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Libertá di Parola 4/2012 —— IL TEMA NON SOLO SPORT PANKAKULTURA INVIATI NEL MONDO APPROFONDIMENTO GRAZIE NAPOLI a pag. 18 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITORIALE ASPETTANDO GINETTO… di Pino Roveredo continua a pagina 8 a pagina 16 a pagina 15 a pagina 4 a pagina 2 L'ANGOLO DELLA DANIELA Quando mi hanno chiamato al telefono, e con una voce senza scherzo, mi hanno an- nunciato che Ginetto se ne andato, dico la verità, non sono riusciuto a sentire addos- so il dolore tragico che si pro- va per una scomparsa defini- tiva, ma piuttosto ho provato l’ansia che solitamente si de- dica alle partenze improvvise, quella che dopo aver pagato la moneta dell’attesa, ti rega- la la soddisfazione del ritorno. Gino se ne andato! Certo, ma poi ritorna, e noi siamo qui che lo stiamo aspettan- do. Sì, Ginetto tornerà, come sempre, col suo passo incer- to, le mani in tasca, la siga- retta in bocca. Tornerà con la puntualità del suo ritardo, e spartirà saluti, distribuirà bat- tute, e ci regalerà il suo sorriso nascosto tra la smorfia della barba e l’assenza dei denti. E sarà il solito Gino, con gli occhi accesi del gatto, pron- to a saltare sui commenti di passaggio con le frasi brevi e secche della sentenza, pro- prio lui, che ha speso una vita a farsi colpire dai verdetti, e senza mai ferirsi, senza mai ammazzarsi, ma trattando la condanna col sussulto delle spalle e la faccia immobile del “Chi se ne frega”! Gino se ne andato! Ma quando mai, Gino è sempre qui che va, viene, torna, ritarda, è qui col suo carico di condanne e FINALMENTE A CASA La nuova sede dei Ragazzi è aperta tutti i pomeriggi in via Selvatico a Pordenone Dopo un anno esatto trascor- so “senza fissa dimora” per I Ragazzi della Panchina ri- parte la quotidianità. Apre la nuova sede, provvisoria, in via Selvatico 26, a Pordeno- ne. L’operatività a “pieno re- gime” si realizzerà a gennaio, ultimati i lavori di pittura delle stanze, trasloco, attivazione linea internet. Saranno que- ste delle azioni che alla fine ci permetteranno di riattivare un processo lasciato in sospe- so con i ragazzi. Saranno azio- ni che regaleranno ai ragazzi uno spazio al caldo, una doc- cia ed una lavatrice, momen- ti di convivio e relazioni in un terreno equilibrato, formato da assenza di pregiudizi e da presenze di opportunità. La strada infatti rappresenta la genesi dell’associazione, ma non può essere “domus”. La strada è luogo con cui fare i conti ed al quale tendere ideologicamente per propor- re cambiamento cittadino, ma si deve necessariamente passare attraverso il confron- to ed in questo caso i luoghi, attraverso i valori che acqui- siscono abitandoli, spesso, determinano il processo ed i risultati. La sede sarà aperta a tutti dal lunedì al venerdì dalle ore 14 alle 19. Alcol, quando nessuna fonte disseta Pezzutto e Pittacolo: «Lo sport ci ha dato una seconda vita» Gianfranco D’Angelo, da dipendente Telecom ad attore Laghi di Plitvice, un patrimonio dell’Umanità Caro ministro Fornero, io schizzinosa? No, solo una apprendista a vita Dal 18 al 21 ottobre I Ra- gazzi della Panchina erano a Napoli con la compagnia nata dal la- boratorio di teatro per rap- presentare la commedia di Pino Roveredo “La Leg- ge è uguale per tutti?”. Due i teatri calcati dagli attori: Afragola e Scampia. Con loro anche la dottoressa Roberta Sabbion e il dot- tore Alessandro Zamai, in rappresentanza dell’Azien- da sanitaria del Friuli Occi- dentale, e il sindaco di Por- denone, Claudio Pedrotti. a pagina 9

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Libertà di parola il trimestrale di informazione de I Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Page 1: LDP 4/2012

Libertá di ParolaN°4/2012 ——

IL TEMA

NoN soLo sPorT

PANkAkuLTurA

INVIATI NEL MoNDo

APProFoNDIMENTo

GrAZIE NAPoLI

a pag. 18

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDITorIALE

AsPETTANDo GINETTo…di Pino roveredo

continua a pagina 8

a pagina 16

a pagina 15

a pagina 4

a pagina 2

L'ANGoLo DELLA DANIELA

Quando mi hanno chiamato al telefono, e con una voce senza scherzo, mi hanno an-nunciato che Ginetto se ne andato, dico la verità, non sono riusciuto a sentire addos-so il dolore tragico che si pro-va per una scomparsa defini-tiva, ma piuttosto ho provato l’ansia che solitamente si de-dica alle partenze improvvise, quella che dopo aver pagato la moneta dell’attesa, ti rega-la la soddisfazione del ritorno.Gino se ne andato! Certo, ma poi ritorna, e noi siamo qui che lo stiamo aspettan-do. Sì, Ginetto tornerà, come sempre, col suo passo incer-to, le mani in tasca, la siga-retta in bocca. Tornerà con la puntualità del suo ritardo, e spartirà saluti, distribuirà bat-tute, e ci regalerà il suo sorriso nascosto tra la smorfia della barba e l’assenza dei denti. E sarà il solito Gino, con gli occhi accesi del gatto, pron-to a saltare sui commenti di passaggio con le frasi brevi e secche della sentenza, pro-prio lui, che ha speso una vita a farsi colpire dai verdetti, e senza mai ferirsi, senza mai ammazzarsi, ma trattando la condanna col sussulto delle spalle e la faccia immobile del “Chi se ne frega”! Gino se ne andato! Ma quando mai, Gino è sempre qui che va, viene, torna, ritarda, è qui col suo carico di condanne e

FINALMENTE A CAsALa nuova sede dei Ragazzi è aperta tutti i pomeriggi in via Selvatico a PordenoneDopo un anno esatto trascor-so “senza fissa dimora” per I Ragazzi della Panchina ri-parte la quotidianità. Apre la nuova sede, provvisoria, in via Selvatico 26, a Pordeno-ne. L’operatività a “pieno re-gime” si realizzerà a gennaio, ultimati i lavori di pittura delle stanze, trasloco, attivazione linea internet. Saranno que-ste delle azioni che alla fine ci permetteranno di riattivare un processo lasciato in sospe-so con i ragazzi. Saranno azio-ni che regaleranno ai ragazzi uno spazio al caldo, una doc-cia ed una lavatrice, momen-ti di convivio e relazioni in un

terreno equilibrato, formato da assenza di pregiudizi e da presenze di opportunità. La strada infatti rappresenta la genesi dell’associazione, ma non può essere “domus”. La strada è luogo con cui fare i conti ed al quale tendere ideologicamente per propor-re cambiamento cittadino, ma si deve necessariamente passare attraverso il confron-to ed in questo caso i luoghi, attraverso i valori che acqui-siscono abitandoli, spesso, determinano il processo ed i risultati. La sede sarà aperta a tutti dal lunedì al venerdì dalle ore 14 alle 19.

Alcol, quando nessuna fonte disseta

Pezzutto e Pittacolo: «Lo sport ci ha dato una seconda vita»

Gianfranco D’Angelo, da dipendente Telecom ad attore

Laghi di Plitvice, un patrimonio dell’umanità

Caro ministro Fornero, io schizzinosa? No, solo una apprendista a vita

Dal 18 al 21 ottobre I Ra-gazzi della Panchina erano a Napoli con la compagnia nata dal la-boratorio di teatro per rap-presentare la commedia di Pino Roveredo “La Leg-ge è uguale per tutti?”. Due i teatri calcati dagli attori: Afragola e Scampia. Con loro anche la dottoressa Roberta Sabbion e il dot-tore Alessandro Zamai, in rappresentanza dell’Azien-da sanitaria del Friuli Occi-dentale, e il sindaco di Por-denone, Claudio Pedrotti.

a pagina 9

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IL TEMA

ALCoL E GIoVANI, uN ProBLEMA DEGLI ADuLTI

di Paolo Cimarosti, medico e responsabile servizio di alcologia Pordenone

Sono loro che devono dare l’esempio. Le istituzioni invece ne combattano l'abuso

Da qualche tempo tiene ban-co nei mass media e quindi nella società italiana il dibatti-to sul problema del consumo rischioso di alcol da parte dei giovani, adolescenti e pre-adolescenti, con Cassandre che si strappano le vesti ad ogni incidente stradale alcol-correlato che vede vittima un giovane e “specialisti e cono-scitori del problema” interes-

sati che si affrettano a spegne-re preoccupazioni, lacrime e rimorsi. In realtà le preoccu-pazioni per l’allontanarsi dei giovani dal modello del bere mediterraneo, che prevede-va l’assumere bevande alco-liche ai pasti ed in occasioni conviviali con la quasi esclu-sione delle donne, risalgono a quasi 20 anni fa; ma se cer-chiamo nel passato troviamo

si comincia da adolescenti, per divertimento

di stefano Venuto e Giulia rigo

L’esito dell’indagine condotta da Rdp alla “Festa in Piassa” su un campione di 156 giovani

Prosegue la meravigliosa col-laborazione tra la “Festa in Piassa” di Villanova di Porde-none e l’associazione I Ragaz-zi della Panchina. L’iniziativa ha confermato, per il terzo anno consecutivo, la presen-za dell’associazione all’interno della manifestazione “Festa in Piassa 2012”, attraverso la realizzazione di stand posizio-nati all’interno dell’area Skate Park (area giovani) della ma-nifestazione stessa. Anche in questa edizione è risultata vin-cente la presenza negli stand, oltre che degli operatori e dei ragazzi dell'associazione, degli educatori del Ser.T e dell’Al-cologia di Pordenone. Queste presenze multi professionali, hanno dato la possibilità di in-teragire con i presenti alla ma-nifestazione in maniera am-pia, dando risposte alle più svariate richieste. Nello stand si poteva prendere materiale informativo riguardante l’as-sociazione, giornali “Libertà di Parola”, profilattici, libri, ma anche brochure riguardanti consumo e danni correlati al consumo di alcol, alle malat-tie sessualmente trasmissibili e via dicendo. L’azione diretta proposta era quella di dare la possibilità di poter misurare la propria alcolemia attraverso l’utilizzazione di etilometri pro-fessionali. Tutto questo in for-ma assolutamente gratuita ed anonima. Prima del classico “soffio” a tutti i partecipanti ab-biamo somministrato un que-stionario da compilare, grazie al quale poter elaborare una lettura sui dati raccolti. Attra-verso la collaborazione trai

vari attori del pubblico e del sociale è stato raccolto il pare-re di ben 156 giovani in merito alle proprie abitudini nel con-sumo di sostanze e i “luoghi comuni in Piassa”. I giovani sono stati guidati nel risponde-re ad alcune semplici doman-de dai 5 operatori coinvolti nelle sei serate, affiancati da alcuni giovani volontari della Croce Rossa Italiana, appar-tenenti alla componente dei Pionieri, da sempre impegnati anche loro nel campo della prevenzione alcologica e del-la sensibilizzazione pubblica. L’alcol ha giocato un ruolo centrale nell’indagine: svolge per i ragazzi più giovani (15-17 anni) la funzione di diver-timento, mentre con il cresce-re dell’età lascia lo spazio a funzioni diverse che caratte-rizzano la quotidianità. L’alcol è risultato infatti per la metà degli intervistati una sostanza di uso normale, soprattutto nei ragazzi con un età compresa tra i 20 e i 24 anni. Di pari pas-so, all’aumentare dell’età si è registrato il crescere del con-

molti esempi di ubriacatura coinvolgenti i giovani. Ricor-do, a questo proposito, una ricerca delle scuole di Parma del 1924 in cui il ricercatore si preoccupava perché solo l’11% dei ragazzi dichiarava di non assumere bevande al-coliche. Ricordiamo, inoltre, che la prima legge sull’alcol fu fatta da Giolitti nel 1913. E allora? L’Organizzazione Mon-diale della Sanità, che ha a cuore la salute delle popola-zioni dei paesi membri, già nel 2001 con la Dichiarazione di Stoccolma sul “Alcol e Gio-vani” tracciava un percorso di interventi che man mano sono diventati sempre più chiari; tra questi, gli interventi più efficaci caldamente con-sigliati ai paesi membri sono: la riduzione della disponibili-tà degli alcolici e l’aumento del prezzo mediante tassazio-ne. Esattamente il contrario di quanto sta accadendo: si

inventano feste e sagre che coniugano bevande alcoli-che e piatti tipici e prolifera-no i locali dove si attua il 3 per 2 (tre birre al prezzo di 2). Inoltre manca una legge sul-la pubblicità che tuteli i gio-vani, ma anche gli adulti, da informazioni fuorvianti e falsi modelli . Di chi è la colpa? Il problema “Alcol e Giovani” è, in realtà, un problema degli adulti, sono gli adulti che de-vono occuparsene a partire dal singolo (genitore, nonno, zio ….) che deve porsi la do-manda: quale esempio sto dando a mio figlio o nipote? Sono le istituzioni che devono responsabilmente occuparsi della salute dei giovani met-tendo in pratica le indicazioni dell’OMS e intervenire con i rigori della legge dove ne-cessario, anche applicando la recente legge che vieta di vendere alcol ai minori di 18 anni.

sumo e l’incapacità a stimare correttamente la propria alco-lemia. Il “soffio” ci ha permesso di osservare come il consumo possa far sottostimare il dato e quanto sia importante in-tervenire qualora l’alcolemia non consenta di mettersi alla guida: spesso i giovani non percepiscono questo come un rischio, forse in parte dovuto alla diversa frequenza con cui vengono assunti gli alcolici. Si evidenzia infatti dai risultati dell’indagine che sono più fre-quenti i consumatori che han-no più occasioni di uso duran-

te la settimana che quelli del fine settimana soltanto. Stare in relazione con chi liberamente si rivolgeva allo stand ci ha consentito di sfatare alcuni miti rispetto ai comportamenti a ri-schio, come il sentirsi in grado di guidare dopo l’assunzione di alcolici, sebbene la prontez-za dei riflessi nel reagire agli stimoli sia rallentata e la per-cezione e l’attenzione risultino compromesse. La consapevo-lezza rispetto alle conseguen-ze delle situazioni come que-sta è inadeguata rispetto alla reale probabilità che i giovani consumatori si trovino in bre-ve in una situazione di peri-colo, per cui è stata ancor più preziosa la disponibilità degli operatori ad intrattenere le persone in caso di necessità. Anche quest’anno la presenza alla “Festa in Piassa” è risultata un’occasione dall’inestimabile valore, perché fiducia, ricono-scimento di un servizio di pros-simità, continuità, coerenza, sono risultati che non si com-prano ma si conquistano nel tempo, in una azione pubbli-co-privato eccellente.

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«Meglio sarebbe fermarsi prima di toccare il fondo. Ma tutti pensano: “A me non toccherà!”»di Giacomo Miniutti

Giacomo, il ragazzo che aveva sete

«Il mio nome è Giacomo e ho bisogno di aiuto». Que-sto è ciò che ho detto e fat-to oltre quindici anni fa. Dal fondo dell’abisso in cui ero precipitato, ho raccolto i mil-le pezzi del mio corpo e ho avuto l’umiltà e il coraggio di bussare alla porta di un grup-po di auto-aiuto per alcolisti. Lì ho trovato il sostegno che mi serviva e poi, con il tem-po, l’ho restituito ad altri biso-gnosi come lo ero stato io. Ho capito che: «È dando che si riceve» e questo è divenuto il mio motto. Solo aiutando gli altri trovo la forza per dire no, un giorno alla volta, al pri-mo bicchiere. So che ci sono due giorni all’anno in cui non posso fare niente: uno è ieri e l’altro è domani, ma l’oggi è

qui presente e posso e devo viverlo nell’assoluta pienez-za. A onore del vero devo dire che sono stati due infer-mieri a raccattare i pezzi e caricarli sull’ambulanza con meta l’ospedale cittadino. Da lì, l’incontro con il Sert e poi la frequenza del dispensario di alcologia. Alla dimissione, credo di aver fatto la scel-ta più importante della mia vita, che tuttora continua e che si concretizza nella frase e nell’azione menzionate. Al-lora avevo quarantacinque anni; o mi fermavo o con-tinuavo. E così ora sarei là, dove tutti dormono. Ma ho scelto la vita, accettandola com’era; ero io che dovevo cambiare, non lei o le altre persone. Ho chiesto al Signore

che sia fatta la Sua volontà e non la mia, trovando pace e serenità. È una verità assoluta che: «Una volta alcolista, resti alcolista per sempre; come una donna che non può es-sere gravida a metà». Questa condizione bisogna accettar-la e poi ammetterla; non è un disonore, è solo che talune persone non riescono a con-trollare il loro bere. Nell’impa-ri contesa con la bottiglia la loro volontà si azzera, così da oltrepassare quel confine in-visibile che porta alla totale dipendenza. Un’altra verità dice che: «Non puoi togliere la bottiglia dalla mano di un alcolista senza dargli nulla in cambio». E Giacomo, il ragaz-zo che aveva sete, queste ve-rità le ha ben stampate nella

mente e non vuole ritorna-re sulla croce. Così, al posto della bottiglia, oltre a fare il colibrì che con una goccia d’acqua nel becco vola a spegnere la foresta in fiam-me mentre il leone fugge, ha messo un foglio e una penna e ha cominciato a scrivere. Con una nota casa editrice cittadina ho pubblicato tre volumi che raccontano storie di famiglia, di vita e di perso-ne del luogo natio negli anni della fanciullezza. Poi ho sen-tito la necessità di quest’ulti-mo libro, che ho auto-editato, a rendimento di grazie per quello che ho ricevuto in questi quindici anni di sobrie-tà. Con la speranza che chi lo legge trovi qualche risposta, e magari serva al bisognoso, soprattutto se è giovane, per evitare di arrivare a toccare il suo fondo. Ringrazio “Li-bertà di Parola”, per questo spazio e per la recensione al libro “Quando nessuna fon-te dissetava”. Sono certo che quella fonte è dentro di noi, non serve cercarla in effime-re illusioni, che portano solo a una vita inenarrabile sino a toccare il fondo. E tu ragazzo credimi, pensare che: “A me non toccherà”, è solo un im-broglio perché potrebbe ca-pitare proprio.

L’ultimo libro del pordenone-se Giacomo Miniutti narra le peripezie di gente appassio-nata di bevute. Il testo viag-gia a “tre voci”. C’è il narra-tore, lo scrivano senza penna (via e-mail) e l’autore del libro che deve assemblare quanto gli arriva. Il protago-nista (Mauro) racconta uno spaccato della sua vita, il pa-esino dove tutti si conoscono e dove sono sepolti alcuni amici; parla di uno (Nicola) che ha accompagnato al ci-mitero e di Tony got che al ci-mitero ci lavora, scavando a mano le buche per i defunti. Il paesino è quello tipico con l’hostaria dove si incontrava-no e dove va tuttora Tony a rifornirsi. Mauro è sobrio da un bel po’ di anni e vorreb-

be fare qualcosa per aiutare l’amico Tony got ad uscire dal circolo vizioso della bottiglia. Nel suo parlare, in alcuni mo-menti Mauro rivive il suo pas-sato, le bevute in compagnia – «Un buon bicchiere non ha mai ammazzato nessuno»- e il bere che diventa motivo di aggregazione, poi il desiderio di bere che si fa sentire sem-pre più, fino a trasformarsi in una sete perenne. E’ l’inizio di una spirale perversa ed autodistruttiva che finisce per coinvolgere la famiglia e le persone che ti sono vicine, esattamente ciò che sta attra-versando Tony. Quasi sempre c’è la difficoltà ad ammette-re il problema, finendo quasi per negarlo o giustificarlo – «Di qualcosa si deve sempre

morire» - ma anche i familiari che evitano di farsi vedere in giro perché si vergognano di te. C’è poi il fisico che inizia a perdere colpi fino a quan-do non vengono a galla gli effetti (cirrosi e danni assortiti) e le conseguenze (ospedale, fegato mezzo andato), a cui spesso si aggiunge anche la disgregazione della famiglia. La narrazione si alterna tra il tentativo di Mauro di indiriz-zare Tony got verso la struttu-ra del gruppo di aiuto degli Alcolisti Anonimi, il suo prova-re a cambiare e vedere che è possibile anche se non è stato facile, dato che resterà per sempre un alcolista, ma anche la sua rinascita, le dif-ficoltà di approccio che sa di incontrare con Tony e la fidu-

cia nel sapere che sono ami-ci e che lui è li per aiutarlo. Mauro ci tiene a restituire ciò che ha avuto, ovvero quella sobrietà che gli ha ridato la vita, e poterlo fare con l’ami-co sarebbe bello. Avvicinare i familiari alla struttura è il pri-mo passo ed anche un altro cliente dell’hostaria, Pieri mo-neda, ha iniziato ad interes-sarsi alla cosa e da qualche giorno beve acqua e menta. Ad un certo punto l’autore si domanda se esistano dav-vero Tony got, l’hostaria ed il paesino. Alla fine, gli arriva una mappa con la descrizio-ne dettagliata del paesino: incontrerà Tony e Mauro. Ar-riva e va al camposanto. Una volta giunto lì scopre però che il narratore e lo scrivano (in realtà una scrivana) senza penna sono due morti suicidi. Erano delle brave persone, ma la loro vita si è bruciata nell’alcool. Il libro è un modo per ricordarle e trasmettere un messaggio di vita e spe-ranza a chi è ancora “preso dentro” con l’alcool. Particola-re interessante: il libro è diviso in dodici tappe, esattamente come il programma di Alco-listi Anonimi è basato sui do-dici passi

“Quando nessuna fonte dissetava”

recensione di Emanuele Celotto

Storia di chi ne è uscito e di chi ci sta ancora dentro

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NoN soLo sPorT

La campionessa di tennis tavolo Pamela Pezzuto, da tredi-ci anni in carrozzina, ora punta a diventare mammadi Daniela russo

«Anche su quattro ruote si può arrivare in cima»

«Quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano». I versi di Francesco Guccini sembrano scritti per Pamela e per i tanti ragazzi che come lei vengono travolti improvvisamente da un de-stino inaspettato che cambia loro la vita. Quella sera del 2000, Pamela Pezzutto, allora 19enne, uscì in macchina con delle amiche per passare la serata. Quattro chiacchiere, qualche risata poi, nel rientra-re a casa, quello schianto, che le fece perdere i sensi per poi risvegliarsi sul ciglio della stra-da con la spaventosa sensa-zione di aver perso per sem-pre qualcosa. Pur non avendo completa chiarezza dei detta-gli dell’incidente, Pamela ri-corda che da distesa aveva chiamato sua sorella dicendo-le di non sentire più le gambe. Trasportata a Udine in elicotte-ro, le diagnosticarono una le-

sione cervicale con fuoriuscita del midollo spinale. Trascorse due mesi in terapia intensiva, intubata a seguito di una tra-cheotomia. «In quel periodo – racconta oggi Pamela - non avevo perso le speranze di tornare in piedi e credevo che con la riabilitazione avrei po-tuto riprendere lo sci e le mie amate escursioni in monta-gna, che fino a prima riempi-vano le mie giornate». Pamela realizzò solo dopo tempo che non abrebbe mai più recupe-rato l’uso delle gambe, e che avrebbe dovuto vivere con questo handicap. Fu un recu-pero molto lungo, durato un anno e mezzo tra fisioterapia ed incontri psicologici. «Trovai nella mia famiglia – afferma la ragazza - in quell’amico speciale, conosciuto due mesi prima dell’incidente diventato dopo tempo suo marito il so-stegno morale necessario ad andare avanti. Sono riusciti a

non farmi sentire il peso del cambiamento, facendomi, nel possibile, condurre le giornate nella quotidianità che vive-vo un tempo, elemento che fu fondamentale per riuscire ad accettare le nuove con-dizioni di vita». Alla fine del 2004 per recuperare la forza motoria che aveva perso con l’incidente, fu accompagnata nella clinica di riabilitazione “Centro Progetto Spilimbergo”, che offre anche la possibilità a persone disabili di trovare inserimento nello sport. Gra-zie ad un amico conosciuto in quella clinica, che le trasmise la passione per il tennis tavo-lo, Pamela iniziò così a gioca-re e fu notata da un tecnico della Nazionale. Entrò a far parte della società associa-zione sportiva dilettanti Poli-sportiva di S. Giorgio di Porcia. In questa specialità ottenne velocemente grandi risultati e svariati podi grazie ai quali

conquistò i punti necessari per partecipare, nel 2008, alle Pa-ralimpiadi di Pechino, dove vinse la medaglia d’argento. Quest’anno ha partecipato anche a Londra 2012, bissan-do quel risultato. Pamela ora ha 31 anni e ritiene lo sport una bellissima, ma sacrifican-te parentesi della sua vita. Per questo ha deciso che parte-ciperà ancora ad un ultimo campionato, per poi dedicar-si con la stessa passione che ha messo nello sport al suo vero sogno, ovvero quello di dare alla luce un bimbo. «Alle persone come me dico – è il messaggio che lancia la cam-pionessa paraolimpica di Sa-cile - di non voltarsi indietro perché proprio lì davanti c’è un mondo che aspetta co-munque di essere vissuto». E se Maometto non va alla mon-tagna, Pamela dimostra che anche a quattro ruote si può arrivare in cima.

Sono 200 in provincia gli atleti iscritti al Comitato Paralimpicodi Milena Bidinost

sport e disabilità, oltre ogni barriera

Ancora meglio delle Olimpia-di, le Paralimpiadi di Londra 2012 hanno celebrato lo sport vero, senza barriere, che è tale grazie alla tecnologia ma soprattutto al talento e alla determinazione di chi nello sport ha trovato il luogo del-la sua personale rivincita. Un luogo fatto ancora di sempli-cità, valori e relazioni umane: qui la vittoria non è qualcosa di scontato, la si suda di più. A Londra 2012, ad agosto, c’erano anche i nostri atleti

paralimpici. Era infatti di set-te partecipanti la spedizione Fvg. La pongista Pamela Pez-zutto è pordenonese di Bru-gnera, la velista Marta Zanet-ti è di Trieste, gli altri friulani erano i ciclisti Michele Pittaco-lo di Varmo e Andrea Tarlao di Fiumicello, il cestista Fabio Bernardis di Tavagnacco, il pongista Giuseppe Vella di Lignano Sabbiadoro e l’arbi-tro di basket in carrozzina Cri-stian Roia di San Daniele. Tutti usciti da un sotterraneo che fa

parte della quotidianità dello sport, oltre le luci della ribal-ta. In provincia di Pordenone, in particolare, sono circa un centinaio gli atleti agonisti ed altrettanti quelli che praticano costantemente l’attività pro-mozionale, in tutte le tre di-sabilità paralimpiche: disabili fisici, non vedenti e intellettivi relazionali. Si mescolano agli atleti normodotati, all’interno delle società che aderiscono al Comitato Paralimpico del Friuli Venezia Giulia, presie-duto da Marinella Ambrosio. Esso fa capo al Cip nazionale, del presidente Luca Pancalli, e ha sede a Cordenons, in viale del Benessere (www.cipfriulivg.it). Il praticare at-tività sportiva tra gli atleti normodotati è un traguardo conquistato di recente, che eleva all’ennesima potenza i benefici che lo sport regala a chi è portatore di una disabili-tà: ne permette cioè di “curare il corpo”, rafforzare “mente e

spirito” e soprattutto abbatte-re le barriere sociali. A questo tende la storia del Cip che è tutt’ora in evoluzione. Essa af-fonda le sue radici negli anni ’70, nell’Associazione nazio-nale Sportiva Paraplegici Ita-lia (Anspi), denominazione poi convertita in Federazione Sport Handicappati (Fisha). Nel 1981, con l’adesione al Comitato Olimpico naziona-le (Coni), la Fisha divenne una federazione organizzata e diede una svolta storica alla propria attività. Nel 1987, grazie al riconoscimento giu-ridico decretato dal Coni, la Fisha divenne a pieno titolo una delle allora 39 Federa-zioni sportive che lo costituiva-no, in rappresentanza anche delle altre due federazioni Fics (Federazione Italiana Ciechi Sportivi) e Fssi (Federa-zione Silenziosi Sportivi Italia). Nel 1990 le tre si fusero nella Federazione Italiana Sport Di-sabili (Fisd), che nel 2003 si

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Michele Pittacolo è nato a Udine il 5 settembre 1970 e risiede a Varmo. Dilettante di ottimo livello fino al 2007 quando un brutto inciden-te lo costringe a smettere. Ma nel 2009 si ripresenta alle gare, esegue le visite mediche di classificazione del CIP, Comitato Italiano Paralimpico, e viene classi-ficato nella categoria C 4. Subito vince due campio-nati italiani su pista e a Bor-gonovo (NO) i titoli mon-diali cronometro e strada. A Manchester (GB) si ag-giudica l’oro nell’insegui-mento individuale su pista con il record del mondo. Nel 2010 arriva il bronzo

LA CARRIERA

A volte la vita può cambia-re di colpo e trasformarsi in un’esistenza completamente diversa che costringe a ri-cominciare daccapo. Così è successo a Michele Pittacolo, che il 12 settembre 2007 si è visto stravolgere la vita dalle fondamenta a causa di un incidente stradale. Michele aveva nella bicicletta una grande passione e proprio mentre si allenava, a Me-dea nei pressi di Villesse, è stato investito da una mac-china. «Non ricordo niente dell’incidente - racconta oggi Michele - so che sono stato elitrasportato al Cattinara di Trieste con la base cranica frantumata nel lato destro». All’asportazione dell’osso se-guirono il coma farmacolo-gico, cinque interventi chirur-gici e mesi di traversie come le ha chiamate Michele. «Poi una volta ricucito - continua poggiandosi la mano sul-la testa - avevo una conca che rientrava, praticamente la pelle aderiva al cervello. Sono rimasto in quelle condi-zioni fino ai primi di gennaio del 2008 quando mi è stata ricostruita la calotta crani-ca in resina e titanio». Come conseguenza dell’incidente, il ciclista oggi ha anche una spalla fratturata e calcificata male perché curata in ritar-do in quanto la testa aveva la precedenza. «Mi è poi ri-masto anche un problema alla mano destra - dice Mi-chele aprendola piano-. Non ho forza, si atrofizza e i nervi non lavorano più. Mi sono sottoposto a degli interventi ai tunnel ulnare e cubitale per cercare di sbloccarla ma.. adesso ad esempio mi fa malissimo, perché oggi l’ho un po’ usata». Ha anche pro-blemi di equilibrio, soprattutto quando è stanco. «Quando mi alzo - spiega - devo stare attento a coordinarmi bene e magari muovermi radente ad un muro. Poi ho difficoltà di linguaggio, un problema all’occhio sinistro e forti mal di testa con cui convivo». Oggi

la sua è una vita difficile che va conquistata giorno per giorno. «Non è facile - annui-sce il paralimpico - ma sono felice, molto felice. Per me an-che solo svegliarmi alla mat-tina è una vittoria». Dall’assi-stenza continua di cui aveva bisogno dopo l’incidente, alle condizioni attuali c’è un mare. Come è cominciata la sca-lata? «È stato quando a fine gennaio mi è arrivato a casa un regalo - ricorda Michele - Eusebi, un costruttore di bici-clette, avendo saputo quello che mi era successo me ne ha mandata una. Mia mo-glie e mia suocera mi hanno

Pittacolo: «Dopo l'incidente che mi distusse il corpo, capii che potevo ricominciare daccapo»di Guerrino Faggiani

una bicicletta per tornare a vivere

mondiale su strada a Baie Comeau in Canada, la coppa del mondo sempre su strada, tre titoli nazionali ed il 2° posto nel ranking mondiale UCI. Nel 2011 si riprende il titolo iridato su strada a Roskilde (Dan), vince due prove di coppa del mondo e la classifica finale. 5 prove di coppa Europa, 4 titoli nazionali e 1° nel Ranking mondiale. Nel 2012 si è aggiudicato quattro titoli italiani, un oro di coppa Europa su strada a Piacenza, ed in quella del mondo a Roma. Ed il bronzo olimpico di Londra che da solo può valere una carriera.

incitato a provare - prosegue - così ci sono salito sopra e mi sono messo in strada. La prima volta ho fatto circa cin-que chilometri con mia mo-glie dietro che mi seguiva in macchina». Alla volta succes-siva il percorso si è allungato e poi anche alla terza, fino a quando Michele ha realiz-zato che stava migliorando. «Allora mi sono detto - affer-ma - se miglioro con la bici, di conseguenza miglioro an-che nella vita. E così un po’ alla volta sono tornato alle corse, in questo modo ho an-che superato il problema del rapporto con le altre persone. Dopo l’incidente non avevo neanche il coraggio di usci-re di casa - ricorda Michele - tra cicatrici e sbandamenti avevo addosso gli occhi di tutti, ma correndo in bici ho superato anche questo». E nel futuro? Cosa farà Michele Pit-tacolo quando non garegge-rà più? «Vorrei aiutare chi è in condizioni simili alle mie - conclude - a trovare la voglia ed il coraggio di tornare a vi-vere nel mondo assieme agli altri e magari a farlo proprio attraverso lo sport».Pamela Pezzutto nasce il

17/07/1981 a Sacile. Nel 2000 perde l'uso delle gambe in seguito ad un in-cidente stradale e nel 2004 durante la riabilitazione si avvicina al tennis tavolo. Nel 2005 inizia la carriera agonistica vincendo subito il titolo europeo a squadre a Jesolo, e nel 2006 il bronzo singolo ai campionati italia-ni di Torino. Il 2007 è argen-to nel singolo ai nazionali di Lignano e squadre all’euro-peo di Kranjsca Gora. Nel 2008 arriva il primo titolo italiano nel singolo anco-ra a Lignano, e l’argento singolo e squadre alle Pa-ralimpiadi di Pechino. Nel 2009 bissa il titolo nazionale singolo a Messina e a Ge-nova vince il titolo europeo singolo e squadre. Il 2010 la vede bronzo sempre nel singolo ed argento a squa-dre ai mondiali di Gwangju in Corea del Sud, oltre agli ori dei campionati italiani di Giaveno: singolo e dop-pio femminile. Nel 2011 a Spalato in Croazia si laurea campionessa europea sin-golo e a squadre. Ancora oro nel singolo ai nazionali di Lignano nel 2012 e ar-gento nel doppio femmi-nile e nel open 1-5. Poi la sua seconda paralimpiade a Londra 2012 dove è ar-gento nel singolo e quarta a squadre.

LA CARRIERA

trasformerà nel Comitato Ita-liano Paralimpico.

In regione sono 33 le socie-tà sportive iscritte al Comi-tato Italiano Paralimpico, di cui 11 nella provincia di Trieste, 9 nel Pordenonese, 8 in Friuli e 5 nel Goriziano. Da noi le società iscritte al Cip Fvg sono: “Polisportiva Villanova” di Pordenone (judo blind); Polisportiva “S. Giorgio” di Porcia (tennista-volo); S.c. Fontanafredda (settore H.F.); Anb Fiamme Cremesi di San Vito al Ta-gliamento (tiro con l’arco); Asd Roveredo (ciclismo); Sekay Budo Pordenone (judo); Team “La Rosa” di Cordenons (ciclismo); Cur-ling Club Claut (culing); “Anche noi a cavallo” di Porcia (equitazione).

LE SOCIETÀ

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La mentalità del Bel Paese, vista da un’italiana all'esterodi Franca Merlo

Polveri sottili, tra realtà e metafora del vivere

Tornando per qualche giorno in Italia dopo un anno di vita inglese mi è stato evidente un fatto: le polveri sottili ci sono, e fanno male. Non che prima non lo sapessi, ma solo ora, al confronto, me ne accorgo: là c’è sempre un vento taglien-

te e l’aria è pulita, qui invece sento la gola intasata. E’ una sensazione difficile da definire, è un qualcosa che senza far rumore, senza che ce ne ac-corgiamo, si appiccica nelle vie respiratorie e immette in noi delle sostanze inquinanti.

Stefan Wernl

L'ANGoLo DELLA FrANCA

Quasi ogni giorno sentiamo parlare di crisi ed inevitabilmente viene fuori la Grecia. Perché è così importante la Grecia? Pur non essendo uno degli “stati cardine” dell’Unione, ha finito col mette-re in risalto un lato debole della stessa, ovvero che una politica europea basata soprattutto su unione e solidità monetaria non regge più, nè può avere alcun futuro. L’euro non può essere l’asse portante dell’Unione, ma ormai, Europa ed euro sono una cosa inscindibile ed irreversibile. Se Atene piange, il resto d’Europa non ride. Il default o l’uscita dall’euro di uno Stato aggraverebbe le difficoltà di tutto il contesto. Il fatto di dover centrare il pareggio di bilancio e rientrare col debito pubblico, ha finito per accentua-re una crisi che già è forte di suo. Molti Stati hanno l’economia che arranca o sono in recessione. I sacrifici imposti come misure per il risanamento finanziario, hanno alzato il livello di malcon-tento sociale e il senso di ostilità verso Merkel-Germany in più

CELox

L’ Europa in crisi e il fallimento dell’Euro Il caso Grecia deve far riflettere. Attenzione ad imporre troppo rigore senza offrire agli Stati strumenti nuovi di crescita di Emanuele Celotto

Viaggio nella notte, tra prostitute, giocatori e giovani alle prime armi con la robadi Ferdinando Parigi

Dietro le quinte di una periferia per bene

Soffro di insonnia e da anni vivo anche di notte. A volte, verso le 4 mi capita di pro-iettarmi in un bar tabacchi della periferia che, per la fortuna di tanti, tiene aper-to 24 ore al giorno, per 365 giorni all’anno. E’ un’immer-sione totale in un mondo parallelo, in cui si incontra la gente più impensata. Le ragazze al banco subiscono un turnover rapidissimo, ma hanno tutte la caratteristica di essere simpatiche. La por-ta si spalanca ed entrano saltellando tre giovani e bel-lissime prostitute, seguite dal loro magnaccia. Sono vesti-te di niente e fa un freddo cane, ma non sentono nulla perché sono ubriache e fat-te di coca. Il magnaccia è l’icona del magnaccia: non molto alto, moro coi capelli corti, barba di tre giorni e un ghigno odioso stampato sul muso per via dei lauti in-cassi della notte. Ogni volta cerco di registrare tutto sen-za farmi notare. Dalla sala fumatori escono, gioconde, due ventenni. Ridono beate, sono vestite come se doves-sero andare a scuola. Alle quattro del mattino. Mah! Entrano due tizi giovani ve-stiti eleganti, visibilmente svegli da ore e chiaramente in procinto di affrontare un nuovo giorno, o quello che resta della notte. Che lavo-ro faranno? Questo bar ha un vago odore caratteristico che non saprei definire. C’è un etilometro appena entra-ti, e attaccato a questo c’è il frigo delle birre. Una delle tre tipe di cui sopra insiste per prendere una birra, e quella del bar, paziente le dice: «No, non puoi, fino alle 6 non posso darti niente». Lì inizia un tira e molla in cui la giovane prostituta si dimostra molestissima. Entrano due della Polstrada. Lei ha un crollo dell’umore molto evi-dente e finalmente ammuto-lisce. Grazie a Dio ha smes-so di rompere. Per fortuna il bar è frequentatissimo dalle forze dell’ordine, o nel giro di tre settimane diventereb-

be un feudo inespugnabile in mano a quelli dell’est. Su cinque auto con equipaggio prostitute più magnaccia, tre o quattro sono della Roma-nia. Una volta un amico po-liziotto mi disse: «Di notte la gente per bene sta a casa». Grande verità, con qualche rara eccezione a conferma-re la regola. La “figona” del banco, la più appariscente delle quattro, è un insieme di abbronzatura, tacchi, mi-nigonna, ombelico di fuori e trucco potente. Tutti a sba-vare dietro di lei, ognuno crede di dire la parola che fa breccia, e lei dosa la cor-da da dare a ciascuno. Di-vertentissimo. Arriva ora un personaggio che meritereb-be un libro. Dico solo che è enorme, paonazzo, biondo, miopissimo, faccia da masti-no e camicia aperta fino alla pancia anche in gennaio. Lo vedo da trentacinque anni in città e delinque da sempre senza alcun profitto. Dalla sala delle slot machines esce un tizio con un secchiello zeppo di gettoni e va a cam-biarli in cassa. Ha vinto 300 e rotti euro e sta incassando, ma è gelido e indifferente all’ambiente. Come un auto-ma, torna alle slot a rigiocar-seli (a perderli). Vuole così, e nulla può fermarlo. Sembra un tossico quando sta an-dando a farsi. «Chissà quan-to comodo avrebbero fatto quei soldi alla sua famiglia», penso io. Mentre bevo il mio cappuccino, due ragazzini accanto a me si scambiano fumo contro soldi, convinti di non essere notati. Ma sono imbranatissimi, sbagliano il passaggio e il pezzetto di fumo cade a terra. Mi sento come un veterano che osser-va delle reclute mentre sba-gliano tutto. Molto divertente. Guardo l’ora e mi cade l’oc-chio anche sulla data. Sono le cinque ed è domenica 18 novembre. Mi rendo conto che in questo istante compio cinquant’anni, essendo nato alle 5 del mattino del 18 no-vembre 1962. Era di domeni-ca, proprio come oggi.

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Le colpe di quanti stavano al di sopra e al di sotto del comandante Schettinodi Ferdinando Parigi

Naufragio Concordia, cronaca contro corrente

E’ arduo difendere il coman-date della Concordia, France-sco Schettino, (o meglio: accu-sare i suoi “complici”) in poche righe, ma ci proverò, con l’in-tento di dimostrare che agli italiani e al mondo comoda addossare ogni colpa su un unico soggetto. La ricetta per creare un buon capro espia-torio è: 1/3 di ignoranza, 1/3 di conformismo-ipocrisia e 1/3 di comodo. La nave Concor-dia stazzava 114mila tonnella-te, era lunga quasi 300 metri e portava, tra passeggeri ed equipaggio, quasi cinquemila persone. La Concordia era un piccolo Comune immerso nel mare e capace di raggiunge-re i 45 km/h. Numeri immensi, e rischi proporzionati ai nume-ri. E’ ovvio che la responsabi-lità di portare a spasso questo mostro navigante salvaguar-dando 5.000 vite umane è distribuita su più persone. La nave ha un comandante, ma non è lui che la guida con un volante, e ogni manovra deve essere eseguita perfet-tamente da svariate persone, e se qualcuno di loro capisce fischi per fiaschi (come ha fatto il timoniere della nave Concordia per 10 fatali secon-di, come da atti), se un intero sistema (proprietario, arma-tore, capitaneria) permette che si mettano a repentaglio 5mila vite con manovre folli come l’“inchino”, beh, se tutti sono d’accordo, non ho capi-to perché solo uno debba pa-

gare! E’ la solita storia di tutti contro uno. Tutto il mondo ha condannato e deriso Schetti-no, in Italia lo hanno crocifisso senza sapere NULLA sulla di-namica reale della sciagura che ha portato alla morte di 32 persone. Altre 4.900 circa si sono salvate, per fortuna. In-competenti, impreparati, ina-deguati molti dell’equipaggio, connivente l’Armatore, inesi-stente la Capitaneria di Porto, un timoniere che scambia la destra con la sinistra, un pirla come Schettino a comandare ‘sta bislacca compagnia… E’ andata molto bene, alla fine dei conti. Potevano morire quasi cinquemila persone, ne sono morte 32. Un dramma, una strage, ma visti i presup-posti sarebbe potuta anda-re molto peggio. Schettino è una figura patetica e ridicola come comandante e un pavi-do come uomo (nella media, credo), ma “sopra” di lui c’era-no degli incoscienti, negligen-ti, conniventi. E molti di quelli che stavano “sotto” di lui non erano all’altezza dei compiti assegnati loro. La colpa è di tanti, non di uno solo. Quan-do la totalità delle persone (secondo taluni “la massa”) si trasforma improvvisamente in giudice e va da una parte, prendete la direzione oppo-sta e non potete sbagliare. In altre parole, è buona norma “mettere in dubbio le certezze” per cercare di avvicinarsi alla “verità”.

Rvongher

Proprio come avviene per al-tre polveri, non materiali, che quotianamente respiriamo: la polvere sottile dell’apparire rispetto all’essere, del peso at-tribuito al denaro rispetto all’o-nestà e al bene comune, della vittoria a tutti i costi perché solo il vincente vale. Non solo gli sportivi, ma tutti dimostriamo di averla respirata, quando vogliamo prevalere sugli altri anche se non abbiamo ragio-ne. E ancora, il ridurre tutto a denaro, a merce. La donna nei mass-media è solo un cor-po da esibire, oggetto di lusso. Per cui quando un rapporto fi-nisce e lei se ne va, il maschio la uccide. Lo spiega Riccardo Iacona nel suo libro “Se questi sono gli uomini. Italia 2012. La strage delle donne”: in Italia, oggi, ogni tre giorni una don-na viene uccisa dal suo ex. La mentalità inquinata si rivela fin dalle piccole cose: a Liver-pool Street dovendo prendere il bus per l’aeroporto, il bigliet-taio italiano “si dimentica” di darmi il resto; in aeroporto c’è sempre qualche italiano che fa il furbo e scavalca la coda. Non siamo poi molto diversi dai politici che giusta-mente critichiamo: le polveri sottili pian piano, impercet-tibilmente ci appannano la coscienza. Nel Regno Unito i disonesti ci sono come dovun-que, ma la disonestà non fa

parte di una mentalità diffusa; c’è il senso del bene comune. Non solo non si salta la coda, ma si cede il posto all’anzia-no. Nelle scuole gli insegnanti, non vincolati da adempienze assurde, dimostrano l’amore agli scolari attraverso la ricer-ca del metodo più adatto a ciascuno e il monitoraggio dei risultati (nei primi anni ogni insegnante ha un tutor all’Uni-versità). Le festività civili sono spiegate e poi enfatizzate in modi piacevoli (party, sagre, modi di vestire) e diventano occasione per creare sociali-tà e mentalità civile. I ricconi per farsi pubblicità mettono in piedi un museo o una mo-stra d’arte, che porterà il loro nome nel tempo. Si fa cultura. Nel mio distretto, Hillingdon, io frequento uno dei tanti “Adult Learning Center”: si insegna inglese ed educazione civica agli stranieri, un lavoro adatto a persone down, paraplegi-che o variamente svantaggia-te. Nella brochure c’è scritto: Investor in people. Bellissimo! Ecco, io penso che dovrem-mo ricostruire il nostro tessuto sociale muovendoci proprio in questa direzione: investire sulla gente, ridare peso alla cultura. Difendendo strenuamente la scuola pubblica, ma anche creando una mentalità che senta e sappia “far cultura” in molti modi, e dappertutto.

Stefan Wernl

di qualche Stato. Anche se non piacciono e sono mal distribuiti, i compiti (sacrifici) erano e sono necessari per arrivare ad una moneta davvero unica e ad un’Europa che sia davvero Unione europea. Ma da soli questi sacrifici valgono ben poco: come suc-cede nel calcio, il rigore senza crescita (senza cioè che finisca in goal) fa solo aumentare rabbia e frustrazione. Però una moneta davvero unica vuol dire euro bond e niente più spread, il che non è poco. Il nodo principale resta l’Unione. Dovremmo inizia-re a pensarci come Euro-Italia e come Stati Uniti d’Europa. An-drebbero riscritti i vari trattati e il concetto di sovranità nazionale deve essere obbligatoriamente rivisto. Il punto di arrivo è avere politiche monetarie, energetiche ed ambientali comuni, leggi anti corruzione ed antimafia uguali in tutti gli Stati e molto altro ancora. In termini pratici avremo un’Europa più centrale; le poli-tiche nazionali, economiche, legislative saranno inevitabilmente fatte con un occhio all’Europa. Di conseguenza va rivisto anche il ruolo della B.C.E. che deve essere dotata di maggiori strumenti di intervento. Una delle necessità è allentare la stretta creditizia ed immettere liquidità; ovvio che prima vengano imposte mi-sure un po’ rigide e controlli. Adesso serve credito ad imprese e famiglie che si traduce in più possibilità di lavoro, più consumi e rilancio delle varie economie. C’era chi ipotizzava il default o l’uscita dall’Euro della Grecia (e anche dell’Italia per qualcuno). Pessima idea!! Gli stati U.E. detengono il 60% del debito greco (noi il 7%) e si ritroverebbero con un mucchio di carta straccia e poi la Grecia deve ripartire con una moneta svalutata al cubo ed acquistare materie prime ed energia in gran quantità. Lo stes-so ragionamento della Grecia (per fortuna non siamo messi così male) si può applicare all’Italia. Più di metà del debito pubblico è detenuto da privati cittadini: vagli a spigare il default a quelli! Quanto ad uscire dall’Euro, chi sarebbe contento di trovarsi in tasca £££ super svalutate invece di Euro?

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IL rICorDo

sbagli, a disposizione di tutte le presunte coscienze sane che hanno bisogno di distin-guere una diversità. Ginetto è qui con la meraviglia della sua contraddizione, a colpirci con la sua lealtà, generosi-tà, bontà, dimostrandoci con la spontaneità e semplicità del gesto che lui è il miglio-re. Alla faccia dei perplessi, o alla faccia della sua fedi-na penale senza fine, Gino è l’uomo più buono del mondo. Se gli chiedi in prestito le ul-time cinque euro lui non fa una piega e te le concede, se hai bisogno di un aiuto lui si spacca in due per esserti utile, se gli confidi un segre-

Aveva una bella grafia, Gino, molto meglio della mia. Leggibile, allungata, quasi femminile. Ricevevo i suoi pensieri dentro una bu-sta, scritti sulla prima carta che trovava, anche unta, ma piena di dignità. Gino ha sempre scritto da solo, per-ché la scrittura è individuale, ma all'inizio ci vedevamo, parlavamo, decidevamo assieme cosa mettere negli articoli che abbiamo firmato assieme per "Libertà di pa-rola". Poi, a un certo punto, non ha più avuto bisogno di confrontarsi con me, deci-deva da solo di cosa voleva scrivere. È stata una vittoria sua, ma un po' anche mia.La prima volta che l'ho vi-sto, nella vecchia sede dei Ragazzi della Panchina, non ho nemmeno avuto il tempo di pensare: "E adesso cosa

mi invento per far scrivere un personaggio così?". Sem-plicemente l'ho guardato in faccia e ho pensato: "Pro-viamo". Ho ascoltato quello che aveva da dire, gli ho dato fiducia, non potevo fare altro. Mollare non è nella mia natura. E ha funzionato, perché Gino quella fiducia non l'ha mai tradita: anche se all'ultimo, dopo varie te-lefonate mie e di Ada, la busta per me, con l'articolo, alla fine arrivava sempre. Anche nell'ultimo periodo, nonostante lui stesse sempre peggio, entrasse e uscisse dall'ospedale, questa cosa la faceva.E adesso che se n'è andato, a volte me lo vedo davan-ti, Gino, con il suo sorriso ir-ridente di fronte alle mille ipocrisie quotidiane. Magro che ti chiedevi come faceva

La rabbia e l'orgoglio di uno di noiGino Dain era un Ragazzo del-la Panchina e una delle firme del nostro giornale. Ci ha la-sciato a settembredi Elisa Cozzarini

a stare in piedi. Con il pigia-ma azzurro di quando sono andata a trovarlo in ospe-dale. Gino che quando lo chiamavo per chiedergli a che punto era l'articolo, era fin troppo riconoscente per aver ricevuto una telefona-ta. Oggi che non c'è più, ri-leggo la sua ultima lettera, l'ultimo articolo che ha scritto per questo giornale, come un grido di dolore, rabbia, denuncia, per non aver mai trovato nella vita qualcuno davvero in grado di aiutarlo. Voglio pensarla come una sua liberazione, la fine di un percorso in cui lui, all'ultimo, scrivendo, è riuscito a buttare fuori da sé tanta negatività, trasferendola con la violenza delle parole su carta, per an-darsene più sereno, leggero. Vorrei che fosse così.Ciao Gino.

to lui non ti vende neanche sotto tortura, e nelle sue soste, se incrocia un’emozione non si vergogna di esibire la dol-cezza fragile del pianto. Gino se ne andato! Non è vero, noi ci siamo dati appuntamento per le prove di teatro, e lui ha dato la sua parola. Lui ci sarà, e come sempre arriverà senza conoscere la parte, e per la nostra ansia, inizierà a

giocare con le sue pause e le sue amnesie, poi, come sem-pre, sparirà in qualche bar durante le prove generali, e puntuale nella rappresenta-zione… risulterà poi il mi-gliore. Migliore come quella volta che non sapendo dove mettere i suoi cani, li trasfor-mò in attori e se li portò in scena, migliore come quan-do a Malnisio arrivò con la

confusione di una “canna” di troppo e scordò la battuta d’i-nizio, vendendo quel silenzio come un passaggio imposto dalla sceneggiatura. Migliore come quando dodici anni fa liberò un gesto dell’ombrello nell’aria, dedicandolo a quel medico che gli aveva pro-nosticato cinque mesi di vita. Povero scemo! Gino se ne andato! Ripeto, non è vero, Ginetto è ancora qua, e no-nostante la malattia insista a massacrargli la figura, lui con-tinua ad afferrare la vita con la forza dell’ultimo muscolo, la potenza delle unghie, la rab-bia delle gengive. Gino vive, vive fuori, dentro, ovunque, anche dietro l’ultima preghie-ra, perché se andrebbe via si spaccherebbe l’anello di una catena, si moncherebbero le braccia dell’ultimo abbraccio rimasto, quello che stringeva la bellezza e la forza di un grande, straordinario, mera-viglioso gruppo… i Ragazzi della Panchina. Aspettando Gino, sempre… con affetto. pino

L' EDITorIALE

AsPETTANDo GINETTo…di Pino roveredo

continua dalla prima pagina

Scrivere di Gino non è fa-cile. Gino bisogna solo viverlo. L’ho conosciuto ar-rivata alla Panka, nel lon-tano 1998. Sul suo viso si leggeva, già allora, l’intera sua vita, con tutti i suoi pro-blemi. Magro e con il fisico bastonato dai suoi tormenti, ma con un sorriso talmen-te solare che contagiava tutti e tutto. Gino non si può amare o odiare. Gino lo ami e lo odi al tempo stes-so. Perché lui ha, aveva, la capacità di esaltare tutto e distruggere tutto poco dopo, per poi ricostruire da capo mandando in confusione gli altri. Però sapeva riem-pire gli spazi vuoti di tutti, con gli aneddoti delle sue disavventure che, anche quando erano tragiche, lui sapeva raccontare con la sua caratteristica ironia e il suo fatalismo, a tal punto da renderli grottescamente esilaranti. Anche le sue per-le di saggezza erano chic-che che ogni tanto ci rega-lava. Così come lo erano le sue analisi puntuali della realtà, che poi non sapeva concretizzare nella sua vita. Gino viveva così, perenne-mente in bilico tra contrad-dizione e irresponsabilità. Ma noi lo amavamo per quello che era. (a.m.)

Amore e odio

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L'APProFoNDIMENTo

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Napoli l’avevamo vista già tre anni fa, nel 2009, quando assie-me allo scrittore e autore di testi teatrali, Pino Roveredo, alcuni di noi furono nella sua compagnia instabile a recitare la com-media “La Panchina”, storia della storia della nostra associazio-ne. Dal 18 al 21 ottobre di quest’anno, però, il viaggio Pordeno-ne-Napoli ha assunto un valore aggiunto. E’ stata l’occasione di rinnovare l’amicizia tra l’associazione e il Dipartimento per le Dipendenze dell’Azienda sanitaria del Friuli Occidentale n.6 da un lato e il Ser.T di Casavatore, nella periferia del capoluogo campano, che fa capo all’Azienda sanitaria 2Nord di Napoli dall’altro. Ma al tempo stesso, per i Ragazzi della Panchina, è stata la prova generale in trasferta di una compagnia tutta sua, nata negli ultimi due anni all’interno del laboratorio di teatro diretto da Guerrino Faggiani. Il pretesto è stato il tour che la compagnia sta portando avanti con il nuovo testo di Roveredo, “La legge è uguale per tutti?”, e che è approdato in quei giorni nei teatri di Afragola, davanti ad un pubblico di 700 alunni, e soprattutto di Scampia, quartiere simbolo del fenomeno droga e dell’eterno dibattito sul tema della giusta giustizia, cui si rifà la commedia. Triplice il significato di questa esperienza. E’ stato in-fatti un viaggio istituzionale, vista la presenza il sabato a Scam-pia delle autorità locali e del sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti e, per tutte e quattro le giornate, del primario del Ser.T dell’Ass6, Roberta Sabbion e del medico Alessandro Zamai. Un viaggio di integrazione nell’integrazione: la compagnia dei Ra-gazzi è composta infatti da persone con e senza problemi di dipendenza e si è incontrata con il gruppo di Casavatore per rafforzare questa filosofia dell’assenza di pregiudizi e barriere.

GrAZIE NAPoLIUn viaggio, infine, umano che ha toccato le emozioni di tutti. Pordenone – Napoli e viceversa: quattro giorni trascorsi a stare sul palco, a consumare i pranzi nella pizzeria di Michele, un utente del Ser.T di Casavatore, mescolati agli amici napoletani; a gettare le basi per future collaborazioni tra le due Aziende sanitarie e tra queste e il Comune di Pordenone; a fare il tifo ciascuno per la propria squadra nella partita Napoli-Juve del sabato sera fino a salutare, la domenica, la famiglia di Pietro Scurti, lo psicologo del Ser.T di Casavatore e nostro eccezionale ospite, con un caffè bevuto nella sua abitazione. Importante il bagaglio che ci siamo riportati indietro. E’ un sacco pieno di sfide superate per i ragazzi della compagnia, di modelli di approccio alla dipendenza da scambiarsi e di un progetto, lan-ciato dal sindaco di Pordenone, di far nascere tra Scampia e il capoluogo sul Noncello una gemellaggio. Importante infine è stato anche il nascere della volontà di dare scientificità all’e-sperienza del teatro, esportandola come modello possibile di ri-abilitazione dei soggetti con problematiche di dipendenza che vada perciò oltre ai limiti della mera cura. Sono filoni questi che partono da un unico centro, ovvero la coesione e l’amicizia nata all’interno della compagnia teatrale che ad Afragola e Scampia ha dimostrato di non temere difficoltà e che, quale va-lore aggiunto ulteriore a tutto ciò, in quei giorni ha reso speciale il ritorno alla libertà di uno dei suoi attori. Per Mihai, 27enne di nazionalità rumena, infatti il 18 ottobre, giorno della partenza per Napoli, ha coinciso con la data della scarcerazione dalla casa circondariale di Pordenone, dove aveva trascorso gli ulti-mi quattro anni.

di MIlena Bidinost

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PorDENoNE - NAPoLI, sFIDA VINTANella prima trasferta fuori casa della compagnia teatrale dei Ragazzi tutta la forza dell'essere gruppodi Gurrino Faggiani

Il viaggio a Napoli, per me, è stato come tirare un sospiro di sollievo. Più volte nei mesi che lo precedettero, di fronte al gestante gruppo teatrale de “I Ragazzi della Panchina”, avevo utilizzato come stimolo a lavorare e a fare squadra il miraggio del viaggio in ter-ra partenopea. Nei momenti di cali di tensione, infatti, rac-contavo loro dell'esperienza che in prima persona avevo vissuto tre anni prima, in oc-casione del precedente la-voro teatrale all’interno della compagnia di Pino Roveredo: "La panchina" , a cura dello stesso Roveredo nelle vesti di autore e regista. Mai è sta-to chiaramente promesso ai ragazzi il ripetersi di quell’e-sperienza, ma la speranza sa farsi strada da sola e questo è bastato perché il gruppo trovasse nuovi stimoli. Non è stato facile comunque an-dare avanti, perché per un

motivo o per l’altro non si ri-usciva neanche a debuttare, altro che viaggio a Napoli. Tanto che ad un certo punto appariva senza senso prova-re e riprovare sempre le stesse cose senza riuscire ad andare in scena. Ci sono stati anche momenti in cui ci siamo sentiti soli. Alla sera, stanchi, anziché andare a casa come tutti, ci si

chiudeva tra quattro mura a provare, a volte con grande sacrificio per non mancare, e magari per poi scoprire che altri del gruppo non ce l’ave-vano fatta ad esserci, con la conseguenza di aver poco più di niente da fare se non i soliti inutili tediosi ripassi di spezzoni presi qua e là che facevano più male che bene,

perché eseguiti senza inter-pretazione con l’appiattimen-to della semplice lettura del copione. Il gruppo, tuttavia, in queste fasi ha dimostrato la sua genuinità, non perdendo mai l’umore giusto e trovan-do in se stesso la forza per andare avanti. Fondamenta-le è stato che nessuno era, e tutt’ora è, obbligato ad esser-ci. Chiunque, per ciò che mi riguarda, può andare e veni-re senza dover dare spiega-zioni, anche per non rischiare di vedersi presi in giro dalla “balla” di turno. Così, alla fine, rimane solo chi ha davvero piacere ad esserci e a cui si può affidare una parte in for-ma definitiva. Era un bel dire all’inizio che una compagnia teatrale, come ogni squadra, trova il suo forte nell’armonia e che dovevamo costruire un’unione tra di noi che an-dasse al di là delle posizioni sociali e di quello che pote-va o meno piacere dell'altro. Alla fine i ragazzi sono stati così intelligenti da cercare nei compagni il buono e non la critica, scegliendo la strada dell’aiuto reciproco che poi è maturato in vero affetto; pecu-liarità di questo gruppo, forte, capace di arrivare con l’ac-qua alla gola ma così tenace da non affondare. Questo è il gruppo attuale della compa-gnia instabile de “I Ragazzi

Emozioni possibili oltre ogni schema socialeSabbion, «L’esperienza del gruppo a Napoli ha confermato l’importanza della riabilitazio-ne»di roberta sabbion, medico responsabile Dipartimento Dipendenze Pordenone

L’obiettivo di questa espe-rienza “partenopea” era la condivisione fuori dalla sede abituale, di spazi e tempi di-versi da quelli di sempre, con persone diverse da quelle di sempre e soprattutto con un ruolo diverso da quello di sempre. Lo strumento utiliz-zato in questo caso è stato il prodotto del laboratorio tea-trale che, da un anno circa, si svolge tra le numerose attivi-tà che vengono effettuate dai Ragazzi della Panchina e dal Dipartimento Dipendenze: la messa in scena di “La legge è uguale per tutti?”. Non mi soffermerò sull’esito assolu-tamente positivo dell’uscita,

perché di questo è già stato detto molto anche nei giorna-li locali, ma vorrei esprimere alcune emozioni che abbia-mo condiviso e che abbia-mo portato a casa. Emozioni, perché proprio l’emozione è il motore che ci da la forza, la motivazione, ma soprattutto la voglia di continuare a fare un lavoro che all’apparenza può sembrare sempre ugua-le e spesso frustrante. L’ele-mento che ci ha permesso di fare molti pensieri rispetto a quanto facevamo in quei giorni è stato proprio la rottu-ra di azioni automatiche: non

dovevamo prescrivere tera-pie, fare progetti terapeutici o controllare il decorso dell’an-damento tossicologico. Dove-vamo condividere spazi nel palcoscenico, frasi imparate più o meno a memoria, gesti di scena, volume della voce, sorrisi, paure, trucco, vestiti adatti per la recita, microfoni non funzionanti. Tutte cose di-verse dal solito modo di stare assieme. Non eravamo figu-re professionali, non utenti o carcerati o personaggi politi-ci, solo tante “belle persone” che stavano assieme in un contesto di salute a condivi-dere tutto. Persino la presenza del sindaco di Pordenone in questo clima e contesto era logica, per niente fuori luo-go o sopra-il-luogo: anche il caro Pedrotti era uno di noi. Ecco ciò che di forte ci sia-mo portati a casa da questa esperienza a Napoli. Lo stare assieme in maniera diversa permette una diversa rela-zione non solo tra operatori e utenti di un servizio, ma tra operatori tra di loro, tra ope-ratori, utenti e territorio. Il tutto a Napoli, con altre stupende persone che ci hanno accolti con caldissimo affetto, in una reale integrazione dove non importava chi fosse l’utente, contavano le persone e i lori

Da sinistra Sabbion, lo psicologo Pietro Scurti, Giorgio Di Lauro Direttore Gen. Asl 2 Napoli Nord e Vincenzo D'Auria Primario Dip. Dipendenze Asl Napoli 2 Nord

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della Panchina” che è sbar-cato a Napoli Capodichino, con tutta la sua timidezza e cortesia, ma con anche tutta la sua corteccia. All'arrivo in aeroporto, mentre si percor-reva il terminal in uscita, mi chiedevo come sarebbero stati i saluti con i napoletani. Tre anni erano passati dalla precedente visita e la nostra comitiva era molto diversa, non sapevo in quali con-venevoli mi sarei imbattuto. Ma una volta davanti agli amici napoletani sono saltati tutti gli schemi, i convenevoli sono stati superati dai calorosi abbracci partenopei, i quali hanno sconsacrato ogni no-stra timidezza nordica. Alla fine era come se gli anni non fossero passati e ci fossimo sa-lutati la sera prima, e gli ami-ci napoletani fossero venuti a prenderci come hanno fatto ogni mattina nei giorni della nostra permanenza. E con no-stro piacere abbiamo ritrova-to subito la Napoli che tanto avevo raccontato ai ragazzi.

Il sindaco di Pordenone a Napoli. Cronaca di un viaggio umano prima ancora che istituzionaledi Claudio Pedrotti

Sono le sei di mattina, una nebbia fitta, insolita in ottobre, mi accompagna verso l’ae-roporto. Ho un appuntamen-to importante oggi: a Napoli mi aspettano i Ragazzi della Panchina che si esibiranno nel teatro della municipalità di Scampia per alcune scuo-le superiori. E’ da tanto che aspettiamo questo evento e avevo promesso che ci sarei stato. Non sono mai riuscito a vederli in “casa” e, allora, giochiamo in trasferta. Tutto procede come un promo del film “Benvenuti al Nord”. Dopo un’ora di volo, sono a Napo-li in una giornata splendida, estiva, con una luce abba-gliante. Il medico del Ser.T di Pordenone che accompagna nel viaggio la comitiva, Ales-sandro Zamai, mi aspetta agli arrivi. Insieme andiamo alla Clio di Pietro Scurti, piscologo del Ser.T di Casavatore, no-stro ospite e nume tutelare. Una stretta di mano, due bat-tute e, in un microsecondo, è come se ci si conoscesse da una vita. Simo in netto anti-cipo: sono solo le nove e lo spettacolo inizierà alle undici. Quindi, Pietro ci porta a fare un breve giro turistico per Na-poli in direzione del quartiere di Scampia. Dopo aver per-corso via Limitone (sarebbe via limit one, dal periodo di occupazione americana a Napoli, ma il nome è stato addomesticato), percorriamo vie già affollate con palaz-zoni mostruosi, ma il tutto con quella luce abbagliante che mi ha accolto. Poi il carcere di massima sicurezza di Se-condigliano e, dopo un breve tragitto in uno scenario non improvvisato, ma progettato da qualche illustre urbani-sta, facciamo un giro attorno alle “Vele” di Scampia. Una

grande impressione: sono una vera isola rispetto a tutto il resto e, probabilmente, non erano nemmeno brutte. Ma quando, dopo il terremoto, vi hanno ghettizzato tutte le per-sone cha abitavano nei bassi del centro, in modo forzato, il risultato è stato certo. Questo ce lo spiega Pietro, facendo-ci una mappa di spaccio e clan. Due giorni prima, è stato ammazzato, per sbaglio, un ragazzo di diciotto anni e si vede un certo traffico di ca-rabinieri e polizia che non è affatto la norma. Alla fine, ar-riviamo alla sede della muni-cipalità di Scampia. Per ave-re un’idea sommaria, fa circa 40.000 abitanti, con una den-sità di popolazione di 9650 per chilometro quadrato. Por-denone ne ha 1354. Insom-ma, qualche confronto con la nostra città viene spontaneo e, forse, anche interrogativi sulle nostre paturnie. Ritrovo i Ragazzi e l'accento ritorna ad essere quello del Nord. Entriamo insieme nell'audi-torium che scopriamo essere per niente male: cento po-sti, un palco ben organizza-to. Le prove cominciano: c'è una certa euforia, ma anche

un’ansia palpabile. Mi dicono che il giorno prima, inscena-re la loro commedia al tea-tro del quartiere di Afragola, davanti a 700 ragazzi come spettatori, è stato molto impe-gnativo. Sono le undici e i ra-gazzi delle scuole cominciano ad arrivare. Poi è la volta dei politici: oltre a quelli di Scam-pia, c'è l'assessore alla istru-zione di Napoli. Soliti saluti delle autorità, ma con tocco da parte dell'assessore che ricorda il ragazzo ammazza-to. E si parte. Lo spettacolo ti inghiotte, letteralmente: è una lunga fila di emozioni, nel si-lenzio generale. Non è come nessuna altra pièce teatrale: qualcuno recita se stesso, ma sono tutti uguali e trasmetto-no una energia coinvolgen-te che ti tocca e commuove. Non si muove nessuno prima della fine, nemmeno i politici. Poi un grande applauso libe-ratorio. Il dopo è una lunga festa che inizia con le mitiche pizze di Michele, un ex tossico che sprizza felicità dal suo cor-paccione e ci ospita con un calore che trovi solo qui. Poi la visita al Ser.T di Casavato-re, che fa capo all’Ass Napoli Nord: è la seconda casa di Pietro che ci coinvolge in una discussione collettiva, in cer-chio, seduti a terra. Ma que-sto è troppo intimo per essere raccontato. L'epilogo della giornata non può essere più napoletano di così: partita Juve-Napoli, davanti alla Tv, in un hotel dove è in corso, in paralleo, un matrimonio. Grazie Ragazzi, grazie Pietro e alla sua famiglia, agli amici napoletani: vi aspettiamo a Pordenone. Grazie ad Ales-sandro, ad Ada, a Roberta, ai ragazzi di Itaca, alla stampa. Alla prossima.

Pedrotti: «Grazie ragazzi»

bisogni, chiunque esse fos-sero. Questa esperienza ha dato ancora una volta valore all’importanza della riabilita-zione in campo delle dipen-denze che deve avere pari dignità della cura. La riabili-tazione non è solo inserimen-to lavorativo, ma è soprattutto reinserimento nel territorio, superando pregiudizi e ste-reotipi di pensiero che vede nei soggetti dipendenti da sostanze o da alcol delle per-sone irrecuperabili o prive di sensibilità. Si tratta di riap-propriazione della dignità di cittadino. Questo pregiudizio si deve affrontare con paro-le, ma si modifica solo con azioni comuni che vedano la cittadinanza attiva e parteci-pe in esperienze simili, dove il contenuto emotivo favori-sce il pensiero e la sua mo-dificazione. Il cammino è an-cora lungo. Per concludere, mi auguro di essere riuscita a fare entrare chi legge que-ste poche righe in quel caldo clima affettivo che ci ha ab-bracciati tutti, in quei quattro giorni napoletani, quel clima che permette anche a noi delle Dipendenze di amare il nostro lavoro e di superare frustrazioni e delusioni, tro-vando nelle relazioni, la forte motivazione alla professione.

Da sinistra Pedrotti, Annamaria Palmieri Assessore a Scuola e Istruzione del Co-mune di Napoli e un amministratore della municipalità di Scampia

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“Per mio figlio ho detto addio alla cocaina” Ricominciare da zero dopo aver toccato il fondo, per non ripetere gli errori del padredi Milena Bidinost

Michele ha 33 anni, gli stes-si che aveva sua padre quand’è morto. Questi uscì dal carcere dopo tre anni di detenzione. Quel giorno telefonò a suo figlio allora undicenne dicendogli di te-nersi pronto che lo sarebbe passato a prendere. Ma la tentazione della “roba” arrivò prima di quell’atteso incon-tro: il padre di Michele mori per overdose, in strada pochi metri prima di rivedere suo figlio. Di lì a qualche anno

un Michele appena venten-ne cominciò a ripetere come in un copione “la carriera” di suo padre. Finché non toccò il fondo e chiese aiuto. La sua è una storia come tante ce ne sono nella periferia difficile di Napoli. Per noi che a Napoli siamo scesi dal nostro Nord quasi per bene, però, la sua è una storia forte, importante e testimone di una rinascita che anche nella terra della Camorra può esistere. Una te-stimonianza che ha il valore

dell’universalità. Più ancora che il suo passato, però, Mi-chele ci è entrato nel cuore per l’amicizia e la grande accoglienza che in quei gior-ni ci ha riservato nella sua pizzeria “Tutta nata storia”, nome scelto non a caso. Già, perché quel luogo, dove per altro la cucina è degna della migliore tradizione parteno-pea, è stato per lui il punto di partenza di una storia che due anni fa ha cominciato a girare per il verso giusto. Grazie al suo lavoro, traman-datogli dal nonno pizzaiolo, Michele è riuscito a tirarsi fuo-ri dalla morsa della droga e dello spaccio, dai debiti con la Camorra, da una vita di lusso ma di delinquenza, sal-vando sé dal destino che era stato di suo padre e suo figlio, che oggi ha dieci anni, dal non averne più uno. Oggi Michele Puzio ha 33 anni, un locale tutto suo dove lavora con la madre e la sorella, nuovi amici che lo supporta-no e che si è fatto al Ser.T di Casavatore, ha recuperato il rapporto con suo figlio avuto da un precedente matrimo-nio e, una settimana prima del nostro arrivo nella sua pizzeria, è diventato padre per la seconda volta. «Oggi mi sento visto per davvero – ci ha raccontato con il fare energico del napoletano - . Sono stato sempre uno con l’armatura addosso: arrab-biato perennemente, pren-devo la cocaina per dormire. Ero cocainomane e spaccia-tore e giravo con così tanti

soldi in mano da pensare di non avere problemi. Finché non cominciai, per colpa di questa vita, a perdere ciò che più contava. Mia moglie, per proteggerlo, cominciò a non farmi più vedere mio figlio, la mia stessa famiglia d’origine non ce la faceva più, avevo debiti con la Camorra per 65mila euro e sotto casa mia girava ogni giorno gente con il mitra a minacciarmi». Fu il pensiero di suo figlio che non vedeva oramai da quattro anni e di suo padre morto prima di riabbracciarlo che fece ad un certo punto scat-tare la molla. «Chiesi aiuto a mia mamma – ha continuato a raccontare Michele – che mi portò al Ser.t. Qui conobbi lo psicologo Pietro Scurti, che mi tolse tutto: la macchina, il motorino, e mi costrinse così a girare con solo 2 euro in tasca, ad alzarmi presto al mattino e a muovermi in pul-lman per vedere le vite degli altri che andavano a lavora-re. Cominciai a frequentare il gruppo del “cerchio” al Ser.T, e poco a poco l’armatura del guerriero lasciò il posto alle emozioni. Non è tutt’ora facile – ha ammesso – per-ché non c’è giorno in cui non pensi alla cocaina come via di fuga facile ai problemi, ma poi penso anche a mio figlio e al fatto che non voglio per-derlo e oggi che ancora la mia battaglia contro la droga continua, so a chi posso chie-dere aiuto». Michele non fa uso di droghe da due anni.rmi solo lei».

Noi, clienti di riguardo a scampia Il viaggio di un giovane pordenonese nel posto più dimenticato da DioEra il 2007, avevo 18 anni e aspettavo il treno assieme a Jim (nome di fantasia) alla stazione di Pordenone. Desti-nazione Scampia. Durante il viaggio, tra la “scimmia” da astinenza da eroina e l’agi-tazione non c’era spazio per le parole. Scendemmo alla stazione di Napoli e a quel punto la mia astinenza si fa-ceva sentire tanto. Jim inve-ce pareva reggerla meglio. Raggiungemmo Scampia in autobus. Una volta là non sa-rebbe stato difficile orientarci, bastava seguire “i tossici”, ma il mio amico volle chiedere comunque indicazioni ad un passante sulla cinquantina. «Ragazzi – ci rispose – vorrei avere anch’io la vostra fortuna

di non sapere dov’è la strada per il cimitero». Non realizzai, sul momento, che volessi dirci, lo feci poi. Ci incamminam-mo. Ci accostò un ragazzo in scooter che ci parlò in napo-letano stretto. Rispondemmo che non capivamo, che cer-cavamo della “roba”. «Per 20 euro ve la posso procurare io», si affrettò a dirci. Non stavamo bene, a causa dell’astinenza, perciò accettammo. Un gram-mo per 20euro era un buon prezzo, da noi costava più del doppio. Cominciarono a pas-sare i minuti senza che quel ragazzo tornasse a portarci la “roba” e cominciammo a re-alizzare di essere a Scampia: la paura mi paralizzò. Ad un certo punto un altro uomo ci

fece segno di raggiungerlo. Gli raccontammo tutto, anche del ragazzo con lo scooter. Si offrì così di accompagnarci nel cuore del quartiere. Lungo la strada lui parlò sempre al telefono, mentre io memoriz-zavo più luoghi possibili, se mai avessi avuto necessità di scappare. Ci trovammo così davanti ad una porta con una finestrella. Lì ad aspettarci c’era un altro uomo: stava trat-tenendo il ragazzo dello scoo-ter; gli stava dando una lezio-ne perché ci aveva derubati. Alla fine il giovane ci restituì i soldi e ci chiese addirittura scusa, come fossimo in un ri-storante di lusso in cui il clien-te, soprattutto quello nuovo, ha sempre ragione. Io e Jim

acquistammo così, da un terzo uomo che stava dietro a quel-la finestrella, dell’eroina. Se volevamo “farci” però, ci dis-sero, dovevamo andare nella “scuola” (vecchio edificio poi demolito n.d.r.). Ubbidimmo. Ciò che trovammo l’addentro non lo scorderò mai: pipe di vetro, bottiglie e siringe usate abbandonate dappertutto. Non c’era molto spazio a terra per noi “tossici”. Nella “scuola” ci rimanemmo una mezzo-retta appena, poi di nuovo a casa. Nel ritornare indietro in treno mi ripresi poco a poco la leggerezza di luoghi in cui avevo la sensazione non esi-stessero cose o persone brutte. Era come scappare da un po-sto dimenticato da Dio. (l.g.)

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Giuseppe, 23 anni della periferia di Napoli. Padre di due figlie. Ha fatto uso di cocaina per un paio di mesi. Da poche settimane è seguito dal Ser.T di Casavatore.

Come si sono accorti che consumavi droga?Di carattere sono un ragazzo vivace, un birbante insomma, e la sostanza non aveva cambiato il mio comportamento. Ma avevo sempre il "raffreddore", così i miei genitori hanno insistito perché facessi le analisi, dalle quali sono risultato positivo alla coca.

Perché hai accettato di farti aiutare?Ho fatto uso di cocaina per due mesi. Mi faceva stare bene e di-menticare i problemi fino a quando ce n'era. Sono padre e anche figlio e perciò capisco il dolore che ho causato ai miei genitori. Già da cinque anni frequentavo il Ser.T per parlare dei miei problemi con la psicologa. Quando poi è uscita anche la questione della coca i miei genitori hanno voluto che mi iscrivessi. All’inizio però pensavo di non avere bisogno di aiuto. Ora invece so che tutti i consumatori di sostanze psicoattive sono uguali: una grande fa-miglia con la quale bisogna confrontarsi per capire la gravità del problema e uscirne insieme.

Quali sono i servizi che il Ser.T di Casavatore offre a voi ragazzi?Ci sono i cerchi della condivisione (gruppi di aiuto guidati dallo psicologo Pietro Scurti n.d.r.), il calcio e corsi di teatro. Sono impor-tanti perché mi fanno distrarre e mi danno la speranza di fare cose positive per ricostruire la mia vita. In generale credo che questo servizio sia un aiuto non solo per i dipendenti da sostanze stupefacenti, tanto che lo consiglierei a chiunque abbia bisogno di essere ascoltato.

A Napoli e periferia, ci sono altri enti o associazioni che aiutano nella cura e nel recupero dalla tossicodipendenza?Si ci sono, ma secondo me il Ser.T è la risposta migliore. Io ad esempio ho accettato perché mi sentivo in colpa verso i miei ge-nitori per averli delusi. Sto comunque capendo, grazie al gruppo, che la cosa più importante è parlare del problema e sono molto felice di aver cominciato a farlo anche con mia mamma.

Come vivi ora?Lavoravo nella tabaccheria di mio padre, ma adesso la evito così come i miei vecchi amici e tutti quei posti dove facevo uso di coca perché mi fanno venire nostalgia della sostanza. Ho mantenuto i contatti solamente con un mio amico, che ha un carattere chiu-so e che cerco di aiutare riportandogli il percorso che ho iniziato al Ser.T. Quanto al lavoro, anche a Napoli la situazione è critica come in tutta italia. Ora io sto per andare a Reggio Calabria per cambiare aria ed è la prima volta che mi allontano dalla mia fa-miglia alla quale sono molto legato. Devo fare però questa prova per creare un avvenire per le mie figlie.

Il lavoro, secondo te, è un aiuto o un ostacolo per chi sta cercan-do di uscire dalla dipendenza?Il lavoro non è un bene se fai uso di sostanze perché hai sempre soldi in tasca per comprare la roba. La famiglia per aiutarti cerca di trattenere una parte del tuo guadagno, ma poi ci litighi e nasco-no i conflitti quindi per non pensare ai problemi vai a comprarti la droga. E’ un circolo vizioso.

Che differenza c’è tra un tossicodipendente che sta al Nord ed uno che sta al Sud Italia?Credo che siano i politici a fare la differenza tra Nord e Sud. La tossicodipendenza è uguale ovunque, dipende solo dal carattere di ognuno, se è forte o debole.

Cosa ti senti di dire ad un ragazzo del Nord che fa uso di so-stanze?Vorrei solo dire a quelli che ho conosciuto in questi giorni (I Ra-gazzi della Panchina n.d.r.) che sono un gruppo fantastico e che mi sarebbe piaciuto uscire da soli, senza dottori ed educatori, per stare insieme liberi, anche solo di dire una parolaccia, senza limiti. Per conoscerli realmente.

Glenda ha 33 anni e vive in provincia di Pordenone. Ha fatto uso di eroina per circa 10 anni. Periodicamente seguita dal Ser.T. di Pordenone, l’ultimo periodo è di un anno e mezzo.

Come si sono accorti che consumavi droga?I miei genitori hanno prima trovato delle stagnole, che mi servi-vano per fumare l’eroina, nella mia camera. Io ero riuscita a far credere loro che avevo fumato un po’ di erba in quel modo, poi però un amico di famiglia ha detto loro che, secondo lui, io e suo figlio facevamo uso di eroina e da lì sono iniziati i problemi.

Perché hai accettato di farti aiutare?La mia è una “storia infinita”. Arrivai al Ser.T nel 2004 accompa-gnata dai miei genitori, che avevano chiesto aiuto al consultorio familiare. All’epoca però ero spinta solo dal vedere la mia fa-miglia distrutta. Nel 2005 sono anche entrata in comunità a San Patrignano, dove sono rimasta pulita per un anno e sette mesi. Finché, dopo tanta “terra bruciata”, l’anno scorso mi sono rivol-ta di nuovo al servizio: questa è la prima volta che l’aiuto che chiedo è sincero, dettato da un bisogno profondo di rompere le catene della mia “non libertà”

Quali sono i servizi che il Ser.T di Pordenone offre a voi ragazzi?Ce ne sono di diversi. C’è il gruppo di cui faccio parte a Maniago, che cerca di condividere le difficoltà. Io ho la tendenza a tenere tutto dentro e questo non fa bene, perché rischio di ingigantire un problema che magari è risolvibile. C’è il gruppo della mon-tagna, che organizza camminate in diversi rifugi, per condivide la bellezza della natura con il piacere di stare assieme. C’è poi il gruppo del teatro, che mi è servito per scoprire delle capacità che credevo di non avere. Ora ho recuperato un po’ di fiducia in me stessa, ma soprattutto ho trovato un gruppo di amici veri.

A Pordenone e provincia, ci sono altri enti o associazioni che aiutano nella cura e nel recupero dalla tossicodipendenza?Credo ce ne siano, ma sottoforma di comunità private e associa-zioni che indirizzano i ragazzi nelle loro strutture

Come vivi ora?Vivo in una roulotte, nel posto in cui lavoro. Si tratta di un rifugio per cavalli, salvati dal rischio di finire al macello. Tramite il Ser.T. ho una borsa lavoro, fatico ad andare avanti, ma lavoro per il momento non se ne trova. Spero a gennaio di riuscire a passare la selezione per fare il corso OSS così forse, avrò più possibilità di trovare lavoro.

Il lavoro, secondo te, è un aiuto o un ostacolo per chi sta cer-cando di uscire dalla dipendenza?Il lavoro è comunque un aiuto perché ti tiene impegnata la gior-nata e ti fa sentire utile, capace, indipendente. Bisogna però stare attenti a non esagerare perché si rischia di stressarsi, di amma-larsi e questo può portare magari alla ricerca di evasione e alla ricaduta nelle sostanze. Anche i troppi soldi in mano possono essere un rischio. Ma alla fine tutto sta nel voler davvero uscire o meno dalla tossicodipendenza.

Che differenza c’è tra un tossicodipendente che sta al Nord ed uno che sta al Sud Italia?Credo proprio non ci sia alcuna differenza. La tossicodipendenza è più o meno uguale ovunque, forse cambia il modo di affron-tarla, ma questo dipende anche dalle persone.

Cosa ti senti di dire ad un ragazzo del Sud che fa uso di so-stanze?Dico che purtroppo ci siamo messi in un bel casino e che sarà dura uscirne, ma se lo vogliamo veramente che ce la possiamo fare. La vita è altro e la droga non porta che dolore, solitudine. Non ne vale la pena. So che il ricordo dell’eroina non se ne an-drà, ma ora io vivo con la consapevolezza di quello che mi ha portato a fare e a perdere. Non voglio più stare male e fare del male. Ti auguro di trovare dentro di te la spinta per uscirne e per tornare a vivere.

INTErVIsTA DoPPIA

Glenda da Pordenone Giuseppe da Napolidi Caterina Traetta e Chiara Zorzi

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NOI SIAMO "INTOSSICATI"di Pietro Scurti

Noi siamo “intossicati”Viviamo insieme agli altriGuardiamo la vita dietro un muroPer non essere guardatiNoi stiamo sempre arrabbiatiCon il tempo che non passaCon Dio che ci sorpassa E con noi non si vuole fermare

Ma dietro agli occhi nostriC’è una storia grandeUn segno forte e dolce di una vita che ci aspettaMa dietro agli occhi nostriTu trovi una finestra, doveSe tu ti affacci nessuno ti manda via

Noi siamo “intossicati”Per il mondo siamo fallitiPer la legge carceratiMa per la vita siamo la vitaNoi siamo senza fiatoCorrendo dietro alla vitaCon l’anima che rideNel petto che si stringe

Ma dietro agli occhi nostri

C’è una storia grandeUn segno forte e dolce di una vita che ci aspettaMa dietro agli occhi nostriTu trovi una finestra, doveSe tu ti affacci nessuno ti manda via

Noi siamo anime soleChe piangono per nienteMa le lacrime sono spiccioliche se cadono per terra rumore non ne fannoNoi siamo esseri umani Che cercano risposte dentro a queste quattro mani“Chiudete i pregiudizi” apriti alla curiositàE vedi che dentro il cuore tuo, ci sono pure io

Ma dietro agli occhi nostriSe guardi fino in fondoCi trovi un bambinoChe sta chiamando la mammaDietro agli occhi tuoi Se cerchi senza pauraCi trovi la vita tua che cerca compagniaE allora allunga la mano dentro a questo abbraccioChe quella che ti stringe è proprio la vita mia

REP "NDUSSUCAT" di Pietro Scurti

Nuje simm ndussucatCampamm nsiem all’atGuardamm a vita aret o’muroPe’ nun ce fa guarda’Nuje stamm semp ngazzatCo’ tiemp ca nun passCcu ddio ca ce sorpass eCcu nuje nun se vo’ ferma’

Ma aret all’uocchie nuostCe sta na storia grandeNu segno forte e ddoce e na vita ca c’aspettMa aret all’uocchie nuostTu truov na’ fenesta, addo’Si tu t’affacci nisciuno te ne caccia

Nuje simm ndussucatPo’ munn simm fallitPa’ legge carceratMa pa’ vita simm a’vitaNuje stamm senza ciatCurrenn appriess a vitaCull’anema ca rideIndo o’piett ca se stregn

Ma a ret all’uocchie nuost

Ce sta na storia grandeNe segn fort e ddoce e na vita ca c’aspettaMa a ret all’uocchie nuostTu truov na fenest, addo’ si t’affacciNisciun te ne caccia

Nuje simm aneme soleCa chiagnenn pe’ nienteMa e’ lacrime so’ spiccioliE si cadono pe’ terra rummore nun ne fannNuje simm esseri umaniCa cercano risposte dint a sti quatt mani“Chiurit e pregiudizi, arap a curiosita’E vedi ca rint o’ core tuoje, pure a me m’truov lla’.

Ma addret all’uochie nuostSi guard fino nfunnCe truov nu criaturCa sta chiammann a mammAddret all’uocchie tuoiSi cerc senza pauraC’truov a’ vita toje che cerca cumpagniaE allor alluong a man dint a cchist abbraccCa chell ca te stregn è proprio a vita mia

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Croazia, sulla strada verso le cascate di PlitvicePrima delle moderne strutture turistiche del Parco nazionale, attraverso i resti di una Nazione segnata dalla recente guerra civiledi Guerrino Faggiani

INVIATI NEL MoNDo

È sicuramente un posto che non ha eguali al mondo, mentre lo si visita non se ne ha alcun dubbio anche se nel resto del mondo non ci si è stati. Mi riferisco ai laghi di Plitvice, nel Parco nazionale di Plitvicka Jezera in Croa-zia, a 140 km da Zagabria, 219 da Spalato e a due passi dalla Bosnia-Erzegovina. Se si ha la fortuna di arrivarci dalla costa (alcuni direbbero la disgrazia, viste le difficol-tà) e la voglia di abbando-nare le vie più attrezzate per quelle meno frequentate, ci si inoltra in un mondo asso-lutamente endemico. Fatto di lunghe strade solitarie che si inoltrano in montagne e val-li tagliando in due paesini di case senza cancelli e recinzio-ni come gli alberi e i torrenti. Curve e sobbalzi continui su

Il Parco nazionale dei laghi di Plitvice (Plitvicka Jezera in croato) è stato fondato e dichiarato zona protetta nel 1949 e, dal 1979, è nella lista dei “Patrimoni dell’U-manità” dell’Unesco. Con i suoi 29.686 ettari è il più grande della Croazia, ca-ratterizzato da un territorio carsico dinamico con ab-bondanza d’acqua e con grande collegamento tra sottosuolo e superficie. Due fiumi, il Fiume Bianco ed il Fiume Nero che si fondono nel fiume Korana, danno vita a 16 laghi in successio-ne che comunicano tra loro con delle cascate. Il primo a 1279 metri di altezza e l’ultimo a 367. L’acqua ricca

Plitvicka Jezera, dal 1979 Patrimonio dell’Umanità

di sali calcarei sottratti alle rocce porose, scorrendo for-ma degli sbarramenti natu-rali che modella continua-mente, innalzandoli anche di un centimetro all’anno, da cui esce e precipita da innumerevoli punti. Ma il parco non è solo i laghi di Plitvice, grande infatti è la ricchezza di flora e fauna. I suoi boschi sono popolati da 50 specie di mammife-ri, 157 di uccelli, 20 tipi di pipistrelli, 321 specie di far-falle (76 diurne 245 nottur-ne) e numerosi animali tra i quali l’orso bruno, il lupo e la lince. Come si può ve-dere sono specie e numeri importanti da Patrimonio dell’umanità.

carreggiate strette rattoppate alla meglio e senza protezio-ni sui cigli, tra falsipiani e di-rupi, ombre di boschi scuri e sole a picco nel verde steso. Quasi senza incrociare ani-ma viva se non qualcuno in bicicletta, in mezzo al niente che raggiunge la sua meta a forza di gambe. Passando tra le case, gli occhi si incollano sui buchi delle pallottole nei muri rimasti in piedi dalla re-cente guerra. Davanti ai travi neri dei tetti sfondati e incen-diati dalle granate ci si chie-de cosa può aver significato vivere tutto questo. Trovarsi in un punto sperduto di una Nazione impazzita, soli senza un posto dove andare e sen-za possibilità di aiuto prede di uomini venuti per uccidere. Nelle facce che si incontrano si cercano i segni di quell’or-

rore, quanto loro cercano nel-le nostre quelli del benessere dai nostri macchinoni targa-ti stranieri. Ciò che aumenta la sensazione di isolamento di questi posti è che i nuclei abitati si susseguono senza vedere l’ombra di un nego-zio, un fornaio un distributo-re di benzina.. niente. Non ci sono neanche le immanca-bili antenne paraboliche che si vedono ovunque, anche nelle baraccopoli delle fave-las. Ma qui mancano anche le antenne ci sono neanche quelle tradizionali, forse per-ché questi posti non sono rag-giunti da segnali e ripetitori. E allora qui il mondo si riduce a poche case e famiglie, che vivono di quello che produ-cono e sporadiche vendite con gli stranieri di passaggio. Unica nota fuori dal coro che ho incontrato, un raduno di colorati monaci Hare Krishna in uno di questi paesi occupa-to per l’occasione. Poi quasi a sorpresa l’arrivo alla civilizza-ta zona dei laghi. Strutture ed impianti ad uso di turisti nu-merosi e provenienti da ogni

dove richiamati dalla fama e dalla bellezza del parco nazionale. Pensate che nel 2008 si è sfiorato il milione di visitatori. Ma il motivo di tan-to seguito lo si capisce subito, come si entra si intravvedo-no in lontananza le cascate giganti, e dopo una pausa inevitabile per ammirarle, ci si incammina di buon grado per scoprire il resto ed arrivare anche ai loro piedi. Su passe-relle posizionate a pelo d’ac-qua che conducono a costoni e laghi che comunicano tra loro con cascate di ogni tipo, grotte specchi d’acqua doline e crepacci. Ci sono più per-corsi a disposizione dei visita-tori con vari livelli di difficoltà, quindi alla portata di tutte le gambe. Compresa quella di un signore all’ingresso con stampelle e protesi che non mostrava alcuna esitazione nell’avventurarsi. Comunque, qualsiasi percorso si faccia, alla sera la stanchezza pesa e le gambe girano lente, ma una volta raggiunta la como-dità dell’auto non si dice: “era meglio se non venivo”.

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PANkAroCk

Il cabarettista di “Drive In”, “La sberla” e il “Bagaglino” in tournè a Cordenons con la commedia “California Suite” di Guerrino Faggiani

Gianfranco D’Angelo: «A 76 anni continuo a fare ciò che sognavo da bambino»

A novembre, al teatro del Centro Culturale Aldo Moro di Cordenons, Gianfranco D’An-gelo, attore tra i protagonisti con Alvaro Vitali, Lino Banfi e Renzo Montagnani della commedia italiana anni set-tanta cosi detta “scollacciata”, e cabarettista della nota tra-smissione tv del “Bagaglino, è stato di scena con Barbara Terrinoni nella commedia di Neil Simon “California Suite” con la regia di Massimiliano Farau.Una carriera la sua, che è la realizzazione di un sogno da bambino. «Faccio ciò che volevo fare - ci ha raccontato - sono stato un bambino del dopoguerra, quando la gen-te soffriva veramente la fame e da grande volevo fare l’at-tore. Oggi ci lamentiamo per-ché c’è una crisi economica in atto che ci fa star male - ha

proseguito - molte famiglie non riescono ad arrivare a fine mese, però se devo fare un confronto con gli anni in cui ero bambino io, devo dire che quei tempi erano molto più duri. Mi ricordo che ave-vamo giornalmente problemi per vivere».

All’epoca si soffriva la fame, ora cosa soffriamo secondo lei?«Il consumismo: ci ha abitua-ti a troppe cose, abbiamo cominciato con gli elettrodo-mestici ed ora abbiamo tre apparecchi televisivi, due macchine, chi può una casa al mare o in montagna. Ci siamo abituati male e siamo andati oltre le nostre possibi-lità secondo me. Ed oggi sof-friamo di questo perché tutto ha un costo e tutto sembra

una necessità, mentre si può vivere con meno cose».

Prima di dedicarsi a tem-po pieno allo spettacolo ha svolto parecchi lavori. Che ruolo aveva all’epoca il suo naturale umorismo?«Fin da ragazzo ero molto vi-vace, gli amici mi coinvolge-vano sempre e mi volevano alle feste proprio perché ero così, divertivo la compagnia e così anche al lavoro. Sape-vo cogliere i lati divertenti del-la vita quotidiana, i difetti e i pregi. Anche in situazioni diffi-cili o addirittura drammatiche riuscivo sempre a trovare un lato comico. Diciamo che ho sempre avuto una certa pre-disposizione alla comicità».

Che ad un certo punto è di-ventata professione.

«Si, ma non è stato così auto-matico. Quando mi stavo af-facciando in modo professio-nale allo spettacolo, svolgevo anche un altro lavoro. Ero dipendente di una grande società telefonica e alla sera dopo il lavoro andavo a fare cabaret. Era durissima finire alle 2 di notte e svegliarsi poi alla mattina alle 7 per anda-re in ufficio, però l’ho sempre fatto con forza e grande pas-sione. Ma a lasciare la com-pagnia telefonica c’è voluto coraggio perché avevo mo-glie e già una delle mie due figlie».

La sua famiglia l’ha asse-condata nella decisione o ha dovuto convincerla?«Ho dovuto convincerla, per-ché mia moglie Annamaria mi aveva conosciuto che ero

Qualche mese prima del grande evento, assieme a due amici, avevamo scelto Stoccolma come meta del tour europeo dei Pearl Jam, la nota rock band statuniten-se che quest'anno ha festeg-giato i suoi primi vent'anni di favolosa carriera. Il fascino della capitale svedese e l'in-credibile coincidenza con il concerto numero mille in as-soluto della band di Vedder e soci, stuzzicava quell'idea un po’ pazzerella di ognuno di noi. Ma era un concerto da tutto esaurito, perciò il pia-no B è stato Berlino, concerto 999 nella O2 Arena. Quella sera a fare da gruppo spalla ci sono gli X, una band ca-

liforniana molto punk e rock n' roll, con cui anche Eddie Vedder si diverte alla sua maniera, facendo impazzire il pubblico, che ancora non riempie gli spalti. Dopo alcuni minuti di lavoro dei roadies per sistemare gli strumenti, ecco che la band fa il suo in-gresso sul palco, spiazzando chi si aspetta un inizio a suon di riff di chitarra. Ma il buon rock non si fa attendere mol-to: si prosegue ad alto voltag-gio con Breaker Fall, Animal, Save you ed In hiding, dopo la quale il front man della band improvvisa uno sgan-gherato dialogo con il pub-blico in lingua locale. I nostri cinque beniamini sembrano

davvero in forma sull'enorme ma semplice palco, senza dimenticare colui che si na-sconde oramai da dieci anni dietro al suo organo, vale a dire Boom Gaspar, amico e compagno di surf di Eddie Vedder, che ora imbraccia la sua Telecaster e si prepa-ra ad accendere un vero e proprio delirio sui tre accordi di Corduroy. La scaletta della serata è davvero sorprenden-te, tanto che vi trovano spazio anche due b-sides come Sad e Down, due canzoni che hanno trovato spazio solo in una raccolta di qualche anno fa intitolata Lost dogs. Tra un pezzo e l'altro Vedder invita il

pubblico a fare alcuni passi indietro rispetto alle transen-ne con un “One, two, three: back step! Thank you guys”. Troppo vivo ancora il ricordo della tragedia di Roskilde, quando morirono nove per-sone sotto il fango durante il loro spettacolo. Poco prima del primo break, ecco arriva-re la dolcissima Come back, dedicata al leggendario Johnny Ramone, ed Eddie invita tutti a visitare il famoso museo dedicato ai Ramones, proprio qui a Berlino. Natural-mente noi abbiamo seguito il consiglio e non ne siamo rimasti delusi. Ma ciò non ferma gli assoli selvaggi di chitarra di Mike McCready, i salti pirotecnici di Jeff Ament ed i suoi bassi coloratissimi, la solidità ritmica di Matt Ca-meron e l'aspetto pacato di Stone Gossard, che insieme accolgono sul palco la ma-dre di Mike, che festeggia così il suo compleanno e alla quale viene dedicata un'in-tensa cover di Mother dei Pink Floyd. Ma come ogni

A Berlino per il concerto 999 della band rock americana di Fabio Passador

Vent'anni di Pearl Jam

PANkAkuLTurA

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ruBrICA LIBrI

Il nuovo libro dello scrittore messicano, ospite di Pordenonelegge 2012, che dice: «L’America Latina sta crescendo e non tornerà più indietro” di Fabio Passador

Tutta la verità su Fort Alamo, vista da Paco Inacio Taibo II

Forse il suo nome non dirà molto a molti nostri lettori, ep-pure Paco Ignacio Taibo II, scrittore e storico messicano, oramai è di casa a Pordeno-ne. Infatti, in occasione del festival del libro Pordenone-legge di settembre, la fila di persone per entrare al Teatro Verdi era davvero impressio-nante. Per l'occasione accom-pagnato dal giornalista Gian-ni Minà, insieme al quale ha parlato del “Risveglio dell'A-merica Latina”, Taibo II ha dimostrato ancora una volta l'affetto per una città che lo ha praticamente adottato, grazie soprattutto alla sua ironia e cordialità, che si uni-scono ad un'indiscussa capa-cità storico-letteraria. Autore della più completa biografia sulla figura di Ernesto “Che” Guevara, lo scrittore messi-cano ha dimostrato durante quest'ultimo suo incontro un forte spirito di coerenza verso ciò che scrive e vive. Infatti nelle sue opere sia storiche che romantiche, i personag-gi che racconta sono spesso legati ai miti della sua terra, dal più celebre Pancho Villa, di cui ha scritto una comple-ta biografia, ai personaggi più comuni, quelli che spesso ha incontrato durante le nu-merose manifestazioni a Città del Messico o negli scioperi di fabbrica. Lo spunto che l'incontro pordenonese gli ha offerto è stato davvero stimo-lante ad una conversazione coinvolgente anche con il pubblico, non risparmiando battute e scambi dialettali, dimostrando una rara intelli-genza nel confrontare, in que-sto momento storico delicato di crisi economica, le diverse esperienze socio-politiche che due continenti come Europa e Sudamerica stanno pro-vando sulla propria pelle. Da una parte il nostro vecchio continente alle prese con la recessione causata dalle po-litiche neoliberiste che, come

denunciano Taibo II e Minà, hanno consentito lo svilup-po dell'economia finanziaria senza regole che ha portato all'esplosione della crisi con le conseguenze che ben co-nosciamo; dall'altra il nuovo mondo, il processo demo-cratico dei numerosi paesi del Cono Sur, che finalmente riprendono le proprie sovra-nità nazionali, per poi unirle in un'alleanza politico-econo-mica strategica ai fini di non sottostare più all'influenza nordamericana. «L’America Latina esiste e non è solo una questione di lingua comune, spagnolo o portoghese che sia – ha detto Taibo - Il Latino-america sta imponendo un modello di socialità diverso da quello finora vigente. Un certo Rinascimento si percepi-sce. In alcuni Paesi è evidente, in altri è ancora in costruzio-ne. Abbiamo nemici comuni e sogni meravigliosi a cui ab-biamo imparato a guardare insieme. E mi spiace – ha ag-giunto - per chi non lo vede. L’America Latina sta crescen-do e non tornerà più indietro». E’ proprio il paese più setten-trionale di questo continente, il Messico, che Paco Ignacio Taibo II rende protagonista di una ricerca che vuol far luce su una delle vicende più in-triganti della nascita del Pa-ese a stelle e strisce. Il titolo del suo nuovo libro recita “Per la storia non fidatevi di Hol-lywood” è centrato sulla bat-taglia di Alamo. Una vicenda storica fortemente falsata dai ben 26 film che l'hanno resa una dei baluardi fondanti dello stato americano. Una cocente sconfitta per i seces-sionisti texani contro il mal ri-dotto esercito messicano che, in verità, erano un manipolo di mercenari interessati più a speculare sui grandi territori del Sud e per il commercio illecito degli schiavi, che per allargare i confini nazionali. Da qui nasce il mito di Ala-

mo, su cui perfino Walt Di-sney riuscì a costruirci un im-maginario come quello del cappello di pelo di David Crockett. Peccato fosse falso anche quello. Ad accendere la miccia della ricerca storio-grafica, in questo caso, è stato un incontro imprevisto. «Stavo scrivendo il libro su Pancho Villa – ha raccontato Paco – quando ad Austin mi sono imbattuto in una serie di titoli sulla battaglia di Alamo. Un rapido controllo su Amazon, la più grande libreria onli-ne negli Usa, e ho scoperto che se ne potevano contare migliaia. Sul corrispondente latinoamericano di Amazon, invece, c’erano solo tre libri su tema. E lì – ha ammesso Paco – è nata la domanda: cosa sapevo io di Fort Alamo? La risposta era imbarazzante. Sa-pevo solo ciò che ha raccon-tato Hollywood. Come scritto-re latinoamericano, mi sono detto, sono un irresponsabile». Perfino la politica, soprattutto quella repubblicana, prese la vicenda di Alamo come simbolo dell'unità nazionale durante la Guerra Fredda, quando i nemici non erano più i scapestrati militari messi-cani ma ben sì i temuti eserci-ti comunisti, in qualsiasi parte del mondo. Ed è proprio così che quella marginale storia legata alla nascita del mo-derno stato americano, diven-ta il simbolo dell'imperialismo statunitense, fondato sul falso storico, i cui complici sono da ricercare tra i più potenti mez-zi di persuasione che l'uomo abbia inventato. Il cinema, per lo più rivolto verso le ge-nerazioni più giovani, è stato lo strumento con il quale si è costruita una delle menzo-gne che fino ad ora, grazie al minuzioso lavoro come quello che ci presenta Taibo II, ci è stata tenuta nascosta. Nel no-stro paese, un autore che si spinge così a fondo verrebbe tacciato di revisionismo.

una persona con uno stipen-dio fisso ed una vita d’ufficio davanti a sé, così invece era tutta un’altra cosa».

Quale lavoro le ha dato più soddisfazione o ricorda più volentieri?«Sicuramente i 15 anni ininter-rotti di televisione, ma anche il “Drive In”, “La Sberla” con cui abbiamo raggiunto i 19 milioni di ascolto. E poi negli anni ‘77e‘78 ho fatto anche il cronista del “Giro Ciclistico d’Italia”: sono molto appassio-nato di sport ed ho conosciuto il ciclismo da vicino, ho impa-rato ad apprezzare e rispetta-re la fatica dei corridori».

Le piacerebbe lanciare qualche giovane?«Ma come no! L’ho sempre fatto! Ho dedicato molto del-la mia professione ai giovani, sia in teatro che in televisione li ho sempre agevolati senza remore. Poi chi era bravo an-dava avanti, gli altri purtrop-po si perdevano».

A 76 anni Gianfranco D’an-gelo ha ancora voglia di pal-coscenico. Vedere la gente che se ne va contenta dopo gli spettacoli è la sua gran-de soddisfazione, ed è per questo che nel suo futuro c’è ancora teatro finché la salute glie lo permette.

loro spettacolo che si rispetti, ecco arrivare le pietre miliari della loro ventennale storia: Better man, durante la quale le voci del pubblico sovra-stano e talvolta sostituiscono le parole di Eddie, l'inno per eccellenza Alive, con Ved-der che indossa la maschera di un noto personaggio del wrestling ed emula più volta la posa da “macho”; fino ad arrivare alla classica citazio-ne all'amico Neil Young con Baba O'Riley, quando tutte le luci si riaccendono e tu già sai che poco manca al termi-ne di un concerto indimenti-cabile come quello dei Pearl Jam. Ci salutano così, con la melodia che tutto il pubblico canta, Yellow ledbetter, men-tre il nostro caro Eddie racco-glie una bandiera italiana arrivata sul palco e saluta i numerosi fans arrivati fin qui per loro. Un gran bel regalo che ci ripaga pienamente e che rende ancor più piace-voli i giorni seguenti passati da turisti per la moderna ca-pitale tedesca.

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Dopo dieci anni e tanti lavori, di nuovo senza occupazione e con l’affitto da pagare di Daniela russo

uNA VITA DA APPrENDIsTA

Mi ricordo la mia entrata nel mondo del lavoro, a 15 anni, con un contratto da appren-dista. Succedeva un decen-nio fa ed io allora credevo che questo tipo di contratto fossero una “gavetta” utile, che avrebbe portato ogni giovane ad apprendere un mestiere. L’obbiettivo era l’e-sperienza e la formazione per avere poi un posto fisso. Iniziai con la voglia e la de-terminazione di crescere, così da dare più opportunità al mio avvenire. In un’Italia che allora lo permetteva ancora, iniziai con un lavoro stagio-nale come apprendista bari-sta. Dopo di questo, vista la mia giovane età, faticai un po’ a trovare un altro bar con orari notturni e così ripiegai su una ditta di volantinaggio pubblicitario. Armata di bro-chure e bicicletta, sfidavo il freddo e le alture di Tolmezzo con l’idea che anche quest’e-sperienza mi avrebbe aiuta-ta a raggiungere l’obbiettivo. Ad ogni pedalata mi ripete-vo «Impara, impara». Orgo-gliosa, oltre al volantinaggio, di sera, trovai finalmente la-voro in un’enoteca accettan-do una povera paga, ma tro-vando un titolare che aveva voglia di insegnarmi. Mi ser-vì, perché poco più tardi pas-sai a lavorare in una vinote-ca del centro di Pordenone, dove rimasi un’apprendista

per un intero anno. Non finii il periodo: ero giovane e mi convinsi che era presto per fossilizzarsi in un unico posto. Grazie ad un’agenzia inte-rinale, passai a lavorare in un azienda agricola, a rac-cogliere cadaveri di polli e selezionare uova. Durò poco perché sono di idee anima-

liste e soffrivo in quel posto, perciò mi licenziai. Di nuovo alla ricerca di un lavoro, fin-ché non finii in un negozio di abbigliamento cinese, sem-pre da apprendista: doven-do io assentarmi una volta a settimana per seguire il corso previsto dalla legge, i titola-ri storgevano il naso e io mi

licenziai di nuovo. Gli anni nel frattempo passavano e la crisi cominciava a farsi sentire. Le difficoltà aumen-tavano. Fui assunta come operaia apprendista in un distributore di benzina: durai un anno sui quattro previsti, perché cominciavo a pro-gettare di vivere da sola e quella sorta di “sfruttamento” non mi avrebbe permesso di mantenermi. Mi adattai a la-voretti saltuari di pulizia che alla fine però mi davano più possibilità di vivere dignito-samente. Ed ecco che trovai quello che avrei desidera-to diventasse il lavoro della mia vita: sempre contratto di tre anni di apprendistato, ma questa volta in un panificio. I miei oramai ex titolari mi assunsero con la promessa che mi avrebbero tenuta con loro. Così non fu e da alcuni mesi sono tornata ad esse-re disoccupata, a 25 anni. Il mio lavoro oggi è “cercare un lavoro” che mi garantisca di pagare l’affitto, le bollette, nemmeno i vizi o i lussi, ma la semplice sopravvivenza. Ebbene, l’Italia è una Repub-blica fondata sul lavoro, ma dal momento che il lavoro oggi giorno scarseggia su cosa di fonda? Chi si occupa di quei figli di oggi che do-mani dovranno tenere fede al primo articolo e principio della nostra Costituzione?

«Caro ministro Fornero, ma dove vive?»«I ragazzi di oggi sono schiz-zinosi, non si sanno adattare e per questo stanno a casa con mamma e papà», lessi più o meno così un giorno sul giornale. Erano le dichiara-

zioni del ministro del lavoro, Elsa Fornero. Ero già senza un lavoro e di fronte a tan-to, mi resi conto che la nostra politica è distante anni luce dal mondo reale. Il ministro

parla di giovani, quelli ma-gari tra i 18 e i 29 anni per i quali sono previsto contrat-ti di apprendistato che, sulla carta, dovrebbero garantire un’esperienza formativa utile a passare poi nel mondo del lavoro a pieno titolo. Ebbene, caro ministro, io da dieci anni faccio l’apprendista, quando e se ho la possibilità di un’as-sunzione. L’azienda in cambio di agevolazioni si impegna a formare, per un periodo che va dai 3 ai 5 anni, il giovane. Questo, mi ripeto, sulla carta perché si sa che “fatta la leg-ge è trovato l’inganno”. Nella realtà delle cose l’appren-dista diventa uno strumento di guadagno per un sistema che in futuro non gli darà la-voro. Questo tipo di contratti, sostenuti dalla Regione, pre-vedono che il giovane fre-quenti settimanalmente dei corsi di formazione con tanto di professori, che hanno dav-vero a cuore il nostro futuro, tant’è che ci raccontano tante di quelle “storie”. Anticamera del lavoro a tempo indeter-minato, nelle buone intenzio-ni di chi lo ha inventato, nella

realtà aiuta chi dà lavoro e non piuttosto chi lo cerca. In-fatti, nella maggior parte dei casi al termine del periodo il datore di lavoro ti saluta, ti rin-grazia del grande risparmio che gli hai fatto guadagnare e, poiché non sarebbe per lui conveniente assumerti con contratti standard, ti dà una pacca sulla spalla e avanti il prossimo apprendista. A te a quel punto non resta che cercare altro lavoro, tanto a consolarti ci pensa la “disoc-cupazione”. Ed invece no, perché – sgradevole notizia – l’apprendista non ha diritto a questo ammortizzatore socia-le. Di lì in poi è un cane che si mangia la coda, dato che tra i 18 e i 29 anni magari avresti anche da mantenerti tra affit-ti, macchina e bollette varie e senza prospettive di lavoro né di paghe dignitose diven-ta sempre più frustrante. Per-ciò caro ministro Fornero, mi permetta di dare un consiglio ai miei coetanei, io che vivo nella realtà: «Restate pure da mamma e papà, perché fuori di là siete in mezzo ad una strada». (d.r.)

L'ANGoLo DELLA DANIELA

Russell Lee

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LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

Direttore ResponsabileMilena Bidinost

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Capo RedattoreGuerrino Faggiani

RedazioneClaudio Pedrotti, Franca Merlo, Paolo Cimarosti, Ada Moznich, Giulia Rigo, Giacomo Miniutti, Ferdinando Parigi, Emanuele Celotto, Fabio Passador, Luca Gaspardis, Stefano Venuto, Elisa Cozzarini, Roberta Sabbion, Daniela Russo, Chiara Zorzi, Caterina Traetta

EditoreAssociazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone

Creazione graficaMaurizio Poletto

ImpaginazioneAda Moznich

Stampa Grafoteca Group S.r.l.Via Amman 3333084 Cordenons PN

FotografieFoto a pag. 4 e 5 del Comitato regionale CIP FVGFoto a pag. 6, 7 e 18 dal sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_PageFoto a pag. 15 di Guerrino FaggianiFoto a pag. 16 Giuliano CeccaciFoto a pag. 17 di Fabio PassadorDove non citate, a cura della redazione

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Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo del Comune di Pordenone

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La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00

Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiSe è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka ca-valca la vita, non tanto per sal-tare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immer-gersi nella bolgia dell’Associa-zione con delicatezza e costan-za, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un arti-colo! Ma confidiamo nella sua amicizia

——————————————Franca MerloPresidentessa onoraria dell’As-sociazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non man-ca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

——————————————Pino RoveredoPenna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. To-scano, non di origine ma fede-le compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

——————————————Elisa CozzariniBici gialla per passare inosser-vata, capello corto per non ri-schiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, pre-senza eterea in una fossa di leoni.

——————————————Manuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante que-sto difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricor-do di antichi fasti e disavventu-re inenarrabili

——————————————Fabio PassadorAttualmente panchinaro di lus-so! Come ogni giocatore di cal-cio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di te-sta, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

——————————————Daniela RussoGiovane Amica di vecchia data. Spirito etereo e garbato si è incendiata alla notiazia dello sfratto. Ma quando la rabbia diventa potenza, si è capaci di qualsiasi risultato. Lei si è sfoga-ta con penna e foglio ed ora... non può più fermarsi!

——————————————Luca GaspardisE’ il più piccolo della compa-gnia ma non certo per l’altezza! Quando ci ha incontrati per la prima volta sembrava impau-rito anche della sua ombra, adesso è diventato un fiume in piena! Siamo sicuri che abbia molte cose da dare, anche se per ora non ricorda dove le ha messe!

——————————————Ferdinando ParigiVoce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si tro-vano raramente, la nostra nuo-va penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

——————————————Stefano VenutoMimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!

——————————————Chiara ZorziS: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso po-etico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quin-di?" C: “tienila, ma non è giu-sta!”. Quando scorri, la consa-pevolezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara

——————————————Roberta SabbionSe le giornate durassero 30 ore, a lei non basterebbero comun-que! Come ogni ottimo scala-tore, conosce perfettamente il significato del gruppo, della fiducia, dell’insieme, dell’obiet-tivo comune. Legati ma liberi, legati e quindi liberi, per l’Asso-ciazione è linfa sempre nuova.

——————————————Caterina TraettaArriva in Associazione in punta di piedi per poi divenire un’at-trice alla quale non si può ri-nunciare. Come non si può rinunciare alla sua simpatia, alla sua dolcezza, ai suoi modi garbati ma decisi. Da attrice a scrittrice, senza limiti.

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C'E' una storia nElla vita di tutti gli uominiWilliam shakEspEarE

i ragazzi dElla panChina

campagna per la sensibilizzazione e integrazione socialeDei ragazzi Della pancHina con il patrocinio Del comune Di porDenone