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6 di Teresa Principato* P er comprendere la rilevanza del ruolo della donna all’in- terno di Cosa Nostra, quantome- no come madre, figlia, moglie, basta pensare che, secondo quanto da tutti riconosciuto, essa è il perno della famiglia di san- gue, sul cui modello si struttura l’intera organizzazione della “fa- miglia” mafiosa. Non a caso, si è parlato di “centralità sommersa” della donna di mafia. Essa infatti è custode ed elabo- ratrice dei codici culturali su cui si basa l’organizzazione, tra cui l’onore, la vendetta, l’omertà; è la garante della “reputazione” dei propri uomini; è lo strumento di rafforzamento del potere delle cosche, per lo più a mezzo delle strategie matrimoniali, in ordine alle quali è stata sempre trattata quasi come merce di scambio. Soprattutto è l’indispensabile ca- tena di trasmissione dei disvalo- ri mafiosi ai figli; la formatrice pedagogica delle giovani genera- zioni alle quali attingere i nuovi uomini d’onore, dato che alle madri è in via esclusiva affidata l’educazione dei figli almeno fino all’adolescenza. Tutta casa e Cosa (Nostra). E il coinvolgimento dei figli, sep- pure giovanissimi, costituisce u- na pacifica acquisizione del mo- dus operandi della struttura ma- fiosa, che ha sempre privilegiato, ai vertici, la “successione in linea L’altra metà della Cupola L’altra metà della Cupola Lo stereotipo le vuole custodi e veicolo dei (dis)valori tradizionali, ma ai margini dell’attività criminale. Le donne di Cosa Nostra, invece, sono pienamente inse- rite nel contesto mafioso: affidabili fiancheggiatrici o vere e proprie guide, il loro ruolo è sempre piùdeter- minante. Specie da quando Cosa Nostra si è vista co- stretta a cambiare le sue regole di reclutamento... Lo stereotipo le vuole custodi e veicolo dei (dis)valori tradizionali, ma ai margini dell’attività criminale. Le donne di Cosa Nostra, invece, sono pienamente inse- rite nel contesto mafioso: affidabili fiancheggiatrici o vere e proprie guide, il loro ruolo è sempre più deter- minante. Specie da quando Cosa Nostra si è vista co- stretta a cambiare le sue regole di reclutamento...

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di Teresa Principato*

Per comprendere la rilevanzadel ruolo della donna all’in-

terno di Cosa Nostra, quantome-no come madre, figlia, moglie,basta pensare che, secondoquanto da tutti riconosciuto, essaè il perno della famiglia di san-gue, sul cui modello si struttural’intera organizzazione della “fa-miglia” mafiosa. Non a caso, si èparlato di “centralità sommersa”della donna di mafia. Essa infatti è custode ed elabo-ratrice dei codici culturali su cuisi basa l’organizzazione, tra cuil’onore, la vendetta, l’omertà; èla garante della “reputazione”dei propri uomini; è lo strumentodi rafforzamento del potere delle

cosche, per lo più a mezzo dellestrategie matrimoniali, in ordinealle quali è stata sempre trattataquasi come merce di scambio.Soprattutto è l’indispensabile ca-tena di trasmissione dei disvalo-ri mafiosi ai figli; la formatricepedagogica delle giovani genera-zioni alle quali attingere i nuoviuomini d’onore, dato che allemadri è in via esclusiva affidatal’educazione dei figli almeno finoall’adolescenza.

Tutta casa e Cosa (Nostra). Eil coinvolgimento dei figli, sep-pure giovanissimi, costituisce u-na pacifica acquisizione del mo-

dus operandi della struttura ma-fiosa, che ha sempre privilegiato,ai vertici, la “successione in linea

L’altra metà della CupolaL’altra metà della Cupola

Lo stereotipo le vuole custodi e veicolo dei (dis)valoritradizionali, ma ai margini dell’attività criminale. Ledonne di Cosa Nostra, invece, sono pienamente inse-rite nel contesto mafioso: affidabili fiancheggiatrici overe e proprie guide, il loro ruolo è sempre piùdeter-minante. Specie da quando Cosa Nostra si è vista co-stretta a cambiare le sue regole di reclutamento...

Lo stereotipo le vuole custodi e veicolo dei (dis)valoritradizionali, ma ai margini dell’attività criminale. Ledonne di Cosa Nostra, invece, sono pienamente inse-rite nel contesto mafioso: affidabili fiancheggiatrici overe e proprie guide, il loro ruolo è sempre più deter-minante. Specie da quando Cosa Nostra si è vista co-stretta a cambiare le sue regole di reclutamento...

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Palermo, 15 novembre 1983. La moglie e le figlie sul luogo

dell’omicidio di Benedetto Grado,ucciso dai Corleonesi durante

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dica delle condotte: in poche pa-role, si è rilevato un apparentecambiamento strutturale dell’or-ganizzazione, tale da produrre unradicale mutamento del comples-so sistema di regole che sin dallaseconda metà dell’Ottocento ave-va costituito l’impalcatura stessadi Cosa Nostra, facendone unmonolitico sistema di governo egarantendone la continuità ed ildominio sul territorio.A ben guardare, già dai primi an-ni 80 erano state sempre più fre-quenti le violazioni al tradiziona-le corpus di norme, opportunisti-camente messe in atto per salva-guardia della struttura operativadell’organizzazione; ma proprioquesta “precarietà delle regole”aveva avuto come contropartitaun’incertezza dei modi di com-portamento che ha finito conl’insidiare qualsiasi consolidataappartenenza.Non è un caso che alla base dellascelta di molti ex uomini d’onoredi collaborare con la giustizia cisia lo scarso valore attribuito aitradizionali assetti della consor-teria. E proprio il fenomeno deicollaboratori di giustizia, che havisto negli anni 90 la sua massi-ma espansione, è stata la più di-rompente rivoluzione nella storiadi Cosa Nostra.

Sempre meno “battesimi”.

Per arginare il devastante effettodei “pentiti” – oltre ad una lorocostante delegittimazione, ai ten-tativi di infiltrare collaboratorideviati, alle fuorvianti propostedi dissociazione fatte pervenireallo Stato per avviare una tratta-tiva – l’organizzazione ha poco apoco cambiato pelle, determi-nando importanti trasformazionial suo interno.Le forme di reclutamento, ad e-sempio, sono state struttural-mente adattate a più contingentiesigenze di riservatezza e di sicu-rezza, riducendo di molto il nu-mero delle affiliazioni formaliz-zate con la “combinazione”. Que-sto rito, da sempre radicato nel-

retta”: è in tal senso sufficientericordare le famiglie dei Marche-se, dei Ganci, dei Madonia, deiBrusca, di Francesco MessinaDenaro, di Giuseppe Ferro (e l’e-lenco potrebbe continuare moltoa lungo), per non parlare delleorganizzazioni paramafiose gele-si, che normalmente utilizzano ifigli appena adolescenti ancheper la commissione di efferatidelitti o, addirittura, di stragi (adesempio, per la “strage di Capo-danno”, consumata a Palma diMontechiaro nel 1991, venne uti-lizzato anche il minorenne Ema-nuele Marino).Assai significativa è la vicenda diNinetta Bagarella, moglie di TotòRiina, che, finita la latitanza tra-scorsa con il marito sino alla cat-tura di questo nel gennaio 1993,non esita a riportare i tre giovanifigli a Corleone, in un contestomafioso in cui il loro destino è se-gnato: infatti Giovanni commettediversi omicidi per i quali vienecondannato all’ergastolo e Giu-seppe Salvatore subisce una con-danna a 14 anni di reclusione perassociazione di stampo mafioso. Compressa in una dimensione fa-milistica in cui le espansioni del-la sua personalità possono esse-re finalizzate solo alla salvaguar-dia della famiglia ed alla strettaosservanza dei compiti tradizio-nalmente assegnatile, primo fratutti quello dell’educazione dei fi-gli: questa l’immagine – o, me-glio, lo stereotipo – della donnasapientemente veicolato da CosaNostra fin dalle sue origini.

Come si cambia per non mori-

re. Ma a partire dai primi anni 90,i processi di trasformazione inne-scati da Cosa Nostra hanno resoe tuttora rendono impossibile u-na lettura statica del fenomeno,costringendo a farci carico dellasua complessità e della sua conti-nua evoluzione, a rimettere in di-scussione quelle che in certi mo-menti storici sono sembrate dellecertezze acquisite, indispensabilianche per la ricostruzione giuri-

l’organizzazione, ha costituitoper gli uomini di Cosa Nostra ilraggiungimento di uno status su-periore, una comunione indisso-lubile sino alla morte, una rinun-cia alla precedente identità ed u-na rinascita. Esso ha avuto lafunzione di contribuire a raffor-zare l’identità degli aderenti inquanto componenti del gruppo;la mancata affiliazione è statavissuta sempre dagli associaticome un’offesa, come la negazio-ne ingiusta di un’identità pro-messa e agognata.Una dimostrazione molto recente– 2002 – proviene dalla collabora-trice di giustizia Carmela RosaliaIuculano (vedi p. 21), moglie di Pi-

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cui loro si potevano fidare. In at-tesa di tale valutazione Giuffrèrinviava di giorno in giorno la de-cisione e Rizzo viveva con gran-de insofferenza questa attesa, an-che perché voleva fare carrierain fretta. Spiegava infatti alla mo-glie: «Se a me mi succede qualco-sa, a me non c’è nessuno che mipassa lo stipendio, che pensa pervoi, giustamente. Cioè, che mipaga l’avvocato». «Aveva questapremura – sottolinea la Iuculano– di essere combinato». L’incon-tro con Virga e Giuffrè, nel corsodel quale si doveva decidere del-la “combinazione”, non avvennemai perché intanto, proprio nel2002, Giuffrè fu arrestato.

no Rizzo, associato al mandamen-to di San Mauro Castelverde. Rizzo, ora imputato di associa-zione mafiosa, estorsioni, omici-dio ed altro, secondo quanto rife-rito dalla moglie viveva con gran-de sofferenza la mancata “combi-nazione”, per essere ammesso al-la quale attendeva la decisione diAntonino Giuffrè, capo del man-damento di Caccamo. Quest’ulti-mo lo aveva “dato in prestito” aDomenico Virga, reggente delmandamento di San Mauro Ca-stelverde, perché Virga, che do-veva essere il “padrino” di Rizzonel “battesimo”, valutasse se erauna persona “valida” che potevafare carriera in Cosa Nostra e di

Giovani senza pedigree? Me-

glio le donne di razza. In con-trasto con la sua storia, dunque,l’organizzazione ha sempre piùfatto ricorso alla cooptazione diaffiliati non combinati, dei co-siddetti “fiancheggiatori” utiliz-zati per le stesse attività primariservate agli uomini d’onore enormalmente scelti tra i giovanigravitanti nell’area della crimi-nalità comune.Se questo ha comportato alcunivantaggi per Cosa Nostra, comela settorialità delle conoscenze equindi un minor rischio in caso dicollaborazione, molto negativesono state, però, le conseguenzedi questa forma di reclutamentodi giovani non “messi alla prova”o, come si dice, “curati”, senza unpedigree mafioso, poco motivatie soprattutto per nulla tempratialla dura disciplina ed alle diffici-li prove cui gli uomini d’onore e-rano invece preparati: tra queste,soprattutto, la carcerazione. Edinfatti, molti di loro hanno co-minciato a collaborare subito do-po la detenzione. Tutto ciò ha costituito una causadi forte disgregazione, una perdi-ta di identità di Cosa Nostra, for-se la più rilevante dopo la costi-tuzione dell’organizzazione: il ve-nir meno dell’identità con il grup-po, sancita dal giuramento solen-ne, è talmente importante che l’i-solamento materiale determinatodall’applicazione dell’art. 41 bisdell’Ordinamento Giudiziario fuuno dei maggiori fattori causalidelle collaborazioni.E man mano che gli arresti e le la-titanze degli uomini d’onore sisusseguivano, sempre di più CosaNostra ha ritenuto più sicuro ri-correre, anziché ad estranei “fian-cheggiatori”, alle donne della “fa-miglia”, sicuramente più affidabi-li e più conservatrici dei disvalorimafiosi degli stessi uomini, affi-dando a loro il favoreggiamento el’assistenza ai latitanti, la trasmis-sione di bigliettini sigillati dal car-cere all’esterno, il supporto più omeno secondario in qualche ope-

La moglie di un mafioso in tribunale

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ritrattare sono stati spesso affi-dati a mogli, parenti ed amici,che venivano assistiti economi-camente dall’organizzazione.Tra gli esempi più recenti va ri-cordato quello relativo al “penti-to” Fedele Battaglia, affiliato allafamiglia di Brancaccio, indotto aritrattare dalla moglie, AngelaMorvillo (vedi p. 17), contattataed economicamente foraggiatada Cosa Nostra anche dopo ilpercorso collaborativo iniziatodal marito.

Addette alle pubbliche rela-

zioni. Sempre nel corso degli an-ni 90, prima di iniziare il processo

razione criminosa, anche di rilie-vo, il collegamento tra i detenutio i latitanti con gli altri compo-nenti dell’organizzazione.

La “grande madre” perdona i

suoi figli. Un altro aspetto delcambiamento riguarda il capilla-re controllo del territorio, tradi-zionalmente attuato soprattuttoattraverso il consenso sociale edin virtù del quale neppure un fur-to poteva essere commesso nelterritorio della “famiglia” senza ilpermesso della stessa, pena gravirappresaglie. Nel corso degli anni90 questo viene meno, insieme al-la “certezza della pena” conse-guente alla violazione delle rego-le e consistente, come in ogni re-gime totalitario, nella morte. È e-semplare in tal senso l’esempiodi Leonardo Vitale, ucciso a di-stanza di dieci anni dal suo tenta-tivo di collaborazione, peraltrodel tutto sottovalutato dall’Auto-rità Giudiziaria. Specularmente, Cosa Nostrasembra aver a poco a poco rinun-ciato all’esemplarità degli omici-di trasversali, e spesso i familiaridei collaboratori continuano a vi-vere nei paesi di origine (così co-me, ad esempio, hanno fatto Gal-liano o Di Matteo).La strategia adottata nei con-fronti dei collaboratori di giusti-zia è mutata dunque rispetto aquella dei Corleonesi di Totò Rii-na, improntata al terrore ed al-l’annientamento. In coerenzacon una linea più prudente, si èposta in essere una vera e pro-pria propaganda culturale voltaad alimentare e favorire, all’inse-gna della ricomposizione piùche della rottura, i processi di i-dentificazione con l’organizza-zione, rappresentata come la“grande madre” che è pronta ariaccoglierti nel suo grembo ed èpiù affidabile di uno Stato chespesso ha abbandonato i colla-boratori al loro destino: la cosid-detta “politica della mano tesa”. I numerosi e reiterati tentativi diindurre i singoli collaboratori a

di “inabissamento”, anche la re-gola del silenzio è stata violata daCosa Nostra di fronte alla crisisenza precedenti determinata daicollaboratori di giustizia: soprat-tutto dopo le stragi, infatti, nonpotendo più negare la propria esi-stenza, l’organizzazione ha tenta-to di recuperare il terreno perdu-to uscendo allo scoperto, lancian-do messaggi che riconfermasseroe legittimassero ancora una voltala propria autorità ed il propriocontrollo sul territorio, di frontealla defezione ed al “tradimento”di tanti uomini d’onore.Di questa nuova strategia comu-nicativa l’organizzazione ha inca-

Palermo, 1981. Cocktail party a Palazzo Ganci. Sulla sinistra, la moglie del principe Van-ni Calvello di San Vincenzo, accusato da Buscetta di essere membro di Cosa Nostra

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nelle attività criminali dell’orga-nizzazione, in diversi casi addirit-tura la partecipazione alla sferadel potere decisionale. L’improvviso “materializzarsi”delle donne di mafia così comel’inattesa autorità e legittimazio-ne conferita a queste figure-om-bra hanno finalmente fatto emer-gere da più parti molti interroga-tivi, evidenziando che sia “l’invi-sibilità” di ieri che la forte pre-senza di oggi erano comunque in-terpretabili secondo logiche distrumentalizzazione utilizzate daCosa Nostra nei confronti dellefigure femminili, nella scontatacertezza della totale condivisio-ne, da parte delle donne, del si-stema e del metodo mafioso cheesse stesse hanno contribuito inmodo determinante a fondare.

Sullo stereotipo, mafiosi e

magistrati concordano. L’e-mersione di “quest’altra faccia diCosa Nostra” è stata recepita congrave ritardo dagli studiosi e daitecnici del diritto, che pure diquesto fenomeno criminale si so-no da tanto tempo occupati. Ciòanche a causa di una supina ac-cettazione della strumentale ap-parenza proposta dagli uomini diCosa Nostra, organizzazione esa-speratamente maschilista che leha sempre escluse dal rito dellacombinazione formale: quella,cioè, della donna sottomessa, si-lenziosa, ignara degli affari dellafamiglia, priva di individualità,schiacciata in una posizione diappartenenza all’uomo ed al clan,che le impedisce ogni autonomiadecisionale, dedita unicamente alruolo di moglie e madre.A ben vedere, si tratta di un mo-dello culturale molto radicatonelle società neo-latine, dove iprocessi emancipativi della don-na hanno avuto un percorsomolto lento; nè possiamo di-menticare che ancor oggi, so-prattutto nell’Italia meridionale,in larghe fasce della popolazio-ne tale stereotipo femminile re-siste anche di fronte ad una

ricato le donne, alle quali è statoper la prima volta concesso di ac-quisire visibilità, di prendere laparola in difesa del sistema ma-fioso – così implicitamente riven-dicando la pregressa esistenza diun loro ruolo all’interno dellostesso – attraverso la scomunicaed il disprezzo manifestati neiconfronti di chi ha tradito ed ac-cusato, dei collaboratori di giu-stizia che avevano rinnegato “lagrande madre”. E a proposito di donne di mafia,è importante rilevare che neglianni 90 si è anche evidenziato illoro progressivo processo di in-serimento attivo e qualificato

realtà in continua evoluzione.I mafiosi hanno sempre sostenu-to che la donna non sa niente del-le attività dell’organizzazione;magistrati e forze dell’ordine pertanto tempo hanno pensato chele donne non hanno un peso con-tinuativo e rilevante nelle attivitàdi Cosa Nostra.Il frutto di tale inusitato corollarioè stata la sistematica valutazione,da parte dei giudici, dell’irrilevan-za penale delle condotte antigiuri-diche delle donne di mafia, anchedi quelle a favore dell’organizza-zione in modo eclatante.

Impunite in quanto sesso de-

bole. Il concetto di infirmitas ofragilitas sexus, mutuato dallatradizione del diritto romano, hadunque offerto alle donne unasorta di protezione, vaga e maicodificata, dai rigori della legge.Tale dato emerge con chiarezzadall’analisi dei provvedimenti giu-risdizionali emessi in quest’ultimoventennio nei confronti di donnedi mafia: un’analisi che forniscegli strumenti per mettere a fuocotalune pregiudiziali che hanno in-dotto i giudici, nella quasi totalitàdei casi, a ritenere non configura-bile, a carico delle donne, il delit-to di associazione di tipo mafioso,nonché quelli a quest’ultimo con-nessi. L’essere donna, e per di piùinnamorata, è stato titolo validoper reclamare, ed ottenere, l’im-punità per molte donne accertata-mente inserite in contesti mafiosi,ma assolte sul presupposto che,in mancanza di una loro autono-ma capacità a delinquere sintoma-tica di una consapevole partecipa-zione all’associazione, e conside-rato il loro tradizionale ruolo al-l’interno di Cosa Nostra, avevanoagito illegalmente solo perché in-dotte dai loro uomini ed al soloscopo di favorirli. Non associazio-ne di tipo mafioso, dunque, ma fa-voreggiamento personale, conl’ovvia conseguenza che, in co-stante presenza di un vincolo diparentela, neppure questo reato èstato ritenuto configurabile, per

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costruzioni e gestiva i beni delsuo convivente, venendo sempreresa edotta dell’andamento degliaffari e delle decisioni da prende-re dal suo procuratore generale,come questi aveva ammesso. Eb-bene, la Palazzolo veniva assoltadal delitto di associazione mafio-sa poiché non era stata raggiuntala prova del suo organico inseri-mento nell’organizzazione, bensìsolo della sussistenza di un rap-porto di convivenza con il Pro-venzano. La stessa veniva con-dannata solo per ricettazione.Per analoghe motivazioni, nel’93, veniva rigettata anche la mi-sura di prevenzione.

Oltre ogni ragionevole dub-

bio. Ma non basta. È ancoradecisamente esplicativa la moti-vazione della sentenza n. 188/85emessa dal Tribunale di Palermonei confronti di Angela e Vincen-za Marchese, quest’ultima sorelladi due killer (uno pentito, l’altrono), poi divenuta moglie di Leo-luca Bagarella e suicidatasi il 12maggio 1995.Nel corso di una perquisizione o-perata nella loro casa alla ricercadel fratello Antonino, al tempolatitante, le due donne, al fine dioccultarla agli agenti operanti,nascondevano sotto le vestiun’arma detenuta nella loro casa,abbandonandola poi sotto unascrivania nella sede del NucleoOperativo dei CC, dove eranostate accompagnate per essereinterrogate. Imputate per deten-zione e porto di arma clandesti-na, venivano assolte dal Tribuna-le di Palermo; nella sentenza siscriveva infatti che «sul puntoappare almeno dubbio, rispettoai moduli di comportamento cri-minali fin qui noti, che individuidi sesso femminile detengano[…] pistole di grosso calibro, es-sendo altro e diverso il ruolo ri-servato alla donna nelle organiz-zazioni criminali». Quel che occorre sottolineare èche le pronunce giurisdizionalicui si fa riferimento non risalgono

effetto della causa di non punibi-lità prevista dall’art. 384 del codi-ce penale.Eguali motivazioni e criteri sonostati adottati anche per l’applica-zione delle misure di prevenzio-ne, giungendo persino ad esclu-dere una possibile pericolositàsociale della donna di mafia, conla conseguenza che, a tutt’oggi,nella stragrande maggioranza deicasi si è pervenuti a provvedi-menti di non luogo a provvedere.

Dietro un “grande” uomo… Èsintomatica, a riguardo, la vicen-da di Saveria Benedetta Palazzo-lo, compagna di Bernardo Pro-venzano, dal quale aveva avutodue figli, che sino al 1992 ha se-guito il suo compagno nella lati-tanza. Nei suoi confronti, nel no-vembre 1983 veniva emessoprovvedimento restrittivo perchéritenuta responsabile, insieme aifratelli Paolo, Saverio ed al con-vivente Bernardo, di associazio-ne a delinquere di stampo mafio-so aggravata, finalizzata ad acqui-sire in modo diretto e indiretto lagestione ed il controllo di nume-rose attività economiche ed inparticolare di numerose società,appalti e servizi pubblici, e ciò alfine di realizzare profitti e van-taggi ingiusti per sé e per altri,con le aggravanti di essere l’asso-ciazione armata, di avere finan-ziato quelle attività economichecon il prodotto di delitti e deltraffico di sostanze stupefacenti. La fase istruttoria si chiudeva nel1989 con un’ordinanza-sentenzain cui si sottolineava che la Pa-lazzolo, ex camiciaia, già dal1974-75 si era allontanata da Ci-nisi dandosi alla clandestinità in-sieme al suo convivente. Dopol’emissione del mandato di cattu-ra a suo carico rimaneva latitan-te. La stessa, che sino al 1972 nonrisultava intestataria di beni im-mobili, nel corso degli anni e sinoal 1983 aveva acquistato, perso-nalmente o per interposta perso-na, beni per centinaia di milionied era diventata socia della Ital-

ad anni molto lontani nel tempo,ma si sono susseguite ininterrot-tamente, sino alle soglie del 2000.Così, il 17 luglio 1997, veniva e-messa dal Gip di Palermo un’or-dinanza di custodia cautelare acarico di Giuseppa Sansone, mo-glie di Francesco Tagliavia, uomod’onore della famiglia di Corsodei Mille. Alla donna, nei cui con-fronti attraverso intercettazioniambientali venivano raccolti ele-menti tali da far fondatamente ri-tenere che, nel corso della deten-zione del marito, gestisse gli affa-ri e l’organizzazione della fami-glia, fu riconosciuto dal Gip nonil delitto di associazione di stam-po mafioso, bensì quello di con-corso esterno nell’associazione

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brese dei Mammoliti, ed in parti-colare sulla posizione di MariaRosa Mammoliti, Maria CaterinaNava e Clara Rugolo, imputate diassociazione mafiosa, nonché diconcorso in episodi estorsivi, haemesso la prima sentenza con laquale si fa giustizia – è il caso didirlo – di quei pregiudizi che cosìprofonde radici hanno messonella coscienza collettiva.Le donne erano state assolte inprimo ed in secondo grado daireati loro addebitati, in quanto igiudici di merito avevano ritenutoche nel particolare contesto so-ciale il ruolo della donna, oggettodi una strategia di alleanze trami-te matrimoni volti a rafforzare i“clan” mafiosi, si risolveva in una

mafiosa, sul presupposto che «senon ci trovassimo in presenza diuna donna e quindi di un sogget-to che secondo le note regole diCosa Nostra non può essere chia-mato a far parte del sodalizio ma-fioso, non potrebbe revocarsi indubbio che i facta alla stessa ri-conducibili siano più che idoneia provare la sua appartenenza al-l’organizzazione criminale».

Al di là della macchietta, fi-

nalmente. Alla luce delle cono-scenze ed acquisizioni di oggipuò forse sembrare abnorme, masolo il 25 settembre 1999 la primasezione della Cassazione, deci-dendo sul ricorso proposto da al-cuni componenti del clan cala-

passiva acquiescenza alle sceltedel coniuge e che mancava in con-creto la prova di una qualsiasi ini-ziativa o apporto decisionale ri-conducibile alle imputate, al di làdella mera funzione di rappresen-tanza degli interessi familiari. La Cassazione, osservando che«quanto alle tre donne, a prescin-dere dalla valutazione sociologi-ca del loro ruolo che, nella realtàcontemporanea, non può esserericondotto a quello di semplicestrumento delle scelte di vita delconiuge», ha quindi deciso che«la partecipazione della donnaall’associazione mafiosa non puòricavarsi da un’asserita massimadi esperienza tratta dal dato so-ciologico o di costume che assu-me un ruolo di passività e di stru-mentalità della stessa, ma va ri-costruita attraverso l’esame delleconcrete e peculiari connotazio-ni della vicenda che forma ogget-to del processo».

Come il pregiudizio facilita la

carriera. Non v’è dubbio chel’“invisibilità” nella quale la don-na di mafia ha per tanto tempovissuto ha garantito a Cosa No-stra una sostanziale impunità perle attività delittuose gestite nelsuo interesse dalle donne che,protette anche da questi pregiudi-zi culturali, hanno continuato in-vece ad acquisire sempre più spa-zio nel contesto criminale, giun-gendo ad occupare ruoli rilevantinelle attività illecite di Cosa No-stra e soprattutto nelle sue dira-mazioni economico-finanziarie.A poco a poco le donne, anzichémere latrici di “pizzini” o curatricidelle latitanze, sono divenute pun-ti di riferimento dei componentidelle “famiglie”, hanno comincia-to a gestirne gli interessi econo-mici, a spartire gli introiti derivan-ti dalle estorsioni, a trovare i con-tatti per un’efficace ingerenza ne-gli appalti, ed ancora ad organiz-zare gli omicidi: una dimensionesempre più stabile, che appare an-cor più individuabile oggi, alla lu-ce delle recenti esperienze che

Palermo, 1982. Dopo lo scoppio di una bomba a scopo intimidatorio

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Canicattì, 1988. La figlia al funerale del giudice Antonino Saetta, ucciso dalla mafia

tinua ad essere il suo punto di ri-ferimento; infatti, durante un col-loquio su una questione legata adun acquirente che non rispettavale scadenze dei pagamenti, la Vi-lardi anticipa così allo zio il modoin cui si sarebbe comportata: «ASugameli (il commerciante, nda.)gli dico lei deve fare finta che par-la con Antonino Melodia».

hanno visto le donne di mafia pro-tagoniste di vicende giudiziariesempre più eclatanti, nell’ambitodelle quali finalmente il loro ruoloè stato ridisegnato entro coordi-nate più conformi al sistema giu-diziario vigente.

Alla pari del “macellaio”. Inquesti ultimi due anni, diverse or-dinanze di custodia cautelare so-no state emesse a carico di don-ne per i reati di interposizione fit-tizia nell’acquisizione di beni dadestinare a Cosa Nostra.È il caso, ad esempio, di MariaPia Vilardi, arrestata l’8 marzo2004 ad Alcamo (Tp): una donnadi 28 anni, alla guida di quella chegli inquirenti definiscono unadelle più fiorenti aziende dellamafia alcamese, la Ce.Com s.r.l.,società che si occupa del com-mercio all’ingrosso di carni, co-stituita nel 1996 per consentirealla “famiglia” mafiosa dei Melo-dia di trasferire, onde evitarne laconfisca, i beni e le quote socie-tarie della Cedica, analoga azien-da sequestrata anni addietro per-ché luogo di incontri dei compo-nenti dell’organizzazione, dove sipianificavano le estorsioni. DellaCe.Com in pratica, tramite la Vi-lardi, era rimasta proprietaria lafamiglia Melodia, i cui compo-nenti, capi assoluti della mafia al-camese, sono da diversi anni de-tenuti, alcuni anche con condan-ne a diversi ergastoli; i proventidella società venivano utilizzatiper sostenere anche le spese le-gali dei congiunti.Secondo quanto emerge dall’ordi-nanza di custodia cautelare, la Vi-lardi, titolare fittizia del 50% dellaCe.Com, all’interno della societàaveva assunto un ruolo che va benal di là di quello di prestanome:durante un colloquio in carcere,ad esempio, aveva richiamato lozio, Antonino Melodia detto “ilmacellaio”, sulla sua condotta nel-la gestione dell’attività commer-ciale, criticandone alcune scelte.Dalle intercettazioni, tuttavia, e-merge chiaramente che lo zio con-

“Mio marito è un infame”.

Nello svolgimento del compitoloro affidato le donne di mafiasono apparse dure, aggressiva-mente tese alla difesa di un mon-do di sopraffazione e di morte,pronte a sacrificare i propri figli,a maledire ed insultare chi tenta

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Emancipazione? Con molti se e molti ma...Percorrendo la storia dell’inserimento femminile nel-la mafia è evidente che questo è avvenuto solo quan-do risultava necessario. L’entrata di Cosa Nostra nei circuiti del narcotrafficoe la conseguente necessità di riciclare il denaro ille-cito ha creato compiti lavorativi più slegati alla vio-lenza di tipo maschile e più adatti alle caratteristichefisiche e culturali femminili; allo stesso tempo l’e-spansione dei traffici ha posto la necessità di trovaremanodopera fidata. E così le donne si sono ritrovatea supplire a una mancanza di organico, usate comecorrieri di droga perché insospettabili e non control-late dalla polizia. Esemplari i casi delle donne di Tor-retta, protagoniste nei primi anni Ottanta di un in-gente traffico di eroina tra Palermo e New York. Anche ai livelli più alti, nell’ambito di attività crimino-se più legate al power syndicate, le donne vengonosfruttate, nonostante in questo caso esercitino comun-que una forma di “potere pubblico”. È il caso delle at-tività estorsive, sempre più di competenza femminilepoiché la donna non deve esercitare violenza, ma solointimidire l’estorto minacciando un’eventuale ritorsio-ne da parte del clan del proprio uomo. Una storia cheha avuto una notevole eco mediatica, poiché a rischiodi taglieggiamento si era trovato il cast del film Ocean12, è quella delle donne della famiglia mafiosa di Ca-stellammare del Golfo (mandamento di Alcamo) chegestivano il racket nella zona di competenza dei mari-ti, boss mafiosi incarcerati. La detenzione dell’uomo è il presupposto fondamen-tale perché la donna eserciti un ruolo pregnante al-l’interno della “onorata società”, che spesso divienevero e proprio comando. Tante sono le storie di don-ne che hanno sostituito il parente detenuto aiutando-lo a conservare il proprio potere e a mantenere vivoil proprio business. Tra le figure più interessanti c’èNunzia Graviano, la cui caratura criminale emergechiaramente dalle carte processuali. Sorella dei “rais”di Brancaccio, Filippo e Giuseppe Graviano, condan-nati per i più efferati eccidi di Cosa Nostra tra cui l’o-micidio di padre Pino Puglisi, gestiva per conto deifratelli il patrimonio occulto della famiglia racco-gliendo il denaro illecito e reinvestendolo in circuitiinternazionali. Un altro caso che la dice lunga èquello dell’avvocatessa Cinzia Lipari, che grazie allasua professione svolgeva il ruolo di portalettere e dimediatrice finanziaria, permettendo al padre, Pino Li-pari, di mantenere il proprio rapporto lavorativo conBernardo Provenzano. Non vi è dubbio che si tratta di donne che esercitanoun potere reale, che comandano altri uomini e chedimostrano una notevole determinazione criminale.Allo stesso tempo però, approfondendo le loro storie,si intravede la persistenza di una vita strettamente

controllata dagli uomini, rispondente dunque a dina-miche di tipo patriarcale. A conferma di ciò è anchela natura del loro potere, delegato e temporaneo; es-se seguono infatti le direttive impartite dal carcere esono costrette ad abbandonare le posizioni acquisiteuna volta conclusosi il periodo emergenziale di de-tenzione degli uomini, oppure una volta raggiunteposizioni di media importanza non possono aspirarea posizioni più alte. Pensiamo a Giusy Vitale (vedi p.25), che divenuta capo mandamento non può parte-cipare alle riunioni dei reggenti perché donna. Inoltre siamo di fronte a donne rispettate e temute daimembri del clan sia per il loro cognome sia per la lo-ro personalità, ma che nella maggior parte dei casisono costrette a rinunciare alle aspirazioni più inti-me. La storia di Nunzia Graviano in questo senso è e-semplare. I fratelli la costringono a interrompere unarelazione sentimentale con un medico siriano cono-sciuto a Montecarlo, dove lei si occupava di gestire isoldi dei fratelli. In una conversazione intercettata,Giuseppe le dice: «Io sono siciliano, a casa nostra cisono delle tradizioni, da noi non si usa il divorzio,qualsiasi frequentazione deve essere finalizzata almatrimonio. Ma di che religione è questo?».In sostanza, contraddizioni e ambiguità insite nellacondizione femminile, che “avanza” da un lato ma chedimostra arretratezza dall’altro, ci dimostrano ancora u-na volta la capacità della mafia di adattarsi alla moder-nità mantenendo vivi gli aspetti più tradizionali, sfrut-tando in questo modo i processi di mutamento della so-cietà. Nei confronti del processo di emancipazionefemminile, ad esempio, la mafia è stata capace di av-vantaggiarsi degli aspetti che più le convenivano, ne-gando quelli più scomodi. Inserisce una nuova genera-zione di donne, più istruite e libere di muoversi rispet-to al passato, negando loro una vera indipendenza psi-cologica ed emotiva. Nunzia è utile ai fratelli perchéparla inglese, sa usare il computer e viaggia in modo di-sinvolto, ma non è libera di amare chi desidera. Nel porre in rilievo la subalternità delle donne nellamafia non vi è l’intento di negare la loro responsabi-lità penale, che è piena e consapevole, bensì vi èquello di puntualizzare il fatto che le nuove funzionie competenze delle donne nella mafia sono il fruttodi una “pseudo-emancipazione” anziché di una veraliberazione. In altre parole le donne sembrano averacquisito una sorta di parità perché a differenza delpassato sono presenti nella scena criminale, ma insostanza ancora oggi vivono dei rapporti di genere ditipo patriarcale. Possiamo invece affermare che la vera liberazione siesplica nei casi di donne che decidono di fare unascelta di vita attraverso la collaborazione processua-le, allontanandosi in tal modo dall’universo mafiosoe interrompendo la trasmissione dei principi e valorimafiosi, espressione di una cultura profondamentemaschilista.

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è un pazzo. Non sa quello che di-ce. Con la sua decisione di rac-contare quelle storie assurde hafatto aggravare lo stato di salutedi nostra madre, che sta moltomale. Per noi quell’uomo è davve-ro morto… lo scriva, che quelloha raccontato storie che nonstanno né in cielo né in terra».

Meglio vedova. Anzi, no. Ine-sorabile la reazione di Agata DiFilippo al momento della diffu-sione della notizia della collabo-razione dei fratelli, Pasquale edEmanuele: «Ci dissociamo com-pletamente dall’operato di quegliesseri infami. Siamo chiusi in ca-sa per la vergogna. Mio padre emia madre sono distrutti. Miamadre si è sentita male ed ho do-vuto chiamare un’ambulanza». Il giorno dopo Agata Di Filippotenta il suicidio mediante inge-stione di barbiturici e viene trattain salvo dal padre.Contestualmente, Giusy Spadaroed Angela Marino, rispettivamen-te mogli di Pasquale ed Emanue-le Di Filippo, in una telefonata al-la redazione palermitana dell’An-sa dichiarano: «Siamo le ex moglidi quei due pentiti bastardi. Pernoi loro sono morti». La Spadarocontinua: «Meglio se lo avesseroammazzato, meglio morto, inve-ce è un infame pentito, come suofratello. Ai miei tre figli ho detto:non avete più un padre, rinnega-telo, dimenticatevi di lui […]quello ha portato nel suo rifugiosegreto l’amante … io sono comemio padre (Tommaso Spadaro,nda.). Ci tengo all’onore della fa-miglia». Di analogo tenore sonole dichiarazioni rilasciate da An-gela Marino.Bisogna però ricordare che ledue donne si sono poi riunite airispettivi mariti, raggiungendolinei luoghi protetti. Anzi, GiusySpadaro nell’aprile del 1997 hainviato alla Corte d’Assise, dinan-zi alla quale si celebrava il pro-cesso per la strage Borsellino, u-na lettera: «Cosa Nostra, due pa-role che significano morte e di-

di liberarsi dall’abbraccio morta-le del vincolo di affiliazione, ser-vendosi di tutti i mezzi ed arri-vando addirittura a mettere in di-scussione valori familiari sacri,come la maternità, anche se inqualche caso la presa di distanzadal congiunto collaboratore èstrumentale e determinata da ra-gioni di autotutela dagli altricomponenti dell’organizzazione.In tale direzione, appaiono signi-ficative le dichiarazioni rilascia-te da alcune donne di mafia, difronte alla collaborazione deipropri uomini.Così Rosalia Basile, moglie diVincenzo Scarantino, imputatodella strage Borsellino: «Enzo a-veva la barba lunga, era sporco.Mi ha detto che aveva paura diessere ucciso […] ad Enzo glihanno fatto anche delle iniezioni,dicendogli che era il virus del-l’Aids […]. Fatti l’esame di co-scienza, sei un bugiardo, sei uninfame. Io sono qui solo per direla verità». E, in relazione alle ac-cuse di omosessualità lanciatecontro il marito al processo diCaltanissetta, la donna confer-ma: «Conoscevo le inclinazioni diEnzo già prima del matrimonio». Molto dure anche le parole diGiuseppa Mandarano nei con-fronti del marito Marco Favaloro,il collaboratore di giustizia con-dannato per l’omicidio dell’im-prenditore palermitano LiberoGrassi: «Lui non è un pentito, èun infame. La stessa sera, quandol’ho saputo, ho aperto l’armadio,ho preso tutti i suoi vestiti e li hobruciati. Qui a casa non c’è piùniente di suo, nemmeno una ca-micia, nemmeno un fazzoletto».Rosa Romeo, sorella di Pietro,uomo vicino a Leoluca Bagarellae killer ai suoi ordini, dopo l’ini-zio della collaborazione del fra-tello, dichiara anche a nome deifamiliari: «Lo rinneghiamo, per-ché con le sue infamità ha rovina-to molte famiglie. Non gli perdo-neremo mai quello che ha fatto…

struzione, e solo oggi, che grazieai magistrati ed al Servizio Cen-trale di Protezione ho potutoriabbracciare mio marito, ho ca-pito quanto è bello vivere lonta-no da Cosa Nostra, io che ci sononata e cresciuta e ho dovuto ri-pudiare pubblicamente mio mari-to per paura. Oggi sono felice dinon far più parte di quel maledet-to sistema che ha distrutto la miavita e quella di mio marito».

Tutto, pur di farlo ritratta-

re. Alla luce di tali reazioni,non ci si può pertanto meravi-gliare del fatto che, soprattuttoquando proviene da un contestofamiliare mafioso qualificato, la

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Capaci (Pa), 1978. La vedova e i figli di Pietro Longo, boss ucciso dalla mafia

zia, il 4 dicembre 2002 il Gip delTribunale di Palermo emettevaordinanza di custodia cautelarenei confronti di 44 indagati,componenti di diversi manda-menti (tra cui quello di Brancac-cio) e famiglie mafiose per asso-ciazione mafiosa, estorsioni, de-tenzione a fine di spaccio diun’ingente quantità di cocaina,traffico di stupefacenti, armi edaltro. Tra le persone colpite dalprovvedimento restrittivo, tuttedi notevole spessore criminale,vi sono due donne: GiuseppaMaria Patricia Greco, moglie diGuttadauro, capo indiscusso delmandamento di Brancaccio, in-dagata per associazione di stam-

donna è stata e continua ad es-sere, secondo un’esperienzaconsolidata, un elemento di no-tevole attrito nel meccanismodi avvio alla collaborazione de-gli uomini d’onore. Anzi, quasisempre, come ebbe a sottoli-neare lo stesso Giovanni Falco-ne, gli uomini che sono in pro-cinto di iniziare una collabora-zione vogliono preventivamen-te discuterne con le mogli: ac-cade spesso che da questi collo-qui escano dissuasi dal collabo-rare. Significativa, a riguardo,la vicenda di Angela Morvillo.In seguito a complesse indaginicorroborate dalle dichiarazionidi alcuni collaboratori di giusti-

po mafioso aggravata, e AngelaMorvillo, moglie del collaborato-re di giustizia Fedele Battaglia,indagata per il delitto di favoreg-giamento aggravato dalle fina-lità mafiose. Alla Morvillo è sta-to contestato di avere operato alfine di fare recedere il marito,affiliato alla famiglia di Brancac-cio, dalla collaborazione intra-presa con la giustizia, intento ef-fettivamente realizzato, e per a-ver informato del processo col-laborativo, attraverso tale Salva-tore Giordano, il proprio suoce-ro, Giuseppe Battaglia, e gli altriesponenti dell’organizzazionemafiosa di Brancaccio.La collaborazione di Fedele Bat-taglia era iniziata il 21 dicembre2000 e si era protratta sino alfebbraio 2001. Il 15 gennaio2001, la moglie, nonché due deiloro quattro figli, Laura e Giu-seppe, venivano trasferiti in lo-calità protetta, mentre le altredue figlie, Letizia e Rosalia, ri-fiutando di aderire al Program-ma di Protezione, rimanevano aPalermo, presso la nonna pater-na, Ninfa Messineo, moglie diGiuseppe Battaglia, così da subi-to determinando una spaccaturadel nucleo familiare. Tale statodi cose veniva documentato dal-le intercettazioni che registrava-no, nel momento della partenzadei familiari del Battaglia da Pa-lermo, paura, preoccupazione,malumore e diffidenza tra icoassociati più vicini al padredel Battaglia, peraltro manife-stamente schieratosi contro ladecisione del figlio. Il 20 marzo2001, Angela Morvillo abbando-nava la località protetta, e face-va rientro a Palermo adducendoproblemi di ambientamento do-vuti anche alla lontananza delledue figlie rimaste nel capoluogosiciliano e dichiarando di averinformato di tale decisione ilmarito, che lei riteneva pazzo, ilgiorno precedente. Da quel mo-mento cominciava ad aizzarglicontro i figli, non facendoglielineppure più vedere.

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Meglio il male conosciuto, che

un bene sconosciuto. Attra-verso le intercettazioni ed i suc-cessivi interrogatori, si appren-deva che la Morvillo non avevamai reciso i suoi rapporti conl’organizzazione e il reggentedel mandamento, Giuseppe LoCascio, ammetteva che allaMorvillo la “famiglia” di Bran-caccio aveva mensilmente corri-sposto uno “stipendio” derivan-te dalle estorsioni e ciò sia du-rante la detenzione del marito,sia mentre si trovava in localitàprotetta, sia dopo la ritrattazio-ne del Battaglia. Questi infatti, nel marzo 2001 condue missive ed il 25 ottobre 2001nel corso di un altro interrogato-rio, ritrattava le precedenti di-chiarazioni, che attribuiva al pro-prio stato confusionale ed all’o-pera della sua fervida fantasia.Ma il Giudice ha ritenuto del tut-to ininfluente la ritrattazione –che numerose intercettazioniambientali e accertamenti dimo-stravano “manovrata” da CosaNostra, tramite il fondamentalecontributo della Morvillo – econvalidava la validità probato-ria delle precedenti dichiarazio-ni di Battaglia. La vicenda di Angela Morvillomette in luce la funzione profon-damente conservatrice delledonne in relazione agli assetti diCosa Nostra, cui consegue quelladi profondo attrito rispetto allacollaborazione. Questa donna ri-conduce ancora una volta i pro-pri figli nell’alveo di Cosa No-stra, percepita come la “grandemadre” che non abbandona eche viene ritenuta molto più affi-dabile dello Stato.

Più istruite, più emancipate,

più coinvolte. A questo punto, ènecessario operare delle rilevantiprecisazioni, scaturenti dall’e-sperienza giudiziaria di questi ul-timi anni:1) quelle di cui parliamo sonodonne che provengono da conte-sti mafiosi, anche piuttosto quali-

ficati. In qualcuno di essi si è ve-rificato che il rapporto fra uomi-ni e donne, sia sul piano delle at-tività criminali, sia sul pianostrettamente relazionale e fami-liare, è mutato in conformità aicambiamenti della società nelsuo complesso;2) nel contesto mafioso la figuradella donna, seppur estremamen-te pregnante, emerge come al-trettanto contraddittoria e non a-prioristicamente omologabile: o-gni donna è una storia a sé;3) ancor oggi, la cooptazione del-la donna nell’organizzazione cri-minale avviene (e non solo in Ita-lia) solo in quanto moglie, aman-te o figlia dell’uomo d’onore;4) i processi di emancipazionefemminile in generale e l’alto tas-so di scolarizzazione secondariadelle giovani donne in particola-re hanno avuto sicuro rilievo nel-l’espansione della dimensionedelle donne all’interno del mon-do della mafia.Quindi, anche la tipologia dellacriminalità femminile è sempreinfluenzata dai fattori politici, e-conomici, sociali: tale dato, ad e-sempio, emerge in modo eclatan-te attraverso il paragone con la si-tuazione albanese, analizzata nel-l’ambito di una ricerca condottadall’Università di Palermo .Ed infatti in Albania, Paese astruttura conservatrice, non de-mocratica, rigidamente patriar-cale, dove le donne non hannoun livello di istruzione e sonoconsiderate “animali da lavoro”,il tipo di crimini è molto ele-mentare, imperniato sullo sfrut-tamento che la donna fa di sestessa (prostituzione) o dei suoifigli (traffico di minori). Non ap-pare neppure pensabile, consi-derata l’“inesistenza” della don-na come persona, che alla stes-sa siano affidati ruoli di maggio-re responsabilità o che venga in-serita con ruoli-chiave nell’orga-nizzazione, né che alla stessasiano affidati ruoli ad interim,in caso di morte e di detenzionedel marito.

Strategicamente cangianti.

Tornando a Cosa Nostra, appareevidente che i radicali muta-menti prodotti dai processi di e-mancipazione femminile, chehanno interrotto una continuitàcon il passato, rendendo le don-ne più libere di essere protago-niste in ogni settore della vitasociale, hanno per qualche ver-so interessato anche il mondochiuso e sommerso che caratte-rizza l’organizzazione mafiosa,determinando un maggior rilie-vo delle figure femminili, fino afar loro raggiungere un notevolespessore criminale che va benoltre i tradizionali compiti affi-dati alle donne.È altresì significativo che anchein questo periodo di “inabissa-mento” di Cosa Nostra, nel qua-le le donne sono tornate all’u-suale condizione di “invisibilità”che l’organizzazione impone, lestesse tuttavia continuino ad e-sercitare un ruolo criminale pre-gnante, ciò che dovrebbe contri-buire a fare giustizia di ogni for-ma di scetticismo in ordine alloro reale e continuativo inseri-mento in Cosa Nostra, al di làdei periodi di “fibrillazione” del-l’organizzazione, quale quellodovuto al proliferare dei colla-boratori di giustizia. Man manoche Cosa Nostra va sempre piùassumendo connotazioni nonviolente, il ruolo delle donne,che normalmente nei crimini disangue non vengono utilizzate,si va stabilizzando, sino al puntoda diventare una componenteessenziale e sempre più insosti-tuibile nelle attività di gestionedell’organizzazione.Vedremo nel tempo se questa“stabilizzazione”, oggi strumenta-le al raggiungimento dei fini del-l’organizzazione, inciderà positi-vamente o meno sulla stessa e fi-no a quale momento Cosa Nostrala consentirà.

* Sostituto procuratore presso la Di-

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di Giovanna Montanaro

«Il rapporto tra donne e mafiaè cambiato profondamente.

Tutti gli arresti e le pesanti con-danne inflitte a donne di Cosa No-stra in questi anni hanno dimo-strato la necessità per l’organizza-zione – maschilista al massimo –di utilizzare le donne con ruoli an-che non secondari, di ausilio nelriciclaggio del denaro, nei contat-ti con i familiari detenuti oppurecome collettori di pizzo». A parla-re è la dottoressa Lia Sava, magi-strato della Dda di Palermo. «Però – continua – se da una par-te la figura femminile si evolve,per necessità, anche in Cosa No-stra, diventando sempre più pro-tagonista di condotte criminali,dall’altra si apre contemporanea-

mente un nuovo spiraglio nellapossibilità di pentimento: ora an-che le donne, partecipi delle infor-mazioni e delle conoscenze primariservate agli uomini, possonomaturare la decisione di collabo-rare con la giustizia. Anzi, con unaspinta emozionale in più: i figli».La dottoressa Sava è un’osserva-trice privilegiata di questa nuovafase del pentitismo al femminile;è stata lei, infatti, insieme ad al-cuni colleghi, a raccogliere le di-chiarazioni di Carmela Rosalia

Iuculano, una delle collaboratricidi giustizia più significative insie-me a Giusy Vitale, anche lei a-scoltata dalla Dda di Palermo, dicui è sostituto procuratore il dot-tor Maurizio De Lucia.

Donne al bivio. Carmela e Giusy:due caratteri, due storie, due per-corsi molto diversi, con in comuneil coraggio di spezzare i vincoli fa-miliari e mafiosi in cui avevanovissuto e di rompere il silenzio,passando dalla parte dello Stato.

Adesso sono davvero “donne d’onore”Adesso sono davvero “donne d’onore”

Carmela Iuculano e Giusy Vitale: due caratteri e due percor-si molto diversi, ma con in comune il coraggio di riscattarsidal giogo di Cosa Nostra. Si apre la fase del pentitismo alfemminile

Giacoma Filippello, pentita di mafia

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torevole e spietata. Poi le ma-nette erano scattate anche perlei, madre di due bambini, e lapossibilità di ricominciare a vi-vere l’ha convinta a collaborare,pur sopportando le maledizionie le minacce dei suoi familiariche non facevano mistero di de-siderare la sua morte.

Poche, ma buone. La scelta dicollaborare con la giustizia è spes-so faticosissima, piena di lacera-zioni e incertezze, ma estrema-mente importante per gli inquiren-ti e per gli effetti dirompenti cheproduce nell’organizzazione ma-fiosa, dove i vincoli mafiosi e quel-li di sangue coincidono, e sonoconsiderati sacri e indissolubili.L’importanza dei pentiti è tanto

Carmela, vissuta dall’età di 15anni all’ombra del marito, avevaassunto un ruolo più centralenei malaffari di famiglia daquando lui era stato arrestato,ma poi la stessa sorte era tocca-ta a lei, lasciando soli i tre figli.Neanche di fronte a questo ilmarito aveva collaborato con lagiustizia e allora il salto l’ha fat-to lei, riscattando i suoi bambinie se stessa dalla sudditanza diCosa Nostra.Giusy, cresciuta in un’importan-te famiglia mafiosa, si era gua-dagnata sul campo il ruolo di“reggente” del mandamento diPartinico quando i suoi fratellierano stati arrestati. Un veroboss in gonnella, rispettata etrattata al pari di un uomo, au-

più vera in un periodo in cui le col-laborazioni “di qualità” si sono no-tevolmente ridotte e Cosa Nostraha scelto la strategia dell’inabissa-mento e del silenzio, pur restandoancora forte e radicato il suo pote-re sul territorio. Non sono molte le donne di ma-fia che decidono di collaborare,mentre emerge prepotentementeil ruolo delle stesse nel prendereil posto di mariti, padri e fratelliincarcerati e gestire gli affari difamiglia sul territorio. La figurafemminile in Cosa Nostra, rima-sta fumosa o addirittura negataper anni, assume contorni sem-pre più definiti anche grazie airacconti di queste coraggiose edeterminate “donne d’onore”.

Santina Rizzo Barafranca. Suo figlio di 11 anni è stato ucciso per essere stato testimone di un omicidio mafioso

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so dei quali abbiamo raccolto lesue dichiarazioni.

Di cosa era a conoscenza?

Il ruolo della Iuculano risente ov-viamente del contesto ambienta-le in cui è vissuta. Si tratta infattidi una donna che si è sposatamolto giovane ed è sempre vissu-ta all’ombra del marito, respiran-do nel suo ambiente criminale.È a conoscenza di tantissimi epi-sodi, alcuni appresi dal marito, oda amici e parenti del marito, al-tri di cui è stata spettatrice diret-ta. Soprattutto da quando il mari-to, i parenti e i collaboratoristretti progressivamente sonostati arrestati lei ha acquisito unruolo di maggiore rilievo, facen-do da “collettore” di notizie – eanche di sensazioni – tra il carce-re e l’esterno.

Come si caratterizza la figura

di questa donna?

Tengo a precisare: la Iuculanonon è la Vitale, non è la donna

Intervista a Lia Sava* di G.M.

Dottoressa Sava, alla luce della

sua lunga esperienza in magi-

stratura, cosa ci può dire della

collaborazione avviata da Car-

mela Iuculano?

È una storia particolare e di no-tevole interesse. La Iuculano vie-ne arrestata nei primi di maggiodel 2004, a seguito delle attivitàdi indagine scaturite dalle dichia-razioni di Antonino Giuffrè. Se-condo la ricostruzione accusato-ria, ma soprattutto secondo le in-tercettazioni ambientali effettua-te in carcere, svolgeva un sup-porto fondamentale per le esi-genze dell’organizzazione. Ottiene gli arresti domiciliari, es-sendo madre di un bambino dietà inferiore ai tre anni, e, se ri-cordo bene, manifesta la volontàdi collaborare con la giustizia u-na decina di giorni dopo. A quelpunto, è scattato il meccanismoprevisto dalla nuova legge suicollaboratori: i 180 giorni nel cor-

boss in grado di assumere deci-sioni anche di un certo rilievo. Citroviamo in presenza di un’altratipologia di donna di mafia. È ladonna che, essendo vissuta in unparticolare contesto criminale,ad un certo punto decide di usci-re dall’ottica del silenzio e di par-lare, dove il racconto della suastoria e delle vicende di cui è aconoscenza assume anche unafunzione liberatoria dal dolorecausatole dal precedente vissu-to. Ciò, evidentemente, assumeun certo rilievo anche in rappor-to al suo essere madre. Infatti,quando le abbiamo chiesto i mo-tivi della sua collaborazione, laIuculano, da un lato, ha riferitodi spinte religiose (e personal-mente credo che ci sia stata un’e-sigenza di purificazione, a livellospirituale, rispetto a certe realtàdelittuose che viveva, evidente-mente, con profondo disagio),ma d’altro lato ha fatto chiaro ri-ferimento alla motivazione fon-damentale: i suoi figli.

Quanto ha influito questo aspetto?

La necessità di sottrarre i tre fi-

“Il futuro dei figli, prima di tutto”

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Carmela, madre coraggioCarmela Rosalia Iuculano, originaria di Cerda (Pa), è unagiovane donna di 32 anni, sposata con Pino Rizzo, dalquale ha avuto tre figli, ora di 14, 11 e 2 anni. Ha fre-quentato la scuola superiore di Ragioneria fino al 1989,quando, all’età di 16 anni, aveva fatto la classica “fuiti-na” con Rizzo, allora ventunenne, con il quale si sareb-be sposata nel 1991.Mentre la donna non proviene da un contesto mafioso,tant’è che il padre aveva aspramente contrastato quell’u-nione, Rizzo ha alle spalle una famiglia mafiosa influen-te nel territorio di riferimento ed è stato considerato da-gli inquirenti come colui che, prima del suo arresto, ave-va partecipato alla direzione delle famiglie mafiose ope-ranti nelle zone di Cerda, Sciara, Collesano e Campofe-lice di Roccella; il padre Giuseppe era uomo d’onore,così come lo zio Rosolino, “rappresentante” della zonadi Sciara e Cerda e uomo fidato di Antonino Giuffrè.Quest’ultimo, poi tratto in arresto il 16 aprile 2002, do-po ben otto anni di latitanza e divenuto collaboratore digiustizia, era capomandamento di Caccamo ma, per vo-

lontà del Provenzano, aveva un incarico di supervisionesul mandamento di San Mauro Castelverde, compren-dente i Comuni di Collesano, Sciara, Cerda, Lascari,Gratteri e Campofelice di Roccella, il cui reggente eraDomenico Virga.Pino Rizzo, dunque, espletava le sue attività criminalisia agli ordini di Giuffrè che di Virga, al quale anzi erastato “prestato” dal primo per saggiarne le qualità diuomo d’onore. Rizzo veniva arrestato il 24 luglio 2002 per il reato ditentata estorsione aggravata; con ordinanza del 19 set-tembre 2002, inoltre, sulla scorta delle dichiarazioni re-se dal Giuffrè e dei primi elementi di riscontro acquisiti,gli veniva applicata la misura cautelare della custodia incarcere anche per il reato di associazione mafiosa. Il 3 maggio 2004 nei confronti della Iuculano, nonché dialtri indagati, tra i quali il marito ed il fratello, veniva e-messa dal Gip di Palermo un’ordinanza di custodia cau-telare per il delitto di concorso in associazione mafiosaaggravata, così derubricato il reato di associazione ma-fiosa piena contestata dal p.m.Nell’ambito dell’ordinanza, il Gip sottolineava: «[…] la

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riscattare non solo se stessa, maanche le figlie dalla sudditanzaa Cosa Nostra. Possiamo, dunque, affermare, co-me per altro già sottolineato datante figure storiche dell’antima-fia, che la cultura della legalità re-spirata dalle nuove generazioninelle scuole è fondamentale, e pri-ma o poi dà i suoi frutti. I semi get-tati nelle scuole stanno facendonascere nuove coscienze, e le fi-glie della Iuculano, come lei stessaha riferito in un pubblico dibatti-mento di fronte al marito detenutoche assisteva all’udienza, ne sono

gli alla cultura mafiosa ha deter-minato la scelta di collaborarecon la giustizia. Le figlie adole-scenti – peraltro molto brave evolenterose a scuola – manife-starono con la madre, ad esem-pio, un forte disagio quando,proprio mentre il padre ed altricongiunti si trovavano detenutiper mafia, a loro era richiestodagli insegnanti di scrivere untema sulla legalità e sulle ragio-ni dell’antimafia. Tale disagio di-venne fortissimo quando anchela madre venne arrestata: di quila necessità per la Iuculano di

evidente espressione. Un tempo i figli dei mafiosi pote-vano essere considerati più fortiproprio perché il genitore apparte-neva all’organizzazione; evidente-mente ora qualcosa sta cambian-do: la cultura della legalità diventauno strumento assolutamente vin-cente nella lotta a Cosa Nostra.E la Iuculano stessa, pur essendomolto giovane – ha 32 anni – e a-vendo respirato la cultura mafio-sa, ha vissuto la sua maturazionein un decennio in cui i messaggidell’antimafia sono arrivati comepiccoli semi anche all’interno

donna, ben consapevole delle attività delittuose (in par-ticolare estorsive) svolte dal coniuge e dai sodali appar-tenenti al medesimo gruppo mafioso, precedentementeal suo arresto ed in atto, e della inscrivibilità di esse nelprogramma associativo di Cosa Nostra, nonchè del mo-mento di crisi attraversato dal sodalizio (essendo stati ar-restati il marito e Rizzo Rosolino), offriva […] un contri-buto tendente a far “salva” l’attività dell’associazione,contribuendo a realizzare gli scopi criminosi del sodali-zio in mancanza della volontà di farli propri. Non è e-merso, infatti, dalle indagini sin qui svolte che la donnaantecedentemente ai suddetti arresti svolgesse un ruolostabile ed organico all’interno del sodalizio (sia pur sen-za formale investitura), che ne denoti la piena adesionealla societas sceleris e l’affectio societatis. In tal sensovanno lette le condotte di ausilio al marito ed agli altricongiunti facenti parte dell’associazione mafiosa, dete-nuti e non, concretatesi nel fungere da tramite fra il co-niuge e gli altri sodali per la trasmissione di messaggi edirettive di vitale importanza per l’operatività del gruppomafioso, fra le quali alcune concernenti la pianificazio-ne e razionalizzazione di attività estorsive in corso; inparticolare, si evidenzia come di estrema significatività alriguardo il contenuto del colloquio in data 28.8.2002 dalcui contesto si evince inequivocabilmente che la donnaè latrice di richieste di autorizzazione destinate al mari-to per lo svolgimento di attività estorsive (“il dottore vo-leva sapere..”, “vuole lo sta bene”). È emerso anche chela stessa dopo l’arresto del marito aveva ricevuto da Vir-ga Domenico somme di denaro che dal contesto dell’in-terlocuzione è chiaro che la donna ben sapeva essereprovento di attività estorsiva e che fungeva da tramite frail marito ed il fratello Iuculano Giuseppe per pianificarele attività estorsive.Quanto alla piena consapevolezza dell’indagata circal’illiceità delle attività svolte dal gruppo mafioso, va evi-denziato come la stessa riferisca al marito, essendo fun-ditus a conoscenza del ruolo svolto da ciascuno dei so-

dali, delle manchevolezze di Runfola Angelo (“quellopure dorme”), nonché dei contrasti insorti all’interno delgruppo e della ripartizione degli illeciti proventi (“Tuopadre così mi ha detto... che tu non avanzi niente anzi èlui che avanza da te”)». Alla Iuculano dopo quattro giorni dall’arresto vengonoconcessi gli arresti domiciliari perché madre di un bam-bino di età inferiore a tre anni.Il 28 maggio 2004, di sua spontanea volontà, iniziava unprocesso di collaborazione e il 14 aprile 2005 rendeva ilsuo primo interrogatorio pubblico. Nel corso dell’udien-za la donna rende dichiarazioni di grande rilievo:- analizza il rapporto che dall’età di sedici anni la lega almarito, dapprima caratterizzato da un «senso di prote-zione», poi dalle successive disillusioni conseguite aicontinui tradimenti subiti, all’indifferenza e violenza fisi-ca esercitata su di lei ed alla piena, sempre più pregnan-te comprensione dell’illiceità delle sue attività e dei suoirapporti, elementi che l’avevano indotta a rifugiarsi, in-sieme ai figli, nella casa paterna;- riferisce che solo una settimana dopo era stata costret-ta ad andare via dalla stessa, in quanto suo padre, im-prenditore, aveva ricevuto dal Rizzo un danneggiamentoalla pala meccanica e quindi, d’accordo con il fratello,l’aveva invitata a tornare a casa sua dal marito, cui loroavrebbero parlato solo per evitare che la picchiasse;- racconta che, in quell’occasione, il marito subiscepressioni per riprenderla a casa dallo zio Rosolino Riz-zo, il quale lo aveva avvertito che se lui non fosse riu-scito a recuperare il rapporto e a ritornare con lei, laloro famiglia ne avrebbe avuto grave disonore ed il Riz-zo avrebbe fatto una brutta fine, secondo le consolida-te regole di Cosa Nostra;- puntualizza che da quel momento, a seguito di veri epropri patti e condizioni intercorsi con il marito, lei ave-va cessato la sua funzione di moglie, divenendo la sua“guardaspalle” ed una vera e propria complice, che loaiutava nelle sue attività, tanto che dal 1999 al 2002 il

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Ha raccontato di aver subito

maltrattamenti?

Sì, ha raccontato i maltrattamen-ti subiti e il dolore che le ha pro-curato il marito. Ma era tutto ilcontesto dal quale, ad un certopunto, ha cercato di uscire che leprocurava sofferenza. D’altraparte, partorire il terzo figlio conil marito in carcere, rimanere so-la a 30 anni… beh, credo chechiunque avrebbe provato soffe-renza e disagio.

In un primo momento, la Iucu-

lano sperava che, dopo il suo ar-

della mentalità femminile, vistoche questa donna non solo sente,capisce, interagisce, ma dimostradi essere in grado di reagire.

Come donna, come è stato il suo

rapporto con la Iuculano?

Ho percepito, al di là di tutto, ilsuo dolore; l’ho percepito inmaniera più evidente che in al-tri collaboratori, cogliendoloanche nei suoi occhi. Forse per-ché, come donna, ho compresocon più chiarezza la sua soffe-renza per certe situazioni cheha vissuto.

resto, il marito decidesse di col-

laborare con la giustizia, cosa

che lui non ha fatto…

Sì, sicuramente nel momento incui è stata arrestata si è illusa cheil marito collaborasse con la giu-stizia, visto che la madre dei suoifigli, quella che doveva occuparsidi loro, essendo lui in carcere, e-ra stata arrestata. Quando ha vi-sto che il marito invece non pren-deva questa decisione, ha sceltodi saltare lei il fosso per dare unapossibilità diversa ai suoi figli.

Nel corso della prima udienza

DOSSIERdonne di Cosa Nostra

marito le aveva confidato praticamente tutto quello chefaceva dal punto di vista criminale e le chiedeva aperta-mente il suo aiuto;- conferma di aver continuato ad espletare tale funzioneanche dopo l’arresto del marito, trasmettendo i suoi or-dini ai coassociati e riferendogli tutto quel che accadevafuori, nonché incassando i soldi delle estorsioni e ridi-stribuendoli;- ribadisce le sue dichiarazioni accusatorie nei confrontidel marito, del fratello e di ognuno dei coassociati, cir-coscrivendo con precisione l’ambito delle attività e dellacaratura criminale di ognuno, i rapporti con altri compo-nenti di rilievo di Cosa Nostra, all’incontro con alcunidei quali aveva anche assistito o partecipato; peraltro inun precedente interrogatorio aveva fornito gli elementiprobatori per ritenere la responsabilità del marito ancheper l’omicidio di Caccamisi Salvatore, commesso in ter-ritorio di Lascari il 20 luglio 2002.In relazione alla sua decisione di collaborare con l’Au-torità Giudiziaria, momento forse più pregnante dellesue dichiarazioni, la Iuculano riferiva che già prima delsuo arresto, quando aveva saputo di attendere l’ultimofiglio, aveva cercato di indurre il marito a cambiare vi-ta, ad allontanarsi dal suo venefico ambiente, ad anda-re al Nord, dove lei stessa era pronta a cercare un la-voro. Lui rispondeva sempre che non poteva farlo, cheera nato in quella famiglia, che altrimenti lo avrebberoucciso. Dopo l’arresto del Rizzo, preso atto che il ma-rito non avrebbe mai collaborato, aveva cercato di in-durlo a sopportare la detenzione, troncando intanto irapporti con i coassociati. Anche la figlia più grande lo aveva pregato di assumere u-na decisione in tal senso, ma lui le aveva risposto: «Papàè nato per fare questo e quindi vi dovete rassegnare».Quando lei stessa era stata arrestata, era stata molto ma-le anche perché il 23 maggio successivo la figlia avrebbefatto la prima Comunione, un momento che avrebbe do-vuto affrontare da sola.

Una volta tornata a casa agli arresti domiciliari, avevaconstatato il grave disagio della figlia, che dalla situazio-ne familiare aveva avuto serie ripercussioni sulle suecondizioni di salute fisica e mentale.Erano state le due figlie ad affrontarla, raccontandoleche dopo il suo arresto avevano scritto al padre perchéfacesse qualcosa, ma senza esito; che pure a scuola ve-nivano prese in giro dagli altri bambini, perché aveva-no entrambi i genitori in stato di detenzione; che unavolta era stato dato un tema sulla mafia, ma tutti le a-vevano derise, asserendo che loro di certo non poteva-no dire nulla contro la stessa; che si vergognavano sen-tendosi diverse dagli altri; che quando era iniziata lascuola una delle due ragazze aveva avuto problemiperché alcuni professori, essendo del paese, sapevanodi chi era figlia, per cui non le dedicavano le cure cheinvece prodigavano agli altri, ritenendo che lei non po-tesse avere la volontà o l’interesse di andare avanti, vi-sta la sua situazione; che loro volevano che lei parlas-se, che ammettesse le sue colpe, ma prendendo le di-stanze dal padre, pur essendo consapevoli che questoavrebbe significato andare via, lasciare i nonni cui e-rano molto legate, rimanere sole con la madre; che re-stare in quel paese significava rischiare che il fratelloGiuseppe, di due anni, seguisse le orme del padre emagari un giorno fosse arrestato anche lui. Con i loro sofferti discorsi le figlie l’avevano fatta vergo-gnare: la sera stessa la Iuculano aveva scritto una letteracon la quale chiedeva di essere sentita dai magistrati. La significativa, ma purtroppo rara vicenda di CarmelaRosalia induce a sperare che le donne di mafia, so-prattutto quando non sono nate in quel contesto, vo-gliano liberarsi dall’abbraccio mortale di Cosa Nostra,elaborare sino in fondo la loro emancipazione, riap-propriarsi di se stesse e recuperare un ambiente fami-liare sano.

Teresa Principato

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ginare le ferite. In questo caso cisono anche tre figli da seguire, contutti i problemi pratici di contornoe la necessità di supporti psicolo-gici per affrontare queste nuove si-tuazioni. Prima di tutto vanno sal-vaguardati gli interessi dei minori.

*A Palermo dal 1998 come sosti-

tuto procuratore. Dal 2000 è ma-

gistrato della Dda di Palermo.

Prima giudice al Tribunale di

Roma fino al 1995. Dal 1995 al

1998 sostituto procuratore a

Brindisi (Dda di Lecce).

Donne a Corleone

della Iuculano il marito, dinan-

zi alle sue dichiarazioni, ha a-

vuto un malore…

È vero, ma al di là dell’aspetto dicolore c’è un lato umano com-prensibile: questa donna sta ac-cusando il marito, i parenti delmarito e anche persone del suocontesto amicale, quindi il dram-ma suo e di chi l’ascolta è chiara-mente percepibile.

In questo caso c’è una rottura

non solo con un certo ambiente

o contesto, ma anche dei legami

di sangue, una sorta di rivolu-

zione femminile…

Una rivoluzione femminile allacondanna del silenzio. Buscetta,quando parlava della donna in Co-sa Nostra, diceva che è lo stampodel marito, non parla perché luil’ha addestrata a tacere, non devemai sapere le faccende dell’orga-nizzazione, deve restare chiusa nelsuo mondo e non si sa sino a chepunto è infelice perché non lo diràmai a nessuno. Ecco, l’esperienzache io ho vissuto con la Iuculanocambia completamente questoquadro, perché lei alcune cose del-l’organizzazione le sapeva, e ce leha dette, e ci ha detto anche quan-to era infelice. Emerge tutta l’infe-licità dell’essere donna di mafia al-l’interno di una struttura che da u-na parte è tradizionalmente e percostituzione formale maschilista,ma che dall’altra ha bisogno delledonne nelle situazioni contingentie le sfrutta fino in fondo.

La Iuculano è attualmente sot-

toposta a un programma di

protezione, in una località ri-

servata. Sta cercando di rico-

struirsi una vita?

Credo che sia naturale che ognicollaboratore di giustizia, una vol-ta passati i primi 6 mesi nei qualigli impegni sono rigidissimi, si a-pra alle possibilità offerte dallanuova vita, dovendo però fare iconti, da un lato, con gli impegniprocessuali e dall’altro con i trau-mi umani e psicologici. Bisognadare il tempo a se stessi di rimar-

Shob

ha/C

ontra

sto

DOSSIER

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trova il fratello Leonardo, legatoa Leoluca Bagarella e al gothadella Cosa Nostra corleonese,così come il fratello Vito. Giusydiventa parte dell’organizzazio-ne svolgendo però, all’inizio, iruoli che spettano alle donne. A19 anni comincia ad accompa-gnarli alle riunioni, e poi a fareda tramite tra Leonardo carcera-to e Vito latitante, appropriando-si così di una serie di “saperi tec-nici” e un bagaglio di conoscen-ze che le servirà quando succe-derà, come reggente del manda-mento di Partinico, a Vito, a suavolta arrestato nell’aprile del1998. Pur non essendo uomod’onore in senso tecnico – nelsenso che una donna non puòaccedere al rito della “santina” –lei assume l’autorevolezza per

Intervista a Maurizio De Lucia* di G.M.

Dott. De Lucia, perché Giusy

Vitale è un caso particolare nel

panorama dei collaboratori di

giustizia?

Giusy Vitale è il primo caso di cuisiamo a conoscenza di una don-na con un ruolo attivo all’internodi Cosa Nostra. Tutte le altre col-laboratrici di giustizia sono da in-tendersi “donne di mafia” in sen-so lato, in una dimensione margi-nale rispetto all’organizzazionemafiosa: sono donne che man-tengono i contatti tra i mariti incarcere e l’esterno.La Vitale ha una storia diversa,che comincia appena lei nasce,perché respira da subito “aria dimafia”. A soli 6 anni comincia afrequentare il carcere dove si

prendere le decisioni, compresequelle di compiere assassinii. L’indicazione della Vitale a reg-gente del mandamento viene daidue fratelli, in base a due consi-derazioni: la sorella è a cono-scenza dei segreti dell’organizza-zione perché ha fatto da tramitetra Leonardo e Vito, ed è tra l’al-tro una donna di forte carattere,e poi è una Vitale, e quindi loronon rischiano all’interno di CosaNostra di essere scalzati da qual-cun altro, perché riaffermano lapresenza della propria famiglia.

In genere, si tende a privilegia-

re altri componenti maschili

nei ruoli di comando…

La cosa interessante, infatti, nonè vederla dal punto di vista diGiusy Vitale, ma dal punto di vi-sta di Cosa Nostra che accoglie la“proposta di accreditamento”che i due Vitale fanno per la so-rella. Lei avverte sia gli uomini

“La picciotta che ha stravolto le regole”

donne di Cosa Nostra

Emancipazione come omologazione ai modelli maschiliviolenti: è questa l’equazione che ha connotato, soffo-candola, la vita di Giusy Vitale, 33 anni, madre di duebambini di 13 e 12 anni.Sorella di Leonardo, Vito e Michele, incontrastati boss delmandamento di Partinico, la Vitale è stata la prima donnaalla quale la Procura di Palermo, nel 1998, abbia conte-stato il delitto di associazione mafiosa, per il quale è statapoi condannata con sentenza definitiva. Le indagini che avevano condotto all’arresto, suffragateanche da rilevanti intercettazioni ambientali in carceresul fratello Leonardo, avevano già condotto a ritenereche la Vitale addirittura partecipasse personalmente, econ significativa influenza, ad alcuni processi decisiona-li di fondamentale importanza per la sopravvivenza del-l’associazione e che si trovasse in una posizione di so-stanziale parità con i fratelli.Risultava che nel corso della latitanza del fratello Vito, du-rata dal 1995 al 1998, Giusy, conoscitrice e custode di in-numerevoli segreti riguardanti fatti di sangue ed attività cri-minose da lui commessi e luoghi da lui frequentati, fossediventata riferimento irrinunciabile di quest’ultimo, per gliapporti logistici e soprattutto per i collegamenti di tipo cri-minale con esponenti della cosca di Partinico e non solo.Nel momento in cui Vito veniva arrestato, nell’aprile ’98,toccava sempre a lei, oltre che al figlio minore del fratel-

lo, Giovanni, ricevere le sue direttive, consistenti in par-ticolare in spostamenti di somme di denaro, nella rimo-zione dell’arsenale in suo possesso in luoghi più sicuri,nel mantenimento di saldi contatti con i Catanesi voltianche al recupero di somme di denaro che questi ultimiavrebbero dovuto dare al Vitale.Anche il collaboratore Enzo Brusca aveva evidenziato la di-sponibilità della Vitale nei confronti di altri importanti mem-bri di Cosa Nostra, quali Leoluca Bagarella ed i fratelli Bru-sca: un’ulteriore dimostrazione del fatto che le sue attività il-lecite non erano poste al servizio solo della sua famiglia disangue, ma dell’intera organizzazione Cosa Nostra.Peraltro, prima della Vitale, mai nessun collaboratore digiustizia aveva voluto interloquire sulle attività illecitecommesse da donne o sul loro eventuale spessore crimi-nale, tutt’al più ammettendo una loro conoscenza, mistaa complicità, delle attività criminali dei loro uomini:quelle che vengono definite “cosi di fimmini” sono stateda sempre argomenti sui quali i collaboratori hanno vo-lutamente evitato di interloquire, subendo con fastidio ledomande degli inquirenti e ritenendo quasi offensivodella loro “dignità” di uomini d’onore l’eventualità chele loro attività venissero quasi assimilate a quelle delledonne, apparentemente da loro così poco considerate.Ebbene, tale regola non è valsa per Giusy Vitale, nei cuiconfronti hanno reso dichiarazioni accusatorie perso-naggi di spicco della Cosa Nostra tradizionale, qualiGiovanni ed Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo.

Giusy, ex boss in gonnella

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per associazione mafiosa a 4 annie mezzo. Viene scarcerata nel di-cembre del 2002 per essere poiriarrestata per un’imputazione diomicidio, per la quale è tuttora de-tenuta, nel marzo del 2003.

Come sono avvenuti i contatti

con la Procura? Vi ha cercato lei?

Sì, è lei che matura la decisionedi collaborare. Come tutti i colla-boratori, all’inizio ha una fortissi-ma diffidenza nei confronti di chirappresenta la giustizia, e quindivuole delle garanzie. Natural-mente le garanzie sono solo quel-le previste dalla legge, le abbia-mo spiegato quindi con chiarezzaquello che sarebbe avvenuto.

Che impressioni ha avuto ri-

guardo a questa collaborazione?

Fondamentalmente due. Io ho ge-stito altri collaboratori, e sono tut-ti uomini d’onore in senso proprio:ecco, fra loro e Giusy Vitale, dalpunto di vista del linguaggio, delcarattere, dell’uso degli strumenticoncettuali tipici del parlare unlinguaggio mafioso, non c’è nessu-na differenza. Lei, da questo puntodi vista, è assolutamente organica

più vicini ai Vitale, ad esempio aMatteo Messina Denaro, sia i piùlontani che da quel momento del-le cose della famiglia si occupalei, sia pure dialogando con i fra-telli in carcere.

Gli altri uomini d’onore ricono-

scono quindi la legittimità della

funzione?

Esattamente, ed è un fatto moltoimportante: se esistesse una co-stituzione formale di Cosa No-stra, questa sarebbe violata, per-ché non è ammissibile che unadonna arrivi al vertice di un man-damento. Cosa Nostra è certa-mente maschilista, ma il suo ma-schilismo di principio trova unaderoga per un principio superio-re, quello della flessibilità per lasopravvivenza dell’organizzazio-ne, e quindi nessuno meglio diGiusy Vitale in quel momentopuò gestire quel mandamento,tant’è che tutta Cosa Nostra le ri-conosce questo ruolo.

Un ruolo che, però, ha ricoperto

solo per pochi mesi…

Sì, perché viene arrestata alla finedel giugno del 1998 e condannata

culturalmente all’organizzazionemafiosa. Non è l’amante, la mo-glie, la figlia che recepisce qualco-sa e la racconta; lei parla in primapersona da uomo d’onore. Nonappartiene neanche alla categoriadegli “avvicinati”, cioè quelli “uti-lizzati” dall’organizzazione persvolgere ruoli secondari. Questi u-sano un linguaggio, anche dal pun-to di vista concettuale, molto me-no da uomo d’onore. Lei no. Quin-di, se un soggetto entra a pieno ti-tolo nell’organizzazione non c’èdifferenza che sia donna o uomo.Le caratteristiche qualificanti so-no altre: un carattere forte, la ca-pacità di prendere decisioni e diessere autorevole.

La seconda impressione?

La famiglia Vitale è una delle fa-miglie più rigorosamente Corleo-nesi, nel senso dell’ossequio a Rii-na e soprattutto a Bagarella, alquale sono legatissimi. Nel mo-mento in cui una donna di una fa-miglia con quel ruolo salta il fossoe inizia a collaborare con la giusti-zia, l’effetto dal punto di vista psi-cologico, all’interno di quella fa-miglia e del mandamento mafio-

Dal giugno 1998 al dicembre 2002, la Vitale ha sconta-to la pena senza mai un tentennamento, sopportando ilcarcere come un vero uomo d’onore, nonostante la te-nera età dei figli. Nel marzo 2003, però, la donna venivaancora una volta colpita da ordinanza di custodia cautelarein carcere, questa volta per concorso nell’omicidio di Sal-vatore Riina, per il quale a tutt’oggi pende processo.Dal 16 febbraio 2005, la Vitale ha manifestato la sua vo-lontà di collaborare con la giustizia. Dopo l’inizio dellacollaborazione la madre, Maria Geraci, dichiarava di es-ser pronta a far affiggere manifesti listati a lutto per tuttoil paese, pur di rinnegare la figlia pentita: in uno sfogo in-farcito di invettive su Giusy, si era anche detta pronta amettere la banda nera al portone di casa. E il fratelloLeonardo, in pubblico dibattimento, ha dichiarato: «Hosaputo che una mia “ex consanguinea” sta collaborando.Io e la mia famiglia la rinneghiamo, sia da viva che damorta, e speriamo che sia al più presto».Nel corso del dibattimento relativo al processo a suo cari-co per l’omicidio Riina, la Vitale ha reso dichiarazioni chesono sintomatiche del suo spessore di “donna d’onore”, innulla diversa dagli altri esponenti di rilievo dell’organizza-

zione, ed anzi ancor più conservatrice degli stessi rispettoal mantenimento degli assetti tradizionali di Cosa Nostra.In particolare, ecco quanto ha riferito. Sin dall’età di seianni, Giusy andava a trovare i fratelli in carcere, da doveerano usciti e rientrati più volte. Era a loro molto legata edanzi Leonardo, che aveva 17 anni più di lei, le aveva fat-to da padre. Del loro inserimento in Cosa Nostra avevasempre saputo e, d’altra parte, ancor prima che lei com-pisse diciotto anni i fratelli le parlavano di tutto. Il fratel-lo Leonardo sin dal 1991-92 era subentrato a Nenè Gera-ci nella guida del mandamento di Partinico ed era moltovicino a Totò Riina, e lei stessa, nei due mesi intercorsi trala cattura del fratello Vito ed il suo arresto, aveva, per de-cisione dei fratelli, svolto il ruolo di “reggente” della fa-miglia. Tale decisione non era scaturita dalla mancanza diuomini che, dopo l’arresto di Vito, potessero prenderne ilposto: infatti era in stato di libertà anche il marito della Vi-tale, Angelo Caleca. Quest’ultimo, tuttavia, non era con-siderato valido dai fratelli, che invece avevano moltissimafiducia in lei. Subito dopo l’arresto del fratello Vito, Leo-nardo dal carcere le aveva fatto pervenire l’incarico di e-liminare Salvatore Riina, il quale dopo l’arresto dei Vitale

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DOSSIER

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nulla. È il disgregarsi della com-pattezza familiare, un fatto gra-vissimo per la “famiglia” mafiosa.

Qual è la motivazione prevalen-

te nella scelta di collaborare?

Innanzitutto i figli, perché Giusyha visto la fine che hanno fatto ifratelli. L’idea di vedere i figlimaschi destinati ad una vita incarcere o latitanti, se non ucci-si, e le femmine destinate a pas-sare messaggi tra chi è in carce-re e chi no è una cosa che allamadre pesa. E poi la prospettiva di potersi ri-fare lei stessa una nuova vitacon un’altra persona, avendoappunto esaurito la relazionecon il marito.

Che ruolo ha avuto Alfio Garoz-

zo, il nuovo compagno?

Su questo ci sono indagini in cor-so, non è una situazione moltochiara. Indubbiamente hanno a-vuto una relazione. Una delleprospettive di Giusy è rifarsi undomani una famiglia; che sia conGarozzo o meno è da vedere. Epoi bisognerebbe sapere quali so-no le motivazioni di Garozzo.

so, è enorme. Dimostra che dav-vero nessuna famiglia mafiosa è“impermeabile” alla possibilitàche qualcuno collabori. È davverouna collaborazione di rottura,crea una vulnerabilità che va al dilà dei fatti che lei racconta.

Il fratello Leonardo, appena ap-

prende la notizia che la sorella

sta collaborando, la rinnega e le

auspica la morte…

Sì, ma questo è necessario perchése non facesse così anche lui ver-rebbe accusato di aver agevolatoo comunque acconsentito alla col-laborazione della sorella. È unacosa che deve fare, per dimostra-re a tutto il mondo di Cosa Nostrache lui non lo accetta, e lo deve di-re forte e chiaro.Questa spaccatura familiarecambia il destino anche dei figlidi Giusy, che non saranno più co-me, ad esempio, Giovanni, figliodi Vito, il primo minorenne pro-cessato e condannato per asso-ciazione mafiosa. Con questascelta i suoi figli escono dal cir-cuito mafioso e quindi esisteran-no sempre di più dei Vitale checon la mafia non c’entrano più

Comunque lui afferma di aver

influito sulla decisione della

Vitale…

Una donna che ha retto un man-damento molto difficilmente di-venta così succube di un uomo.

A suo avviso, alla luce dei collo-

qui e degli interrogatori, per la

Vitale si può parlare di “penti-

mento” in senso stretto?

Sicuramente ha effettuato unpercorso che l’ha portata a unarottura con la famiglia, e quindicon l’organizzazione mafiosa,perché per lei le due sfere coin-cidevano. Che poi questo sia“pentimento” o meno a noi magi-strati interessa davvero poco. Ciinteressa un contributo sincero,oggettivo, completo. Le valuta-zioni sulla rottura del rapportocon l’organizzazione vengono diconseguenza. Se tutto questo èfrutto di un reale pentimento,come sempre, è una questioneche sta, e che deve stare, al difuori del processo, e quindi delnostro lavoro.

*Sostituto procuratore della Dda

di Palermo

donne di Cosa Nostra

si dava troppo da fare, dicen-do in giro che i Vitale erano fi-niti, ed era stata lei ad opera-re la scelta delle persone chedovevano commettere l’omi-cidio e a procurare l’arma, u-na calibro 38 che aveva ac-quistato e consegnato ai duesicari la sera dell’omicidio.Mentre il delitto veniva com-messo, lei era andata in pizze-ria, dove si trovava anche il fi-glio della vittima, con il qualeaveva scambiato due chiac-

chiere. Consumato l’omicidio, i due erano tornati da lei epiù tardi avevano brindato. Nel 1992, con il fratello Leo-nardo, aveva partecipato ad un summit mafioso – duranteil quale avrebbe visto, seppur da lontano, anche BernardoProvenzano travestito da vescovo – e subito dopo l’arrestodel fratello Vito, lei aveva fatto pervenire tramite IgnazioMelodia, uomo d’onore della famiglia di Alcamo, un bi-glietto a Matteo Messina Denaro, con il quale lo avvertiva

che, nonostante tutto, la famiglia Vitale era sempre pre-sente nel territorio.La Vitale ha spiegato che la donna di mafia, pur non po-tendo rivolgere domande agli uomini sull’organizzazio-ne, è tuttavia il pilastro che la regge, confessando che leistessa, nel periodo in cui era l’unica esponente libera del-la famiglia, ha svolto un ruolo centrale nel procedimentodecisionale che ha portato alla commissione di moltepli-ci delitti, tra cui omicidi, estorsioni, traffici di stupefacen-ti, riciclaggio.In ordine alla sua decisione di collaborare, la Vitale riferi-va di averla coltivata già nel luglio 2004, allorché era sta-ta in tal senso contattata dalla Procura di Palermo. Suc-cessivamente, in quella direzione l’aveva spinta anche Al-fio Garozzo, conosciuto all’inizio del 1998, con cui ave-va iniziato una relazione, divenuta poi solo epistolare,dato lo stato di detenzione di entrambi.Al di là di queste spiegazioni, però, non si può fare a me-no di ritenere che la Vitale, di fronte all’accusa di omicidioche poteva comportare per lei un ergastolo, si sia indotta acollaborare per ottenere quantomeno uno sconto di pena.

Teresa Principato