la grande crisi degli anni trenta - ugo pettenghi

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La crisi della borsa statunitense del 1929. Le sue ripercussioni internazionali e italiane fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, raccontate dal giornalista Ugo Pettenghi.

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Prefazione

Il testo che state per leggere è del 1971. Fu scritto da Ugo Pet-tenghi e pubblicato, dalla Domenica del Corriere, in una collana di opere di storia contemporanea. Dopo oltre quarant’anni il fascicolo originale è inevitabilmente ingiallito, ma vi assicuro che è l’unico e modesto segno che il tempo ha lasciato sul-l’opera. Il racconto di Ugo è quanto mai attuale, forse in modo preoccupante, se si considera che la sua narrazione riferisce di eventi occorsi in una data ancora più distante, il 1929. Cito poche frasi, riferite ai titoli azionari negli anni che prece-dettero quell’anno. «L’afflusso di migliaia di nuovi acquirenti prese a gonfiare le quotazioni delle azioni in misura tale che ben presto il loro prezzo non ebbe più alcun rapporto con il capitale reale delle in-dustrie che esse rappresentavano.» Sono considerazioni che po-trebbero trovare spazio nella più attuale cronaca finanziaria.E ancora: «Fu il momento magico delle holding e degli investment trust. [...] Quasi tutte erano largamente propense alla truccatura dei bilanci e agli aumenti fittizi di capitale attraverso l’emissione di nuove azioni.» Non sembrano pratiche ancora attuali e, nel nostro Paese, in parte depenalizzate?«Un’altra pioggia di azioni venne dagli “investment trust”, inge-gnose organizzazioni che emettevano titoli propri investendo poi il denaro ricavato in titoli di altre compagnie. Il fatto che vendessero molte più azioni di quelle che acquistavano, non pareva destare al-cuna diffidenza. La gente comune non capiva bene il funzionamento di queste alchimie finanziarie, ma aveva una fiducia assoluta negli amministratori dei trust.» Nel 2012 al posto di investment trust possiamo leggere di hedge fund o di altri strumenti di inve-stimento opachi se non tossici. Sembra che l’unico ad essersi arricchito negli ultimi ottant’anni sia stato il vocabolario.Concludo con un nome: Samuel Insull. È normale che non vi dica nulla perché fu cancellato dalle cronache nella consape-vole rimozione collettiva degli anni successivi alla crisi.

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La sua storia, allo stesso tempo straordinaria e grottesca, è descritta in questo libro e ve ne anticipo solo un dettaglio.Insull, pochi anni prima del 1929, crea «una società la cui atti-vità consiste nell’emettere azioni che offrono dividendi eccezional-mente buoni. Per pagare questi dividendi Insull si procura denaro con nuove emissioni di azioni che offrono dividendi ancora più alti. Per poterli pagare, Insull stampa nuove azioni e le mette a disposi-zione dei mille e mille risparmiatori che si contendono a colpi di dol-lari quei miracolosi pezzi di carta. Disputate come sono, le azioni Insull godono di un continuo aumento di quotazioni e aprono la strada all’emissione di nuovi titoli».Basta poca fantasia per immaginarlo passeggiare con Bernard Madoff durante l’ora d’aria in un carcere statunitense.Questi dettagli sono solo alcune tessere del mosaico che compongono quel periodo, raccontato nelle prossime pagine, al cui centro c’è il 1929. Un anno lontano ottantatré anni e a noi ancora così vicino.

Mario Pettenghi

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La Grande Crisi Degli Anni Trenta

di Ugo Pettenghi

Sembrava una riuscita imitazione del paradiso terrestre concentrata in uno spiazzo di mezzo chilometro quadrato fra i grattacieli di New York. Aveva nome Wall Street e negli anni strampalati del charle-ston vi crescevano abbondanti e alla portata di tutti i miracolosi al-beri della ricchezza i cui frutti, per universale convinzione, procu-ravano la più invidiabile delle felicità. Il terremoto che distrusse quel paradiso terrestre creato dagli uomi-ni cominciò un nebbioso giovedì mattina: era il 24 ottobre 1929 e le prime scosse squarciarono il giardino incantato con paurose voragi-ni. Quel giorno fu detto il giovedì nero. Poi, nei giorni che seguirono, vennero altre scosse e si spalancarono altre voragini. Ci furono così un venerdì nero, un sabato nero, un lunedì nero, un martedì e un mercoledì neri. Fu una lunga settima-na uniformemente nerissima, eppure la fine del paradiso terrestre «made in USA» non fu ancora il peggio. Le onde del terremoto stavano cominciando un inarrestabile giro del mondo e presto sarebbe stata la «grande crisi», un flagello che avrebbe afflitto per anni l’umanità intera seminandovi miseria, di-sperazione e rancori.

Dopo il terremoto, una disastrosa paralisi per l’economia di tutti i Paesi e, alla fine, la scoperta tacita, ma generale, del più folle degli antidoti: una corsa collettiva e frenetica al riarmo. Lavoro per mi-lioni di disoccupati, ossigeno per le industrie malate e cannoni per alimentare la tentazione di una seconda guerra mondiale.

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Come cominciò in presenza di Churchill la settimana nera

Quel giovedì mattina New York si era svegliata nel grigiore della prima nebbia d’autunno. Un velo appena, ma bastava a dare un’aria svogliata al traffico nelle strade. Il solito formico-lio di pedoni sui marciapiedi, il solito strombettare di auto (sette Ford modello T su dieci), ma tutto a un ritmo più quie-to, appunto da giornata di nebbia.

Pochi minuti prima delle dieci, a Broadway, fra le tante auto scoppiettanti, si fece largo, maestosamente silenziosa, una Rolls Royce scintillante di cromature. All’altezza della chiesa della Trinità curvò piano a sinistra e infilò una strada stretta che si snodava lungo i resti di un muro costruito nel XVII se-colo per proteggere Manhattan dalle cariche, dei bisonti. L’auto fu costretta a fermarsi dopo meno di duecento metri: una massa compatta di folla vociante si addensava sino in fondo alla strada, raggrumandosi ancor più fittamente da-vanti alla facciata severa dello Stock Exchange, il palazzo del-la Borsa di New York.

L’autista della Rolls Royce fece strillare il clacson due, tre volte, poi si girò desolato verso il passeggero che gli sedeva dietro, un uomo massiccio, vestito di nero, con una grande cravatta di seta azzurra e un enorme sigaro stretto fra le lab-bra. Un avvenimento storico come l’inizio della «grande cri-si» stava per avere un testimone, che nella sua lunga vita, avrebbe avuto molte altre occasioni d’inciampare nella storia.

L’uomo con il sigaro si chiamava Winston Churchill, aveva 55 anni e sino a pochi mesi prima era stato cancelliere dello Scacchiere del regno di Gran Bretagna, responsabile della po-

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litica economica tutt’altro che brillante del governo conserva-tore di Stanley Baldwin.

Churchill, da una decina di giorni, stava facendo con la mo-glie un viaggio di vacanza negli Stati Uniti: quella mattina aveva deciso di visitare la Borsa di New York, il paradiso ter-restre dove per alcuni milioni di americani stava compiendo-si il miracolo della ricchezza. L’uomo col sigaro, di quel mira-colo aveva una conoscenza diretta e molto amara: la corsa all’acquisto di azioni alla Borsa di New York era stata una delle cause della fuga di oro dall’Inghilterra agli Stati Uniti e l’emorragia monetaria si era rivelata fatale al già debole go-verno di cui aveva fatto parte. Fra poco, lo avesse animato un desiderio di acida rivalsa, avrebbe avuto abbondantemente di che soddisfarlo: l’oro fuggito dalla Gran Bretagna stava per polverizzarsi fra le rovine di quello che aveva finito di essere un paradiso terrestre.

Sceso dall’auto, Winston Churchill, per raggiungere l’in-gresso della Borsa, dovette sgomitare tra la folla. Almeno cinquemila persone. Circa il doppio di quanti, da alcuni mesi, si raccoglievano ogni giorno attorno allo Stock Exchange a bearsi dei balzi in alto delle quotazioni dei titoli azionari.

Quel giorno il rumoreggiare della folla non aveva niente di festoso: un tam-tam misterioso aveva propagato la voce che i prezzi delle azioni, schizzati in cielo con la velocità dei razzi dei fuochi artificiali, erano arrivati al culmine della parabola e ora, appunto come fuochi d’artificio, stavano scoppiando con sinistri crepitii.

Winston Churchill, sventolando un lasciapassare firmato da Andrew Mellon, il segretario al Tesoro americano, riuscì fi-nalmente a entrare nella hall della Borsa. Fra le pareti rilucen-

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ti di marmo e di fregi dorati era esploso il panico. Davanti a ciascuno dei diciotto sportelli di vendita, agenti di cambio e clienti s’accalcavano urlando. Il grande tabellone elettrico con i prezzi delle azioni in cifre luminose lampeggiava impazzito: la frana delle quotazioni pareva incontenibile.

Le azioni della Westinghouse erano scese di 25 punti rispet-to al giorno prima, le Blue Ridge di 14, le General Electric di 20. I telefoni sulle scrivanie degli agenti di cambio squillava-no frenetici. Da ogni apparecchio che veniva alzato, la voce angosciata di un cliente: «Venda! Venda tutte le mie azioni!»

Un banchiere che aveva riconosciuto Churchill tra la folla si fece largo a spintoni e lo raggiunse. Era congestionato in vol-to. «È il disastro» gemette allargando le braccia. L’ex cancel-liere dello Scacchiere non era un genio della finanza: in ogni fatto economico inconsueto era portato a vedere il risultato di un complotto socialista o una manovra dei «tenebrosi domi-natori di Wall Street», i finanzieri.

Poiché, con ogni evidenza, i socialisti questa volta non c’en-travano, Churchill dovette pensare a un oscuro maneggio degli stregoni dell’economia americana: «Forse c’è qualcuno – disse – che gioca al ribasso. Spargono la paura per poi ra-strellare le azioni a poco prezzo. Questa storia non durerà a lungo».

I fatti immediatamente successivi parvero dargli ragione. Due ore dopo, quando Winston Churchill aveva appena la-sciato il palazzo della Borsa, il tabellone con le cifre luminose si fermò e si fermò anche la convulsa compravendita delle azioni. Un altro misterioso tam-tam aveva portato la notizia che al 23 di Wall Street, negli uffici della banca Morgan erano riuniti cinque fra i più potenti finanzieri d’America: Thomas W. Lamont, dirigente della Morgan, Charles Mitchell, presi-

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dente della National City Bank, Albert Wiggin e William C. Potter, della Chase National Bank, e Sewrd Presser, della Bankers Trust Company.

La folla in Borsa tratteneva speranzosa il respiro. I cinque grandi sacerdoti dell’economia della nazione si erano certa-mente radunati per celebrare un magico rito che avrebbe in-fallibilmente salvato il mercato dalla rovina.

Un’ora più tardi (era l’una) Richard Whitney, alto funziona-rio della banca Morgan vicepresidente della Borsa e, per l’oc-casione, «messaggero speciale» dei cinque finanzieri, uscì dall’edificio numero 23 di Wall Street e varcò la soglia dello Stock Exchange. La folla raccolta nella hall gli fece largo in silenzio: arrivava l’angelo delle salvezza. Whitney si fermò davanti a uno degli sportelli di vendita e domandò ad alta voce quale fosse la quotazione di uno dei titoli più disastrati, l’U.S. Steel. Era in vendita a 193 dollari. Whitney girò lenta-mente lo sguardo sui volti tesi che gli erano tutt’attorno, poi annunciò con solennità: «Compro 25 mila azioni U.S. Steel a 205 dollari!» Tutto ciò che i cinque grandi sacerdoti potevano fare era questo? Troppo poco, e soprattutto troppo tardi.

Intanto, una nuova ondata di folla stava rumoreggiando davanti alla Borsa. Dai quartieri del Bronx, di Newark, di Brooklyn, strombettando istericamente sulle loro Ford T ac-quistate a rate, migliaia di piccoli impiegati e di bottegai che si erano illusi di poter diventare miliardari investendo in azioni tutti i risparmi e indebitandosi per comprarne altre ancora, si erano precipitati a Wall Street. Ora assediavano la Borsa con la speranza di riuscire a vendere in tempo quei pezzi di carta che così rapidamente perdevano valore e che presto forse avrebbero toccato lo zero.

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Il bluff psicologico dei cinque finanzieri era fallito. Adesso gli ordini di vendita cominciavano ad arrivare da ogni parte del Paese. Due ore dopo, quando la campana d’argento della Borsa annunciò la chiusura degli sportelli, erano state vendu-te 12.894.650 azioni.

All’uscita del palazzo della banca Morgan, Thomas W. La-mont fu circondato dai giornalisti. Era pallidissimo, ma sor-rideva in modo rincuorante: «C’è stata un po’ di vendita di necessità in Borsa, ma si è trattato soltanto di un assestamen-to tecnico e le cose sono suscettibili di miglioramento rapi-do». Con questa ottimistica, sebbene poco decifrabile diagno-si, ruppe l’assedio, raggiungendo in fretta la Cadillac con au-tista gallonato che lo attendeva lì vicino.

Erano le 15.30 e davanti alla Borsa la folla era aumentata ancora. Dieci, undicimila persone che si passavano l’un l’altra le prime notizie sulle conseguenze del crollo delle azioni: «Nella Quinta Strada un banchiere si è buttato dalla fine-stra…», e poi: «Dalle acque dell’Hudson hanno ripescato i cadaveri di tre risparmiatori rovinati...», e ancora: «Un agente di cambio si è tagliato la gola…».

Ben presto il numero dei suicidi di cui correva voce tra la folla salì a undici. Ma non era vero, o meglio, non era vero ancora: i piccoli banchieri ridotti sul lastrico, i risparmiatori che avevano perduto tutto e gli agenti di cambio rimasti sen-za un dollaro erano ancora troppo sbigottiti per riuscire a trovare una via d’uscita, fosse pure il suicidio. Lo sbalordi-mento non era ancora diventato disperazione, ma la gente davanti alla Borsa era pronta a giurare sulla realtà di quei suicidi e quando sul tetto dello Stock Exchange comparve la figura di un uomo, si levò un urlo generale di raccapriccio. Il presunto candidato al suicidio, spaventato, fece un balzo e

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per poco non piombò nel vuoto davvero. Era un muratore incaricato di sostituire una lastra di vetro di un lucernario e di ciò che stava accadendo cinquanta metri sotto di lui non sapeva assolutamente nulla. Finì ugualmente nell’elenco dei suicidi di cui ormai si parlava in tutta la città: dodici morti, tredici, venti...

A mezzanotte un cliente si presentò al Waldorf-Astoria, l’al-bergo più elegante di New York, e chiese una camera racco-mandando che fosse a uno degli ultimi piani. Non voleva es-sere disturbato dal rumore del traffico della strada, ma non lo disse e il portiere sentì il bisogno d’informarsi: «È per dormi-re o per saltare dalla finestra?».

Finiva la prima giornata della settimana nera di Wall Street.

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“Vendere a ogni costo”: la borsa crolla e si scatena un’ondata di suicidi

Venerdì 25 e sabato 26 ottobre furono giornate di follia. Dal-la Casa Bianca era stata diffusa una dichiarazione che aveva acceso le ultime speranze: «L’economia del Paese – aveva detto il presidente Hoover – posa su basi solidissime. Soltan-to l’isterismo è responsabile del panico: il mercato ritroverà presto la calma».

Rapidamente, sotto la bandiera dell’ottimismo presidenzia-le, si schierarono i nomi più sonanti della finanza: «Nella si-tuazione economica attuale non c’è nulla che giustifichi il nervosismo», proclamò alla radio Eugene Stevens, presidente della Continental Bank. «L’eliminazione di alcuni piccoli spe-culatori risulterà vantaggiosa per la Borsa», sentenziò Ho-ward Hopson, capo dell’Associated Gas and Electric.

Una grande compagnia finanziaria acquistò un’intera pagi-na del «Wall Street Journal» per pubblicare queste poche pa-role: «A-T-T-E-N-T-I. Bisogna ragionare con calma. Date retta alle parole di fiducia dei più grandi banchieri d’America».

Ma l’incantesimo era rotto. Il tabellone luminoso della Borsa non riusciva più a reggere il ritmo dei ribassi delle azioni: le quotazioni che vi si leggevano erano in ritardo di due o tre ore sui nuovi prezzi. Da tutto il Paese arrivavano ondate di titoli in vendita…

Domenica 27 ottobre, in moltissime chiese furono pronun-ciati sermoni che parlavano di «meritata punizione divina» per quegli americani che la bramosia di ricchezza aveva reso ciechi davanti ai valori spirituali. Chissà, forse la collera cele-ste si era davvero placata e domani le azioni avrebbero rico-

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minciato a salire. Quella sera a Broadway, il teatro dove si replicava lo «Show Boat» di Kern e Rammerstein registrò il primato mensile degli incassi; la sala da ballo di Harlem dove Duke Ellington proponeva il suo «stile jungla» si riempì da scoppiare; davanti ai cinema che avevano in programma «Hallelujah» di King Vidor si formarono lunghe code. A Brooklyn, nel principale circolo italo-americano, un confe-renziere fascista venuto da Roma spiegò all’uditorio che la prosperità americana sarebbe stata presto uguagliata e maga-ri superata da quella dell’Italia fascista che, proprio in quelle ore, si stava preparando a festeggiare il settimo anniversario della rivoluzione voluta da Benito Mussolini.

Il lunedì, 28 ottobre, le residue speranze svanirono. Alle 11, in Borsa, le azioni della U.S. Steel erano scese di altri 17 dolla-ri, le General Electric di 47 e mezzo, le Westinghouse di 34. Tutti gli agenti erano tempestati di telefonate perentorie: «Venda! Venda a qualsiasi cifra». A mezzogiorno erano state vendute, a prezzi via via decrescenti, tre milioni di azioni.

I cinque «grandi sacerdoti» di Wall Street tornarono a ri-unirsi nella banca Morgan e vi rimasero sino alle 18.30. Fu qualcosa di assai simile a un rito funebre e quando finì Tho-mas W. Lamont andò a leggere ai giornalisti il de profundis dell’epoca d’oro del capitalismo americano: «Mantenere un ragionevole livello dei corsi in Borsa non è nelle nostre possi-bilità. Noi non abbiamo che un dovere, quello di far sì che il mercato sia ordinato. Se il disastro è inevitabile, si eviti alme-no il caos». I giganti di Wall Street non avevano saputo esco-gitare altro: agli americani rovinati dal ciclone borsistico non offrivano altra via che la rotta in buon ordine.

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E invece, il martedì mattina, la rotta fu disordinata. Nel sa-lone dello Stock Exchange le offerte di vendita parevano in-vocazioni di mendicanti. «Azioni delle macchine per cucire White. Prezzo di listino del 23 ottobre, 48 dollari, prezzo del 28 ottobre, 11 dollari e mezzo. Vendo duemila azioni: fate un’offerta», gridava un agente sporgendosi dal suo sportello. Finalmente un fattorino della Borsa disse forte: «Mezzo dol-laro l’una». Voleva essere una battuta di spirito, ma non ci furono altre offerte e il fattorino si trovò proprietario per po-che banconote di una grossa fetta di una delle più solide im-prese industriali degli Stati Uniti. Così come durante il boom quasi tutte le azioni erano salite incredibilmente molto al di sopra del loro reale valore, ora, nella corsa nevrotica alle vendite, anche i titoli azionari di industrie sanissime colava-no a picco assurdamente.

A mezzogiorno, John Holloway, un anziano ex commer-ciante del Bronx che da mesi passava le sue giornate allo Stock Exchange, vide sul tabellone luminoso che le azioni della Blue Ridge da 24 dollari erano scese a 3. Aveva investito in quel titolo tutti i suoi risparmi. Prima di afflosciarsi senza vita restò per qualche secondo con gli occhi fissi sull’inesora-bile danza delle cifre luminose.

Mezz’ora più tardi, Anne Pearson, una commessa che lavo-rava in una gioielleria di Broadway, s’impiccava a una trave del soffitto del retrobottega. Sparpagliati sotto i suoi piedi c’erano i certificati d’acquisto di azioni per 60 mila dollari: le aveva comperate appena una settimana prima versando però al suo agente soltanto un acconto di 6 mila dollari. Ora quelle azioni valevano meno di 500 dollari.

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Il rosario dei suicidi cominciava a sgranarsi davvero. Tho-mas Miller, presidente della Rochers Gas and Electric, scelse il gas; il banchiere John J. Riordan preferì spararsi un colpo di pistola in bocca; un commerciante che i giornali indicarono soltanto con le iniziali R. H. riempì di benzina una vasca di cemento nel giardino di casa, vi appiccò il fuoco e vi si buttò dentro: nel tentativo di strapparlo alle fiamme la moglie ebbe carbonizzate le mani.

Nel pomeriggio, dopo che la Borsa aveva chiuso registran-do un ribasso medio di 40 dollari per azione, vi furono altri morti, tutti però accompagnati da certificati che attribuivano a collassi cardiaci le cause dei repentini trapassi. Suicidi ma-scherati con l’aiuto di compiacenti medici di famiglia? Pro-babile. L’improvvisa moria pareva prediligere i piccoli ban-chieri, gli agenti di borsa, gli speculatori della borghesia me-dio alta.

Nei primi giorni della settimana nera la catastrofe aveva travolto i piccoli giocatori, i bottegai, i tassisti e gli impiegati a 100 dollari la settimana che si erano illusi di aver trovato in Borsa la loro miniera d’oro: adesso, toccava agli uomini d’af-fari più robusti, ai banchieri di medio calibro, ai miliardari di recente fortuna.

Invulnerabili, come sempre, soltanto i grossi nomi. Attorno agli imperi dei Du Pont (chimica, petrolio e gomma), dei Ford (automobili) e dei Rockefeller (petrolio) le onde della tempesta si frangevano impotenti: erano imperi costruiti su solide ricchezze, non su montagne di titoli azionari. La crisi non pareva riguardarli.

La Casa Bianca cercò di coinvolgerli, di mobilitarli perché con il loro prestigio ridessero un po’ di fiducia al Paese ormai

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in preda al panico. All’appello del presidente Hoover che aveva telefonato a tutti rispose soltanto uno spettro di 90 an-ni, John D. Rockefeller, «L’imperatore» della Standard Oil. Nel primo pomeriggio di mercoledì 30 ottobre, il più famoso dei miliardari d’America lasciò la propria casa di campagna di Pocantico Hills, a una trentina di chilometri a nord di New York, e raggiunse in auto Wall Street, dove era stata convoca-ta una conferenza stampa. Ai giornalisti, Rockefeller fece l’impressione di una mummia regale uscita dal sarcofago. Il viso esangue sotto una ragnatela di rughe, i capelli incredi-bilmente candidi, gli occhi senza luce, il vegliardo parlò len-tamente, con voce da oracolo: «Niente – disse – giustifica il crollo dei valori in Borsa che ha avuto luogo nei giorni scorsi. Ci troviamo di fronte a un panico che non ha nulla di motiva-to. Poiché crediamo che la situazione del Paese sia salda e vigorosa e poiché abbiamo fiducia in una sollecita ripresa, mio figlio e io abbiamo deciso di acquistare forti quantità di sicure azioni...».

Quella sera stessa, su un palcoscenico di Broadway, l’attore Eddie Cantor commentò: «Si capisce, soltanto a lui e a suo figlio è rimasto qualche dollaro in tasca».

L’evocazione del fantasma novantenne non funzionò: il Paese era ormai sprofondato nello sgomento. Prima della mezzanotte un breve comunicato della radio di New York annunciò che la Borsa, il giorno successivo, giovedì, si sareb-be aperta soltanto per poche ore nel pomeriggio e che il ve-nerdì e il sabato sarebbe rimasta chiusa.

L’annuncio fu salutato da manifestazioni di giubilo nelle strade: tutti avevano i nervi a pezzi e la chiusura dello Stock Exchange – almeno si sperava – avrebbe riportato un po’ di calma.

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Il giorno seguente, durante le tre ore di apertura della Bor-sa, il mercato ebbe qualche momento di ripresa, ma nessuno si illuse: il tempo dei sogni, era finito e l’America si accingeva a pagare cara l’orgia delle illusioni dei mesi addietro.

Che cos’era accaduto? Dov’era finita la spensierata, felice «America 1928» che il candidato alla Casa Bianca Herbert Hoover prometteva di rendere ancora più felice?

Un buon anno, il 1928. «Siamo ormai vicini alla vittoria sul-la povertà», andava dicendo il candidato repubblicano nei suoi discorsi elettorali, ed era esattamente ciò che pensava anche ogni buon cittadino USA. «La prosperità, o meglio la ricchezza, è dietro l’angolo di ogni strada», diceva anche Herbert Hoover e il suo sembrava un ottimismo fin troppo cauto. Non occorreva, infatti, girare l’angolo della strada: le immagini della ricchezza erano molto più a portata di mano.

Uno spettacolo inebriante: venticinque milioni di automobi-li, fabbriche di radio e di frigoriferi incapaci di soddisfare la marea delle richieste, quartieri residenziali che crescevano smisuratamente attorno alle città, grattacieli sempre più fitti e più alti. I giornali traboccavano di statistiche esaltanti e di notizie splendide: il cibo americano era migliore e più ab-bondante che in ogni altra parte del mondo; l’acquisto di azioni della Compagnia per il dissalamento dell’acqua di ma-re prometteva di essere più vantaggioso del possesso di un pozzo petrolifero nel Texas; disoccupazione e scioperi erano calati a livelli trascurabili: negli ultimi tre anni gli iscritti ai sindacati erano diminuiti di un milione; gli investimenti di denaro all’estero erano passati dai 2 miliardi e mezzo del 1922 a oltre 15 miliardi; continuando il ritmo favorevole del-

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l’economia, entro i prossimi dodici mesi si sarebbero avuti in America diecimila nuovi milionari.

Industriali e banchieri godevano di prestigio smisurato. Grazie alla loro intraprendenza la ricchezza fioriva in ogni parte del Paese e di questa ricchezza la Borsa di New York era il simbolo più fedele: lo Stock Exchange più che un mer-cato finanziario, era ormai un «campo dei miracoli» fertilis-simo di dollari.

Come funzionasse il meccanismo la gente non sapeva bene: sapeva però che bastava acquistare qualche azione, qualche pezzo di carta del valore di un dollaro, per vedere quel dolla-ro moltiplicarsi come per prodigio.

Le notizie di Borsa trasmesse ogni pomeriggio dalla radio di New York sembravano bollettini trionfali della guerra alla povertà: «Oggi le Radio Corporation of America sono salite di 20 dollari, le U.S. Steel di 18…».

Con il passare delle settimane di quel meraviglioso 1928 la schiera dei candidati alla ricchezza s’ingigantiva: nei salotti, il posto dei poeti e degli artisti era stato conquistato dagli esperti di Borsa e le conversazioni vertevano su temi ricchi di fascino: l’emissione di nuove azioni Westinghouse, l’ultimo rialzo dei titoli Wright Aereo, le promettenti prospettive delle Montgomery Ward.

Il più noto economista del momento, il professor Charles Dice scriveva sui giornali: «Guidati da questi potenti cavalie-ri dell’industria, ai quali si sono uniti molti operatori profes-sionisti che hanno avuto l’intuizione del progresso, il mercato azionario ha cominciato la marcia in avanti come le falangi di Ciro, parasanga su parasanga, giorno per giorno…».

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Furono consultate le enciclopedie e si apprese che la para-sanga, un’unità di misura degli antichi persiani, corrispon-deva a una quindicina di metri. La prospettiva di un mercato capace di fare ogni giorno un balzo in avanti di quindici me-tri fu giudicata oltremodo incoraggiante e nel giro di poche sedute la Borsa di New York fu invasa da oltre quattromila nuovi speculatori.

Il professor Dice non era un isolato cantore della prosperità. A metà estate il presidente della General Motors, John Raskob, scriveva per le lettrici del “Ladies Home Journal”: «Ciascuno può, diventare ricco perché la fortuna è alla porta-ta di ciascuno. Appena 15 dollari investiti ogni mese in Borsa, grazie all’accumulazione dei dividendi; possono produrre dopo vent’anni un capitale di 80 mila dollari».

In breve tutta l’America, da Boston a New York, si convertì all’eccitante gioco della speculazione borsistica. In tempi di proibizione delle bevande alcoliche e di divieto delle scom-messe alle corse, la Borsa divenne la sola legale dispensatrice dell’ebbrezza e della fortuna.

Saltare sulla giostra della ricchezza era semplice: bastava entrare nell’ufficio di un agente di cambio. Ce n’erano ormai 75 mila negli Stati Uniti. Uno dei più frequentati era a Man-hattan, all’angolo fra Madison Avenue e la 63esima Street-Est: un ingresso scintillante di cristalli, un lungo bancone dis-seminato di telefoni, due crepitanti telescriventi collegate con la Borsa, quindici impiegati con la visiera di celluloide verde. Qui i commessi di negozi a 50 dollari la settimana potevano provare emozioni da astuto finanziere. Ogni aspirante mi-liardario venuto ad acquistare azioni doveva versare al-l’agente di cambio soltanto un anticipo pari al 10 per cento

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del loro ammontare. L’agente di cambio, grazie ai prestiti di una banca, copriva il restante 90 per cento e conservava i tito-li in cassaforte. A questo punto il compratore delle azioni do-veva soltanto aspettare che i titoli salissero: quando la loro quotazione era aumentata di dieci o venti volte poteva ven-derle, rimborsare all’agente di cambio la somma prestata «a copertura» e intascare la differenza fra il prezzo iniziale delle azioni e quello dell’ultima quotazione. Così, senza neppure mettere piede in Borsa, ogni americano poteva coglierne i frutti dorati.

L’afflusso di migliaia di nuovi acquirenti prese a gonfiare le quotazioni delle azioni in misura tale che ben presto il loro prezzo non ebbe più alcun rapporto con il capitale reale delle industrie che esse rappresentavano. Nel pieno dell’estate, la fame di azioni esplosa dissennatamente fra casalinghe, bar-bieri e tassisti, intimamente persuasi di essere predestinati al successo economico, assunse, proporzioni epidemiche. I nuovi clienti degli agenti di cambio, per ottenere un pacchet-to di azioni della Compagnia per la fabbricazione del sapone con olio di banano, erano disposti a sacrificare fiduciosi i ri-sparmi di un’intera esistenza.

Fu il momento magico delle holding e degli investment trust. Le holding erano gigantesche società finanziarie: alcune di esse controllavano le compagnie dell’elettricità, del gas e dell’acqua di interi Stati, altre possedevano catene di cinema e di teatri, altre ancora avevano reti di negozi, di grandi ma-gazzini, di alberghi. Quasi tutte erano largamente propense alla truccatura dei bilanci e agli aumenti fittizi di capitale at-traverso l’emissione di nuove azioni.

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«Una società finanziaria», spiegava molto seriamente l’umorista Will Roger «consiste in questo: voi potete passare a un complice la merce rubata mentre un poliziotto vi sta perquisendo.» Le grandi società finanziarie, aggirando le leggi (molto tolleranti) che avrebbero dovuto disciplinare la loro attività, cominciarono dunque a far piovere sul mercato uno sfarfallio colossale di nuove azioni che furono subito di-sputatissime.

Un’altra pioggia di azioni venne dagli «investment trust», ingegnose organizzazioni che emettevano titoli propri inve-stendo poi il denaro ricavato in titoli di altre compagnie. Il fatto che gli «investment trust» vendessero molte più azioni di quelle che acquistavano, non pareva destare alcuna diffi-denza. La gente comune non capiva bene il funzionamento di queste alchimie finanziarie, ma aveva una fiducia assoluta negli amministratori dei trust. Del resto, sui giornali compa-rivano regolarmente inserzioni rassicuranti che proclamava-no: «Il nostro trust ha come consulenti i più famosi economi-sti del Paese: per voi, per dar valore ai vostri dollari, abbiamo mobilitato in notevole misura la trionfante intelligenza affari-stica degli Stati Uniti».

Anche le azioni emesse dai trust andarono a ruba, ma non bastava ancora. Sempre nei cuore di quella folle estate, John Raskob, che dalla General Motors era passato alla direzione del comitato nazionale del partito democratico, forse per con-trastare la marcia sulla Casa Bianca di Herbert Hoover (man-cavano pochi mesi alle elezioni) propose un piano per dare la ricchezza anche agli americani più poveri. «Il mio piano – assicurò Raskob – ha l’approvazione di finanzieri, di econo-misti, di banchieri e di molti uomini non di primo piano, ma ricchi di idee.» In breve, si trattava di questo. Innanzitutto,

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occorreva organizzare una speciale società per l’acquisto di azioni: un tassista con 200 dollari di risparmi, per esempio, avrebbe potuto affidare i suoi soldi alla società incaricandola di acquistare titoli per 500 dollari. La differenza di 300 dollari sarebbe stata coperta da una seconda società, presso la quale tutti i titoli di tutti i clienti sarebbero stati depositati in garan-zia. Il tassista, pagando il suo debito a rate di 25 dollari al mese, avrebbe potuto ritirare dopo un anno 500 dollari d’azioni che, nel frattempo, sarebbero immancabilmente cre-sciute di valore: mille dollari, duemila, chissà…

L’annuncio del piano Raskob fu accolto, con un’emozione pari a quella che avrebbe suscitato la notizia della scoperta dell’elisir della giovinezza eterna, ma non fermò Hoover sul-la strada della Casa Bianca, e con l’elezione del nuovo presi-dente l’intero Paese si abbandonò a quella che negli anni suc-cessivi fu concordemente definita «una vera e propria orgia speculativa».

Si speculava forsennatamente a Wall Street; giocavano in Borsa a Chicago i gangster di Al Capone appena reduci dalla strage di San Valentino (sette uomini di una banda rivale spazzati via in un garage a colpi di pistola mitragliatrice); a Los Angeles, l’attore più fortunato dell’anno, Douglas Fair-banks senior, investiva in azioni l’intero compenso che gli era stato dato per il film «La maschera di ferro». In dicembre, le «vedove di Rodolfo Valentino», le centinaia di migliaia di donne americane che coltivavano appassionatamente la me-moria dell’attore ucciso dalla peritonite due anni prima, e che per la gran parte erano diventate accanite giocatrici in Borsa, trovarono sui giornali due notizie ugualmente appassionanti: la prima diceva che Rodolfo Valentino, in realtà, era stato av-

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velenato da un innamorato di Pola Negri con un cocktail spruzzato di polvere di diamante e di arsenico; la seconda attribuiva alla stessa Pola Negri, l’ultima compagna del divo tanto rimpianto, l’acquisto recente di oltre un milione di dol-lari di azioni. La prima notizia, quella sull’assassinio del divo era falsa, la seconda era vera e Pola Negri ne avrebbe fatto le spese trovandosi, l’anno dopo, quasi completamente rovina-ta.

Si poteva giocare in Borsa anche a bordo dei transatlantici di lusso in navigazione fra gli Stati Uniti e l’Europa, l’Ile de France e il Leviathan. Il compositore Irving Berlin fu fortunato: durante un viaggio sull’Ile de France decise di vendere 10 mila azioni della Paramount Famous Lasthy e ne ricavò 72 dollari l’una. Nel crollo di Wall Street, quelle stesse azioni sarebbero diventate inutili pezzi di carta. Assai meno fortunati gli spe-culatori dell’ultima ora, i ritardatari che nei primi mesi del 1929 erano disposti a impegnarsi l’orologio per avere qualche azione della Società per l’importazione di somari dalla Spa-gna. Il disastro si disegnava nell’aria: il mercato azionario era ormai un pallone troppo gonfiato.

I primi allarmi non furono ascoltati. Le poche timide Cas-sandre, il direttore del «Commercial and Financial Chronicle» e l’esperto di Borsa del «New York Times», che osavano pro-fetizzare un’imminente flessione del mercato, furono tacciati di disfattismo e i loro prudenti avvertimenti furono equipara-ti a un deliberato tentativo di sabotare lo sviluppo economico del Paese. Fu giudicata addirittura blasfema la predizione dell’economista Roger Babson secondo il quale: «Prima o poi ci sarà un crollo e sarà tremendo: gli operai resteranno senza lavoro, le fabbriche dovranno chiudere e il circolo vizioso travolgerà tutto». Le parole di Babson erano certamente un

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concentrato di falsità e di perfidia ai danni della legittima aspirazione alla ricchezza di tanti buoni americani: il boom, potevano vederlo tutti, appariva più florido che mai.

Ancora durante l’estate 1929 l’illusione collettiva era auto-revolmente incoraggiata. Dall’università di Yale, l’economista Irving Fishser sentenziava: «I titoli azionari non sono ancora all’altezza del loro valore reale. Saliranno ulteriormente an-che perché sul mercato non si sono ancora registrati i benefici del proibizionismo che ha reso l’operaio americano più so-brio e più produttivo...».

Verso la metà di settembre, alla Borsa di New York si ebbero i primi scricchiolii. In quei giorni il dirigibile tedesco «Zeppe-lin» stava compiendo il giro del mondo; da Parigi arrivavano i primi vestiti femminili che mortificavano le curve dei fian-chi e le rotondità del seno; il romanzo di Remarque «Al-l’Ovest niente di nuovo» diventava un bestseller, e Babe Ruth stava rivelandosi il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi. Ma gli appassionati di aeronautica, le signore attente alla moda, i compratori di libri e i tifosi di baseball avevano altro da pensare. In una movimentata giornata di Borsa le azioni U.S. Steel erano scese da 255 dollari a 246, la Westin-ghouse aveva perduto 7 punti e la Tel and Tel 6. Che cosa stava accadendo? I più si rincuorarono con la rosea diagnosi emessa dalla Harvard Economic Society (un istituto universi-tario che era giudicato il più sensibile barometro della situa-zione finanziaria): «Una severa depressione – dicevano a Harvard – non rientra nel novero delle probabilità».

Qualcuno, invece, cominciò a pensare che fosse ormai venuto il momento di vendere, di saltare giù dal treno in corsa prima del disastro. Come le folli speranze che lo avevano preceduto,

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anche il panico doveva rivelarsi contagioso: un contagio più lento, perché le illusioni sono dure a morire, ma intanto i germi della paura si propagavano. Nelle prime due settimane di ot-tobre cominciò a gravare sullo Stock Exchange un malessere indecifrabile: pochi acquisti tentennanti e sempre più frequenti offerte di vendita a prezzi via via decrescenti.

Il 15 ottobre, il solito professor Fisher dichiarò ai giornalisti: «Mi aspetto di vedere presto il mercato a un livello assai più elevato di oggi». E ripeté questa sua assoluta convinzione anche il 21 ottobre, ma il suo ottimismo non riuscì a esorciz-zare il fantasma della crisi che stava avvicinandosi.

Appena due giorni dopo, in tutto il Paese, migliaia e mi-gliaia di americani arrivavano alla medesima conclusione: era veramente arrivato il momento di vendere le azioni. Lo avrebbero fatto, tutti insieme, la mattina dopo, giovedì 24 ot-tobre 1929.

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Milioni di disoccupati mentre Roosevelt arriva alla Casa Bianca

Il grande crollo dilagò negli Stati Uniti come una pestilenza: non accatastava molti cadaveri, ma seminava ugualmente miserie e disperazione. Eppure, durante la rovinosa settima-na nera e nei giorni immediatamente successivi, si fece ogni sforzo per tenere gli occhi chiusi davanti al disastro.

Come per la peste manzoniana. «In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche parlarne.., poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un nome...» Fu così anche per il «grande crollo»: un crollo c’era stato sì, ma non proprio, e in un certo senso... Fra i giornali si accese la gara dell’eufemismo: in Borsa si era verificato un ridimensionamento del mercato, un declino momentaneo.

Quando la rovina divenne troppo vistosa per poter essere ancora negata, cominciò la corsa ai ripari. Fu condotta soprat-tutto a parole ed ebbe aspetti grotteschi.

James T. Walker, rieletto sindaco di New York il 6 novembre con 865 mila voti contro i 368 mila dell’altro candidato, Fio-rello La Guardia, mentre sui giornali comparivano i primi lunghi elenchi di imprese dichiarate fallite, convocò i distri-butori e i produttori di film per esortarli a fornire ai cinema-tografi «spettacoli in grado di risollevare il coraggio e la spe-ranza nel cuore della popolazione». Occorreva ben più della mobilitazione di Hollywood, e infatti l’appello di Walker non ebbe altro risultato che contribuire a un decennio di film de-stinati a tener lontana la gente dal pensare.

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Non risollevarono il coraggio e la speranza neppure gli ap-pelli alla calma che arrivavano dalla Casa Bianca. Sotto lo shock del crollo azionario l’America scopriva con sgomento che la sua industria aveva avuto uno sviluppo caotico, che l’agricoltura era in crisi, che il miracolo della prosperità ave-va sfiorato soltanto una parte della popolazione e che duran-te il boom la ricchezza dei ricchi era cresciuta più rapidamen-te di quanto fosse diminuita la povertà dei poveri.

Il meccanismo della recessione funzionava ormai con l’ine-sorabilità di una reazione a catena: caduta delle vendite in tutti i settori commerciali, crisi delle aziende, riduzione dei salari, licenziamenti. Con l’aumento della disoccupazione, nuova contrazione delle vendite, altre aziende in crisi, altri fallimenti, e ancora disoccupati. Otto settimane dopo il gio-vedì nero, quattro milioni di americani avevano perduto il lavoro, 640 banche private erano fallite e alcune migliaia di piccole imprese avevano chiuso i cancelli.

A New York, dove il flagello si era abbattuto più violento, centinaia di ex milionari scopertisi in miseria vendevano me-le agli angoli delle strade o si univano alla folla dei diseredati in coda davanti alle sedi dell’Esercito della Salvezza per rice-vere una scodella di zuppa. C’erano lunghe code davanti alle panetterie di fortuna allestite dagli enti di beneficenza: con la rovina, gli americani erano passati dalla fame di azioni alla fame di pane.

Davanti alle fabbriche chiuse i disoccupati offrivano se stes-si all’asta: per pochi dollari erano pronti ad accettare condi-zioni assai prossime alla schiavitù. «Uomo di fatica robusto e volonteroso. È disposto a lavorare 14 ore al giorno per un dollaro», gridava un improvvisato banditore. Quasi sempre

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lo «schiavo bianco» restava senza compratore. Nei mesi suc-cessivi, attorno a tutte le maggiori città americane, comincia-rono a sorgere sterminati sobborghi costruiti con rottami di auto, lamiere rugginose, casse di sapone e bidoni di benzina. In odio al presidente Hoover, considerato ormai uno dei re-sponsabili della miseria, questi baraccamenti erano chiamati «hoovervilles», città di Hoover.

Un’indagine federale accertò, durante il febbraio 1930, che 28 mila imprese commerciali erano in crisi e non avrebbero retto per molto. Fallirono tutte, infatti, nell’arco di dodici me-si con passivi per oltre un miliardo e mezzo di dollari.

Alla propaganda comunista non mancavano solidi argomen-ti per mobilitare le masse. Rispondendo all’appello di William Foster, primo segretario del partito comunista americano, il 5 marzo 1930 (i disoccupati erano ormai 7 milioni) quarantamila novaiorchesi invasero i prati dell’Union Square.

Era una folla di miserabili con scarpe sfondate e fogli di giornali sotto le camicie per difendersi dal freddo. Foster, inerpicatosi sul piedistallo del monumento a George Was-hington, arringò. quell’esercito di disperati per un’ora, poi urlò: «All’assalto del palazzo del sindaco!». Si formò un di-sordinato corteo che prese ad avanzare tumultuando lungo la Quinta Strada. Vi fu una prima carica della polizia a cavallo, seguita da un’altra e da un’altra ancora. Non fu necessario far ricorso alle armi da fuoco: denutriti, avviliti e sfiduciati co-m’erano, i dimostranti furono dispersi facilmente a bastonate. Una ventina di feriti, quattordici arresti.

Sconvolto dalla notizia dei disordini il presidente Hoover decise di rivolgere quella sera stessa un appello radio alla na-zione. Ai milioni di disoccupati che ancora speravano in un aiuto del governo, che invocavano un pur misero sussidio,

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Hoover offrì il conforto di un assurdo ottimismo: «Entro ses-santa giorni, io ve lo prometto solennemente, gli Stati Uniti torneranno alla normalità».

L’ingegner Herbert Hoover, il «presidente miracolo» co-m’era stato chiamato in tempi migliori, rifiutava ancora di prendere atto della realtà. Hoover aveva un libro prediletto che leggeva ogni giorno, «Come essere padroni di sé grazie all’autosuggestione» del dottor Cowe, e forse questo poteva spiegare la ferma fiducia che ostentava, ma i milioni di ame-ricani che lo ascoltavano non avevano la risorsa dell’auto-suggestione e la promessa presidenziale non li rasserenò. Il giorno successivo alla perorazione le azioni U.S. Steel, che durante il boom erano salite a 261 dollari e che erano riuscite a superare il ciclone della crisi ancorandosi a quota 150, pre-cipitarono a 21 dollari e un quarto.

A un tristissimo 1930 seguì un tragico 1931: fallirono altre 29 mila imprese con un passivo complessivo di 730 milioni di dollari e i disoccupati superarono gli otto milioni. Sul finire dell’anno, il presidente Hoover era politicamente agonizzan-te: il suo stesso partito gli voltava le spalle e una schiera non piccola di repubblicani progressisti era ormai trasmigrata nel-le file del partito democratico il cui «numero uno», il gover-natore dello Stato di New York, Franklin Delano Roosevelt, andava predicando la necessità di attingere alle riserve fede-rali per assistere i disoccupati e per creare nuovi posti di la-voro con una politica di vasti lavori pubblici.

Sarebbe bastato un incidente per dare a Hoover il colpo di grazia. E l’incidente accadde pochi mesi dopo, il 17 luglio 1932, a ottocento metri dalla Casa Bianca, nella Pennsylvania Avenue. In questa strada, ormai da una ventina di giorni, un

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enorme edificio già in parte demolito era divenuto il centro di raccolta di alcune migliaia di disoccupati che avevano combattuto in Europa durante la prima guerra mondiale e che erano venuti a Washington per esigere il pagamento della polizza di assicurazione che era stata loro concessa al mo-mento del congedo.

Si erano accampati nel gigantesco stabile con mogli e figli, decisi a non sloggiare senza prima aver ottenuto i pochi dol-lari che spettavano loro. Al presidente Hoover era parsa un’intollerabile sfida e la sera del 16 luglio dalla Casa Bianca era partito un ordine preciso. Durante la notte, quattro squa-droni di cavalleria e una colonna di fanteria dell’esercito de-gli Stati Uniti si schierarono nella Pennsylvania Avenue e cin-sero silenziosamente d’assedio l’edificio occupato dagli ex combattenti. All’alba l’accerchiamento era compiuto. Co-mandava l’operazione un ufficiale di 42 anni, un maggiore al quale gli esperti pronosticavano un brillante avvenire.

Si chiamava Dwight Eisenhower.Alle 10.30, mentre dalle finestre dell’edificio assediato vola-

vano insulti e pietre, il maggiore Eisenhower lanciò con un megafono il suo ultimatum: «Sgomberate il palazzo o saremo costretti a usare la forza». Gli rispose un colpo di pistola spa-rato in aria da una delle finestre. Eisenhower, che intanto si era portato in mezzo alla strada, si girò indietro a guardare in direzione di un portone sotto il quale, da una decina di minu-ti, era «in osservazione» addirittura il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Douglas Mac Arthur. Un cenno della mano dell’incollerito Mac Arthur e il maggiore Eisenhower diede l’ordine. Una gragnuola di bombe lacrimogene rag-giunse crepitando le finestre dell’edificio occupato. La ribel-lione degli ex combattenti poteva dirsi conclusa. Costretti ad

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abbandonare l’edificio e a uscire lacrimando e tossendo nella strada, furono dispersi da una blanda carica di uno dei quat-tro squadroni di cavalleria.

«Se l’esercito degli Stati Uniti deve fare la guerra a cittadini inermi, allora l’America non è più l’America» scrissero l’in-domani i giornali e per il presidente Hoover fu la fine. Obbe-dendo agli ordini di un presidente repubblicano, Dwight Ei-senhower, futuro presidente repubblicano, aveva inconsape-volmente contribuito a spianare la strada a vent’anni di am-ministrazione del Paese da parte del partito democratico.

La campagna elettorale, per Franklin Delano Roosevelt fu un giro trionfale, per Herbert Hoover un calvario penoso.

Il 4 novembre 1932, l’uomo del «New Deal», del nuovo programma destinato a chiudere l’epoca del capitalismo sen-za freni e della speculazione senza regole entrava alla Casa Bianca. Intorno a lui era un Paese coperto d’ipoteche e con 14 milioni di disoccupati: l’eredità tragica di un’ormai lontana settimana nera di Wall Street.

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Da Wall Street all’Europa:Hitler approfitta del panico

Le onde del terremoto che stavano devastando l’intera eco-nomia americana arrivarono ben presto all’Europa e soltanto allora il vecchio continente si rese conto di quanto ormai di-pendesse dall’America.

Sino a pochi giorni prima del «grande crollo», gli Stati Uniti, o meglio i capitalisti privati degli Stati Uniti, prestavano de-naro alla Germania, la Germania in gran parte lo versava alla Francia e all’Inghilterra per le riparazioni di guerra e, a loro volta, Francia e Inghilterra rispedivano quello stesso denaro negli Stati Uniti per pagare i debiti contratti con l’alleato americano durante il conflitto. Quando, in pieno disastro, i finanzieri americani cominciarono a chiedere la restituzione dei prestiti a breve scadenza concessi alla Germania, il panico si diffuse rapidissimo in tutte le banche tedesche e in tutte le industrie tenute in piedi da quella parte del denaro america-no che veniva sottratto al pagamento delle riparazioni di guerra.

La crisi sarebbe esplosa anche in Francia e soprattutto in Gran Bretagna, ma per la Germania fu anche peggio. Nel giro di pochi mesi, si riversarono nelle strade delle sue città sei milioni di disoccupati: un deposito di dinamite che si accu-mulava vistosamente sotto il piedistallo fragilissimo del go-verno democratico della repubblica di Weimar.

Il 13 luglio 1931 fallì una delle principali banche del Paese, la Darmstädter und Nationalbank. In preda al panico il go-verno commise un catastrofico errore psicologico: ordinò la chiusura temporanea di tutte le banche e questo provvedi-

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mento precipitò il Paese nello sgomento. Bloccati i meccani-smi dell’economia, fu il caos.

Le lunghe code per il pane, i cortei di disoccupati, le fabbri-che chiuse, la disperazione del popolo piombato nella mise-ria parevano allietare un solo tedesco, il capo di un partito di estremisti di destra che additava alla Germania un confuso programma di rivincita. Adolf Hitler, il capo di quel partito, scriveva in quei giorni: «Mai in tutta la mia vita mi sono sen-tito così ben disposto e interiormente contento come ora. La dura realtà ha aperto gli occhi dei tedeschi». Spiegare ai tede-schi le «vere cause» della crisi economica sarebbe diventato il suo cavallo di battaglia. La spiegazione del disastro data da Hitler nei raduni di partito e nei comizi era semplice e sugge-stiva: s’imperniava sulla leggenda antisemita secondo cui Wall Street era tenebrosamente dominata da finanzieri ebrei. Così come una congiura ebraica aveva trascinato alla sconfit-ta la Germania imperiale, oggi un’altra congiura di finanzieri ebrei aveva condannato la Germania alla fame. Il ritiro dei capitali americani era appunto la prova schiacciante dell’in-fame manovra.

A questo tipo dì diagnosi si adattava una cura precisa, e il grande taumaturgo, cui milioni di tedeschi cominciavano a guardare speranzosi, aveva già scritto la ricetta: il riarmo del-la Germania. Il riarmo come valvola di sfogo per la disoccu-pazione (sei milioni di uomini senza lavoro), ma soprattutto come primo passo verso la rivincita contro l’eterna congiura ebraica antitedesca.

A una larghissima fetta di cittadini la diagnosi di Hitler parve giusta e buona la cura che egli proponeva. Nel luglio 1932 l’elezione al Reichstag assegnò ai nazisti 230 seggi, con-

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fermando così la loro asserzione di essere ormai il più forte partito della Germania.

Con la grande crisi il dopoguerra era finito. Cominciava l’anteguerra.

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Che cosa si nasconde dietro il mito della “lira forte”

In Italia è il 26 ottobre 1929, festosa vigilia del settimo anni-versario della marcia su Roma. I treni viaggiano veloci e in orario, ma dal Paese dei grattacieli, di Greta Garbo e di Char-lot, le notizie arrivano in ritardo e di seconda mano. A Wall Street giovedì 24 ottobre c’è stato il finimondo in Borsa, però gli italiani che non appartengono all’olimpo della finanza, dell’industria o della politica, hanno dovuto aspettare altre 48 ore prima di leggere sui giornali poche righe su «un certo al-larme diffusosi fra gli speculatori della Borsa di New York».

La notizia viene di rimbalzo: l’«Agenzia Stefani» l’ha ripre-sa dal giornale londinese «Morning Post» e i quotidiani le dedicano una distratta attenzione. Ben altri sono gli avveni-menti che meritano rilievo: per esempio che domani, 27 otto-bre, in tutto il Paese saranno inaugurate 9.697 opere pubbli-che per un importo di 3 miliardi e 740 milioni di lire (oltre 300 miliardi in lire del 1971 [circa 25 milioni di euro del 2012, N.d.c.] ).

La prima pagina del «Popolo d’Italia», il quotidiano fondato da Mussolini, basta appena a elencarle tutte. Un’altra fetta di spazio è occupata dal testo del telegramma di felicitazioni del duce per il fidanzamento del principe di Piemonte con la principessa Maria José del Belgio. E poi c’è la notizia dei pre-parativi per l’inaugurazione in Campidoglio dell’Accademia d’Italia, versione nostrana e fascista della prestigiosa Acadé-mie Française: il 28 ottobre, anniversario della rivoluzione, trenta accademici in uniforme ricamata, feluca e spadino en-treranno nella «galleria degli immortali» (tremila lire di sti-pendio mensile). L’elenco comprende Pietro Mascagni, Um-

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berto Giordano, l’architetto Marcello Piacentini. Non c’è il nome di Benedetto Croce, il filosofo inviso al regime, in com-penso c’è quello di un giovane fisico, Enrico Fermi, ancora poco conosciuto, ma che potrebbe raccogliere un giorno l’eredità di Guglielmo Marconi che della Reale Accademia d’Italia sarà acclamato presidente.

Nei giorni successivi, le notizie sulla crisi in Borsa a New York sono sacrificate ai trionfalistici bilanci dell’anno settimo dell’era fascista (i bilanci si fanno ormai da un 28 ottobre al-l’altro) e i giornali sono occupati per intero dalle rievocazioni dei successi della politica di Benito Mussolini: il concordato con il Vaticano firmato in febbraio; le elezioni plebiscitarie a scheda unica del 24 marzo (8 milioni 506.576 «sì» alla do-manda «Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?» e appena 136.198 i «no»); la vittoriosa «battaglia del grano» condotta durante l’estate; la strenua difesa della lira saldamente arroccata sulla prestigiosa «quota 90», ossia al rapporto di 90 lire per ogni sterlina (nel 1926, per acquistare una sterlina, di lire ce ne vo-levano 153,68),

Eppure, proprio la celebrata «quota 90» della lira e le tra-scurate notizie da Wall Street, sono in quei giorni fonti di preoccupazione vivissima per i pochi italiani che conoscono la realtà nascosta dietro gli incensi trionfali. La «lira forte» è la bandiera del regime, ma i vantaggi della brusca rivaluta-zione hanno avuto una pesante contropartita: il rialzo ecces-sivo della moneta italiana ha fatto diminuire le esportazioni, perché le nostre merci sono diventate troppo care, e molte fabbriche hanno dovuto ridurre la produzione. Per sostenere la lira, inoltre, si è fatto ricorso sempre più sistematicamente

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alla diminuzione dei salari: fra il 1927 e il 1928 le paghe degli operai sono scese dal 10 al 20 per cento secondo le categorie.

I treni in orario sono un sipario roseo che nasconde l’amara realtà del progressivo abbassamento del tenore dì vita della maggioranza del popolo italiano e la brusca paralisi del pro-cesso di sviluppo cui l’economia italiana si era faticosamente avviata negli anni precedenti.

I finanzieri, i grandi industriali, gli uomini politici meno ciechi sanno bene che cosa significa la crisi di Wall Street: è la fine della speranza che il capitale americano possa dare vita-lità all’esangue economia del Paese. I banchieri privati ameri-cani, che a partire dal 1925 avevano cominciato a prestare mi-lioni di dollari a società, a enti e a comuni italiani ora hanno bisogno di quel denaro e ne pretendono la restituzione: le scadenze non saranno prorogate. Illudersi che possa trattarsi di un breve viaggio di andata e ritorno, è da folli: i dollari che partono non ricompariranno più.

Il governo fascista, ufficialmente, nega che la crisi america-na possa avere conseguenze dannose sulla nostra economia: ammettere questa possibilità significherebbe riconoscere la posizione subalterna del capitalismo italiano rispetto all’alta finanza degli Stati Uniti. Il 6 novembre, sul «Popolo d’Italia», Arnaldo Mussolini, fratello del duce, scrive: «L’Europa può approfittare di questa sosta e meditare una sistemazione più aderente ai propri interessi e non sotto la pressione del capi-tale nordamericano».

L’invito alla meditazione è accompagnato da un’ulteriore riduzione dei salari: si spera che questa ciambella di salva-taggio possa permettere agli imprenditori italiani di sfuggire alle prime ondate della recessione economica in arrivo da ol-

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tre Atlantico. Il resto, il miracolo, lo avrebbero fatto, scrive l’economista Giorgio Mortara «le parche abitudini e la resi-stenza alle privazioni che sono caratteristiche salutari del no-stro popolo».

Gli inni e le fanfare del settimo anniversario della marcia su Roma nel luglio del 1930 sembrano ormai lontanissimi: ri-spetto allo stesso mese del 1929 ci sono 140 mila disoccupati in più e fra la popolazione serpeggia il malumore. Ai giornali è fatto divieto di dare notizia degli scioperi che scoppiano qua e là ed è sequestrata nelle edicole una rivista di economia stampata a Ginevra dove si legge che le paghe degli operai italiani «sono oggi le più basse d’Europa».

Mussolini ricorre a un incredibile bluff. Il 13 agosto invia ai prefetti l’ordine di rilasciare il maggior numero possibile di passaporti. Per decine di migliaia di disoccupati è una luce che si accende: si accalcano a schiere negli uffici delle questu-re inzeppandoli di domande di espatrio. I passaporti sono concessi con facilità, ma al momento delle consegne, cortesi funzionari con il distintivo fascista all’occhiello fanno più o meno questo discorsetto: «Ma dove volete andare? In Fran-cia, in Germania, in Austria è assai peggio di qui: i disoccupa-ti si contano a milioni». Rinunciano tutti a partire e la loro delusione farà dire a Mussolini: «Ora sono perfettamente guariti e sanno che in questo momento non esistono Paesi facili in nessuna parte del mondo». Un mese più tardi, al con-siglio delle corporazioni, il duce tocca i tasti dell’ottimismo lirico: «Stiamo lasciandoci alle spalle la notte e camminiamo verso l’aurora». Ma alla fine dell’anno, quando si tirano le somme, ci si accorge che è ancora buio fitto.

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Rispetto al 1929 la disoccupazione industriale è aumentata del 70 per cento e quella agricola del 50 per cento. Bisogna ridurre ancora i costi di produzione e dare così un po’ d’ossi-geno alle industrie: si torna alla solita amara medicina della riduzione dei salari. Lo Stato decide di dare l’esempio e Mus-solini annuncia in Senato la decurtazione degli stipendi dei dipendenti statali (720 milioni di lire di risparmio) e di quelli dei dipendenti degli enti parastatali (un risparmio di altri 700 milioni di lire). «Fortunatamente – dice – il popolo italiano non è ancora abituato a mangiare molte volte al giorno e avendo un livello di vita modesto sente di meno la sofferen-za.»

I dirigenti della confederazione dell’agricoltura e quelli del-la confederazione dell’industria sono della sua medesima opinione: il costo della mano d’opera salariata è quello su cui più facilmente è possibile ottenere risparmi e non è il caso di farsi troppi scrupoli visto che il popolo italiano «fortunata-mente» ha sviluppate attitudini alle ristrettezze.

La confederazione dell’agricoltura decide di operare una ri-duzione media dei salari agricoli del 17,5 per cento, con una punta massima del 25 per cento. «Calcolando su un media an-nua di 210 giornate lavorative e una riduzione media di 2 lire per lavoratore, si ottiene – spiega un comunicato – una ridu-zione globale annua di un miliardo e 218 milioni di lire». Dal canto loro, gli industriali annunciano una riduzione dell’8-10 per cento dei salari di due milioni e mezzo di lavoratori, il che rappresenta un risparmio di un buon miliardo di lire.

L’1 gennaio 1931, in una speciale trasmissione radiofonica, Mussolini legge faticosamente in inglese un «messaggio al popolo americano». Vuol essere la sfida dell’Italia fascista,

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risanata dal salasso dei salari, alla plutocrazia americana in-capace di rimediare alla prostrazione degli Stati Uniti: «So che in America si è seguito con interesse il recente movimen-to economico italiano. Esso, cominciato con la riduzione degli stipendi per equilibrare il bilancio dello Stato, è ormai vitto-rioso perché i prezzi al dettaglio sono diminuiti. Lo Stato corporativo ha funzionato in pieno perché tutte le categorie, industriali, operai, agricoltori, contadini e commercianti han-no compreso la necessità e l’utilità del movimento».

È un bollettino di vittoria destinato esclusivamente «al-l’esportazione»: i centomila abbonati all’EIAR (la RAI del-l’epoca) non ascolteranno mai la traduzione in italiano del messaggio di Mussolini. L’omissione è ragionevolmente pru-dente: è vero che i salari sono diminuiti, ma non è affatto ve-ro che i prezzi siano calati in proporzione. Lo Stato corporati-vo poi ha funzionato nel senso che ha trasferito quasi esclu-sivamente sui lavoratori il peso della crisi e ancora per due anni, sino al 1933, non riuscirà a frenare né l’aumento della disoccupazione né la paralisi progressiva dell’economia.

Poi la ripresa si avrà, ma sarà una ripresa gonfia di nubi fo-sche. Comincerà in sordina, con un graduale moltiplicarsi delle ordinazioni statali alle aziende metallurgiche-meccani-che ed esploderà poi con un’ondata di riassunzioni che ri-durrà a dimensioni modeste la disoccupazione nel settore industriale.

«La crisi è vinta» scriveranno allora i giornali, e nel clima di euforia generale gli italiani non si accorgeranno che la bac-chetta magica sfoderata dal regime sarà quella delle «com-messe belliche», il più pericoloso degli stimolanti economici. Così, dai giornali, la parola «crisi» scomparirà del tutto e gli italiani finiranno quasi per scordarsela; saranno troppo presi

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da altri avvenimenti: il problema del «posto al sole», la con-quista dell’impero, le sanzioni, il patto con la Germania.

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La storia di Insull è il simbolo più vero della grande crisi

Samuel Insull, un nome oggi dimenticato, così come sono naufragati nella memoria moltissimi nomi legati alla storia dei giorni neri di Wall Street. Eppure, per alcuni anni e non soltanto negli Stati Uniti, Samuel Insull «l’uomo che ha rovi-nato due milioni di americani» è stato il simbolo più vistoso degli avvenimenti legati alla più disastrosa crisi economica dei nostri tempi: ricostruire la sua straordinaria vicenda pri-vata può farci meglio capire alcuni aspetti incredibili di una vicenda collettiva che ha avuto milioni di protagonisti.

Samuel Insull riuscì a telefonare da Chicago a New York alle 19 di martedì 29 ottobre 1929. Aspettava la comunicazione da due ore e dovette attendere ancora una decina di minuti prima di avere all’apparecchio Charles Mitchell, il presidente della National City Bank. Mitchell disse soltanto tre parole: «Tutto crollato, Sam». Insull, in silenzio, appese il telefono e cominciò a raccogliere macchinosamente i cento fogli di carta sparsi sul-la grande scrivania d’ebano alla quale sedeva.

Calvizie lucida, baffi bianchì e solenni, gesti gravi da aristo-cratico britannico, il settantenne Samuel Insull era arrivato alla fine di uno straordinario viaggio attraverso la ricchezza durato cinquantadue anni.

Era cominciato, quel viaggio, il mattino del 6 marzo 1877 quando un inglese di 19 anni, figlio di un pastore anglicano di Whitechapel, era sbarcato a Manhattan con in tasca sette dollari, una tabacchiera d’argento e una lettera di raccoman-dazione per l’inventore Thomas Edison firmata da un piccolo banchiere di Londra. La sera stessa Edison assumeva Samuel

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Insull come segretario e un mese più tardi l’intraprendente giovanotto inglese era diventato la «mente commerciale», il consigliere di fiducia dell’ideatore del fonografo e della lam-padina elettrica a filamento di carbone. A venticinque anni, Sam Insull guadagna 36 mila dollari al mese; lo sfruttamento commerciale delle invenzioni di Edison passa quasi per inte-ro attraverso le sue mani.

Nel 1892 Insull scopre Chicago. La sera in cui vi arriva, dal-la finestra dell’albergo, lo ipnotizza lo spettacolo della grande nera città fiocamente illuminata dalle giallastre fiammelle dei becchi a gas. Sam resta alla finestra tutta la notte e in quelle lunghe ore prende forma nella sua mente il primo dei molti progetti che fra qualche anno faranno di lui uno dei più am-mirati «stregoni» della finanza americana.

La mattina dopo, nell’ufficio di un banchiere di larghe ve-dute e incline all’ottimismo, nasce la «Chicago Edison», so-cietà per la produzione e la distribuzione dell’energia elettri-ca. Il presidente della nuova impresa, che è, ovviamente, Sa-muel Insull, sembra avere un solo scopo nella vita: illuminare le notti buie della grande Chicago. Nel giro di una settimana Sam Insull installa gratuitamente duecento lampadine elet-triche nel quartiere delle fiere. La zona diventa meta ogni se-ra del pellegrinaggio di frotte di cittadini prodighi di lunghi «ooooh!» di meraviglia. Un anno dopo, il sindaco di Chicago inaugura l’impianto che fa della città la prima, in ordine di tempo, delle «villes lumières» mondiali.

Il viaggio attraverso la ricchezza, dopo questo successo, ac-quista velocità: Insull fonda altre società per l’illuminazione elettrica delle città, le avvia, le ingrandisce, le moltiplica. Na-turalmente, perché, questa frenetica espansione non si arresti, ha bisogno di denaro, sempre più denaro.

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Insull non manca d’immaginazione: escogita un espediente che sarà imitato negli anni successivi da decine dì altri disin-volti maneggiatori di dollari. Nasce così la Middle West Utili-ties, una società la cui attività prevalente consiste nell’emette-re azioni che offrono dividendi eccezionalmente buoni. Per pagare questi dividendi Insull si procura denaro con nuove emissioni di azioni che offrono dividendi ancora più alti. Per poterli pagare, Insull stampa nuove azioni e le mette a dispo-sizione dei mille e mille risparmiatori che si contendono a colpi di dollari quei miracolosi pezzi di carta. Disputate come sono, le «azioni Insull» godono di un continuo aumento di quotazioni e aprono la strada all’emissione di nuovi titoli. Nell’ubriacatura generale della speculazione, i pezzi di carta scambiati per pepite d’oro, sì accumulano in una gigantesca piramide in cima alla quale Insull, ubriaco più di tutti, ha ormai perduto ogni contatto con la realtà.

Il viaggio nella ricchezza è diventato un viaggio nel delirio. Il 7 maggio 1929, nella sua nuova faraonica villa di Chicago, In-sull offre un ricevimento per festeggiare un traguardo da ca-pogiro: un milione e ottocentomila americani sparsi in tutti gli Stati Uniti hanno comperato «azioni Insull». Un milione e ot-tocentomila americani hanno in tasca una fetta di una gigante-sca torta fatta di fumo. Appena cinque mesi più tardi, le tre parole telefonate da New York: «Tutto crollato, Sam». Crollata, nel disastro di Wall Street, la piramide dì carta messa in piedi da Insull, e le altre incredibili piramidi d’illusioni che uomini come Insull hanno montato un po’ ovunque nel Paese.

Riportato bruscamente alla lucidità dalle tre parole di Char-les Mitchell, Sam Insull, l’ex «imperatore di Chicago» ora ha soprattutto bisogno di tempo. Per riflettere, per trovare una

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via d’uscita, per arginare la valanga dei risparmiatori rovinati che sta per abbattersi su di lui. Il 30 ottobre Insull riunisce i suoi collaboratori più fidati: «Bisogna stimolare il mercato. Dobbiamo sostenere le nostre azioni acquistandole noi stessi, in modo da evitare il panico. Ho ritirato cinque milioni di dollari dal mio conto personale alla National City Bank. For-se basteranno…». Invece i cinque milioni non basteranno.

Sei mesi dopo, la Cadillac di Insull attraversa Chicago. Il vecchio finanziere è smagrito, i suoi bianchi baffi sono gialli di nicotina, il suo volto è di cera. Ha dovuto vendere la villa monumentale e ha traslocato con la moglie, una donnetta quieta che si è adattata da anni al ruolo di ombra muta del marito, in un piccolo appartamento al quinto piano dì un edi-ficio alla periferia della città. L’arredamento della nuova abi-tazione è francescano: due materassi, sul pavimento, tre sedie impagliate, un tavolo di legno. In un angolo, appoggiato su uno scatolone di cartone, c’è però un telefono placcato d’oro, malinconico souvenir dei tempi migliori. Gliene sono rimasti altri due, la Cadillac e il vecchio autista che lo sta portando attraverso Chicago in un girovagare senza meta.

Sono le 10.30 del mattino e l’auto di Insull viaggia adagio lungo la Waker Avenue. D’improvviso, una secca detonazio-ne, poi un’altra e un’altra ancora. Tre fori netti nel cristallo di un finestrino, l’autista che si accascia sul volante e la Cadillac che balza sul marciapiede fracassandosi con fragore contro l’angolo di una casa.

Insull è illeso, ma sconvolto dalla paura.La sirena di una moto della polizia che si avvicina copre le

grida dei passanti spaventati dagli spari. Senza curarsi del-l’autista ferito alla spalla destra da un proiettile, il vecchio finanziere abbandona l’auto e si rifugia, sotto un portone vi-

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cino. Vi resta rintanato per oltre un’ora, mentre dalla strada gli arrivano altre grida, la sirena lamentosa di un’autoambu-lanza e gli ordini secchi dei poliziotti che allontanano la folla dei curiosi. Finalmente Insull trova il coraggio di uscire sulla strada, di fermare un tassì e di balbettare al conducente il nome di una via...

Prima di sera, gli strilloni del «Chicago Tribune» sciamano nelle vie della città urlando: «Attentato a Insull. Arrestato lo sparatore. Il finanziere è misteriosamente scomparso!»

L’attentatore, catturato dalla polizia subito dopo la sparato-ria, è un giovane di 29 anni: aveva investito in «azioni Insull» l’intero patrimonio dei genitori. Qualcuno lo ha udito urlare mentre sparava con la pistola: «Insull, hai rovinato due mi-lioni di americani».

Due milioni di potenziali attentatori sono troppi e Insull decide di giocare la carta che fin qui ha tenuto in serbo: un conto in banca intestato alla moglie. Megalomane nella ric-chezza, Insull lo è anche nella paura. Con il denaro della mo-glie acquista una Cadillac 16 cilindri blindata con lastre d’ac-ciaio del peso di tre tonnellate e ingaggia 36 guardie del cor-po reclutandole fra i gangster di Al Capone. Il re della mala-vita di Chicago è da qualche mese fuori città impegnato a sfuggire alla rete che la polizia federale si è finalmente decisa a stendergli attorno: i suoi uomini, divisi in tre squadre di dodici ciascuna, passano volentieri al servizio di Insull. Sono pagati un dollaro l’ora.

La Cadillac blindata, i 36 «gorilla», ma soprattutto la grande confusione in cui la città è piombata a causa del dilagare del-la crisi, sono per Sam Insull una protezione efficace. Per due mesi, disperatamente attaccato al telefono placcato d’oro l’ex finanziere tenta di riallacciare contatti con banchieri e agenti

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di cambio, ma è ormai un ingombrante fantasma e nessuno vuole ascoltare la sua voce.

Intanto, in tutta l’America sta montando minacciosa la ma-rea del furore: qualcuno dev’essere pur stato a trascinare il Paese nel baratro. I «qualcuno» sono stati molti, lo sono stati un po’ tutti, ma il «qualcuno» più colpevole degli altri co-mincia confusamente a essere individuato nel tremebondo ex finanziere che vive nascosto in un appartamentino di due stanze vigilato giorno e notte da tre squadre di guardie del corpo.

«Insull ha fatto perdere ai suoi clienti 750 milioni di dollari. Il magnate di Chicago ha agito nel tessuto dell’economia americana come un cancro maligno»: la denuncia rimbalza per mesi da un giornale all’altro e finisce per cadere sulla scrivania del governatore dello Stato dell’Illinois.

Quando, l’11 aprile 1932, si apre finalmente l’inchiesta uffi-ciale sull’attività finanziaria dell’ex segretario di Thomas Edi-son, Samuel Insull è sparito. Due giorni prima, riempita la Cadillac di valigie, è fuggito con la moglie senza pagare l’ul-timo salario settimanale ai 36 «gorilla».

La fuga di Insull è una delle pagine più grottesche della sto-ria della depressione americana. Milioni di persone impegna-te a lottare con la miseria seguono con emozione febbrile l’avventurosa peregrinazione di un uomo solo, non più col-pevole di altri che sono riusciti a rimanere nell’ombra. I gior-nali pubblicano vistosi titoli su ogni tappa dell’odissea del-l’ex finanziere: «Insull è in Canada». «Il magnate bancarottie-re si è imbarcato a Quebec con la moglie diretto in Inghilter-ra», «Insull non è sbarcato in Inghilterra. Forse il fuggiasco è

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sceso durante lo scalo della nave a Cherbourg e ha raggiunto Parigi».

Un mattino del novembre 1932, appunto in una strada di Parigi, un giornalista americano riconosce in mezzo alla folla l’americano più famoso del momento. Insull cammina ap-poggiandosi a un bastone dal pomello d’oro e sembra avere riacquistato l’aria grave e solenne dei, vecchi tempi. Il giorna-lista lo pedina sino a un albergo di rue de la Seine, poi telefo-na all’ambasciata degli Stati Uniti.

Contro Sam Insull ormai da un mese è stato spiccato un mandato di comparizione e l’ambasciatore americano a Pari-gi può chiedere la collaborazione della polizia francese. I gendarmi arrivano in rue de la Seine troppo tardi: Insull e la moglie sono partiti in gran fretta.

La coppia fuggiasca ricompare venti giorni dopo ad Atene. Fra la Grecia e gli stati Uniti non esistono ancora accordi per l’estradizione dei ricercati dalla polizia e per un anno Insull vive al sicuro. Poi, quando le autorità greche, cedendo alle pressioni americane, preparano un provvedimento per espel-lerlo, Insull riprende la fuga, imbarcandosi sul Maiotis, un ansimante battello a vapore diretto in Egitto. Durante la na-vigazione, il vecchio Sam vive incollato alla radio di bordo spedendo messaggi a Gibuti, ad Ankara, ad Addis Abeba: l’ex imperatore di Chicago invoca il diritto d’asilo, ma ogni suo messaggio è respinto. Insull tenta ancora. Convince il ca-pitano del Maiotis ad allungare la rotta e, mentre il battello co-mincia a girare in tondo attorno alle isole Cicladi, spedisce altri messaggi via radio. L’ultimo è per l’emiro dello Yemen: in cambio del diritto d’asilo Sam Insull è disposto ad abbracciare la fede islamica. Da Saana, capitale dello Yemen, non arriva

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alcuna risposta. Esaurite tutte le speranze, Insull si arrende: «Sbarcatemi a Istanbul» ordina al comandante della nave.

All’arrivo in porto, la banchina è gremita di giornalisti ame-ricani accorsi per assistere alla cattura. Quando Insull scende dalla passerella del Maiotis due poliziotti turchi in uniforme e uno in abito borghese, con le manette pronte a scattare, gli vanno incontro. Il vecchio finanziere, il volto impassibile, porge rassegnato i polsi.

Diciassette giorni di traversata in una cabina del piroscafo Exilonia trasformata in cella, lo sbarco a New York, il viaggio sul rapido per Chicago in un vagone riservato gremito di po-liziotti, l’ingresso nel carcere di Cook Country: l’ultima fase del ritorno di Insull è seguita dalla radio e dai giornali d’America con enfasi spropositata.

Con Samuel Insull sembra che il Male stesso sia trascinato in catene verso l’espiazione e finisce che la gente, con uno di quei capovolgimenti di fronte che non sono rari nelle psicosi collettive, comincia a vedere nel vegliardo finito in carcere il capro espiatorio che i veri responsabili della crisi economica hanno deciso di sacrificare all’ira popolare. Quando, cinque mesi più tardi, il 2 ottobre 1934, Samuel Insull si presenta da-vanti ai giudici del tribunale federale di Chicago, l’opinione pubblica si è ormai completamente convertita alla sua causa: il vecchio finanziere è stato vittima di una crudele caccia al-l’uomo.

Poiché è rovinato, poiché è ridotto al miserevole livello del-le sue vittime, la società, appagata, può mostrarsi generosa con lui, e Insull è abile nell’accattivarsi l’indulgenza dei mi-lioni di americani che leggono sui giornali o ascoltano alla radio i resoconti delle udienze del processo. Posando gentil-

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mente per i fotografi e piangendo spesso, Insull traccia della propria vita un quadro patetico: da povero immigrato a ma-gnate della finanza, non ha fatto altro che seguire fedelmente le regole del più autentico capitalismo americano. È stato in-traprendente, instancabile e ottimista: lo ha animato soltanto il desiderio di contribuire al benessere degli americani. Gli «errori dì valutazione» che gli possono essere attribuiti sono ampiamente compensati dalla buona fede con cui ha agito sempre.

La sua difesa è abile: i capitalisti possono essere fortunati o sfortunati, ma la sfortuna è un inevitabile «rischio del mestie-re» e non è in base a essa che devono essere giudicati. Ciò che conta, ciò che li rende benemeriti dello sviluppo del Paese è proprio il coraggio di affrontare i rischi che sono legati a qualsiasi attività economica. Condannare in tribunale un ca-pitalista soltanto perché sfortunato, significa scoraggiare lo spirito d’intraprendenza che fa nascere nuove industrie, nuove imprese commerciali.

Dopo due mesi di processo e due ore di discussione in ca-mera di consiglio, la giuria dichiara Samuel Insull «non col-pevole». La sera stessa egli lascia la prigione di Cook Coun-try accolto dagli applausi di una piccola folla festosa.

L’America è stanca di sentir parlare di crisi, vuole seppellir-ne i ricordi e dimenticarne i fantasmi. Il nome di Insull scom-pare dai giornali e dalla corta memoria dell’America che sta riprendendo la sua corsa al benessere. Quattro anni di silen-zio, poi, un giorno di ottobre del 1938, poche righe frettolose nelle ultime pagine dei quotidiani per annunciare sbrigati-vamente che Samuel Insull ex finanziere di Chicago è morto per collasso cardiaco in una strada di Parigi. «Quasi ottan-

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tenne – precisano i giornali – viveva come un tranquillo pen-sionato nella villa parigina di un banchiere di Wall Street.».

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