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Dispensa Malattie dell’Apparato Cardio-vascolare Dott. Alessandro Carbonaro Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono, per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico, come il Giappone. Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte. Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi. I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono: 1) La Dispnea. 2) L’Astenia.

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Page 1: Malattie dell’Apparato Cardio-vascolare - unikore.it · Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.), utile per inquadrare

Dispensa Malattie dell’Apparato Cardio-vascolare

Dott. Alessandro Carbonaro

Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima

causa di morbilità e mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo

tale patologia è in continuo aumento con il miglioramento del tenore di vita, mentre in

altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle patologie infettive e di

una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono,

per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più

industrializzati dell’Est Asiatico, come il Giappone.

Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al

benessere! Giova a tal fine ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto

più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. In altre parole

laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali di mortalità,

mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato

cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte.

Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare

l’importanza determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un

approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa

diagnosi.

I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare

sono:

1) La Dispnea.

2) L’Astenia.

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3) Il Dolore toracico.

4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo.

5) La Nicturia.

LA DISPNEA

Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà

respiratoria che può insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o

addirittura comparire a riposo. Le sue manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la

dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi più avanti).

Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il

coinvolgimento del circolo polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro:

l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione diastolica del ventricolo

sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari polmonari e

nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei

capillari provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema

interstiziale) e quindi negli alveoli (edema alveolare).

La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una

patologia che può coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la

dispnea cardiaca è uno dei sintomi più significativi insieme all’astenia, al dolore

anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di gravità di uno

scompenso.

Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart

Association (N.Y.H.A.), utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla

insorgenza della dispnea per sforzi sempre più lievi o addirittura a riposo. Essa è così

strutturata:

Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna

limitazione della propria attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità,

né dolore anginoso.

Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa

limitazione dell’attività fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere

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disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni o dolore anginoso) per una attività fisica

usuale.

Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata

limitazione dell’attività fisica. Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi

sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a quella usuale.

Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di

effettuare qualsiasi attività fisica senza presentare i disturbi sopra indicati, che

possono essere presenti anche in condizioni di riposo.

La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema

polmonare acuto, che si realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari

supera il valore della pressione colloido-osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due

forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far fuoriuscire il liquido dal

vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a

trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la

pressione idrostatica nei capillari polmonari supera tale valore, è inevitabile una

ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture microvascolari, ad alcuni globuli

rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da dove il

sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di

drenaggio del sistema linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari, e

mescolandosi all’aria forma una schiuma, talora rosata, che invade le vie aeree ed

interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto da poter portare

a morte. All’ascoltazione del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla

fase interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste alla comparsa di rantoli prima a

piccole poi a grosse bolle, che iniziano dalle basi polmonari e giungono rapidamente a

coprire l’intero distretto respiratorio. Il soggetto è in posizione eretta e mette in

funzione tutti i muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca di riuscire ad

effettuare atti respiratori utili.

IL DOLORE TORACICO

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Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno

dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore, alla sede dello stesso, alla sua irradiazio

ne. E’ questo il sintomo più importante nell’angina ed in genere delle sindromi

coronariche acute, compreso l’infarto miocardico.

Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine

qua non” per definire il quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge

durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo od oppressivo e nel 75% dei casi è

localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili irradiazioni, delle quali

abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al

giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o

l’epigastrio. Il dolore cessa usualmente dopo poco la cessazione dello sforzo e recede

rapidamente con l’assunzione di nitroderivati. Nell’infarto miocardico acuto, il dolore

con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere ben oltre i pochi minuti e può

durare addirittura diverse ore.

Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris,

sindromi coronariche acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie

cardiovascolari quali la pericardite, la dissezione aortica, l’ipertensione polmonare,

l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di altri organi e sistemi, come

lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o

flogistico) di nervi intercostali.

LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO

La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del

cuore, infatti, decorre in maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte,

per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di cardiopalmo: quello tachicardico, in

cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello extrasistolico,

caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la

“sensazione del cuore che si ferma” . Anche se in condizioni di impegno fisico od

emozionale è frequente sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la

perdita di ritmicità è un fenomeno che difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene

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vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso di extrasistolia isolata o

sporadica.

L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico,

o al contrario estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la

fibrillazione ventricolare o l’asistolia, possono portare a morte senza alcun sintomo

premonitore, ma è innegabile che talora “salve di extrasistoli” o brevi episodi di

tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria

asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere

trattati con pacemaker o defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali.

LA SINCOPE

Può essere definita

come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad

una grave ipossia o ad una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata

da perdita di urine e/o di feci. Un tempo si distingueva la lipotimia come perdita

momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di coscienza, preceduta in

genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento della

vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La

sincope può riscontrarsi in varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41).

LA NICTURIA

E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione

della diuresi durante il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il

fenomeno può essere dovuto al riassorbimento notturno degli edemi soprattutto

declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta nel paziente con scompenso

cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno di sangue

da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata

cardiaca può giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina.

CONCETTI GENERALI

Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame

clinico costituiscono ancora oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni

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tecnologiche, che hanno apportato un grande progresso nell’inquadramento diagnostico

e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo sulla base di una corretta

valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia.

I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono

rilevabili con un accurato esame obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti

dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione, Palpazione, Percussione, Ascoltazione.

Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica

Cardiovascolare, grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la

determinazione delle dimensioni cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici

(Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto quest’ultima) conservano la loro

validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche diagnostiche

strumentali.

I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato

cardiovascolare mediante le seguenti manovre:

1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi.

2) L’osservazione del polso venoso giugulare.

3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso.

4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale.

5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di

pulsazioni abnormi.

6) La ricerca di eventuali edemi declivi.

7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di

soffi o sfregamenti.

CIANOSI

Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili

quando il contenuto di emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per

decilitro.

La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla

presenza di uno shunt destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria.

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La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni

distretti circolatori, si determina una desaturazione locale, con aumento

dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi periferica può evidenziarsi, fra

l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle resistenze

periferiche.

OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO

Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta,

reclinato a 45° (rispetto ai 90° normali per la posizione seduta).

Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive

sono denominate onde a, c e v, mentre le depressioni sono denominate x e y.

Un’attenta osservazione del polso venoso giugulare, può fornire precise indicazioni

circa la funzione delle camere destre del cuore.

Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in

atrio destro (Stenosi tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione

diastolica ventricolare destra, come si verifica nella Miocardiopatia restrittiva (vedi

Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32).

Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale.

+

ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO.

Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio

l’eccessiva pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza

aortica o di altre situazioni di circolo ipercinetico). Con l’ascoltazione possono

evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più utilizzata per l’esplorazione

del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare:

a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto;

b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni;

c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa,

carattere che è direttamente correlato alla gittata sistolica;

d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per

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sopprimere la pulsazione, espressione anche del livello pressorio;

e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai

due lati dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc).

Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare

indicativi di particolari situazioni morbose. Ecco alcuni esempi.

A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra

nella stenosi aortica.

B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica o

negli stati circolatori ipercinetici;.

C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza

nettamente ridotte) è tipico dello shock .

D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione

durante una inspirazione profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni

fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di mercurio, mentre in presenza di

pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione del

riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio.

DEMI DECLIVI

Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali,

etc.) nei soggetti che rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti

costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella regione pre-sacrale. Quando si ha un

imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si accompagnano anche a

versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.).

L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore,

ed è basata sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi.

I Toni

I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di

patologia nei bambini o in giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile.

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Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari,

mentre il II si deve alla chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1).

Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di

stenosi della valvola tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza

mitralica.

Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella

maggior parte dei casi sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la

chiusura della valvola aortica precede di poco quella della polmonare (Figura 1). A

volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono

essere ascoltate distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale

sdoppiamento, però, e variabile con le fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo

durante l’inspirazione, mentre nella fase espiratoria sono uniti. Ciò dipende dal fatto

che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte: il

ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata,

tanto da ritardare la chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo

fenomeno non è più presente, e la chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco

simultanea.

Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso in presenza di un difetto del setto

interatriale, che comporta uno shunt sinistro-destro. In questa situazione la gittata

del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato ritorno

venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale.

Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si

avvertono le due componenti separate in espirazione mentre il tono appare unico

durante l’inspirazione . Questo fenomeno è principalmente causato da un eccessivo

ritardo di A2. come accade in caso di blocco di branca sinistra o stenosi aortica

grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la chiusura della valvola

aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la

polmonare a chiudersi prima. Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico

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ritardo della chiusura della polmonare, legato all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2

diventano simultanee, mentre in espirazione non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono

appare sdoppiato.

Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori

sistemici nella sua componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione

polmonare, nella sua componente polmonare (P2). In queste condizioni, il livello della

pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del normale, per cui le

vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie.

Il III tono corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e

può risultare ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in

presenza di disfunzione ventricolare, come nello scompenso cardiaco. Normalmente il

III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica

particolarmente sottile.

Il IV tono corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle

vibrazioni provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel

ventricolo. Normalmente questo fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia

perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa frequenza, sono quasi in

continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro ampiezza

è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del

IV tono: il blocco A-V di I grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo

caso si allunga l’intervallo P-R , per cui la sistole atriale non è seguita da quella

ventricolare immediatamente, ma dopo un tempo più lungo del normale, per cui in IV

tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta distensibilità delle

pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva,

fa sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel

ventricolo.

Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza

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cardiaca, si può generare un ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono

contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la frequenza cardiaca è

aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione.

I Toni aggiunti

A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i

seguenti toni aggiunti.

1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico e i click eiettivi

aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare.

2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al

momento dell’apertura di una valvola stenotica. Normalmente non si generano

vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma quando queste divengono stenotiche la

loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto appunto schiocco

d’apertura .

I Soffi

Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e

può essere ascoltato col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche

sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del sangue dovrebbe essere laminare (in base al

numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la turbolenza marcata del flusso,

tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari motivi, inclusa

la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un

ostacolo anormale al flusso, come per esempio quello rappresentato da una valvola

stenotica; b) un flusso non fisiologico, come per esempio quello che si genera nel

difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un flusso “innaturale” del sangue da

un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata quantità del flusso,

come si verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di

stenosi valvolare, si può ascoltare sul focolaio aortico un soffio sistolico quando la

gittata sistolica ventricolare sinistra è notevolmente aumentata.

I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo

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cardiaco in cui si ascoltano), al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla

irradiazione.

Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi

ultimi occupano tutto il ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due

fasi. All’interno delle categorie dei soffi sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni

che occupano tutta la sistole (soffio solosistolico) o tutta la diastole (soffio

olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto,

meso o tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte

iniziale della fase (sistole o diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o

quella finale.

Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando

termini come dolce, rude, aspro, aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso

quello di “rullio” per indicare il soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene

assimilato a un rullio di tamburi.

La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha

la massima intensità. I quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono

quello mitralico (alla punta del cuore), tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi

ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al secondo spazio intercostale) e

polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale).

L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile

ascoltarlo bene. E’ caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza

mitralica e l’irradiazione al giugulo del soffio della stenosi aortica.

L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a

6 gradini proposta da Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio

è molto intenso, le vibrazioni generate dalla turbolenza del flusso si possono non solo

ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la mano sul precordio.

1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il

cuore con grande attenzione

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2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole

3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito

4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito

5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il

fonendoscopio a 1 cm dalla cute

6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si

solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute

I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa

distinzione ha molta importanza da un punto di vista clinico perché mentre i soffi

eiettivi possono essere sia organici, determinati cioè da una lesione anatomica (per

esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali, legati a motivi differenti da

un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i soffi da

rigurgito sono sempre organici, espressione di un’alterazione anatomica.

I soffi eiettivi iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo

come esempio il soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo

sinistro si contrae e fa chiudere la valvola mitrale, dando origine al I tono; in questa

fase, che prende il nome di contrazione isometrica (o isovolumetrica) l’eiezione del

sangue dal ventricolo non è ancora iniziata. Solo quando la pressione endoventricolare

cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in condizioni normali) la

valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio,

assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa

distanza dal I tono, non simultaneamente ad esso.

Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica . Questo inizia senza

alcun ritardo rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la

valvola mitrale si chiude e si genera il I tono inizia il rigurgito di sangue in atrio

sinistro, ben prima che la pressione intraventricolare aumenti al di sopra di quella

aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il soffio sistolico da rigurgito inizia

attaccato al I tono, mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono.

I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendo-

decrescendo, assumendo una morfologia “a diamante”, mentre i soffi da rigurgito

hanno un aspetto “a nastro” conservando la stessa intensità per tutta la loro durata.

I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza

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tricuspidale, del difetto del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere

organici, legati alla stenosi aortica o alla stenosi polmonare , ma possono anche essere

soltanto di natura funzionale, espressione di una stenosi relativa, dovuti non a

riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del flusso con un’area

valvolare normale.

I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico

della stenosi mitralica, quello della stenosi tricuspidalica , il soffio dell’insufficienza

aortica e quello dell’insufficienza polmonare .

I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo

arterioso e quello venoso, con shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco.

Il prototipo del soffio continuo è quello generato dalla pervietà del dotto arterioso di

Botallo, che si ascolta in sede sottoclaveare sinistra.

Gli Sfregamenti

Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni

soggetti affetti da pericardite . Normalmente i foglietti pericardici viscerale e

parietale sono lisci e scorrono l’uno sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito

all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi, genera gli sfregamenti,

che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.

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Lo Scompneso Cardiaco Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono

state proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo

scompenso cardiaco

come una sindrome in cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata

alle richieste dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle

pressioni di riempimento ventricolari.

La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco

come una sindrome caratterizzata dai seguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o ast

enia, a riposo e/o da sforzo, e/o edemi declivi) ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ec

ocardiografia) di una disfunzione cardiaca sistolica e/o diastolica.

L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la

progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella

definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi

intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della portata cardiaca, comunque

determinato ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta multiorganica

con attivazione cronica neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione mioca

rdica, nonostante una controrisposta di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatori

a.

EPIDEMIOLOGIA

A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della

maggior parte delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua

crescita. La prevalenza di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei

paesi europei sono quindi affette da scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone.

Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra

asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da scompenso cardiaco con conservata funzione

sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è spesso sfavorevole: la forma acuta di

scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i soggetti di età superiore ai 65 anni.

Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a morire in un tempo medio di 4

anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un solo anno per il 50%

dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento della prognosi

dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia.

CAUSE

Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di

compromettere la funzione cardiaca. Può essere causato da una disfunzione

miocardica (condizione più frequente) ma anche da valvulopatie, malattie del

pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente l’anemia,

la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi

negativi possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco.

Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è

spesso caratterizzato da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia

ischemica, spesso con concomitante ipertensione arteriosa, ne è la causa più

frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più frequente

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l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti

hanno una storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia

ventricolare sinistra concentrica.

Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in

particolare la cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di

scompenso cardiaco.

MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE

MIOCARDICA

Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca

sono la frequenza cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità.

Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione

(telediastole). Viene misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico.

L’aumento del precarico causa un aumento della forza di contrazione miocardica (legge

di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina. Il cuore insufficiente è

generalmente dilatato a tal punto da avere un esaurimento della riserva di precarico

così che le variazioni di quest’ultimo non comportano più variazioni della gettata

cardiaca.

Il postcarico è il carico cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene

misurato dallo stress sistolico, ed è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze

periferiche. Lo stress sistolico è direttamente proporzionale al raggio ed alla

pressione intraventricolare ed inversamente proporzionale allo spessore parietale

(legge di Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del

postcarico. Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal postcarico.

La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle

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condizioni di carico. Il deficit di contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale

dello scompenso. Spesso questa non comporta alterazioni della potata cardiaca e delle

pressioni di riempimento ventricolari a riposo. Sotto sforzo, tuttavia, il cuore

insufficiente presenterà sempre una ridotta capacità di far fronte alle aumentate

richieste dei tessuti periferici con insufficiente incremento della contrattilità e della

portata cardiaca ed aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari.

Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di

contrattilità.

Ipertrofia Miocardica

L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale.

Questo può essere dovuto sia a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione,

stenosi aortica) che di volume (per esempio, rigurgito mitralico oppure aortico). Il

ruolo svolto dall’ipertrofia miocardica nella patogenesi dello scompenso cardiaco è

tradizionalmente ritenuto fondamentale: l’ipertrofia è vista come lo stadio intermedio

tra un qualsiasi danno miocardico iniziale e la successiva insufficienza miocardica.

Tuttavia, nonostante numerose dimostrazioni sperimentali, pochi studi clinici sono

stati finora in grado di confermare questa ipotesi.

L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne

favoriscono, a loro volta, la degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A

livello dei miociti, si verifica un aumento del numero dei sarcomeri, che avviene in

parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un sovraccarico

pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia

eccentrica), nel sovraccarico volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre

miocardiche aumenta in misura maggiore rispetto al numero dei capillari, e all’interno

di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura maggiore rispetto ai

mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di

ossigeno e di energia.

L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare

(apoptosi) ed alterazioni qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo

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fetale che contribuiscono alla genesi della disfunzione cardiaca. La fibrosi miocardica

viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e substrati alle cellule

miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi.

Accelerata morte cellulare

Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si

realizza nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto

clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti possibile rilevare un aumento della

troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza sindrome coronarica

acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa

del relativo deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento

dello stress miocardico e della pressione telediastolica ventricolare.

Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in

cui l’attivazione di uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi

con esito in degradazione del DNA cellulare. Questo processo, normalmente presente

solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è attivato in corso di scompenso

cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità.

Alterato rapporto fra le isoforme della miosina

Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin

heavy chain). Una rapida, ad elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC,

prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a bassa attività ATPasica, codificata dal

gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si verifica la

riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di

beta-MHC.

Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono

antagonizzate, nella maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante.

Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico

Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla

cellula miocardica ed a compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad

alto contenuto energetico. Questi comprendono alterazioni nell’utilizzazione dei

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substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione ossidativa e nel trasferimento

ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione

dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il rapporto

CP/ATP è un indice della disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione

in corso di scompenso, valutabile mediante risonanza magnetica nucleare e

spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti.

Alterato metabolismo del calcio

Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di

energia e dell’apparato contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una

normale risposta contrattile alla somministrazione di calcio. E’quindi logico ritenere

che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i principali fattori responsabili

dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente.

Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente

del reticolo sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio

durante la diastole. A questo consegue una compromissione del rilasciamento

miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo sarcoplasmatico. Ciò

determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con

conseguente riduzione della contrattilità.

Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente

maggiore perdita di calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la

diastole.

Fibrosi interstiziale

A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a

livello sia della componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti

vanno incontro ad iperplasia, con un aumento di sintesi di collagene sproporzionato

rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si verificano anche

modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene

tipo I, più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento

delle fibre miocardiche le une sulle altre, disorganizzazione della normale

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architettura del ventricolo sinistro, che assume una conformazione sferica. Questa

comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile.

La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di

ricaptazione del calcio da parte della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile

delle alterazioni della funzione diastolica del cuore insufficiente.

ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE

Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi

simpato-adrenergico e renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione

consiste essenzialmente nel determinare vasocostrizione periferica, ritenzione idro-

salina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi favoriscono la

progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici

con specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili.

Attivazione simpato-adrenergica

I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali,

un’aumentata eliminazione urinaria di catecolamine ed elevate concentrazioni

plasmatiche di norepinefrina. L’incremento dell’attività simpatica non interessa in

modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e cardiaco;

qui le concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al

normale. L’attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell’evoluzione dello

scompenso, ed è già presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra

asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino interessa globalmente tutto il sistema

neurovegetativo, poiché all’aumento dell’attività simpatica è associata la riduzione di

quella parasimpatica.

L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello

scompenso cardiaco è dimostrata dal valore prognostico indipendente dei livelli di

norepinefrina plasmatica e dall’effetto estremamente favorevole sulla prognosi della

terapia beta-bloccante.

Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere

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effetti dannosi sulla cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del

numero dei beta1 recettori miocardici, per cui il rapporto tra beta1 e beta2 recettori

miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40. Ciò causa una ridotta

risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al

ridotto incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei

pazienti..

La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando

apoptosi ed alterazioni dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della beta-

MHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA). Essa può favorire l’ischemia e la necrosi

miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della contrattilità, condizioni

entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno.

Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione

periferica, sia diretta che indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina,

con conseguente aumento del postcarico e riduzione della gittata sistolica; 2)

l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione del sistema

renina-angiotensina.

Sistema renina angiotensina aldosterone

L’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più grave

compromissione emodinamica e funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli

effetti favorevoli degli ACE inibitori e degli antagonisti dei recettori dell’angiotensina

II sulla prognosi.

I meccanismi con cui l’angiotensina II può influenzare negativamente l’evoluzione dello

scompenso sono molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione periferica,

aumento del postcarico e calo della gittata sistolica. In secondo luogo, stimola la

secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi aumento del

precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina,

anche l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi).

L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare

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ritenzione idro-salina ed ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica,

aumento della stimolazione simpatica cardiaca e disfunzione endoteliale. Tutti questi

effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono conto degli effetti

favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi.

Vasopressina

Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate

concentrazioni plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere

stimolata meno frequentemente che quella di renina, aldosterone o norepinefrina.

La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori

V1 determina vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica,

mentre la stimolazione dei recettori V2 provoca ritenzione di acqua libera per

permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale.

Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la

somministrazione di antagonisti della vasopressina non ha determinato variazioni nella

sopravvivenza.

Fattori natriuretici

La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale

(ANP), il peptide natriuretico B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la

prima volta nelle cellule del sistema nervoso centrale di maiale, il peptide natriuretico

C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso centrale e dai vasi

periferici.

La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale.

In corso di scompenso cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico

causa l’espressione di geni attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e

BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (proBNP), che viene quindi

clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un frammento N-

terminale (NT-proBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente

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circolatorio.

L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la

concentrazione di ANP è maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a

livello ventricolare. Per questo motivo, oltre che per la più rapida risposta della

secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente nella pratica

clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e

prognostica dei pazienti con socmpenso cardiaco.

I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione

simpatica e la secrezione di renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La

loro secrezione si verifica precocemente nello scompenso cardiaco. È quindi probabile

che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale

equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a

controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e renina-

angiotensina-aldosterone.

Prostaglandine

Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello

dell’arteriola afferente renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente

dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi con antiinfiammatori non steroidei

determina un netto peggioramento della funzione renale, per vasocostrizione

dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei

pazienti con scompenso cardiaco.

Ossido nitrico

L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una

riduzione della vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose

condizioni patologiche tra cui lo scompenso cardiaco.

Endotelina

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Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice.

La loro sorgente più importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a

presentare una potente e prolungata attività vasocostrittrice, le endoteline stimolano

il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia miocardica e la

proliferazione delle cellule muscolari lisce.

Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo

delle concentrazioni di ET-1, rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la

somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina non ha avuto effetti

favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la

prognosi dei pazienti con scompenso acuto.

Stress ossidativo

Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello

miocardico che a livello vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La

produzione di radicali liberi riduce la capacità di dilatazione vascolare periferica e

stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e l’apoptosi.

Citochine

I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono

aumentati nei pazienti con scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono

correlati con la severità della sintomatologia e con la prognosi. Gli effetti negativi dei

mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e comprendono

un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei

cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia,

nonostante questi presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle

citochine non ha modificato l’evoluzione dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia

antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei pazienti.

RITENZIONE IDRO-SALINA ED AUMENTO DEL PRECARICO

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La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, a due meccanismi

fondamentali: le modificazioni dell’emodinamica renale e l’attivazione neuro-ormonale.

Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare

Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della

portata cardiaca con riduzione del flusso ematico renale. A questo fa riscontro una

relativa conservazione della filtrazione glomerulare, con aumento della frazione di

filtrazione. Infatti, l’angiotensina II determina una vasocostrizione maggiore

nell’arteriola efferente che in quella afferente, per cui la pressione all’interno dei

capillari glomerulari aumenta. La filtrazione glomerulare, perciò, diminuisce in misura

minore rispetto al flusso plasmatico renale, e la frazione di filtrazione aumenta.

Ritenzione idrico-salina

La riduzione del flusso plasmatico renale e l’aumento della frazione di filtrazione

determinano ipoperfusione dei capillari peritubulari, con conseguente calo della

pressione idrostatica ed aumento della concentrazione di proteine e della pressione

oncotica al loro interno. Queste modificazioni dell’equilibrio tra pressione idrostatica

ed oncotica intratubulare e nei capillari peritubulari portano ad un maggior

riassorbimento di sodio cui consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento

idrico.

L’iperattività simpatica e del sistema renina-angiotensina causano ritenzione idrosalina

anche con altri meccanismi. L’attivazione simpatica determina redistribuzione del

flusso ematico intrarenale dai nefroni corticali e quelli iuxtamidollari, dotati di più

lunghe anse di Henle e quindi in grado di maggior riassorbimento salino. L’angiotensina

II stimola la secrezione di aldosterone, con maggior riassorbimento di sodio, in

scambio con il potassio, a livello del tubulo distale e del collettore. Infine, la

vasopressina rende permeabile all’acqua il tubulo collettore e favorisce il

riassorbimento di acqua. Il riassorbimento di acqua può verificarsi in misura maggiore

del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione.

La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico,

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attraverso il quale l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in

condizioni in cui la portata cardiaca e la pressione di perfusione tessutale tendono a

calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste modificazioni sono,

tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la

principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che

delle ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso.

Modificazione del precarico

La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello

cardiaco, un aumento del precarico. L’aumento di precarico può inizialmente

comportare una maggior gittata sistolica attraverso il meccanismo di Frank-Starling.

Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di precarico

(vedi sopra). L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un

aumento dello stress parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del

postcarico e del consumo miocardico di ossigeno.

VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA ED AUMENTO DEL POSTCARICO

Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto

all’attivazione dei meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle

alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, etc). Questi fenomeni determinano

vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance delle grosse e

medie arterie.

Il ventricolo normale è in grado di mantenere una normale gittata sistolica anche in

presenza di incremento del postcarico. All’opposto, il cuore insufficiente è

criticamente dipendente dal post-carico, così che anche minime variazioni dello stesso

comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo ha guidato

l’introduzione della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco.

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RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO

La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con

scompenso cardiaco.

Fattori emodinamici

La riduzione della capacità funzionale è innanzitutto conseguenza della

compromissione emodinamica del paziente con scompenso cardiaco. Nessun parametro

emodinamico, valutato a riposo, tuttavia, è correlato con la capacità funzionale. La

risposta allo sforzo, a differenza dell’emodinamica a riposo, è strettamente correlata

con la capacità funzionale. Una correlazione significativa è stata osservata

soprattutto con gli indici di funzione sistolica ventricolare sinistra (portata cardiaca,

indice di lavoro del ventricolo sinistro).

Flusso ematico muscolare scheletrico

Nei pazienti con scompenso cardiaco è stata osservata una ridotta capacità

dilatatrice dei vasi della muscolatura scheletrica. La riduzione della portata cardiaca e

della vasodilatazione muscolare fanno sì che il muscolo si venga a trovare, sotto

sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua volta, di più

precoce comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo.

A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica

contribuiscono sia l’attivazione neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO,

endotelina, citochine).

Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica

Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della

capacità funzionale, con precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio

nonostante un normale incremento del flusso ematico durante sforzo. In questi

pazienti la muscolatura scheletrica sembra essere la principale responsabile della

ridotta capacità funzionale.

In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni

morfologiche (ipotrofia, fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità

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dei capillari) e biochimiche (riduzione degli enzimi responsabili del metabolismo

aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della glicolisi anaerobia).

Similmente alla riduzione della capacità dilatatrice dei vasi, anche le alterazioni della

muscolatura scheletrica possono essere considerate come il risultato di un processo di

decondizionamento muscolare. L’importanza di questo meccanismo è dimostrata dalla

possibilità di ottenere un significativo miglioramento della capacità funzionale con

l’allenamento fisico.

Diffusione alveolo-capillare

Anche la diffusione alveolo-capillare dell’ossido di carbonio, valutata a riposo, è

correlata con la massima capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione

della capacità di diffusione alveolo-capillare può determinare incremento dello spazio

morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e capacità vitale (Vd/Vt).

Risposta ventilatoria allo sforzo

I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e

più superficiale, con maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico

lavorativo, rispetto ai soggetti normali.

SCOMPENSO CARDIACO ACUTO

DEFINIZIONE

L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è Incapace di pompare

sangue in quantità adeguata alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può

far questo soltanto mediante un aumento delle pressioni di riempimento.

L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e

sintomi secondari a disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere

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associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad anomalie del ritmo o ad un

“mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una minaccia

per la vita e necessita di un trattamento di emergenza.

L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di

malattia in pazienti senza disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o

come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica. Perciò, l’insufficienza

cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con

un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad

esempio un esteso infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione

arteriosa in presenza di un ventricolo sinistro deficitario; 2) pazienti con

peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica; 3)

pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e

vanno rapidamente incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare

prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla terapia medica e necessità di

trattamenti non farmacologici.

EPIDEMIOLOGIA

L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo

occidentale. La causa più comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia

coronarica (~70%).

I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è

particolarmente elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad

insufficienza cardiaca grave. Dati simili sono stati riportati per l’edema polmonare

acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta

vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un

anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva

della capacità funzionale, per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad

un’azione di cardioprotezione.

Quadri Clinici

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I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1)

alla diminuzione della portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano

ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale; 2) all’aumento delle pressioni di

riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione sistemica e

polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri

clinici, correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla

rapidità di insorgenza e alla gravità.

LA DISPNEA

Sintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste

in una sensazione di sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria.

È la conseguenza della congestione polmonare, dovuta alle aumentate pressioni

intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca aumento del contenuto

idrico extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e aumentando il

lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume

spesso le caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna.

L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare

l’insorgenza della dispnea o ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il

ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la congestione polmonare.

La dispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali,

durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto

a sedersi sul letto con i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In

alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro sibilante dovuto a broncostenosi

(asma cardiaco).

L’EDEMA POLMONARE

L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene

provocato dall’accumulo di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il passaggio

di liquido dal capillare all’interstizio e viceversa è, in condizioni normali, governato da

due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare, che tende a far fuoriuscire

la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche,

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(pressione oncotica) che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso.

Quest’ultima corrisponde a una pressione di circa 25 mm Hg. Quando la pressione

all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei 25 mmHg, si realizza

dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il

sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua

capacità di drenaggio viene superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare),

compromettendo la funzione polmonare, sia da un punto di vista meccanico che degli

scambi gassosi.

La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un

ulteriore peggioramento della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando

la pressione capillare polmonare. La riduzione della portata cardiaca, inoltre, attiva il

sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, muscolare e

splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro

canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento

delle resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro in

un cuore già insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore

riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata

crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale perfusione

cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto,

fortemente agitato, madido di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e

gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può essere presente cianosi alle labbra

e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti, che con

l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito

polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed

eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema

polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure

evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e l’arresto di circolo, con esito fatale.

L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni

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a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e

dell’addome, della cute, dei reni.

La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della

vasocostrizione arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori

tensivi sistemici si riducono, sino a raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno.

La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si può valutare osservando il grado

di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a 45°).

La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi

cutanei come meccanismo compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più

gravi può comparire cianosi.

I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml

nelle 24 ore) unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la

gittata cardiaca è gravemente ridotta, si può arrivare fino all’anuria (< 100 ml nelle 24

ore).

L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una

condizione cronica; esso è dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche

e soprattutto alla ritenzione idrosalina.

L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base

dello scompenso. La frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto

dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso presente un ritmo di galoppo,

dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi Capitolo

2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico

puntale da insufficienza mitralica acuta. All’esame del torace, quando l’aumento della

pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel

tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi (rantoli crepitanti) .

Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali,

diffondendosi progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi della

condizione clinica ed in assenza di adeguato trattamento.

Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è

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stata formulata la classificazione di Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in

base alla presenza di segni di congestione polmonare e periferica, segni di bassa

portata, e segni di aumentato volume telediastolico ventricolare. La classe I è

caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri

diagnostici per la II classe includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei

campi polmonari, terzo tono e ipertensione venosa polmonare. La classe III include

pazienti con insufficienza cardiaca severa (rantoli estesi a tutti i campi polmonari o

edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock cardiogeno, con

pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi.

Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul

reperto ascoltatorio toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda

che presenti rantoli o no), distingue quattro gruppi di crescente gravità clinica: il

gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il

gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e umidi” (Figura 3).

Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto

miocardico, oppure la fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido

peggioramento: si manifesta quando la portata cardiaca scende al di sotto dei valori

minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi Capitolo 22).

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta,

bisognerà sempre eseguire, oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi

miocardica. Può essere, inoltre, dosato il peptide natriuretico di tipo B (Brain

Natriuretic Peptide-BNP, che viene rilasciato dai ventricoli in risposta allo stiramento

delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per escludere o

identificare la presenza di scompenso cardiaco congestizio.

Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo

stato metabolico del paziente.

La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia

cardiaca, ma soprattutto sulla distribuzione del flusso polmonare.

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L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni

dipendenti dalla cardiopatia di base.

L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta

è l’ecocardiogramma, che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli

spessori parietali, la cinesi globale e segmentale, la frazione di eiezione e la

contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli apparati valvolari e di

altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava

inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione

con il Doppler pulsato del flusso trans mitralico.

PRINCIPI DI TERAPIA

Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca

acuta sono migliorare i sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e

proteggendo il tessuto miocardico. La terapia dell’ insufficienza cardiaca acuta si

prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il postcarico,

migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5).

I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò

riducono la massa liquida circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più

usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida, (furosemide e torasemide), spesso in

associazione con i risparmiatori di potassio.

Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che

ridistribuendo il volume ematico aumentano la capacità del distretto venoso, e

sequestrano in questa sede parte della massa circolante, riducendo il riempimento

cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il

nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso.

Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una

minor ritenzione di acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati

nello scompenso acuto. Al contrario, i farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto

dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono essere di grande aiuto nella fase

acuta.

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Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui

recettori beta-adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina,

precursore naturale della noradrenalina, è utile nel trattamento degli stati ipotensivi;

a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e mesenterici, per

stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di

sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando

una modesta tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori a-

adrenergici, innalzando i valori tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori

ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo, abbassa le resistenze periferiche e

determina un aumento di gittata cardiaca.

I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle

fibre miocardiche, con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio

intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò, riducono la frequenza cardiaca e

rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del tono vagale),

per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di

fibrillazione atriale.

Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come

il levosimendan, che agisce tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la

sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame con la troponina C,

determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo

miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti,

provocando una vasodilatazione periferica.

SCOMPENSO CARDIACO CRONICO

QUADRI CLINICI

Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando

di un’eccessiva semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste

mantengono un loro valore soprattutto didattico.

La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi

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capitolo 20). Nell’ambito dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore

le distinzioni tra scompenso anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e

diastolico.

Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da

ricercarsi nell’inadeguata portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti

periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda, la causa dei sintomi e segni è da

ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un aumento della

pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi

venosi tributari ed, infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa

trasudazione di liquido ed edema interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema

alveolare.

La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della

precedente teoria retrograda. Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da

accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con congestione ed edema polmonare.

Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed epatica.

La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata

sul riscontro o meno di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con

sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche nei pazienti con frazione d’eiezione

normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica ventricolare

sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti

anche nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce

usare il termine di scompenso cardiaco con normale frazione d’eiezione piuttosto che

quello di scompenso diastolico. I pazienti con normale frazione d’eiezione possono

corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco e la loro

prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei pazienti

con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più

spesso anziani, di sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa.

SINTOMI

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Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di

scompenso cardiaco. Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente

durante sforzi fisici, successivamente si presenta anche a riposo con le

caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema

polmonare acuto (vedi Capitolo 1).

La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare.

Viene comunemente avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico

intenso. Nel paziente con scompenso cardiaco vi è una riduzione del grado di attività

associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità dello scompenso cardiaco,

tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la

classificazione della New York Heart Associaton.

La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita

all’aumento delle pressioni capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In

realtà la correlazione con la compromissione della funzione ventricolare sinistra,

soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che contribuiscono a causare

dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della

portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono

lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della

muscolatura scheletrica, ridotta compliance polmonare, aumento della resistenza delle

vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo.

Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina

con sua regressione sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente,

entro pochi minuti dall’assunzione della posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione

del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del precarico e congestione

polmonare.

Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante

il sonno, causando il risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame

d’aria. Questi sintomi spesso si riducono con la posizione seduta, spesso sul bordo del

letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori da broncospasmo per

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edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema interstiziale.

Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente

incremento della portata cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice

periferica, le alterazioni biochimiche ed istologiche e l’ipotrofia della muscolatura

scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza relativa dei meccanismi

muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione della

portata cardiaca, varia da paziente a paziente.

Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che

possono essere causati da numerose malattie non cardiovascolari.

Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore

notturne), è dovuta all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito

supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi avanzate dello scompenso cardiaco,

secondario ad ipoperfusione renale.

Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente

soprattutto quando vi è disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con

conseguente distensione della capsula epatica e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta

descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i pasti. Questi pazienti

possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea.

Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata

cardiaca può causare vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali.

Questi sono più frequenti nei pazienti anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale.

SEGNI CLINICI

La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina.

Alcuni di essi (stasi giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore

prognostico.

Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco

cronico;. nelle fasi più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere

dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di attivazione adrenergica come cute

pallida, fredda, sudata e cianotica.

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Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico)

all’auscultazione è indicativo di un aumento della pressione atriale sinistra con brusca

decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro immediatamente dopo la

fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile in soggetti

normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza

tricuspidale è spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche

evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del 2° tono.

Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici,

espressione della pressione differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con

scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca.

Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle,

crepitanti. Questi si evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure,

inizialmente, soltanto alla base destra. Nei casi di maggiore gravità tendono ad

estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.

Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno

gravi, solo alla base destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene

polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è frequente soprattutto nei casi

d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi.

Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non

strumentale per valutare la presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va

eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed anonima si

continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la

trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso

giugulare, la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco

inclinato di 45° (vedi Capitolo 2).

Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per

almeno un minuto in ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso

tempo, incapacità del ventricolo destro a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno

venoso.

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Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione

e percussione dell’ipocondrio destro.

Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un

aumento della pressione nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con

possibile associato aumento della permeabilità dei capillari peritoneali.

Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si

deve verificare l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli

edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del

corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie, zona

pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è

rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti

costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a

generalizzarsi (anasarca).

Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una

prognosi severa. La genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed

intestinale con malassorbimento intestinale per grassi e proteine; aumentato

metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo miocardico

di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.

SEGNI CLINICI

La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina.

Alcuni di essi (stasi giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore

prognostico.

Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco

cronico;. nelle fasi più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere

dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di attivazione adrenergica come cute

pallida, fredda, sudata e cianotica.

Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico)

all’auscultazione è indicativo di un aumento della pressione atriale sinistra con brusca

decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro immediatamente dopo la

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fase di riempimento rapido . E’ molto raramente udibile in soggetti normali adulti. Un

soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso

udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione

della componente polmonare del 2° tono.

Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici,

espressione della pressione differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con

scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca.

Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle,

crepitanti. Questi si evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure,

inizialmente, soltanto alla base destra. Nei casi di maggiore gravità tendono ad

estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.

Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno

gravi, solo alla base destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene

polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è frequente soprattutto nei casi

d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi.

Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non

strumentale per valutare la presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va

eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed anonima si

continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la

trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso

giugulare, la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco

inclinato di 45° .

Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per

almeno un minuto in ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso

tempo, incapacità del ventricolo destro a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno

venoso.

Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione

e percussione dell’ipocondrio destro.

Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un

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aumento della pressione nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con

possibile associato aumento della permeabilità dei capillari peritoneali.

Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si

deve verificare l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli

edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del

corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie, zona

pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è

rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti

costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a

generalizzarsi (anasarca).

Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una

prognosi severa. La genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed

intestinale con malassorbimento intestinale per grassi e proteine; aumentato

metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo miocardico

di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.

ESAMI STRUMENTALI

Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso

cardiaco cronico, ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per

sé, la presenza di scompenso; tuttavia un QRS con durata >120 ms, specialmente

associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità di una disfunzione

ventricolare .

Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare

cardiomegalia, congestione polmonare ed eventuali patologie polmonari associate.

Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici,

creatininemia, glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può

essere valutata se indicata in base ai reperti clinici.

Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è

presente in un 20-30% dei pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso

cardiaco più grave . La sua patogenesi è multifattoriale: insufficienza renale, terapia

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con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc.

L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’

almeno parzialmente dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia

può verificarsi come conseguenza della terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre

che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in quanto possibile causa di

aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o

terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone.

L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad

ipoperfusione renale. Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici,

antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del sistema renina-angiotensina-

aldosterone).

Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di

scompenso cardiaco. Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non

trattato rendono la diagnosi di scompenso poco probabile. Oltre allo scompenso

cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare sinistra, l’ischemia

miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli

plasmatici di peptici natriuretici.

Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare

una disfunzione cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la

frazione d’eiezione ventricolare sinistra, misurata dal rapporto fra la gittata sistolica

e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume telediastolico il volume

telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume

telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con

disfunzione ventricolare sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica.

L’aumento dei volumi telesistolico e telediastolico ventricolare sinistro è un’altra

caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a disfunzione ventricolare

sistolica.

La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento

dell’anulus mitralico mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una

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valutazione della severità della disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Più spesso,

la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo flusso trans mitralico. I

tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e

restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado

lieve, moderato e grave .

Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di

evidenziare un’eventuale insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente

presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni (es. una stenosi aortica) che

possono avere causato lo scompenso cardiaco.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e

riproducibile per la valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione

ventricolare sinistra globale e regionale, dello spessore miocardico, della rigidità di

parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi Capitolo 7).. E’ limitata

dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore

automatico.

Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari

della dispnea e nel valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante.

Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni

d’ischemia miocardica.

Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e

nella valutazione prognostica.

PRINCIPI DI TERAPIA

Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di

migliorare la prognosi (riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro

fondamentale obiettivo è la prevenzione della disfunzione cardiaca nei pazienti a

rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc) e la

prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti

con disfunzione cardiaca.

Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi

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per migliorare la prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima

categoria appartengono gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone ed i

beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale.

ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei

pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi.

L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi controllati con placebo che hanno

dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità funzionale ed una

riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti

favorevoli sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non

inibizione, dei fenomeni di rimodellamento ventricolare sinistro ed, in minore misura,

alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle aritmie.

Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere

somministrati a tutti i pazienti con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di

stabilità clinica. La loro efficacia è stata dimostrata in pazienti con scompenso

cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla IV), dovuta a

cardiopatia ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare

sinistra, già in trattamento con diuretici e ACE inibitori, nonché in pazienti con

disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale, con o senza sintomi di scompenso. In

questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno dimostrato una riduzione della

mortalità, ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso cardiaco ed

un miglioramento della classe funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al

placebo.

Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta

all’ACE-inibitore, al beta-bloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato

(NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza, morbilità e classe funzionale.

Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina

II hanno effetti simili o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità

dei pazienti con scompenso cardiaco cronico e dei pazienti con recente infarto.

Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di intolleranza a

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questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle

ospedalizzazioni e sulla mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora

sintomatici per scompenso.

Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso

cardiaco in presenza di ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione

venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto che nelle forme di scompenso cardiaco

lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i diuretici dell’ansa

(furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime

necessarie per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro

somministrazione favorisce l’attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e

simpatoadrenergico, il peggioramento della funzione renale ed alterazioni

elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il paziente con

scompenso cardiaco.

I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono

essere associati agli altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo

spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da quello diuretico (vedi sopra).

Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso

cardiaco sintomatico. Nei pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla

mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in particolare quelle per scompenso cardiaco.

Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso

cardiaco sono i nitrati, per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i

sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei pazienti con concomitante fibrillazione

atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici, nei casi con

cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie.

L’impianto del defibrillatore automatico e

la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker biventricolare sono

indicati in pazienti selezionati.

LO SHOCK CARDIOGENO

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DEFINIZIONE

Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione

tissutale con ipossia causata da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura is

chemica, in presenza di un adeguato volume intravascolare. Questa situazione di

ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria, cui consegue il rapido ripristino

di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio, e una

forma che si protrae a lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta

lo shock cardiogeno vero e proprio.

I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono:

pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla

somministrazione di liquidi endovena;

segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria;

diuresi oraria inferiore a 20 ml;

indice cardiaco inferiore a 1,8 l/min/m2;

pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm

Hg).

EPIDEMIOLOGIA

Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa

cardiovascolare dopo l’infarto miocardico.

L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di

rivascolarizzazione (farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti

miocardici acuti con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Dalle più recenti

casistiche si stima che lo shock si verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e nel

3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST

(NSTEMI).

Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio

aritmie, bradicardia, alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%.

EZIOLOGIA

Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni:

deficit di eiezione ventricolare: un deficit acuto della funzione ventricolare sistolica può

derivare dalla compromissione grave di una grande parte della massa miocardica. Tra le cause

principali di questa situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del miocardio;

tuttavia, anche infarti miocardici di piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in

pazienti con preesistente compromissione del ventricolo sinistro, possono evolvere in shock

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cardiogeno. Un deficit di eiezione può essere, peraltro, sostenuto anche da aritmie ventricolari o

da insufficienze valvolari ad insorgenza acuta;

difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a:

cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva;

cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica

serrata.

FISIOPATOLOGIA

La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la

stimolazione dei barocettori (i principali sono quelli del seno carotideo e del seno

aortico), determinando:

vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso una stimolazione del sistema

nervoso simpatico;

aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico.

La caduta della pressione sistemica induce:

aumento della stimolazione dei chemocettori (i principali sono situati nell’arco aortico e alla

biforcazione delle carotidi), determinando:

iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue;

tachicardia riflessa (il riflesso tachicardizzante è di origine polmonare, prodotto

dall’iperventilazione);

aumento dei livelli di catecolamine circolanti, responsabili della vasocostrizione arteriosa e

venosa;

attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione

sistemica, con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi.

Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi

del ventricolo sinistro. Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione

ventricolare sinistra, un’elevata pressione telediastolica del ventricolo sinistro

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determina edema polmonare, con alterazione degli scambi gassosi polmonari. La

conseguente acidosi respiratoria aumenta ulteriormente l’ischemia miocardica, la

disfunzione ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare.

Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per

breve tempo, la crisi può risolversi con il ripristino di normali valori di pressione

sistemica. Quando, invece, questa reazione compensatoria è insufficiente a far fronte

all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce, attraverso il

perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento

della funzione cardiaca, fino alla morte.

In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di

miocardio non ischemiche diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di

ossigeno. Le conseguenze di questa risposta dipendono dall’estensione del danno e dal

precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia coronarica sottostante,

dalla presenza di altre patologie valvolari.

Si possono verificare tre condizioni:

compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione

miocardica

compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente

ridotte e conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica

ventricolare sinistra

shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento

dell’ischemia miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa

condizione presentano una limitata possibilità di sopravvivenza.

SINTOMI E SEGNI CLINICI

A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente

manifestarsi in assenza di sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti,

si tratta per lo più dei sintomi di un infarto miocardico acuto (dolore toracico,

dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito, astenia).

Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di

coscienza, come risultato della ridotta perfusione cerebrale; altri segni di

ipoperfusione d’organo conseguenti alla ridotta gittata cardiaca sono la contrazione

della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi, la marezzatura delle estremità. Queste

alterazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che

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l’indice cardiaco (cioè la gittata cardiaca rapportata alla superficie corporea) non

scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2.

L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare,

aumentata frequenza cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza

di aritmie; un polso paradosso compare se la causa dello shock è il tamponamento

cardiaco. L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è presente edema polmonare

alveolare.

L’obiettività cardiaca presenta spesso un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se

lo shock cardiogeno deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico,

possono essere udibili anche i soffi da insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da

difetto del setto interventricolare.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Per la diagnosi di shock cardiogeno è necessario confermare la presenza di

disfunzione cardiaca o di eventuali ostacoli meccanici al riempimento ventricolare (per

esempio tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva, trombi o mixomi striali,

embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata). E’ altresì importante escludere

altre potenziali cause di grave ipotensione come l’ipovolemia, l’emorragia e la sepsi.

L’iter diagnostico, partendo dall’anamnesi e dall’esame obiettivo del paziente, procede

considerando i seguenti esami diagnostici:

Elettrocardiogramma:

Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere

in luce aritmie. Un ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno.

Radiografia del torace

E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di

altre eventuali patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle

dimensioni del mediastino e della radice aortica, utili per escludere una dissezione

dell’aorta.

Esami ematochimici

La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per

diagnosticare un infarto miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in

cui il tracciato elettrocardiografico non sia interpretabile. E’ anche utile misurare la

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concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso (emogasanalisi arteriosa), dal

momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente dannosi sul

miocardio.

4. Ecocardiogramma

Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria

dei ventricoli e consente di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause

meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo papillare con insufficienza mitralica

acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera ventricolare con

tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici.

5. Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro.

L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione

arteriosa, mentre quello di una vena, incuneando un catetere (catetere di Swan-Ganz,

) a livello dei capillari polmonari, permette di ottenere parametri emodinamici

fondamentali per la diagnosi, quali la portata cardiaca e le pressioni di riempimento

ventricolare.

CENNI DI TERAPIA

Terapia farmacologica

Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l’intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli

elevati livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve

essere attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca

dilatazione venosa e può ridurre la pressione arteriosa.

Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario

infondere un agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per

minuto, il farmaco induce aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla

stimolazione ß-adrenergica, e incremento del flusso renale mediato da recettori specifici

dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg

per minuto.

Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione

adeguata, si deve prendere in considerazione il passaggio all’infusione di noradrenalina.

Questo farmaco è un potente costrittore arteriolare e venoso, la cui azione è mediata

attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la stimolazione ß-adrenergica è

relativamente modesta.

Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta

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è la dobutamina, che può produrre un aumento della pressione sistemica attraverso

l’incremento della gittata cardiaca.

Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve

essere associato a quello di un agente inotropo. Il farmaco principalmente utilizzato è il

nitroprussiato di sodio, il quale riduce sia il precarico che il postcarico del ventricolo sinistro.

Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I

diuretici più utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori

di potassio (per esempio, spironolattone).

Supporto meccanico

La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un supporto

circolatorio meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un

palloncino montato su un catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di

comando che è in grado di monitorizzare l’ECG e la curva di pressione arteriosa,

sincronizzando l’insufflazione e la desufflazione del palloncino con il ciclo cardiaco. Il catetere

viene inserito per via percutanea attraverso l’arteria femorale, e la sua punta è posizionata in

aorta discendente 1-2 centimetri sotto l’emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra

l’origine delle arterie renali.

Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un

notevole aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica

sistolica, e aumentando di conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio

del pallone all’inizio della sistole riduce la pressione aortica, con conseguente diminuzione del

consumo di ossigeno da parte del miocardio e delle resistenze periferiche (postcarico). La

contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in shock cardiogeno dovuto a una

condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in considerazione il trapianto

cardiaco.

Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto

associato a una grave complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del

setto interventricolare).

In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del

flusso ematico coronarico è la terapia più efficace per salvare i pazienti che non

rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento farmacologico. Le possibilità

comprendono l’angioplastica e il by-pass aorto-coronarico. Nei casi in cui, invece, lo

shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la

terapia chirurgica di riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola

strada percorribile.

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Fisiopatologia ischemia miocardica

Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un

apporto continuo di ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e

già di base comporta l’estrazione di circa il 70% dell’ossigeno dal sangue durante il suo

passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento significativo della richiesta

di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso

coronarico.

Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel

processo di contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale

del consumo miocardico di ossigeno. Di fatto, un raddoppio della sola FC (ad esempio,

durante pacing atriale) comporta un raddoppio del consumo miocardico di ossigeno.

Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno

sono la pressione arteriosa (PA, postcarico), la pressione e il volume ventricolare in

diastole (precarico) e l’inotropismo cardiaco.

Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del

ritorno venoso (precarico) contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di

ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento del flusso coronarico. Mentre la

misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi,

una valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA

sistolica (doppio prodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il

consumo miocardico di ossigeno, in particolare il suo incremento durante sforzo.

LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA

Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta

in tre principali compartimenti, collegati in serie.

Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che

hanno funzione conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la

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pressione rimane sostanzialmente costante lungo il loro decorso. Durante la

contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado dai vasi

intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%.

L’energia elastica accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica

durante la diastole, contribuendo a garantire un adeguato flusso coronarico in questa

fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il loro tono in risposta a

variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei vasi,

e per effetto di sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni.

I vasi distali sono vasi di resistenza ed hanno dimensioni inferiori a 0.5 mm. Per le loro

dimensioni, questi vasi non sono visibili all’angiografia coronarica e costituiscono la

vasta area del microcircolo coronarico. Dal punto di vista funzionale, le piccole arterie

cardiache possono essere divise in due distretti, uno prossimale, rappresentato dalle

prearteriole, ed uno distale, rappresentato dalle arteriole.

Le prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm e contribuiscono per il 25-30% alla

resistenza coronarica totale. La loro funzione principale è di mantenere la pressione di

perfusione all’origine delle arteriole a livelli ottimali. A tale scopo vanno incontro a

vasocostrizione miogena in presenza di un aumento, e a vasodilatazione in caso di

riduzione, della pressione arteriosa sistemica.

Le arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro e contribuiscono per il 40% circa

alla resistenza coronarica. Esse sono la sede della regolazione metabolica del flusso

coronarico. Per la loro posizione, infatti, esse risentono dell’attività metabolica delle

cellule miocardiche, modificando il loro tono vasale in modo da adattare il flusso

coronarico alle richieste energetiche. Così, le arteriole si dilatano in caso di un

aumento del metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata richiesta di ossigeno,

consentendo un adeguato aumento di flusso. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno

miocardico, la riduzione massimale della resistenza coronarica consente un aumento

anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi dell’apporto di ossigeno, come nel

caso di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso coronarico rispetto

al basale costituisce la cosiddetta riserva coronarica (che è espressa

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matematicamente come rapporto tra flusso durante vasodilatazione massimale e

flusso basale). Oltre che dallo stato metabolico delle cellule miocardiche, comunque, il

tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori autacoidi locali, da sostanze

vasoattive circolanti e da stimoli neurogeni.

CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO

Diversi fattori contribuiscono alla complessa regolazione del flusso

coronarico.

Forze meccaniche extravascolari

Una caratteristica esclusiva del cuore è che esso stesso genera la pressione di

perfusione del suo sistema arterioso. Durante la sistole le forze extravascolari

intramiocardiche superano quella intravascolari: i vasi intramiocardici vengono,

quindi, occlusi e il sangue in parte addirittura espulso verso i vasi epicardici. Il

flusso anterogrado è quindi praticamente abolito durante la sistole,

soprattutto negli strati subendocardici, che ricevono quindi sangue

esclusivamente in diastole .

Regolazione del tono vascolare coronarico

I fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il

flusso coronarico, sono numerosi e possono variare nei diversi compartimenti

arteriosi.

a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la

pressione arteriosa aumenta, mentre si riduce quando la pressione decresce,

ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il flusso in proporzione alle

variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi

soprattutto nelle prearteriole.

b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole.

L’aumento della domanda di ossigeno causa il rilascio, da parte dei

miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che determinano dilatazione

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arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate

nella regolazione del flusso coronarico, un ruolo rilevante sembra essere

svolto dall’adenosina, che, con l’aumento del metabolismo energetico, viene

prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore

scissione delle molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui

recettori adenosinici A2 delle cellule muscolari lisce vascolari, attivando

l’adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di AMP ciclico.

Altri fattori, tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica

(pressione tissutale di ossigeno, pH, concentrazione di potassio, pressione

osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del potassio, bradichinina).

L’aumento del flusso conseguente alla vasodilatazione arteriolare può

continuare ad essere garantito grazie anche alla vasodilatazione flusso-

mediata, in larga parte endotelio-dipendente, che si determina nei vasi

prossimali, in particolare nelle pre-arteriole, come conseguenza dell’aumento

della velocità di flusso.

c) La regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui

vasi dal sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico.

La stimolazione simpatica causa un aumento del tono vasomotore e della

resistenza coronarica tramite stimolazione dei recettori 1 2 da parte della

noradrenalina. Un -tono sembra presente già in condizioni di riposo, in quanto

la somministrazione di -bloccanti causa un aumento di circa il 10% del flusso

coronarico basale. D’altro canto, la stimolazione dei recettori ß1 e ß2 determina

una vasodilatazione, con riduzione del 20-30% della resistenza coronarica.

L’effetto complessivo della stimolazione adrenergica in vivo (ad esempio,

durante uno sforzo) è comunque quello di un aumento del flusso coronarico. Ciò

è soprattutto secondario all’aumento del consumo miocardico di ossigeno che

essa determina, con conseguente vasodilatazione metabolica.

Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo

coronarico non è completamente chiaro: in vivo la stimolazione vagale tende a

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determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto come effetto

secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo

miocardico di ossigeno.

d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del

circolo coronarico, diventata evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti

dimostrato che l’endotelio può essere considerato come un vero e proprio

organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali

svolgono un ruolo cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo

47).

Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto

attività vasodilatatrice, e comprendono l’endothelium-

derived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l’endothelium-

derived hyperpolarizing factor (EDHF).

L’EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l’ossido nitrico

(NO). Esso agisce attivando la guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che

risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico (cGMP). L’EDRF sembra

avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione

dell’inibitore NG-monometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari

livelli. Molte sostanze vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina,

bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore determinando il rilascio

di EDRF da parte delle cellule endoteliali (vasodilatazione endotelio-

mediata). L’EDRF, inoltre, sembra essere la sostanza principalmente

responsabile della vasodilatazione che si ottiene in risposta all’aumento del

flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata).

La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall’acido arachidonico. Ha anch’essa

emivita breve (10 secondi) ed è rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a

diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina, serotonina). Sembra

contribuire anch’essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso

mediata.

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L’EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente

deriva anch’esso dall’acido arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali

suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante apertura dei canali del

potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra

venire anch’esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile,

oltre che a diverse sostanze (ad es., acetilcolina, sostanza P, bradichinina,

CGRP).

Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in

particolare l’endotelina-1 (ET-1), l’angiotensina II, l’endothelium-

derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali

liberi dell’ossigeno. Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella

regolazione fisiologica del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività

vasocostrittrice dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in

alcune condizioni patologiche (per esempio, ipertensione arteriosa, diabete,

aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai loro

effetti negativi.

L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell’uomo,

agisce su due tipi di recettori principali, ETA ed ETB. L’azione vasocostrittrice

è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule muscolari lisce.

La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce

rilascio di NO ed inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli

effetti vasocostrittori dell’ET-1.

Integrità della parete vasale

Lo svolgimento di un normale flusso coronarico comporta l’integrità della

parete vasale. Ancora una volta, è soprattutto l’endotelio a garantire questa

integrità. Esso, infatti, previene la diffusione di sostanze aterogene nella

parete arteriosa, produce costituenti della lamina basale e della matrice

extracellulare dell’intima (che possono riparare danni vasali), ed inibisce la

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crescita e la migrazione cellulare mediante la sintesi di eparan-solfato ed NO.

L’endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità del sangue, in

quanto il suo rivestimento interno con proteoglicani forma una barriera

elettronegativa che previene l’adesione delle piastrine e delle altre cellule

circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola l’adesione e l’aggregazione

piastrinica. Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con

attività anticoagulante, come l’eparan-solfato, che catalizza l’inattivazione

della trombina da parte dell’antitrombina III, e la trombomodulina, che si lega

a trombina e proteina C, e sostanze in grado di attivare il plasminogeno, e

quindi la fibrinolisi, come lo urokinase type plasminogen activator (u-PA) ed

il tissue type plasminogen activator (t-PA).

DEFINIZIONE

L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a

soddisfare le richieste di ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule

miocardiche per svolgere le proprie funzioni. Quando sufficientemente grave e

prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in caso di

occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati

subendocardici, più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più

tardivamente quelli subepicardici.

L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono,

tuttavia, combinarsi tra loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di

aumentare in modo adeguato il flusso coronarico per soddisfare un aumento della

domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della presenza di una stenosi

coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione,

spasmo o trombosi coronarica.

STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE

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Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il

substrato più frequente dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è

emodinamicamente significativa quando è in grado di opporre, già a riposo, una

resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a valle.

Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del

50%. Oltre questa riduzione critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una

sempre maggiore riduzione della pressione a valle, con una relazione di tipo

esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una stenosi,

tuttavia, non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a

quella predetta dalla riduzione della pressione.

Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua

riduzione a valle di una stenosi tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia,

in corrispondenza di una stenosi non si osserva riduzione del flusso coronarico, in

quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione della resistenza

coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche.

Questa vasodilatazione compensatoria, tuttavia, riduce la riserva coronarica, vale a

dire la capacità di aumento massimo del flusso in risposta all’aumento del fabbisogno

metabolico del miocardio. Il livello di lavoro cardiaco oltre il quale non è più possibile

incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per cui si sviluppa

ischemia, è definito soglia ischemica.

L’ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente

limitata agli strati subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore

riserva coronarica, e sono quindi più suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati

subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule subendocardiche è di base

maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress sistolico

parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-

20% superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze

compressive extramurali, con conseguente minore capacità di incremento relativo

durante aumento della domanda di ossigeno.

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Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono

contribuire a facilitare l’ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro

cardiaco, come l’accorciamento della diastole (durante una tachicardia) e un aumento

ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di aumento della pressione

telediastolica ventricolare sinistra).

Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito

dal furto coronarico transmurale, che si verifica quando, in presenza di un vaso con

una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si ridistribuisce dal

subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei

vasi di resistenza subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica

e’ inferiore a quella subepicardica, una volta che la riserva subendocardica si esaurisce

(per vasodilatazione massimale dei vasi subendocardici), un’ulteriore vasodilatazione

epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione post-stenotica, con

conseguente riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente

per le richieste metaboliche del subendocardio.

Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata

all’angiografia coronarica visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La

semplice valutazione del grado di una stenosi coronarica all’angiografia, tuttavia, ha

diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel determinare le

conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la

lunghezza e la concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi

nel vaso. Le conseguenze emodinamiche della stenosi possono ancora essere

influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale a livello della stenosi e di quello

del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e dalla

resistenza extravascolare.

In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè,

variazioni vasomotorie del lume in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la

riserva coronarica, dando origine ad un pattern anginoso caratterizzato da una

significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e

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predicibilità della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità

di una stenosi può essere valutata saggiando la risposta vasomotoria alla

somministrazione intracoronarica di sostanze vasodilatatrici e vasocostrittrici.

Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi

coronarica è lo sviluppo di una circolazione coronarica collaterale verso il territorio

ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da vasi anastomotici preesistenti, sia,

più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e l’entità di una

circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei

vasi collaterali è influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze

vasoattive autacoidi locali.

TROMBOSI CORONARICA

I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale

dell’ischemia miocardica nelle sindromi coronariche acute (Figura 10). Quando

transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o

persistente, tuttavia, essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di

tessuto miocardico.

I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del

tutto chiariti. I trombi, tuttavia, si formano in genere a livello di placche

aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura, fissurazione o emorragia), che

espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare

efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e

procoagulanti, e, quindi, trombotica .

In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di

placche non fissurate ed esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete

vasale. In questi casi, la formazione di un trombo è probabilmente facilitata da lesioni

microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali dell’endotelio, secondarie a

stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in grado di

compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle

cellule endoteliali, che sono anzi stimolate a produrre potenti sostanze

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vasocostrittrici ed esporre recettori di adesione leucocitaria e

piastrinica (attivazione dell’endotelio).

Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a

livello di stenosi), e possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato

shear stress), chimici (LDL ossidate), infettivi (virus, batteri), e immunologici

(anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In anni recenti,

inoltre, è stata accumulata evidenza che un’importante componente patogenetica della

formazione di trombi intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è

costituita da processi infiammatori delle placche aterosclerotiche, che ne favoriscono

le complicanze e stimolano localmente sia meccanismi trombotici che vasocostrittori.

Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è

costituita dall’adesione di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una

serie di meccanismi che portano alla formazione di un trombo piastrinico, che, in

presenza di stenosi critiche, può di per sé causare subocclusione o occlusione del vaso

(e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale). Più

frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale

piastrinico viene seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione

del sistema emostatico, che porta a deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina,

globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale occlusione del vaso.

Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da

quanto esso riduce il lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti,

variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in poco tempo, per cui causa solo

un’ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo parzialmente,

rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della

preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte,

infine, subisce una rapida crescita che causa l’occlusione totale del vaso, con grave

ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del trombo è il frutto di una complessa

interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge anche fattori

emodinamici, vasomotori e fibrinolitici.

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Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a

microembolie distali che causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta.

Va infine ricordato come una trombosi può localmente complicare uno spasmo

coronarico, facilitando l’occlusione e l’infarto miocardico in pazienti con angina

vasospastica.

SPASMO CORONARICO

Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle

cellule muscolari lisce di un segmento di un’arteria coronaria epicardica, che

occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con conseguente ischemia

miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia

in vasi completamente normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il

meccanismo responsabile dell’angina variante di Prinzmetal.

Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto.

E’ probabile, tuttavia, che esso risieda in una o più alterazioni delle vie

intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione dei segnali che

regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una

loro iperreattività agli stimoli vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo

spasmo può essere indotto, in genere, da vari stimoli vasocostrittori

(catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina, istamina) che

agiscono su recettori differenti.

DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO

Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a

livello dei piccoli vasi coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono

visibili all’angiografia coronarica, possano essere responsabili di un’ischemia

miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l’infusione intracoronarica di

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neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie

epicardiche normali può indurre ischemia miocardica in assenza di variazioni

significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di una diffusa vasocostrizione

dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di un’intensa

vasocostrizione microvascolare.

Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia

miocardica in alcune condizioni cliniche. In pazienti

con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la somministrazione di ergonovina

può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei vasi

epicardici, suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti

a variazioni del tono dei vasi di resistenza. In pazienti

con stenosi isolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazion

e percutaneo, la persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG

durante sforzo, a dispetto del successo della procedura, suggerisce una causa

microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del flusso coronarico in

risposta a stimoli vasodilatatori. Alterazioni della resistenze coronariche sono state,

inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in pazienti con cardiopatia

ischemica stabile o instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive in

altri rami coronarici epicardici, e in pazienti con fattori di rischio per malattia

coronarica ma con arterie epicardiche angiograficamente normali. Infine, una

disfunzione microvascolare è ritenuta essere responsabile della sindrome X cardiaca,

una condizione clinica caratterizzata da episodi anginosi, indotti prevalentemente

dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie angiograficamente normali.

I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento

poco noti, ma sono verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse

condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno stesso gruppo di pazienti. In pazienti

con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in genere

attribuita all’aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi

perivascolare, ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche

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concomitanti (ad es., ipertensione, diabete). Di contro, nei pazienti con sindrome X

cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche, sono state riportate

alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state

descritte diverse alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed

ischemia miocardica.

CARDIOMIOPATIE

Il problema riguardante la definizione e la classificazione delle cardiomiopatie (CMP)

rappresenta uno dei punti maggiormente controversi nell’ambito della cardiologia.

L’introduzione nel linguaggio medico del termine “Cardiomiopatie” (= “Malattie del

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Muscolo Cardiaco”) risale a circa mezzo secolo fa, ma è solo nel 1980 che venne

pubblicato – da parte di un gruppo di esperti nominato dalla World Health

Organization e dalla International Society and Federation of Cardiology (WHO/ISFC)

– il primo documento ufficiale in tema di definizione e classificazione delle CMP. In

quel documento, le CMP venivano definite come malattie del muscolo cardiaco “da

causa sconosciuta”; la loro natura “idiopatica” ne rappresentava, pertanto, uno dei

caratteri distintivi fondamentali da altre malattie cardiache ad eziopatogenesi nota

quali le cardiopatie ischemica, ipertensiva, valvolare, ecc.

Tuttavia, i progressi compiuti dalla ricerca – soprattutto nel campo della genetica – e

la sempre più ampia diffusione di nuove metodiche d’indagine non invasive, in

particolare l’ecocardiografia, hanno condotto negli anni successivi ad un significativo

incremento delle conoscenze sulle CMP, rendendo inadeguato il documento del 1980.

Pertanto, nel 1995 la WHO e la ISFC hanno redatto congiuntamente un nuovo report

che tuttora costituisce il documento di riferimento in materia di definizione e

classificazione delle CMP (Tabella I).

Gli aspetti salienti di tale documento sono:

1) la nuova definizione delle CMP come Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a

disfunzione cardiaca” sia sistolica che diastolica. La precedente espressione “da causa

sconosciuta” veniva soppressa, essendo divenuta nel frattempo impropria alla luce

delle nuove acquisizioni eziopatogenetiche;

2) la sottoclassificazione delle CMP in 4 tipi o forme principali: la CMP dilatativa

(CMPD), la CMP ipertrofica (CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia

aritmogena del ventricolo destro (CMP/DAVD).

L’importanza del primo punto risiede nell’esplicito riconoscimento che, accanto ai casi

“idiopatici” di CMP, ne esistono altri in cui è viceversa possibile identificare la causa

della malattia (ad esempio, nella quasi totalità dei casi di CMPI ed in circa un terzo dei

casi di CMPD è oggi documentabile un’eziologia genetica).

L’importanza del secondo punto è dovuta invece al fatto che la sottoclassificazione

delle CMP viene operata sulla base di quadri morfo-funzionali di semplice

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riconoscimento (in tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’indagine

ecocardiografica), quali la dilatazione/ipocinesia ventricolare sinistra (CMPD),

l’ipertrofia ventricolare sinistra (CMPI), la severa compromissione di tipo “restrittivo”

del riempimento diastolico (CMPR), il prevalente coinvolgimento del ventricolo destro

associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD). Tale approccio classificativo si rivela

di grande utilità nella pratica clinica perché richiama immediatamente gli aspetti

essenziali e caratteristici di ciascuna CMP, orientando il cardiologo verso la corretta

diagnosi e l’impiego appropriato delle strategie terapeutiche attualmente disponibili.

Restano indubbiamente margini di incertezza classificativa che riguardano disordini

aritmogeni “isolati” dovuti ad alterazioni di funzione dei canali ionici o forme con

interessamento miocardico ma difficilmente iscrivibili nei 4 gruppi principali come il

“miocardio non compatto”, la “cardiomiopatia peripartum” e la “malattia tako-tsubo”.

A differenza di quanto proposto nel documento del 1995 della WHO/ISFC, non

andrebbero invece utilizzati termini fuorvianti come “cardiomiopatia ischemica”,

“cardiomiopatia valvolare” e “cardiomiopatia ipertensiva”.

Cardiopatia ipertrofica

La cardiomiopatia ipertrofica è definita come ipertrofia ventricolare sinistra non

spiegata da cause comuni d’ipertrofia , l’ipertensione arteriosa o alcune valvulopatie

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(ad esempio, stenosi aortica). La definizione si basa, clinicamente, sul rilievo

ecocardiografico di aumentato spessore parietale del ventricolo sinistro: ciò non

significa necessariamente che ci sia ipertrofia (aumento della massa muscolare da

prevalente aumento delle dimensioni dei miocardiociti), perché situazioni in cui c’è, ad

esempio, accumulo intra- o extracellulare di sostanze (come nell’amiloidosi, nella

malattia di Fabry, in alcune glicogenosi etc.) ricadono, impropriamente, in questa

definizione. Con questa definizione, la cardiomiopatia ipertrofica è malattia

relativamente frequente, con una prevalenza di 1/500, che la rende la più comune

cardiopatia su base genetica.

EZIOLOGIA E PATOGENESI

La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia autosomica dominante a penetranza

incompleta. Le forme tipiche (a cui andrebbe riservato il nome di cardiomiopatia

ipertrofica) sono dovute a mutazioni di geni codificanti per proteine sarcomeriche. I

geni più frequentemente interessati sono quelli delle catene pesanti della beta-

Miosina, della proteina C legante la Miosina, e della Troponina T, ma tutti i geni

codificanti per proteine sarcomeriche (contrattili, modulatrici o strutturali) possono

determinare la malattia.

La penetranza è incompleta, cioè possono esserci individui genotipo+ e fenotipo-, e

dipende dall’età in modo variabile a seconda del gene causale: mentre la penetranza è

quasi completa entro la terza decade per le mutazioni delle catene pesanti della beta-

Miosina e della Troponina T, per quelle della proteina C legante la Miosina la

penetranza cresce costantemente fino alla vecchiaia.

Individui appartenenti alla stessa famiglia (e dunque portatori della stessa mutazione

causale) possono avere fenotipi molto diversi per morfologia del ventricolo sinistro e

per quadri clinici. Ciò è spiegabile solo se si pensa che la mutazione causale interagisce

con altri geni e con fattori ambientali per determinare il fenotipo. È ancora soltanto

un’ipotesi (ma basata su alcune evidenze solide) che l’incorporazione di una proteina

mutata nel sarcomero ne determini una ridotta efficienza contrattile; questa aumenta

lo stress sarcomerico con conseguente attivazione del signaling responsivo allo stress

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e sintesi di fattori trofici. I fattori trofici agiscono sui miocardiociti, determinandone

ipertrofia, sui fibroblasti inducendo fibrosi interstiziale, e sulle cellule muscolari lisce

della media delle arteriole coronariche, provocandone l’iperplasia. Questa ipotesi

spiega le tre fondamentali caratteristiche morfologiche della cardiomiopatia

ipertrofica: ipertrofia e malallineamento (disarray) dei cardiomiociti con fibrosi

interstiziale ed ispessimento della media delle arteriole. Questa ipotesi patogenetica

è ulteriormente supportata dall’osservazione, finora confinata all’animale transgenico,

che il fenotipo è reversibile o prevenibile con l’uso di farmaci di cui è nota

l’interazione con lo sviluppo ed il mantenimento dell’ipertrofia.

FISIOPATOLOGIA

Le tre principali caratteristiche fisiopatologiche della cardiomiopatia ipertrofica sono

la disfunzione diastolica, l’ostruzione al tratto d’efflusso del ventricolo sinistro e

l’ischemia.

La disfunzione diastolica dipende da alterata affinità per il Ca++ delle proteine

mutate, e da rallentato re-uptake del Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico. Ne

deriva un incompleto rilasciamento ed un’aumentata rigidità del muscolo. Un’altra

causa di disfunzione diastolica, forse più rilevante clinicamente, è secondaria

all’ipertrofia ed alla fibrosi interstiziale, che determinano una ridotta distensibilità

del ventricolo sinistro (cioè è richiesta una maggiore pressione atriale per riempirlo).

Altra rilevante caratteristica fisiopatologica

è l’ostruzione al tratto d’efflusso del ventricolo sinistro. Il setto ipertrofico sporge

nel tratto d’efflusso del ventricolo sinistro, e lo restringe progressivamente durante

la sistole. Il sangue è costretto ad accelerare fino al punto in cui si genera l’effetto

Venturi, cioè lo sviluppo di forze centripete che attirano il lembo della mitrale nel

tratto d’efflusso (Systolic Anterior Movement, o S.A.M.). Ciò provoca un’ulteriore

riduzione della sezione del tratto di efflusso e lo sviluppo di ostruzione. Ovviamente, il

S.A.M. determina anche insufficienza mitralica. In conseguenza del meccanismo di

generazione, l’ostruzione al tratto d’efflusso del ventricolo sinistro è meso-sistolica e

dinamica (cioè l’entità dell’ostruzione varia a seconda del volume ventricolare e dello

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stato inotropo).

I pazienti con cardiomiopatia ipertrofica hanno spesso segni d’ischemia, anche in

assenza di stenosi coronariche epicardiche. L’ischemia è la conseguenza

dell’ispessimento della media arteriolare, dell’ipertrofia (a causa dell’aumentato

spessore non seguito da analogo aumento della densità capillare), e dell’aumento della

pressione telediastolica del ventricolo sinistro (che determina un aumento delle

resistenze coronariche estrinseche in diastole).

QUADRO CLINICO

La cardiomiopatia ipertrofica ha un decorso clinico benigno nella maggioranza dei

pazienti. I pazienti sintomatici lamentano soprattutto dispnea (dovuta a disfunzione

diastolica e/o ad ostruzione al tratto d’efflusso), palpitazioni, angina pectoris (anche

in assenza di malattia coronarica, vedi sopra), e sincope (in circa 1/3 dei pazienti).

La caratteristica clinica più temuta di questa malattia è la morte improvvisa. Si

definisce come tale la morte entro 24 ore dall’esordio di sintomi, ed è tipicamente

dovuta a fibrillazione ventricolare. I bambini sono maggiormente interessati, con

un’incidenza più che doppia di quella degli adulti. In questi ultimi, l’incidenza è circa

1%/anno, e declina con l’età. Non molto è noto circa i meccanismi della morte

improvvisa, ma si è osservata un’associazione epidemiologica tra alcuni eventi (definiti

fattori di rischio) e la morte improvvisa. Questi sono:

familiarità per morte improvvisa

storia di sincope recente inspiegata

presenza di ipertrofia ventricolare sinistra massiva (massimo spessore di parete >= 30 mm)

risposta pressoria anomala all’esercizio (normalmente, la pressione arteriosa cresce

costantemente durante l’esercizio; in circa 1/3 dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica la

pressione invece aumenta e poi diminuisce durante l’esercizio, oppure diminuisce fin

dall’inizio)

tachicardia ventricolare non sostenuta all’ECG Holter

La tachicardia ventricolare sostenuta è considerata equivalente di morte improvvisa

abortita e non un fattore di rischio.

Il paziente adulto con cardiomiopatia ipertrofica ha un rischio 6 volte maggiore

rispetto alla popolazione generale di sviluppare fibrillazione atriale parossistica o

permanente, ed infatti circa 1/3 dei pazienti soffre di questa aritmia, ed è pertanto

frequente riscontrarla o durante Holter o durante visita clinica.

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DIAGNOSI

La cardiomiopatia ipertrofica è generalmente sospettata per la presenza di un soffio

cardiaco o di anomalie elettrocardiografiche. L’ostacolo all’eiezione ventricolare

sinistra dipendente dall’ipertrofia settale genera un soffio sistolico eiettivo, che si

ascolta soprattutto al mesocardio, lungo la margino-sternale sinistra. La relazione fra

l’intensità del soffio e il volume ventricolare (il soffio è tanto più intenso quanto più il

contenuto di sangue nel ventricolo si riduce) può permettere di diagnosticare

all’ascoltazione del cuore la cardiomiopatia ipertrofica, e soprattutto distinguerla

dalla stenosi valvolare aortica (vedi Capitoli 2 e 16). Se, mentre si ascolta il cuore, si

fa eseguire al soggetto la manovra di Valsalva, ci si accorge che il soffio della stenosi

valvolare aortica si riduce d’intensità mentre quello della cardiomiopatia ipertrofica

aumenta. La manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa), infatti, riduce

la pressione negativa endotoracica, cioè la forza “aspirativa” (vis a fronte) che

favorisce il ritorno venoso: diminuisce quindi il riempimento diastolico dei ventricoli e

con esso la gittata sistolica. La riduzione del volume ventricolare fa sì che nella

cardiomiopatia ipertrofica il soffio aumenti di intensità con la manovra di Valsalva,

mentre diminuisce nella stenosi aortica, dove l’intensità del soffio è proporzionale alla

gittata sistolica, cioè alla quantità di sangue che attraversa la valvola.

L’ECG è anormale nella quasi totalità dei casi, anche se le anomalie presenti non sono

patognomoniche e possono essere diverse: più comunemente si osserva ipertrofia

ventricolare sinistra, onde Q anomale e segni di ischemia ventricolare.

L’ecocardiogramma è esame fondamentale, che mostra ipertrofia generalmente

asimmetrica, coinvolgente il setto interventricolare. La distribuzione dell’ipertrofia è

eterogenea e in una piccola percentuale di pazienti è localizzata al solo apice

ventricolare (forma apicale, identificata dapprima nelle popolazioni orientali, ma

ubiquitaria; è caratterizzata da buona prognosi). Una stima dell’ipertrofia è data dallo

spessore parietale massimo, particolarmente rilevante poiché quando è

particolarmente aumentato (>= 30 mm) rappresenta un fattore di rischio per morte

improvvisa. In circa 1/3 dei pazienti è presente ostruzione al tratto di efflusso del

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ventricolo sinistro a riposo. Nei pazienti con sintomi e senza ostruzione a riposo è

indicata l’esecuzione di esercizio fisico con valutazione del gradiente al picco

dell’esercizio; con questo approccio il 70% dei pazienti ha ostruzione.

Con la risonanza magnetica nucleare (RMN) cardiaca è possibile evidenziare tutte le

pareti miocardiche e pertanto quando la caratterizzazione anatomica risulta difficile

con l’eco, vi è indicazione ad eseguirla. Inoltre, con la RMN viene misurata la massa

ventricolare sinistra, non possibile con l’ecocardiogramma per l’eterogenea

distribuzione dell’ipertrofia. La somministrazione di un mezzo di contrasto, il

gadolinio, che si accumula tardivamente nell’interstizio (late-enhancement) consente

di avere un’immagine della distribuzione di fibrosi in questi pazienti.

Vista l’eziologia di questa malattia, dopo aver identificato un probando (primo paziente

identificato in una famiglia) si deve procedere ad uno screening familiare con ECG,

ecocardiogramma e, se disponibile, analisi genetica.

TRATTAMENTO

Dopo aver determinato il profilo di rischio per morte improvvisa, si può individuare

una strategia terapeutica. Ai pazienti con almeno 2 fattori di rischio per morte

improvvisa va consigliato l’impianto di un defibrillatore (ICD). I pazienti con un solo

fattore di rischio costituiscono una zona grigia, e l’impianto di un ICD va valutato caso

per caso.

I pazienti senza fattori di rischio per morte improvvisa ed asintomatici non

richiedono trattamento. I pazienti sintomatici vengono posti in terapia con beta-

bloccanti e/o Ca++-antagonisti non diidropiridinici (verapamil o diltiazem o gallopamil).

La terapia ha la finalità di ridurre i sintomi, ma non ha effetto sulla prognosi.

Se è presente ostruzione al tratto d’efflusso, ai beta-bloccanti si può aggiungere la

disopiramide (un antiaritmico qui usato solo per il suo marcato effetto inotropo

negativo, che contribuisce alla riduzione dell’ostruzione). Se la terapia medica non è

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efficace nella riduzione dell’ostruzione, questa può avvalersi di intervento chirurgico

di miotomia-miectomia (asportazione di un cuneo di setto sottoaortico per allargare in

tratto d’efflusso), o dell’ablazione alcoolica (iniezione di etanolo in uno o più rami

perforanti settali in modo da indurre infarto chimico della porzione alta del setto,

sempre allo scopo di allargare in tratto d’efflusso).

I pazienti che hanno fibrillazione atriale persistente o cronica debbono essere

riportati in ritmo sinusale: ciò non è sempre possibile, ma è importante tentare il

ripristino del ritmo sinusale finché è ragionevole. Il ripristino del ritmo sinusale si

ottiene mediante cardioversione elettrica o farmacologica. La prevenzione delle

recidive di fibrillazione atriale è usualmente ottenuta con l’uso di amiodarone. In caso

di fibrillazione atriale parossistica o persistente o cronica, per l’anticoagulazione si

applicano le linee guida usuali.

CARDIOMIOPATIA DILATATIVA

La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo

Cardiaco caratterizzata da dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o

di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme alle forme ipertrofica, restrittiva ed

alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro sottotipi principali di

Cardiomiopatia.

EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso

ogni 2.500 abitanti e l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia,

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la sua reale frequenza è certamente superiore, considerando che la maggior parte dei

soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate” della malattia (dilatazione e

disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non compaiono i

primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della

conduzione.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è

rappresentato dalla più o meno cospicua dilatazione di una od entrambe le camere

ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi avanzate della malattia, sono

dilatati (

La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza

contrattile del miocardio comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di

trombi endocavitari, di riscontro non infrequente in sede autoptica e documentabili

prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di sinistra.

La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente

concorrono anche a determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo

stiramento delle corde tendinee da diastasi dei muscoli papillari, con conseguente

insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale.

Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di

stenosi “critiche” a carico dei grossi vasi epicardici.

Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo

rappresentate da degenerazione miocellulare e diminuzione del numero delle

miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed interstiziale, infiltrati

flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio.

EZIOPATOGENESI

Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare

con precisione la causa. Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD

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i maggiori progressi in termini di conoscenze eziopatogenetiche riguardano il campo

della genetica. A differenza di quanto si riteneva in passato, le forme familiari di

CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di

trasmissione ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al

cromosoma X) e di presentazione clinica (in relazione al grado di penetranza, all’età di

insorgenza, all’interessamento isolato o meno del miocardio, ecc) della CMPD familiare

indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica e fenotipica. L’analisi del

tipo di trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di genetica

molecolare ha importanza non solo conoscitiva ma anche clinica perché le differenti

forme possono non solo avere differente quadro clinico ma anche differente prognosi

e differente rischio di malattia per i familiari.

Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel

determinismo della CMPD, anche se i meccanismi con cui in questo caso si realizza il

danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus possono indurre un effetto

citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione

autoimmune secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti

normali del miocardio ad essi simili.

QUADRO CLINICO

La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi

l’esordio avviene tra i 20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso

maschile, con un rapporto maschi/femmine di circa 3:1.

Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso

cardiaco od aritmie ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la

presentazione clinica è rappresentata da un quadro di scompenso cardiaco sinistro; in

una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni di scompenso destro.

Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le

prime manifestazioni cliniche; tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa

rappresentano l’esordio della malattia.

Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina,

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rappresenta il sintomo principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi

pazienti, è stata dimostrata una minore riserva coronarica.

Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione

ventricolare e marcata cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da

un episodio embolico sistemico o polmonare.

Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi

scoperti fortuitamente in occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di

un soffio cardiaco) o di un’indagine strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco

di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di cardiomegalia alla radiografia del

torace) effettuate per altri motivi.

PROGNOSI

la prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni

’80 era stimata essere del 50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima

tanto peggiore quanto maggiori sono le alterazioni morfo-funzionali a carico del

ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione) e quanto più

severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato

che una diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come

gli ACE-inibitori ed i betabloccanti possono significativamente contribuire a

modificare favorevolmente la storia naturale dei pazienti con CMPD (sopravvivenza

libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi).

CENNI DI TERAPIA

Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi

principali del trattamento consistono nel limitare la progressione dello scompenso

cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure generali sono incluse l’educazione

del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con limitazione

dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato

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esercizio fisico aerobico.

Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente

impiegati nel trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco.

Fra questi, i più importanti sono gli ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali

dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o dell’ansa, gli

antagonisti recettoriali dell’aldosterone.

Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco

da lieve a severo (NYHA II-IV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con

disfunzione ventricolare ancora in fase asintomatica (classe NYHA I). Nei casi in cui

vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego dei sartani.

I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il

fenomeno della ritenzione idro-salina, modulando le dosi in funzione del grado di

congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone sono

indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo.

La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con

fibrillazione atriale e in quelli in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante

la terapia con antagonisti neuro-ormonali e diuretici.

Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via

endovenosa, particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto

predominante beta1-agonista) o gli inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone

ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e vasodilatatori. Dati recenti

suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio con

proprietà anche di vasodilatazione.

Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene

raccomandato nei pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con

trombosi endocavitaria e/o pregressa embolia, e anche nei soggetti con marcata

dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%.

Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con

CMPD, sia per quanto riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore

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impiantabile) che per il ripristino della sincronia della contrazione cardiaca (terapia di

resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker biventricolare), trova indicazione in

selezionati sottogruppi di pazienti.

Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure

chirurgiche complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto”

od a questo alternative. In pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione

della malattia correggendo l’insufficienza mitralica mediante valvuloanuloplastica.

Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in

attesa di trapianto, giunti allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile

utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono temporaneamente la funzione di

pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza ventricolare

meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione

tissutale adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi

meccanici di vario tipo. Sono in corso di valutazione nuove prospettive per

un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa alla sostituzione

cardiaca.

Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile

rimane allo stato attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso

cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di terapia medica (vedi Capitolo 66). La

sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata rispettivamente intorno all’80,

68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni.

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CARDIOPATIA RESTRITTIVA

Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del

muscolo cardiaco accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado,

entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern di riempimento diastolico di tipo

restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti incostantemente

aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta.

L’espressione “pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al

riempimento del ventricolo, il quale non riesce ad accogliere il sangue perché le sue

pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la pressione diastolica

ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta

ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc.

Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in

cui il pattern restrittivo costituisce l’elemento caratterizzante il quadro

fisiopatologico.

EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA

Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la

cosiddetta CMPR idiopatica (talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico

dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi endomiocardica. Le forme secondarie

comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e quelle da accumulo

(emocromatosi, ecc).

Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea

generale, il reperto macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e

spesso sede di trombi, mentre i ventricoli appaiono grossolanamente normali.

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QUADRO CLINICO

Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da

sintomi e segni di scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia,

dispnea da sforzo, dispnea parossistica notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite.

La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei soggetti con forme

idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare

episodi tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie

minacciose (blocco atrio-ventricolare di III grado o tachicardia ventricolare), la

morte improvvisa rappresenta comunque un evento possibile.

L’esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti

con tendenza all’ipotensione ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E’

spesso presente tachicardia a riposo. Il I ed il II tono sono in genere normali, ma si

ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E’ possibile rilevare un soffio olosistolico da

rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il fegato si

presenta aumentato di volume e le vene giugulari sono distese.

DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI

In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei

parametri ematochimici. Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia

orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme da amiloidosi possono essere

presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità di

eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia,

monoclonalità all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della

funzione renale ed epatica.

La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni

dell’ombra cardiaca, segni di congestione interstiziale od alveolare e versamento

pleurico.

Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi

QRS nelle derivazioni periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni

antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST; sono frequentemente descritti

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anche segni di ingrandimento atriale di ipertrofia ventricolare sinistra ed aritmie di

vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non

sembrano particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso

documentabili blocchi atrio-ventricolari ed intra-ventricolari.

L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile

evidenziare un ventricolo sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo

lievemente aumentati e con funzione di pompa normale o quasi. L’ispessimento e

l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo sinistro ed in particolare del setto

interventricolare (“a vetro smerigliato”) è caratteristico delle forme amiloidosiche. Il

ventricolo destro può presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare.

E’ pressoché costantemente documentabile una dilatazione biatriale. Le valvole atrio-

ventricolari appaiono frequentemente ispessite, e spesso si associa un rigurgito

mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del riempimento ventricolare sinistro mediante

analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale documenta un pattern di tipo

“restrittivo” . L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in

modo più accurato l’eventuale presenza di trombi endocavitari.

Sebbene l’integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami

strumentali non invasivi consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente

la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia endomiocardica conservano un ruolo

importante nello studio della CMPR.

In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno

della radice quadrata” (“dip and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione

protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad una ripida discesa della pressione

ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da un plateau in

protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro

possono essere elevate. Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono

usualmente maggiori di 5 mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione capillare

polmonare (“pressione di incuneamento”) è in genere elevata.

La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica,

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immunoistichimica ed ultrastrutturale delle diverse CMPR.

Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia

cellulare e fibrosi interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la

sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari.

La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo,

che conferisce al tessuto una tipica birifrangenza all’esame con luce polarizzata.

L’indagine immunoistochimica consente di differenziare i vari tipi di amiloide (catene

leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina, lisozima, beta2

microglobulina, fattori natriuretici).

La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno

frequenti di CMPR da accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è

facilmente evidenziabile con la colorazione di Pearls; nella sindrome di Löffler, la

biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione eosinofila

dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la

presenza di ampie deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano

l’endocardio, il subendocardio ed il miocardio.

Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio

possono contribuire alla diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con

problemi di diagnosi differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di

pericardite acuta, pregressa infezione tubercolare, trauma toracico, intervento

cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare verso la diagnosi di

pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del

ventricolo sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del

ventricolo destro, di una pressione sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un

rapporto pressione telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro 0.33 orienta

verso una pericardite costrittiva.

La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire

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informazioni più complete su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della

parete miocardica. Anche la biopsia endomiocardica può essere di ausilio nella

differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva, particolarmente nei casi in cui è

possibile riscontare un’infiltrazione miocardica.

CENNI DI TERAPIA

In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia

sintomatica della congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei

diuretici deve essere stabilito con cautela, per evitare una sindrome da bassa portata

conseguente ad eccessiva riduzione del precarico. Nei pazienti affetti da amiloidosi

cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto questi farmaci

possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici.

In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché

l’assenza del contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale

peggioramento della disfunzione diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la

cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante l’impiego di agenti antiaritmici,

in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-ventricolare di grado

avanzato può rendersi necessario l’impianto di un pace-maker.

Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio

tromboembolico, in particolare in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi

endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti di fibrillazione atriale

parossistica o fibrillazione atriale cronica.

Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con

trattamenti farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta

l’unica valida opzione terapeutica.

PERICARDITI

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DEFINIZIONE

Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale

del pericardio, la cui eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica,

immunitaria. Tra le malattie del pericardio possono essere enucleate le forme

seguenti :

Pericarditi acute e subacute

Pericardite cronica essudativa

Tamponamento cardiaco

Pericardite cronica costrittiva

PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE P

Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto,

distinguibili in forme fibrinose, caratterizzate da abbondante formazione di

fibrina e scarso versamento, e forme essudative, caratterizzate da formazione

di versamento.

Eziologia

Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o

tubercolari; le forme virali sono di gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A

e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes simplex, varicella,

adenovirus, epstein barr e virus influenzali).

Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione

diretta del pericardio da parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie

polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni morbose come patologie

metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso

sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite

nodosa) possono interessare il pericardio. Sono state segnalate pericarditi da

farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline), su base

verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato

dalla pericardite epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler,

pericardite autoimmune ad insorgenza più tardiva. Altre forme di infiammazione

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asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si osservano dopo

interventi cardiochirurgici.

Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da

raccolta di liquido di tipo trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e

nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può formare una raccolta ematica

(emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche

la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento

pericardico, quando le radiazioni siano dirette sul mediastino.

Fisiopatologia

Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al

suo interno vige una pressione negativa. Quando un agente patogeno di tipo

chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità funzionale dei foglietti

pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere

sieroso, siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso .

Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il

trasudato presenta bassa densità, basso contenuto proteico, e scarse cellule

mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior quantità di

proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del

versamento, la pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il

rilasciamento delle camere cardiache, aumentano le pressioni di riempimento

ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione intrapericardica

dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il

versamento pericardico si forma lentamente, senza che si realizzi un

tamponamento cardiaco, la pressione intrapericardica subisce solo un modesto

incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la pressione arteriosa

sono mantenute nei limiti della norma. Solo se la pressione intrapericardica

aumenta ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata sistolica

diminuiscono. In questa situazione la portata cardiaca è mantenuta entro limiti

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normali dall’aumento della frequenza cardiaca.

Quadro clinico

Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla

quantità di liquido e dalla velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo

due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale, compaiono i sintomi della

pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici:

presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e

verso la spalla sinistra; talvolta può avere localizzazione epigastrica tanto da

simulare un addome acuto. La sua intensità può variare, esacerbandosi con l’

inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in

alcune posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure

flettendo il torace in avanti). Il dolore ha di solito durata protratta (giorni), e

si riduce o scompare quando compare il versamento.

Esame obiettivo

Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite

acuta: essi originano dall’attrito tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla

deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente variabili,

transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di

pericardite; possono accentuarsi con la compressione esercitata dal

fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente .

Indagini di laboratorio

Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione

della PCR, rialzo della VES. I reperti di laboratorio possono essere utili per la

diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia) o per la diagnosi di

mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del

titolo anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla

tubercolina è utile nella diagnosi di pericardite tubercolare. La determinazione

del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va eseguita nel

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caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la

pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di

un trasudato nelle sindromi edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di

un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi, sindrome di Dressler.

Esami strumentali

Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento

del tratto ST, generalmente a concavità superiore, nelle derivazioni con QRS

positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può risultare

sottoslivellato Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T

diventa negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi

differenziale elettrocardiografica con le alterazioni in corso di infarto

miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si accompagna

ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte

le onde dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3).

Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso

versamento, non sono evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali

standard. L’RX del torace può essere utile solo se la raccolta di liquido è

superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale

configurazione ed assume aspetto a “fiasca” .

Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento

pericardico (vedi Capitolo 4). L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno

spazio ecoprivo compreso tra il pericardio posteriore e la parete posteriore del

ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente uno

spazio analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del

ventricolo destro. L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo

più completo il pericardio

Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici

sullo stato del pericardio, permettendo una miglior evidenziazione dei recessi

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pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso misconosciuti.

Diagnosi differenziale

Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il

dolore precordiale e per la presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli

sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza di aumento nel

siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di

dirimere il dubbio.

Complicanze

Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive

e pericardite costrittiva). La più importante complicanza dei versamenti

pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti).

PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA

Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei

mesi. Tutti i processi infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie

metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori pericardici possono

provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.

Quadro clinico

I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista

cardiaco, pur presentando versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I

principali sintomi consistono in ridotta tolleranza all’esercizio fisico e nella

dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come

tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche.

All’ascoltazione cardiaca i toni risultano ovattati e si possono apprezzare a

volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della pericardite cronica

essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di

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cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva .

Diagnosi

L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica

essudativa. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia

QRS di basso voltaggio e alterazioni aspecifiche della ripolarizzazione. Il

radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra cardiaca.

TAMPONAMENTO CARDIACO

E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad

ipertensione venosa, che si verifica quando il versamento comporta un aumento della

pressione intrapericardica tale da produrre una grave limitazione del riempimento del

cuore in diastole.

Eziologia:

Le cause più frequenti sono:

pericardite acuta o recidiva

sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco,

impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;

rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;

versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica

Fisiopatologia

Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie

supera la capacità di distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione

intrapericardica cui fa seguito progressiva riduzione del rilasciamento diastolico fino

all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo sinistro, atrio

sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione

dell’ afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del

sacco pericardico, la rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica

dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per esempio, 150 ml)

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formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza.

Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:

1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare

durante la diastole.

2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale

incrementa la venosa pressione a monte degli atri.

Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono

adrenergico: tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca

cerca di opporsi alla riduzione della portata, e l’incremento delle resistenze

periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando i

meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a

ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Quadro clinico

E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata

pressione venosa, con obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da

risolversi rapidamente con la rimozione del liquido (pericardiocentesi). Il paziente

appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione fredda,

pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano

ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e

può comparire il polso paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di

ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2

).

Esami strumentali

L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS.

L’ecocardiogramma evidenzia un versamento pericardico abbondante, sia in sede

anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso diastolico della

parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del

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ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento

cardiaco.

TAMPONAMENTO CARDIACO

E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad

ipertensione venosa, che si verifica quando il versamento comporta un aumento della

pressione intrapericardica tale da produrre una grave limitazione del riempimento del

cuore in diastole.

Eziologia:

Le cause più frequenti sono:

pericardite acuta o recidiva

sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco,

impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;

rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;

versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica

Fisiopatologia

Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie

supera la capacità di distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione

intrapericardica cui fa seguito progressiva riduzione del rilasciamento diastolico fino

all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo sinistro, atrio

sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione

dell’ afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del

sacco pericardico, la rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica

dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per esempio, 150 ml)

formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza.

Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:

1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare

durante la diastole.

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2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale

incrementa la venosa pressione a monte degli atri.

Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono

adrenergico: tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca

cerca di opporsi alla riduzione della portata, e l’incremento delle resistenze

periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando i

meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a

ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Quadro clinico

E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata

pressione venosa, con obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da

risolversi rapidamente con la rimozione del liquido (pericardiocentesi). Il paziente

appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione fredda,

pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano

ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e

può comparire il polso paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di

ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2

).

Esami strumentali

L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS.

L’ecocardiogramma evidenzia un versamento pericardico abbondante, sia in sede

anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso diastolico della

parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del

ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento

cardiaco.

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PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA

Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche,

caratterizzata da un addensamento sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di

molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con il normale riempimento

diastolico del cuore.

Eziologia

Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite

acuta o cronica. Le principali cause di pericardite cronica costrittiva sono : le

pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma tubercolare, le neoplasie, la

terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.

Fisiopatologia

Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose,

hanno come esito la formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò,

un involucro rigido che avvolge il cuore e ostacola gravemente il riempimento dei

ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano essenzialmente in

fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale.

In protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente

perché l’afflusso del sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il

cuore. La curva pressoria di entrambi i ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice

quadrata (dip and plateau) . Il riempimento ventricolare avviene principalmente in

protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la pressione

telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg

nelle forme più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a

carico delle sezioni destre. Il meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo

il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre le modificazioni della gittata

cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza cardiaca.

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Quadro clinico

La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il

quadro clinico della pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco

congestizio, da deficit del ventricolo destro. I sintomi sono la dispnea da sforzo e

l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre raramente si

verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni

cardiaci sono di intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto

protodiastolico (pericardial knock), da attribuirsi al brusco impedimento diastolico

dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione pericardica). Sono presenti

segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica:

epatosplenomegalia, edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere

presente polso paradosso (vedi Capitolo 2).

Diagnosi

Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i

complessi QRS sono di basso voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare

ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei casi si può riscontrare una

fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali

dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma

si nota un ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del

pericardio, la dilatazione delle vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame

doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare. Il cateterismo cardiaco si

rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una diagnosi

certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard

per la diagnosi.

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Diagnosi differenziale

La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai

ecocardiografici, dallo scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie

acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi differenziale con la cardiomiopatia

restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è dirimente giacché

nella cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni

sinistre che in quelle destre, mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere

uguale in entrambe le camere ventricolari. La diagnosi differenziale con il cuore

polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’ infarto del ventricolo destro è semplice, e si

basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali.

CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI

La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro

eziologia: per esempio, nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello

dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico con farmaci chemioterapici. Nelle

pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio terapeutico è

dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per

impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace

ma aumenta in maniera significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla

risoluzione del versamento. Nelle forme lievi con versamento modesto si consiglia l’

utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento pericardico importante

si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono controindicati

i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice

infartuale. Il trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del

liquido pericardico mediante pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con

creazione della finestra pleuropericardica.

MIOCARDITI

Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico.

Sebbene abbiano frequentemente una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le

hanno chiamate in causa nella genesi della morte improvvisa dei giovani adulti, poiché

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in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi l’esame istologico del miocardio

di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti infiammatori.

In ampi studi prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della

cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…) in circa il 10% dei casi.

EZIOLOGIA

I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi . La causa più

frequente è una infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus

Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali identificati come possibili cause di

miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus

dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e

parassiti possono agire come agenti patogeni.

Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i

diuretici, la digossina, gli antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre

miocardite mediante reazioni da ipersensibilità. Tra le malattie autoimmunitarie,

anche la celiachia può determinare una miocardite.

PATOGENESI

Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali

che hanno identificato tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del

miocardio da parte di virus cardiotropi o di altri agenti infettivi. Dopo la risoluzione o

l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda fase di attivazione

immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che

determina ulteriore miocitolisi, aggravamento della infiammazione locale e produzione

di anticorpi circolanti anti-muscolo cardiaco. La terza e ultima fase è conseguenza del

danno virale e autoimmunitario, ma può continuare autonomamente dopo l’insulto

iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di cellule

infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente

espressione di citochine pro-infiammatorie come la interleukina-1, la interleukina-2, il

tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- . Il TNF, in particolare, attiva le cellule

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endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la produzione di

citochine e ha un effetto inotropo negativo diretto.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie

elettrocardiografiche asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono

lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una infezione virale, quali febbre, mialgie,

sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi e segni di

insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più

drammatica è la dilatazione cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione

sistolica del ventricolo sinistro e rapida insorgenza di scompenso.

Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un

aumento dei marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni

elettrocardiografiche tipiche dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del

tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q patologiche o sottoslivellamento

diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della cinetica

ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame

coronarografico.

Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul

ritmo cardiaco, e sono in grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco

A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici (vedi Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia

ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio della malattia, ma si

osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti.

VALUTAZIONE DIAGNOSTICA

La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi,

dell’elettrocardiogramma, di valori elevati della proteina C reattiva e dei marker di

danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle IgM specifiche per virus a

tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia.

Elettrocardiogramma

I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione

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dell’onda T, ma può anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto

nelle forme di miocardite con interessamento pericardico .

Marcatori di infiammazione e di necrosi.

La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in

caso di miocardite, ma sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati

particolarmente utili nella valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con

miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con

sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere

bassa e variabile.

Ecocardiogramma

In tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un

ecocardiogramma per la ricerca di anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il

reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni della cinetica parietale del

ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La disfunzione

del ventricolo destro è meno frequente.

Risonanza magnetica nucleare

La metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica

nucleare con contrasto di gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree

miocardiche interessate dall’infiltrazione infiammatoria e consente l’effettuazione di

biopsie mirate per la conferma della diagnosi .

Biopsia endomiocardica

La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di

certezza della miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico

occupato da edema e infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la

presenza di quadri di necrosi focale di miociti .Tuttavia, le classificazioni

istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili

soltanto in una minoranza dei casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è

generalmente riservata ai pazienti con una cardiomiopatia rapidamente progressiva e

refrattaria alla terapia standard o con una cardiomiopatia di origine sconosciuta

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associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o aritmie ventricolari

minacciose per la vita.

STORIA NATURALE

La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le

miocarditi che simulano un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande

maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I pazienti che esordiscono con

scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione miocardica

(frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi.

In una piccola percentuale di soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una

funzione sistolica gravemente depressa (frazione di eiezione del ventricolo sinistro

minore del 35%) e in tal caso la metà circa dei pazienti evolve verso lo scompenso

cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo nel rimanente

25% si assiste ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare.

Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni

nelle forme che alla biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La

presentazione clinica caratterizzata da sincope, disturbo della conduzione

intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è gravata

da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto.

TERAPIA

La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si

presentano con un quadro di scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti

aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci inotropi positivi, diuretici, e

vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia dovrebbe

includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica

(III e IV classe funzionale NYHA), un diuretico.

Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle

miocarditi. Al momento questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella

gestione routinaria di questi pazienti, sebbene dati incoraggianti siano stati ottenuti

in quelli con miocardite a cellule giganti.

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ENDOCARDITE

Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o

di endocardite batterica subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente,

ma non necessariamente, torpido ed il secondo l’eziologia batterica della maggior

parte dei casi.

Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già

precedentemente leso, per lo più sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su

cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano attraverso la lesione stessa

(endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di

microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle

piastrine (endocardite infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi

da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie. Oltre che sulle valvole, le colonie si

localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di Botallo o

sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di

dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti.

Particolari condizioni, come la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie,

e l’emodialisi favoriscono la malattia, la cui frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il

6,0 per 100.000 persone.

EZIOLOGIA

Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere

causa della malattia, non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi.

Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi,

pneumococchi o enterococchi; nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente

nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la candida.

I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno

spesso cute. Essi aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo

stafilococco aureo che può colpire direttamente l’endotelio sano. Una patologia

cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi, ma la

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frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è

variabile: il rischio è massimo nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite

dalla persistenza del dotto arterioso e dai difetti del setto ventricolare, mentre è

minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola mitralica. Nei

portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia

che ha richiesto l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti

che fanno uso di siringhe non sterili con trasferimento della droga a più persone, la

sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più gravi sono la localizzazione

mitralica od aortica.

I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca

(estrazioni dentarie) o dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie,

cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a permanenza nelle vene, raramente a causa di

infezioni cutanee o ustioni.

PATOGENESI

Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le

manifestazioni della malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre

meccanismi attivi simultaneamente: 1) le conseguenze della infezione; 2) le metastasi

trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le conseguenze dell’infezione sono

legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro propagazione ai vari

organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni,

colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la

conseguenza della stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con

formazione di autoanticorpi.

ANATOMIA PATOLOGICA

I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non

normale (quello intatto è assai resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della

cavità a minore pressione (per esempio, sulla faccia atriale dei lembi mitralici). Si

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depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che formano le

“colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del

tessuto valvolare. A volte i germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e

proprie ulcerazioni, ma più spesso la moltiplicazione è lenta.

Poiché le vegetazioni sono costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente,

comportando la reimmissione in circolo del materiale che comprende i microrganismi

(batteriemia), e provocando nuove localizzazione in vari organi e tessuti: cute, mucose,

reni, milza, cervello.

QUADRO CLINICO

I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici:

tra quelli generali la febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori

a 39°, compare nell’80-90% dei casi, mancando solo negli immunocompromessi o nei

grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza, perdita di peso e malessere; meno

comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare la comparsa di

nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la

valvola interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia,

oggi che la terapia antibiotica è disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi,

essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi, sono riscontrabili petecchie nelle

congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno frequentemente

si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili

alle estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi

giorni. Le conseguenze emboliche della malattia comprendono: le macchie di Janeway,

manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o le piante dei piedi

(7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria

retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio.

Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali

(insufficienza renale da glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la

presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o di anticorpi antisarcolemma

tici ed antiendocardio.

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Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee,

l’emorragia cerebrale da rottura di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza

renale, che può riconoscere più meccanismi, compresa la terapia antibiotica in eccesso

o con farmaci nefrotossici.

Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi

neutrofila, aumento della velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione

di ripetute emoculture, volte all’isolamento del germe responsabile. L’emocultura

conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e permette di iniziare

una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della

emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso

poco patogeni, l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.

Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e

sopratutto transesofagea: tale esame è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di

endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle vegetazioni aderenti alle valvole

o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi .

L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la prima

ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è

obbligatoria nel sospetto fondato di endocardite se l’ecocardiografia transtoracica è

negativa. Il significato prognostico delle vegetazioni è piuttosto controverso, anche se

il rischio embolico è particolarmente frequente se le vegetazioni sono voluminose.

Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla guarigione,

una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate,

anche a lungo termine, negli altri. In presenza di complicanze, ascessi dell’anello

valvolare, aneurismi micotici dei seni di Valsalva, fistole, e così via, l’ecocardiografia è

di grande valore.

Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono

di solito dati utili alla diagnosi dell’endocardite infettiva.

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Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi,

visto che la terapia antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito

difficoltà non piccole, per cui si è presto ricorsi alla ricerca di criteri di certezza.

Oggi i criteri della Duke University , che classifica i dati disponibili in maggiori e

minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e tre

minori o, in modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la

diagnosi definiva. La difficoltà di riconoscimento della malattia, favorita dalla

dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi processo febbrile che dura più di 5

giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso tardivo il

riconoscimento, per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la

difficoltà di distinguere la malattia da altre patologie infettive e no, tra cui il lupus

eritematoso, la brucellosi, la tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti, le vasculiti, i

tumori.

Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e

nella prognosi dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia

cardiaca. In assenza di trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il

90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può guarire se la terapia, medica o chirurgica,

è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente può portare alla

compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni

valvolari preesistenti.

CENNI DI TERAPIA

La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e

sulla dimostrazione della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale

dovrebbe essere condotto con i dosaggi massimi del farmaco e per via endovenosa, in

modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le 24 ore. In caso di

risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è

possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può

iniziare una terapia empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un

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antibiotico attivo sui gram negativi a dosi elevate e, possibilmente, sostituito dalla

terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il microrganismo responsabile.

La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti

condizioni:

infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali

stafilococco aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune

infezioni fungine;

mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;

lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso;

ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie

ricorrenti;

vegetazioni molto grandi in sede valvolare.

Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti

batteriemia (vedi sopra), queste dovrebbero essere precedute e seguite

immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram positivi o negativi secondo

le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del rischio,

ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in

cui la possibilità di una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato

respiratorio o dentario, l’amoxacillina è abitualmente adeguata, ma può essere

sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di intolleranza: per le manovre

comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più

largamente impiegato.

entricolari e ventricolari, e ciascuna di queste classi ha diverse forme. Le bradicardie

comprendono la bradicardia sinusale, il blocco seno-atriale e il blocco atrio-

ventricolare. I battiti ectopici possono essere sopraventricolari (atriali e giunzionali)

o ventricolari.

BATTITI ECTOPICI

DEFINIZIONE

In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che

rappresenta il naturale pacemaker del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi

elettrici che depolarizzano tutto il miocardio. In particolari condizioni l’attivazione del

cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un impulso che origina in una sede

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diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il battito che

ne deriva è un battito ectopico.

L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è

atteso il complesso del ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri

detti anche extrasistoli. A seconda della sede di origine, le extrasistoli possono

essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari.

Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era

atteso un complesso del ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno

il battito normale, per cui un pacemaker secondario, solitamente “silente” perchè

depolarizzato dalla scarica del segnapassi primario, dà origine a un impulso che attiva

il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello

di base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di

scappamento possono essere atriali, giunzionali o ventricolari.

EXTRASISTOLI ATRIALI

Sono riconoscibili per la presenza di:

onda P prematura di morfologia differente da quella delle onde P sinusali;

pausa postextrasistolica generalmente non compensatoria;

QRS solitamente identico a quelli sinusali.

Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a

quanto avviene nei complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della

loro prematurità, trovino parte del sistema di conduzione ancora in stato di

refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della conduzione. Il più

delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria

eccitabilità e gli impulsi prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un

intervallo PR prolungato rispetto a quello dei complessi di base o, se molto precoci,

possono addirittura bloccarsi nella giunzione atrioventricolare e, in tal caso, la P

prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta). In altre

occasioni, invece, il rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di

Purkinje e le extrasistoli atriali sono condotte con un blocco di branca

(extrasistoli atriali condotte con aberranza).

I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo

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cardiaco, anche se spesso il loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un

trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente tollerati dal paziente o quando

costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori, quali il flutter

e/o la fibrillazione atriale.

EXTRASISTOLI GIUNZIONALI

Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione

nelle branche, e sono considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione

dell’impulso all’interno dei ventricoli procede in modo analogo a quella degli impulsi

sinusali o atriali.

Sono caratterizzate da:

QRS prematuro uguale a quelli del ritmo di base;

assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS

extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione A-

V, oppure può coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente

dopo di esso. In altri casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale

e si manifesta un’onda P dovuta alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in

questo caso la P retrocondotta può precedere, seguire o anche coincidere con il QRS prematuro.

EXTRASISTOLI VENTRICOLARI

La diagnosi si basa sui seguenti elementi:

QRS prematuri, slargati, differenti da quelli del ritmo di base;

mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in

alternativa, comparsa di onde P retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici;

pausa postextrasistolica generalmente di tipo compensatorio.

La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una

fibrillazione atriale e le onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa

comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di base, potrebbe essere l’espressione di

una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di un’origine ventricolare

dei QRS.

A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di

cardiopalmo di quelle sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa

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postextrasistolica che le caratterizza. La loro prognosi dipende dal contesto clinico:

generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei quali può non essere

necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza di

una cardiopatia, in particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti.

TACHICARDIE PAROSSISTICHE SOPRAVENTRICOLARI

Rossella Troccoli, Matteo Di Biase

DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica

caratterizzata da una tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed

improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è dovuta ad un meccanismo di

rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare (tachicardia

da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema

di conduzione (nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare

anomala (tachicardia da rientro atrio-ventricolare).

FIBRILLAZIONE E FLUTTER ATRIALE

DEFINIZIONE

La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato

dal nodo del seno, ma si generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al

minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di essi, però, sono condotti i ventricoli, mentre

un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a un blocco nel nodo atrio-

ventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale.

EZIOLOGIA

Le cause della FA possono essere molteplici. In passato la patologia sottostante più

frequente era rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola

mitrale), mentre nell’ultimo ventennio le malattie che più frequentemente determinano

un aumento della pressione in atrio sinistro, con conseguente aumento di volume

atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione arteriosa e le

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cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali

casi la FA viene definita come idiopatica o “alone fibrillation”.

ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA

Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma

più fattori concorrono a determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati

identificati, specialmente nelle vene polmonari, segnapassi capaci di emettere impulsi

a frequenza molto elevata, ed inoltre si realizzano negli atri multipli circuiti di rientro,

che operano indipendente gli uni dagli altri. Nella FA non esiste un unico fronte di

attivazione che, partendo dal nodo del seno, invada progressivamente in maniera

ordinata tutta la massa atriale in un tempo relativamente breve, ma si realizzano

multipli fronti d’onda che, disordinatamente e in maniera continuamente variabile,

attivano ciascuno una regione più o meno limitata dell’atrio. Mentre nel ritmo sinusale

la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo cardiaco (circa

70-90 millisecondi, come espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA l’atrio si

attiva ininterrottamente: in ogni momento del ciclo cardiaco, infatti, vi sono aree

atriali che si depolarizzano mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega la

presenza di onde atriali (onde f, vedi più avanti) per tutto il ciclo cardiaco.

Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde ad una paralisi atriale: le singole

fibrocellule si contraggono, ma la loro contrazione non è efficace nel favorire la

progressione del sangue perchè non vi è sincronismo nell’attività delle diverse aree

atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La mancanza della spinta

atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare,

soprattutto se la frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione

ventricolare: anche quando il ritmo è sinusale, infatti, la maggior parte del sangue

passa dall’atrio al ventricolo durante la proto e mesodiastole, cioè passivamente, e la

contrazione dell’atrio interviene solo in telediastole a completare il riempimento

ventricolare. Quando, invece, la funzione diastolica del ventricolo sinistro è

compromessa (per esempio, per via dell’ipertrofia ventricolare) il ruolo della

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contrazione atriale diviene preminente nel favorire il riempimento ventricolare, per

cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può provocare una importante

riduzione della gittata cardiaca, ed essere causa determinante dello scompenso

cardiaco.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza

ventricolare media generalmente elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In

corso di FA vi è la perdita della contrazione atriale con conseguente possibile

riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche manifestarsi con

dispnea, affaticabilità, dolore toracico. In circa il 20% dei casi la FA è completamente

asintomatica: e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche

(ipertono vagale) che rallentino la conduzione atrio-ventricolare.

Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa

irregolarità del ritmo e la variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo

fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e durata della diastole: durante una

diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata quantità di sangue,

per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve,

invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di

conseguenza la gittata sistolica è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole

diventa brevissima, come in caso di elevata risposta ventricolare, in alcune (o in molte)

delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire provocare

l’apertura delle cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al

polso il battito è del tutto assente. In questa situazione, la frequenza cardiaca

valutata al polso è minore di quella reale (“deficit cuore-polso”): in pazienti con FA,

perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso ma anche mediante

ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta.

La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del

sistema nervoso autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono

simpatico e diminuisce il tono parasimpatico, come accade durante esercizio fisico.

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Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata

frequenza cardiaca e alla perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata

frequenza cardiaca possono provocare una riduzione della funzione contrattile

ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti può esitare in

scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un

rallentamento del flusso ematico che facilita la formazione di trombi all’interno degli

atri, specialmente nelle auricole. I trombi sono generalmente adesi alla parete atriale,

ma possono anche staccarsi, specialmente quando, col ripristino del ritmo sinusale,

l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi nell’atrio sinistro può quindi,

attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto periferico: non

di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma

soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità

nei pazienti con FA.

CLASSIFICAZIONE

Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno

comprende in modo completo tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico è

utile distinguere un primo episodio documentato indipendentemente dai sintomi e dalla

durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o più episodi, la FA è

considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene

definita parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente.

Nella FA persistente, il ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con

farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La categoria della

FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata

tentata.

TRATTAMENTO

Profilassi degli eventi cardioembolici

Poiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste

unanime consenso sul fatto che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA

richiedano l’anticoagulazione con dicumarolici. In pazienti con FA non valvolare

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l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal rischio tromboembolico

calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa, età

> 75 anni, diabete mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque

conoscere che la terapia anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke

emorragico pari all’1% per anno.

Cardioversione

Con tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale.

Quando la cardioversione non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente

può essere interrotto eseguendo una cardioversione elettrica o farmacologica.

La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica

elettrica per mezzo di due piastre applicate al torace del paziente, cui consegue

l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le cellule cardiache e quindi

l’interruzione dell’aritmia.

Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire

una cardioversione farmacologica; tra questi il propafenone, la flecainide e

l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV farmacologica

dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di

24 ore, mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA

persistente.

Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo

sinusale sia spontaneo o indotto elettricamente o con farmaci, è che si verifichi

un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il periodo in cui l’aritmia è stata

presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione atriale

favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo

motivo si può cardiovertire elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48

ore, mentre se l’episodio di FA ha una durata maggiore, la cardioversione, sia elettrica

che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di anticoagulazione efficace

di almeno 4 settimane.

Controllo del ritmo e controllo della frequenza

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Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento

del ritmo sinusale (controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una

frequenza ventricolare media accettabile (controllo della frequenza). La prima

strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o molto sintomatici o con

deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è

generalmente preferita in pazienti anziani o paucisintomatici.

Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono

quelli della classe I (chinidina, flecainide, propafenone) e III

(sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno una efficacia nel

mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al

70-75 % per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti

collaterali coinvolge quasi un quarto dei pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di

effetti collaterali della terapia farmacologica, la strategia del controllo del ritmo può

essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o chirurgiche che

consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni

lineari .

Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato

come, soprattutto nei pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida

alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta con l’impiego di tre diversi farmaci:

la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-bloccanti

generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto

sforzo e i Calcio-antagonisti.

FLUTTER ATRIALE

DEFINIZIONE

Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con

una frequenza generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il

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numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare,

che funge da filtro, impedendo che la frequenza ventricolare raggiunga livelli troppo elevati.

Generalmente la conduzione atrio-ventricolare avviene con un rapporto 2:1 (solo un impulso

atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può presentare rapporti di conduzione

diversi (3:1, 4:1, 3:2).

L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti.

Molto spesso il flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si

verifica in presenza di una condizione predisponente o di una malattia cardiaca strutturale.

QUADRO CLINICO

I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in

larga misura dalla frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma

possono anche verificarsi vertigini, dispnea, debolezza, e raramente angina o sincope.

CLASSIFICAZIONE

Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a

frequenza intorno a 300 al minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre

minore, dato che solo alcuni impulsi atriali vengono condotti ai ventricoli. In base alla

morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico.

Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono

senza interruzione, non essendo separate da linea isoelettrica; nel flutter atipico,

invece, le onde F non hanno morfologia a denti di sega e sono separate da linea

isoelettrica. Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde F sono negative nelle

derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune

(oraria) hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1.

TRATTAMENTO

Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una

frequenza ventricolare non troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I

calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58) sono farmaci di prima scelta per

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rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà del nodo

A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli.

Per far cessare il flutter atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente

impiegata l’ibutilide somministrata per via endovenosa .

Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi

il paragrafo “Trattamento” della sezione Fibrillazione atriale). Come per la

fibrillazione, anche i pazienti con flutter atriale che dura da più di 48 ore richiedono

un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione elettrica atriale può

efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto

nell’atrio destro per via venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a

stretto contatto con l’atrio sinistro, che si trova in immediata continuità con l’esofago.

Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza, erogati da un apposito stimolatore, possono

far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del circuito di rientro,

impedendo l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia.

E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo

definitivo il circuito di rientro mediante un intervento di ablazione transcatetere

(vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene eseguita inserendo un

elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a

radiofrequenza, una lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando

questo tessuto diventa incapace di condurre l’impulso, l’aritmia non può più essere

scatenata per l’impossibilità che l’impulso percorra il circuito, una parte del quale è

divenuta ineccitabile in seguito al trattamento.

TACHICARDIE VENTRICOLARI

DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici

di origine ventricolare con frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata

come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur avendo durata inferiore, richiede un

immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave compromissione

emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla

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morfologia dei complessi ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si

definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici e polimorfa quando sono evidenti

variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme

seguenti: TV Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea,

generalmente a frequenza <150 b/m), TV Incessante (persistente per oltre l’80% della

giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra 100 e 150 b/m).

EZIOLOGIA

Le TV possono verificarsi in presenza o in assenza di alterazioni anatomiche

macroscopicamente evidenti del cuore. In quest’ultimo caso esiste un’alterazione

anatomica di dimensioni troppo piccole per essere messa in evidenza dai comuni

presidi diagnostici (tachicardie cosiddette idiopatiche) o esiste un difetto funzionale

dei canali ionici, generalmente su base congenita (per esempio, sindrome del QT lungo

congenito, Sindrome di Brugada). Le forme idiopatiche costituiscono circa il 10% di

tutte le TV. Le TV che si associano ad una alterazione anatomica del cuore possono

complicare, talora con significato di evento terminale, tutte le cardiopatie, alcune in

particolare.

TV ASSOCIATA AD ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV:

nell’infarto miocardico acuto una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è

frequente anche in pazienti con pregresso infarto miocardico. In seguito alla necrosi

miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da tessuto

fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro.

Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29).

La morte improvvisa, in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle

classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre nelle fasi più avanzate incidono anche le

bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie. La frazione

d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di

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morte improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa.

Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di

malallineamento dei miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie

ventricolari (vedi Capitolo 28). Non raramente questa cardiopatia si manifesta per la

prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica in pazienti prevalentemente

giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia ventricolare

sinistra, di una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente

predittivi del rischio di morte improvvisa in questi pazienti.

La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta

essenzialmente con aritmie ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con

morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 31).

Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie

ventricolari maligne (vedi Capitolo 16).

Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante

insufficienza valvolare, può dare luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi

Capitolo 15).

TV IN ASSENZA DI ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo,

Sindrome di Brugada), per l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia.

La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da

alterazioni strutturali dei canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella

ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi Capitolo 43). In questi pazienti, la

sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di una “torsione

di punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di

ampiezza variabile e con progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può

essere determinata dalla degenerazione della torsione di punta in una fibrillazione

ventricolare.

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La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui

all’alterazione di un canale ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione,

soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un gradiente elettrico dopo la completa

attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune alterazioni dell’ECG

di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di

tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43).

Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed

alcuni Squilibri idroelettrolitici come Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono

provocare una TV.

CONSEGUENZE EMODINAMICHE

I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV

sono: 1) la frequenza, 2) il mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3)

l’attivazione eccentrica del miocardio.

Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene

insufficiente per permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata

si riduce la pressione arteriosa tende a cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50%

dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella ventricolare, mentre nel

restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la

contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a

valvole AV chiuse, con aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio

alle vene e perdita totale del contributo atriale al riempimento ventricolare.

Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio.

L’attivazione del miocardio ventricolare secondo le normali vie di conduzione del

segnale elettrico è necessaria per una contrazione efficace dei ventricoli. Nella TV,

invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di origine dell’ aritmia (circuito

o focus ) l’impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una desincronizzazione

tra le varie parti dei ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della

contrazione

La funzione ventricolare sinistra e l’eziologia della TV ne influenzano in modo

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determinante le manifestazioni cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di

eiezione, il quadro emodinamico è compromesso solamente per le caratteristiche

intrinseche della TV (frequenza, dissociazione ed eccentricità). Una TV in un paziente

con severa disfunzione ventricolare sinistra (bassa frazione di eiezione), invece, può

determinare importanti riduzioni di portata cardiaca anche a frequenze non molto

elevate.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della TV è estremamente variabile, e si possono osservare tanto

pazienti asintomatici quanto pazienti che arrivano a presentare sincope o arresto

cardiocircolatorio. I fattori fondamentali nel determinare la sintomatologia sono la

frequenza dell’aritmia, la durata della stessa e la cardiopatia di base. La sensazione

più comunemente riportata dai pazienti è quella del cardiopalmo, legata all’aumento

della frequenza delle contrazioni ventricolari. In certi casi il paziente può

riferire angor legato in questo caso alla discrepanza (squilibrio tra richiesta e apporto

di O2) soprattutto nei pazienti che presentano di base una cardiopatia ischemica.

Altro sintomo può essere la dispnea, associata alla slatentizzazione di un sottostante

scompenso cardiaco.

All’esame obiettivo va posta particolare attenzione al polso che si presenterà

frequente, piccolo e ritmico. Un dato non raro, e generalmente sottovalutato, è la

variabilità dell’ampiezza del polso, che si rileva in presenza di dissociazione atrio-

ventricolare, cioè in circa il 50% dei casi. Quando l’attività ventricolare è dissociata

da quella atriale, la contrazione degli atri potrà avvenire in qualunque momento del

ciclo cardiaco; se essa cade a valvole A-V chiuse non ci sarà alcun contributo dell’atrio

al riempimento ventricolare, mentre quando gli atri si contraggono poco prima della

sistole ventricolare, nella fase in cui le valvole A-V sono aperte, aumenterà il

riempimento ventricolare, e con esso la gittata sistolica di quel battito. In questa

circostanza anche l’ampiezza del polso sarà maggiore rispetto a quando gli atri si

contraggono a valvole A-V chiuse, e poiché la corretta sincronizzazione A-V (onda P

poco prima del QRS) è casuale, si avrà ogni tanto una pulsazione più ampia, pur

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mantenendosi ritmico il polso. L’ascoltazione cardiaca evidenzierà toni ritmici e

tachicardici, con a volte variabile intensità del I tono (la genesi di questo fenomeno è

identica a quella che governa la variabile ampiezza del polso), mentre quella polmonare

potrà essere silente o evidenziare rumori umidi (rantoli a piccole o medie bolle) nel

caso in cui la tachicardia ventricolare porti ad un quadro di edema polmonare.

Infine, a seconda della compromissione emodinamica, subentrano quelli che sono i

sintomi legati alla bassa portata quali l’ipotensione (sudorazione, pallore, etc.), le

vertigini o la sincope (per ipoperfusione della sostanza reticolare).

CENNI DI TERAPIA

Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella

volta a prevenire le recidive. Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano

spazio innanzitutto presidi elettrici quali il DC Shock sincronizzato (scariche di

defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a frequenze

superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda

l’approccio farmacologico, il farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In

alternativa, è possibile usare l’Amiodarone, la Mexiletina o il Propafenone a seconda

dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del paziente.

Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV

(strutturale o idiopatica) e va fatta un’attenta valutazione del paziente, comprendente

un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se necessarie, indagini invasive (studio

elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà condotta

esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei

pazienti a minor rischio, mentre i farmaci verranno affiancati da supporti elettrici

(defibrillatore impiantabile) nei pazienti con rischio più elevato di recidive,

soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare.

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SINCOPE

La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve

durata e a risoluzione spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di

entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco. La sincope è un sintomo comune a molte

malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza deriva da due

considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere

anticipatrice di una morte improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il

grande impatto emotivo sull’individuo che ne soffre e sulla famiglia, che la sincope

rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed a risoluzione

spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non

altrettanto favorevoli. Se l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco)

bisogna ben considerare

che “the only difference between syncope and sudden death is that in one you wake u

p”.

Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo,

ma ciò non significa che il fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta

e transitoria. I fattori determinanti la pressione arteriosa sono il volume circolante

nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze periferiche. Le alterazioni

di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope.

La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica,

a critiche variazioni della frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a

diminuzione del volume circolante; la riduzione delle resistenze periferiche è l’effetto

di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione simpaticolitica, eventi riflessi,

malattie neurologiche).

E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope,

soprattutto le epilessie generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi

del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia generalizzata).

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EPIDEMIOLOGIA

La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000

casi/anno. Il 75% della popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in

un arco di tempo di 26 anni; nei nostri Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle

presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva.

La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il

passare del tempo. La ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della

popolazione che già ne ha sofferto.

CLASSIFICAZIONE

La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione

deve prendere in considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope,

per poter avviare una adeguata diagnosi differenziale. Queste situazioni vengono

spesso indicate come “syncope like” La sincope può essere classificata come segue.

Neuromediata: vasovagale, situazionale, sindrome da ipersensibilità del seno carotideo,

nevralgia glossofaringea e trigeminale

Ipotensione ortostatica: disautonomia, farmaci, deplezione di volume

Aritmica

Cardiopatia strutturale: cardiopatia ischemica, cardiomiopatie , cardiopatie con ostruzione

all’efflusso

Cerebrovascolare: furto della succlavia

Syncope like

Epilessia generalizzata

Sincope psicogena: attacchi di panico, ansia generalizzata

Ipossiemia acuta transitoria: intossicazione da CO, esposizione a base concentrazioni di

ossigeno

La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può

essere scatenato da molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi

sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere si accompagna ad un insieme di

sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette un alto

grado di sospetto.

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La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione

anziana, è caratterizzata dal fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del

seno carotideo (massaggio del seno carotideo – MSC) diventa efficiente nel provocare

la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica nella comparsa degli

episodi spontanei.

La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza

solo su base anamnestica (minzione, defecazione, deglutizione).

Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte

dall’osservatore o provocate in laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza

di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con differente prevalenza dei due

aspetti patogenetici

La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della

posizione eretta. Può essere accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o

meno rapida della pressione arteriosa in ortostatismo (sensazione di testa vuota,

vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla riassunzione della

posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata

nell’anziano, associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o

neurologiche degenerative (Morbo di Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci

ipotensivi o di diuretici e alcune malattie endocrine (Ipocorticosurrenalismo primitivo

o secondario).

Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o

tachicardia. Entrambi i fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi

della perfusione cerebrale. Le bradicardie secondarie a disfunzione del nodo del seno

(sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della conduzione atrio-ventricolare

(vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari (vedi

Capitolo 39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine,

quando interrompendosi improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa

prolungata che precede il recupero del ritmo normale.

La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale,

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pause sinusali, blocchi senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione

atriale. I periodi di bradiaritmia sono considerati più frequentemente in causa nella

patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV possono esser causa di

sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado

tipo Mobitz I (Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV

di II grado tipo Mobitz II o di blocco AV di III grado.

La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope.

La sindrome del QT lungo congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la

comparsa di una tachicardia ventricolare a torsione di punta, specialmente in

associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di ipokaliemia.

La tachicardie sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano

a bassa gittata; in genere i soggetti anziani sono quelli che presentano più

frequentemente la sincope in corso di tachicardia sopraventricolare .

La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della

succlavia (vedi Capitolo 53) provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello

del circolo cerebrale posteriore che rientra fra gli attacchi ischemici transitori.

Le situazioni raggruppate sotto la dizione “syncope like” comprendono un’ampia varietà

di condizioni morbose, che vanno da crisi epilettiche generalizzate non convulsive

associate a ipotonia muscolare (attacchi di piccolo male), a episodi critici in corso di

ansia generalizzata (crisi di panico), a disturbi del sonno, a episodi di amnesia globale

transitoria. Alcune di queste evenienze sono di facile diagnosi, se accadono in

presenza di testimoni che possono descrivere il comportamento dei paziente, ma sono

di difficile inquadramento quando il paziente ne soffre senza che alcuno sia presente

all’episodio critico.

DIAGNOSI

L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del

paziente: l’obiettivo fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una

patologia cardiaca. Quando questa possa essere esclusa, l’identificazione della causa della

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sincope permetterà di mettere in atto una serie di provvedimenti che migliorino la qualità

di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la patologia aritmica

(bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica.

E’ quindi necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause

cardiogene e, una volta escluse queste, alla ricerca di altre malattie.

L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il

70% dei casi, specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella

pratica clinica, occorre richiedere al paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento

critico, poiché si presuppone che esso sia più facilmente riferibile, e successivamente

valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni elementi sono

fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la

presenza di cardiopatia, di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia

di Parkinson, epilessia), di morte improvvisa nella famiglia, della recente assunzione di

farmaci, di malattie psichiatriche

Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve

ricordare che nelle forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle

osservazioni, la forma cardiogena ne comprende l’11% e le forme sincope-like

rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in soggetto con età superiore

a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per una forma

cardiogena, mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di

testa vuota che precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata.

La sincope cardiogena appare molto probabile quando vi è rilievo anamnestico di

cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia anamnestica esclude la sincope cardiogena

nel 97% dei pazienti.

CENNI DI TERAPIA

A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali

piuttosto che di terapia della sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi

episodi sincopali trattando la malattia e i meccanismi patogenetici che sottendono la

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sincope.

La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche

possibilità di un’efficace prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che

devono essere individuati ed evitati. Il paziente deve essere educato ad evitare tutte

le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso patogeneticamente efficiente, come gli

ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni fisiche e

farmacologiche che favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere

sensibilizzato al riconoscimento dei sintomi premonitori e dovrà conoscere le manovre

che sono in grado di far abortire la crisi sincopale, prima fra tutte il mettersi in

posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori. Il soggetto deve essere

rassicurato sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di

cui ha sofferto e della possibilità di una recidiva, al fine di evitare gli aspetti

psicologici, come ansia e depressione, che possono accompagnare uno o più episodi

sincopali. In caso di sincope vasovagale ricorrente e in pazienti molto motivati, la

prescrizione di periodi prolungati di postura eretta od altre manovre fisiche

specificamente orientate possono essere utili nel ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa

indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi farmaci che sono

stati proposti in passato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori.

L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace

nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di cui è ormai diventato il

trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è stata

oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da

un pacemaker. Dopo alcuni studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in

doppio cieco, è stata dimostrata la non superiorità del trattamento con pacemaker

rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è dimostrata in tutte le forme

da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40).

Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci

antiaritmici, ed in realtà molte se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre

più diffuso delle tecniche di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 60) ha permesso il

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successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone gli effetti collaterali e

rendendo permanente l’efficacia della terapia.

Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il

trattamento farmacologico o l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di

Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro effetto inotropo negativo;

l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti inotropi

negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile

(ICD, implantable cardioverter defibrillator), che riconosce la tachicardia e la

fibrillazione ventricolare e la tratta con uno shock elettrico in grado di interromperla

IPERTENSIONE ARTERIOSA

Definizione ed epidemiologia

Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata

da un aumento anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli

di pressione arteriosa. Tale aumento riguarda più frequentemente entrambe le

pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di ipertensione caratterizzate da

aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata), condizione più

frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica.

In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la

presenza di ipertensione arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di

pressione arteriosa > 140 mmHg per quanto riguarda la pressione sistolica e/o > 90

mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base dei livelli pressori

inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità

clinica (grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III:

> 180/>110 mmHg) che, come è intuibile, possono avere un diverso impatto sulla storia

naturale della malattia.

L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad

una eziologia chiaramente identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende

conto di oltre il 90% dei casi di ipertensione arteriosa. Di contro, quando l’aumento dei

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valori pressori è secondario a disordini d’altra natura, l’ipertensione arteriosa viene

definita “secondaria”.

L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza

epidemiologica, pressoché ubiquitaria nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi,

interessa soggetti adulti con prevalenza direttamente correlata all’età. Si presume

che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente affetti da

ipertensione arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma

sale ad oltre il 50% nella popolazione d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il

sesso, la prevalenza d’ipertensione è maggiore nei maschi quando si considerano

soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è uguale tra i 2 sessi per età superiori.

In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone urbane rispetto a

quelle rurali, in particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati,

mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella

nera. In base a queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi saranno nel

mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore

a qualunque altra condizione in termini di “carico di malattia”.

EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA

Eziopatogenesi e fisiopatologia

Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella

malattia primitiva a cui è associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa

essenziale vi sono molti fattori causali per lo più non identificati. L’ipertensione

arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale, dove elementi di

tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e

metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i

più importanti sono legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo

stress psichico, l’abitudine tabagica, una dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il

frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici identificati e

più probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore

attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del

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tono adrenergico, un aumento della risposta vascolare a sostanze vasocostrittrici quali

l’endotelina, una ridotta escrezione renale di sodio ed infine una ridotta sintesi

endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…).

Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze

periferiche per la gittata cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto

della frequenza cardiaca per la gittata sistolica. Pertanto è proprio sulle resistenze

periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i differenti

meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze

periferiche sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così

come lo è la frequenza cardiaca, mentre la gittata sistolica è prevalentemente

regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua volta correlato alla

volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa

possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi

a breve termine possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che

modificano in pochi secondi il tono simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono

arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine sono invece quelli di tipo

umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone, dalla

vasopressina e dal sistema delle chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo

termine della pressione arteriosa, principalmente attraverso la regolazione della

volemia.

Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della

pressione arteriosa e dei suoi meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza

di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i meccanismi fisiopatologici responsabili

dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli maggiormente implicati sono

legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al rimodellamento

vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una

ridotta sensibilità insulinica ed in ultimo ad una funzione endoteliale alterata.

Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella

genesi della malattia ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume

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plasmatico ed un aumento delle resistenze periferiche. Tuttavia studi clinici hanno

mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi una riduzione

dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla

base di tale risposta individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la

definizione di ipertensione arteriosa sodio-sensibile.

Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il

potassio ed il calcio, le cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori

pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato gli effetti di un aumento

dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno

fornito finora risultati controversi.

L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle

resistenze periferiche, e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso

secondario ad una vasocostrizione arteriolare di origine funzionale, dipendente da un

aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali catecolamine, angiotensina II

o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca, successivamente

un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori

pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle

pareti dei vasi stimolano lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce

vascolari, con ulteriore riduzione del lume arteriolare, ed il conseguente aumento delle

resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od anche il peggioramento

dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a

mancare.

Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-

angiotensina-aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla

pressione arteriosa anche attraverso la regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del

riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre, attraverso effetti di tipo

autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensina-

aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di

fibrosi tissutale, in particolare a livello vascolare. Pertanto, una disregolazione

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dell’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad esempio un’attività

sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi, determina un

aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e

cardiache, tali da giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema.

Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa:

legandosi ai recettori tirosin-kinasici essa determina a livello endoteliale una cascata

trasduzionale intracellulare che porta all’aumentata trascrizione genica e

successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale catalizza la

produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed anti-

infiammatoria. Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità

insulinica a livello vascolare si assiste ad una riduzione della sintesi di ossido nitrico

con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori pressori. Inoltre,

l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-

resistenza si associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del

tono vascolare ed una riduzione della funzionalità endoteliale.

Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di

ipertensione arteriosa. L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello

vascolare, attraverso la produzione di sostanze vasodilatanti ad azione autocrina e

paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e l’endothelium-derived relaxing factor

(EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze antitrombotiche (vedi Capitolo

48). Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi fattori di

rischio quali fumo e diabete, si realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione

subclinica ed un aumento dello stress ossidativo, i quali danneggiano le cellule

endoteliali e conseguentemente portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si

instaura una disfunzione endoteliale vengono meno le suddette funzioni protettive

collegate ad un endotelio integro, con conseguente aumento della reattività vascolare,

aumentata espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi

dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità alla evoluzione

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aterosclerotica e alla formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima

istanza lo sviluppo di eventi aterotrombotici (vedi Capitolo 46).

IMPATTO CLINICO

Impatto clinico

Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di

sintomi o disturbi, né di complicanze a breve termine, bensì può decorrere

asintomatica per molti anni, determinando progressive e sempre più gravi alterazioni

strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale.

Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico,

possono palesarsi improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del

miocardio, l’ictus cerebrale e lo scompenso cardiaco.

La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie

cardiovascolari fu illustrato in maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle

elaborate dagli studi condotti da una compagnia assicurativa nordamericana, la

Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una popolazione di

uomini di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori

pressori inferiori erano in grado di determinare una riduzione dell’aspettativa di vita

di 3 anni, e, se ci si spingeva fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg l’aspettativa di

vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si consideravano uomini con valori pressori di

150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5 anni. Una conferma di

questi dati ci è stata fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da

Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come l’aumento dei valori pressori anche se

limitato a 10 mmHg, corrispondesse ad un brusco incremento della incidenza di

coronaropatia, anche nell’ambito del range dei valori pressori normali. La Prospective

Studies Collaboration ha comunque fornito le evidenze più importanti sulla relazione

tra ipertensione arteriosa ed aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi ha

preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi prospettici osservazionali per 12

anni. A partire da un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20 mmHg di

pressione arteriosa o di 10 mmHg di pressione diastolica è risultato associato ad

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aumenti di 2 volte di mortalità per cardiopatia ischemica e circa 4 volte per ictus. La

mortalità vascolare risultava superiore al 50% nella decade 80-89 anni, mentre il

rischio relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di circa 10 volte.

L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per

lo sviluppo di malattie cardiovascolari.

Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti

delle principali malattie cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus

cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’ stato a tal proposito

dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo

incremento dei valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa

di vita. Se da un lato valori pressori elevati sono associati ad un aumento del rischio

cardiovascolare, parallelamente la loro riduzione è in grado di prevenire lo sviluppo di

una considerevole percentuale di complicanze soprattutto di natura cerebrovascolare.

La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è

comunque secondaria solo alla presenza di elevati valori pressori, bensì è una

conseguenza anche di altri fattori di rischio cardiovascolari che sono frequentemente

presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete mellito, l’obesità ed il

fumo. La presenza contemporanea di fattori di rischio multipli è stata indagata nel

corso dello studio di Framingham che ha dimostrato come la presenza isolata

d’ipertensione arteriosa si osservi solo nel 20% dei pazienti, mentre nel 50% dei casi

elevati valori pressori si associano a 2 o 3 fattori di rischio concomitanti. Questa

frequente associazione tra ipertensione arteriosa ed altre anomalie del profilo

metabolico quali il diabete mellito e la dislipidemia suggerisce come queste

associazioni non siano casuali ma siano probabilmente legate alla presenza di fattori

eziopatogenetici comuni alla base dello sviluppo di tali anomalie.

Il riscontro di alterazioni del profilo lipidico caratterizza un’ampia percentuale della

popolazione ipertesa e contribuisce in maniera sostanziale allo sviluppo di complicanze

cardiovascolari. L’alterazione del profilo lipidico più frequentemente associata alla

presenza di ipertensione è certamente l’ipercolesterolemia, presente in oltre il 40%

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dei pazienti con valori pressori francamente elevati e con una prevalenza

progressivamente crescente al crescere della gravità del quadro ipertensivo,

supportando un’eventuale correlazione tra tali due fattori di rischio anche in ambito

patogenetico. Dislipidemia ed elevati valori pressori sono inoltre elementi costitutivi

della cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica frequentemente associata

alla presenza di ipertensione arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata, da un

punto di vista clinico, dalla presenza di più fattori di rischio associati, mentre da un

punto di vista fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale, particolarmente

aterogena, da una condizione di insulino-resistenza, ed infine da uno stato

infiammatorio cronico subclinico.

Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione

arteriosa con la quale condivide la responsabilità di una significativa quota della

mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché alcuni importanti tratti fisiopatologici.

Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo

preclinico e clinico; le prime sono caratterizzate da modificazioni strutturali e

funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste si manifestino con sintomi o

segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi che si

palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo

scompenso cardiaco e l’ictus cerebri.

In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo

di aterosclerosi, che vede maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene

ed il sistema nervoso centrale.

Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate ai

processi di rimodellamento ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo e

sebbene siano asintomatiche, configurano comunque una condizione clinica fortemente

predittiva di eventi cardiovascolari futuri, condizione identificata con il termine di

“cardiopatia ipertensiva”. Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia

ventricolare sinistra e nella disfunzione diastolica le manifestazioni principali. La

prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca soprattutto in risposta

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all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di

tipo concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle

pareti ventricolari per la classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza

un aumento della cavità ventricolare, il secondo tipo è invece caratterizzato

dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli spessori parietali,

secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”.

La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo

3) è del 3-8% nei pazienti con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame

ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa ventricolare è aumentata in ipertesi non

selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento.

L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente

fattore di rischio indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti

progressivi della massa ventricolare sono correlati continuativamente con il rischio

cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come dimostrato in numerosi studi.

Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa

camera cardiaca, durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di

riempimento, per cui il ventricolo può raggiungere un volume telediastolico tale da

garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di un’aumentata pressione

diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio

sinistro e nelle vene polmonari.

Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di

alterazioni funzionali della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole,

o essere secondaria ad alterazioni della geometria ventricolare sinistra o

dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche proprietà elastiche

del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico.

La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al

25%, ed è stato dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di

eventi cardiovascolari avversi.

Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa

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sono identificate invece nella cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del

miocardio la più frequente causa di mortalità nel paziente iperteso, e la complicanza

meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le manifestazioni

ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di

placche aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da

una disfunzione del microcircolo subendocardico che determina una riduzione della

riserva coronarica.

La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico

o diastolico (vedi Capitolo 19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione

ventricolare sinistra sistolica insorta secondariamente alla presenza di una

cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta attraverso lo sviluppo di

una disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa invece ad

una normale funzione contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla

presenza di una disfunzione diastolica.

In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le

aritmie, in particolare la fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria

alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro conseguenti all’ aumento cronico delle

pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una disfunzione diastolica.

Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono

precipitare in una morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un

ruolo fenomeni di rientro elettrico ventricolare causati da un progressivo

disarrangiamento dell’architettura miocardica, caratterizzato soprattutto da un

aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle alterazioni della

geometria ventricolare sinistra.

L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il

20% degli ipertesi è affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione

dall’ipertensione non complicata all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni,

periodo nel quale si verificano progressive alterazioni strutturali a carico dei reni che,

se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti, successivamente

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determinano una progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di

insufficienza renale.

Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la

presenza di microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina

nelle urine, compresa per definizione tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg

questa si definisce invece macroalbuminuria. Un aumento dell’escrezione di albumina

può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento della pressione

idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera

glomerulare, o da un’alterazione del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata.

Anche la microalbuminuria rappresenta un predittore di rischio indipendente per

eventi cardiovascolari maggiori, particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato

dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per valori di microalbuminuria al di

sotto del “cut-off” di normalità.

Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione

inesorabile del danno renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una

riduzione significativa del filtrato glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale

cronica, che è anche conseguente all’aumento importante delle resistenze vascolari

intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad aumentare

ulteriormente rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento.

Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo

significativo l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi,

nonché attraverso lo stimolo meccanico costituito dagli elevati valori pressori.

Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico del distretto carotideo, e

possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-media

carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che

determinano stenosi di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni,

anche quando ancora nello stato preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di

sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal motivo una loro precoce

individuazione permette una migliore stratificazione del rischio del paziente iperteso

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e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace.

Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere

caratterizzata da un quadro di emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus

ischemico o da un attacco ischemico transitorio (TIA), da un infarto lacunare, od in

ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva.

IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIA

Ipertensione arteriosa secondaria

L’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed

è la conseguenza di un disordine primitivo soprattutto di tipo renale od

endocrinologico.

La ricerca di un’ipertensione secondaria dev’essere attuata con massimo scrupolo,

soprattutto nei soggetti giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può

essere rimossa ed in questi casi l’ipertensione può essere curata evitando una terapia

per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il sospetto di un’ipertensione

arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del

paziente con l’ausilio di esami specifici.

Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una

riduzione dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-

aldosterone provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a

malattie renali acute quali l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le

sindromi nefritiche, o a disordini di tipo cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale

cronica. Cause più rare di ipertensione nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.

Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici

per valutare la funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.

Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad

una stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel

caso di soggetti giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La

riduzione del flusso renale secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata

secrezione di renina e la successiva formazione di angiotensina II con un aumento della

vasocostrizione periferica, aumento del riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei

valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non

controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente giovane, che deve assolutamente

porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare.

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Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un

aumento combinato dei livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai

fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler dell’arterie renali nel caso di stenosi

prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La metodica “gold

standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia

delle arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna

prescrivere con estrema cautela ed a bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il

rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della perfusione renale con lo

sviluppo di insufficienza acuta.

Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono

rappresentate nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei

bambini, e nel 70% dei casi da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al

carcinoma surrenalico o all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un

iperaldosteronismo va sospettato in presenza di un’ipertensione resistente alla terapia,

eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria, polidipsia e palpitazioni. Il dato

ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad un’aumentata potassiuria, con un

pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I livelli di aldosterone sono

aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone plasmatico/attività

reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di iperaldosteronismo

primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è quello del

”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare

diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere

confermata anche dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo

primario la somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei

livelli plasmatici di aldosterone.

Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del

surrene o del tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata

increzione di adrenalina e noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di

ipertensione arteriosa, ma se non riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente.

Uno stato ipertensivo è presente in tutti i soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora

cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento

improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse.

La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle

catecolamine plasmatiche ed urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i

campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I dosaggi dell’acido

vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli

esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di

test farmacologici di inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone

rispettivamente, o utilizzare subito metodiche d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la

RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.

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Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita

dell’aorta generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad

altre anomalie quali la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa

rara di ipertensione arteriosa secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi

è di solito clinica ed è legata al riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti

superiori e di un ipotensione a livello degli arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso

femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un soffio continuo al dorso, nella regione

interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle arterie intercostali. La diagnosi

di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un angio-TC del torace ed

un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea, mediante

l’apposizione di stent, o chirurgica.

Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare

un’ipertensione arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i

contraccettivi orali, i FANS, i corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale

pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi

rapida.

TRATTAMENTO

Trattamento

La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto

nella prevenzione dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali

benefici terapeutici possono essere raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori

pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di alcune complicanze, ma

anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente associati

all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento

antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al

meglio il suo profilo di rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia

ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di rischio associati.

Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non

farmacologico, basati sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini

comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico, basati sull’impiego di diverse

classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime Linee

Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione

arteriosa, nei pazienti a rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato

iniziare solo un trattamento non farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti,

ed associando successivamente un trattamento farmacologico qualora i valori pressori

non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in genere opportuno

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un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici

con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 2).

Interventi di tipo non farmacologico

Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il

rischio cardiovascolare globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più

contenuto alla terapia farmacologica. Sebbene siano spesso di non facile attuazione

pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera completa gli effetti a lungo

termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non

farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di

impiego.

Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti

antipertensivi: il calo ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare.

Considerata l’evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo,

distribuzione anatomica del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una

restrizione dell’apporto calorico si sia dimostrata in grado di ridurre i valori pressori,

essendo l’entità dell’effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione di circa 1,5

mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di

peso corporeo perso.

Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di

numerose meta-analisi, che complessivamente hanno evidenziato un’azione

antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la sistolica e 2-3 per la diastolica).

La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero <2 grammi

NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e

stimoli il sistema renina-angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico.

Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4

grammi NaCI) è indicata nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando

come questo intervento non farmacologíco si sia dimostrato in grado di potenziare

l’efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica.

Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che

l’esercizio fisico regolare di moderata intensità (rappresentato da un incremento pari

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a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a riposo) è in grado, dopo un congruo

periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8 mmHg a

seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni

si accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù

degli effetti emodinamici (vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’

insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un training fisico costante.

Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico

Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso

quando non si ottengono risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o

quando i valori pressori basali ed il rischio cardiovascolare del paziente sono molto

elevati.

L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di

valori pressori ottimali, e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è

consigliabile adottare un’associazione tra due o, se necessario, più molecole. La scelta

del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non è però basata solo sulla

efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del

danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle

alterazioni metaboliche concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo,

deve tener conto della tipologia del paziente (età, sesso, comorbidità), degli effetti

collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze terapeutiche e di

aspetti socio-economici .

Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono:

Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata

da effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia

ischemica, disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per

rallentare la progressione del danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo

metabolico sostanzialmente neutro. Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da

prima dose e raramente l’angio-edema della glottide. Le principali controindicazioni sono

l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi bilaterale delle arterie renali.

Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore

(non diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori

periferici (diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-

ipertensiva e si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in

prescrizione singola od in associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema

renina-angiotensina-aldosterone.

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Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben

tollerati anche in quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei

recettori AT-1 dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione

arteriosa, in particolare nei pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza

di diabete o sindrome metabolica.

Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono

particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono

inoltre spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-

angiotensina. Le controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance”

del paziente legata ad effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio

elettrolitico, in particolare l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo

glico-lipidico.

Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia

ischemica, disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono

controindicati nei pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con

asma o con broncopneumopatia cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-

resistenza.

I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere

associati tra loro specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e

complementari, se l’efficacia ipotensivante è superiore quando associati rispetto a

quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è ben tollerata.

Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano

raggiunti gli obiettivi, includono gli alfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con

ipertrofia prostatica, gli anti-ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfa-

metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che trovano indicazione

soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o

resistente.

URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE

Urgenze ed emergenze ipertensive

Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un

notevole rialzo pressorio (solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un

abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni possono essere distinte in

urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato e

rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco

o neurologico e possono essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive

sono invece quelle situazioni nelle quali, per la presenza di segni di danno d’organo

collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è indispensabile una

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riduzione della pressione arteriosa entro 1 ora.

Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva

sono l’infarto miocardico acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la

dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un altro tipo particolare ed altrettanto

grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva, caratterizzata da

disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di

coscienza, nausea e vomito. Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno

stato di coma e successivamente in exitus. La fisiopatologia dell’encefalopatia

ipertensiva è legata alla presenza di una necrosi fibrinoide arteriolare generalizzata e

di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un conseguente

iperafflusso sanguigno.

Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere iniziato il più rapidamente

possibile con l’obiettivo non di ottenere l’immediato ripristino di livelli pressori

normali, ma di arrivare a limiti di “sicurezza” senza indurre, nello stesso tempo,

complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione troppo

rapida.

I farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa

sono la clonidina, il nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre

consigliabile embricare alla terapia endovenosa una terapia per via orale.

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CUORE POLMONARE CRONICO

DEFINIZIONE

Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per

aumento del postcarico dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi

polmonari o dei centri del controllo della ventilazione. Sono escluse dalla definizione di

cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute a cardiopatie congenite o a

malattie del cuore sinistro.

FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e

l’atrio sinistro; oltre a rivestire un ruolo chiave negli scambi dei gas, il circolo

polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed umorale del

sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il

polmone dipende in ugual misura dal ventricolo destro e dalla respirazione. La

funzione di pompa del ventricolo destro, tuttavia, diviene rilevante solo in

condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad esempio

l’intervento di Fontan), infatti, si esegue un by-pass del ventricolo destro,

mettendo in comunicazione diretta l’atrio destro con l’arteria polmonare,

senza che il ritorno venoso al cuore sinistro venga compromesso; ciò dimostra

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come la circolazione polmonare possa avvenire normalmente anche senza il

contributo del ventricolo destro.

La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono

basse. Per generare ed aumentare il flusso del sangue occorre superare la

pressione di apertura dei vasi, reclutare progressivamente nuovi vasi e

dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida (differenza tra

pressione arteriosa polmonare media e pressione atriale sinistra) e il flusso,

perciò, è curvilinea e non origina dallo zero degli assi cartesiani

La resistenza vascolare è la relazione tra pressione e flusso. Nel circolo

polmonare si misura la resistenza vascolare arteriolare, con la formula

seguente:

e la resistenza vascolare totale, la cui formula è:

FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO

Il ventricolo destro assume un ruolo molto importante in presenza di malattie del

polmone o del circolo polmonare. In un cuore normale, la portata cardiaca comincia a

ridursi quando la pressione polmonare sistolica è 30-40 mm Hg. Il ventricolo destro

non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il sovraccarico di

pressione si instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a

mantenenere pressioni molto più alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del

ventricolo sinistro.

Ci può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b)

malattie a carico del cuore sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica),

c) malattie respiratorie, e d) malattie che interessano il circolo polmonare. Per

definizione solo le condizioni c e d possono essere causa di cuore-polmonare.

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Vasocostrizione ipossica

In presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli alveoli interessati dalla

ipossia si costringono. Se localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché

riduce la perfusione di alveoli poco efficienti, favorendo la perfusione di alveoli

normossici. Se il fenomeno è generalizzato, o comunque interessa una grossa parte del

polmone, si sviluppa ipertensione polmonare ipossica. Questa permette di reclutare

nuovi vasi polmonari ma, se la portata si mantiene, fa aumentare il lavoro del ventricolo

destro. L’ipossia alveolare può essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS, edema

polmonare da alta quota) o cronica (patologia polmonare, della parete toracica o del

controllo della ventilazione). In presenza di ipossia cronica, le arterie polmonari

sviluppano uno strato muscolare che aumenta progressivamente, in rapporto alla

durata ed all’entità dell’ipossia alveolare. Esistono fattori che aumentano la risposta

ipertensiva all’ipossia alveolare, quali l’aumento della PaCO2, l’aumento dell’ematocrito

che incrementa la viscosità del sangue, l’aumento o la riduzione importante del volume

polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale del letto vascolare

polmonare. Bisogna ricordare che la resistenza vascolare polmonare dipende dal

volume polmonare: per i vasi alveolari aumenta con l’aumento del volume polmonare,

mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con l’aumento del volume polmonare. La

somma dà la effettiva resistenza vascolare alla capacità funzionale residua.

Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare

o concorrere a causare cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore

polmonare della sindrome di Pickwick (obesità, sonnolenza, policitemia) o quello dei

“russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità.

L’ipossia alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa

ad ipercapnia. Le cause includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare

restrittiva e bronchite cronica.

Restringimento meccanico dei vasi

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Le modificazioni dei volumi polmonari hanno un ruolo importante nella genesi dell’

ipertensione polmonare. In presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del

polmone aumenta. Inoltre si può sviluppare il fenomeno del “air-trapping” per

l’insufficiente flusso espiratorio. Se la ventilazione aumenta, questo fenomeno diviene

sempre più rilevante con zone di polmone che per l’insufficiente espirazione sono ad

alta pressione e comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il flusso deve

esserci un ulteriore aumento della pressione vascolare. Anche la riduzione del volume

polmonare si associa ad aumento della resistenza vascolare polmonare.

Sovraccarico pressorio attorno al cuore destro

Il cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore polmonare la rigidità del

polmone è significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello

soprattutto del ventricolo destro, le cui pareti sono sottili e meno potenti di quelle del

ventricolo sinistro. Il movimento del cuore in sistole e diastole è a maggiore costo

energetico in presenza di polmone rigido.

Aumento della portata cardiaca

L’ ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa riduzione è

compensata da un aumento dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca.

Quest’ultima è un ulteriore elemento di sovraccarico per il cuore destro.

QUADRO CLINICO

Non ci sono sintomi specifici di dilatazione e/o ipertrofia del ventricolo destro, ma il

quadro clinico è dominato dalla malattia che causa il sovraccarico ventricolare. In

presenza di scompenso del cuore destro si ha un aumento della pressione venosa

sistemica, da cui dipendono edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed ascite.

Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a) malattia

polmonare ostruttiva, b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista

(ostruttiva e restrittiva) e d) malattie vascolari polmonari.

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Malattia polmonare ostruttiva

Il quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite soprattutto

nei mesi invernali. Il paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della

CO2, quali confusione mentale e disorientamento. I segni più frequenti sono quelli

legati all’aumento della pressione venosa (turgore giugulare, epatomegalia, edemi

declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi labiale e delle estremità; è quasi

sempre presente tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale.

La radiografia del torace dimostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di

sinistra per dilatazione dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della

vascolatura polmonare in periferia.

I test di funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità

vitale, ed aumento consistente del volume residuo. La diffusione alveolo-capillare è

ridotta.

L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e ipercapnia. La somministrazione incongrua di

ossigeno può peggiorare il quadro emogasanalitico.

L’ECG mostra ingrandimento dell’atrio destro e ipertrofia ventricolare destra (vedi

Capitolo 3).

L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la dilatazione del ventricolo destro, ed anche

l’ipertensione polmonare, valutata con metodica Doppler. La terapia è la sospensione

del fumo, la riduzione del rischio di recidiva delle infezioni delle vie aeree e dei

polmoni, la riabilitazione respiratoria, l’uso di broncodilatatori e mucolitici, l’impiego

congruo di ossigeno .

La terapia farmacologia dell’ipertensione polmonare secondaria non ha successo.

Malattia polmonare restrittiva

Le malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno prognosi

infausta. Si possono riconoscere due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende

le alveoliti fribrotizzanti, le pneumoconiosi, le malattie della gabbia toracica e del suo

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apparato neuro-muscolare. Tutte queste malattie portano ad insufficienza ventilatoria

con iperventilazione.

Il secondo gruppo di malattie restrittive che portano a cuore polmonare è

caratterizzato fin dall’ inizio da ipoventilazione. La terapia delle fasi più avanzate è

solo il supporto ventilatorio.

Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva)

I due quadri possono essere presenti: l’ aspetto clinico più tipico è quello del fumatore

obeso.

Malattie vascolari polmonari

L’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare ipertensione

polmonare che, a sua volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione

polmonare può essere molto elevata, più che nelle forme ipossiche.

L’ipertensione polmonare può essere post-embolica, di solito successiva a molti episodi

embolici più o meno sintomatici e spesso clinicamente non riconosciuti, oppure causata

da vasculopatia per ipertensione polmonare primitiva (vedi Capitolo 51) o associata a

varie vasculiti.

L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si

potrebbe aspettare dal numero di embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende

verosimilmente dall’estensione del letto vascolare polmonare e dai potenti meccanismi

trombolitici dell’endotelio polmonare.

EMBOLIA POLMONARE

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

L’embolia polmonare (EP) è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria

polmonare, che determina un ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e

un’interruzione del flusso ematico nel distretto polmonare a valle dell’occlusione. Il

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grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende dalla dimensione

dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella)

o un suo ramo

L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La

mortalità per EP è >15% nei primi 3 mesi dalla diagnosi.

FISIOPATOLOGIA

Un aumento della resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso

da parte dell’embolo e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del

trombo. Sul versante respiratorio si verifica una diminuzionedegli scambi gassosi – con

ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da: a. dissociazione tra ventilazione e

perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio all’area

interessata dall’EP; b. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi

artero-venose; c. ridotta compliance polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad

edema alveolare. Il subitaneo innalzamento del postcarico per l’ostruzione vascolare

polmonare può produrre dilatazione del ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La

dilatazione del ventricolo destro, cui può accompagnarsi aumento dei livelli circolanti

di BNP, determina una deviazione del SIV verso sinistra, limitando il riempimento

diastolico del ventricolo sinistro. Questo evento, insieme con il ridotto precarico

ventricolare sinistro secondario all’insufficienza ventricolare destra può causare

diminuzione della gittata sistolica, della pressione arteriosa sistemica e della

perfusione coronarica.

QUADRO CLINICO

La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP. Un dolore toracico tipico è presente in

caso di ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente cardiopatia. Altri

sintomi comuni sono la tosse, la sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra quasi senza

eccezione tachicardia, e a volte distensione delle vene del collo, accentuazione della

componente polmonare del II tono e cianosi. E’ utile classificare l’EP in diversi quadri

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clinici, per attuare la migliore strategia terapeutica e determinare la prognosi.

Un’EP massiva interessa almeno la metà del circolo arterioso polmonare, è spesso

bilaterale e induce facilmente cianosi, ipotensione arteriosa, sincope e shock

cardiogeno.

I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 1/3 del circolo

polmonare, mostrano una PA normale, che maschera l’instabilità emodinamica del

ventricolo destro (ipocinesia, insufficienza tricuspidale).

Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella periferia del parenchima

polmonare e può interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico e

tosse. Un infarto polmonare può prodursi in questa sede in capo a 3-7 giorni,

associandosi a febbre, leucocitosi, emottisi ed un quadro radiologico tipico. La

pressione arteriosa è normale e la funzione del ventricolo destro conservata.

DIAGNOSI

Per giungere alla diagnosi di EP è di grande importanza maturarne il sospetto, sulla

base del profilo di rischio, dell’anamnesi e della recente storia clinica. Peculiare dell’EP

è la rapida insorgenza dei sintomi, inaspettata rispetto alle preesistenti condizioni

cliniche del paziente. Occorre poi integrare questi dati con l’esame fisico e con gli

esiti delle indagini di laboratorio e strumentali.

Test clinici e di laboratorio.

Il test semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al

paziente, ha un valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4.

Il dosaggio del D-dimero nel plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso

può aumentare nel decorso post-chirurgico come pure in caso di IMA, sepsi, cancro e

patologie sistemiche in generale. Elevatissimo è il suo potere predittivo negativo

(>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta negativo al dosaggio del

D-dimero. Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP correlano

con il grado di compromissione funzionale del ventricolo destro e rappresentano un

indice predittivo di eventi e di morte cardiaca. La troponina si libera in presenza di

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microinfarti; il BNP è secreto dai cardiomiociti in risposta all’aumentato stress di

parete.

La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché non

meno del 20% dei pazienti mostra una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior

parte dei pazienti con EP siano ipocapnici a causa dell’iperventilazione, la differenza in

O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei casi.

Tecniche strumentali e di imaging.

Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero con manifestazioni

di interessamento ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un

aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T invertita in D3), sopraslivellamento di ST

in V1-V2 e T negative da V1 a V4 . Inoltre, l’ECG serve ad escludere un infarto

miocardico acuto.

La radiografia del torace presenta anormalità in non più del 25% dei casi; il reperto

più comune è la cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti patognomonici,

quali l’oligoemia zonale, indice di un’EP massiva e centrale, una densità periferica a

forma di cuneo, indice di infarto polmonare, o una distensione dell’arteria polmonare

discendente destra .

L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta

nella norma in circa la metà dei pazienti con EP. Del resto, l’enorme diffusione e

rapidità d’esecuzione dell’ETT, insieme con l’elevata sensibilità nell’apprezzare la

dilatazione e la disfunzione del ventricolo destro, la rendono preziosa per la

stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di EP deducibili

con l’ETT sono la rara visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del

setto interventricolare, il rigurgito tricuspidale, la dilatazione dell’arteria polmonare,

il mancato collasso inspiratorio della vena cava inferiore. Infine, l’ETT può escludere

altre patologie, quali infarto miocardico acuto, dissezione aortica o pericardite.

La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging elettivo nella maggior

parte dei pazienti con fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%;).

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Apparecchi di ultima generazione sono destinati a soppiantare l’angiografia polmonare

come gold standard per la diagnosi dell’EP, consentendo l’acquisizione in pochi secondi

dell’intero torace con una risoluzione inferiore a 1 mm. D’altra parte, la TC fornisce

informazioni dettagliate sulle dimensioni e la funzione del ventricolo destro.

La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di

sospetta EP, mentre è riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza

renale o allergia al contrasto.

La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non

nefrotossico e pressoché esente da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità

diagnostiche sono paragonabili a quelle della TC di prima generazione, consentendo

l’identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare anche la funzione del

ventricolo destro.

Tecniche invasive

L’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di

riempimento vasale intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di

un vaso, l’oligoemia segmentale o una totale mancanza di circolo ed una fase arteriosa

prolungata. L’angiografia è riservata ai pazienti con TC non diagnostica o che devono

essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o trombolisi mirata.

Nella pratica clinica, è auspicabile un approccio diagnostico integrato, esemplificato

dal diagramma in Esso prevede a. l’anamnesi indirizzata al profilo di rischio

tromboembolico, l’esame fisico e il calcolo dell’indice di Wells; b.un ECG ed una

radiografia del torace; c. il dosaggio del D-dimero che, se negativo, esclude l’EP in

soggetti con indice di Wells =4; d. la TC o la scintigrafia polmonare, nonché l’ecografia

venosa degli arti.

In sintesi, l’EP può essere esclusa in pazienti con bassa probabilità clinica e D-dimero

negativo, così come in quelli a rischio elevato, ma con TC negativa.

Purtroppo, per quanto il test del D-dimero per l’esclusione dell’EP e quello della TC per

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la sua visualizzazione abbiano nettamente perfezionato la sensibilità diagnostica, l’EP

rimane ancora ardua da diagnosticare e quadri di EP sub-massiva o moderata

rimangono non riconosciuti in non meno del 50% dei pazienti.

ANEURISMA E ANEURISMA DISSECANTE

L’aneurisma è una dilatazione localizzata permanente di un’arteria. Nel caso di

interessamento dell’aorta si parla di aneurisma se si verifica un aumento del diametro

di almeno il 50% rispetto a quello normale del vaso. Laclassificazione degli aneurismi

aortici è cruciale per formulare una diagnosi corretta e pianificare il trattamento.

Essa si basa sulla forma (fusiforme se coinvolge l’intera circonferenza del

vaso, sacciforme se solo una parte risulta dilatata), sulle dimensioni

(macroaneurisma e microaneurisma), sulla struttura (vero o falso) e sulla eziologia (gli

aneurismi possono essere la conseguenza di un

processo congenito, degenerativo, infettivo, infiammatorio o meccanico-traumatico).

Particolare importanza riveste poi l’individuazione della sede. Sulla base

della localizzazione, infatti, gli aneurismi aortici si distinguono in toracici, toraco-

addominali ed addominali . Dal punto di vista eziologico, la causa più frequente è quella

degenerativa, visto che l’aterosclerosi è responsabile del 90% degli aneurismi aortici.

Il processo aterosclerotico (vedi Capitolo 46), che induce nella parete arteriosa la

formazione di placche fibrose o ateromatose, può creare un’atrofia della tonaca media

che a sua volta esita in indebolimento della parete, con conseguente ectasia e

dilatazione aneurismatica. Tra le cause congenite si distinguono quelle idiopatiche da

quelle dovute a un difetto del tessuto connettivo, come la sindrome di Marfan o a

quella di Ehlers-Danlos. Tra quelle infettive distinguiamo le forme micotiche,

sifilitiche e tubercolari; gli aneurismi che ne derivano vengono classificati come falsi o

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pseudoaneurismi, in quanto sono conseguenti alla rottura del vaso con formazione di un

ematoma delimitato da tessuto connettivo periavventiziale, che risulta connesso al

lume originario attraverso un orifizio a livello del punto di rottura. Infine, tra le cause

infiammatorie sono la malattia di Takayasu, l’arterite a cellule giganti, la malattia di

Behcet, la poliarterite nodosa e il lupus eritematoso sistemico. Dal punto di

vista patogenetico, vi sono due fattori comuni a tutte le forme aneurismatiche: la

debolezza strutturale e la forza meccanica che, insieme alle cause specifiche per

ciascuna forma (deficit genetico del tessuto connettivo, infezione, infiammazione,

traumi), contribuiscono alla genesi e alla progressione degli aneurismi. Si suppone che

il cedimento strutturale del vaso sia conseguente alla disgregazione del collagene (alla

cui composizione concorre in maniera preponderante la presenza di elastina) contenuto

nell’avventizia aortica.

La predisposizione del tratto addominale dell’aorta a subire questa patologia dilatativa

è dovuta a una ridotta presenza di lamelle elastiche nel contesto del tessuto

connettivo avventiziale, che comporterebbe la diminuita elasticità del vaso.

A ciò si aggiunge il fatto che i vasi nutritivi della parete arteriosa, i vasa vasorum,

sono quasi del tutto assenti a livello dell’aorta sottorenale. Questi dati anatomici

possono predisporre alla degenerazione aneurismatica il tratto sottorenale dell’aorta,

se esposto a fattori locali o sistemici sfavorevoli, come accade in presenza di una

patologia aterosclerotica. Lo sviluppo dell’aneurisma, a sua volta, provoca localmente

stasi di sangue che, unitamente al danno intimale, favorisce il deposito di trombi e

quindi l’ulteriore indebolimento della parete arteriosa.

L’assottigliamento della parete che ne deriva, accompagnato a progressiva dilatazione,

comporta una riduzione della resistenza, favorendo l’ulteriore dilatazione. Applicando

la legge di Laplace, che mette in correlazione la tensione parietale con il raggio del

vaso e la pressione transmurale, si può affermare che per una data pressione

transmurale, la tensione parietale è direttamente correlata al raggio, per cui

all’aumentare del diametro del vaso si assiste a un incremento della tensione

esercitata sulla parete arteriosa e quindi ad una ulteriore tendenza alla dilatazione.

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SINTOMI E SEGNI CLINICI

Esistono manifestazioni sintomatologiche e segni clinici comuni per tutte le forme

aneurismatiche e altre specifiche a seconda del distretto interessato.

Il sintomo principe di ogni malattia, il dolore, varia la sua localizzazione che può essere

toracica, addominale o posteriore con localizzazione lombare e/o dorsale. La

compressione da parte dell’aneurisma su strutture contigue può comportare, nel caso

di un aneurisma a localizzazione addominale, disturbi gastrointestinali quali nausea,

perdita di peso o ittero. In caso di erosione duodenale si può assistere a

sanguinamento intermittente o ad emorragia massiva. Possono essere presenti sintomi

correlati all’apparato urinario in caso di compressione ureterale. Se, invece, la

compressione avviene a livello di strutture poste nella cavità toracica come la trachea

o i bronchi possono manifestarsi dispnea e tosse. L’erosione del parenchima polmonare

o delle vie aeree può provocare emottisi, e l’erosione dell’esofago disfagia od

ematemesi. La trazione del nervo vago a livello dell’arco aortico può provocare paralisi

del nervo laringeo ricorrente, con raucedine. Sono comuni l’embolizzazione distale di

trombo o di frammenti ateromasici e la graduale ostruzione e trombosi dei rami

viscerali e delle arterie degli arti inferiori.

Circa tre quarti dei pazienti portatori dell’aneurisma aortico più comune, quello

addominale, sono asintomatici al momento della diagnosi, che viene generalmente

effettuata in seguito al riscontro di una massa pulsante addominale o come rilievo

occasionale in corso di altre indagini. Un vago e discontinuo dolore addominale è spesso

presente, ma questo diventa costante e importante solo quando, in seguito a una

rapida espansione dell’aneurisma, si verifica uno stiramento del sovrastante peritoneo.

In questo caso la palpazione in sede epigastrica accentua la dolenzia che si può anche

irradiare posteriormente in sede lombo-dorsale. Lo shock è conseguenza di una

fissurazione o di una franca rottura aneurismatica.

L’esame clinico può evidenziare una pulsazione addominale patologica sia all’ispezione,

in particolar modo se il soggetto è magro, che alla palpazione, che permette di

individuare la massa pulsante in sede epigastrica. Talvolta l’aneurisma si accompagna a

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un soffio addominale. L’ecografia rappresenta l’esame di primo livello in caso di

sospetto aneurisma aortico. Per l’aneurisma toracico, la metodica diagnostica è

l’ecocardiografia transesofagea, mentre nel caso di localizzazione addominale si

esegue più semplicemente un esame ecografico con metodica Doppler o color-Doppler

che, oltre a visualizzare e a permettere di misurare con accuratezza la dilatazione

vasale fornisce informazioni sul flusso e consente di distinguere il lume canalizzato

dal trombo parietale e di visualizzare con accuratezza l’origine dei vasi che nascono

dall’aorta.

E’ possibile ottenere delle informazioni, seppur parziali, anche da una radiografia, che

sia a livello toracico che addominale può mostrare uno slargamento dell’immagine del

vaso sottolineata dalle calcificazioni della parete.

L’aortografia ha il limite di valutare solo il lume pervio dell’aorta. L’esame

imprescindibile in previsione di un intervento chirurgico è rappresentato dalla TC, in

particolar modo con mezzo di contrasto (Angio-TC) , che analizza la parete aortica, il

lume ed i rami emergenti. Le nuove metodiche TC permettono anche una ricostruzione

tridimensionale dell’intera estensione aortica).

SINDROME AORTICA ACUTA

La sindrome aortica acuta può insorgere per rottura aneurismatica, dissezione

aortica, ulcera penetrante, ematoma intramurale o lesioni traumatiche (penetranti o

contusive). In questi casi ci si trova davanti a una condizione di emergenza chirurgica

gravata da un alto tasso di complicanze. L’evenienza più frequente è la rottura

dell’aneurisma, che presenta una mortalità operatoria del 50% circa; la mortalità,

tuttavia, aumenta a oltre il 90% se si prende in considerazione anche il decesso che

avviene prima dell’arrivo in ospedale. Il forte dolore toracico o addominale con

irradiazione posteriore, accompagnato da shock, indirizza verso la diagnosi di rottura.

La terapia chirurgica è volta ad arrestare il sanguinamento e a ripristinare la

continuità aortica. Il successo della procedura è strettamente condizionato dal tipo di

rottura (libera o tamponata), dallo stato emodinamico del paziente e dalla possibilità

di un rapido controllo del sanguinamento della lesione aortica quando il paziente si

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presenta instabile per un’emorragia attiva.

Il trattamento si avvale delle due opzione terapeutiche già descritte: la terapia

convenzionale o quella endovascolare. La morbilità legata all’esposizione chirurgica e al

clampaggio aortico sempre toracico, o comunque sopra-renale, anche in caso di

aneurismi addominali, rende in particolari condizioni vantaggioso l’approccio

endovascolare, che risulta efficace e sicuro anche in condizioni anatomiche

favorevoli.

ISSEZIONE AORTICA

La dissezione aortica, in precedenza definita come aneurisma dissecante, è la

condizione in cui il sangue penetra nella parete aortica attraverso una lacerazione

intimale, e si fa strada all’interno della tonaca media, creando un “falso lume”. La

dissezione della media può estendersi per un lungo tratto (anche per tutta l’aorta) e

interessare i rami che nascono dall’aorta; in diversi casi il sangue che riempie il falso

lume torna poi nel lume vero attraverso una breccia distale.

Dal punto di vista anatomo-patologico, questa lesione dell’aorta è uno

pseudoaneurisma, perché l’intima (il lume vero) non è realmente aneurismatica, ma la

dilatazione del falso lume (che di solito è il più ampio dei due lumi) dà luogo a un

allargamento dell’aorta al di là delle sue dimensioni normali, per cui è stato attribuito

a questa condizione il termine di “aneurisma”.

Esistono due sistemi di classificazione quello di Standford e quello di DeBakey: se è

interessata l’aorta ascendente, l’arco dell’aorta e l’aorta discendente si parla di tipo A

secondo Stanford, che corrisponde al tipo I e II di DeBakey . Se l’aorta ascendente

non è interessata si parla di tipo B di Stanford, che corrisponde al tipo III di

DeBakey.

La lesione anatomo-patologica tipica riscontrata nei pazienti con dissezione aortica

acuta di tipo B (che sono di solito anziani e spesso ipertesi) è la degenerazione

muscolare liscia all’interno della tonaca media. Nei pazienti con dissezione di tipo A,

che sono in genere più giovani, si assiste invece a un’alterazione congenita del tessuto

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connettivo della tonaca media dell’aorta (medionecrosi cistica) con conseguente

degenerazione del tessuto elastico.

Quadro clinico. Le dissezioni aortiche diagnosticate entro due settimane dall’inizio del

dolore o degli altri sintomi d’esordio vengono classificate come acute, mentre quelle

diagnosticate più tardivamente sono definite croniche.

Il sintomo più comune è un fortissimo e lancinante dolore toracico anteriore o

posteriore, interscapolare, dovuto allo stiramento dell’avventizia aortica da parte

dell’ematoma dissecante. La migrazione del dolore fa pensare che la dissezione si stia

espandendo o estendendo. Si può anche manifestare un quadro di shock (per rottura

intra-pericardica dell’aorta con tamponamento cardiaco o per rottura intra-toracica

con sanguinamento). L’esordio può avvenire, sebbene di rado, con un quadro di infarto

miocardico causato da dissezione coronarica. L’ampia costellazione di sintomi e segni

concomitanti (ictus, paraplegia, ischemia degli arti superiori o inferiori, anuria, dolore

addominale per ischemia renale o mesenterica) è correlata al coinvolgimento, da parte

della dissezione, dei rami aortici distali e alla conseguente compromissione della

perfusione dei diversi organi irrorati da tali rami.

Il dolore toracico va distinto da quello di tutte le altre malattie, cardiovascolari e non,

che possono essere responsabili di questo sintomo: infarto miocardico, pericardite,

embolia polmonare, pneumotorace, malattie dell’esofago, affezioni ossee, nevralgie,

etc. A parte i casi non frequenti di dissezione coronarica e correlato infarto

miocardico, l’Elettrocardiogramma e il dosaggio dei marker di necrosi miocardica sono

normali nei pazienti con dissezione aortica, permettendo una immediata esclusione

della cardiopatia ischemica.

In una percentuale non minima dei casi l’ascoltazione del cuore rivela un’insufficienza

aortica massiva, prima assente, provocata dalla dilatazione della radice aortica, con

mancato collabimento delle cuspidi valvolari in diastole.

La diagnostica strumentale si avvale dell’ecocardiografia transtoracica, ma

soprattutto di quella transesofagea e della TC con mezzo di contrasto.

Nella dissezione acuta di tipo A, il primo obiettivo terapeutico è rappresentato, in

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attesa dell’intervento chirurgico, daltrattamento dell’ipertensione, per prevenire la

rottura dell’aorta nel pericardio o nello spazio pleurico, ed evitare il coinvolgimento

degli osti coronarici o della valvola aortica o il danno irreversibile multiorgano.

L’intervento chirurgico consiste nella sostituzione protesica dell’aorta ascendente e

della parte prossimale dell’arco.

Nel caso di dissezione acuta di tipo B spesso si preferisce la terapia medica, mentre

l’intervento chirurgico viene riservato a pazienti giovani, a basso rischio, con

dissezione non complicata, allo scopo di prevenire una rottura, e consiste nella

sostituzione protesica del segmento di aorta toracica discendente che contiene le

lesioni più gravi. Nella dissezione cronica, sia di tipo A che B, l’indicazione chirurgica

tiene presente che i fattori di rischio più frequenti per una rottura aortica sono il

diametro aortico, l’eccentricità della dilatazione e una rapida espansione (maggiore di

1 cm per anno). Pertanto, si pone indicazione all’intervento chirurgico in caso di

dilatazione dell’aorta ascendente superiore a 5,5 cm oppure pari a 5 cm, quando

coesistano patologie del tessuto connettivo, specialmente la Sindrome di Marfan, o in

caso di dilatazione dell’aorta discendente superiori o pari a 6 cm o più, o se è presente

una familiarità per connettivopatie.

L’approccio endovascolare prevede l’impianto di una endoprotesi a copertura della

dissezione prossimale per ripristinare il flusso ematico nel lume vero compresso. La

procedura, che prevede l’eventuale stenting del flap intimale in caso di malperfusione

d’organo, si pratica soprattutto nei casi di dissezioni di tipo B non complicate.

L’ULCERA PENETRANTE AORTICA consiste in una lesione della lamina elastica

interna da parte di un processo ateromatoso che si estende sino alla tonaca media. La

sua evoluzione naturale è rappresentata dall’ematoma intramurale, dalla dissezione o

dallo pseudoaneurisma, con conseguente possibile rottura vasale. Il suo riscontro

occasionale non implica necessariamente il trattamento, che si rende invece

necessario in caso di sintomatologia o di rapida progressione. La metodica terapeutica

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maggiormente indicata è rappresentata dal trattamento endovascolare atto a

escludere la lesione.