l'angelo oscuro

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di Jacopi Delia, urban fantasy Alessio, silenzioso e introverso, durante una festa conosce Anastasia, cantante dalla voce delicata e potente, di cui si innamora. La ragazza, ugualmente coinvolta, è tuttavia incapace di abbracciare l’ipotesi di una lunga e solida relazione. Quando la madre di Anastasia, malata di cancro, viene uccisa dalla malattia, le cose tra i giovani cambiano e la ragazza trova finalmente in Alessio l’unica ragione per vivere. Il rapporto tra i due ricomincia e prosegue indisturbato, ma una sera, mentre passeggia per le strade del centro, Alessio scopre che sua sorella Chiara è stata brutalmente violentata. Dopo giorni di agonia, Chiara, distrutta dall’orrore e dalla vergogna, decide di uccidersi, provocando nel fratello una profonda crisi esistenziale. L’incontro con una donna misteriosa, Maddalena, porta Alessio a dover affrontare una decisione che cambierà per sempre il suo modo di vedere la realtà. È meglio essere un semplice, amato essere umano, o un solitari

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JACOPO DELIA

L’ANGELO OSCURO

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L’ANGELO OSCURO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-623-3 Copertina: immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Novembre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o personaggi è da ritenersi puramente casuale.

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Ringrazio enormemente i miei genitori per il lungo sostegno che mi hanno prestato durante i miei lavori.

Un grazie va a Lorenza e Andrea per l’incredibile partecipazione

e lo splendido lavoro svolto nella realizzazione della copertina. Siete stati fantastici!

Grazie a Davide, un grande amico le cui parole mi hanno dato la

forza di credere in me stesso.

Infine, grazie a te, Mary, perché alla fine chiunque ha bisogno di una persona da cui trarre l’ispirazione.

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A Laura Ronzoni che da sempre veglia su di noi

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Aspettavo che arrivasse la notte, ormai era l’unica cosa che contava. Dalla finestra della mia camera entrava la luce debole del tramonto. Guardai l’orologio alle mie spalle; segnava le cinque e ventisette. Mi ven-ne quasi da sorridere. Giorni prima uscivo non appena il sole varcava la linea dell’orizzonte, mentre adesso non me ne importava nulla. Desideravo solo vedere Anastasia. Come potevo sapere se stava davvero bene? Di fronte a me c’era il letto nel quale avevamo imparato ad amarci. Era sfatto. Fra quelle lenzuola e quelle coperte aggrovigliate, mi sembrava di vederci avvolta lei, mentre dormiva su un fianco, dandomi la schiena, se-minascosta dai suoi lunghi capelli scuri. Di lei era rimasto solo l’odore. C’era poi anche uno stereo, proprio sul mobiletto accanto alla sedia sulla quale me ne sto ad aspettare. Le musiche dei Nightwish si fondevano alla delicata voce di Anastasia ogni volta che stavamo insieme, come un deli-zioso sottofondo. Il bello è che non ho idea di quando sia sparito. Mi sem-bra che sia successo esattamente nello stesso momento in cui lei se ne è andata e mi verrebbe da credere che se lo sia portato con sé, magari con la speranza che io me lo andassi a riprendere. La verità è che di quello stereo non me ne era mai importato granché. Era un vecchio regalo di compleanno che ricevetti forse un milione di anni fa e che se ne era rimasto nella sua scatola finché non era stata Anastasia a notarlo la prima volta che era entrata nella mia camera. Lo aveva tirato fuori, spolverato per bene e sistemato sul mobiletto. Aveva fatto partire la musica che più le piaceva per poi trascinarmi nel letto. Il motivo per cui ho memoria di quell’oggetto è che lo collego alla prima volta in cui facemmo l’amore. All’epoca stavamo insieme soltanto da qualche mese, ma ci amavamo davvero tanto. Perderla è stato come per-dere me stesso. Del resto, come posso biasimarla per la sua scelta? La colpa è stata tutta mia, come è per colpa mia che è successo tutto. Purtroppo, essere costretto a restarmene fermo tutto il giorno ad aspettare che scocchi l’ora del nostro appuntamento è qualcosa che mi fa impazzire. Per questo ho deciso di comprare un registratore. Sostituisce il vecchio stereo, però non fa rumore, anzi, diciamo che sta aspettando soltanto di essere acceso e di sentire quello che ho da dire. Chissà se anche lui si in-furierà come ha fatto Anastasia…

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Primo Capitolo

1 2010 Il sogno di Anne era sempre stato quello di diventare una cantante profes-sionista. Un sogno scontato, si potrebbe pensare; tipico appartenente alla lista dei Voglio fare l’attore!, Che bello diventare uno scrittore famoso! Eppure, in Anne c’era qualcosa di diverso. Non tanto il fatto che ci tenesse più di altri; bastava sentirla cantare, anche per una sola volta, e subito non si poteva non capire cosa significasse davvero quel sogno. Anastasia era fatta per cantare. La sua voce era delicata, caratterizzata da una fragile femminilità, ma al contempo ripiena di una spropositata poten-za, capace di spiazzare qualsiasi ascoltatore. E per fortuna era un talento che non veniva sprecato. Insieme a Michele, Carmine e Matteo aveva messo su un gruppo da ormai più di un anno e mezzo. Dapprima i quattro si cimentavano maggiormente nell’esibizione di cover di alcune incredibili voci femminili come Sharon Den Adel, approfittando dell’impeccabile capacità della giovane cantante. Era proprio Anastasia a convincere i gestori dei locali dove chiedevano di potersi esibire. Dapprima, il pubblico si trovava ad ascoltare una base mu-sicale di media qualità, ma quando la voce femminile irrompeva nella sce-na, chiunque si trovava costretto ad abbandonare ogni critica. Come ave-vano fatto quei tre a trovare quella ragazza?

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2 Era la sera di capodanno dell’anno 2010. Nei giorni precedenti, prima che l’università chiudesse per le vacanze natalizie, Alessio Giordani era stato invitato da Andrea Fortis a passare con lui e la sua morosa l’ultimo dell’anno in un locale appena fuori città, dove dicevano che c’era della buona musica. Alessio non aveva capito il motivo di un invito del genere. Se c’era una fe-sta che odiava era capodanno. Non riusciva a sopportare l’idea di dover andare in un ristorante o in qualsiasi altro posto, soltanto per aspettare la mezzanotte. Fino a quell’ora di solito non si faceva niente. Cosa avrebbe fatto lui, da solo, con una coppia di fidanzatini? «Ci sarà anche Fra!» aveva promesso Andrea, divertito dalla reazione dell’amico. «Poi, se non sbaglio, qualche amica di Melania.» «Spero che non sia una trappola come l’ultima volta» si era raccomandato Alessio tra sé e sé. «Spero di no!» aveva riso Andrea. «E perché proprio in quel locale?» aveva chiesto Alessio. «Quanto è lonta-no da qui?» Andrea ci aveva pensato un po’ su. «Una ventina di chilometri» aveva risposto alla fine. Alessio lo aveva guardato incredulo, sperando che l’amico scherzasse. «Andiamo!» lo aveva esortato quello. «È solo perché fra i gruppi che si e-sibiscono ce n’è uno dove canta un’amica di Melania. Sennò dove vai? Al ristorante con i tuoi?!» Alessio aveva finito per accettare. Non era un ragazzo così amante della solitudine, semplicemente non amava quei luoghi dove la gente si ritrova tutta ammassata; dove per respirare è necessario scavare fra persone appic-cicate le une alle altre. A convincerlo, poi, era stato il fatto che ci sarebbe stato anche Francesco – l’unico amico che non se ne sarebbe andato in va-canza da qualche parte – e d’altro canto, passare capodanno insieme agli amici dei suoi genitori non era un’idea poi così allettante; non importava che fosse una festa di cui non gli importava nulla. Perché non poteva essere semplice come per Chiara? Sua sorella era di qualche anno più grande di lui e aveva già programmato di andarsene a Roma con Paolo, il fidanzato, insieme ad altre tre belle coppiette. A lui non era mai capitato, però sapeva già che era il modo migliore per uno come lui

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di trascorrere quella festa. Chiara, infatti, aveva il suo stesso carattere e ormai non vedeva l’ora di partire per la vacanza dell’ultimo dell’anno.

3 Anastasia Viviani aveva appena abbandonato l’ospedale. Giusto un paio di minuti prima si trovava in quella piccola stanza, piena di letti vuoti al di fuori di quello in cui riposava sua madre. Sapeva benissimo che sia suo pa-dre che suo fratello quella sera sarebbero rimasti con la donna; era quello che avrebbe fatto anche lei. Esibirsi con il suo gruppo era forse la cosa che amava di più, ma negli ultimi tempi sua madre si stava allontanando trop-po; non poteva lasciarla sola proprio la sera dell’ultimo dell’anno. E invece, in quel momento era a bordo della sua Golf del 2007, diretta ver-so quel lontano locale. Era stata la donna a esortarla ad andare. La sua vo-ce, anche se debole e spenta, l’aveva quasi pregata di portare a termine quello spettacolo; forse perché sapeva quanto la figlia ci tenesse e non vo-leva essere di certo lei la causa di un’occasione sprecata. Aveva nevicato solo una volta quell’inverno e non era stata una grande bu-fera. La cosa bella era stata soltanto che le vacanze natalizie erano iniziate con un giorno di anticipo, dal momento che la maggior parte dei ragazzi si trovava a viaggiare a un’ora del mattino durante la quale le strade erano ricoperte da spessi strati di ghiaccio. Anastasia abitava in città, per arrivare all’università impiegava di media quindici minuti in autobus; il problema del ghiaccio la riguardava solamente quando doveva attraversare a piedi un piccolo ponte per raggiungere la propria sede. I fari della Golf illuminavano il sottile strato di ghiaccio presente sull’asfalto. Le venne quasi da ridere; era la prima volta, da quando aveva la patente, che guidava per andare così lontano, in pieno inverno, e per di più in un posto che non conosceva per niente. La sua unica fortuna era che due mesi prima suo padre aveva pensato di comprare un piccolo navigatore satellitare. A evitare che si perdesse era rimasta soltanto la voce di Berlu-sconi che l’avvertiva quando svoltare. Chissà se gli altri erano già arrivati? Avrebbero anche potuto venirla a prendere magari. Che bisogno c’era di andare là con sette ore di anticipo per provare dieci minuti e verificare il funzionamento degli strumenti? Era

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l’unica cosa che non sopportava dei concerti: l’ossessione di Michele per le prove immediatamente precedenti l’esibizione. Quel giorno Anastasia non stava molto bene. Il medico aveva parlato con suo padre, riferendogli che la situazione della moglie peggiorava molto ve-locemente. Incapace di concentrarsi sulla guida, la mente della ragazza si perdeva in vecchi ricordi, alcuni risalenti a pochissimi mesi prima: sua ma-dre che preparava insieme alla nonna il pranzo di pasqua e, solo una setti-mana dopo, incapace di alzarsi da letto. Quella sera avrebbe fatto l’ultimo concerto dell’anno 2010 e, forse, era l’ultimo 31 dicembre in cui avrebbe visto sua madre.

4 Alessio lo aveva immaginato fino all’ultimo momento. Il locale non era male dal punto di vista estetico, però era terribilmente affollato. La loro fortuna era che Andrea aveva prenotato per cinque persone, perché all’ingresso avevano dovuto aspettare più di mezz’ora prima di essere as-segnati a un tavolo. Inoltre, fra quelle cinque persone, non c’era nessun Francesco. Il buon vec-chio scout lo aveva abbandonato all’ultimo momento, lasciandolo solo con la bella coppietta e altre due amiche della simpatica Melania. Oltretutto Alessio non aveva la patente, mancavano ancora due settimane al suo esa-me di guida, per cui non poteva nemmeno tentare una fuga disperata. Stava seduto al tavolo. Andrea, alla sua sinistra, continuava a fare stupide battute per sciogliere la tensione creatasi tra i presenti. Per fortuna Andrea non lo aveva lasciato solo con la sua morosa, aveva pensato Alessio. Le due amiche di Melania erano totalmente inespressive. Lui stesso, d’altra parte, non era un tipo poi così loquace, ma quando si trovava con certe per-sone si lasciava andare. Erano passate da poco le nove quando si erano se-duti a tavola. Non poteva mancare ancora così tanto a mezzanotte! Improvvisamente, al tavolo arrivarono tre ragazzi. Due erano piuttosto seri, mentre il primo aveva un benevolo sorriso stampato sulle labbra. «Teo!» esclamò Andrea alzandosi in piedi e andando incontro all’amico. I due si strinsero la mano. «A che ora suonate?» gli domandò.

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«Intorno alle undici» rispose quello. «Ciao Mela!» esclamò, salutando Me-lania seduta al tavolo. «Ciao, Teo!» lo salutò la ragazza per poi riprendere a parlare con le sue amiche. Ma scusa, non avevano detto che c’era una ragazza in quel gruppo? Si domandò Alessio, guardando confuso ogni persona attorno a lui. «Vi state divertendo?» domandò Matteo parlando ad Andrea, ma come se aspettasse una risposta da tutti. Ad Alessio scappò un debole sorriso di sconforto. Andrea lo notò e gli sferrò un molle schiaffo sulla nuca. «Tantissimo!» rispose Alessio, con finta fermezza. «Matteo» disse il ragazzo, presentandosi e porgendogli la mano. «Alessio» disse l’altro afferrandola. «Scusate, ma Anne dov’è?» domandò improvvisamente Melania irrom-pendo nel discorso. «Dovrebbe arrivare ormai» rispose Matteo sorridendo. «Era da sua ma-dre.» Nessuno parlò, quasi tutti abbassarono lo sguardo tranne Alessio. Di cosa diavolo stavano parlando? Quella serata stava superando i limiti sopportabili della noia. I minuti passavano e loro se ne restavano sempre seduti a quel maledetto tavolo, parlando di tanto in tanto. Chi gliel’aveva fatto fare?!

5 Finalmente Anastasia arrivò davanti al locale. Era davvero un posto sper-duto; di chi era stata l’idea di suonare in un postaccio così? Avrebbe voluto che i gestori, sentendo le loro registrazioni, avessero scelto di scartarli. Di gente però ce n’era davvero tanta, questo doveva ammetterlo. Purtrop-po, quel piccolo parcheggio sembrava essere stato costruito con la previ-sione di dover contenere non più di una decina di macchine. Di posto non ce n’era, come avrebbe dovuto fare? Si fermò proprio davanti all’entrata, rovistò nella borsa e tirò fuori il tele-fono. Compose un numero, si portò l’oggetto all’orecchio e attese. «Anne?» domandò una voce maschile.

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«Vieni fuori?» gli domandò Anastasia, parlando quasi come se dettasse un ordine. «Hai bisogno?» domandò quello. «Sì, che vieni fuori!» rispose la ragazza seccata. Lasciò ricadere il telefono nella borsa e attese. Dopo pochi minuti un ra-gazzo piombò fuori dal locale, si avvicinò alla sua auto guardandola attra-verso il finestrino e aprì lo sportello. «Che stai facendo?» le domandò. «Dove cavolo dovrei parcheggiare?!» disse Anastasia nervosa. «Non c’è più posto?» chiese quello guardandosi intorno. «Sali in macchina» gli ordinò lei e il ragazzo obbedì. I due rimasero in silenzio per qualche secondo. «Come va, Anne?» domandò il ragazzo parlando con più calma. «Tutto bene» rispose quella accennando un debole sorriso. «Coraggio, esci» le intimò lui, indicandole l’uscita del parcheggio. «Guar-diamo se c’è posto lungo la strada.» Anastasia ingranò la prima e schizzò fuori dal parcheggio. Trovarono un posto per la macchina a un centinaio di metri da lì, lungo un marciapiede. La ragazza uscì dall’auto, aprì la portiera posteriore e prese un microfono. «Non hai provato se funziona» le fece notare il ragazzo, mentre tornavano al locale. «Ti prego, Michele!» si lamentò Anastasia. «Voglio usare il mio.» «Ne abbiamo già provato uno durante le prove» spiegò il ragazzo, tirando un calcio a un piccolo sassolino. «E allora?!» disse lei, allargando le braccia. «È solo un microfono. Si può sostituire sempre.» «Come sei nervosa, Anne!» commentò Michele fermandosi e sorridendo alla ragazza. «Sì, hai ragione. Scusa» scrollò la testa lei. «È che è stato un viaggio lun-go. Poi con questo tempo… » Smise di parlare. Un singhiozzo l’aveva interrotta. «Che c’è?» si preoccupò il ragazzo, mentre la ragazza cercava di nasconde-re il proprio viso. «Niente» rispose debolmente lei. «Niente, davvero.» La sua voce era spezzata, i singhiozzi perfettamente distinguibili tra le sil-labe. Michele riuscì a intravedere alcune lacrime scendere lungo le guance di Anastasia. «Ehi!» disse preoccupato prendendola delicatamente per le braccia. «Scusami» borbottò lei cominciando a piangere.

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«Vieni qua» la invitò lui, prendendola in un abbraccio, lasciando che ap-poggiasse la fronte al suo petto. Passarono diversi secondi in quel modo, nel silenzio di quella strada deso-lata. Stava scendendo una leggera nebbia, mentre l’aria cominciava a raf-freddarsi sempre di più. Anastasia staccò il proprio viso dal petto di Miche-le, si asciugò le lacrime col colletto della felpa che portava sotto la giacca. «Va meglio?» le domandò il ragazzo, cercando di farla sorridere. Lei annuì diverse volte, fece un respiro profondo. «Stai attenta adesso, mi raccomando» disse lui, sorridendo. «So bene che tra te e il ghiaccio non c’è un gran feeling.» Anastasia rise debolmente. Si fece forza e finalmente tornarono al locale. Davanti all’entrata c’era Melania, insieme alle altre due sue amiche. Quan-do vide la cantante avvicinarsi, le corse incontro e la salutò baciandola su entrambe le guance. «Finalmente, Anne!» esclamò. «Che fine avevi fatto?» «Non ho un grande senso dell’orientamento» scherzò Anastasia. «Non c’è Andrea?» «Oh, sì!» rispose Melania. «È dentro con un suo amico, ma non te lo con-siglio. È un ragazzo che non dice mai una parola.» «Beh dai» disse Anastasia alzando le spalle. «Saluterò comunque Andrea.» Insieme a Michele si allontanò dalle tre ragazze ed entrò nel locale. Subito l’avvolse una fastidiosa ondata di calore, mischiato a un leggero odore di sudore. Si fece largo attraverso le persone e i tavoli guidata da Michele e, finalmente, arrivò al tavolo dove stava Andrea. Appena si ac-corse di lei, il ragazzo si alzò subito in piedi. «Anne!» esclamò contento. «Ciao, Andrea!» disse lei abbracciandolo. «Allora non sei morta!» «No, no» rise la ragazza. «L’ho già detto anche a Mela. Tutto bene?» «Tutto bene» annuì quello. «Ormai vogliamo sentirvi suonare però.» «Sono venuta solo per questo» spiegò Anastasia. Il suo sguardo cadde alle spalle di Andrea e si concentrò sul ragazzo che stava seduto al tavolo con le braccia incrociate al petto. Anche lui, che prima osservava il vuoto davanti a sé, spostò i suoi occhi su di lei. Si fissa-rono per diversi secondi, senza accorgersi degli sguardi confusi degli altri due ragazzi che erano con loro. «Anastasia… » mormorò lentamente Andrea «… lui è Alessio… » «Molto piacere» disse il ragazzo, improvvisamente, saltando in piedi e porgendo la mano alla ragazza.

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Lei la strinse, senza distruggere l’espressione intontita stampata sul proprio viso. «Piacere» borbottò. Nessuno dei due si accorse dell’occhiata che si lanciarono Michele e An-drea. «Ma… vi conoscete?» domandò il primo. «Come?» mormorò Anastasia, tornando sulla terra. «Vi conoscete?» ripeté Michele sorridendo. «Io non credo… » fece per dire Alessio. «No, non ci conosciamo» lo interruppe la ragazza, guardandolo. «Lo avevo scambiato per qualcun altro» aggiunse accennando un sorriso. «Ah» disse confuso Andrea. Dal palco a una decina di metri da lì, si udì una rumorosa rullata di batteri-a. Il primo gruppo della serata aveva appena iniziato a esibirsi. Un trio di ragazzi cominciò a suonare una canzone, in stile rock, che Anastasia in un primo momento non riuscì a riconoscere. «Tra poco tocca a noi!» esclamò, volgendosi a Michele. «Vuoi esercitare un po’ la voce?» le domandò quello. «È meglio» annuì lei, parlando come presa da un’improvvisa ansia. «Scu-sate, magari ci vediamo più tardi!» aggiunse, rivolgendosi ai due ragazzi che stavano al tavolo. «In bocca al lupo!» le gridò Andrea, mentre si allontanava da loro. Anastasia non aveva sentito l’augurio. La sua mente stava viaggiando in un’altra direzione. Aveva visto un ragazzo che le piaceva, da un punto di vista estetico le piaceva davvero tanto. Quella sera voleva cantare, ma sa-peva che aveva bisogno di fare qualcosa di più. Aveva bisogno di sfogare la sua tensione, facendo qualcosa che non aveva mai fatto prima.

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6 La osservai allontanarsi tra la folla, per poi sparire dietro una porta. Co-minciai a immaginarmi cosa ci potesse essere dall’altra parte di quella parete, mi chiedevo dove se ne stesse andando, anche se lo sapevo benis-simo. Anche Andrea, accanto a me, l’aveva osservata mentre se ne andava, ma l’aveva fatto soltanto per cercare di comprendere il mio atteggiamento. Del resto non lo sapevo nemmeno io: cosa mi stava capitando? «Chi è quella?» domandai, sapendo di parlare a me stesso. «Come chi è?» disse Andrea, guardandomi come se fossi un pazzo. «Accidenti!» mormorai a bassa voce. Mi lasciai cadere sulla mia sedia, appoggiai i gomiti al tavolo e mi portai le mani fra i capelli. «Non ti ho mai visto così per una ragazza!» commentò Andrea, sedendomi accanto. Io scrollai la testa, sorridendo. «Ricordami di ringraziarti per avermi portato qui» gli dissi, dandogli una pacca sulla schiena. «Se fino a un attimo fa volevi uccidermi!» mi ricordò lui. «Fino a un attimo fa non l’avevo vista» precisai, lanciando un’occhiata alla porta dietro la quale Anastasia era sparita. «Ma sei sicuro di non conoscerla?» mi interrogò Andrea curioso. «Certo, perché?» «Ti ha guardato come se ti conoscesse» spiegò lui. «Non ti sei accorto del-la faccia che ha fatto?» «In un certo senso sì» risposi io giocherellando con uno stuzzicadenti. «Ma solo perché me lo hai fatto notare. Ero troppo perso a lasciarmi in-cantare.» «Andiamo!» esclamò lui. «Mi sembri il protagonista imbranato di un’orrenda commedia d’amore. Basta dire che te la vuoi fare. Non c’è bi-sogno di dedicarle delle poesie.» «Non sono così esagerato!» protestai io. «Sto solo dicendo che quella ra-gazza mi interessa, André. Sai com’è quando vedi una e dici: quella ragaz-za deve essere mia.» «Sì» annuì lui, bevendo dal suo bicchiere. «Sì… lo so benissimo.» «Andiamo, sai cosa voglio dire!» lo ripresi, cercando per scherzo di sfer-rargli uno schiaffo senza riuscirci..

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«Ho capito!» disse lui. «Certo che se hai perso la testa per lei solo a ve-derla, non voglio sapere cosa succederà quando la sentirai cantare.» «È brava?» domandai. «Brava?!» ripeté lui, spalancando gli occhi. «Ha una presenza scenica in-credibile. Farebbe eccitare uno scoiattolo.» Quello che non riuscivo a capire era a cosa fosse dovuto l’interesse che provavo per quella ragazza. Era bella, era molto bella, ma nella mia vita ne avevo viste tante. Possibile che lei fosse più bella di tutte? Forse sì, perché no? Di certo, però, c’era dell’altro in lei. Era stata capace di tra-smettermi qualcosa che non riuscivo a spiegarmi, qualcosa che volevo co-noscere a ogni costo. Sapevo che avrei fatto di tutto anche solo per parlar-le. Inutile dire che il suo spettacolo fu scioccante. E usare un termine del ge-nere per definire la sensazione che provai non potrebbe essere scelta più appropriata. Sul palco c’erano quei tre ragazzi che si erano presentati al tavolo quando Anastasia non era ancora arrivata. Quello che meglio co-nosceva Andrea era alla batteria, quello che aveva accompagnato la ra-gazza al nostro tavolo per salutarci suonava la chitarra, mentre l’ultimo il basso. E alla fine era arrivata lei. Diavolo, com’era bella! Non c’era nulla al mondo che poteva essere paragonato a lei, e nessuna sensazione poteva descrivere quella che provai nel sentirla cantare le prime note di Ama-ranth. Non potevo essermi innamorato di una ragazza in un modo così sgraziato, ma qualcosa dentro di me ardeva da impazzire. Era un deside-rio, un desiderio irrefrenabile di stare vicino ad Anastasia; di parlarle, per sentire cosa aveva da dire. A dire la verità, credo che volessi solo sentire la sua voce, senza preoccuparmi realmente di quello che avrebbe detto.

7 Smisero di suonare quando mancavano meno di dieci minuti a mezzanotte. Noi nel frattempo ci eravamo alzati da tavola; Melania, insieme alle sue due amiche, si era avvicinata al lato del palco, dove Anastasia stava infi-lando il suo microfono in una piccola borsa. Andrea era rimasto con me, dall’altra parte della stanza. Continuava a esortarmi ad andare a parlare

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a quella ragazza. Il problema era che mi sentivo orrendamente impacciato. Volevo avvicinarmi, ma non avevo la minima idea di cosa dirle. La osservai porgere la borsa al chitarrista per poi salutare i membri del suo gruppo. In quel momento parlava con Melania, sembrava quasi che discutessero di qualcosa. Improvvisamente, lanciò uno sguardo verso di noi e subito dopo cominciò a venirci incontro, da sola. I suoi occhi erano concentrati su di me, si facevano strada attraverso la massa di gente che ballava. Ero convinto che stesse andando da qualcuno che si trovava esattamente alle mie spalle. Però dietro di me c’era soltanto il muro… Finalmente arrivò davanti a noi. Sulle sue labbra era stampato un delicato sorriso che non riuscii per niente a interpretare. «Complimenti, Anne!» le disse Andrea, nascondendo il proprio imbarazzo. Ero certo che Andrea credesse che gli avessi mentito, che in realtà cono-scessi quella ragazza. Altrimenti, perché sarebbe dovuta venire da noi? Perché venire da me? Mi sembrava troppo strano, troppo assurdo. Non stavo capendo più niente. «Grazie» disse lei, sorridendo con più convinzione al mio amico. Seguì un attimo di silenzio. Anastasia tornò a fissarmi e io ero incapace di sostenere quello sguardo. «Beh, io vado da Melania» annunciò Andrea, rompendo il silenzio. «Ci vediamo più tardi!» Si allontanò da noi, scomparendo tra la folla. Dove diavolo te ne vai? avrei voluto gridargli. Invece, ero rimasto lì. Ero solo con l’unica ragazza al mondo che mi avesse mai fatto perdere la testa in quel modo. Continuavo a chiedermi quale fosse il motivo del suo atteg-giamento, ma si trattava di una domanda che non richiedeva per forza una risposta esplicita. «Allora» disse Anastasia improvvisamente. «Ti stai divertendo?» Mi accorsi che avevo davvero voglia di sentirla parlare. «Non c’è male» risposi, accennando un sorriso. «Sentirvi suonare ha reso interessante questa serata.» «Non deve essere stato divertente fare la parte del terzo incomodo» com-mentò lei, volgendosi verso la parte della sala dove si trovavano Andrea e Melania. «Oh, no!» dissi io. «C’erano anche altre due ragazze con noi.» «Da quello che dice Melania non sei uno che parla tanto» disse lei. «Ma tranquillo, quelle due non sono simpatiche neanche a me.» Io risi.

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«Per fortuna!» esclamai con sollievo. «Almeno vuol dire che non sei come loro!» Anche Anastasia rise con me. «Ti va se andiamo al banco?» mi propose indicando il bancone del bar. «Oh, certo» annuii io. Ci spostammo sull’altro lato del salone e ci sistemammo sugli sgabelli. «Un bicchiere d’acqua» disse lei al barista. Nel frattempo, sul palco era salito un altro gruppo. Il cantante aveva ap-pena annunciato l’imminente arrivo della mezzanotte e poi tutti insieme avevano cominciato a suonare What a wonderful world, la versione dei Ramones. «Abiti in città?» domandai alla ragazza seduta accanto a me. «Purtroppo sì» rispose lei con un sorriso, incrociando le braccia sul ban-cone. «Sono venuta da sola fin qui. Non so come ho fatto a non perdermi.» «Da sola?!» ripetei io, sbalordito. «Ma scusa, il tuo gruppo?» «Erano qui da oggi pomeriggio» spiegò lei, mentre il barista le porgeva il bicchiere. «Sai, per provare il funzionamento degli strumenti.» «Capisco» dissi. Il gruppo sul palco aveva appena finito la canzone. Il cantante annunciò l’ultimo minuto del 2010, gran parte dei ragazzi si riunì sotto il palco. Mi accorsi che Anastasia, come me, non sembrava per nulla interessata alla cosa. Il palco era alle sue spalle e lei ignorava totalmente la voce del can-tante. «Credi che sia una brava cantante?» mi domandò a un certo punto, dopo aver bevuto un po’ d’acqua. Mancavano quaranta secondi. «Certo che lo penso» risposi io. «Adoro le vostre cover. Non avevo mai pensato di poterle sentire in un locale come questo.» Anastasia sorrise. Abbassò lo sguardo a terra per poi riportarlo subito su di me. «E io?» mi domandò seria. «Ti sono piaciuta?» Mancavo dieci secondi. Tutti a parte noi cominciarono a intonare l’ultimo conto alla rovescia. La domanda della ragazza mi aveva spiazzato, non mi accorsi che con lo sgabello mi si era avvicinata tanto da portare il suo viso a pochi centimetri dal mio. Annuii lentamente. «Sì» risposi a bassa voce. La mezzanotte era scoccata. Il frastuono delle voci per un attimo aveva stravolto il mio udito, ma poi era stato totalmente cancellato da due sottili labbra rosse che si stamparono sulle mie. Così morbide, delicate, insepa-rabili. A esse si accompagnò un delizioso profumo, il profumo di una ra-

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gazza fantastica. Le sue mani si calarono sulle mie, le presero e le porta-rono a stringere i fianchi di quella tenera vita. Era molto meglio del solito spumante, pensai fra mille pensieri. Anastasia si staccò da me. Mi guardava negli occhi restando vicina al mio viso. «Voglio andare via» mi sussurrò. «Non mi piace questo posto.» «Andiamo» annuii. Si alzò in piedi, io con lei. Ci dirigemmo fuori dal locale, passando attra-verso un mare di persone che non capivano più niente. All’esterno c’era molto freddo. Anastasia mi abbracciò, stringendomi forte, costringendomi quasi a fare lo stesso. «Torniamo in città?» mi propose, guardandomi dal basso verso l’alto. «Ti porterò a casa io. Non hai bisogno di dire niente ad Andrea.» La osservai confuso. «Dov’è la tua macchina?» le domandai, guardandomi attorno. «Un po’ lontana» rispose Anastasia. «Quando sono arrivata non c’era più posto nei dintorni.» Uscimmo dal parcheggio del locale, percorremmo a piedi una strada se-minascosta dalla nebbia. Finalmente trovammo una Golf nera parcheggia-ta a lato di un marciapiede. La ragazza salì in auto e mi invitò a fare lo stesso. Per un attimo esitai. Non capivo cosa stava succedendo. Quella ra-gazza mi piaceva più di ogni altra cosa. Eppure tutta quella situazione era assurda, priva di senso. Del resto, quando mai avrei avuto occasione di incontrarla di nuovo come quella sera? Mi abbandonai al mio istinto, ed entrai in macchina.

8 La radio era spenta. Anastasia non parlava, restava concentrata sulla gui-da, cambiando marcia di tanto in tanto, percorrendo quella strada di cam-pagna a una velocità media di settanta chilometri orari. Era molto buio e i cartelli che ci indicavano su quale strada proseguire per tornare in città erano piuttosto rari. «Conosci bene la strada?» le domandai decidendo che ne avevo abbastan-za di tutto quel silenzio. Anastasia annuì.

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«Sono stata molto attenta all’andata» rispose, con lo sguardo fisso davanti a sé. «Possiamo evitare di usare il navigatore.» Non la conoscevo così bene da giudicarla, anzi, per la verità non la cono-scevo per niente, ma il suo atteggiamento mi indusse a pensare che non aveva molta voglia di parlare. Ma allora perché portarmi con lei? Che si-gnificato aveva avuto quel bacio? Pormi queste domande mi fece gelare il sangue. Non c’era niente tra noi due. Ripercorsi col pensiero tutta la breve conversazione che avevamo a-vuto al locale prima di andarcene. Non ci eravamo detti niente. Evidente-mente, la sua presenza mi aveva astratto dalla concezione del tempo. Ave-vo avuto l’impressione che fossimo rimasti seduti al bar per diverse ore e, invece, non erano passati nemmeno dieci minuti. La differenza tra noi due era solo questa: io ero attratto da lei e lei voleva solo qualcuno che stesse con lei mentre se ne tornava a casa. Come avevo fatto a essere così stupi-do? Le lanciai uno sguardo. Dalla sua espressione mi sembrava che stesse pensando a qualcosa di importante. Fai bene a sentirti in colpa, pensai scrollando lievemente la testa così che non mi potesse vedere. Girai il ca-po verso la mia destra, fuori dal finestrino. La strada era buia, ma qualco-sa attirò la mia attenzione. Il paesaggio era totalmente desolato. La strada che percorrevamo attraversava un campo di granoturco congelato. La co-sa strana era che si trattava di un campo molto grande, troppo grande perché non me ne fossi accorto mentre ero in macchina con Andrea. «Dove mi stai portando?» le domandai, fingendo una divertita sorpresa. Anastasia accennò lievemente un sorriso, senza però guardarmi. «A casa» rispose. «Ma sai dove abito?» le domandai senza staccare gli occhi da lei. «Beh, mi hai detto in città» annuì lei. «Ma noi non stiamo andando in città» le feci notare, alzando un po’ il tono di voce. «Sì, invece» insistette la ragazza. L’auto cominciò a barcollare. Eravamo finiti in una strada sterrata, cir-condata da campi di granoturco ancora troppo prematuri. Osservai la mano di Anastasia afferrare il cambio e scalare di due marce. Affondò il piede sul freno e ci fermammo in mezzo al nulla. Spense il motore. «Che stai facendo?» le domandai confuso. Avevo pronunciato quelle parole guardando fuori dal finestrino. Quando mi voltai verso di lei, la vidi sfilarsi la giacca di dosso e con essa la sciar-pa. La fissai mentre si chinava per togliersi le scarpe; un paio di All Star forse un po’ troppo malandate.

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«Anastasia» la chiamai, sperando di attirare la sua attenzione. Finalmente, mi guardò, ma, nello stesso tempo, si liberò anche della felpa. Sotto portava una maglietta sottile e stretta, attraverso la quale potevo in-travedere perfettamente la forma del suo seno avvolto nel reggiseno. «Che fai?» le chiesi a bassa voce. «Ti prego, non fare domande» disse lei, quasi come a lanciarmi un ordine. Si inginocchiò sul proprio sedile e venne da me, abbracciandomi attorno al collo e baciandomi molto più intensamente di come aveva fatto nel loca-le. Cercai di spingerla via, ma la forza con cui si teneva accanto a me, con cui cercava di spogliarmi era terribilmente concentrata. Fui costretto a usare più forza e lei si staccò. Fu di nuovo in ginocchio sul suo sedile. «Perché questa resistenza?» si lamentò, spostandosi i capelli che le erano caduti davanti agli occhi. «Sono confuso» risposi io. «Non so cosa stai facendo.» «Non riesci a capirlo?» scrollò la testa lei. Entrambe le sue mani afferrarono la bassa estremità della sua maglietta e con un rapido movimento la sfilarono via. Fece la stessa cosa con il reggi-seno e la sua pelle nuda comparve di fronte a me. Mi si avvicinò di nuovo e questa volta fu difficile per me reagire. Le sue labbra incontrarono di nuovo le mie, poi il mio collo. La sua pelle era fredda, liscia. Morivo dalla voglia di accontentarla, di scaldarla tra le mie braccia. Eppure, qualcosa mi tratteneva. Dentro di me sentivo che c’era un motivo se Anastasia stava facendo questo. Non credevo che voles-se fregarmi, o qualcosa del genere, ma soltanto che stesse buttando via sé stessa. Non la conoscevo, è vero. Ma per lei provavo qualcosa e non avrei contribuito alla sua distruzione.

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9 La staccai di nuovo. Lei mi osservò, come se non riuscisse a comprendere la mia reazione. «Calmati» cercai di dirle. «Ragiona, ti prego.» «Perché non vuoi?» domandò seccata. Prima di risponderle mi fermai a fissarla. Avevo l’impressione che i suoi occhi fossero troppo umidi, più del normale. Il suo sguardo mostrava segni di tormento, di dolore forse, ma non avrei mai scommesso di esserne io la causa. Sospirai profondamente. «Perché» dissi, «come ti ho già detto, sentirti cantare mi ha cambiato la serata.» Lei sgranò gli occhi. Restò immobile, senza la minima intenzione di co-prirsi. «Che vuoi dire?» chiese confusa. «Voglio dire che non voglio approfittare così di te» risposi. «Non voglio che tu faccia cose di cui ti pentiresti. Non mi importa cos’è che ti spinge a farlo.» «E che ti importa?» disse lei nervosa. «Nemmeno mi conosci. Prendilo come un regalo di capodanno.» Io risi ironico. «Regalo?» ripetei. La guardai attentamente. I suoi occhi erano bagnati, quelle lacrime pre-mevano insistentemente per uscire. «Non voglio farlo con una che sta per piangere» spiegai, senza staccare lo sguardo da lei. Anastasia sembrò quasi spaventarsi. Forse credeva che con l’oscurità io non me ne sarei accorto, ma si sbagliava. Non avrei voluto costringerla a svelare le sue emozioni, ma non mi lasciava altra scelta. «S-Scusa» borbottò abbassando la testa. «Scusami, non avrei dovuto com-portarmi così.» Velocemente indossò il reggiseno. Le sfuggì un singhiozzo e cominciò a piangere. Appoggiò la testa al volante, rannicchiandosi su sé stessa come per proteggersi. Io cercai di andarle vicino, almeno per quanto la macchina me lo conce-desse. «Coraggio» la consolai abbracciandola forte. Cercai nel buio la sua maglietta e gliela porsi.

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«Mettiti questa» la invitai. «Non ti fa bene stare così scoperta con questo freddo.» «Grazie» disse lei, con il viso coperto dalle scie di trucco che le colavano dagli occhi. Finalmente si ricoprì e riuscì a recuperare un po’ di autocontrollo. «Sei bellissima, Anastasia» le dissi, guardandola in viso. «Però non potevo fare quello che mi stavi chiedendo.» Lei annuì ripetutamente. «Lo so» mormorò con voce spezzata. «Ti ringrazio per questo. Non volevo creare questa situazione. Non so cosa mi abbia preso.» Era di nuovo coperta. Io mi risistemai correttamente sul sedile. «Mi vuoi dire cosa è successo?» le domandai. Sulle sue labbra si formò un sorriso di sconforto. «Non è niente» rispose, scrollando la testa. «Volevo provare qualcosa di nuovo.» «Perché così?» le chiesi. «Perché in questo modo?» «Beh» disse lei alzando le spalle. «Sei molto bello. Meglio con te che con altri.» «Andiamo!» la esortai. «Non credo che sia tutto qui.» Anastasia sorrise. «Non sono mai stata brava a recitare» si rammaricò. «Se è qualcosa di cui non vuoi parlare non c’è problema» cercai di tran-quillizzarla. «Oh, no!» disse lei. «È giusto che ti dia spiegazioni. È il minimo che possa fare.» «Ti ascolto allora» dissi incrociando le braccia. Anastasia guardò prima fuori dal finestrino, poi tornò su di me. «Mia madre non sta molto bene» incominciò. «Da diversi mesi è all’ospedale. Questa sera mio padre e mio fratello sono rimasti con lei. Se me l’avesse permesso sarei rimasta anch’io, ma mia madre è una donna orgogliosa. Non voleva che mi perdessi l’ultimo dell’anno per colpa sua.» Si fermò un attimo. Singhiozzò di nuovo, ma questa volta riuscì a evitare di piangere. «Quello che non capisce» riprese, «e che forse non vuole capire, è che questo sarebbe stato l’ultimo capodanno che avremmo passato insieme. Come può pensare che io abbia a cuore uno stupido concerto più di lei?» Smise di parlare e io ascoltai il suo silenzio. Provavo davvero una grande compassione per lei. Tutto mi era finalmente più chiaro. Sapevo di aver fatto bene a fermarla. Era una ragazza fantastica, non poteva smarrirsi

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così. Sua madre non l’avrebbe voluto, ne ero certo, ed ero certo che anche lei lo aveva capito. «Tua madre ti vuole solo molto bene, Anastasia.» le dissi. «Chiamami Anne, ti prego» mi invitò lei. «Detesto chi mi chiama con il nome completo.» «Come preferisci» le sorrisi. «Quello che ti voglio dire, Anne, è che non devi essere in collera con tua madre. Lei ti vuole molto bene e credo che le farà piacere sapere che sua figlia ha passato un bel capodanno, non cre-di?» «Ma che razza di capodanno è?!» si lamentò amareggiata. «È stato il con-certo più brutto che abbiamo mai fatto, mi trovo sperduta in mezzo al nulla e ho persino cercato di violentare un ragazzo.» «Per me invece è stato un bell’ultimo dell’anno» le riferii. «Anzi, senza dubbio il migliore che abbia mai passato, ed è tutto merito tuo, Anne.» «Guarda che ti cresce il naso» mi rimproverò lei sorridendo. «Perché credi che sia venuto con te?» le domandai. «Non avevo intenzione di fare sesso, eppure sono venuto. L’ho fatto perché volevo conoscerti me-glio. Non ho mai incontrato nessuna ragazza capace di farmi perdere la testa in questo modo. Appena ti ho vista, non ho capito più niente. Vederti cantare è stato come assistere a uno spettacolo del paradiso. Vederti veni-re da me dopo il concerto ha reso questa serata magnifica.» Anne scrollò la testa. «L’unico rammarico» continuai, «è quello di aver scoperto le tue reali in-tenzioni. Avevo sperato, quasi creduto che condividessi il mio stesso inte-resse. Purtroppo non posso pretendere di piacerti, ma almeno avrò sempre un bellissimo ricordo di te.» «Perché non puoi?» mi chiese confusa. «Sarebbe come approfittarsi» le spiegai. «Non voglio che tu faccia delle scelte sbagliate, che possano incasinare la tua vita.» «La mia vita è già abbastanza incasinata» disse lei scrollando la testa. «Uno come te di certo non peggiorerebbe la situazione.» «Come lo sai?» le domandai. «Non mi conosci.» «E tu non conosci me» precisò Anne. «Eppure, dici cose che nessun altro ragazzo è stato mai capace di dirmi.» «Perché io sono fatto così» spiegai. «Mi lascio prendere dalle situazioni… » «Esattamente come me» mi interruppe. «Condividiamo lo stesso problema, evidentemente. Non possiamo starcene lontani, dobbiamo aiutarci.» «Mi stai chiedendo di tenerci in contatto?» la interrogai.

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«Ti sto chiedendo di permettermi di passare un’altra serata come questa con te» rispose lei. «Permettimi di farti vedere che non sono così psicopa-tica.» Io osservai l’orologio. Segnava le due e un quarto. «Va bene, Anne» dissi annuendo. «Ho intenzione di accettare, però prima dovrai riportarmi a casa.» La ragazza rise. «Hai ragione!» esclamò, sedendosi meglio sul suo sedile. «Chissà dove ci troviamo?» «Speravo che lo sapessi tu» dissi inarcando le sopracciglia. Anne girò la chiave, il motore emise uno strano suono simile a un rantolo. «Che succede?» le domandai. «Non lo so» rispose lei. Girò nuovamente la chiave e il risultato fu lo stesso. Accanto all’indicatore della velocità era comparsa una spia. «Stai scherzando?!» mormorai osservandola. «La batteria» disse lei, annuendo. Io cominciai a ridere. «Diavolo!» esclamai. «E pensare che temevo un 31 dicembre 2010 noio-so!» «Che stupida!» si arrabbiò Anne. «Scusami, Alessio» disse girandosi verso di me. «Scusami davvero, non volevo metterti in questo pasticcio.» «Coraggio» la consolai. «Telefoniamo a qualcuno. Sapresti spiegare dove siamo?» Lei mi guardò con due occhi simili a quelli di un gatto che chiede pietà. «Ho capito» annuii, mordendomi il labbro inferiore. «Vorrà dire che a-spetteremo domattina.» «E per tutto questo tempo che facciamo?» domandò Anne. «Sicuramente non ce ne andiamo in giro» risposi, guardando fuori. I vetri si erano appannati ormai da tempo. Il gelo probabilmente aveva congelato ogni ingranaggio di questa macchina. «Credo ci convenga dormire qui» decretai. «Alla fine, in auto non do-vremmo avere problemi. Poi, non credo manchi tanto all’alba se conside-riamo l’ora.» Anne mi osservò per diversi secondi. Quando il suo cervello collegò tutte le informazioni, affondò il viso fra le braccia appoggiate al volante. «Questa giornata non la dimenticheremo mai, non è vero?» mi domandò. «Credo che tu abbia ragione» concordai. La osservai mentre abbassava il proprio sedile per poi sdraiarsi. «Ti aspettava qualcuno a casa?» mi domandò parlando a bassa voce.

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«No» risposi. «Poi è capodanno. Nessuno sarà in pensiero.» Anne sorrise. «Molto bene» disse. «Ora che ci penso, ho persino dimenticato di ripren-dere la borsa. Dio, che stupida che sono.» Lentamente cominciò a chiudere gli occhi. Il suo respiro divenne pian pia-no più pesante. Quando fui certo che si fosse addormentata, anch’io ab-bassai il mio sedile e mi sdraiai. Che strana ragazza, pensai. Eppure, quella strana ragazza mi interessava ogni minuto di più. Nella sua voce c’era qualcosa capace di catturare la mia attenzione con una facilità incredibile. In quella macchina, al buio, osservavo il suo viso davanti al mio. Quelle mani, quegli occhi, quelle lab-bra. Mi resi conto che Anne era la persona più speciale che avrei potuto incontrare. La sua vita era avvolta nel mistero. Sentivo che aveva molto da raccontare, molto da insegnarmi e io morivo dalla voglia di parlarle di nuovo. Volevo che l’alba giungesse presto, perché all’alba saremmo stati di nuovo insieme.

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Secondo Capitolo

1 Quella notte era buia, perché nessuna stella splendeva in cielo. Sull’intera pianura era calata una nebbia densa, fredda come il ghiaccio, e ogni cosa era come sparita nel nulla. Non c’era più nessuno. Anche le luci dei fuochi d’artificio non riuscivano a farsi strada fra tutto quel vapore e il frastuono dei loro botti si disperdeva sul nascere. All’alba mancava ancora poco più di un’ora. A farsi largo in un immenso campo di granoturco c’era una stretta stradicciola sterrata, dove una mac-china era ferma già da diverse ore. La batteria non si era scaricata, ma bru-ciata totalmente. I due ragazzi che riposavano all’interno della vettura an-cora non lo sapevano; lo avrebbero scoperto la mattina successiva, quando magari un carro attrezzi sarebbe venuto ad aiutarli. La ragazza, Anastasia, si era svegliata durante la notte. Aveva avuto l’impressione di sentire uno strano suono in lontananza, un grido disper-dersi nell’aria per arrivare alle sue orecchie soltanto per un istante. Di scat-to si era seduta sul suo sedile. Si era guardata intorno, gettando un occhio fuori dai finestrini in tutte le direzioni. Purtroppo i vetri erano completa-mente appannati e lei di certo non aveva intenzione di aprire la portiera; da una parte la consapevolezza del gelo che l’attendeva, mentre dall’altra la sensazione inspiegabile che qualcosa di brutto stesse accadendo là fuori. Si sdraiò nuovamente sul sedile. Davanti a lei il ragazzo dormiva. Beato lui, pensò. Temeva che da lì in poi non sarebbe più riuscita a dormire. A-veva paura; paura e freddo. I vestiti che la ricoprivano evidentemente non la coprivano abbastanza; il gelo si stava facendo strada attraverso le pareti dell’auto. Osservò Alessio. Si accertò che stesse dormendo e poi si sistemò accanto a lui, nello stretto spazio rimasto sul sedile. Non le importava se non era la posizione più comoda. Il viso di Alessio era a pochi centimetri dal suo. La ragazza percepiva il suo respiro sulla propria pelle; così caldo e accoglien-te. Restare accovacciata accanto a lui era l’unica speranza che aveva per non morire assiderata.

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Passarono alcuni minuti. Un altro suono si udì in lontananza. Sembravano grida di animali selvatici, o qualcosa del genere. Però erano versi che non conosceva, che le incutevano una tremenda paura. Si attaccò ancora di più al ragazzo, affondò il viso sul suo petto e decise di ignorare tutto. Era contenta di averlo incontrato; accanto a lui si sentiva al sicuro, a prescindere da quale fosse la cosa là fuori. All’alba non mancava ancora molto.

2 Quelli che Anastasia aveva sentito non erano versi di animali. Quella notte lei e Alessio non erano gli unici a essere finiti in una brutta situazione. Non molto lontano da lì, a fari spenti, viaggiava una Punto anni ’90, guidata a tutta velocità da Mario Staffa. Era l’ennesima sera che ci provava. Per lui quel giorno non era capodanno, ma un giorno come un altro. Due mesi prima, la piccola Claudia, sua figlia, era stata presa; dopo di lei sua moglie Marta. Non gli era rimasto nulla da perdere, a parte la sua vita di cui ormai non gli importava granché. Con sua moglie non aveva accetta-to la scomparsa della figlia, ma con la morte della donna aveva scoperto la verità. L’assassino si era mostrato nella stessa zona della città dove era sparita la bambina. Non aveva idea se Claudia fosse viva, però sapeva che poteva esserle accaduto qualcosa di molto peggio. La mente di Mario era tormentata dall’immagine di quelle decine di ragazze sedute sulle scale… No, non poteva essere successo a Claudia. In quel momento stava scappando. Per l’ennesima volta aveva cercato lui stesso l’assassino, ma aveva sbagliato i calcoli. E pensare che se l’era stu-diata per benino; interi giorni trascorsi a procurarsi armi, a progettare il modo migliore per coglierlo di sorpresa e poi… la verità. Non era più lui a dare la caccia alla preda, ma era la preda a essere diventata cacciatrice. Forse faceva parte del suo piano; trascinarlo in quella trappola, usando la moglie e la figlia come esche. Se le sue intenzioni erano queste, inutile dire che c’era riuscita. Mario Staffa sapeva benissimo di non avere speranze. Con la sua Punto si faceva strada in mezzo a un muro infinito di nebbia, senza avere una desti-nazione precisa. Alle sue spalle l’assassino correva come un ghepardo, il

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suo richiamo si propagava nell’aria; un latrato di morte che gridava la sua sete insaziabile. L’uomo aveva imboccato una stradicciola di campagna sterrata, inoltran-dosi in un immenso campo di granoturco. Ormai non faceva nemmeno at-tenzione alla strada. I suoi occhi continuavano a spostarsi sullo specchietto retrovisore, senza mai vedere niente. Eppure, quello gli era dietro; aspetta-va solo che lui si fermasse. Continuava a guardarsi alle spalle. Non c’era niente, eppure continuava senza accorgersi che davanti a lui, a meno di un centinaio di metri, c’era un’auto nera ferma in mezzo alla strada. La sua attenzione era totalmente assente, la paura gli impediva di ragionare. Quando si accorse della vettura era troppo tardi per riuscire a evitarla con cautela. Sterzò bruscamente a sinistra. Le gomme della sua Punto fecero schizzare in aria quintali di polvere e ghiaia. Aveva evitato la macchina nera, ma con la sua era finito nel mezzo del campo di granoturco. Non vedeva più niente e questa volta non solo alle sue spalle. La sua guida venne interrotta quan-do qualcosa sembrò bloccare le ruote, come se fossero state improvvisa-mente attanagliate. Gli sembrò di udire una specie di risucchio e fu certo che l’auto fosse sprofondata nel terreno di qualche centimetro. Con forza aprì lo sportello; sembrava quasi che ci fosse qualcosa a fare re-sistenza. Il piede che fece uscire dalla vettura cadde su un terreno troppo morbido, sprofondando di diversi centimetri. «Che diavolo… » mormorò, ma qualcosa lo interruppe. Con un colpo secco, l’auto era sprofondata di altri venti centimetri, mentre la sua gamba era immersa nel fango fino alla caviglia. La melma puzzolen-te era in parte entrata nella vettura. Mario si lasciò prendere dal panico, dimenticandosi quasi di essere inseguito. Sabbie mobili?, si domandò in-credulo. Non era possibile. Eppure, tutte le scene a cui aveva assistito negli ultimi giorni andavano al di là dell’immaginabile. Di certo, quelle sabbie mobili non si distinguevano per stranezza. Però lo stavano trascinando di sotto. La macchina sprofondò di nuovo, il fango raggiunse l’altezza del sedile. Con una specie di balzo goffo, Mario uscì dalla vettura, calando nelle sabbie fino alla vita. Cercava di farsi strada verso la terra ferma, a pochi metri da lui; si trattava soltanto di una breve nuotata faticosa. Sentiva il proprio corpo trascinato verso il basso, il suo cuore aumentare l’intensità e la violenza dei battiti. Muoversi fra quella melma era terribil-mente difficile, essendovi immerso per tre quarti. Non poteva mollare così. Tra una bracciata e l’altra, finalmente riuscì ad arrivare alla terra ferma. Appoggiò entrambe le mani sul terreno solido e con una spinta si tirò su. I

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jeans che indossava erano totalmente ricoperti di fango, così come metà del suo maglione. Finalmente il suo respiro cominciava a riacquistare regolari-tà. Chiuse gli occhi, li strinse forte, scrollò la testa e li riaprì. Di fronte a lui c’era il volante della sua auto, le sue mani lo tenevano sal-damente stretto. Era di nuovo dentro la sua Punto, seduto sul sedile del conducente, in mezzo al campo di granoturco. L’auto, prima scomparsa nel sottosuolo, era come riemersa, e lui ci era rifinito dentro. Ma quelle sabbie mobili… Aprì la portiera. Sotto di lui il terreno sembrava piuttosto solido. Quel ba-stardo, pensò in preda al panico. In fretta e furia cercò di riaccendere il motore. Impugnò la chiave, cercò di farla girare ma era bloccata. Ci provò di nuovo, ma il risultato fu lo stesso. Chissà dov’era finito quell’altro? Non sentiva più alcun latrato, forse aveva smesso di seguirlo. Si voltò, conti-nuando a respirare affannosamente. Nulla. Solo la notte e la nebbia. Si girò, cercò di impugnare la chiave, ma qualcosa lo punse. Immediatamente ritirò indietro il dito, lo osservò, no-tando due piccole punture da cui usciva del sangue, e poi osservò la chiave. Al suo posto, c’era una vipera che usciva dalla piccola serratura; lunghi denti affilati cercavano di azzannare la carne che avevano davanti. L’uomo si lasciò sfuggire un grido. Con un balzo piombò fuori dall’auto, mentre quel serpente sembrava diventare sempre più grande e famelico. Mario Staffa cadde al suolo, batté duramente la nuca. La vista gli si anneb-biò, tutto divenne sfuocato e il serpente – quello che ormai si era trasfor-mato in un cobra – appariva ai suoi occhi come una specie di filo di rame che si muoveva nell’aria. Era la fine. All’uomo venne quasi da ridere. Come aveva fatto a sperare di sconfiggerlo o di riuscire a fuggire? A essere caduto nella sua trappola era stato lui, per ben due volte. Per due volte quel mostro lo aveva incantato, costringendolo alla sconfitta. Chissà se quel serpente era veramente reale? Ormai non gli importava. L’anaconda avvolse il suo lungo corpo attorno a Mario, lo strinse bene a sé; poi lentamente cominciò a ingoiarlo come fosse un misero ratto.

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3 La verità è che non ricordo molto di come ci vennero a prendere. Contra-riamente al mio, il padre di Anastasia aveva fatto una serie infinita di tele-fonate al cellulare di sua figlia, senza che quella mai si preoccupasse di rispondere. La verità è che per la ragazza, come per me, ogni scusa era buona per restarcene insieme. Quella notte mi aveva detto di non avere idea di dove fossimo finiti e io, subito, avevo lasciato perdere, accettando l’idea di aspettare la mattina. Eppure, fare qualche telefonata non sarebbe costato molto. Durante la notte mi ero svegliato. Ero convinto di aver udito il rumore del motore di una macchina. Appena aprii gli occhi, mi trovai davanti il viso di Anastasia. La ragazza si era spostata sul mio sedile; mi dormiva accan-to raggomitolata come un gattino. Forse aveva avuto freddo, avevo pensa-to osservando il lieve rossore sui suoi zigomi. Cercando di non svegliarla, mi ero messo seduto, con una mano avevo pulito un finestrino e avevo guardato fuori. Non c’era nessuna macchina. Pensai di aver sognato e, probabilmente, era così. Mi sdraiai di nuovo, riportai i miei occhi sul viso stupendo che stava a pochi centimetri dal mio. In quel momento capii che da quel giorno non avrei più considerato l’ultimo dell’anno come una festa noiosa. Lo sentivo, per una volta non era la solita stronzata. Quel giorno aveva segnato una svolta nella mia vita. Anastasia vi sarebbe entrata per diventarne parte. Mi accorsi subito che stavo sognando troppo. D’altra parte, però, sognare era una cosa che mi era sempre piaciuta. Spesso, durante la notte – in ge-nere una notte che seguiva una giornata storta – approfittavo dei minuti prima di addormentarmi per sognare a occhi aperti. La cosa strana è che sono sempre stati sogni più belli di quelli prodotti dal mio inconscio e, so-prattutto, sono stati sogni che una volta sveglio ho sempre ricordato. Quel-la sera – ci pensai dopo che era iniziato il 2011 – accanto ad Anastasia non avevo bisogno di fantasticare, perché il sogno più bello che potessi avere stava proprio davanti a me, appiccicato al mio corpo, senza inten-zione di fuggire. Quando ci salutammo il cielo era azzurro, la nebbia e le nuvole sembrava-no ormai un brutto ricordo. Mi trovai sulla macchina di mio padre a guar-dare il palmo della mano su cui avevo scritto un numero di telefono che non avrei mai dimenticato.

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4 La nostra città non era molto grande, solo centottantamila abitanti, per cui non si rivelò un problema scoprire che Anastasia abitava esattamente dal-la parte opposta alla mia. Ci vedemmo due giorni dopo. Fu interessante constatare che quella intensa affinità che ci aveva legato durante la nostra prima notte insieme non era stata soltanto un’illusione. La incontrai di pomeriggio, in piazza del Duomo, senza averlo detto a nes-suno. Quando Anastasia arrivò, vidi che era vestita in quella che mi venne da definire La sua solita maniera: giacca a vento scura, jeans chiari, stivali marroncini, kefiah grigiastra attorno al collo. Mi domandai subito cosa indossasse sotto quel cappotto, ma poi allontanai il pensiero. Anastasia mi salutò, ma non mi baciò. Mi prese la mano e cominciammo a camminare. «I miei non sanno che sono qui» disse guardando davanti a sé. Subito mi ricordai di sua madre. «Credono che tu sia a casa?» «No» scrollò la testa lei, sorridendomi. «Intendevo che non ho detto loro dove andavo.» Feci un sospiro di sollievo. «Se è per questo neanche io l’ho detto ai miei» dissi. «Lo hai detto a qualcuno?» mi domandò, guardando il suolo scorrere sotto i suoi piedi. «No» risposi mentre pensavo se avessi accennato qualcosa a qualcuno. «Sicuro?» «Certo, perché?» Si fermò, io con lei. Si guardò un po’ intorno, mentre quell’insolita lumi-nosità solare avvolgeva tutto il suo corpo; la luce si rifletteva sui suoi oc-chi chiari, faceva brillare i suoi capelli come fossero di pura seta. Il suo silenzio mi fece quasi bloccare il respiro, forse perché non riuscivo a com-prenderlo. Quando parlò mi fece una proposta che non mi sarei mai aspet-tato da nessuno. «Vediamoci in segreto» disse guardandomi dal basso verso l’alto. «Cosa?» chiesi confuso. «Non dire a nessuno che ti vedi con me» spiegò, mordendosi il labbro infe-riore. Io accennai un sorriso per non sembrare arrabbiato. «Perché?» le domandai. «Non voglio che i miei pensino che mi stia lasciando andare» rispose. «Il mese scorso, arrabbiata per quello che sta succedendo a mia madre, ho

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preso la macchina e sono scappata. Sono arrivata in Liguria e la benzina è finita; con me non avevo un soldo. Da quel giorno mio padre teme che io possa fare altre pazzie per sfogare il mio dolore.» «Se preferisci faremo così» accordai, confuso. «Non possiamo tenerlo na-scosto solo a loro?» Anastasia deglutì. «La verità, Alessio» disse «è che ho bisogno di un rapporto di questo ge-nere, qualcosa da assaporare, da vivere fino in fondo.. L’idea di dover te-nere la cosa all’oscuro rende tutto più interessante, più proibito. Un gior-no ci sveleremo – te lo prometto – ma per adesso, ti prego, facciamo così.» La mente mi si riempì di dubbi. Avevo di nuovo perso l’inquadratura. Che intenzioni aveva? Cosa poteva esserci di così interessante in un rapporto segreto, se non c’erano motivi per cui tenerlo segreto? Subito non capii, ma nemmeno pensai che fra i desideri di Anastasia prevaricasse quello di usarmi soltanto. Nella sua voce qualcosa mi fece intuire che aveva real-mente bisogno di un rapporto di quel genere. Accettai, con l’unico timore di poterla perdere facendo diversamente. Anastasia, invece, divenne im-mediatamente felice.

5 Lo capii soltanto in seguito. Anastasia aveva bisogno di me, di questo ero certo, ma non poteva avere un rapporto normale. Ci incontrammo in cen-tro soltanto la prima volta che uscimmo insieme. Per il resto, non saprei in che modo definire le nostre giornate insieme. Io presi la patente nel febbraio del 2011. Per un mese intero avevo aspet-tato quel giorno con molta ansia; mi chiedevo continuamente come avreb-be sfruttato il mio nuovo potenziale. L’andai a prendere a casa lo stesso giorno in cui l’esaminatore mi consegnò il documento che aspettavo da ormai diversi mesi. Ovviamente, Anastasia mi aveva mandato un messag-gio in precedenza, chiedendomi di fermarmi con l’auto almeno a una cin-quantina di metri dal suo cancello. Ormai avevo capito come comportar-mi, ma evidentemente lei aveva sempre bisogno di accertarsene. La vidi da lontano. Stavo fermo sul mio sedile, tenendo una mano sul vo-lante. Anne uscì dal suo cancello, lo richiuse, si guardò intorno e mi vide.

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Si incamminò a passo svelto verso di me, lanciando sguardi in tutte le di-rezioni. Quando fu a pochi passi dal cofano, mi lanciò uno sguardo e mi sorrise. Aprì la portiera ed entrò. «Non ti sono venuto ad aprire perché… » «Hai fatto splendidamente» mi interruppe entusiasta. «Vai adesso.» Accesi il motore, ingranai la retromarcia. «Dove di preciso?» domandai fermandomi. «C’è ancora molta luce» borbottò tra sé e sé. «Cos’hai intenzione di fare, Anne?» «Niente» disse lei scrollando la testa. «Non andare in retromarcia. Vai dritto per questa strada. Fra un chilometro circa c’è un parcheggio.» Obbedii senza parlare. Mi stupii subito della destrezza che avevo acquisito nel manovrare il pedale della frizione. Era sempre stato difficile; di tanto in tanto, anche nelle ultime guide di prova, mi capitava che l’auto si spe-gnesse. Aver dato l’esame era stato come liberarsi di una serie infinita di ansie inutili. In pochi secondi, insieme ad Anastasia, raggiunsi il parcheg-gio. Era piuttosto grande per essere in una zona così periferica e non c’era nessuna macchina. Accostammo in un posto a caso, spensi il motore. La ragazza che stava accanto a me immediatamente abbandonò il proprio sedile e si accostò cavalcioni su di me. Mi baciò fortemente sulle labbra, costringendomi ad aprire la bocca. Lo feci senza opporre troppa resisten-za. Per lei era come fuggire con un amante, soltanto che non era sposata, né fidanzata. Mi baciò ancora, si spostò sul mio collo, scese fino al punto dove il mio maglione lasciava nuda la pelle, poi risalì alla bocca. Mi sen-tivo come imprigionato. Le sue mani raggiunsero la bassa estremità del mio maglione, lo sollevarono e lo sfilarono via, mentre io la aiutavo al-zando le braccia. Non la fermai, perché era una cosa che faceva sempre; sfilarmi la maglia per divertirsi con me lasciandomi a petto nudo. Comin-ciai a chiedermi se era quello che volevo realmente, ma non avevo voglia di darmi una risposta. Preferii partecipare al suo gioco, così la spogliai anch’io. Accorgendosi della mia convinzione, Anastasia si lasciò sfuggire una pic-cola risata. La cosa la eccitava tremendamente. Il suo calore corporeo aumentava di intensità come il ferro che ricopre una stufa. Mi piaceva sen-tirla così vicina, la sentivo totalmente mia. Potevamo essere scoperti, colti in flagrante da un momento all’altro. Era un parcheggio accessibile a tutti e tutti ci avrebbero potuto vedere. Avrebbero scoperto l’adulterio... Poi mi ricordai. Non c’era alcun adulterio. Cosa stavamo facendo? Anastasia tornò sul suo sedile. Si chinò su di me e con le mani cominciò a sbottonarmi i pantaloni. Il suo seno penzolava davanti ai miei occhi, le

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punte dei suoi capelli mi accarezzavano la pelle nuda del petto e dell’addome. Sentivo il fuoco ardere dentro di me. Ogni mio organo im-pazziva, le vene pulsavano come attraversate da violenti flussi di sangue. Guardai in basso e i pantaloni mi erano stati abbassati alle caviglie. Anne riprese a baciarmi, mentre con la mano cercava di spogliarmi dell’ultimo indumento… «Aspetta» la fermai, spingendola dolcemente con entrambe le mani. Lei staccò la presa dai miei boxer. Mi guardò confusa. «Che c’è?» chiese sospettosa. Come facevo a fermarla così? Come potevo spiegare quello che pensavo a una persona a cui forse non importava un bel niente? Però la notte in cui eravamo stati soli in macchina ero riuscito a non rovinare tutto e Anne a-veva capito, anche se due giorni dopo era saltata fuori con una proposta assurda. Ne avevo abbastanza di tenere tutto all’oscuro. «Anne, ascolta» dissi racimolando le forze. «Non so cosa significhi per te tutto questo. Io però non riesco ad andare avanti in questo modo. Ogni giorno che passiamo insieme è fantastico, ma per me è sempre più difficile comprendere quali siano i veri sentimenti che nutri per me. Non posso la-sciarmi andare in qualcosa che non sento profondamente.» «E allora cos’è che senti profondamente?» mi domandò seria. «Sento di amarti, Anne» risposi guardandola in faccia. «E quel che inizio a pensare è che tu non mi ami per niente. Forse lo credi, ma non è real-mente così. Il problema è che non posso accettare una relazione di solo sesso con una persona che amo così tanto.» Anne mi guardava come ipnotizzata. La sua bocca era lievemente socchiu-sa, il suo respiro si era fatto più affannoso. Si morse il labbro inferiore. Non avevamo mai fatto effettivamente sesso, ma qualcosa che vi assomi-gliava terribilmente, forse troppo per me, troppo perché venisse affrontato così. Aspettai una sua risposta, ma presto capii che non aveva la minima idea di cosa dire. «Cos’è che provi, Anne?» le domandai schiettamente. «Ho bisogno che tu me lo dica.» «Io ho bisogno di te» mormorò, sopprimendo i singhiozzi. «Bisogno di essere toccata?» La domanda la costrinse a guardarmi con un’espressione impaurita. «No» rispose con un debole borbottio. «Di cosa allora?» «Di te» rispose. «Tu sei capace di farmi stare bene.» «Solo in questo modo?» «In quale altro modo?»

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La sua domanda sembrò quasi una richiesta di aiuto. «Ce ne sono moltissimi» risposi. «Uno di questi sarebbe smettere di gioca-re al finto adulterio.» Mi fermai, osservando se aveva qualcosa da dire. «Devi capire se ciò di cui hai bisogno sono io, o se ciò che ricevi da me potresti riceverlo da chiunque altro» dissi inviandole un ultimatum. Anne rimase zitta. Sui suoi occhi erano perfettamente rintracciabili le la-crime che stavano per colare lungo le guance. Mi domandavo a cosa stes-se pensando e allo stesso tempo sapevo che la sua risposta avrebbe segna-to un momento cruciale nel nostro, finora breve, rapporto. Ebbi paura, paura di decifrare troppo bene quello sguardo perso nel nulla. A un certo punto, la ragazza recuperò la propria camicia, la indossò e la abbottonò. «Hai ragione» disse scrollando la testa. «Non avrei dovuto trascinarti in questa situazione.» Ascoltai le sue parole. Nel frattempo rialzai i pantaloni e li richiusi. Indos-sai anche il maglione; Anne il suo. «Scusami Alessio» disse, affondando sul sedile. «Scusami davvero.» Io sospirai. «Non importa» dissi, annuendo diverse volte. «È meglio così.» Girai la chiave, il motore dell’auto si accese. «Ti porto a casa.» Quando la vidi scomparire dietro al cancello, senza ricevere un ultimo sguardo di saluto, imboccai la strada per tornare a casa. Mi dispiaceva per Anastasia, ma non perché ritenessi che ci stesse perdendo. Il dolore per la malattia di sua madre la stava distruggendo e io, purtroppo, non po-tevo fare niente per aiutarla. I miei erano ancora al lavoro quando rinca-sai. Salii in camera mia, afferrai la chitarra e cominciai a suonare il suo addio.

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6 Il suo compleanno era il 17 febbraio, ma lo avrebbe trascorso lontano da casa. Marcello Lamberti viaggiava su un autobus, insieme a tutti i suoi compagni di classe, diretto in una città dell’Emilia. Era contento di fare la prima gita dopo tre anni di scuola in cui i professori, per punire l’atteggiamento maldestro della classe, avevano deciso di non accettare al-cuna proposta mossa dai rappresentanti di classe. Nel terzo anno di liceo tuttavia diventava più difficile essere ammessi alla classe successiva. Antonio e Marco erano stati bocciati a giugno. All’altro ragazzo che come loro contribuiva a creare confusione in classe era stata concessa la possibilità di ripresentarsi a settembre; possibilità che l’alunno aveva solennemente scartato, preferendo ripetere direttamente l’anno. Il giorno dell’esame di riparazione la professoressa Martini aveva telefonato a casa del ragazzo chiedendo il motivo della sua assenza; la spiegazione che aveva ricevuto non era stata nulla più di un semplice “vaffanculo”. Marcello Lamberti era sempre stato un bravo studente; non il più eccellen-te, ma sicuramente tra i migliori. La gita aveva in programma la sosta mo-mentanea in tre diverse città dell’Emilia; Reggio, Parma e Piacenza. Quan-do le tappe erano state decise, gran parte degli alunni si era lamentata, dal momento che avrebbe preferito andare all’estero, ma poi tutti avevano ac-cettato di partecipare. Marcello la pensava come gran parte di quegli alunni, però si trattava della prima gita dopo tre anni. Non poteva rifiutare. Anche la quota di partecipa-zione era un fattore che non avrebbe spinto a tirarsi indietro: duecento euro per un viaggio in tre città della durata di sei giorni. Interessante, come sa-rebbe stato interessante passare le serate nelle camere delle ragazze. Sì, l’idea lo eccitava. Meno il viaggio in autobus; viaggiare gli provocava sempre un’odiosa sensazione di nausea. Pazienza, aveva pensato. Era un prezzo che valeva la pena pagare, proprio come i duecento euro. Quelli pe-rò li avrebbero pagati i suoi genitori. A Reggio non era stato particolarmente divertente, a parte le ore passate in camera durante la notte. Avevano trascorso nella città due giorni e due not-ti e poi erano ripartiti la mattina presto per Parma. Al primo impatto la nuova città era piaciuta di più agli studenti. L’autobus era arrivato davanti alla Pilotta intorno alle dieci e mezza del mattino. Da lì, gli alunni si erano spostati in un albergo poco più avanti. Avevano posato le valigie nelle ri-spettive camere, poi erano usciti. Avevano visitato il centro della città,

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prima entrando nel Duomo e poi nel Battistero. Interessante, sì, aveva pen-sato Marcello, ma mai quanto le due ore di libertà che presto i professori avrebbero concesso ai loro studenti. Finalmente, era arrivata l’una del po-meriggio. Era ora di pranzare. Le ore concesse poi furono tre, non due co-me tutti credevano. Meglio ancora, no?

7 La sera arrivò presto. Gli studenti mangiarono in albergo, in un’unica grande sala con un lungo tavolo rettangolare. Erano gli unici clienti di quell’albergo. Dopo cena, la regola era quella di rientrare nelle rispettive camere. Del resto, quale professore si sarebbe preso la briga di portare fuo-ri un gruppo di ragazzini minorenni in una città che non conoscevano? Ep-pure, alcuni alunni aveva compiuto la maggiore età da poco. Marcello ave-va compiuto diciotto anni il giorno prima, quando ancora erano a Reggio. Una botta di fortuna, pensò. Davide Antonini aveva compiuto diciotto anni da quasi un mese ormai; con lui Alessandro Rio. I tre avevano ottenuto il permesso di uscire, considerato il fatto che erano diventati responsabili di sé stessi. Avevano proprio voglia di vedere la città di sera, ma ancora di più volevano che i loro compagni rimasti in albergo provassero quel mini-mo di gelosia nei loro confronti. Loro erano più grandi, non c’era niente da fare. Percorsero una lunga strada, scesero lungo un grande piazzale, quello dove la mattina il loro autobus si era fermato. Doveva essere il centro. Per strada c’era molta gente. Strano per essere un giorno della settimana. Nella loro piccola città non c’era tutta questa vita, pensò Marcello Lamberti, cammi-nando a fianco dei due amici. I tre raggiunsero la piazza del Duomo dove erano stati quella mattina e si sedettero sulle scale del Battistero. Restarono lì per diversi minuti. Marcello cominciò a pensare che l’idea di uscire non era stata poi così entusiasmante come aveva sperato. Non ave-vano molto da fare, se non fare due chiacchiere tra di loro. Ma quelle pote-vano farle anche in albergo, con gli altri ragazzi, nelle camere delle ragaz-ze. Era meglio tornare, giusto? Davide osservò l’orologio che teneva al polso. «Ragazzi, io andrei.» disse con una smorfia. «Che ne dite?»

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«Sono d’accordo» disse Marcello, annuendo. Non vedeva l’ora che qualcuno proponesse di tornare in albergo. Davide si alzò in piedi, Marcello lo imitò. Alessandro invece se ne restava seduto, i gomiti appoggiati alle ginocchia, uno strano sorriso stampato sulle labbra. «Allora?» lo chiamò Davide. Il ragazzo non rispose. Sul suo viso si manteneva la stessa espressione, i suoi occhi fissavano qualcosa davanti a lui. Sia Davide che Marcello guar-darono in quella direzione. La cattedrale era proprio accanto al Battistero. Sulla scalinata era seduta una ragazza. Le gambe accavallate lasciavano intravedere la fine delle calze autoreggenti. I capelli biondi cadevano a boccoli lungo le sue spalle. I suoi occhi erano contornati da lunghe ciglia che davano l’idea di essere finte. Il suo sguardo fissava quello di Alessan-dro. «Ma non ha freddo?» domandò Marcello, sgranando gli occhi. «Evidentemente no» rispose Alessandro senza staccare i propri dalla ra-gazza. «Andiamo, Ale» lo esortò Davide, dandogli una pacca sulla schiena. «Andate» disse lui concentrato. «Cos’hai intenzione di fare?» «Non lo vedi?» domandò lui, facendo l’occhiolino alla ragazza che ricam-biò con un sorriso terribilmente malizioso. «Oddio» mormorò Davide, scrollando la testa. «Andate, davvero» ripeté Alessandro alzandosi in piedi. «Tornerò più tar-di.» Spostò lo sguardo sui due amici. «Dopo averle lasciato una firma sulle sue belle natiche» aggiunse. «Andiamo, Dave» disse Marcello, chiamando l’amico. Nell’allontanarsi, i due osservarono brevemente il loro compagno cammi-nare verso quella ragazza. Lei era davvero attraente, aveva dovuto consta-tare Marcello, nonostante l’impressionante pallore della sua pelle. Ma non era normale incontrare una ragazza così disponibile, vestita con abiti così leggeri in una serata come quella. Probabilmente sotto quella gonna na-scondeva una sorpresa, lo credeva anche Davide. I due risero al pensiero dell’amico che veniva a scoprire la terribile verità. Forse, però, era più pro-babile che Alessandro quella serata non l’avrebbe dimenticata. Almeno a-vrebbe avuto qualcosa di interessante da raccontare al suo ritorno.

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8 Marcello e Davide rientrarono in albergo nel giro di quindici minuti. Sali-rono nelle camere ed entrarono in quella dove dormivano Michela, Silvia e Roberta. Le disposizioni delle camere erano sempre state le stesse, non im-portava in quale città ci si trovasse. Le sere precedenti la classe si era divi-sa in due camere. Marcello, insieme a Davide e Alessandro, aveva passato le serate in camera delle tre amiche, insieme ad altre due compagne. Anche quella sera, quando i due ragazzi rientrarono, giocarono diverse par-tite a poker, seduti tutti e sei (cinque, Alessandro non c’era) sul letto. Da-vide aveva raccontato quello che era successo in centro e aveva chiesto alle ragazze di non parlarne con nessuno; era meglio che i professori non lo ve-nissero a sapere, almeno fino a quando il ragazzo non avesse ricevuto il di-ploma di maturità. Intorno a mezzanotte e mezzo, le partite a poker erano terminate già da un pezzo. Le due ragazze ospiti, come Marcello e Davide, se ne erano tornate nella loro camera. Marcello si era sdraiato su una grossa poltrona a son-necchiare, mentre Davide aveva cominciato a raccontare una storia dell’orrore. Era una storia che parlava di un branco di vampiri che si impa-droniva di una piccola città situata in America, una certa Salem’s lot. Mar-cello era convinto di aver letto un libro di Stephen King che parlava di una cosa molto simile; forse il nome della città compariva nel titolo dello stesso romanzo, ma non ne era sicuro. Quello di cui era sicuro era che Davide non era un gran racconta storie. La sua voce si interrompeva di continuo e non era facile capire se, fra le sue intenzioni, ci fosse quella di creare angoscia durante quelle pause. Finita la storia, Davide si alzò in piedi. Sbadigliò profondamente senza portarsi una mano alla bocca, allargando le braccia con i pugni stretti e sti-racchiandosi. «Sono esausto» disse. Guardò il proprio cellulare strofinandosi un occhio. «Alessandro?» domandò Michela mentre si infilava sotto le coperte. «Non ne ho idea» disse Davide scrollando la testa. «Gli ho mandato un messaggio un’ora fa. Si vede che è impegnato.» «E se gli fosse successo qualcosa?» proruppe Silvia, alzandosi in piedi an-che lei. «Questo è sicuro» scherzò Davide. «Chissà cosa sta facendo con quella ti-pa?»

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Silvia scrollò la testa. Andò nell’altra stanza, dove c’era l’altro letto. I letti matrimoniali erano due in quella grande camera, come del resto in tutte quelle dell’albergo. Michela e Roberta dormivano nello stesso letto, mentre Silvia dormiva in quello che stava dall’altra parte del muro che divideva in due la camera. Davide si concentrò su Marcello. «Andiamo?» gli domandò. «Sto pensando di restarmene qui» disse Marcello, stravaccato sulla poltro-na con gli occhi semichiusi. «Qui?» ripeté Davide sgranando gli occhi. Marcello annuì lentamente. «Oddio!» mormorò Davide. «Siete tutti impazziti questa sera?» Non aveva intenzione di protestare troppo, aveva sonno anche lui. Salutò le ragazze e uscì dalla camera tornando nella propria. Michela e Roberta si erano addormentate dimenticandosi la luce accesa. Silvia non si vedeva da lì, ma il silenzio faceva dedurre che stesse dormendo anche lei. Marcello aveva trovato così comoda quella poltrona che avrebbe voluto passarci la notte per intere settimane. Si addormentò presto anche lui.

9 A svegliarlo fu uno strano dolore attorno al collo e alla nuca. Dormire su quella poltrona non aveva fatto per niente bene al suo fisico. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, guardò l’ora. Mancavano pochi minuti alle tre. Pensò che se avesse dormito in quel modo per tutta la notte, l’indomani si sarebbe svegliato senza più una spina dorsale funzionante. A fatica si alzò in piedi. Fu un piacere constatare che l’aver riacquistato una posizione normale aveva affievolito in gran parte il dolore. Si guardò stordito attorno. Le luci erano ancora accese. Roberta e Michela dormivano ancora, avvolte in quelle spesse coperte. Si domandò se Alessandro fosse tornato. Forse era già in camera con Davide. Passò oltre il muro che divideva in due la camera. Sull’altro letto matrimo-niale dormiva Silvia. Marcello cercò di girare attorno al letto senza sve-gliarla, camminando in punta di piedi. I suoi occhi videro quelli della ra-gazza aprirsi. Lei sbadigliò profondamente e si sedette sul letto.

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«Che fai?» domandò assonnata. Marcello quasi non si accorse che la propria mente per quell’attimo si era presa una pausa. Osservava la ragazza, i suoi capelli aggrovigliati, lo stret-to pigiama che indossava. Perché no?, pensò. Silvia non sembrava preoc-cupata, attendeva da lui una risposta con un’espressione che sembrava ca-rica di interesse. «Ti dispiace se me ne sto accanto a te?» le domandò infine. «Dormire su quella poltrona mi ha fatto venire un bel torcicollo.» Lo disse con un lieve sorriso che la ragazza ricambiò. «Certo» rispose lei annuendo. «Questo letto è grande.» Marcello si sdraiò a fianco della ragazza. Appoggiò la nuca sul cuscino e, subito, una piacevole sensazione di benessere attraversò tutto il suo corpo. Che stupida idea quella di dormire su una poltrona; gambe su un bracciolo e testa sull’altro, mentre il resto del corpo era sprofondato tra i due. Silvia si coricò su un fianco, volgendo il viso verso di lui. Marcello la guardò e vide che anche lei lo guardava, con la stessa espressione di quando aveva atteso la sua risposta. «Ti fa molto male?» chiese lei. Le loro voci erano sussurri quasi impercettibili. «Un po’» disse lui, accennando una smorfia. «Non avresti dovuto dormire su quella poltrona» lo rimproverò lei. «Se vo-levi dormire qui avresti dovuto chiedermelo subito.» «Mi sembrava una proposta indecente.» «Adesso non la è?» lo apostrofò Silvia. Marcello non rispose, non ci riuscì. Rimase a fissare gli occhi grandi della ragazza che gli stava davanti. Si era mai accorto di quanto fossero belli? Sicuramente no. Era sempre stato convinto che fossero verdi, invece sotto quella debole luce che proveniva dall’altra stanza avevano assunto un tono azzurrognolo, perfetto insieme a quei lunghi capelli biondo sporco. Co-minciò a convincersi che il male al collo fosse soltanto un ricordo. Lo i-gnorò, con uno sforzo si avvicinò alla ragazza, si chinò su di lei e la baciò. Silvia lo aveva accolto a braccia aperte, si potrebbe dire, ma era un’accoglienza rappresentata più dalla luminosità improvvisa che si era ac-cesa sul suo volto. Si baciarono lungamente, ognuno trasferendo la propria essenza nell’altro, lasciando che si mischiassero. Si staccarono. «Il torcicollo?» domandò lei. «Non fa così male» rispose lui. «Ma potrebbe tornare» si preoccupò lei, spingendo il ragazzo in modo che si sdraiasse nuovamente. «Posso farti un piccolo massaggio se vuoi.»

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Si sedette cavalcioni su di lui, avvolse le mani attorno al suo collo e co-minciò a muovere i palmi e le dita armoniosamente, così come tutto il suo corpo, il bacino, i fianchi, padroneggiando il proprio equilibrio sul ragazzo. Marcello nutriva un delizioso sollievo al collo, mentre i suoi occhi si apri-vano sul corpo della ragazza che stava su di lui. La magliettina del pigiama che lei indossava, si stringeva attorno al suo corpo delicato, lasciando in-travedere la forma perfetta del suo seno. «Cosa guardi?» gli domandò Silvia sorridendo. «Scusa» mormorò lui con il cuore in gola. La ragazza ridacchiò con il tono più basso che poteva. Dalla sua bocca uscì un piccolo squittio. Staccò le mani dal collo del ragazzo e le portò a sfilarsi la magliettina del pigiama. Fu un movimento fluido, secco, veloce e Mar-cello poté finalmente osservare quella pelle nuda, chiara, quei seni penzo-lanti davanti alle sue pupille dilatate. Deglutì a fatica. Allungò le proprie braccia, con le mani strinse i fianchi della ragazza, li accarezzò per arrivare fino in alto. Decise che era meglio sedersi. Lo fece, chinò il suo viso al pet-to di Silvia e cominciò a baciarle delicatamente il seno sinistro, poi quello destro, per poi ripetere tutto, armoniosamente. I sospiri della ragazza si mi-schiavano ai suoi gemiti di piacere. Il ragazzo non ci mise molto a cambia-re quella posizione di inferiorità. Portò la ragazza sotto di sé, le sfilò i pan-taloni del pigiama, cominciò ad accarezzarle le gambe fredde e lisce. Ba-ciandole, accarezzandole, baciandole. Quando la osservò di nuovo in viso, capì che entrambi volevano che ciò che stavano aspettando accadesse. Si liberò dei propri pantaloni, dei propri boxer, liberò lei delle sue mutandine e, finalmente, la penetrò.

10 Qualcuno bussò alla porta molto presto. Erano dei colpi continui, rumorosi. Qualcuno dal corridoio gridò. «Aprite, dannazione!» Era la voce di Davide. Marcello la riconobbe subito. Si era svegliato nel letto matrimoniale dove aveva dormito con Silvia. Anche la ragazza fu svegliata da quel fracasso. Dall’altro lato della stanza si udirono le voci confuse di Michela e Roberta che si svegliavano.

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«Ma chi è?» si lamentò Michela. Marcello si alzò in piedi. Dalla finestra entrava una luce grigia, piuttosto scura. Guardò l’ora nel cellulare. Erano le sette e quattordici. La colazione era alle otto, cosa voleva Davide? Corse ad aprire la porta. Nel frattempo Michela e Roberta raggiunsero quella parte della camera da letto, accor-gendosi con stupore di quello che era accaduto durante la notte a loro insa-puta. Marcello aprì la porta. Davide piombò in stanza, spettinato, sfatto, come se si fosse appena svegliato con la sola intenzione di precipitarsi lì. Tutti lo guardavano confusi. Dal corridoio si udirono le porte di alcune camere che si aprivano. Probabilmente con quel suo battere continuo aveva svegliato tutto l’albergo. Marcello preferì chiudere la porta, perché non si creasse una riunione. «Che succede?» domandò all’amico, prendendolo per le braccia perché si calmasse. «Alessandro non è tornato!» grugnì quello con le mani fra i capelli. «Cosa?!» Marcello non credeva a quelle parole. Sperava che Davide si stesse sba-gliando, che avesse soltanto voglia di scherzare, ma l’agitazione che l’aveva preso lasciava intendere tutt’altra cosa. «Mi sono svegliato e non era in camera» spiegò, parlando con più calma. «Non capisci? È stato fuori tutta la notte con quella ragazza! È ancora fuo-ri!» «Okay, calmati» gli intimò Marcello, invitandolo a sedersi sul letto dove la notte precedente aveva approfondito la conoscenza con Silvia. Sugli occhi delle ragazze si poteva leggere la paura. Anche Silvia si era al-zata, raggiungendo le altre due compagne di stanza. Tutti aspettavano che Davide parlasse ancora, che proponesse una soluzione. Marcello fu il pri-mo a capire che avrebbe dovuto pensarci lui stesso. «Nessun messaggio?» domandò all’amico. «Come?» lo guardò confuso Davide. «Non ti ha mandato alcun messaggio?» ripeté Marcello. «No» rispose quello. «Gliene ho mandati dieci ieri sera prima di addor-mentarmi.» «Proviamo a chiamarlo» propose Michela, parlando dalle spalle di Marcel-lo. «Fallo tu» disse Davide, porgendo il proprio cellulare all’amico. «Perché se gli parlo io non so cosa gli dico.»

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Marcello prese il telefono. Guardò nella rubrica fino a trovare il numero di Alessandro. Lo selezionò e attese, portandosi l’oggetto all’orecchio. Il cel-lulare di Alessandro squillava, era un buon segno. «Squilla» annunciò Marcello sospirando con sollievo. Lo stesso sospiro venne imitato da tutti i presenti. Il cellulare squillava, ep-pure squillava troppo, senza interrompersi. Tutti attendevano in un silenzio surreale. E dai, disse tra sé Marcello. Improvvisamente l’interruzione. A parlare fu la voce registrata di una donna che invitava a lasciare un mes-saggio dopo il segnale acustico. «La segreteria!» si arrabbiò Marcello. «Riprova di nuovo!» esclamò Davide come se dettasse un ordine. Marcello obbedì senza esitare. Il telefono squillava ancora, ininterrotta-mente, poi di nuovo la segreteria telefonica. Marcello imprecò, ci riprovò di nuovo. Quando gli squilli del cellulare furono interrotti, era convinto di sentire ancora la voce della segreteria, e invece dall’altra parte c’era soltan-to il silenzio. «Ha risposto!» gridò a tutti. «Ale? Ale, ci sei?» Nessuna risposta. Eppure qualcuno aveva accettato la chiamata. Dall’altra parte si sentiva qualcosa di simile al soffio del vento, ma nessuna voce. Marcello restava sulle spine e così tutti quelli che lo guardavano tenere all’orecchio quel telefono. «Chi è?» domandò Michela con un debole squittio. La ragazza si teneva le dita ferme sulla bocca. Le altre avevano paura. Da-vide era furioso e aveva paura. «Silenzio» disse Marcello a bassa voce. Ascoltava il nulla. «Ale?» chiamò ancora senza ottenere risposta. Improvvisamente gli parve di udire delle strane voci. Delle risate, lontane, femminili. Nessuno gli rispondeva, così cominciò a credere che l’amico avesse perso il telefono. Le risate continuavano, lui le sentiva appena, ma le sentiva. Guardò negli occhi prima Davide, poi Silvia, cogliendo l’insopportabile tensione sui loro volti. «Ale, se ci sei rispondi!» disse alzando la voce. Ancora nulla. Nulla al di fuori di quelle risate incomprensibili. Improvvi-samente, l’interruzione. Qualcuno aveva deciso che la chiamata doveva terminare. Marcello staccò il cellulare dal suo orecchio, lo osservò. «Chi ha parlato?» gli domandò Davide alzandosi e prendendo il telefono. Marcello scrollò la testa, confuso. «Nessuno» rispose. «Cosa sentivi allora?»

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«Niente» disse Marcello. «A parte delle risate… » «Risate?!» lo interruppe Michela. «Sì» rispose lui senza troppa convinzione. «Erano lontane però. Nel senso che chi ha risposto non stava ridendo. Sembrava che ascoltasse la mia vo-ce.» «Quell’idiota ha perso il telefono!» si infuriò Davide, sbattendo il proprio sul letto. «Magari l’ha trovato qualche bambino. O un barbone.» «Ma come ha fatto a perdere il telefono?» domandò Marcello. «Hai dimenticato con chi se ne è andato ieri sera?» gli ricordò Davide. «Quella era una prostituta. Se ne sarà andata mentre lui stava dormendo e gli ha portato via quello che ha trovato nei suoi pantaloni!» «E se gli fosse successo qualcosa?» si preoccupò Silvia. «Non dirlo neanche per scherzo… » stava per dire Davide, ma Marcello lo aveva interrotto. «Non traiamo conclusioni come queste» disse. «Probabilmente Davide ha ragione. Avrà sprecato ogni briciolo di energia con quella ragazza. Magari sta ancora dormendo.» E allora chi è che ha risposto?» domandò Michela sull’orlo di una crisi di nervi. «Può essere stata lei» propose Marcello. «E chi è che stava ridendo?» insistette la ragazza. «Erano risate femminili» rispose lui. «Risate!» ripeté Michela. «Quindi non poteva essere solo lei!» «Magari è stata una mia impressione» disse Marcello. «Ragazzi» saltò su Davide. «Non è questa la cosa importante. Tra meno di mezz’ora i prof faranno l’appello!» Quella frase costrinse ognuno a non parlare. Se ne erano dimenticati. Prima della colazione ci sarebbe stato l’appello. Come potevano spiegare l’assenza di Alessandro? Dire che era rimasto in camera perché si sentiva male? I professori sarebbero andati a controllare. «Ci inventeremo qualcosa» fu l’unica cosa che Marcello riuscì a dire. «Ci inventeremo qualcosa?!» ripeté Davide. «Lo sanno benissimo che noi eravamo con lui. Se Alessandro non torna, se vengono a sapere che ha pas-sato la notte fuori per noi sono cazzi mostruosi! Te ne rendi conto?» «Certo che me ne rendo conto!» sbottò Marcello, cercando di non perdere la calma. «Ma non possiamo fare molto a questo punto. O ci inventiamo qualcosa o accettiamo la sconfitta.» «E cosa diremo?» domandò Davide, dopo essersi lasciato cadere sul letto rassegnato.

Page 50: L'angelo oscuro

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Marcello non ne aveva idea. O almeno, non aveva un’idea abbastanza con-vincente da impedire che i professori facessero un minimo di indagine. Non sapeva come l’avrebbero scampata, ma era certo che non appena a-vesse rivisto Alessandro lo avrebbe riempito di botte. Giusto per fargliela pagare. «Diciamo che non sta bene» disse infine. «E se un professore decide di andare a controllare?» «A quel punto affrontiamo la realtà» decretò Marcello allargando le brac-cia. «Coraggio, pensiamo a vestirci. Dobbiamo essere puntuali per la cola-zione.» I due ragazzi tornarono nella loro camera. Marcello dimenticò le proprie scarpe nella camera delle ragazze, ma quando se ne accorse preferì indos-sare il paio di Nike che aveva di scorta. Fine anteprima.Continua...