lavoro produttivo e lavoro improduttivo

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Lavoro produttivo e lavoro improduttivo P.Mattick, 1971 Recentemente il problema della coscienza di classe ha ricevuto una nuova formulazione in rapporto ai concetti marxiani di lavoro produttivo e di lavoro improduttivo, e rimesso così in discussione [1]. Benché Marx abbia trattato ampiamente tale problema [2], sollevato dai fisiocratici e dagli economisti classici, si può facilmente sintetizzare il suo pensiero in proposito. Al fine di distinguere il primo dal secondo, Marx rivolge la sua attenzione al modo di produzione capitalistico. Nella sua cecità — egli afferma — il borghese attribuisce un carattere assoluto al modo di produzione capitalistico, considerandolo come la forma eterna della produzione. Egli confonde il problema del lavoro produttivo, quale viene posto dal punto di vista del capitale, con il problema generale riguardante l’essenza e la qualità del lavoro produttivo. A tale proposito egli si limita a fare lo spiritoso rispondendo che ogni lavoro che produce qualche cosa e che mette capo a un risultato qualsiasi è per ciò stesso un lavoro produttivo. [3] Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario. Il risultato del processo di produzione capitalistico — egli sostiene — non è quindi né un semplice prodotto (valore d’uso) né una merce, cioè un valore d’uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l’effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione. Il processo di produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale assorbimento, questa appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel processo di produzione capitalistica ne costituisce lo scopo immediato. Infatti ciò che il capitale (e quindi il capitalista in quanto tale) vuole produrre, non è né un valore d’uso immediato ai fini di autoconsumo, ne una merce destinata a essere trasformata prima in denaro e poi in valore d’uso. Esso ha come scopo l’arricchimento, la valorizzazione del capitale, il suo accrescimento, e quindi la conservazione dell’antico valore e la creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo scambio con il lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo. [4] Infatti all’interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei salari e realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come un prodotto storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a continui mutamenti, fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi settori dell’economia di mercato e, quindi, che i capitali impiegati improduttivamente ricevano una parte dal plusvalore sociale globale. Analogamente al capitale creatore di

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Lavoro produttivo e lavoro improduttivo

P.Mattick, 1971 Recentemente il problema della coscienza di classe ha ricevuto una nuova formulazione in rapporto ai concetti marxiani di lavoro produttivo e di lavoro improduttivo, e rimesso così in discussione [1]. Benché Marx abbia trattato ampiamente tale problema [2], sollevato dai fisiocratici e dagli economisti classici, si può facilmente sintetizzare il suo pensiero in proposito. Al fine di distinguere il primo dal secondo, Marx rivolge la sua attenzione al modo di produzione capitalistico. Nella sua cecità — egli afferma — il borghese attribuisce un carattere assoluto al modo di produzione capitalistico, considerandolo come la forma eterna della produzione. Egli confonde il problema del lavoro produttivo, quale viene posto dal punto di vista del capitale, con il problema generale riguardante l’essenza e la qualità del lavoro produttivo. A tale proposito egli si limita a fare lo spiritoso rispondendo che ogni lavoro che produce qualche cosa e che mette capo a un risultato qualsiasi è per ciò stesso un lavoro produttivo. [3] Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario. Il risultato del processo di produzione capitalistico — egli sostiene — non è quindi né un semplice prodotto (valore d’uso) né una merce, cioè un valore d’uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l’effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione. Il processo di produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale assorbimento, questa appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel processo di produzione capitalistica ne costituisce lo scopo immediato. Infatti ciò che il capitale (e quindi il capitalista in quanto tale) vuole produrre, non è né un valore d’uso immediato ai fini di autoconsumo, ne una merce destinata a essere trasformata prima in denaro e poi in valore d’uso. Esso ha come scopo l’arricchimento, la valorizzazione del capitale, il suo accrescimento, e quindi la conservazione dell’antico valore e la creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo scambio con il lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo. [4] Infatti all’interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei salari e realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come un prodotto storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a continui mutamenti, fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi settori dell’economia di mercato e, quindi, che i capitali impiegati improduttivamente ricevano una parte dal plusvalore sociale globale. Analogamente al capitale creatore di

plusvalore, il capitale improduttivo assume la forma d’imprese che forniscono un profitto medio al capitale che vi e investito. L’unità dei due tipi di lavoro si può cogliere anche al di fuori del processo capitalistico di produzione considerato nel suo insieme. Se si analizzano le imprese che generano plusvalore, si assiste ugualmente a una divisione del lavoro, in funzione della quale una parte della manodopera crea direttamente del plusvalore, mentre l’altra lo crea indirettamente. Secondo Marx: il modo di produzione capitalistico ha come suo tratto distintivo quello di separare i diversi tipi di lavoro — e quindi anche il lavoro intellettuale dal lavoro manuale — o i lavori appartenenti all’una o all’altra di queste categorie, e di suddividerlo tra persone differenti. Tuttavia, ciò non toglie che il risultato materiale sia un prodotto collettivo di queste persone o che il loro prodotto collettivo si oggettivi nella ricchezza materiale, il che, a sua volta, non esclude o non cambia assolutamente niente al fatto che il rapporto di ciascuna di queste persone con il capitale rimanga quello di lavoratori salariati e, in questo senso principalissimo, quello, di lavoratori produttivi. Tutte queste persone sono non solo adibite immediatamente per produrre una ricchezza materiale, ma per soprappiù esse scambiano immediatamente il loro lavoro con denaro in quanto capitale e riproducono così immediatamente, oltre al loro salario, un plusvalore per i capitalisti. [5] Oltre alle occupazioni legate alla produzione di merci e alla loro circolazione, esistono molte professioni che, senza partecipare all’una o all’altra di queste sfere, producono servizi e non merci. I loro membri attingono il loro salario dai lavoratori o dai capitalisti, oppure da entrambi. Dal punto di vista capitalistico il loro lavoro, per quanto utile o necessario possa essere, è da considerarsi improduttivo; sia che i loro servizi siano comprati in quanto merci o remunerati con il denaro proveniente dalle imposte, tutto ciò che essi percepiscono proviene dal reddito dei capitalisti o dal salario dei lavoratori. A questo punto sembra insorgere una difficoltà. Infatti, tra queste professioni, ce ne sono molte i cui membri (insegnanti, medici, ricercatori scientifici, attori, artisti e altri), pur producendo soltanto dei servizi, non sono nè più nè meno che dei dipendenti e portano un profitto all’imprenditore che dà loro lavoro. Questo è il motivo per cui quest’ultimo considera produttivo il lavoro che egli ha pagato e che gli ha permesso di realizzare un profitto, di valorizzare il suo capitale. Per la società invece, questo lavoro è improduttivo poiché il capitale così valorizzato costituisce una parte del valore e del plusvalore creato nella produzione. Lo stesso si può dire sia per il capitale commerciale e il capitale bancario che per gli impiegati di questi due settori; anche in questo caso viene prodotto pluslavoro e valorizzato del capitale, anche se i salari e i profitti riguardanti questi settori sono di necessità prelevati dal valore e dal plusvalore creati nella produzione. Inoltre, esistono tuttora degli artigiani e dei contadini indipendenti che non occupano operai e che non producono quindi in qualità di capitalisti. Essi si presentano unicamente come venditori di merci, non come venditori di lavoro; questo lavoro quindi non ha niente a che vedere con lo scambio del capitale e del lavoro, né tantomeno con la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che poggia sul

fatto che il lavoro è scambiato con denaro sia in quanto tale sia in quanto capitale. Pur essendo produttori di merci, essi non appartengono nè alla categoria dei lavoratori produttivi nè a quella dei lavoratori improduttivi. Ma la loro produzione non è subordinata al modo di produzione capitalistico. [6] La coscienza di classe nel suo rapporto con il lavoro produttivo e improduttivo L’esistenza di indici di profitto medi, che la concorrenza stabilisce in funzione della domanda e dell’offerta, fa sì che per il capitalista abbia poca importanza che il suo capitale sia investito nella produzione, nella circolazione o nelle due sfere contemporaneamente. Per lui non si pone il problema del lavoro produttivo o improduttivo. Così i lavoratori dal canto loro non si chiedono se sono impiegati in modo produttivo o improduttivo. Nell’uno e nell’altro caso, infatti, la loro esistenza dipende sempre dalla vendita della propria forza-lavoro. A causa della divisione capitalistica del lavoro, ogni grande categoria professionale riceve un diverso salario. I lavoratori si fanno concorrenza anzitutto per trovare lavoro, e poi per ottenere gli impieghi meglio retribuiti e meno duri. E’ come se il capitale lasciasse alla concorrenza tra i lavoratori di fissare le condizioni proprie alla riproduzione della forza-lavoro. L’accumulazione del capitale si accompagna alla concorrenza tra capitali da una parte, tra lavoratori dall’altra, e a un confronto permanente tra padronato e operai riguardante il livello dei salari e quindi dei profitti. Questi diversi fattori si accavallano e s’influenzano reciprocamente. I rispettivi interessi economici assumono agli occhi dei capitalisti e dei lavoratori l’aspetto di interessi di classe. I, primi non affrontano i lavoratori separatamente, e questi ultimi non fronteggiano il capitale nel suo insieme. Lo Stato e l’ideologia capitalistici servono a garantire l’interesse collettivo dei capitalisti mantenendo i rapporti di produzione esistenti. Quanto all’interesse collettivo dei lavoratori, esso deve, se vuole spuntarla, prevalere sulla concorrenza che questi si fanno tra loro e non può oltrepassare i limiti loro imposti dalla dipendenza del lavoro dal capitale. Questo si applica bene sia al lavoro produttivo che a quello improduttivo. Quando Marx parla dello sviluppo della coscienza di classe proletaria, lo fa sulla base non della distinzione tra i due tipi di lavoro, ma dei cambiamenti che intervengono nei rapporti di classe mentre continua l’accumulazione del capitale e aumenta quindi la divisione della società in due grandi classi con una progressiva proletarizzazione delle masse. E’ per questo che si può leggere nel Capitale: Con la diminuzione costante del numero dei magnati che usurpano o monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, crescono la miseria, l’oppressione, la schiavitù, la degradazione, lo sfruttamento, ma anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dal meccanismo stesso della produzione capitalistica. Il monopolio del capitale diviene un ostacolo per il modo di produzione che e cresciuto e ha prosperato con esso e sotto i suoi auspici. La socializzazione del lavoro e la centralizzazione dei mezzi di produzione raggiungono un punto in cui diventano incompatibili coi loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. L’ultima ora della proprietà capitalistica e suonata. Gli espropriativi sono a loro volta espropriati. [7] Così tutto portava a credere che i lavoratori, “educati, uniti e organizzati dal processo di produzione capitalistico”, avrebbero preso coscienza sia del loro sfruttamento e della loro situazione di classe che della possibilità che si offriva loro di abolire i rapporti di produzione capitalistici. L’attività collettiva di migliaia di lavoratori all’interno della fabbrica

e la necessità di doversi continuamente difendere dal capitalista e dai suoi delegati non potevano non avere ripercussioni sulla loro coscienza. Di qui all’organizzazione degli operai in partiti e in sindacati come pure alla comparsa di una coscienza di classe, il passo era breve. Benché quest’ultima non fosse propria soltanto dei lavoratori impegnati nella produzione, essa era destinata a manifestarsi in modo particolare tra di essi, poiché è in fabbrica che lo sfruttamento capitalistico si fa più chiaramente sentire e la lotta contro di esso assume gli aspetti più promettenti. Di fatto, la lotta tra Capitale e Lavoro si svolse per lungo tempo esclusivamente nella sfera della produzione. Non bisognerebbe però concludere che il carattere produttivo del lavoro ed esso solo sia all’origine di questa forma di coscienza di classe e che il lavoro improduttivo renda più difficile, o quanto meno ne ostacoli, la formazione. Nella sfera della circolazione come nell’altra, il processo di concentrazione capitalistico ha l’effetto di riunire larghe masse di lavoratori, schiudendo loro delle possibilità di azione che non sono per nulla inferiori a quelle dei lavorativi produttivi. Così si sono visti i primi organizzarsi e dare vita a movimenti di sciopero esattamente come i secondi. La coscienza di classe, quando si esprime attraverso lotte economiche, caratterizza dunque allo stesso modo entrambe le categorie di lavoratori. La nascita della coscienza di classe e da mettersi in relazione alla situazione di classe dei lavoratori, e non al posto particolare loro assegnato nel quadro della divisione capitalistica del lavoro, anche se essa si e manifestata di preferenza nei lavoratori produttivi piuttosto che negli altri. Per sapere se i lavorativi improduttivi hanno la possibilità di formarsi una coscienza di classe che si possa in qualche modo paragonare a quella dei lavorativi produttivi, bisogna anzitutto definire ciò che essa esattamente è. Se avere una coscienza di classe significa rendersi conto dei rapporti di produzione capitalistici e difendere i propri interessi contro il capitale, bisogna ammettere che questa coscienza esiste in entrambi i casi. I lavorativi delle due categorie si considerano come una classe contrapposta ai capitalisti — anche se essi non fanno ricorso al concetto di classe — e cercano di salvaguardare i loro interessi di fronte al capitale. Finora né gli uni nè gli altri si sono chiesti come bisognerebbe fare per crearsi uno spazio maggiore nel rapporto tra capitale e lavoro. La loro “coscienza di classe” si colloca sul terreno del capitalismo, ed e inutile insistere sulla idea che essi si fanno della loro condizione sociale, visto che essi sono oggettivamente costretti a far valere i loro interessi economici in funzione dei rapporti di classe esistenti. La coscienza di classe rivoluzionaria che mira ad abbattere il sistema capitalista è di tutt’altro genere. Produttivi o no, i lavoratori sono dappertutto. Del resto, quando in tempi di crisi sociale certi settori delle masse lavoratrici d’Europa mossero all’assalto dell’ordine costituito, ciò era dovuto alla crisi, non al carattere produttivo del loro lavoro; inoltre, a fianco di queste masse figuravano altri elementi provenienti da diverse categorie sociali. Si potrà inoltre osservare che se, al di là delle rivendicazioni immediate, il movimento operaio dei primordi fece del socialismo il suo scopo finale, vi rinunciò ben presto. Perciò i lavorativi produttivi possono essere considerati a questo riguardo come i detentori esclusivi della coscienza di classe. Certamente essi possono giungervi in tempi di crisi, ma lo stesso vale per altre categorie della popolazione lavoratrice. Lavoro e scienza Comunque sia, la discussione che ci e servita come avvio va riferita non alla distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo quale la intendeva Marx, ma alla particolare evoluzione verificatasi in questi ultimi anni, nel corso della quale si e visto, da una parte, aumentare il

settore del lavoro improduttivo a detrimento di quello produttivo, e dall’altra la scienza interferire nella produzione in una misura ben più grande che nel passato. Perciò, come si ama sottolineare, il lavoro produttivo non sarebbe ormai proprio, dei soli operai dell’industria; anzi esso includerebbe anche le attività scientifiche oggettivate nelle condizioni materiali del lavoro. Per questo sarebbe venuto il momento di riesaminare i rapporti della scienza con i lavoratori e la società. Anzitutto sì tratta di due fenomeni che, pur essendo collegati, non sono per ciò stesso meno contraddittori: la crescita del lavoro improduttivo e l’applicazione intensiva della scienza alla produzione. Se quest’ultima ha l’effetto di accrescere il plusvalore, la prima ha in compenso l’effetto di ridurlo e quindi stroncare l’accumulazione del capitale. Contemporaneamente all’allargamento della produzione, la parte del lavoro improduttivo aumenta più in fretta di quella del lavoro produttivo, il che rende tanto più difficile la valorizzazione del capitale totale. Al fine di mantenere il ritmo dell’accumulazione, mentre la parte del lavoro improduttivo è in aumento, occorre innalzare la produttività del lavoro, e ciò è possibile solo intensificando l’applicazione della scienza alla produzione. Di conseguenza, se e vero che un certo numero di investigatori scientifici assumeranno il ruolo di lavoratori produttivi, un numero ben maggiore di altri lavoratori sarà ridotto alla disoccupazione, perché la messa in opera di tecniche scientifiche fa risparmiare forza-lavoro, mentre aumenta la produzione. Ma le realtà soggiacenti alla produzione sociale ostacolano questi sforzi di tutti i singoli capitali, che devono imperniarsi sul mercato, a causa del mutamento subìto, all’interno di questo processo, dal rapporto tra valore totale del capitale e plusvalore sociale globale. Infatti, poiché la quantità di tempo del lavoro sociale, e quindi anche quella del lavoro sociale non retribuito, deve diminuire in rapporto al capitale globale, ed essendo il plusvalore tempo di lavoro non pagato, la valorizzazione del capitale decresce. Di qui l’esigenza che tutti i capitali particolari hanno di aumentare di nuovo la loro produttività e quindi di aggravare ancora tale contraddizione inerente al processo di accumulazione capitalistico. La parte che hanno le applicazioni scientifiche nei progressi della produttività fa tutt’uno con l’aumento generale della produttività del lavoro all’interno dell’accumulazione capitalistica. Del resto queste applicazioni si urtano con i limiti imposti all’incremento della produttività in generale, cioè con i limiti imposti alla valorizzazione del capitale. Poiché è l’accumulazione a determinare il ricorso alle tecniche scientifiche, quando non danno più profitto, esse non sono più utilizzate. Infatti, l’andamento del mercato segnala se queste non sono più redditizie, il che assume l’aspetto non di una rottura di proporzione tra valore e plusvalore, ma di una mancanza di domanda, la quale toglie ogni senso, dal punto di vista capitalistico, a un nuovo aumento della produzione. I limiti della produzione — e quelli della tecnica in quanto contribuisce ad accrescere il plusvalore — possono servire in seguito come base per una fase di espansione, nella misura in cui trasformazioni strutturali dell’economia globale permettano di rinnovare il plusvalore conformemente alle esigenze della valorizzazione del capitale. In quest’ultimo caso, il tasso di accumulazione fa un balzo in avanti e così il numero di lavoratori effettivamente occupati, benché gli investimenti in capitale costante aumentino più in fretta di quelli in capitale variabile. Se questo incremento ha luogo solo in debole misura, il tasso di accumulazione ristagna o si abbassa e la disoccupazione aumenta. Non ci sono state molte occasioni di constatare questo fenomeno dopo l’ultima guerra mondiale, poiché il movimento ciclico dell’economia è stato in parte deviato dal suo corso da interventi politici indiretti ad esso esterni. L’espansione della produzione improduttiva

indotta dallo Stato e da esso finanziata con il deficit del bilancio, cioè con massicce iniezioni di credito nell’economia, ha mantenuto l’impiego a un livello che, lungi dal corrispondere al tasso di accumulazione indispensabile, è legato all’aumento costante del debito pubblico, della pressione fiscale e dell’inflazione. Allo stesso tempo, cresce regolarmente la parte del lavoro improduttivo nei confronti del lavoro sociale globale. L’accumulazione del capitale e l’allargamento dei mercati hanno come conseguenza l’aumento delle spese di circolazione. Se la produzione aumenta rapidamente sotto l’effetto di un’accresciuta produttività del lavoro, il lavoro improduttivo speso nella sfera della circolazione viene a gravare con il suo costo la massa delle merci gettate sul mercato. Per esempio, l’estrazione petrolifera assorbe una somma di lavoro molto ridotta, grazie a un’automazione progressiva, ma la distribuzione dei prodotti petroliferi mobilita un numero di lavoratori che non cessa di aumentare. Benché il principio dell’economia di manodopera sia sovrano nella sfera della circolazione come in quella della produzione, quest’ultima si presta molto di più alla sua realizzazione. In genere, l’accresciuta produttività del lavoro ha l’effetto di modificare i rapporti esistenti tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo a vantaggio di quest’ultimo, sebbene nei paesi industriali avanzati i lavoratori produttivi costituiscano ormai una minoranza. Inoltre si può osservare un’analoga trasformazione del rapporto esistente nell’ambito della produzione tra il numero degli operai occupati nell’industria e quello della manodopera avente una formazione scientifica. Così, negli Stati Uniti, il numero di tecnici e di ricercatori è passato, in rapporto al quantitativo totale della manodopera attiva, dall’1,50% nel 1940 al 5% circa nel 1970, mentre il numero complessivo degli operai occupati nell’industria restava immutato e la produzione raddoppiava. E’ a questo ricorso intensivo alla scienza e alla tecnica che si attribuisce l’aumento della produttività del lavoro. Di qui il concetto di “capitale umano” ritenuto adatto a definire un fattore di produzione di particolare importanza e sempre crescente, insieme al capitale e al lavoro. Si considera redditizio investire la scienza e la tecnica in quanto tali nei mezzi di produzione addizionali, la cui messa in opera ha l’effetto di accrescere le economie di manodopera e il rendimento del capitale. Benché il fatto sia incontestabile, non bisogna dimenticare che in un sistema capitalistico tutto ciò che riguarda il rendimento è solo una questione di creazione di plusvalore, che deve misurarsi al capitale totale. Se l’economia di manodopera, dovuta a un’accresciuta produttività grazie alle applicazioni della scienza, permette una riduzione proporzionalmente ancora più alta del lavoro umano in generale, le economie di capitale realizzate in tal modo non modificano per nulla la tendenza alla discesa del tasso di profitto che va di pari passo con l’accumulazione, e, perché questa tendenza resti allo stato latente, bisogna che il tasso d’accumulazione continui ad aumentare sempre più in fretta. Perché, malgrado queste economie, la valorizzazione del capitale rimane un imperativo categorico: oggi come ieri, la produzione deve permettere di trasformare un capitale qualsiasi in un capitale più grande. L’abbondanza capitalistica Così, il lavoro produttivo, mentre concedeva alla scienza uno spazio sempre maggiore, ha descritto una parabola discendente, non senza nutrire nuove allusioni. E’ un fatto ormai acquisito che, a causa di progressi tanto spettacolari nei settore della produttività del lavoro, la problematica del capitalismo si è spostata dalla sfera della produzione a quella della distribuzione. Perciò, si attribuiscono gli ostacoli contro i quali si urta il sistema non a una mancanza, ma a un’abbondanza di plusvalore, abbondanza che renderebbe sempre più ardua la realizzazione di quest’ultimo all’interno dell’economia di mercato [8]. Di qui la

necessità di utilizzare improduttivamente tale surplus irrealizzabile per mantenere a un livello socialmente accettabile le capacità di produzione e d’impiego. Da questo punto di vista il problema del lavoro produttivo e improduttivo va ricondotto allo spreco del lavoro a fini improduttivi, cioè distruttivi. In tal senso, il lavoro improduttivo in quanto tale si vede definito come un tipo di lavoro che perde ogni necessità all’interno di una “società razionalmente organizzata”. Questa definizione ha sostanzialmente in comune con il pensiero borghese la riduzione della distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo a considerazioni di carattere politico ed etico mentre essa è determinata essenzialmente dalla produzione di plusvalore. Poiché ogni forma di società ha una sua propria razionalità, si può opporre alla società capitalistica soltanto un altro tipo di società che abbia una diversa razionalità, e non una “società razionalmente organizzata”. In un sistema capitalistico — soggetto alla concorrenza o ai monopoli — e razionale ogni attività che mira a creare del plusvalore e, quindi, tutto ciò che mira a salvaguardare e a riprodurre le condizioni proprie alla creazione di quest’ultimo. A questa razionalità si riconducono dunque tutti gli elementi “irrazionali” del sistema: le imprese improduttive e quelle che producono per la distruzione; la penuria come l’abbondanza; la disoccupazione e l’arresto delle capacità di produzione; le crisi in quanto condizioni preliminari di alte congiunture che preludono a loro volta a nuove crisi; l’arricchimento di una parte della popolazione a spese dell’altra; il depauperamento di intere regioni a vantaggio delle grandi potenze capitalistiche; le devastazioni provocate dalle guerre e dall’imperialismo che servono come base per nuovi incrementi della produzione; la distribuzione del plusvalore come preliminare obbligatorio per un accrescimento del plusvalore estratto dai lavoratori. Per ritornare al problema dibattuto all’inizio di questo saggio, si può osservare che Altvater e Huisken rifiutano decisamente di porre il problema dei lavoro produttivo e del lavoro improduttivo sul piano di una supposta contraddizione tra razionalità e irrazionalità, pur giustificando che si possa fondare su questa contraddizione una critica della società monopolistica [9]. Infatti, la contestazione studentesca ha preso di mira in questi ultimi anni soprattutto gli aspetti “irrazionali” del potere capitalista, senza quasi preoccuparsi dei rapporti di produzione che lo presuppongono come se bastasse considerare le manifestazioni esteriori delle contraddizioni interne del capitalismo in un modo anch’esso puramente esteriore! Altvater e Huisken hanno certamente ragione a sottolineare che: fino a quando non si è fatta un’analisi del proletariato in funzione delle condizioni della produzione, e delle condizioni della comparsa della coscienza di classe in funzione dei movimenti oggettivi della lotta di classe, non si possono comprendere i conflitti tipici del capitalismo e, invece di vedere gli effetti della contraddizione che oppone il lavoro salariato al capitale, si vedono quelli della contraddizione tra razionalità e irrazionalità, tra possibilità tecniche e ostacoli sociali. [10] Secondo Altvater e Huisken, è senz’altro deplorevole (ma non e un caso) che le teorie di Marcuse e quelle di Baran e di Sweezey abbiano ricevuto così buona accoglienza nelle file del movimento studentesco. Questi autori hanno contribuito particolarmente ad approfondire la distanza ideologica che separa il movimento socialista dal movimento operaio. Non contenti di nutrire l’illusione secondo cui il capitalismo riuscirebbe a risolvere i suoi problemi economici con mezzi politici, non sostengono forse che è ormai inconcepibile che il proletariato faccia la rivoluzione? Tuttavia, essi dicono, il mondo ha pur sempre bisogno di una rivoluzione per porre termine alla miseria in cui si trovano immerse le masse dei paesi sottosviluppati e le minoranze emarginate dal benessere dei paesi

avanzati, per scongiurare il pericolo di una nuova guerra e per realizzare il progetto di una società finalmente degna dell’uomo, progetto che già esiste allo stato di virtualità. Sempre secondo questo punto di vista, se è impossibile precisare quali saranno esattamente gli agenti di questa rivoluzione, una cosa e sicura: gli operai non ne saranno i protagonisti. Queste considerazioni, limitate come sono agli aspetti più superficiali della società, non meritano di essere confutate, ma esigono alcune spiegazioni che necessitano a loro volta di un’analisi dei rapporti di produzione. Quest’esame Marcuse lo intraprende partendo dai concetti di lavoro produttivo e di lavoro, improduttivo. Le trasformazioni strutturali del capitalismo, come egli sottolinea, hanno a tal punto coinvolto le classi e la loro situazione che gli operai dell’industria non trovano più niente a ridire sullo sfruttamento. Se è ancora legittimo domandarsi… se i milioni d’impiegati, che lavorano nel settore pubblicitario, creano o no del plusvalore, questi stessi impiegati sempre secondo Marcuse scambiano il loro lavoro immediato con capitale, come vuole il concetto marxiano di sfruttamento. I loro salari non rappresentano soltanto delle spese generali, dato che essi assolvono delle funzioni assolutamente indispensabili al buon andamento della produzione capitalistica. Non solo, ma la produzione commerciale non potrebbe fare a meno dei loro servizi, poiché essi predeterminano la forma delle merci, e anche la loro qualità e quantità. Lo stesso si può dire, ovviamente, dei tecnici, degli ingegneri, dei ricercatori scientifici, degli psicologi e dei sociologi impegnati nel processo di produzione, il cui numero è in costante e rapido aumento. Tutto ciò determina trasformazioni strutturali all’interno della classe operaia. E poiché sappiamo che il numero degli impiegati d’ufficio è destinato ad aumentare a detrimento di quello degli operai dell’industria, che il rapporto tra lavoratori manuali e lavoratori intellettuali continuerà ad evolvere, dato che questi ultimi costituiranno sempre di più la base umana del processo di produzione, sarà bene trattare con cautela i concetti di proletariato e di dittatura del proletariato. [11] Gli avvenimenti di questi ultimi anni — i grandi movimenti di sciopero che si sono verificati in tutti i paesi capitalistici e i sintomi di crisi che si moltiplicano negli Stati Uniti — hanno modificato un poco le concezioni di Marcuse, la sua visione di una “società a una dimensione” capace di risolvere il problema delle classi all’interno della società di classe. Egli parlava fino a ieri di “società dei consumi”, oggi anche lui parla della “cosiddetta società dei consumi”, delle barriere immanenti contro le quali si urta il modo di produzione capitalistico, cioè: la saturazione del mercato degli investimenti e delle merci. Il lavoro “improduttivo” aumenta a detrimento del lavoro produttivo. L’inflazione, che significa l’abbassamento dei salari reali, fa ormai parte della dinamica del sistema. [12] In realtà è finito l’imborghesimento degli operai, diretta conseguenza del miglioramento della loro condizione. Se non si può fare a meno di rallegrarsi nel constatare che Marcuse cerchi di tener conto del cambiamento della situazione, bisogna però osservare che si tratta nel caso specifico non di una “saturazione del mercato” ma, al contrario, di ostacoli che, sulla base della produzione capitalistica del plusvalore, si oppongono a una “saturazione” effettiva del mercato e forse anche la rendono impossibile. L’abbassamento dei salari reali, assunto come “dinamica del sistema”, dimostra che la causa delle difficoltà che assillano il capitalismo è da ricercarsi in una mancanza di plusvalore a cui questa famosa “dinamica”

si sforza di rimediare. Il plusvalore può essere estratto solo nella produzione; esso può essere accresciuto solo per mezzo di nuovi investimenti e di un aumento della produttività. Il ristagno relativo del capitalismo va dunque messo in relazione ai rapporti di produzione, che si esprimono sotto forma di rapporti capitalistici di valore, al tasso di sfruttamento in rapporto al capitale totale o al tasso di profitto da cui dipende l’accumulazione. Un tasso di accumulazione insufficiente, se sul mercato assume l’aspetto di una sovrapproduzione di capitale, in realtà deriva dai rapporti di produzione, la quale non può essere allargata se non a condizione che il capitale sia stato valorizzato, senza di che si verifica una crisi di sovrapproduzione. Quando le esigenze della valorizzazione del capitale entrano in conflitto con quelle del suo rendimento, si registra un abbassamento del tasso di accumulazione e, al tempo stesso, la fermata di una certa quantità di lavoratori e di mezzi di produzione che riprenderanno la loro attività solo al momento in cui lo consentirà un’accumulazione accelerata. Se si ha l’impressione di vivere sotto il segno dell’abbondanza dei beni di consumo e dei mezzi di produzione, è perché in realtà c’è una mancanza di plusvalore, ed e questa penuria a esercitare un’influenza preponderante sul corso della produzione. Il capitale, lo ripetiamo, produce merci e mezzi di produzione solo a condizione di creare in tal modo plusvalore e capitale. La sua forza o la sua debolezza derivano dalla sua capacità o incapacità di produrre plusvalore, non da una penuria o da un’abbondanza di beni utili. Di per se l’abbassamento del tasso di profitto vieta che in un sistema capitalista esista una “saturazione” assoluta del mercato; al massimo si può verificare una “saturazione” relativa legata ad una mancanza di rendimento, a cui bisogna rimediare anzitutto nella sfera della produzione per rilanciare l’economia, cioè per consentire al “mercato degli investimenti e delle merci” di conoscere un nuovo incremento. Pur interessandosi ai rapporti interni della società capitalistica, Marcuse non resta tuttavia in superficie. La contraddizione fondamentali del capitale non è altro, secondo lui, che la contraddizione “tra una prodigiosa ricchezza sociale e l’uso deplorevole e distruttore che se ne fa” [13]. In realtà questa “prodigiosa ricchezza sociale” semplicemente non esiste, poiché una minoranza privilegiata può disporne e, se dovesse essere distribuita tra tutti i membri della società, sarebbe tutt’altro che “prodigiosa”. E’ proprio l’impiego di una parte di questa “ricchezza” per dei fini distruttivi che permette ai lavoratori di beneficiarne, in una misura molto ristretta a dire la verità. Secondo Marcuse, le masse lavoratrici non ignorano… dove si trova il loro interesse e il loro interesse immediato, qual è la posta in gioco che li riguarda. Esse sanno benissimo per esempio che il giorno in cui la guerra del Vietnam sarà veramente finita, decine di migliaia di lavoratori perderanno il loro posto. Esse sanno benissimo donde provengono le loro vacche grasse. [14] Tuttavia questa “certezza” gli operai la condividono con tutte le altre categorie della popolazione, e tutto ciò significa in sostanza che le condizioni di lavoro sono fissate dal capitale. All’interno dei rapporti di produzione capitalistici, la qualità e il volume della produzione dipendono dal capitale e da esso solo. Ciò che spinge i lavoratori a produrre per la guerra non è il loro “interesse immediato”, ma la necessità immediata di vendere la loro forza-lavoro, senza poter controllare l’uso che ne viene fatto, necessità che deriva dalla loro situazione di classe. Poiché essi non hanno la possibilità di scegliere, è assurdo attribuire a loro una parte di responsabilità nella politica capitalistica, benché si possa loro rimproverare con maggiore correttezza di non pensare all’abolizione del capitalismo.

Marcuse vede nell’impiego di una frazione della “prodigiosa ricchezza” a fini di sterminio uno spreco improduttivo di lavoro produttivo. Secondo lui, quasi tutti i tipi di lavoro sono diventati lavori produttivi, poiché si scambiano con lavoro. Ma ciò significa dimenticare che se, dal punto di vista del singolo capitalista, il lavoro scambiato con capitale crea del plusvalore — è dunque è produttivo — dal punto di vista del capitale nel suo insieme, esso resta in parte improduttivo, poiché le spese di circolazione devono essere prelevate dal plusvalore globale, il che riduce il tasso di profitto medio. E ciò non cambia nulla al fatto che i salari operai servano in parte a pagare il lavoro improduttivo e, inoltre, una parte delle imposte e delle tasse. Un’analisi astratta del valore può certamente lasciare da parte tutte queste complicazioni e considerare il prodotto sociale come eguale al valore della forza-lavoro — in quanto suo costo necessario di riproduzione — e al plusvalore del capitale, dedotte le spese di circolazione. In realtà, queste ultime sono incluse nel prezzo delle merci e dunque sono parzialmente a carico del consumatore operaio. Si può anche andare più oltre e definire il salario come ciò che resta al lavoratore dopo che ha pagato le tasse, considerando al tempo stesso il plusvalore come oggetto esclusivo d’imposta, benché in realtà sia la tassazione del lavoratore che diminuisce il profitto e contribuisce, quindi, ad avvicinare il salario al valore astratto. La produzione di materiale bellico, a cui è adibita una parte dei lavoratori nelle industrie capitalistiche, permette a queste ultime di ricavare dei profitti e d’ingrandire il proprio capitale. Il lavoro eseguito su questa base è quindi un lavoro produttivo. Tuttavia, è lo Stato ad acquistare la produzione con il denaro proveniente dalle imposte e dai prestiti, cioè prelevato dai salari e dai profitti collegati alla produzione sociale globale. Il plusvalore estratto nel settore della produzione bellica può essere “realizzato” solo diminuendo il plusvalore estratto nell’altro settore. Dal punto di vista sociale il lavoro speso nella produzione bellica viene scambiato non con capitale, ma con salari e profitti e, quindi, rimane improduttivo dal punto di vista capitalistico. Indipendentemente dal tasso di profitto medio determinato dalla concorrenza, il lavoro improduttivo modifica di conseguenza la distribuzione del plusvalore sociale globale a favore dei produttori di materiale bellico, cosa che gli altri produttori accusano sotto forma di un abbassamento dei loro profitti che essi cercano di mascherare con un aumento dei prezzi. A mano a mano che aumenta la porzione del lavoro improduttivo, in seguito al rialzo della produttività relativa al lavoro produttivo, e in particolare sotto l’effetto della produzione addizionale indotta dallo Stato, cioè della frazione della produzione che eccede le esigenze abituali dello Stato, il plusvalore globale diminuisce in rapporto al capitale sociale ed è sempre più difficile valorizzare quest’ultimo. La ricchezza capitalistica, che può consistere unicamente di plusvalore, segue nello stesso tempo una curva declinante; così, i capitalisti si sforzano di risalire la china con tutti i mezzi. Quanto poi a sapere se tali sforzi saranno efficaci, questa è un’altra questione che il capitale non è in grado di porsi. Sarebbe un errore pensare, con Altvater e Huisken [15], che lo spreco a cui il lavoro improduttivo è destinato moderi la tendenza all’abbassamento del tasso di profitto, quando proprio la parte del plusvalore suscettibile di essere accumulata si trova secondo loro ridotta. Se il tasso di accumulazione diminuisce, il tasso di profitto deve a sua volta abbassarsi, poiché esso può mantenersi a un livello determinato solo in caso di accumulazione accelerata. La valorizzazione e l’ampliamento del capitale vanno sempre di pari passo, e quindi anche l’accumulazione; quindi, se la possibilità di valorizzazione o il tasso di accumulazione diminuiscono, il capitalismo si vede precipitare in una crisi che provoca un abbassamento effettivo del tasso di profitto. La tendenza di quest’ultimo a scendere in seguito alle trasformazioni strutturali subite dal capitale nel suo insieme può

trovarsi controbilanciata da un’accumulazione accelerata, il che non esclude un ristabilimento di questa tendenza sotto l’effetto di un ristagno relativo del capitale. In quest’ultimo caso, al contrario, cioè quella che era solo una tendenza diventerà realtà, poichè la crisi che ne segue diminuisce i profitti e ne annulla una parte. Se si deve credere ad Altvater e Huisken, i lavori improduttivi aprono nuovi campi alla realizzazione di plusvalore, poiché essi rappresentano un consumo nel senso economico, che viene ad aggiungersi alla capacità di consumo delle masse. Essi hanno quindi l’effetto di allargare campo in cui il capitale ha la possibilità di realizzare il plusvalore estratto. II lavoro improduttivo del soldato è di conseguenza diventato una condizione preliminare del lavoro produttivo dell’operaio degli arsenali. E’ proprio questo rovesciamento del rapporto tra lavoro pro duttivo e lavoro improduttivo che impedisce la comparsa di una coscienza di classe tra i lavoratori produttivi dell’industria bellica. Qualificare questo atteggiamento come irrazionale — come fa Marcuse — o classificare questi operai come lavoratori improduttivi — come fanno Baran e Sweezy dimostra ancora una volta che non si è capito nulla del principio che regola i rapporti economici della valorizzazione del capitale e della sua realizzazione. L’ingrossamento dell’apparato statale si rivela utile al capitale allorché le sue possibilità di investimento produttivo sembrano restringersi e il sistema entra contemporaneamente in una fase di declino. [16] Se è esatto dire che l’espansione della produzione provocata dallo Stato aiuta la borghesia a uscire da una crisi acuta e a creare per un pezzo le condizioni di una congiuntura apparentemente favorevole, riuscendo cioè ad ampliare i risultati di ogni iniezione di crediti nell’economia, ciò non toglie che essa lascia sussistere interamente il problema della valorizzazione del capitale e della sua realizzazione, soggiacente alla crisi. Per essere valorizzato, il capitale deve pervenire a realizzare il plusvalore attraverso l’accumulazione, poiché soltanto l’eccedenza di prodotti non consumati — quale che sia il tipo di consumo a cui sono destinati — può essere valorizzata. Perciò, l’abbassamento del tasso di accumulazione significa che la valorizzazione del capitale è sempre più difficile, che si può sempre di meno realizzare il plusvalore in quanto capitale. Così continua nascostamente un processo che alla luce del giorno appare come un periodo di crisi, e che consiste nelle difficoltà di conversione del plusvalore in capitale. Ciò che durante le crisi del passato si manifestava con la disoccupazione e la cessazione dello sfruttamento delle risorse produttive, assume oggi l’aspetto di un incremento del lavoro improduttivo, della produzione non redditizia, che è tollerabile economicamente solo nella misura in cui il ritmo a cui assurge la produttività del lavoro è più rapido del ritmo a cui il plusvalore è consumato in lavoro improduttivo. Lavoratori e studenti Una cosa è certa, e l’abbiamo già sottolineata: i lavoratori, in conformità alla loro situazione di classe, si curano poco di sapere se il loro lavoro è produttivo o improduttivo; ciò che interessa loro è il livello di vita legato al loro lavoro. Così, la degradazione di questo livello di vita e la ricomparsa della disoccupazione, dovute a un abbassamento del tasso di accumulazione — che la proliferazione del lavoro improduttivo permette di controbilanciare solo temporaneamente — possono avere l’effetto di radicalizzarli. Qualsiasi cosa si sia affermata, a torto o a ragione, sulle insufficienze della “prospettiva della catastrofe”, la storia del movimento operaio mostra con tutta chiarezza che la coscienza di classe rivoluzionaria si manifesta soltanto in tempi di crisi particolarmente profonda. Le lotte di classe che non mirano ancora a fissarsi degli obbiettivi di classe e

non vanno al di là delle rivendicazioni salariali, sono in sè delle reazioni spontanee a un deterioramento lento o brutale della condizione del proletariato; lo si è visto or non è molto in Polonia ed è quel che avvenne nel 1968 in Francia. E’ solo nei momenti di crisi che può svilupparsi la coscienza di classe rivoluzionaria. In sè la coscienza di appartenere alla classe operaia non ha molta importanza; in ogni caso, essa esiste ovunque. E’ vero che ci sono dei poveretti che, pur appartenendo al proletariato, non si considerano operai. Ma, tutto sommato, i lavoratori sanno benissimo di appartenere a una classe antagonista a quella capitalistica. Indipendentemente dal sistema dei salari, essi sanno anche che sono sfruttati e che creano del profitto a vantaggio del capitale, e ciò quand’anche essi ritengano necessaria l’esistenza del capitale, come è dimostrato dalle trattative salariali e dal fatto che essi rinunciano a conoscere i bilanci effettivi delle aziende per vedere fino a che punto sono sfruttati. Se si pensa un momento all’enorme potenza che fronteggia il proletariato e le sue aspirazioni di classe, si comprenderà perché i lavoratori preferisco no adattarsi alle condizioni del momento piuttosto che attaccarle. Essi non hanno né il tempo né la voglia di dilungarsi — a guisa di rivoluzionari professionisti — in contestazioni destinate a durare all’infinito, dato che la politica capitalistica suscita una opposizione permanente. E se essi trovano talvolta qualche soddisfazione di carattere ideologico in attività politiche con programmi a lunga scadenza, queste non hanno molto a che vedere con le loro immediate esigenze. Una frazione dei lavoratori aderisce a organizzazioni politiche ma ciò non significa che siano disposti a portare avanti un’azione rivoluzionaria reale. Un’altra frazione adotta incondizionatamente l’ideologia borghese, ma ciò non significa che essa sia disposta a sostenere senza riserve la borghesia. Indifferenti, le grandi masse aderiscono all’ordine costituito, senza peraltro consentirvi, e cercano di inserirsi alla men peggio, poiché non sono in grado di concepirne un altro. Fin tanto che la classe dirigente è capace di fondare sull’economia il suo potere politico — grazie a una prosperità reale o facile -, è vano sperare che la coscienza della classe operaia assuma un carattere rivoluzionario. Ma è un tratto distintivo del capitalismo la sua incapacità di dominare il corso del proprio sviluppo economico. L’interventismo politico-economico di questi ultimi vent’anni non ha cambiato nulla a tutto ciò. Esso ha dimostrato soltanto che, nella misura in cui aumenta la produttività del lavoro, il lavoro improduttivo si estende e che, con questo stesso espediente, è possibile avvicinarsi alla piena occupazione con una produzione in costante aumento. Ma l’aumento della produzione non può durare, poiché e legato a una diminuzione delle possibilità aperte alla valorizzazione del capitale. Oggi come oggi, nel caso del capitalismo americano, il più sviluppato che esista, la produzione globale effettiva tende a scendere e la disoccupazione a crescere. In breve, sia a causa della rinascita dei fattori di crisi che si credeva fossero scomparsi per sempre, che dell’esaurimento delle possibilità di far crescere la produzione a detrimento della valorizzazione del capitale, tutto sembra indicare che l’integrazione dei lavoratori al sistema subirà a sua volta un cambiamento. All’origine delle concezioni di Marcuse, di Baran e di Sweezy, secondo cui sarebbe vano attendersi una rivoluzione operaia nei paesi a capitalismo avanzato, poiché gli operai dell’industria sono perfettamente integrati nel sistema e sono diventati una minoranza dal

punto di vista sociale, stanno sia il loro passato personale, sia la delusione da essi provata per il corso assunto dalla storia. Per diversi lustri, infatti, questi uomini hanno sostenuto lo stalinismo, e ancor oggi essi vedono nel sistema capitalistico di Stato un preliminare inevitabile verso la società socialista. Ora, questo sistema implica la persistenza dei rapporti capitalistici di produzione — la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione. E’ dunque facile capire perché le loro analisi di classe hanno un punto di partenza diverso. Invece di pigliarsela con il capitalismo di Stato, essi criticano unicamente gli errori e le deviazioni della burocrazia dirigente e li condannano per ragioni politiche o morali. Rifiutandosi ormai di avallare il capitalismo di Stato nella sua forma sovietica, essi sono tanto più propensi a prendere pienamente partito a favore delle sue versioni cinese, cubana o nord-vietnamita. Allorché si cessa di stabilire un legame specifico tra rivoluzione socialista e rapporti capitale-lavoro, si può aderire a qualsiasi movimento che, su tutt’altre basi, insorga contro la forma dominante del capitale. Secondo la teoria leninista, per esempio, l’imperialismo costituisce una manifestazione inevitabile del capitalismo moderno e una delle condizioni principali della sua espansione. Il capitalismo è quindi minacciato dall’interno e dall’esterno, dal movimento operaio da una parte dal movimento antimperialista dall’altra. Quest’ultimo, per definizione, non può essere soltanto operaio; esso è dunque costretto ad appoggiarsi ai contadini poveri; diretto dalla categoria, in via di formazione, degli intellettuali, esso mira, in nome della liberazione nazionale, a rovesciare il potere delle classi che, nei paesi oppressi, fanno lega con l’imperialismo e, quindi, ad abbattere l’imperialismo stesso. La tesi che postula l’unità della lotta delle classe proletarie nei paesi a capitalismo avanzato e delle lotte antimperialiste dei paesi in cui lo sviluppo industriale è stato impedito, ha avuto come conseguenze, sul pieno teorico, la trasformazione del marxismo in marxismo-leninismo. Senza voler entrare nei particolari di queste tesi, basterà constatare che le speranze a cui essa è stata associata non si sono finora realizzate. Certamente, la seconda guerra mondiale ha creato una nuova situazione, permettendo a numerosi paesi coloniali e semi-coloniali di ottenere l’autodeterminazione politica; certamente, esiste un movimento di lotta — che, pur essendo mondiale, non è perciò meno debole — contro lo sfruttamento e l’oppressione a cui l’imperialismo sottopone i paesi sottosviluppati; ma il movimento operaio dei paesi imperialisti non ha fatto sue queste cause. Quel che nel quadro di una crisi mondiale generalizzata avrebbe potuto diventare una probabilità, si è trasformato in illusione in seguito alla ripresa economica effettiva che ha avuto luogo dopo la seconda guerra mondiale. E anche se questa ripresa non faceva che precedere nuove crisi, che si producevano secondo modalità che rinviavano al carattere insolubile delle contraddizioni del capitalismo, le prosperità di cui godono i paesi avanzati ha pur sempre l’effetto di soffocare ogni velleità di solidarietà rivoluzionaria. Per il fatto stesso di essere legato alle particolarità nazionali di paesi molto diversi, e alle relazioni che questi paesi hanno con altri stati, il movimento nazionalista rivoluzionario è destinato a concepirsi in termini molto diversi e a porsi degli obbiettivi che non lo sono meno. Non lo vediamo forse rifarsi, tanto per fare un esempio, e ideologie nazionaliste borghesi, o nazionalsocialiste, o ancora comuniste? Ma in sostanza si tratta sempre non di sollevazione di operai rivoluzionari che tentano di rovesciare i rapporti di produzione capitalistici, ma di rivolte che vogliono farla finite con une miseria generale, che resta incurabile finchè dura l’egemonia imperialista. In questo quadro, gli agenti ideologici di questi movimenti sono gli intellettuali e gli studenti contestatori, che cercano di ottenere l’appoggio delle categorie più povere della popolazione e di certe frazioni delle classi

medie, dato che le une e le altre vedono nello sviluppo nazionale senza ostacoli la via per migliorare le proprie condizioni. Dotata anche di virtù proprie, l’ideologia nazionalista risveglia simpatie anche negli ambienti che non hanno nulla da aspettarsi dalle realizzazione dell’autodeterminazione. Solo uno sviluppo industriale accelerato permette di liquidare la miseria e l’arretratezza; ma esso va contro gli interessi immediati delle potenze imperialistiche. In linee di massima, il capitale internazionale non si oppone all’industrializzazione capitalistica dei paesi sottosviluppati, cioè all’allargamento del plusvalore e all’aumento della produttività del lavoro. Tuttavia, questo processo può realizzarsi solo grazie elle valorizzazione del capitale esistente. Ora, dato che il rendimento di quest’ultimo è in tal modo minacciato si verifica un abbassamento degli investimenti su scala internazionale e soprattutto nelle regioni arretrate. Poiché gran parte del plusvalore creato in queste regioni non vi è investito, me serve e valorizzare i capitali ivi introdotti delle grandi potenze, la scrematura del plusvalore e la diminuzione dell’arrivo di capitali freschi hanno il duplice effetto di depauperarle più che mai e di generare per riflesso agitazioni sociali. In breve, sono le caratteristiche della produzione capitalistica che le impediscono di ampliarsi a un ritmo sostenuto. Alla stessa stregua, le lotte contro l’imperialismo e per le riforme sociali diventa, per i paesi sottosviluppati, questione di vita o di morte; e le riforme hanno come premesse l’espropriazione del capitale sia straniero che locale. E’ a queste indispensabili misure di esproprio che i movimenti nazionalisti rivoluzionari devono la loro aureola socialista. Ma esse non conducono per ciò stesso al socialismo, cioè al diritto che i produttori hanno di di sporre del prodotto del loro lavoro e della sua distribuzione. Nei paesi a capitalismo avanzato la coscienza di classe rivoluzionaria non ha permesso finora di capire chiaramente che il socialismo non può essere se non l’opera degli stessi lavoratori, e che nessun partito (o coalizione di partiti), una volta arrivato al potere, li gratificherà mai del socialismo. Oltre ad essere afflitte dalla stessa carenza soggettiva, le masse sfruttate e depauperate dei paesi sottosviluppati vivono all’interno di società che oggettivamente per la loro struttura impediscono la realizzazione del socialismo. Queste società devono quindi recuperare, all’occorrenza con mezzi inediti, il loro ritardo in fatto di sviluppo capitalistico. Esse ignorano ancora la polarizzazione delle classi, che caratterizza il capitalismo moderno; inoltre, per coordinare i diversi interessi particolari — tra cui giocano un ruolo notevole quelli dei contadini, proprietari e non — è indispensabile creare un potere statale che fronteggi la società e la regga. Questo potere statale indipendente, personificato dalla sua burocrazia, assume le funzioni che nei paesi capitalistici di vecchio stile, erano l’appannaggio della borghesia. La burocrazia diventa una nuova classe dirigente, il suo arrivo al potere essendo la premessa di ogni sviluppo economico. Può darsi che gli elementi posti alla testa dei movimenti nazionalisti rivoluzionari non abbiano coscienza di operare in tal senso; ma questo è un risultato che, nonostante tutto, resta invisibile finché le masse sono incapaci di creare da sè le forme d’organizzazione che permettano di uscire dall’impasse legata a questa nuova “divisione rivoluzionaria del lavoro”. Nei paesi sottosviluppati e una cosa inconcepibile; nei paesi avanzati è una possibilità. Questa possibilità appartiene tuttavia al futuro. Finora, infatti, i lavoratori di questi paesi non hanno cercato di conquistare il diritto all’autodeterminazione, neppure in seno alle loro organizzazioni. Ora, se gli stessi lavoratori non sono finora insorti contro i rapporti di produzione capitalistici, non c’è da stupirsi che gli studenti siano stati meno capaci ancora, anche per la loro particolare situazione di classe, di prendere come punto di partenza per la loro azione i rapporti sociali fondamentali. Se gli operai non sono rivoluzionari, non

esiste una situazione rivoluzionaria su cui gli studenti possano regolare il loro movimento. E se, malgrado tutto, essi optano per l’opposizione e la vogliono dimostrare concretamente, non hanno altra scelta che manifestare in termini estremamente generosi la loro indignazione per i “lati cattivi” della dominazione capitalistica, ma non possono rivolgere la loro azione verso problemi reali, verso problemi di base, perché in tal caso non susciterebbero la minima eco. Il movimento studentesco stesso non ha niente di particolarmente sorprendente; sarebbe stato molto strano che gli studenti non avessero reagito alla crescente barbarie capitalistica, e ciò quand’anche si fossero resi conto che la loro opposizione non poteva avere per il momento conseguenze pratiche. Poiché tale movimento non ha alcun legame con i rapporti di produzione, le tendenze antiautoritarie, che lo contrassegnarono all’inizio, ebbero sulle prime un carattere ambiguo e furono la diretta conseguenza del suo isolamento. Incapace di trasformare da sè solo l’ordine costituito, esso non aveva altra scelta che una contestazione destinata a non avere grandi risultati. Dato che non poteva influire veramente sul corso degli eventi, cercò di erigersi a coscienza universale, nella speranza di risvegliare per lo meno qualche eco. Le circostanze che spinsero il movimento studentesco a optare per l’antiautoritarismo, dovevano conferirgli un carattere elitario perfettamente suscettibile, in altre circostanze, di sboccare nell’autoritarismo. Di fronte alla passività degli operai, il radicalismo degli studenti ricade di conseguenza nelle teorie leniniste della rivoluzione e dell’organizzazione. Poiché queste teorie hanno un senso reale nei paesi del cosiddetto “terzo mondo”, uno può immaginare, pur vivendo in un paese capitalista, di essere un rivoluzionario grazie a una semplice identificazione con il movimento antimperialista. Pur sbagliandosi di grosso, questo movimen to rivoluzionario ha un minimo di fondamento; poiché una politica socialista non può essere che antimperialista. Va da sè che il movimento socialista combatte lo sfruttamento e l’oppressione in tutte le sue forme. Tuttavia, per vincere l’imperialismo, bisogna abbattere il capitalismo. Lottare contro l’uno significa continuare il combattimento contro l’altro. Senza dubbio, tutti i movimenti di protesta contro l’imperialismo e i suoi crimini, come ogni sabotaggio che serva a indebolirlo, danno il loro contributo. Ma credere che il fronte comune degli antimperialisti dei paesi oppressi e dei paesi oppressori abbia questi fini, è chiudere ancora una volta gli occhi di fronte alla realtà. Parole d’ordine come il grido di guerra cubano “patria o morte”, o quella di Marcuse che parla dell’ “ascesa della Cina al rango di grande potenza comunista” [17] dovrebbero essere respinte e biasimate dai lavoratori e dagli studenti dei paesi capitalisti allo stesso modo delle imprese imperialistiche delle loro rispettive borghesie. Per i rivoluzionari dei paesi dominati militarmente ed economicamente sarebbe d’altra parte assurdo rinunciare a realizzare i propri scopi, come pure fare assegnamento su una rivoluzione proletaria nei paesi imperialistici per annientare l’imperialismo. E’ così che il movimento nazionalista rivoluzionario si sviluppa in funzione delle sue necessità proprie, senza tener conto dell’atteggiamento preso dal movimento operaio dei paesi imperialistici. Mentre questo isolamento non fa che ledere gravemente le sue possibilità di successo, le vittorie da esso definitivamente acquisite hanno conseguenze non meno nefaste sia per l’uno che per l’altro dei due movimenti. Infatti, in caso di vittorie del genere, il nemico di ieri diviene l’alleato di oggi, come si è verificato per esempio per l’Algeria e per numerosi Stati africani, o ancora l’indipendenza strappata agli Stati Uniti ha, come nel caso di Cuba, la conseguenza di porre i paesi sotto il dominio dell’Unione Sovietica. Dato che nelle condizioni attuali un’autodeterminazione economica è inconcepibile sul piano nazionale,

anche l’autodeterminazione è irrealizzabile, e consiste unicamente nell’assoggettamento all’una piuttosto che all’altra fra le grandi potenze imperialistiche. Se il marxismo-leninismo aveva ancora un senso all’epoca in cui la guerra del 1914-18 e i suoi postumi consentivano di sperare in una rivoluzione mondiale, quanto è successo in seguito ha messo in luce il fatto che le teorie leniniste, strettamente connesse a condizioni di tempo e di luogo molto particolari, erano inapplicabili nei paesi a capitalismo avanzato. La cosa che stupisce perciò è constatare che, senza tener minimo conto di mezzo secolo di esperienze, si tenta daccapo di spingere la rivoluzione proletaria sulla via del leninismo. Cosa tanto più singolare, d’altra parte, in quanto gli operai dei paesi cosiddetti “socialisti” hanno già cominciato a insorgere, con scioperi e rivolte, contro i loro nuovi sfruttatori e oppressori. Ciò ha causato senz’altro una fuga in avanti, tanto che il modello di comunismo autoritario, tipico del bolscevismo russo, si è alienato tutte le simpatie, che si sono rivolte decisamente verso il comunismo più liberale della Cina e di Cuba. Ma ciò significa cadere dalla padella nella brace, poiché “l’accumulazione primitiva” impone alle masse lavoratrici degli ultimi due paesi citati sacrifici ben più pesanti ancora di quelli che esse hanno dovuto affrontare nell’Unione Sovietica e nell’Europa orientale. I metodi di governo e le tecniche di manipolazione differiscono certamente tra i due tipi di comunismo, ma nel primo come nel secondo caso il popolo, lungi dal poter decidere del proprio destino, subisce il dispotismo di una nuova classe dirigente, a cui solo una nuova rivoluzione potrà togliere il monopolio del potere, interrompendone una volta per sempre la riproduzione. Comunque sia, se si considera l’azione rivoluzionaria prescindendo dalle sue conseguenze sociali, si capisce subito che i metodi dei movimenti nazionalistici rivoluzionari avrebbero, nel contesto del capitalismo moderno, risultati completamente diversi da quelli che hanno nei paesi sottosviluppati. A giudicare dalle apparenze, Lenin aveva ragione di affermare che il proletariato lasciato a se stesso era incapace di crearsi una coscienza di classe rivoluzionaria e che aveva quindi bisogno di essere diretta dagli intellettuali provenienti dalla piccola borghesia. Così la preparazione e lo scatenamento della rivoluzione — considerata in sè, indipendentemente dai suoi risultati — poneva di colpo il problema della suddivisione dei ruoli tra operai e intellettuali. Poiché, in questa visuale, la teoria precede la prassi, sia prima che dopo la rivoluzione la direzione del movimento rivoluzionario doveva spettare agli intellettuali, a “quelli che sanno”, incaricati poi di vegliare sull’attuazione del nuovo sistema. Anche per questo, gli studenti rivoluzionari, quando s’interrogano oggi sul proprio ruolo nella lotta di classe — in quanto studenti, intellettuali e teorici — possono concepirsi non come una classe dirigente, ma come gli elementi primi della rivoluzione e del socialismo, in perfetto accordo con gli interessi del proletariato. C’è da sperare che i lavoratori, quando la loro coscienza di classe assumerà un carattere rivoluzionario, vedranno tutto ciò con altri occhi. Poiché essi non ignorano la situazione reale esistente nei “Paesi socialisti” e il tipo di rapporti sociali ivi dominante, tutto porta a credere che essi respingeranno con fermezza le pretese di qualsiasi partito a gestire il movimento rivoluzionario e la società in via di formazione. Inoltre, a prescindere da queste considerazioni, una cosa è certa: il movimento rivoluzionario dovrà inglobare il proletariato come classe e creare organizzazioni capaci di trasformare da cima a fondo i rapporti di produzione, stroncando contemporaneamente la possibilità di un’evoluzione verso il capitalismo di Stato. Di fronte a questa necessità, e quindi a questa possibilità, di sviluppo, sarebbe inutile invocare l’esistenza, in qualche paese capitalistico, di partiti comunisti forti

e addurre i tentativi di costituirne altri su modelli esterni. Se questi partiti sussistono, è perché di comunista non hanno che il nome. Comportandosi come partiti riformisti; essi non hanno nè l’intenzione nè la possibilità di abbattere il sistema capitalistico. Benché la storia dei partiti operai tradizionali si presenti in fin dei conti come un’esperienza negativa, i lavoratori che hanno preoccupazioni di carattere politico tenteranno ancora e sempre di stabilire tra loro dei legami organizzativi per dare alla loro propaganda un’efficacia maggiore e costituire una base in vista dell’azione rivoluzionaria. Solo che si verifichi la possibilità, e assisteremo alla costituzione di un’organizzazione o di un partito rivoluzionario. Ogni nuovo partito operaio è destinato per definizione a contrapporsi ai partiti già esistenti; così non è da escludersi che un cambiamento della situazione faccia nascere nuove organizzazioni rivoluzionarie che, facendo tesoro dell’esperienza passata, riconoscano non più a parole il primato della classe sul partito e non permettano a quest’ultimo di degenerare come fine a se stesso. Ma, intanto, bisogna deplorare una volta per tutte la sopravvivenza di formazioni tradizionali e l’inesistenza di organizzazioni rivoluzionarie nuove, che rispondano alle autentiche esigenze di lotta della classe proletaria. Il movimento socialista e il movimento studentesco sono due cose ovviamente diverse. Ma ciò non vieta agli studenti di essere socialisti e di prender parte come tali alla creazione di nuove organizzazioni rivoluzionarie. Tuttavia, finché gli operai non si uniscono ai loro sforzi, queste organizzazioni, lasciate a sè, sono incapaci di cambiare alcunché dell’ordine costituito, pur essendo senza dubbio adatte a far fronte a certi bisogni della vita universitaria. In compenso, quando i lavoratori stessi stanno per crearsi una coscienza di classe rivoluzionaria, l’attività a parole e fatti nella quale gli studenti s’impegnano può contribuire ad accelerare il corso degli eventi. Da questo momento in poi il movimento studentesco dovrà cessare di esistere in quanto tale e rifluire nei movimento operaio, diventando una parte, senza interessi specifici da difendere, del movimento più generale. Possibili prospettive Nella misura in cui il miglioramento della condizione operaia nei paesi capitalistici fa parlare di un imborghesimento dei lavoratori, si sente dire spesso che più s’intensificano le applicazioni della scienza alla produzione, più si proletarizzano le professioni intellettuali, i cui membri provengono dalla piccola borghesia. Ora ne l’uno ne l’altro di questi fenomeni ha un aspetto così chiaro, così netto. Infatti, il primo non ha prodotto nessun mutamento nei rapporti di produzione capitalistici: come sempre i lavoratori sono posti in una situazione di sfruttamento di fronte al capitale; come sempre la loro esistenza dipende dalle possibilità di valorizzazione che si offrono al capitale. “Imborghesiti” essi lo sono soltanto nel senso che si considerano soddisfatti (ma ciò è raro) dell’ordine vigente, a patto che il loro livello di vita migliori sempre più. Quanto poi al fatto che la produzione assorbe un numero sempre crescente di lavoratori aventi una formazione universitaria, ciò non è certo sufficiente a fare di questi ultimi dei proletari. Grazie alla divisione capitalistica del lavoro, essi raggiungono infatti degli stipendi che permettono loro di avere un tenore di vita piccolo-borghese. Essi hanno spesso la possibilità di cambiare lavoro, passando così dall’azienda all’università e viceversa; quindi, sta a loro, a loro soltanto, di fare talvolta un lavoro produttivo e tal’altra un lavoro improduttivo. Se nel primo caso la loro esistenza è sottoposta all’alea della valorizzazione del capitale, essa continua nel secondo ad essere legata a salari e redditi professionali. Così, questi due tipi di dipendenza sono strettamente imparentati.

Come il salario degli operai, così gli stipendi dei ricercatori scientifici e dei tecnici rappresentano una frazione dei costi di produzione. Fissati molto spesso in maniera arbitraria, essi sono tuttavia determinati generalmente sulla base della legge della domanda e dell’offerta. Essi non sono mai misurati in funzione della produzione degli interessati, poiché questa non si può misurare. L’industria funziona come un tutto in cui ogni fattore è strettamente collegato con gli altri; non è quindi possibile distinguere nel prodotto globale i rispettivi apporti delle due categorie di salariati. Nonostante tutto, si può parlare a ragione di una produttività specifica di ciascuno di essi, tanto più che per ogni posto di lavoro individuale le spese di riproduzione del lavoro complesso sono di gran lunga superiori a quelle del lavoro semplice. Qualcuno ha anche sostenuto che gli elevati stipendi dei ricercatori e dei tecnici… riflettono l’apporto diretto di questi ultimi al progresso tecnico, di modo che se questi emolumenti rappresentassero da soli i costi di produzione, sempre a patto che i meccanismi del mercato funzionino perfettamente, potrebbero servire come strumenti di misurazione delle trasformazioni tecniche. [18] Comunque sia, ricercatori e tecnici non si considerano nè come gli sfruttatori di una forza-lavoro di tipo diverso, nè come agenti del capitale incaricati di accelerare l’estrazione del plusvalore, ma come elementi della produzione pagati in proporzione della loro efficienza. Finché le cose vanno bene, finché cioè continua la situazione di benessere, non c’è motivo di lamentarsi. Favoriti dai rapporti sociali, essi sono generalmente dei conservatori e hanno tutto l’interesse a mantenere l’ordine costituito. L’ideologia neutra della scienza apre loro un campo di azione tra i più vasti: non più delle altre “irrazionalità” inerenti al sistema capitalistico, il fatto che la produzione bellica abbia delle finalità di sterminio non interrompe il corso della ricerca scientifica. Ricercatori e tecnici devono i loro elevati stipendi ai progressi compiuti non soltanto in materia di tecniche ma anche di potenziale di distruzione, che dipendono da essi e costituiscono l’altro volto dell’incremento delle “forze produttive del capitale”. E, poiché i progressi indispensabili all’aumento di questi stipendi sono legati alla valorizzazione del capitale, la rimessa in moto dei meccanismi di crisi non può che portare danno alla loro florida condizione. Proprio come la disoccupazione, in ragione della relativa diminuzione dei posti di lavoro, viene a colpire maggiormente gli operai della giovane generazione che quelli delle generazioni precedenti, così ogni calo della congiuntura tocca ben più le prospettive d’impiego degli studenti che quelle dei ricercatori e dei tecnici che hanno già un posto. E quando il ciclo economico riduce a sua volta questi ultimi alla disoccupazione, le possibilità di riuscita degli studenti sono doppiamente compromesse. L’insicurezza generale dell’esistenza, di cui sono indotti così a prendere coscienza, li spinge a reagire politicamente, poiché i problemi personali derivano dalla situazione sociale nel suo complesso. Dopo la seconda guerra mondiale, l’insicurezza collettiva non era di carattere principalmente economico; essa era originata piuttosto dalla politica delle potenze capitalistiche che faceva balenare la minaccia di un nuovo olocausto, escludendo contemporaneamente ogni “normalizzazione” della vita sociale. Il conseguente malessere all’interno di quelle categorie della popolazione che non beneficiavano direttamente di questo stato di cose, o che non erano costrette ad adattarvisi — quindi soprattutto nell’ambiente studentesco — assunse la forma di un movimento di opposizione alla guerra e di manifestazioni contro i crimini perpetrati dai dirigenti imperialisti. Questo movimento servì come base alla critica della società capitalistica e alla crescente certezza che

un’esistenza degna di essere vissuta è decisamente inconcepibile sulla base di quest’ordine sociale. Poiché questa situazione non e destinata a cambiare nel prossimo futuro, ci si può solo aspettare che le contraddizioni tipiche del capitalismo si aggravino. All’insicurezza generale — contrassegnata dalla corsa agli armamenti nucleari, dall’esacerbarsi delle lotte di liberazione nazionale e dalle conseguenti reazioni degli Stati imperialistici, dalla disgregazione interna delle grandi potenze, dal raddoppiamento della concorrenza economica, dall’entrata della Cina e dal rientro del Giappone nell’ambito delle nazioni imperialistiche, ecc. — si aggiunge ora il declino economico dei paesi capitalistici, che non mancherà di avere delle ripercussioni sull’economia mondiale nel suo insieme. Ci limiteremo ad osservare a questo punto, senza dilungarsi troppo, che questa crisi colpisce i ricercatori e i tecnici — e quindi la giovane generazione studentesca così come gli operai. In America, per esempio, la disoccupazione è anche più alta tra i primi che non tra i secondi. Ciò deriva in parte dalla riduzione dei crediti militari provocata dalla crisi, poiché il 63% circa dei quadri scientifici e tecnici lavorano direttamente o indirettamente per la macchina bellica. Ma anche nel settore privato queste categorie sono ridotte al lastrico. Contemporaneamente, viene annullato il loro tenore di vita piccolo-borghese; non soltanto si proletarizzano, ma vengono anche a fare concorrenza ai lavoratori manuali in cerca di lavoro. Così ora si è giunti a una situazione tale per cui un numero certo limitato, ma crescente, di studenti e di persone che hanno una preparazione universitaria non trovano posti adeguati alla loro qualificazione, di qui un inizio di “proletarizzazione”. Ciò non fa che rafforzare la tendenza ad un crescente sfruttamento dei lavoratori intellettuali e alla riduzione dei loro stipendi, legati al deterioramento della congiuntura. Con la recrudescenza della disoccupazione, questa tendenza si fa infatti sentire nel loro caso molto più fortemente ancora che in quello degli operai dell’industria, meglio organizzati per resistere. Nel complesso tuttavia, la forma gerarchica della divisione e del modo di remunerazione capitalistica del lavoro resta intatta; anche la condizione dei quadri scientifici e tecnici, per lo meno della grande maggioranza, non è per niente paragonabile alla condizione degli operai. D’altro canto, rimane sospesa la minaccia della “proletarizzazione”, e tutto porta a credere che la radicalizzazione degli studenti e degli operai ne sia una conseguenza. Allo stesso modo che gli studenti dei paesi sottosviluppati sono frustrati nelle loro speranze e non vedono altra possibilità di progresso, di cui non saranno gli ultimi a beneficiare, se non in una trasformazione della società, gli studenti dei paesi avanzati non ignorano che la sopravvivenza del sistema capitalistico rischia di fare di loro dei declassati. Essi immaginano quindi che in una società diversa le loro capacità riceveranno giusto riconoscimento, che le leve di comando andranno non più ai detentori del capitale, ma agli specialisti della scienza e della tecnica così come alle altre categorie d’intellettuali, e che le strutture avranno un diverso carattere, più sociale. Consciamente o inconsciamente, l’adesione alle tesi leniniste starebbe à significare niente altro desiderio che di difendere una posizione sociale a cui il capitalismo minaccia di attentare. Se, come Marcuse sembra suggerire, è necessario “trattare con le molle le nozioni di proletariato e di dittatura del proletariato”, non si dovrebbe nemmeno più parlare di potere o di dittatura degli intellettuali. E’ soltanto in seguito al sequestro esercitato da un partito, il quale si confonde con lo Stato, sulla società e all’attuazione di forme nuove di oppressione che gli intellettuali possono acquisire, all’interno dell’apparato statale e del partito, un certo

diritto di cogestione, diritto per altro precario, poiché questo stesso apparato è sempre in grado di toglierlo loro. Nei “paesi socialisti”, il potere è l’appannaggio non degli intellettuali — in quanto tali — ma dei politici di carriera che fanno loro concorrenza e che solo in parte provengono dagli ambienti intellettuali. A somiglianza dei lavoratori manuali, i quadri scientifici e tecnici, così come altre categorie di lavoratori intellettuali, sono soggetti a una nuova classe che, disponendo dei mezzi di produzione, monopolizza contemporaneamente il potere politico. Come per il passato, essi costituiscono senza dubbio, in ragione del loro livello di vita, una classe privilegiata, ma i loro privilegi sono legati alla perpetuazione della divisione capitalistica del lavoro e non modificano per nulla la loro situazione di dipendenza.Si può capire la società capitalistica soltanto partendo dai rapporti di produzione e, reciprocamente, non si può concepire il socialismo se non come l’abolizione di tali rapporti. Esso ha dunque come punto di partenza obbligato le lotte sociali che mirano a sopprimerli e quindi s’identifica, in sostanza, con la lotta dei lavoratori contro i capitalisti che personificano il capitale. Poiché quest’ultimo ha le redini della produzione e della circolazione dei beni, i lavoratori in generale, sia nell’una che nell’altra sfera, si collocano di fronte ad esso come suoi nemici; è quindi assurdo riservare ai soli lavoratori produttivi la possibilità di avere una coscienza di classe rivoluzionaria. Proprio in quanto questo carattere “produttivo” ha senso soltanto nel contesto dei rapporti di sfruttamento capitalistici, esso non ha più nessun significato all’interno di una società socialista. Dal momento in cui non si mira più a produrre plusvalore, sparisce il problema della sua realizzazione e della sua ripartizione e, contemporaneamente, la distinzione — tipica del capitalismo — tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Senza dubbio, anche quando sarà più facile passare da un lavoro ad un altro e sfuggire alla specializzazione, la divisione del lavoro sussisterà. Ma essa non avrà più niente a che vedere con questa distinzione, poiché tutti i lavori socialmente necessari sono equivalenti. Essa si distinguerà dalla divisione capitalistica del lavoro per il fatto che saranno abolite soltanto le attività inerenti ai rapporti di proprietà capitalistici o miranti a difenderli e rafforzarli. Quando la riproduzione della vita sociale sarà organizzata su basi socialiste, gli studenti e i ricercatori scientifici diverranno anch’essi dei lavoratori produttivi, e non si misurerà più la produttività particolare del loro lavoro così come non si misurerà più quella dei lavoratori manuali. Perciò scuole e università faranno parte integrante del processo della produzione sociale, come d’altra parte lascia sperare il carattere sempre più scientifico assunto oggi dalla produzione. La socializzazione generale, basata su una produzione e aziende socializzate, sarà così dotata di una base organizzativa che, grazie al diritto di tutti a disporre del prodotto del lavoro di tutti, avrà l’effetto di eliminare di colpo l’antagonismo capitalistico tra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Paul Mattick, 1971 -------------------------------------------------------------------------------- [1] Cfr. la serie di articoli su “Lavoro produttivo e lavoro improduttivo nel sistema capitalistico” in Sozialislische Polititik (Berlino) n.6-7 e 8, giugno e settembre 1970, con i contributi di Joachim Birchoff, Iictner Gansmann, Gudrun Kiimmel, Gerhard Lóhtetn; Christoph Iliibner, Ingrid Pitch, Lothar Riehn; Elmar Altvater, Frecrk lluisken. [2] Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poichè mancava nella prima versione dell’opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuvres Economiques, ed. Rubel, Il, Partgi 1968, p. 388. (N.d.T.)].

[3] Cfr. Theorien, pp. 368-369 [Questo frammento non figura nella traduzione di Molitor, poiché mancava nella prima versione dell’opera; se ne troverà una traduzione in Karl Marx, Oeuvres, Economie, ed. Rubel, Il, Parigi 1968, p. 388. (N.d.T.)]. [4] Theorien, p. 387. [5] Theorien, p. 387. [6] Theorien, lì. 382 (Cfr, anche K. Marx, Oeuvres Il, op. cit., p. 401). [7] Kart Marx, Il Capitale, I, 3 [8] Cfr. ad esempio Joseph Gillman, Prosperity in Crisis, New York, 1965 e The Falling Rate of Profil, Londra 1957; Paul Baran e Paul Sweezy, Le Capitalisme monopoliste, Parigi 1969 [ed. italiana: il Capitale monopolitico, Einaudi, 1967]; Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino 1968. [9] Sozialistische Politik, n. 8, pp. 52-53. [10] Sozialistische Politik, n. 8, p. 53. [11] Cfr. Franhfurter Rundschau, 5 dic. 1970, p. 4. [12] Cfr. Franhfurter Rundschau, 5 dic. 1970, p. 4. [13] Cfr. Frankfurter Rundschau, cit. [14] Frarnkfurter. Rundschau, cit. [15] Sozialistische Politik, n. 8, pp. 78-79 [16] Sozialistische Potilik. n. 8, pp. 78-79. [17] Frankfurter Rundschau, cif. [18] R. R. Nelson, “Aggregate Production Functions and MediumRange Growth Projection”, The Arnerican Economie Reuieto, sett. 1964, p. 591.