesa in modo separato dal corpo. Questa considerazione apre le premesse al riconoscimento di tipologie di conoscenza che non coinvolgono soltanto la riferibilità dei concetti e quindi la verbalizzazione, come la conoscenza esplicita di tipo tradizionale. Si tratta invece di tipologie di conoscenza che riguardano anche le diverse, molteplici e potenziali, espressioni di natura implicita che possono veicolare informazioni non verbali proprio attraverso il corpo e le sue modalità di relazione percettive e comportamentali.

Questo aspetto, è da notare, permette la parziale inclusione del modello metariflessivo, seppur tradizionale, nell’ambito postcognitivista; proprio perché riconosce il ruolo svolto dal livello implicito nella strutturazione degli apprendimenti. Tuttavia, come si è detto, il modello metariflessivo fa da trait d’union tra i paradigmi tradizionali e attuali dell’insegnamento perché può essere legato a una visione trasmissiva e asimmetrica della relazione formativa che viene ora invece radicalmente riformulata.

Nei modelli postcognitivisti infatti la relazione formativa diviene quasi simmetrica, nel senso che la conoscenza non è più trasmessa quanto piuttosto condivisa e co-costruita, negoziata all’interno della comunità di apprendimento, nella quale ciascuno esprime il proprio punto di vista e i ruoli di insegnante e studente vengono ad avvicinarsi. Se non c’è una brocca piena e un bicchiere vuoto, secondo la tradizionale metafora della trasmissione della conoscenza, l’insegnante stesso non rappresenta colui che ne sa di più; in lui/lei si identifica invece una figura di mediatore, che ascolta gli apporti di tutti e svolge un ruolo di orientamento più o meno incisivo a seconda dei modelli; un ruolo che fadiita gli apprendimenti senza “versare” la conoscenza. La conoscenza stessa è il punto nodale di questo processo di cambiamento, secondo il quale può essere considerata in tre modi differenti e sinergicamente intrecciati: distribuita, situata e incorporata. Ognuna di queste interpretazioni della conoscenza ha comportato la messa a punto di modelli di insegnamento e delle relative ricette applicative in linea con il carattere prevalente che le viene attribuito.

Così, l’interpretazione della conoscenza come distribuita ha motivato soprattutto i modelli contestualisti dell’insegnamento, mentre l’idea della situatività della conoscenza ha giustificato in modo specifico i modelli culturalisti ed entrambe queste posizioni, della conoscenza come distribuita e situata, concorrono a definire il modello costruttivista, in particolare nelle sue versioni di sociocostruttivismo e di co-costruzione degli apprendimenti.

Per quanto riguarda invece l’incorporamento della conoscenza, questo sarà oggetto di studio specialmente nei modelli sperimentali della formazione, che ne rappresentano l’attuale avanguardia. Alcuni aspetti di questa categoria di analisi, tuttavia, sono già presenti nei modelli attuali della formazione, in particolare per quanto riguarda lo studio della dimensione implicita degli apprendimenti, che li slega da una visione unicamente intenzionale dei processi del conoscere.

La dimensione implicita degli apprendimenti, valutata nel modello metariflessivo come un possibile passaggio verso la dimensione esplicita, viene colta con sempre maggiore attenzione nei modelli costruttivisti, nei quali si inizia a profilare l’idea che la dimensione implicita abbia un proprio statuto conoscitivo, autonomo rispetto alla sfera dell’esplicito, in continua interazione con essa e forse mai completamente risolvibile in essa.

In questi modelli, con particolare riferimento al neocostruttivismo postpiagetiano, la graduale scoperta del significato epistemologico dell’apprendimento implicito come funzionalità del mentale parzialmente indipendente dall’intenzionalità, eppure in grado di fornire plausibili ipotesi interpretative della realtà con funzione adattiva, si lega anche a considerazioni sullo sviluppo epigenetico della mente.

I modelli e le ricette attuali della formazione influenzano oggi significativamente gli approcci didattici e permeano la relazione di apprendimento e di insegnamento. Sono modelli e ricette che hanno rappresentato un punto di svolta nella letteratura di settore, introducendo aspetti inediti che hanno radicalmente trasformato la didattica individualmente orientata (verso l’insegnante o lo studente) — come quelli di comunità e/o di contesto di apprendimento — per

andare a individuare invece una formazione basata sul concetto di relazione tra l’insegnante e lo studente e tra gli studenti. Nello stesso tempo, le ricette attuali della formazione — pur rappresentando lo sviluppo di modelli di pensiero nati nel corso del Novecento e soprattutto nella sua seconda metà, come ad esempio quelli di Vygotskij, Bruner e Piaget — sono tuttavia relativamente giovani e quindi non si è ancora sviluppata una critica “matura~~ nei loro confronti; in altre parole, gli effetti nel concreto di questi modelli e di queste ricette sono attualmente visibili nelle nuove generazioni ma non è stato ancora possibile studiarne le conseguenze in periodi di lunga durata: si è, cioè, ancora troppo “vicini’ alla loro ideazione per poterne valutare del tutto l’efficacia.

Per questo motivo le successive ricette sperimentali della formazione non rappresentano un vero e proprio ribaltamento di queste posizioni interpretative, così come lo è stato, in maniera più evidente, il passaggio dalle ricette tradizionali a quelle attuali. Piuttosto esprimono un altro punto di vista, cbe non esclude o rinnega le precedenti posizioni interpretative — intese quali punti di non ritorno —, ma ne rinforza e ne avvalora alcuni ambiti in particolare e, soprattutto, ne introduce altri inediti rispetto alle ricette attuali; aspetti che tuttavia concorrono anch’essi, e con un ruolo basilare, al completamento del quadro prismatico della formazione.

Il modello contestualista e la ricetta mediazione-negoziazione

Il modello teorico Il modello contestualista apre la strada all’idea, caratteristica del postcognitivismo, secondo la quale la conoscenza è un processo distribuito e situato.

Nei modelli precedenti, la conoscenza era considerata patrimonio soggettivo di ogni individuo, elaborata in modo specifico da ciascuno e frutto di un lavoro personale di acquisizione di informazioni, di concetti, di riflessioni ecc. che si svolgeva nel tempo venendo a costituire parte del bagaglio esperienziale di ognuno.

Il lavoro di acquisizione, di elaborazione e di conservazione delle nozioni era sempre sostenuto da supporti formativi intenzionali e diretti e si svolgeva soltanto nell’ambito di processi formali della relazione di apprendimento e di insegnamento.

Da un punto di vista tradizionale dunque la conoscenza, e le problematiche formative a essa correlate, sembrava essere un “fatto personale”, così come la mente stessa veniva considerata esclusivamente “dentro” ogni singola individualità. L’idea della distribuzione della mente — e, di conseguenza, della distribuzione della conoscenza — comporta invece che la mente stessa sia vista anche al di là dei confini dell’individualità, che valica proprio in quanto è un concetto che si “distribuisce” tra più soggetti. In questo senso, in questo modello si mette a fuoco soprattutto il lavoro di condivisione, di socializzazione e di negoziazione che più menti svolgono insieme mentre apprendono.

In questo caso la costruzione della conoscenza avviene come una co-costruzione, non soltanto attraverso la cooperazione e la collaborazione tra due studenti, o tra piccoli gruppi, ma attraverso un vero e proprio processo di condivisione che vede coinvolto l’intero gruppo classe, che si qualifica ormai come comunità di apprendimento.

La comunità di apprendimento diviene il luogo di incontro, reale e/o virtuale, nel quale avviene lo scambio tra il patrimonio personale di conoscenza che ciascuno possiede come proprio bagaglio formativo, le nuove acquisizioni da apprendere e il portato culturale di ciascun membro della comunità: singolare, peculiare e specifico.

Il processo di apprendimento nell’ambito della comunità prende quindi la forma di un processo condiviso nel quale le conoscenze vengono negoziate, cioè in altre parole vendute, rivendute, comprate e con-trattate, all’interno di percorsi della formazione che non riguardano più soltanto il soggetto nella propria singolarità individuale ma coinvolgono una collettività di soggetti che apprendono insieme.

fl primo significato da dare al concetto di distribuzione della conoscenza riguarda dunque la condivisione della conoscenza stessa tra più soggetti; riguarda l’intersoggettività. Chi apprende non è più solo, ma in relazione ad altri: i processi dell’acquisizione, dell’elaborazione e della conservazione degli apprendimenti non sono considerabili in modo isolato; non sono separabili dagli apporti esterni neanche quando lo stesso soggetto che apprende è da solo. Anche in quel caso, infatti, chi apprende entra in relazione con altri, che hanno scritto libri, hanno prodotto immagini, hanno contribuito a definire i diversi domini della conoscenza ecc.

Per questi motivi, nei modelli attuali della formazione non si parla più di processi di

apprendimento (che fanno riferimento a processi di acquisizione personali e non necessariamente da condividere) quanto piuttosto di formazione delle strutture della conoscenza. Le strutture della conoscenza si formano proprio quando il soggetto “esce da se stesso”, cioè dal mondo degli apprendimenti singolari, per entrare invece all’interno di un mondo di apprendimenti condivisi, la comunità di apprendimento, dove ogni informazione si struttura non perché viene trasmessa o elaborata ma perché viene condivisa. In questo caso infatti ogni informazione viene discussa, smontata e rimontata, ripensata insieme affinché divenga patrimonio condiviso di ciascuno dei membri della comunità di apprendimento. In tal modo la conoscenza diviene sempre più approfondita, sistematizzata e strutturata — proprio perché, in quanto condivisa, è sempre più oggettiva e sempre meno soggettiva — così, diviene sempre più. legata ai contesti di riferimento e si radica in essi, diviene situata in uno spazio e in un tempo specifici, carattere questo che sarà il nucleo dei modem culturalisti della formazione e che influenzerà anche i modelli costruttivisti.

Se la comunità di apprendimento è un luogo cli interscambio degli apprendimenti e degli insegnamenti, si può comprendere come cambia il concetto stesso di formazione. Non è più una formazione centrata sul docente, come nel modello comportamentista, in quanto in questo modello di insegnamento non viene messo a fuoco in particolare modo il ruolo svolto da chi produce l’offerta formativa (poiché la conoscenza stessa non viene più appunto offerta, bensì condivisa). Né si tratta di una formazione basata sullo studente, come è stato parzialmente nel modello cognitivista e come si rivede, in forma rielaborata, anche nel modello costruttivista, dove maggiore attenzione viene data alla peculiarità individuale di chi apprende.

E' invece una formazione basata sulla relazione, sul reciproco e mutuo rapporto di intesa tra chi insegna e chi apprende, e tra chi apprende insieme. Tuttavia, è difficile qui stabilire “chi” insegna. Il modello contestualista raggiunge in questo senso i livelli minimi di asimmetria tra il docente e il discente, tra l’insegnante e gli studenti: in altre parole, la relazione formativa diviene quasi simmetrica, nell’ambito di processi non direttivi che si attivano in diversi contesti, anche semi-formali, non formali e informali, e non solo in quelli formali.

La conoscenza è dunque contestualizzata, condivisa, intersoggettiva; la relazione di apprendimento e di insegnamento diviene una relazione formativa, nella quale i ruoli di chi insegna e chi apprende, nella comunità di apprendimento, si avvicinano.

La ricetta applicativa Nella ricetta mediazione-negoziazione, chi insegna si pone alla classe come un mediatore, chi

apprende impara a negoziare le conoscenze. Nella pratica didattica, la distribuzione della conoscenza applicata agli ambienti di

apprendimento mette in luce il passaggio da un modo di insegnare che si rivolge individualmente a ciascun alunno, stimolandone i processi di apprendimento, a un modo di insegnare che include ogni membro della classe, e lo stesso gruppo classe inteso in senso olistico, all’interno del più ampio concetto di comunità di apprendimento, che condivide e socializza la conoscenza. Il compito, in senso tradizionale, cioè l’oggetto di studio e l' esercizio da svolgere in relazione a esso non si configura più come problema da risolvere per il singolo; diviene invece una problematica da trattare insieme, dividendo l’impegno nell’ambito della stessa comunità di apprendimento, senza specifiche attribuzioni circa la qualità del lavoro individuale.

Naturalmente ciò può comportare una parziale deresponsabilizzazione di una parte del gruppo classe qualora non si senta effettivamente coinvolto e implica nello stesso tempo uno sforzo valutativo da parte dell’insegnante che deve sia incoraggiare la coesione degli studenti e lo sviluppo delle tematiche da apprendere, attraverso lo scambio e la discussione tra di essi, sia analizzare il contributo di ciascuno alle dinamiche di condivisione.

Si potrebbe dire, con una metafora, che il ruolo del formatore in questa ricetta assomigli a quello di un conduttore televisivo, un facilitatore della comunicazione, un mediatore che invita ciascuno a parlare, come in un talk show. La funzione dell’insegnante e il relativo feedback che restituisce agli studenti non sono qui di natura in alcun modo direttiva e, in questa ricetta in particolare — è la più “simmetrica” tra quelle postcognitiviste, si è detto — la discussione viene favorita, stimolata, incentivata ma non necessariamente guidata.

In altre parole, la differenza tra il docente e gli studenti non è quella tra chi ne sa di più e chi ne sa di meno, come nella tradizione trasmissiva, ma — sempre all’interno della comunità di apprendimento — la “distanza cognitiva”, alquanto diluita, è quella tra chi facilita e organizza la

condivisione della conoscenza, svolgendo un ruolo mediativo (nel quale viene considerato più abile degli altri) e chi esprime la propria personale interpretazione, ma volendo anche la propria opinione, sugli argomenti da approfondire.

In questo senso l’obiettivo primario dell’insegnamento non è la formazione del singolo studente ma la messa a punto di un’intera comunità di apprendimento che impara insieme. Per quanto riguarda il singolo studente, più che la quantità di informazioni che ha acquisito, che riesce a padroneggiare o che è consapevole di poter gestire, viene valutata la capacità di esprimere il proprio punto di vista e di sapersi relazionare agli altri, mostrando un atteggiamento mediativo come quello dell’insegnante stesso.

Dal momento che la qualifica di membro di una comunità di apprendimento si ottiene in base alle personali capacità (acquisite al suo interno) di condividere, relazionare e negoziare la conoscenza, particolare rilievo viene dato alla condivisione intersoggettiva e alla comunicazione sociale. A questo proposito, un elemento basilare è rappresentato dal linguaggio. L’utilizzo del mezzo linguistico consente il continuo interscambio formativo di idee, di teorie e di concetti nei processi della co-costruzione sociale della conoscenza, la quale si fonda sulla riferibilità delle espressioni individuali e sulla reciprocità della messa in gioco dei punti di vista. Già nel modello cognitivista il linguaggio si era prospettato una delle possibili chiavi interpretative della formazione con valenza strategica; ora lo strumento linguistico e lo scambio conversazionale divengono gli elementi cardine sui quali si appoggiano le chance della formazione.

Proprio attraverso il linguaggio infatti l’insegnante può favorire e facilitare la partecipazione di tutti e la socializzazione per un discorso comune all’interno della classe. La classe diviene non soltanto comunità di apprendimento ma anche contesto della relazione di apprendimento e di insegnamento: la sua struttura e le dinamiche al suo intemo vengono a mutare.

La relazione di apprendimento e di insegnamento infatti non è più specificamente legata al banco e alla sedia posti di fronte alla cattedra, quanto piuttosto all’insegnante che si pone oltre la cattedra e circola liberamente in mezzo ai banchi, spesso disposti in modi alternativi rispetto a quelli tradizionali, come ad esempio a struttura circolare.

In questo senso varia sia il modo di fare lezione, che diviene più conversazionale e partecipativo, meno dogmatico e appunto cattedratico, sia il modo di interrogare. L’insegnante contestualista spesso interroga lo studente lasciandolo sedere al suo posto, e non alla cattedra, perché ormai è stato oltrepassato il confine ideale che divideva, e delimitava, il docente dallo studente; è stato valicato il divario cognitivo che storicamente separava chi insegna e chi apprende.

Non è più importante dunque mantenere salda la diversità dei ruoli; anzi, in questa ricetta è persino possibile immaginare che un insegnante abbia qualcosa da apprendere da uno studente. In questo senso, l’interrogazione perde il proprio carattere unitario, determinante da un punto di vista valutativo e altamente coinvolgente per lo studente sul piano emozionale: si può essere interrogati più di una volta, anche ogni giorno, perché si tratta di interrogazioni informali, che avvengono dal posto, possono coinvolgere più studenti nello stesso tempo, possono essere molto brevi e non dare necessariamente esito a votazione.

Questo perché, per far funzionare il meccanismo di socializzazione della conoscenza proprio di una comunità di apprendimento, occorre che gli studenti si trovino in una condizione di continua partecipazione; per questo motivo vanno sentiti spesso, in maniera da dare loro la possibilità di esprimersi e di relazionarsi in modi non direttamente funzionali a meccanismi valutativi. Da un punto di vista valutativo, invece, ciò che si richiede allo studente — oltre a conoscenze, competenze e capacità di monitoraggio e controllo per saperle gestire — è il saper partecipare al dialogo costitutivo dalla conoscenza stessa; è il mostrare di sapere, di potere e di voler costruire conoscenza insieme. Ciò che si valuta dunque non è se la lezione viene espressa in modo appropriato ed efficace; si valuta il modo in cui ciascuno studente partecipa alla costruzione sociale della lezione, ai compiti da svolgere in classe e al coinvolgimento gruppale che caratte-rizza la comunità di apprendimento.

Da un punto di vista valutativo, inoltre, la comunità di apprendimento rappresenta essa stessa un’entità autoregolativa; l’eventuale correzione dell’errore o, in altri termini, la definizione collegiale dei contenuti di conoscenza nella loro forma condivisa e condivisibile, al di là delle possibili interpretazioni non corrette, avviene all’interno della comunità stessa. Non è il docente da solo a gestire i processi interpretativi quanto piuttosto gli studenti stessi, che concorrono

attraverso il dialogo alla messa a punto dei contenuti da apprendere insieme all’insegnante, che viene così a svolgere un ruolo docente rappresentativo proprio in quanto mediativo, condizione necessaria alla negoziazione comunitaria dei significati.

Il modello culturalista e la ricetta esempio-responsabilità

Il modello teorico Il modello culturalista riprende alcuni caratteri del modello contestualista, in particolare l’idea che la conoscenza possa essere distribuita tra più soggetti, per quanto riguarda la socializzazione e la negoziazione dei significati. A questi concetti, si aggiunge ora la distribuzione della conoscenza tra gli artefatti cognitivi e i congegni periferici; inoltre, viene approfondita la situatività della conoscenza stessa nell’ambito di specifici contesti cognitivi di riferimento.

Per artefatti cognitivi si intendono tutte le possibili espressioni della conoscenza che compongono i diversi quadri culturali, come i libri, i film, ma anche gli appunti presi in classe e, oggi, ad esempio, i messaggi scambiati per via elettronica ecc. Sono le rappresentazioni della conoscenza in ogni forma che essa può assumere, a seconda delle diverse e contingenti situazioni spaziotemporali nelle quali si sviluppa.

Nello stesso tempo, le possibili espressioni culturali interagiscono, all’interno dei relativi contesti di riferimento, attraverso i congegni periferici, cioè gli strumenti che la tecnologia offre per acquisire, comprendere, interpretare la conoscenza e imparare a costruirla e a riprodurla. Attraverso la multimedialità e, in particolare, l’utilizzo di computer, la conoscenza si trasforma significativamente nell’interfacciarsi con l’uno o con l’altro mezzo: è diverso scrivere un tema utilizzando carta e penna, oppure muoversi liberamente all’interno del testo con un programma elettronico di scrittura che consente di spostare con facilità non solo singole parole, ma anche interi paragrafi. La costruzione del processo ideativo — nella misura in cui può dirsi legata allo strumento espressivo che si utilizza — risente anche di queste differenze e, più in generale, la costruzione della conoscenza può essere sempre considerata relativa agli strumenti tecnologici — ai congegni periferici, appunto — con i quali di volta in volta si interfaccia.

Ad esempio, la continua interazione degli studenti di oggi con le forme sempre più nuove di tecnologia non può che concorrere a formare le loro menti in modo interattivo e radicalmente diverso dai precedenti. Se a uno studente attuale non si richiede più di essere da solo nel processo di apprendimento, oppure di instaurare una relazione a due, con l’insegnante o con un compagno, quanto piuttosto gli viene data l’opportunità di condividere la conoscenza all’interno del gruppo classe inteso come comunità di apprendimento, le modalità di relazione cognitiva che vengono a instaurarsi saranno naturalmente differenti da quelle tradizionali.

Tra l’altro, le nuove modalità di relazione cognitiva vengono continuamente rinforzate attraverso la tecnologia; si pensi all’uso delle chat, dei forum, dei blog ecc. o comunque dei programmi studiati per favorire l’interazione sociale e/o la condivisione comunitaria degli apprendimenti. Gli studenti vivono in una condizione di immersione all’interno di una realtà sociale nella quale non solo la conoscenza, ma anche la mente stessa è sempre più distribuita e situata.

Gli artefatti cognitivi e i congegni periferici sono infatti contingenti rispetto a particolari situazioni spaziotemporalmente definite e sono quindi culturalmente specifici; vengono, cioè, a identificare periodi storicamente individuabili e dunque culturalmente caratterizzabili. Ognuno di questi periodi è circoscritto nello spazio e nel tempo e per questo motivo può rappresentare un contesto di riferimento, significativo per quanto avviene al suo interno. In questa prospettiva la mente è dunque situata, oltre che distribuita: dall’inglese embedded, letteralmente “radicata” nell’ambiente e nei contesti di riferimento.

La situatività della conoscenza è un aspetto di essa che ha avuto risvolti particolarmente significativi nell’ambito di una riconsiderazione della formazione alla luce dei modelli postcognitivisti. La conoscenza è infatti riconosciuta come situata in una, di volta in volta specifica, dimensione spaziale e temporale e viene a perdere quei caratteri di generalità e di genericità che aveva precedentemente. In altre parole, non c’è più l’idea di un patrimonio di conoscenze predefinito e statico, da acquisire come cultura generale, quanto piuttosto è riconosciuta l’esistenza di un insieme di ambiti di conoscenza dinamici, in continua trasformazione, anche diversi nelle forme e nei contenuti rispetto a quelli tradizionali e pur rappresentativi di modi, dominio-specifici, di fare cultura. La mente e la conoscenza vengono dunque considerate situate all’interno di specifiche

culture, e queste si configurano come domini del sapere, cioè ambiti particolari, contingenti e contestualizzati, nel quale si attivano le relazioni conoscitive.

La strutturazione degli apprendimenti avviene quindi sempre “dentro” un contesto o una situazione specifici; al di là della condivisione intersoggettiva e della comunicazione sociale messa in luce dal modello contestualista, nel modello culturalista si mette a fuoco proprio la relatività della conoscenza rispetto alla contingenza spaziotemporale e la peculiarità delle relazioni che si attivano all’interno di particolari domini del sapere inerenti alle diverse culture o ai differenti ambiti espressivi di una stessa cultura.

La ricetta applicativa Nella ricetta esempio-responsabilità, chi insegna si propone come esempio, modello di identificazione per i propri studenti, e chi impara viene sollecitato ad assumere la responsabilità culturale del proprio patrimonio cognitivo.

Ciò accade perché la ricetta culturalista condivide, con la ricetta contestualista, l’idea che apprendere significhi entrare in una relazione cognitiva con una comunità di apprendimento, nella quale è possibile condividere e negoziare le conoscenze, cioè operare continue mediazioni tra punti di vista e scambi di interpretazioni. Nella ricetta culturalista però la comunità di apprendimento si qualifica sempre di più come gruppo di appartenenza, di origine o nel quale ci si forma.

Se ogni cultura ha il proprio modo di produrre conoscenza e di insegnarla, appartenere a un gruppo culturalmente orientato significa essere influenzati dalle sue istanze, anche se si può divergere da esse e/o eventualmente rielaborarle in modo autonomo e personale. Apprendere “dentro” un particolare ambito culturale non implica necessariamente concordare con quanto si attiva al suo interno; ci si può integrare in una comunità di apprendimento conservando la possibilità di mettere a punto percorsi nuovi nel distaccarsi da quanto si è condiviso.

Questo processo di condivisione ed eventualmente di distacco comporta, da un punto di vista formativo, la considerazione del passaggio nodale dell’identificazione dello studente con un modello educativo che può fungere da esempio. Questo passaggio di crescita comporta la graduale acquisizione da parte del soggetto in formazione della propria identità cognitiva, una consapevolezza che deriva dalla conoscenza approfondita del patrimonio cognitivo personale. Un passaggio che non può avvenire senza punti di riferimento in relazione ai quali identificarsi; senza modelli di identificazione educativi e formativi da cui prendere esempio. Non è possibile infatti acquisire identità cognitiva se prima non ci si è identificati in qualcuno o non ci si è riconosciuti in un modo di pensare, in un paradigma interpretativo, in una temperie culturale ecc.: si trova, e si forma, la propria identità sempre in rapporto a un punto di riferimento. Apprendere all’interno di una comunità significa quindi riconoscere l’attivazione di relazioni identificative, integrative e di distacco.

La conoscenza è il risultato di interazioni che avvengono nella contingenza storica e sociale nella quale vive ogni comunità di apprendimento. Nella ricetta esempio-responsabilità, l’insegnamento tende a fare riferimento alle culture dalle quali nasce e nelle quali si sviluppa, che divengono rappresentative del modo di insegnare e del modello di esempio scelto dal formatore.

Nella ricetta culturalista vengono dunque messi in rilievo i saperi esperienziali dei docenti e degli studenti: perché si sono formati lungo il cammino personale di ciascuno di loro; un percorso che ha coinvolto ogni soggetto in un rapporto continuativo di interscambio con i propri ambiti di appartenenza e di relazione.

Dall’esperienza e dal sapere personale emerge il concetto di responsabilità cognitiva; così come l’insegnante lo è divenuto a suo tempo, anche lo studente diviene gradualmente “responsabile” delle proprie conoscenze, delle scelte cognitive personali e del valore che queste possono rivestire all’interno della comunità di apprendimento di appartenenza.

In questo senso l’acquisizione della conoscenza diviene quasi un processo di “iniziazione”: lo studente — come un adepto — viene introdotto nell’ambito culturale di potenziale identificazione e, seppure in un secondo momento potrà scegliere di allontanarsi dal contesto di appartenenza, avrà tuttavia comunque interiorizzato gli atti formativi avvenuti al suo interno.

Questa ricetta di formazione si basa quindi sull’idea che l’assunzione di responsabilità culturale, cioè il senso che ogni studente dovrebbe acquisire circa il proprio ruolo in una specifica comunità di apprendimento, entri in una relazione significativa con lo sviluppo dell’identità cognitiva; se si sa da dove si viene e dove si sta andando, se si conosce e si accetta il proprio

modo di essere e di esprimersi nelle diverse occasioni, si comprende anche perché il proprio patrimonio cognitivo possa essere rappresentativo in un particolare ambiente e/o nelle situazioni contingenti nelle quali ci si può venire a trovare. In altre parole, si comprende quale ideale “fiaccola” della conoscenza si sta portando avanti e, da un punto di vista motivazionale, lo studente che accetta il “passaggio del testimone” acquisisce un' identità cognitiva della quale è appunto responsabile — che non è soltanto personale, ma è anche condivisa. Lo studente si configura come un apprendista che impara interiorizzando gli atti formativi del sistema adulto di riferimento attraverso processi di monitoraggio e di supporto. I processi di scaffolding rappresentano appunto una “impalcatura” che sostiene lo studente mentre apprende dalle figure che insegnano nella comunità di apprendimento e diviene gradualmente responsabile delle proprie risorse, e scelte, cognitive. Nello stesso tempo, attraverso l’apprendistato, lo studente diviene sempre più competente, un esperto — accezione questa estensibile e condivisa dal modello contestualista — nelle dinamiche che riguardano la conoscenza, anche perché nella comunità di apprendimento ciascuno mostra la propria esperienza, che viene valutata alla pari di quella degli altri. Anche il formatore è un esperto, un mediatore e un facilitatore ma, soprattutto, è un modello. Questa considerazione riporta a una responsabilizzazione dell’insegnante, il quale tuttavia non è più considerato autore delle ricadute positive e/o negative che l’ambiente di apprendimento può avere sugli studenti. Piuttosto, il docente rappresenta un possibile esempio da seguire, rispetto al quale lo studente tende a modellare il proprio comportamento: se convergente, l’insegnante avrà svolto il proprio ruolo; se divergente, l’insegnante avrà comunque svolto il proprio ruolo, in quanto avrà costituito un punto di riferimento in relazione al quale lo studente ha potuto confrontarsi. La formula della ricetta esempio-responsabilità si basa, come la ricetta mediazione-negoziazione, sul concetto di comunità di apprendimento. In questo caso però viene maggiormente sottolineato il senso di appartenenza alla comunità stessa, che è dato dall’idea di condividere un sistema di credenze, di punti di vista, di modi di fare, di lenti interpretative della realtà che sono condivise da tutti quelli che scelgono di appartenere a una particolare comunità di apprendimento. Essere membro di una comunità di apprendimento significa allora riconoscersi all’interno di modi di essere e di pensare ritenuti condivisibili da tutti gli altri membri, in quanto modelli interpretativi accomunati da sistemi di credenze condivise, oggettivamente accettate (seppure in modo contingente e spaziotemporalmente definito) e per questo “valide”. La conoscenza si forma dunque in modo olistico attraverso l’interazione di un insieme di aspetti, tra i quali la formazione della mente individuale e sociale, la condivisione comunitaria di sistemi di credenze, le pratiche discorsive — cioè l’uso del/dei linguaggio/i per la negoziazione dei significati, individualmente attribuiti nelle interpretazioni personali, attraverso lo scambio linguistico —, gli artefatti cognitivi e i congegni periferici, cioè gli avanzamenti della tecnologia e le produzioni culturali come rappresentazioni delle possibili espressioni della mente.

Il modello costruttivista e la ricetta guida-cambiamento

Il modello teorico Il modello costruttivista può essere considerato il punto di vista che, tra le ricette attuali della formazione, mette a fuoco più degli altri il ruolo della dimensione individuale del soggetto epistemico (seppur non trascurando le possibilità di interagire con altri nella co-costruzione della conoscenza). In questo modello infatti il soggetto in formazione è visto come un costruttore, un progettista che, instradato e seguito da una guida, riesce a organizzare in modo autonomo l’architettura delle proprie conoscenze e, se il modello viene sinergicamente abbinato al modello contestualista oppure culturalista, la personale costruzione della conoscenza può divenire un processo cooperativo oppure collaborativo e condiviso (costruttivismo socioculturale). I nodi interpretativi di maggiore significatività sono l’idea dell’attività del soggetto che apprende e la relazione di continuo reciproco scambio con l’ambiente attraverso l’esperienza: la realtà trasforma l’individuo, il quale a sua volta contribuisce a costruirla; l’individuo costruisce la realtà, dalla quale a sua volta viene trasformato. Questo modello è particolarmente rilevante nella realtà della società della conoscenza diffusa,

dove agli studenti viene chiesto di essere lavoratori nell’ambito della conoscenza (knowledge workers). Nella società dell’informazione, studiare significava dovere affrontare e provare a risolvere, attraverso compiti specifici, i problemi indicati (e progettati) dallo stesso ambiente di apprendimento (information workers). Essere un lavoratore nel campo della conoscenza significa invece affrontare problemi e situazioni impreviste, non necessariamente ideati dall’ambiente di apprendimento a scopo educativo e formativo. Si pensi ad esempio al rapporto che i soggetti in formazione hanno oggi con la multimedialità e con la rete virtuale: chi apprende viene letteralmente investito da una pluralità di informazioni non organizzate, che rappresentano potenzialmente problemi non strutturati. Di conseguenza il soggetto che apprende si trova a dovere dare un ordine interno al proprio sistema cognitivo per potere sistematizzare tali informazioni in entrata e rénderne possibile l’elaborazione. D’altra parte, l’elaborazione personale diviene necessaria nel momento in cui la tipologia di problemi con i quali lo studente entra più facilmente in contatto sono proprio quelli da ristrutturare e da riorganizzare, cioè le situazioni la cui soluzione non è immediatamente evidente. Per questo motivo, occorre che gli studenti siano formati per essere in grado di rapportarsi a problemi e situazioni complesse e quindi non standardizzabili, non prevedibili, non definibili; dunque non insegnabili a priori. Ciò che può essere insegnato è tuttavia il modo dinamico di affrontare la complessità, attraverso l’utilizzo di strutture della conoscenza personali, sviluppate nell’autonomia di apprendimenti attivi basati su processi di costruzione da parte del soggetto che apprende. L’autonomia dell’apprendimento non significa però che non vi sia una guida formativa. La guida è presente, sebbene non utilizzi necessariamente un’azione diretta. Si tratta infatti di azioni formative che possono avvenire anche in modi indiretti, per esempio impliciti, e in contesti semiformali; al di là dello spazio-classe tradizionale, con la cattedra e i banchi disposti frontalmente, l’insegnante costruttivista può scegliere di far disporre i propri alunni in modo più libero rispetto all’ambiente. L’idea è quella di utilizzare modalità non trasmissive di scoperta guidata e, naturalmente, questo concetto — a seconda del livello evolutivo della classe alla quale si insegna — può esprimersi anche soltanto in ambito puramente teorico: il processo di scoperta e di costruzione che sostanzia l’acquisizione della conoscenza si svolge ovviamente anche seduti nel proprio banco. Il tema centrale della scoperta guidata è in effetti la formazione delle strutture della conoscenza individuali. Queste strutture servono al soggetto che apprende per costruire la conoscenza e, sebbene ogni studente le organizzi in modo personale, conservano tuttavia un carattere di generalizzabilità, in quanto è auspicabile ed è possibile che siano acquisite da tutti gli studenti. Si tratta infatti di modalità adattive di relazionarsi all’ambiente e per questo motivo possono essere anche parzialmente comuni a tutti gli individui e possono svilupparsi in modo autonomo, cioè nella relazione esperienziale con l’ambiente. Questa relazione viene monitorata a livello formativo da una guida costante, che interviene soltanto on demand, cioè su richiesta, quando ritiene necessario oppure quando viene chiamata in causa; così, accompagna in modo continuativo il processo di costruzione e di scoperta appunto guidata. Se le strutture della conoscenza sono modalità generalizzabili del funzionamento della mente, non per questo vengono meno al requisito della modificabilità. In altre parole, le strutture della conoscenza sono organizzazioni basilari condivisibili da più individui eppure, nello stesso tempo, possono essere personalizzate da ciascuno. Ad esempio, se si insegna a uno studente l’abilità di lettura, ci si aspetta che anche il resto della classe possa farlo; ciononostante ogni studente legge in maniera diversa, apportando il proprio approccio interpretativo.

Sono proprio le strutture della conoscenza che si formano durante lo sviluppo cognitivo individuale a consentire interpretazioni personali della realtà singolari per ciascun soggetto in formazione. I processi interpretativi personali sono infatti sostanziati dalla nascita di teorie ingenue, le cosiddette teorie di senso comune, che ciascun individuo costruisce in modo automatico e non consapevole quando entra in relazione con la realtà circostante attraverso l’esperienza.

Le teorie ingenue restano implicite lungo il corso dello sviluppo ontogenetico fino a che il soggetto non se ne rende conto in modo autonomo oppure perché viene indotto a farlo dall’azione formativa. Nella memoria personale di ciascuno può esservi l’esperienza di avere colto all’improvviso il significato di una situazione, di un evento, di un oggetto o di una persona

e di rendersi conto che questi erano diversi da come li aveva profilati nelle proprie teorie ingenue e implicite.

Questo stesso processo può avvenire in modo intenzionale attraverso l’azione educativa: il formatore si pone l’obiettivo di andare a indagare quali teorie di senso comune lo studente può avere generato circa un argomento e le porta gradualmente a livello consapevole del soggetto che apprende. Nel momento in cui infatti si comprende, da soli o per effetto di una stimolazione esterna, che ciò che si era immaginato, pensato, supposto e interpretato implicitamente, attraverso la messa a punto di teorie ingenue, non corrisponde alla realtà effettiva, oppure a una visione condivisa di essa, nello stesso tempo ci si rende conto, in modo ora consapevole, dei processi guida della costruzione delle teorie in oggetto, prima impliciti e poi espliciti.

L’apprendimento non è dunque un prodotto definito una volta per tutte ma è un processo di costruzione e di ricostruzione della conoscenza acquisita e nello stesso tempo prodotta dal soggetto che apprende. La costruzione della conoscenza è un processo che prevede l’attivazione di strategie di adattamento nell’interazione con gli ambienti di apprendimento. La continua sinergia del modello costruttivista con gli altri due modelli postcognitivisti nelle ricette attuali della formazione — il modello contestualista e il modello culturalista — ha dato luogo negli ultimi decenni del Novecento a forme di costruttivismo socioculturale, paradigma all’interno del quale può convivere un’interpretazione della mente come situata, incorporata, eppure distribuita.

Il coesistere di tali modelli e il loro compenetrarsi l’uno nell’altro attraverso influenze reciproche hanno significato in questo senso un ripensamento del processo di costruzione della conoscenza che implica ora, oltre all’adattamento, anche il concetto di partecipazione — seppure non come condizione necessaria — ai contesti di riferimento nei quali si radicano i pattern interpretativi individuali e collettivi.

La ricetta applicativa La ricetta guida-cambiamento prevede che chi insegna sia considerato dagli studenti, e si ponga, come una guida, mentre chi apprende si trova coinvolto in un processo di cambiamento autonomo — eppure, appunto, guidato — nel quale fa esperienza delle proprie possibili interpretazioni della realtà e le rivede continuamente alla luce delle indicazioni del formato re.

Il formatore, d’altra parte, pur svolgendo un ruolo particolarmente significativo all’interno della relazione di insegnamento e di apprendimento, e pur mantenendo una posizione asimmetrica nel modo più evidente tra le ricette attuali della formazione, resta comunque ai lati del percorso di apprendimento, lasciando che il soggetto provi a costruire da solo il proprio bagaglio di conoscenze, nella relazione adattiva, diretta e scambievole, con l’ambiente.

Ciò non toglie che il formatore possa offrire la propria competenza e intervenire in qualsiasi momento nella modulazione del percorso dello studente; tuttavia, rispetto agli altri modelli, l’azione formativa avviene in modo più funzionale rispetto alle esigenze dello studente. In altre parole, se lo studente chiede, l’insegnante risponde; se lo studente cammina da solo, l’insegnante non interviene; se prende una strada sbagliata (perché oggettivamente non corretta, oppure perché soggettivamente non condivisa da una comunità scientifica o dalla propria comunità di riferimento), l’insegnante rettifica; se, invece, prende una strada personale, l’insegnante ne segue il percorso attraverso un costante monitoraggio e tutoraggio. Da questo punto di vista, il formatore sembra assumere un ruolo che potrebbe essere definito quello di una “guida in un museo”; come in un museo, infatti, le visite possono essere guidate e il visitatore può scegliere quale percorso intraprendere — se autonomo, oppure accompagnato —allo stesso modo il formatore lascia che gli studenti entrino in visita nel mondo della conoscenza acquisendo informazioni e interpretando la realtà in modi autonomi e personali. In questo modo, l’insegnante accompagna metaforicamente gli studenti portandoli per mano, senza necessariamente intervenire, in un percorso che risulta essere tracciato insieme e che, pur seguito dall’esterno, lascia comunque i “visitatori” liberi di esprimere (e di sentire interiormente, dentro se stessi) il proprio personale modo di vedere le cose.

Nella ricetta guida-cambiamento si mette a fuoco appunto il cambiamento interiore dello studente. La posizione del neocostruttivismo piagetiano individua questo processo di cambiamento nel passaggio delle teorie soggettive da implicite e/o di senso comune a esplicite, oggettive e/o condivise da una comunità di apprendimento. Tra gli obiettivi del formatore vi è dunque quello di supportare gli studenti nella costruzione di teorie scientifiche, che possono risultare dall’abbandono, dalla trasformazione, ma anche dalla convalida, di teorie

precedentemente formulate. Ciò avviene in particolar modo nella prima età dell’infanzia, in quanto la dimensione implicita

del pensiero è presente in modo significativo nell’influenzare le interpretazioni originarie e prototipali della realtà e la sua funzione nella gestione dei processi elaborativi decresce lungo il corso dello sviluppo cognitivo anche, ma non solo, come conseguenza del rapportarsi a figure di riferimento che possono svolgere un ruolo più o meno formativo.

La metodologia didattica di questa ricetta prevede ad esempio di chiedere agli studenti di esprimere la propria idea implicita circa l’argomento di lezione del quale si parlerà e che verrà spiegato, anche se ancora non lo conoscono. Gli studenti sono così esortati dall’insegnante a lasciar emergere le teorie ingenue di senso comune che possono aver sviluppato in modo non consapevole in merito all’argomento in oggetto.

Dopo avere spiegato e approfondito la lezione, l’insegnante — insieme agli studenti — riprende le idee, le teorie e i concetti emersi nella precedente discussione e insieme li suddividono in tre gruppi — da eliminare, da trasformare, da conservare — ridiscutendole alla luce dei nuovi apprendimenti maturati in modo esplicito proprio attraverso la spiegazione dell’insegnante.

In questa ricetta, anche nei suoi aspetti di costruttivismo socioculturale, si mette a fuoco in particolar modo la naturale disposizione individuale, di natura adattiva, dei soggetti in formazione a scoprire la realtà e a interpretarla attraverso l’elaborazione di teorie personali esplicite e implicite. La potenzialità individuale di entrare in relazione, e in un certo senso di affrontare, un ambiente di apprendimento risiede nel poter fare affidamento su strutture della conoscenza personali, eppure collettivamente condivisibili nella co-costruzione. Si tratta di strutture della conoscenza comuni a più individui (specialmente nel caso di quelle implicite), in quanto parte del patrimonio biologico filogeneticamente conservato dalla specie umana, eppure singolarmente relative alle esperienze soggettive in rapporto all’ambiente. In altre parole, le caratteristiche adattive delle strutture della conoscenza consentono loro di essere sia ripetibili e ricorrenti sia peculiari e particolari; in ogni caso, modificabili.