la giustizia spaziale - pubblicazioni aperte digitali...

118
Facoltà di Economia Dipartimento di Metodi e Modelli per l’Economia, il Territorio e la Finanza Dottorato in Geografia economica xxv ciclo La giustizia spaziale Fondamenti teorici, implicazioni per le politiche, aspetti metodologici Relatore: Prof.ssa Roberta GEMMITI Candidata: M. Rosaria PRISCO Ottobre 2013

Upload: vulien

Post on 20-Feb-2019

221 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Facoltà di Economia

Dipartimento di Metodi e Modelli per l’Economia, il Territorio e la Finanza

Dottorato in Geografia economica

xxv ciclo

La giustizia spaziale

Fondamenti teorici, implicazioni per le politiche,

aspetti metodologici

Relatore: Prof.ssa Roberta GEMMITI Candidata: M. Rosaria PRISCO

Ottobre 2013

1

Indice

Premessa ............................................................................................................................................... 3

Introduzione ......................................................................................................................................... 5

1. La giustizia sociale tra redistribuzione e riconoscimento ............................................................. 9

1.1 La giustizia redistributiva: dall’equità di Rawls all’ossimoro di Harvey ....................................... 11

1.1.1 La giustizia come equità .............................................................................................................. 11

1.2.2 Giustizia sociale e capitalismo: un ossimoro .............................................................................. 13

1.2.3 La necessità del riconoscimento della diversità .......................................................................... 14

1.2 Il tentativo di mediazione: N. Fraser, D. Harvey e la giustizia sociale nell’era post-socialista ...... 16

2. Dalla giustizia sociale alla giustizia spaziale: il percorso teorico ............................................... 19

2.1 La giustizia spaziale: il percorso teorico tra context concept e concept content ............................ 19

2.1.1 Le analisi tradizionali e la dimensione etica della geografia ..................................................... 21

2.1.2 La dialettica socio-spaziale ......................................................................................................... 25

2.1.3 Il contributo di E. Soja ................................................................................................................ 28

2.2 La giustizia spaziale alle diverse scale territoriali .......................................................................... 31

2.3 Il problema della relazione causale tra spazio e giustizia: putting space in his place .................... 36

3. Quale “spazio” per la giustizia spaziale? Un approccio critico .................................................. 39

3.1 La svolta spaziale nelle scienze sociali: H. Lefebvre e la trialettica dello spazio........................... 40

3.2 Lo spazio relazionale ...................................................................................................................... 44

3.3 La matrice delle spazialità di D. Harvey ........................................................................................ 49

4. Giustizia spaziale e città: il diritto alla città e la pianificazione della città giusta ...................... 58

4.1 La città contemporanea: una lettura critica .................................................................................... 59

4.2 Spazio e giustizia in città ................................................................................................................ 64

4.3 La giustizia spaziale in città tra teoria e azione .............................................................................. 66

4.3.1 Il diritto alla città ........................................................................................................................ 66

4.3.2 La città giusta .............................................................................................................................. 73

2

5. La rappresentazione della giustizia spaziale: aspetti concettuali e metodologici...................... 79

5.1 Gli aspetti concettuali ..................................................................................................................... 80

5.1.1 Integrare lo spazio nell’analisi della giustizia spaziale .............................................................. 80

5.1.2 Decostruire la giustizia spaziale ................................................................................................. 82

5.2 La giustizia spaziale rappresentata: un esercizio ............................................................................ 84

5.3 La scelta del metodo: hybrid geographies...................................................................................... 90

5.3.1 Il web 2.0: opportunità e limiti .................................................................................................... 93

Conclusioni ......................................................................................................................................... 97

Sintesi ................................................................................................................................................ 103

Riferimenti bibliografici .................................................................................................................. 110

3

Premessa

Questo lavoro è decisamente situato. Nasce infatti da alcune insoddisfazioni emerse

nell’ambito del contesto professionale in cui ho operato per moltissimi anni, quello

dell’analisi regionale dell’innovazione tecnologica e degli indicatori statistici territoriali per

le politiche di sviluppo e coesione dell’Unione europea.

In particolare, la partecipazione ai lavori della Commissione scientifica sul benessere

istituita da Istat e Cnel nel 2011 ha rappresentato un momento significativo di questo

percorso poiché mi ha fornito lo stimolo per interrogarmi sui limiti teorici e metodologici

delle analisi territoriali tradizionali, in particolare se applicate a fenomeni complessi e

multidimensionali quali il benessere.

Nell’ambito di tale Commissione, infatti, si chiedeva agli esperti di territorio di

individuare indicatori regionali delle varie dimensioni del benessere, un mero esercizio di

disaggregazione possibile dell’offerta di dati, finalizzato alla costruzione di set di indicatori e

scoreboard con cui confrontare e classificare regioni e territori a supporto delle politiche.

La frustrazione di produrre quantificazioni del benessere circoscritte in confini

amministrativi senza alcun riferimento alle specificità locali, insite invece nel concetto stesso

di benessere fortemente dipendente da aspetti storici e culturali locali, di scarso supporto alla

definizione di agende politiche locali in grado di produrre azioni coerenti per migliorare la

condizione delle persone che vi risiedono, ha contribuito a determinare l’esigenza di

identificare in termini più strutturati le cause di questo approccio così parziale e limitato.

Il percorso seguito per contestarlo in modo costruttivo ha seguito due momenti principali

e costituisce lo sfondo di questa tesi.

In primo luogo, ha rimesso in discussione il concetto stesso di benessere come funzionale

al rinnovamento delle politiche locali ispirate alla competitività e finalizzato a contenerne gli

impatti negativi in termini di ricadute sociali e individuali. Dall’analisi della letteratura e del

dibattito attuale in sede nazionale ed internazionale (Istat, Oecd, Commissione europea) il

benessere emerge come un outcome multidimensionale di cui rimane ancora poco indagato il

processo attraverso cui raggiungerlo, le misure da attuare, le scelte da effettuare. In poche

parole, l’agenda politica che dovrebbe portare a questo risultato. Un dibattito che, peraltro,

4

non sembra interrogarsi sulle cause strutturali dell’attuale “mancanza” di benessere, con un

approccio fenomenico molto sbilanciato sulla ricerca di indicatori alternativi e poco critico

rispetto al modello di sviluppo che proprio dal Pil è rappresentato.

In secondo luogo, proprio a partire da questi limiti teorici del dibattito sul benessere

territoriale, l’analisi ha cercato di individuare le ragioni dei limiti di quello che Dematteis

definisce il paradigma “normale”, cioè la prospettiva tradizionale di analisi territoriale che

usa fonti di dati ufficiali, indirette, come se fossero reali e il concetto di territorio come

insieme di spazio (space), luogo (place) e territorio (territory), semplice contenitore dei

fenomeni umani che se utilizzato in modo acritico, rischia di inficiare la significatività dei

risultati prodotti, limitandone le ricadute in termini scientifici e di sostegno per le politiche.

Il risultato di questo percorso che per motivi di spazio e coerenza è qui soltanto

brevemente richiamato in premessa e nell’introduzione, ha influenzato la struttura

concettuale e metodologica del presente lavoro. Il punto di partenza è rappresentato, infatti,

dalla scelta di sostituire il concetto di benessere con quello di giustizia spaziale, molto attuale

nel dibattito geografico in lingua inglese, come chiave di lettura dei divari di sviluppo e

valore guida per politiche pubbliche critiche nei confronti dell’attuale modello di sviluppo

locale orientato alla competitività dei territori e in cui la dimensione spaziale risulta

strettamente interrelata al concetto stesso come supporto ontologico ed epistemologico

dell’analisi. Problematizzare il lessico comunemente usato, decostruire il concetto di

territorio e pensare a nuovi strumenti d’analisi ha rappresentato il passo ulteriore del

tentativo di considerare lo spazio come una chiave di lettura della realtà. Space as a keyword.

Le varie fasi di questo percorso, a tratti problematico e insidioso, proprio per la presenza

di concetti scivolosi quali giustizia e spazio in relazione dialettica, mi hanno consentito di

pervenire ad una visione nuova e stimolante e forse più significativa del difficile ma

affascinante mestiere di geografo.

5

Introduzione

So what kind of Utopianism is possible or, can the human

imaginary concerning a just society, play a creative role in

anti-capitalist politics? The quest for justice as a way in

which to talk about the need to regulate human relationship

and our collective endeavours so as to achieve a particular

set of goals under a given set of ecological, historical and

geographical conditions (D. Harvey, 1996).

Il recente successo sia in letteratura sia in ambito politico-istituzionale del concetto di

benessere ha in qualche modo stimolato e riaperto, complice la crisi economica, il dibattito

relativo ai fini e ai valori delle politiche pubbliche e dell’economia, riportando alla luce con

urgenza le contraddizioni di un modello di sviluppo, quale quello capitalistico, che ha

implicazioni e costi sia in termini di organizzazione sociale che di insostenibilità ambientale

ed economica con l’acuirsi delle differenze di reddito, di opportunità, di condizioni di vita

sia tra paesi che all’interno di essi.

Il benessere come fine da perseguire da parte di governi e policy makers ha tuttavia dato

luogo, principalmente, ad una riflessione che potremmo definire “tecnica”, in quanto le

energie sono state concentrate per lo più nella ricerca di indicatori statistici alternativi a

quelli correntemente utilizzati per la misura della “crescita” e dello “sviluppo” di un paese.

In particolare, l’imputato principale è stato identificato nel Prodotto interno lordo (Pil) che

ha rappresentato e rappresenta l’indicatore che i governi usano per misurare, quantificare,

valutare la performance non soltanto economica di un paese. L’idea alla base di questo

dibattito, sviluppato principalmente in sedi istituzionali (Oecd, 2011, Commissione europea,

2009) oltre che accademiche è che la disponibilità di misure più adeguate alla complessità

del concetto di sviluppo, comprendenti quindi fattori sociali, ambientali, relazionali e

personali possa funzionare da forza trainante per riposizionare l’agenda dei governi verso

politiche orientate non esclusivamente alla crescita economica, appunto al benessere. Verso,

quindi, un outcome multidimensionale di cui rimangono tuttavia ancora poco indagati sia il

6

processo attraverso cui raggiungerlo, le misure da attuare, le scelte da effettuare sia le cause

strutturali dell’attuale “mancanza” di benessere.

Questi limiti concettuali risultano amplificati quando l’analisi riguarda il benessere a

livello sub-nazionale dove il ruolo significativo delle specificità socio-economiche, politiche,

culturali, storiche locali dovrebbe essere considerato come il punto di partenza per analisi

realmente efficaci per le politiche e non una mera dimensione statistica di disaggregazione di

fenomeni nazionali.

Il presente lavoro si pone in modo critico rispetto a questo dibattito e avanza l’ipotesi che

il concetto di giustizia spaziale – la giustizia sociale nelle sue materializzazioni e

rappresentazioni spaziali – più che il benessere, possa essere efficacemente utilizzato sia

come valore di riferimento delle politiche pubbliche locali/urbane ed elemento principale per

la loro valutazione, sia come concetto che consente di integrare lo spazio come variabile

esplicativa e non solo contestuale nell’analisi dei fenomeni a livello locale.

La giustizia spaziale emerge come un’idea che, al di là dei suoi contenuti politici, assume

particolare interesse geografico per almeno tre motivi fondamentali:

1. integra lo spazio in un rapporto dialettico con il sociale (Soja, 2010), di modo che esso

diventa causa ed effetto delle diverse realtà locali/urbane, in una sorta di rapporto di

causazione circolare;

2. permette, proprio per questa sua intrinseca spazialità, attraverso l’adozione di una

visione dello spazio più articolata di quella euclidea, di delineare una proposta metodologica

di rappresentazione più aderente alla complessità del fenomeno, più soddisfacente dei

tradizionali strumenti statistici comunemente usati (indicatori e scoreboard territoriali) e,

quindi, dalle ricadute conoscitive e politiche più efficaci;

3. rappresenta un discorso che, attraverso un lessico nuovo e più critico, può contribuire a

decostruire i discorsi delle politiche orientate alla competitività territoriale per un loro

cambiamento ed evoluzione.

Che cosa distingue il concetto di giustizia spaziale dalla semplice distribuzione equa di

risorse tra territori?

7

La giustizia spaziale può essere utilizzata al posto del concetto di benessere come valore

di riferimento delle politiche locali/urbane?

Ci sono casi concreti in cui questo concetto è stato utilizzato come obiettivo delle

politiche oppure è soltanto un discorso che fa da contraltare a quello della competitività?

Come possiamo rappresentarla e non soltanto misurarla, integrando lo spazio nell’analisi?

Sono alcune delle domande a cui il lavoro intende rispondere attraverso un percorso

caratterizzato principalmente da un approccio teorico e concettuale e da una proposta

conclusiva di carattere metodologico.

I riferimenti teorici adottati come base dell’analisi proposta sono :

- la teoria della dialettica socio-spaziale di E. Soja (1989, 2010);

- la teoria dello spazio come “prodotto sociale” di H. Lefebvre (1978) così come

interpretata da D. Harvey nella matrice delle spazialità (2006);

- la teoria dell’ibridizzazione (Rose, 2000, Sui e DeLyser, 2012) finalizzata

all’integrazione di metodi e prospettive di ricerca in geografia.

Il lavoro si articola in tre parti:

La prima parte (capitoli 1, 2 e 3) contiene una riflessione teorica sul concetto di giustizia

spaziale a partire da quello di giustizia sociale. Dall’analisi della letteratura emergono

essenzialmente due punti fondamentali per l’analisi. Il primo, il concetto di giustizia spaziale

come “potente discorso in grado di mobilitare l’azione politica” (Harvey, 1996) e di

rappresentare una discontinuità nel quadro delle politiche locali/urbane di matrice

neoliberista ispirate alla competitività dei territori e delle città. Il secondo, la necessità di

integrare nell’analisi teorica una concettualizzazione dello spazio che vada oltre quella

statica e fissa della tradizione geografica positivista. Per questo motivo, viene dedicato un

capitolo all’analisi delle diverse tipologie di spazio che caratterizzano l’analisi geografica, in

particolare a partire dalle teorie di H. Lefebvre.

La seconda parte (capitolo 4) analizza le pratiche politiche finalizzata a concretizzare sul

campo il discorso sulla giustizia spaziale? Come la giustizia spaziale è considerata nelle

politiche urbane e, più in generale, nell’azione di quei movimenti che rivendicano il diritto

8

alla città? Quali sono, a partire dalle teorie esposte nella prima parte, le diverse posizioni del

dibattito in merito all’idea di città giusta?

La terza parte (capitolo 5), alla luce delle indicazioni emerse dai capitoli precedenti,

intende proporre uno schema concettuale e metodologico in cui inserire la rappresentazione

della giustizia spaziale, in particolare a livello urbano, con l’obiettivo di contribuire ad una

migliore conoscenza del fenomeno e, di conseguenza, ad una sua più ampia operatività nelle

politiche locali.

9

1. La giustizia sociale tra redistribuzione e riconoscimento

What is space? What is justice? There is no philosophical

answer to philosophical questions. Only an answer

fashioned out of the study of human practice (D. Harvey,

1973).

The quest for justice as a way in which to talk about the

need to regulate human relationship and our collective

endeavours so as to achieve a particular set of goals under

a given set of ecological, historical, and geographical

conditions (D. Harvey, 1996).

La giustizia spaziale può essere definita come la giustizia sociale nelle sue

materializzazioni e rappresentazioni spaziali. Non possiamo, trattando di giustizia spaziale,

fare a meno di richiamare seppur in modo strumentale agli obiettivi di questo capitolo e del

lavoro più in generale, il dibattito sulla giustizia sociale.

La transizione da un’economia di tipo keynesiano alla new economy di stampo

neoliberista e la progressiva finanziarizzazione dell’economia che caratterizza l’attuale crisi

economica ha, in parte, determinato l’esacerbarsi delle differenze socio-economiche tra paesi

e all’interno di essi con un forte aumento delle diseguaglianze geografiche in termini di

reddito, di opportunità, di condizioni di vita sia tra paesi che all’interno di essi (Pianta, 2012,

Dorling, 2011, Franzini e Pianta, 2011). In questo scenario, la nascita di una moltitudine di

rivendicazioni sociali e movimenti “dal basso”, ha contribuito a rinvigorire un dibattito

multidisciplinare sui fini e i valori dell’economia e delle politiche pubbliche (Pike et al.,

2007) e ha riportato l’attenzione su concetti quali benessere e giustizia sociale. Anche se con

un impatto mediatico più limitato rispetto al benessere (Stiglitz et al., 2008, Commissione

europea 2009, Oecd, 2011), ha di recente ripreso vigore il dibattito sulla giustizia sociale

come reazione all’enfasi attuale sulla competitività e al dominio delle formule neoliberiste in

politica, in particolare nelle politiche urbane (Fainstein, 2010, Marcuse, 2009, Harvey,

1996).

10

La giustizia sociale diventa quindi un discorso che si pone come contraltare al mantra

della competitività, intersecando così riflessioni teoriche e interventi sul campo. Un

parametro di riferimento per costruire politiche pubbliche più giuste e per la loro

valutazione:

a critical idea that challenges us to reform our institutions and practices in the name of

greater fairness” (Jost e Kai, 2010).

La giustizia sociale è un concetto filosofico largamente usato sia nelle scienze sociali che

nel linguaggio comune, spesso senza essere chiaramente definito, dai confini incerti e

mutevoli che può essere a ragione catalogato tra gli “essentially contestated concepts” di

Gallie (1956).

Essa assume oggi due significati principali nel dibattito corrente. Da un lato l’aggettivo

sociale risponde all’esigenza di definire cosa è una società giusta, se “giusto” può applicarsi

in una dimensione universale o risponde invece ad esigenze particolari e contestualizzate

storicamente e geograficamente (Rawls, 2008); dall’altro la giustizia sociale si occupa, di

solito, della “questione sociale”, la disoccupazione, il welfare, la formazione e l’istruzione, la

povertà.

Una definizione di massima può essere tentata sintetizzando gli elementi comuni dei

diversi approcci filosofici che analizzeremo in seguito (Jost e Kay, 2010): la giustizia sociale

come condizione (reale o ideale) in cui a) i benefici e i costi sociali sono distribuiti in base ad

un principio allocativo predefinito, b) le procedure, le norme e le regole che guidano l’azione

politica e di governo garantiscono i diritti elementari e le libertà individuali e sociali. Questi

due aspetti della definizione di Jost e Kay corrispondono in linea di massima alla giustizia

distributiva e alla giustizia procedurale.

In questi termini la giustizia sociale risulta essere una proprietà dei sistemi sociali così

come affermato da J. Rawls (2008, p. 25):

Justice is the first virtue of social institutions as truth is of systems of thought. A theory

however elegant and economical must be rejected or revisited if it is untrue; likewise laws

and institutions no matter how efficient and well-arranged must be reformed or abolished if

they are unjust.

Il principale problema per gli studiosi consiste nel fatto che permane, dopo secoli di

dibattito, un deciso disaccordo sugli elementi da incorporare nella definizione di giustizia

sociale. Quali sono i principi “giusti” in base ai quali effettuare la distribuzione di benefici e

11

costi: equità, eguaglianza, bisogni? Esiste un sistema di diritti e di libertà univocamente e

universalmente riconosciuto o la giustizia sociale è ispirata da valori che si evolvono nel

tempo e nello spazio, mutando a seconda delle condizioni culturali, storiche e geografiche?

Sono queste alcune delle domande che hanno ispirato le opere dei grandi pensatori

dell’Occidente: Aristotele, T. Hobbes, J.J. Rousseau, I. Kant, C. Marx, J.S. Mill e, più di

recente, J. Rawls, A. Sen, M. Nussbaum, D. Harvey, I. M. Young, N. Fraser.

Per cercare di finalizzare il dibattito rispetto al tema del lavoro e attualizzarlo alla luce

della storia recente possiamo introdurre, compiendo una semplificazione, due distinzioni che

possono orientarci nel dibattito sulla giustizia - ampio e complesso - con maggiore chiarezza.

Una prima distinzione fra giustizia sociale e giustizia legale, risalente ad Aristotele. Al

termine giustizia vengono spesso attribuiti due significati principali: il significato ‘sociale’,

relativo alla distribuzione dei beni in una società e il significato ‘legale’, relativo,

direttamente, alla distribuzione di quei beni particolari che sono risarcimenti e pene, e,

indirettamente, all’apparato giudiziale che gestisce quest’ultima distribuzione.

Una seconda distinzione è quella tra giustizia sociale come redistribuzione di beni

materiali ed immateriali o riconoscimento della diversità di razza, sesso, religione, cultura.

Per cercare di rappresentare questo magmatico ed eterogeneo dibattito, opereremo la

scelta di traguardare il concetto di “giustizia sociale” attraverso la lente di questa ultima

distinzione tra giustizia come ridistribuzione e riconoscimento. E’ questa distinzione più

teorica che reale. Nella pratica, infatti, le due istanze sono spesso interrelate.

E’ in base a questa distinzione, strumentale alla chiarezza dell’esposizione, che sarà

compiuta l’analisi del dibattito corrente. Un dibattito che contiene numerose diversità

ideologiche e teoriche al proprio interno. Da un lato, la tradizione liberale e progressista a cui

fa capo J. Rawls, A. Sen, M. Nussbaum dall’altra la tradizione marxista di cui analizzeremo

l’evoluzione attraverso il pensiero di D. Harvey, con al centro il tentativo di ricomposizione

effettuato da N. Fraser.

1.1 La giustizia redistributiva: dall’equità di Rawls all’ossimoro di Harvey

1.1.1 La giustizia come equità

La teoria della giustizia di J. Rawls costituisce un fondamentale contributo nel dibattito

contemporaneo sulla giustizia sociale. Ricollegandosi alle teorie contrattualiste di Hobbes,

12

Spinoza, Rousseau e Kant, Rawls, nella sua opera fondamentale A theory of justice del 1971

(trad. it. Rawls, 2008) intende superare la visione della giustizia basata sulle dottrine

utilitaristiche che con la loro massimizzazione del bene collettivo, tendono a sacrificare gli

interessi della minoranza. La giustizia come equità teorizzata da Rawls si basa sull’assunto

che tutti i beni sociali principali devono essere distribuiti in egual modo, contro l’idea della

“lotteria naturale” per cui la distribuzione dei beni avviene secondo regole dettate dal caso o,

ancor, peggio dal “mercato”. Una distribuzione eguale può esserci soltanto se avvantaggia i

più svantaggiati, cioè coloro che immeritatamente, per nascita o per altre circostanze fortuite,

per esempio la malattia, hanno minori possibilità nella società.

Attraverso l’uso del contratto sociale, Rawls compie una decisa astrazione filosofica che

destoricizza la condizione attuale per arrivare a stabilire i principi di giustizia che dovranno

governare la società. Immagina, infatti, una ipotetica situazione pre-sociale dove, ciascun

individuo in una posizione originaria, ignorando (il cd. velo di ignoranza) quale sarà la sua

futura posizione nella società (se sarà ricco o povero, avrà potere o sarà ai margini, ecc.)

sceglierebbe certamente modalità di distribuzione a vantaggio degli svantaggiati, visto che

egli stesso potrebbe farne parte. La distribuzione equa riguarda i beni sociali principali

(social primary goods) che sono necessari per la vita e di cui ciascuno intende ovviamente

disporre nella misura più ampia possibile: diritti, libertà, opportunità, reddito, benessere,

rispetto di sé.

Attraverso questa astrazione, da molti in seguito criticata come de-storicizzata e incurante

dell’identità dei soggetti cui si rivolge, Rawls deduce i principi della giustizia come equità:

- ogni persona ha eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà

fondamentali, compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti: libertà politica, di

parola, di pensiero, libertà personale e di possedere la proprietà privata;

- le ineguaglianze economiche e sociali devono essere a) per il più grande beneficio

dei meno avvantaggiati e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizione di

equa eguaglianza di opportunità.

In definitiva, quindi, una società giusta è quella che ha tra le sue priorità il miglioramento

delle posizioni relative dei gruppi svantaggiati nella distribuzione dei beni sociali primari e

che pratica il “principio di riparazione” che deve cioè prestare maggior attenzione a coloro

che sono nati con meno doti naturali o sociali (regola del maximin, maximum minimorum). In

questo schema di società le ineguaglianze sono ammesse soltanto quando massimizzano le

aspettative di lungo periodo del gruppo meno fortunato.

13

Le critiche alla costruzione teorica di Rawls sono pervenute sia dall’ambito liberista in

difesa della distribuzione attuata dalle leggi di mercato, rappresentata dalle posizioni

dell’economista F. von Hayeck che, in particolare, dall’interno dello stesso ambito filosofico

e ideologico liberale di Rawls.

Una delle critiche maggiori riguarda, infatti, la pretesa astrazione dell’identità dei soggetti

interessati che spaccerebbe per universali principi invece decisamente caratterizzanti un

ambito culturale occidentale, maschile e bianco, a danno di una società multiculturale, aperta

alla differenza e al riconoscimento della diversità di razza, sesso, genere, religione.

In anni più recenti, Rawls, aprendo a queste critiche, riformula il proprio liberalismo non

più come una teoria universale e metafisica ma come una concezione meramente politica

della giustizia, valida così in un ambito storico e politico ben delimitato, quello delle società

occidentali contemporanee basate sul pluralismo.

1.2.2 Giustizia sociale e capitalismo: un ossimoro

Anche se il pensiero marxista ha ispirato gran parte dei movimenti per la giustizia sociale,

la concezione della giustizia sociale in Marx è stata oggetto di controversie in quanto dai

suoi scritti è dubbio se si possa ricavare una vera e propria teoria della giustizia sociale

(Rosenfeld, 2001). Cionondimeno, anche se non palesemente, i suoi scritti contengo una

decisa critica justice-based al sistema capitalistico. Nella dialettica marxiana, la giustizia, in

realtà, riguarda ciò che è necessario e appropriato ad un determinato modo di produzione e

quindi il capitalismo con lo sfruttamento dei lavoratori è, per assurdo, giusto in quanto

coerente con le sue logiche. La giustizia, quindi, non dipende dal diritto o da un astratto

contratto sociale ma dai modi di produzione e dai rapporti di classe da essi determinati. A tal

proposito, Marx si mostra altrettanto scettico verso tutte le teorie astratte o universalistiche

della giustizia, quali quelle di Kant o Hegel, che trascendono dalle circostanze storiche e

sociali e sono espressione del potere economico dominante.

Nel sistema capitalistico, la forma di ingiustizia primaria, secondo Marx, è lo

sfruttamento dei lavoratori che non vengono retribuiti in modo equo rispetto al valore reale

del lavoro prestato, generando così il profitto per l’imprenditore. Nella visione marxista,

nello stadio immediatamente successivo alla vittoria del proletariato i prodotti si

distribuiranno in ragione del lavoro prestato da ciascuno, ma nello stadio definitivo, per la

14

rivoluzione economica compiuta, ciò avverrà in ragione dei bisogni di ciascuno, attuandosi

così la giustizia sociale.

Nel solco del pensiero marxista, la domanda principale che si pone D. Harvey nel suo

testo fondamentale Social justice and the city del 1973 (trad. it. Harvey, 1978) è proprio

quella relativa alla possibilità di poter arrivare ad una distribuzione giusta delle risorse senza

modificare alla base l’intero processo di produzione capitalistica. E se, invece, le teorie

liberali sulla giustizia, sono un modo di perpetuare, seppur emendandolo, il sistema

capitalistico.

In questo filone, si muovono importanti contributi al dibattito: oltre ad Harvey (che

riprenderemo in seguito sia per il suo contributo all’evoluzione del dibattito post-moderno

sulla giustizia che per il suo contributo più decisamente geografico al tema) troviamo i lavori

di I.M. Young e N. Fraser che rappresentano una significativa evoluzione del dibattito sulla

giustizia sociale.

1.2.3 La necessità del riconoscimento della diversità

La negazione dell’approccio marxista circa la possibilità di attuare la giustizia sociale

all’interno della struttura capitalistica e l’impasse politico che ne deriva, il suo riferimento

esclusivo alla lotta di classe così come, d’altra parte, le concezioni della giustizia basate su

astrazioni quali quelle della tradizione contrattualista che abbiamo visto prima con J. Rawls,

avevano suscitato numerose critiche. Questi approcci riduzionisti della complessità delle

relazioni umane, della loro storicità e contingenza spazio-temporale mostravano i loro limiti

pratici, più che metodologici e filosofici per sè, man mano che le società occidentali

sperimentavano fenomeni quali la globalizzazione e la multiculturalità.

Durante gli ultimi venti anni del XX secolo si affacciano, nel dibattito sulla giustizia, le

teorie cosiddette post-strutturaliste. Partendo dalla critica dell’approccio marxista nella

spiegazione dell’ingiustizia come estremamente semplificatoria della realtà, queste teorie tra

cui ricordiamo i Critical Legal Studies, la teoria critica femminista e il decostruzionismo,

affermano invece che nella società esista una molteplicità di discorsi differenti che

caratterizzano i diversi gruppi sociali in particolare oppongono gruppo dominante e gruppo

oppresso attraverso narrazioni inconciliabili in cui l’ingiustizia coincide con la differenza.

Femministe radicali, minoranze razziali, omosessuali, sette religiose, minoranze etnico-

15

religiose aderiscono all’ideale della differenziazione come rifiuto dello status quo imposto

dalle istituzioni dominanti.

Uno dei lavori fondamentali di questa nuova stagione di rivendicazione del

riconoscimento della diversità, per un’idea di giustizia che va quindi oltre il percorso lineare

di una giustizia basata esclusivamente sulla redistribuzione di benefici ed oneri sociali, è il

libro Justice and Politics of Difference della filosofa americana I. M. Young (1990).

Fortemente radicata nel contesto della società multiculturale nordamericana, l’idea di

giustizia di I.M. Young contrappone alle filosofie della giustizia basate sul paradigma

distributivo una teoria della giustizia che parte dal concetto di oppressione: insieme di

condizioni che impediscono alle persone di partecipare alla determinazione del proprio agire

e dominio, condizione di svantaggio e di ingiustizia a cui sono sottoposte alcune persone a

causa delle pratiche quotidiane di una società che impedisce loro di esprimere sentimenti e

punti di vista “differenti”.

I.M. Young identifica la città come il luogo dove questa diversità può dar luogo alla

coesistenza, a quella che lei stessa definisce “lo stare insieme di stranieri” e propone cinque

tipologie di oppressione, le “cinque facce” dell’oppressione: sfruttamento, emarginazione,

impotenza e non partecipazione politica, imperialismo culturale, violenza.

Questa idea di giustizia sposta l’attenzione dagli schemi distributivi alle deliberazioni e al

processo decisionale, a tutte le relazioni sociali e istituzionali suscettibili di decisione

collettiva e finisce col rientrare in quello di politica. Nei vari momenti del processo

decisionale la presenza di un pubblico democratico, eterogeneo, che dà voce anche agli

oppressi, i quali hanno la loro rappresentanza con relativa assunzione di responsabilità,

promuove la giustizia sociale meglio di un pubblico omogeneo in cui le differenze siano

annullate. Il confronto amplia l’informazione e produce conoscenza, al fine di prendere

decisioni giuste. Rispetto ai gruppi di interesse, che mirano esplicitamente ed esclusivamente

a realizzare ciascuno il proprio interesse, i gruppi sociali rappresentano un passo avanti

decisivo in senso democratico, perché nella discussione tra rappresentanti dei gruppi sociali

tutti devono chiarire e giustificare le proprie ragioni, ottenere e offrire ascolto, confrontarsi,

per poi deliberare in base a principi di giustizia condivisi.

16

1.2 Il tentativo di mediazione: N. Fraser, D. Harvey e la giustizia sociale nell’era post-

socialista

La lotta per il riconoscimento della diversità, in particolare nelle società multiculturali

quali quella nord-americana, ha spesso coinciso con “la lotta” politica, diventando il conflitto

paradigmatico degli ultimi anni del XX secolo. Un conflitto “post-socialista” in cui l’identità

del gruppo soppianta l’interesse di classe, il riconoscimento culturale sostituisce la

redistribuzione socio-economica come rimedio dell’ingiustizia.

N. Fraser propone un tentativo di ricomposizione del dibattito sulla giustizia sociale che

agli inizi degli anni Novanta si era cristallizzato in questa visione manichea tra

redistribuzione e riconoscimento, etichettando entrambe le posizioni come riduttive e rigide

e considerandole separatamente soltanto in un’ottica analitica ma non politica né empirica.

Propone infatti in un suo famoso scritto (Fraser, 1995) di sviluppare una teoria critica del

riconoscimento che parta dall’assunto che una moderna teoria della giustizia richieda

entrambe riconoscimento e redistribuzione, in un rapporto dialettico che si possa

concretizzare in forme di politica che supportino anziché escludere le due istanze. N. Fraser

inoltre, al contrario di Rawls, parte dall’osservazione empirica dell’ingiustizia e non da un

processo di astrazione, in quanto osserva che, in generale, le diverse forme di ingiustizia sia

di non riconoscimento che di emarginazione economica sono di fatto correlate e non

separate.

Questo tentativo di ricomposizione è in qualche modo proposto anche da D. Harvey in

Justice, Nature and the Geography of Difference (1996) che allargando la sua visione

marxista alle istanze di riconoscimento così urgenti nella società contemporanea, ammette in

qualche misura i limiti di una teoria della giustizia sociale basata esclusivamente su una

formulazione in chiave di classe sociale. Per Harvey, i concetti di spazio, tempo, natura, così

come quello di giustizia rappresentano un insieme di discorsi socialmente costituiti,

espressione delle relazioni di potere, storicamente e geograficamente determinati. Una

permanenza, un sistema istituzionalizzato, un insieme di simboli, parole, frasi che,

(richiamando Wittgenstein), danno luogo a famiglie di significati. Ma per non cadere nel

rischio di un nichilismo post-moderno, in cui la diversità atomizza e disintegra anche

l’azione politica, frammentandola, come nel caso dei numerosi movimenti dal basso sorti

negli ultimi anni le cui rivendicazioni sfiorano il limite del comunitarismo e dei

particolarismi (come nel caso dei movimenti Nimby), in assenza di elementi comuni se non

17

universalistici su cui convergere, Harvey propone di negoziare la tensione tra universalismo

del concetto delle teorie filosofiche moderne (come abbiamo visto in Rawls) e relativismo

post-moderno con una visione dialettica e relazionale del processo sociale per arrivare ad una

accettazione without misunderstanding, focalizzandosi sui processi sociali in cui il concetto

di giustizia prende forma.

Per percorrere questa strada Harvey ricorre a Engels:

The conception of eternal justice varies not only with time and place but also with the

persons concerned… While in everyday life expression like right, wrong, justice and sense of

right are accepted without misunderstandings even with reference to social matters, they

create…the same hopeless confusion in any scientific investigation of economic relations

(Marx and Engels, 1951 in Harvey 1992, p. 598).

Riconosce cioè che, benché sia necessario andare oltre una visione basata soltanto su

principi universalisti, vi sia, pena il perdersi nella nozione di giustizia come decostruzione e

quindi nell’inazione politica, la necessità di una convergenza verso il riconoscimento di

qualcosa di universale al di là della differenza.

Harvey propone, seguendo Engels, di studiare la giustizia contestualizzandola nel tempo e

nello spazio, cercando di convergere il più possibile verso le similarità delle differenze. Il

caso della fabbrica di pollame di Hamlet (North Carolina) in cui muoiono decine di

lavoratori per un incendio è l’esempio di questa ricerca. I lavoratori morti erano per lo più

neri, donne, poveri. Ma erano, al di là delle loro differenze di genere, sesso, razza, religione

uniti dall’appartenenza ad una condizione comune, quella di lavoratori sfruttati. Quindi, per

far sì che la politica possa dare risposte il più possibile unitarie e meno frammentate, Harvey

propone di identificare queste similarità nella differenza, rifacendosi anche ad D. Haraway

per cui non è la differenza tout court che conta ma la differenza “significativa”.

Come riconoscere le differenze significative per arrivare ad una sintesi operativa del

concetto di giustizia, per permettere alleanze in base alle similarità più che in base

all’uniformità? L’epistemologia utilizzata è quella del materialismo storico-geografico di

Harvey in cui le similarità su cui convergere sono quelle trascurate nell’analisi post-

strutturalista: commodities, accumulazione del capitale, mercato. Solo attraverso un re-

impegno critico rispetto alla political economy, e ad una posizione netta contro il modello di

accumulazione capitalistica, la giustizia sociale può diventare un valore chiave universale

(Harvey, 1996).

18

Anche se il concetto di giustiza sociale “varies not only with time and place but also with

the persons concerned… “ (Ivi, p. 226 ) bisogna riconoscere anche la forza politica di una

concezione unitaria di giustizia sebbene non universalistica. Sebbene “hopelessly confused”

se esaminate in astratto, gli ideali di giustizia sociale, contestualizzati nel tempo e nello

spazio, possono ancora funzionare come potente discorso in grado di mobilitare l’azione

politica.

A tale proposito, è esemplificativo il metodo che Harvey (1992, p. 558) adotta per uscire

dall’indeterminatezza post-moderna. Partendo da un approccio dialettico, Harvey sostiene

che la decostruzione dei valori universali deve essere inserita in alcune permanenze1 di cui

siamo circondati nella nostra vita quotidiana: cioè le concrete condizioni di vita materiale, la

“solida roccia” del materialismo storico-geografico. Proprio per cercare una definizione di

giustiza “accepted without misunderstandigs” Harvey propone di identificare, al di là delle

differenze, le similarità che offrono le basi per la comprensione dei diversi gruppi e costruire

alleanze. Commodities, economia di mercato, accumulazione di capitale rappresentano le

similarità e le permanenze da costruire e per realizzare politiche che oltre la denuncia e la

soluzione delle ingiustizie, mettano in discussione il sistema che le ha generate.

Le teorie della giustizia qui esaminate sono soltanto una piccola parte del dibattito sulla

giustizia sociale che vede impegnati da secoli filosofi, giuristi, economisti, sociologi. In

bilico tra universalismo e particolarismo, tra redistribuzione e riconoscimento il dibattito

rischia di lasciarci nel dilemma con cui abbiamo aperto la discussione di questo capitolo:

quale teoria è la più socialmente giusta?

L’approccio del materialismo storico-geografico di Harvey ha sicuramente due vantaggi e

ci consente di uscire dall’impasse: mediare le istanze di redistribuzione e riconoscimento e

inserire l’idea di giustizia sociale in un contesto fortemente localizzato sia storicamente che

geograficamente. Un approccio che offre, inoltre, la possibilità di analizzare la giustizia

sociale in vista di un’ulteriore complicazione che stiamo per aggiungere al dibattito, quella

della sua dimensione e significato spaziale.

1 Il concetto di permanenza sarà più diffusamente trattato nel capitolo 3.

19

2. Dalla giustizia sociale alla giustizia spaziale:

il percorso teorico

Questo capitolo descrive il dibattito teorico sulla giustizia spaziale sviluppatosi, in

particolare, nell’ambito della geografia anglosassone e, più in generale, in lingua inglese. In

Italia manca una riflessione strutturata sul tema, nonostante la ricca tradizione di studi sui

divari territoriali di sviluppo che potrebbe costituire un punto di partenza significativo per

l’analisi. L’obiettivo del capitolo è quello arrivare a delineare una tassonomia di approcci e

al contempo far emergere i principali aspetti problematici e cercare di rispondere alle

seguenti domande: come nasce il concetto di giustizia in relazione allo spazio? Quali sono

gli elementi caratterizzanti questo approccio alla giustizia? Quali sono le giustificazioni

teoriche e quali le ricadute pratiche? Quali sono gli ambiti del pensiero geografico che hanno

fatto riferimento a questo concetto nella spiegazione delle differenze dei livelli di sviluppo

territoriali?

Il concetto di giustizia spaziale richiede una riflessione teorica che oltre all’excursus sulle

teorie della giustizia sociale già presentato, interseca alcuni filoni rilevanti per l’analisi

geografica: la dimensione etica della geografia, le diverse modalità di teorizzare e

rappresentare lo spazio, il suo impatto nella pianificazione territoriale e nell’agenda politica.

La giustizia spaziale si situa, in tal modo, al crocevia tra società e spazio.

2.1 La giustizia spaziale: il percorso teorico tra context concept e concept content

Ricostruire il percorso teorico del concetto di giustizia spaziale esige alcune premesse.

Il termine giustizia spaziale sottende diverse posizioni teoriche e metodologiche. Come

vedremo nel corso dell’analisi effettuata in questo capitolo, è dall’aggettivo spaziale, quindi

dall’approccio concettuale nei confronti dello spazio, più che dal sostantivo giustizia che

vanno indagate le discriminanti per tracciare una definizione chiara e operativa del termine.

20

All’interno del percorso teorico proposto possiamo individuare due posizioni principali.

La prima posizione, che potremmo definire “tradizionale”, utilizza il termine giustizia

spaziale come chiave di lettura delle diseguaglianze territoriali e della diversa allocazione

delle risorse tra territori alle diverse scale, in particolare a scala regionale. Lo spazio, in

questi lavori, è quello della tradizione geografica quantitativa e positivista, uno spazio

lineare, amministrativo, un contenitore di fatti socio-economici in cui la giustizia è analizzata

attraverso il metodo di analisi comparata tra territori alle diverse scale. E’ l’approccio dei

lavori di A. Reynaud, A. Bailly, P. Knox, M. Pacione.

Il secondo approccio, considera, invece, spazio e giustizia in rapporto dialettico in cui lo

spazio è un prodotto sociale, è lo spazio delle relazioni che viene creato creato da politiche

ingiuste e a sua volta alimenta le ingiustizie sociali. Il riferimento principale è alla dialettica

socio-spaziale di E. Soja che rifacendosi alle teorie di H. Lefebvre, in una prospettiva critica,

integra lo spazio come supporto ontologico e come parte integrante delle spiegazioni

dell’in/giustizia sociale. La giustizia sociale diviene, in questa prospettiva, un valore

fortemente localizzato e contingente, con un’enfasi sugli aspetti spaziali della giustizia e

dell’ingiustizia in cui “unire insieme i termini giustizia e spazio può aprire una gamma di

nuove possibilità” (Soja, 2010). E’ la metodologia che caratterizza, seppur con elementi di

diversità, i contributi fondamentali E. Soja (1989, 2009, 2010) e M. Dikeç (2001, 2009), due

dei principali geografi che hanno analizzato la giustizia in questa prospettiva spaziale

critica2.

Un discorso a parte va fatto per i contributi di D. Harvey (1978, 1996, 2006, 2012), che

sebbene non riguardino direttamente la giustizia spaziale come definita dalla geografia

critica di matrice anglosassone, rappresentano un contributo fondamentale sia per la

comprensione del concetto che per la concettualizzazione dello spazio che sarà mutuata in

questo lavoro.

2 Con il termine geografia critica si fa riferimento ad una vasta gamma di posizioni teoriche, idee ed approcci

disciplinari che hanno in comune un deciso impegno politico e sociale. Gregory et al. (2009) identificano tre

elementi distintivi che accomunano l’approccio critico: opposizione alle forme di potere nella produzione dello

spazio, pluralità di approcci teorici (dal marxismo al femminismo, dal post-colonialismo al post-strutturalismo,

per esempio), impegno, dentro e oltre l’accademia, verso la giustizia sociale e le politiche mirate alla

trasformazione delle strutture sociali che riproducono rapporti di potere ingiusti. Anche se non esistono

distinzioni nette con la geografia radicale, la geografia critica è meno istituzionalizzata, più eclettica dal punto di

vista teorico e politico.

21

2.1.1 Le analisi tradizionali e la dimensione etica della geografia

L’equa distribuzione nello spazio dei beni materiali e immateriali, finalizzata sia alla

competitività economica che al benessere sociale, è un tema tradizionale della geografia che

si interroga sulle cause dello sviluppo diseguale tra territori. Il tema della distribuzione equa

tra territori è inoltre, spesso, legata ad un altro tema ricorrente in geografia: quello della

dimensione etica del geografo.

Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, nel saggio La politique des etats et leur

geographie, J. Gottmann (1951) evoca a più riprese la relazione tra geografia e giustizia e

pone il problema del rapporto tra eguaglianza, equità e giustizia. Una geografia al servizio

della giustizia costituisce per Gottmann il fondamento della pianificazione territoriale e la

ricerca della cooperazione e della giustizia nello spazio e la chiave identitaria della geografia

Comment répartir également, dans un monde différencié et inégal au départ, les ressources

utiles de façon équitable ? [...] C’est à la fois dans la psychologie humaine, dans la nature

même des ressources et dans l’organisation spatiale de l’univers que résident les trois

facteurs d’inégalité et même, selon la théorie morale, de l’injustice entre les peuples »

(Gottmann, 1951, p. 189).

Questo engagement a favore di una geografia improntata ad un deciso orientamento etico

sembra essere un primo tentativo di mettere in discussione la generalità della professione

geografica dell’epoca, orientata ad un sempre crescente approccio quantitativo e a criteri

economicisti e utilitaristi, in cui il modello ideologico è quello della crescita economica che

assicurerebbe, oltre ad un aumento del reddito pro capite, anche sviluppo e progresso. In

questa prospettiva, l’impegno per una distribuzione giusta delle risorse nello spazio non

riguarda il rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali quanto piuttosto permettere a

ciascun territorio di avere il suo posto nei ranking mondiali della crescita ed essere

competitivo rispetto ad altri territori per cercare di attrarre capitali ed investimenti.

Con i primi segnali di crisi del modello della crescita illimitata e le conseguenti

contestazioni sociali che si registrano nel mondo occidentale a partire dalla fine degli anni

Sessanta e, parallelamente, a un’evoluzione del quadro epistemologico dominante fino ad

allora, anche in geografia si registrano numerosi lavori orientati ad un impegno significativo

verso il sociale. Il primo lavoro che esplicitamente lega il termine geografia con il termine

giustizia è un libro intitolato Social Needs and Resources in Local Services scritto da

22

Bleddyn Davies nel 1969 (Dikeç, 2001), in cui per la prima volta compare il termine

giustizia territoriale.

Nel 1975 P. Knox, in Social wellbeing: a spatial perspective (Knox, 1973), identifica

l’efficienza economica come un mezzo per migliorare le condizioni sociali e sottolinea

l’esigenza, nella misurazione degli squilibri economici e sociali a livello spaziale, di un

quadro di riferimento teorico intorno a cui articolare la costruzione di indicatori a livello

locale e nazionale per misurare il benessere sociale definito come level of living.

In Espace, société, justice, A. Reynaud (1981) pone il problema della distribuzione

spaziale delle risorse in termini di “classi socio-spaziali” tra cui si instaurano spesso relazioni

ineguali, determinando rapporti gerarchici tra “centri” e “periferie” che per essere equi

necessitano della predisposizione di dispositivi di “giustizia socio-spaziale” definiti come

“moyens utilisés par la puissance publique pour atténuer les inégalités entre classes socio-

spatiales” (Ivi, p. 35) e della creazione di autorità politiche la cui sovranità è spazialmente

legittimata.

Anche se l’oggetto delle sue analisi non è propriamente la giustizia sociale quanto invece

il concetto di benessere, anche A. Bailly può in qualche modo essere citato tra i geografi che

si sono preoccupati di dare un risvolto morale alla disciplina e quindi un suo ruolo attivo

nella definizione delle politiche locali. Nel suo libro Geographie du bien-etre (Bailly, 1981),

infatti, egli mette in discussione le semplici analisi quantitative e comparative tra territori in

favore di una visione dello sviluppo territoriale che si interroghi sui fini delle politiche, e di

un concetto di benessere in cui Bailly incorpora numerosi elementi soggettivi.

In questo filone possiamo inserire anche uno dei primi contributi in cui si parla

espressamente di giustizia territoriale, anche se esso rappresenta una discontinuità nel quadro

dei contributi precedentemente descritti, non soltanto per l’approfondita riflessione sulla

spazialità, ma anche perché mette in discussione i metodi delle scienze regionali e, nei

contenuti, si distacca dall’idea di una giustizia sociale normativa e universalistica del

pensiero liberale a favore di una posizione socialista in cui predomina l’analisi delle

dinamiche strutturali del capitalismo a livello spaziale (urbano, in particolare). E’ il lavoro

Social Justice and the city di D. Harvey (1978), composto da due parti distinte che

rappresentano l’evoluzione del pensiero del geografo: tesi liberali e tesi socialiste. La prima

parte, relativa alle formulazioni liberali, preclude, proprio per la constatazione

dell’incapacità di tale formulazione a cogliere “la causa assente” (lo scambio ineguale insito

nel sistema capitalistico), alla formulazione delle tesi socialiste della seconda parte del libro.

23

La concezione della giustizia contenuta nelle Tesi liberali mutua gli elementi fondamentali

dalla teoria della giustizia di Rawls (cfr. cap. 1). Definisce infatti il concetto di giustizia

sociale-territoriale sotto forma di due principi rawlsiani:

1. la distribuzione del reddito dovrebbe essere tale da assicurare a) il soddisfacimento dei

bisogni della popolazione in ciascun territorio, b) allocare le risorse in modo tale da

massimizzare gli effetti moltiplicatori interterritoriali, c) allocare ulteriori risorse per

contribuire al superamento di particolari difficoltà causate dall’ambiente fisico e sociale.

2. I meccanismi istituzionali organizzativi, politici ed economici dovrebbero essere tali da

massimizzare le prospettive dei territori meno avvantaggiati. (Harvey, 1978, p. 143)

Adempiendo a queste condizioni, si avrà una distribuzione equa conseguita in modo

giusto. Le implicazioni a livello territoriale risiedono principalmente nel decidere una forma

di organizzazione spaziale che massimizzi le prospettive dell’area meno fortunata, ottenuta,

per esempio, attraverso una zonizzazione socialmente giusta in cui i gruppi e i territori in cui

risiedono siano avvantaggiati dalla distribuzione, secondo la tesi rawlsiana del maximin (cfr.

cap. 1). Qui entra in gioco il ruolo di autorità politiche che possano in qualche modo guidare

questo processo in quanto:

è evidente che il capitale si muoverà secondo criteri estranei ai bisogni o alle condizioni dei

territori meno avvantaggiati […]. Ma sembra impossibile imporre queste restrizioni senza

modificare alla base l’intero processo di flussi di capitali”. (Ivi, p.138)

Quindi, malgrado il titolo dell’opera, l’interesse di Harvey si sposta ben presto verso una

forte scetticismo del concetto stesso di giustizia sociale da attuarsi nella società capitalistica:

Sono destinati a fallire i programmi che mirano ad alterare la distribuzione senza modificare

la struttura del mercato capitalistico, dove si formano e si distribuiscono ricchezza e reddito

(Ivi, p. 135).

E’ quindi l’incapacità delle formulazioni liberali nel cogliere “la causa assente” nella

realizzazione della giustizia sociale all’interno del capitalismo che conduce Harvey alla

ricerca di spiegazioni più soddisfacenti attraverso una lettura in chiave marxista delle

strutture spaziali del capitalismo per denunciarne gli effetti sulla società.

Se si ammette che una condizione di scarsità è essenziale al funzionamento del sistema di

mercato ne consegue che privazione, appropriazione e sfruttamento sono fenomeni

concomitanti necessari al sistema di mercato. In un sistema spaziale ciò implica (problemi

ecologici permettendo) che vi sarà una serie di movimenti di appropriazione tra territori che

porterà alcuni a sfruttare ed altri ad essere sfruttati. Questo fenomeno è evidentissimo nei

24

sistemi urbani, dato che l’urbanesimo […] si è fondato sull’appropriazione del prodotto

eccedente (Ivi, p. 140).

In questo contesto va quindi letta la posizione di Harvey nei confronti dell’idea di

giustizia sociale in ambito urbano. Egli, infatti, non sviluppa un modello operativo ma

utilizza la giustizia come un mezzo per denunciare le contraddizioni interne al sistema

capitalistico, una strategia che sarà sviluppata negli scritti successivi, dove appunto la

giustizia diventerà un “potente discorso in grado di mobilitare l’azione politica” (Harvey,

1996) .

Un caso a parte, a cui vale la pena dedicare una riflessione più approfondita, è il saggio

del geografo sudafricano Gordon Pirie. Nel suo scritto “On Spatial Justice” del 1983, Pirie

per primo parla di giustizia spaziale e per primo effettua una articolata critica del termine.

Giudicando intractable la letteratura sulle diverse teorie della giustizia sociale, (Pirie, 1983,

p. 469), egli sottolinea la quasi impossibilità di propendere per una definizione funzionale ad

una applicazione pratica, ad una sua traduzione in politiche. Infatti, è alto il rischio di cadere

nella trappola del feticismo spaziale in quanto non esiste la possibilità, nelle questioni di

giustizia, di effettuare valutazioni attraverso una moralità puramente spaziale e quindi, di

giudicare in modo disgiunto dal contesto storico-sociale dei luoghi analizzati. Il problema

principale, per Pirie, consiste nel fatto che l’aggettivo “spaziale” del termine giustizia

spaziale denota, nella letteratura da lui esaminata (D. M. Smith, B. Davies, ecc.), un concetto

di contesto e non di contenuto.

Questa distinzione tra context concept e concept content rappresenta una svolta

significativa nel dibattito sulla giustizia spaziale. Infatti, se il termine giustizia spaziale può

sembrare una mera abbreviazione della frase “giustizia sociale nello spazio”, ciò è dovuto al

fatto che lo spazio è utilizzato per comparare territori alle diverse scale nella sua accezione di

contenitore di fenomeni sociali e umani, posizionati nello spazio e caratterizzati dalla

distanza tra di essi.

Conceptualizing spatial justice in terms of a view of space as process, and perhaps in terms

of radical notions of justice, stands as an exacting challenge and, not unlikely, as the single

occasion there might be for requiring and constructing a concept of spatial justice...In spite

of the challenge of spatial fetishism and in spite of radical assault on liberal distributive

concerns, it would be worthwhile investigating the possibility of matching justice to notions

of socially constructed space” (Ivi, p. 472).

25

Pirie sottolinea quindi la necessità di integrare lo spazio nell’analisi del termine giustizia

spaziale, uno spazio da riconcettualizzare in chiave di processo e di prodotto sociale e di

problematizzare la nozione di giustizia, oltre il semplice concetto di redistribuzione.

E’ la conclusione del lavoro di Pirie. Come vedremo in seguito, è un passaggio

significativo e, per l’epoca, fortemente innovativo. Il passo successivo è la

concettualizzazione dello spazio che E. Soia e D. Harvey, in modi e tempi diversi e

pervenendo a risultati diversi, utilizzeranno nella costruzione del loro percorso di analisi

dialettica tra spazio e società.

2.1.2 La dialettica socio-spaziale

Se l’approccio teorico alla giustizia spaziale prima descritto raccoglie posizioni variegate

che si possono unire per una visione non problematica del concetto di spazio, il secondo

filone di analisi, in una prospettiva critica, integra lo spazio come supporto ontologico e

come parte integrante delle spiegazioni dell’in/giustizia sociale e quindi come prodotto

sociale3. La giustizia sociale diviene, in questa prospettiva, un valore fortemente localizzato

e contingente, con un’enfasi sugli aspetti spaziali della giustizia e dell’ingiustizia in cui unire

insieme i termini giustizia e spazio può aprire una gamma di nuove possibilità per l’analisi

(Soja, 2010). E’ la metodologia che caratterizza, seppur con elementi di diversità, i contributi

fondamentali di D. Harvey (1973, 1996, 2006), M. Dikeç (2001) e E. Soja (1989, 2000,

2009).

Le insoddisfazioni denunciate da Pirie sul concetto di giustizia spaziale non tengono

conto del ripensamento dello spazio come prodotto sociale che si afferma a partire dall’opera

magistrale di H. Lefebvre, La Production de l'espace (1973, trad. it. 1978), anche se, come

vedremo, le riflessioni sulla natura dello spazio sono centrali per un contributo sulla giustizia

spaziale. La teorizzazione dello spazio va di pari passo con questa evoluzione: da una

giustizia liberale, prescrittiva e normativa a cui è associato uno spazio lineare dei lavori

prima analizzati, si passa, attraverso una nuova concettualizzazione dello spazio come

supporto ontologico e come parte integrante delle spiegazioni dell’in/giustizia sociale e

quindi come prodotto sociale, ad una visione della giustizia le cui diverse tipologie sono in

tensione dialettica tra di loro.

3 Un approfondimento su questo tema sarà fatto nel capitolo 3 del presente lavoro.

26

L’analisi spaziale tradizionale fondata sulla teoria della localizzazione è accusata di

legittimare il quadro di valori dell’economia liberale e secondo Harvey contribuisce a

chiarire l’assenza del concetto di giustizia sociale nell’analisi geografica:

Gli strumenti prescrittivi di cui tipicamente si servono i geografi per esaminare i problemi di

localizzazione derivano dalla teoria classica della localizzazione. Tali teorie sono

generalmente improntate al criterio dell’ottimalità di Pareto, poiché definiscono come

modello di localizzazione ottimale quello in cui nessun individuo può spostarsi senza che i

vantaggi da lui ottenuti con questo spostamento non siano controbilanciati da un analogo

danno per un altro individuo. La teoria della localizzazione si è quindi affidata al criterio

dell’efficienza per specificare i suoi termini […] intesa come minimizzazione dei costi

aggregati di spostamento all’interno di un particolare sistema spaziale […]. Questi modelli

trascurano le conseguenze delle decisioni di localizzazione sulla distribuzione del reddito. I

geografi hanno quindi seguito gli economisti in un tipo di analisi dove sono messe da parte le

questioni relative alla distribuzione del reddito (Harvey, 1978, p. 120).

Queste riflessioni sono centrali per un contributo sulla giustizia sociale.

L’idea che i principi della giustizia sociale assumono un certo rilievo per l’applicazione dei

principi geografici e spaziali alla pianificazione urbana e regionale, mi sembrava un

ragionevole punto di partenza. (Ivi, p. 23).

Harvey tuttavia segue questo percorso fino ad un certo punto. Non può infatti accettare,

nella sua visione ortodossa marxista, di sostituire come preminente il ruolo dello spazio al

posto della storia nella spiegazione delle dinamiche della società capitalistica.

Due decadi più tardi è M. Dikeç che riprende ciò che Pirie indicava come l’agenda di

ricerca per il dibattito sulla giustizia spaziale. Criticando il geografo sudafricano per aver

trattato lo spazio come contenitore statico, Dikeç (2001) afferma che la spazializzazione è

uno dei principali produttori di ingiustizia sociale. Partendo dalla critica della teoria di

Rawls, debole dal punto di vista socio spaziale e orientata alla massimizzazione delle libertà

individuali, egli adotta la definizione di giustizia di I.M. Young secondo cui la giustizia deve

essere primariamente teorizzata in termini di oppressione e dominazione più che di

redistribuzione (cfr. cap. 1). Tale definizione, secondo Dikeç (Ivi, p. 1787), è produttiva per

costruire una nozione di giustizia spaziale in quanto lo spazio –visto come prodotto sociale-

è una delle prime forme di oppressione e segregazione:

I should like to believe that a sensitivity to the spatial dimension of justice may be developed

– especially in societies where injustice of spatial dynamics are exposed and largely

recognized – to guide emancipatory movements to suppress nomination and oppression in

27

and through space. The city seems to provide a fertile ground for such prospects (Ivi, p.

1788).

Dikeç chiarisce per primo un aspetto fondamentale nella dialettica tra spazio e giustizia,

mettendoli in rapporto dialettico nella formulazione della spazialità dell’ingiustizia e

dell’ingiustizia della spazialità.

La spazialità dell’ingiustizia implica che ci sia una dimensione spaziale dell’ingiustizia

per la quale deve essere usata una prospettiva spaziale per individuarle. Questo passaggio

può essere fatto attraverso un’analisi dei patterns distributivi del fenomeno giusto/ingiusto

nello spazio. L’esempio può essere quello di Los Angeles e dei Bus Riders Union citato da

Soja (2010). In questa città ha avuto luogo, nel 1996, la prima sentenza a favore della

mobilità delle classi più svantaggiate (immigrati di colore costretti al pendolarismo per

recarsi al lavoro) contro un progetto della Metropolitan Transit Authoriry relativo alla

costruzione di una rete ferroviaria miliardaria che avrebbe servito principalmente i quartieri

più lussuosi di Los Angeles a discapito dei sobborghi più svantaggiati. Il locale tribunale,

attraverso una sentenza storica, ha imposto invece di dare priorità nella spesa all’acquisto di

nuovi bus, alla riduzione dei tempi di attesa e della messa in sicurezza sia in termini di

viabilità che di riduzione del crimine alle fermate dei bus.

L’ingiustizia della spazialità, d’altra parte, implica secondo Dikeç, che le strutture

esistenti (permanences) siano in grado di produrre e riprodurre le ingiustizie through space.

Confrontato alla spazialità dell’ingiustizia questo è un concetto più dinamico e process

oriented. L’esempio possiamo mutuarlo da Harvey (2006) quando parla di Ground Zero.

Non possiamo capire Ground Zero limitandoci alla sua descrizione spaziale, delimitata da

confini, misurata in termini cartesiani ma dobbiamo estendere necessariamente l’analisi alle

sue componenti sociali, storiche, politiche.

Questa concettualizzazione implica due punti importanti:

1. L’analisi non può essere limitata al fenomeno oggetto dell’analisi in sé ma deve

essere estesa anche alle componenti del fenomeno.

2. Forma spaziale e processo (politico, sociale, economico) sono inseparabili a devono

essere considerati insieme.

Come può un approccio simile essere correlato allo spazio?

Qui interviene il ricorso a Lefebvre che teorizza lo spazio come un prodotto sociale e

l’enfasi è sul processo che produce lo spazio con:

28

- un focus sullo spazio come processo, come produttore e riproduttore di, e allo stesso

tempo a sua volta prodotto e riprodotto da relatively stable structrues

(permanences).

- il riconoscimento del rapporto spazio/giustizia come produttore e riproduttore che si

sostengono a vicenda attraverso la mediazione di permanences che danno luogo ad

entrambe.

Per Dikeç l’enfasi non deve essere posta sullo spazio per sé ma sul processo che produce

lo spazio e sulle implicazioni che questa produzione di spazio ha sulle dinamiche sociali,

economiche e politiche. Spazio che per Harvey come per Dikeç si manifesta attraverso la

mediazione di permanenze.

2.1.3 Il contributo di E. Soja

Il passo ulteriore alle riflessioni di Dikeç è la teorizzazione della giustizia spaziale che

compie E. Soja in un libro intitolato Seeking Spatial Justice (Soja, 2010). In questo

contributo troviamo tutti gli elementi che erano stati precedentemente ipotizzati da Pirie e

utilizzati da Dikeç: una teorizzazione dello spazio in continua tensione dialettica con la

società e un’idea di giustizia, comunque definita, che ha consequential geographies, una

spazialità che va oltre gli attributi fisici mappabili in modo descrittivo. Il ruolo dello spazio

riveste in Soja un aspetto diverso rispetto alla tradizionale formula space matters usata dai

geografi, in particolare di quelli economici che utilizzano la distanza e la prossimità come

chiave di lettura della distribuzione dei fenomeni nello spazio fisico.

Due idee fondamentali, presenti nel libro di Soja, sembrano portare la geografia al di là

del semplice spatial turn che ha interessato le scienze sociali negli ultimi anni.

La prima è che una prospettiva spaziale assertiva può aprire nuove prospettive di analisi

sia teorica che pratica; la seconda, ad essa complementare, è che esiste una relazione

formativa e consequenziale tra la dimensione sociale e spaziale della vita umana, ciascuna

formativa dell’altra.

E’ il concetto di dialettica socio-spaziale che Soja aveva già teorizzato in un lavoro del

1989 (Soja, 1989) dove vengono identificati tre orientamenti che caratterizzano il pensiero

marxista nei confronti del rapporto tra lo spazio - prodotto sociale - e le altre strutture in un

determinato modello di produzione.

29

Il primo orientamento si basa sulle idee di H. Lefebvre. Soja afferma che lo spazio e

l’organizzazione politica dello spazio esprimono le relazioni sociali sottostanti ma che, allo

stesso tempo, retroagiscono su di esse.

E’ da questa key notion che Soja parte per articolare la sua dialettica socio-spaziale:

Social and spatial relationships are dialectically inter-active, interdependent; social

relations of production are both space forming and space contingent (Ivi, p.211).

Un punto di vista che, tuttavia, è stato spesso catalogato, dal marxismo ortodosso, come

determinista e feticista.

Il secondo orientamento è quello che caratterizza la urban political economy4 teorizzata

da un gruppo di studiosi che nonostante l’interesse nell’analisi dello spazio urbano, non

vanno oltre la resistenza a credere che lo spazio organizzato rappresenti qualcosa di più di un

riflesso delle relazioni sociali di produzione e nella spiegazione dei fenomeni socio-spaziali

prediligono un approccio storicista.

Il terzo orientamento può essere individuato all’intersezione dei due precedenti. I suoi

adepti benché adottino le categorie spaziali di Lefebvre (di cui parleremo diffusamente nel

capitolo 3) e riconoscano quindi un ruolo alla spazialità nei processi di produzione,

mantengono alla fine la preminenza di una visione ortodossa storicistica e a-spaziale, per

paura di cadere in quello che è tradizionalmente definito il feticismo dello spazio: la

creazione nella struttura delle relazioni spaziali di una determinante autonoma della storia e

dell’azione umana separata dalla struttura delle relazioni sociali e dal processo produttivo

che la genera. Tradendo, in tal modo, secondo Soja, le loro stese premesse e pervenendo così

in posizioni analitiche deboli e vulnerabili benché rappresentino uno dei contributi più

significativi alla costruzione del concetto di dialettica socio-spaziale. In questo gruppo Soja

colloca le opere di M. Castells, D. Harvey e E. Wallerstein.

Vent’anni dopo, Soja ritorna su questa asimmetria persistente tra spiegazioni sociali e

spiegazioni spaziali e a rinforzare la sua tesi va detto che l’opera fondamentale di H.

Lefebvre è a tutt’oggi poco diffusa nei dipartimenti di geografia ed è stata tradotta in inglese

soltanto nel 1991, ben diciassette anni dopo la sua pubblicazione.

4 Con il termine political economy si intende una variegata e multidisciplinare tradizione di studiosi (marxisti,

post-marxisti, regolazionisti, neo-ricardiani) per cui i processi di produzione e accumulazione e di distribuzione

del surplus formano e sono formati, dialetticamente, dalle decisioni delle istituzioni politiche ed economiche. La

urban political economy concentra invece l’analisi viene sulle dinamiche di tali fenomeni in ambito urbano. Tra i

principali geografi di questo filone possiamo citare D. Harvey.

30

Soja quindi è il primo ad utilizzare il termine giustizia accoppiato a spaziale in questa

accezione di geografia critica. Secondo Soja l’aggettivo territorial al posto di spatial

enfatizza una sorta di sfondo neutrale con poche influenze causali. Ciò riduce la portata

esplicativa della consequenzialità della spazialità della giustizia e limita il potenziale per

generare nuove strategie di applicazione (Ivi, p. 225). E, partendo da questi presupposti cerca

di costruire una teoria della giustizia spaziale.

Our lives are always engaged in what I have described as a socio-spatial dialectic, with

social process shaping spatiality at the same time spatiality shake social process. Stated

another way, our spatiality, sociality, and historicality are mutually constitutive, with no one

inherently privileged a priori (Ivi, p.18).

Soja contesta la tradizionale preminenza accordata dalla nostra tradizione intellettuale ad

una prospettiva space-blinkered di analisi dei fenomeni sociali, ma senza cadere nella

trappola del feticismo spaziale di posizioni che considerano i processi spaziali preminenti

rispetto a quelli sociali nella formazione della realtà, egli afferma che essi sono “dialectically

intertwined, mutually (and often problematically) formative and consequantial (Ibidem).

Senza questo approccio lo spazio diventa poco più di una complicazione di fondo

dell’analisi. Con queste premesse, Soja elabora una serie di argomentazioni per supportare le

sue idee sulla “spazialità” della giustizia, identificando i tre principi fondamentali del suo

critical spatial thinking:

1. l’ontologia spaziale di tutti gli esseri viventi: tutti noi viviamo in una dimensione

spaziale oltre che sociale e temporale;

2. la produzione sociale della spazialità: lo spazio è un prodotto sociale e può per

questo essere cambiato;

3. la dialettica socio spaziale: i fenomeni sociali influenzano quelli spaziali tanto

quanto questi influenzano i fenomeni sociali.

Rifacendosi a Foucault rispetto all’intersezione tra spazio, conoscenza e potere, Soja

afferma che applicando questi principi “geographies in which we live can have negative as

well as positive consequences on practically everything we do” e quindi “expose the spatial

causality of justice and injustice as well as the justice and injustice that are embedded in

spatiality” (Ivi, p. 3).

31

2.2 La giustizia spaziale alle diverse scale territoriali

Il concetto di giustizia spaziale, come abbiamo visto, si caratterizza quindi non tanto per i

contenuti del termine giustizia quanto per una significativa riconsiderazione dello spazio

come prodotto sociale che è in continua tensione dialettica con la (in)giustizia: la spazialità

dell’ingiustizia e l’ingiustizia della spazialità per riprendere Dikeç.

E’ quindi sullo spazio che bisogna lavorare per transitare dalla concettualizzazione del

termine verso il suo versante empirico e un lavoro interpretativo sul campo. Questo

approccio consente inoltre, analizzando il dove ed il come le ingiustizie hanno luogo, di

contestualizzare il concetto di giustizia in ambiti socialmente prodotti più che in astrazioni

universalistiche e idealizzate.

Per illustrare i diversi contesti spaziali e la natura multi scalare della giustizia spaziale,

Soja (2010, p. 32) identifica tre livelli in cui le geografie (in)giuste sono prodotte e

riprodotte, scale di giustizia spaziale soltanto all’apparenza separate e distinte, in quanto,

nella realtà, e nell’analisi, interagiscono e si sovrappongono generando modelli diversi e

complessi:

1. Livello esogeno o top-down. Le geografie mondiali sono caratterizzate da una fitta

trama di layers di organizzazione macrospaziale che Brenner (2009), riprendendo Lefebvre,

paragona ad una torta millefoglie. Queste suddivisioni in distretti, regioni e altre partizioni

amministrative sono frutto non soltanto di una logica amministrativa ma anche di una

ripartizione dello spazio conforme al potere politico, alle egemonie culturali, e al controllo

sociale su individui, gruppi, etnie e minoranze. A tutti i livelli spaziali, da quello globale con,

per esempio, la divisione in “mondi” in base allo sviluppo (primo, secondo, terzo mondo) a

quello locale, l’imposizione dall’alto di distretti e confini può rappresentare, negli esiti sulla

vita quotidiana, forme di ingiustizia spaziale.

E’ il caso dei tumulti del 2005 nelle periferie francesi che M. Dikeç (2007) descrive

effettuandone una lettura in chiave spaziale ed evidenziandone una chiara dimensione

geografica. Mentre le rivolte degli anni ‘90 erano localizzate nelle immediate vicinanze delle

grandi città o diffuse nelle città confinanti, gli eventi del 2005 si diffondono a scala

nazionale. Le geografie della rivolta sembrano sovrapporsi per Dikeç con le geografie della

disoccupazione di massa, della discriminazione e della repressione che a partire dagli anni

32

’80 si sono estese per concentrarsi sempre più nelle banlieus dei grandi agglomerati urbani,

non soltanto in Francia ma nelle analoghe badlands di tutte le megalopoli mondiali.

Questa persistente spazialità dell’ingiustizia ci dice quindi qualcosa in più sulla natura

delle rivolte. I problemi connessi con la segregazione spaziale nelle periferie degli immigrati

e delle fasce deboli della popolazione urbana rendono conto sia della spazialità

dell’ingiustizia urbana (come outcome) sia della costante immissione di ingiustizie (come

processo) nelle geografie urbane, risultato di interessi privati e di politiche locali e nazionali.

Un altro caso di ingiustizia spaziale, citato da Soja (2010, p. 37) è il fenomeno del

gerrymandering, consistente nel ritagliare una circoscrizione elettorale manipolandone i

confini per trarne un vantaggio elettorale. La parola derivante dal nome del Governatore del

Massachusetts Elbridge Gerry e unita alla parola “salamandra” (dalla forma del distretto

manipolato) fu usata per descrivere una circoscrizione elettorale dal disegno decisamente

tortuoso presente durante le elezioni legislative del Massachusetts del 1812. La forma di

questa circoscrizione venne approvata in legge per l’appunto da Gerry su proposta dei

democratici con lo scopo di mettere in svantaggio i diretti rivali nelle successive elezioni

senatoriali. Questa pratica poteva essere usata per trarre vantaggio (o viceversa, per

provocare la sconfitta) in un particolare distretto e potevano esservi gruppi razziali,

linguistici, religiosi che necessitavano di ridisegnare a proprio favore la circoscrizione.

Altre forme di ingiustizia spaziale “dall’alto” vengono individuate da Soja (Ivi, pp. 39-40)

nell’apartheid in Sudafrica e nell’occupazione israeliana dei territori palestinesi come esempi

di geografie oppressive all’intersezione di spazio, conoscenza e potere come descritto da M.

Foucault. Per Soja la lezione è chiara: una volta create e iscritte nello spazio, le ingiustizie

spaziali sono difficili da cancellare anche se, sono in grado di generare potenziali spazi di

resistenza e di attivismi come nel caso dei numerosi movimenti nati dal basso che saranno

esaminati nel capitolo 4 e per i quali è essenziale, secondo Soja, sviluppare una coscienza

critica spaziale. E’ interessante notare questo aspetto delle ingiustizie spaziali: il loro essere

double-sidedness, vale a dire che a loro volto oppressivo uniscono, in potenza, una forte

spinta alla liberazione e quindi all’azione sociale.

Anche le dinamiche di difesa dall’”altro” che si concretizzano in una progressiva

fortificazione della vita urbana che negli ultimi anni ha caratterizzato le dinamiche di molte

33

metropoli mondiali5, in particolare di quelle americane, vengono individuate da Soja come

una forma di ingiustizia spaziale diretta dall’alto. Infatti, quello che è stato descritto come

security-obsessed urbanism (Ivi, p. 42), ha un forte impatto spaziale: costruzione di residenze

“chiuse” (gated communities), controllate e avvolte da sistemi di sicurezza tecnologicamente

avanzati, spesso protette da vigilanza armata. Diretto dalla paura e da preferenze individuali

sempre più rivolte a spazi privati, un altro fenomeno emergente negli Stati Uniti è quello

delle privatopias (così definite dal filosofo Evan Mackenzie nel 1994)6: comunità di

cittadini, legati da interessi comuni, che si stabiliscono in enclaves immobiliari, divise dal

resto della città non solo da recinzioni fisiche ma addirittura da statuti e regolamenti interni

avulsi dal governo urbano “esterno”.

Nella crescente fortificazione dello spazio urbano, sempre più permeato da sistemi

elettronici di sorveglianza, un altro livello di ingiustizia spaziale può essere identificato nelle

dinamiche di ristrutturazione urbana compiute negli ultimi trenta anni: la intensa

commodificazione dello spazio pubblico intesa come tendenza ad effettuare destinazioni

d’uso dello spazio pubblico per usi privati Una tendenza alla privatizzazione che le politiche

neoliberali hanno attuato spesso giustificandola con la logica dell’efficienza e che ha

determinato quella che Soja definisce come una sorta di spazio attraversato da confini di

ogni genere:

This property blanket is the under layer of a thick sedimentation of bounded spaces that

powerfully shape our everyday life.[…] Decades ago, it was noted that looking out from the

top of Empire State Building in NY City one could see more than 1.500 governments. If we

could see further into the thick layers of spatial regulation that enmesh us, the number would

zoom even higher, boggling our geographical imaginations. Every moment we make crosses

some boundary either we are aware of it or not. Understanding how unfair geographies are

formed requires some attention to this underlying blanket property rights” (Soja, 2010, p.

44).

D. Mitchell (2007, p.9) spiega che “publicly-owned property is now more and more being

governed as if it were private property with the right to exclude handed to private,

undemocratic interests”, riferendo di una crescente propensione alla “pseudo-private

property” che contribuisce alla crescente privatizzazione dello spazio urbano. Con

l’installazione di sistemi elettronici di sorveglianza in spazi quali strade, centri commerciali,

5 Oltre a tendenze di fondo delle società capitalistiche, alcuni autori attribuiscono molta importanza, nella

spiegazione di questi fenomeni, anche al clima di paura e di sospetto che ha generato, in particolare nella società

americana, l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle. 6 Esiste anche un blog dedicato alle privatopias gestito da E. Mackenzie: The Privatopias Papers

(www.privatopias.blogspot.it).

34

rimuovendo per esempio le panchine dai parchi e dalle piazze, vengono creati quelli che

Flusty (1994) definisce interdictory spaces, che creano una “paranoia urbana” instillando la

paura cronica per la diversità (l’immigrato, l’alcolizzato, il barbone,…) in coloro che abitano

questi spazi e determinano una gross spatial injustice tra quelli che possono accedere allo

spazio e quelli a cui viene interdetto (the spatial-haves and the spatial have-nots). L’erosione

degli spazi pubblici è in definitiva un assalto non solo allo spazio urbano ma anche alla

qualità della vita e alla giustizia sociale. Molti modelli di sviluppo urbano sono oggi

improntati ad una progressive erosione degli spazi pubblici a favore di insediamenti

frammentati e amministrati privatamente (Cherot e Murray, 2002).

E’ esemplificativo a tale proposito il fenomeno dello sprawl che al di là di motivazioni

funzionali di natura economica (dovuta per lo più ai valori immobiliari dei suoli e degli

immobili) è nato in un’era di pratiche pianificatorie orientate all’uso individuale e privato

degli spazi (abbiamo visto l’esempio delle gated communities) e dei mezzi di trasporto. Un

modello insediativo che crea uno stile di vita e impatta sulla qualità della vita dei residenti

attraverso una serie di implicazioni riassunte bene da Ewing (1997) e Savitch (2003) e di cui

tratteremo nel capitolo 5, proprio per l’interesse che questo fenomeno riveste per la

comprensione della giustizia spaziale nell’ottica della dialettica socio-spaziale: la

cumulatività delle ingiustizie spazializzate è uno dei punti più interessanti della costruzione

di Soja.

2. Livello endogeno o bottom-up. Le forme spaziali non sono tuttavia soltanto il risultato

di azioni esterne allo spazio interessato e non dipendono esclusivamente dal potere

gerarchico. La giustizia spaziale può essere configurata anche dal basso attraverso processi

endogeni di decisioni di localizzazione e distribuzione dei beni nello spazio. E’ il caso

classico, come abbiamo visto precedentemente, di distribuzione del reddito tra regioni,

dell’allocazione e dell’accessibilità nello spazio di servizi essenziali quali strutture sanitarie,

scuole, servizi di trasporto, presidi di sicurezza pubblica (posti di polizia, opportunità di

lavoro, ecc.). Una distribuzione ineguale di questi servizi è l’outcome più visibile di processi

decisionali più invisibili, spesso risultato di una pluralità di attori in contrasto o competizione

tra loro. La forma urbana di numerose città occidentali, per esempio, in una prospettiva

spaziale critica, è il risultato del modello di sviluppo capitalistico. Queste città si sono

sviluppate concentricamente attorno ad un nucleo centrale da cui si dipartivano

progressivamente cerchi concentrici di ricchezza e povertà determinando una geografia

35

sociale di classe della città, descritta da D. Harvey in Social Justice and the City (1978): il

normale funzionamento del mercato del lavoro, delle politiche per l’abitare, il mercato

immobiliare così come le politiche attuate da pianificatori, banche, commercianti,

imprenditori determinano una redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi, facendo

si che la città capitalistica stessa funzioni come macchina per la produzione e riproduzione

delle ineguaglianze distributive che Harvey chiama “territorial injustice”.

Anche la giustizia ambientale può essere considerata una forma di giustizia spaziale in

quanto molto spesso sono le classi più povere e le minoranze etniche, i gruppi di immigrati

che subiscono in modo più grave l’impatto di fenomeni quali l’inquinamento dell’aria e

dell’acqua, le conseguenze dell’abitare in prossimità di siti utilizzati per i rifiuti tossici o di

eventi avversi dovuti al surriscaldamento globale e all’assenza di pianificazione territoriale,

quali inondazioni, cicloni, ecc. Un tema eccessivamente complesso per essere affrontato in

questa sede.

3. Meso-geografie dello sviluppo ineguale. Tra la dimensione globale e quella locale ci

sono una gran varietà di scale intermedie, altrettanto significative per l’analisi e la

comprensione della giustizia spaziale: metropolitana, regionale, nazionale, sovranazionale.

Oltre alla già citata differenza tra Primo e Terzo Mondo, gli esempi di ingiustizia spaziali a

queste scale sono numerosi: si pensi per esempio al perdurante dualismo territoriale nello

sviluppo economico e sociale italiano.

Secondo Soja (2010), negli ultimi quaranta anni si è verificata una significativa nascita di

istituzioni sovranazionali che hanno un ruolo nel patrocinio della giustizia spaziale, benché

questa non sia l’obiettivo dichiarato delle proprie politiche. E’, per esempio, il caso

dell’Unione Europea che, seppur nel suo instabile equilibrio tra competitività e coesione, ha

rappresentato un esempio innovativo di politiche mirate alla riduzione delle diseguaglianze

regionali e alla lotta all’esclusione sociale, con la creazione di appositi Fondi, i Fondi

strutturali, per finanziare questi obiettivi. La politica di coesione territoriale dell’Unione

europea potrebbe, in questa chiave di lettura, essere un esempio di giustizia territoriale più

che di giustizia spaziale, in quanto i documenti di programmazione comunitaria non

esprimono un’idea di spazio come elemento cumulativo dell’ingiustizia sociale ma un’idea

di territorio come contenitore di fatti, in un’ottica in cui anche la coesione sociale sembra

eccessivamente finalizzata al miglior funzionamento dell’unione economica e commerciale,

più che un valore guida delle politiche (Moulaert, 2012). E’ infatti interessare notare che nei

36

documenti di programmazione dell’Unione europea il termine territoriale viene utilizzato

proprio nell’accezione che usa Soja: uno scenario neutro, non politicizzato, che non ha un

ruolo attivo nelle strategie da intraprendere. La stessa metodologia di calcolo delle aree

beneficiarie della politica di coesione, basata sui confini amministrativi e il Prodotto interno

lordo (nel caso dell’obiettivo Coesione) e l’uso del termine place-based riferito alle politiche

locali (Barca, 2009) denotano un uso della spazialità statica, senza alcuna relazione dialettica

con i fenomeni oggetto delle politiche né con gli altri livelli spaziali.

Al di là dei temi trattati in questa tripartizione scalare, rimane da notare che se le

ingiustizie relative allo sviluppo ineguale alle diverse scale sono spesso spiegate in termini

storici e sociologici, aggiungere una prospettiva spaziale costituisce un nuovo, interessante e

costruttivo contributo all’analisi sociale.

2.3 Il problema della relazione causale tra spazio e giustizia: putting space in his place

Dopo aver indagato le geografie della giustizia rimane tuttavia ancora poco chiaro nel

dibattito il rapporto che lega giustizia e spazio, in particolare le loro relazioni di causalità.

Attraverso le posizioni di P. Marcuse ed E. Soja possiamo ricostruire i termini del problema.

P. Marcuse, in uno dei suoi scritti Spatial Justice: Derivative but Causal of Social Justice

(Marcuse, 2011) esprime, già nel titolo, la sua posizione rispetto alla questione. Secondo

Marcuse, infatti, gli aspetti spaziali sono soltanto una causa parziale dei problemi sociali:

A spatial image for the seeds of the future can be helpful…and whatever is done will surely

have a spatial aspect too. But a spatial focus has its dangers too: most problems have a

spatial aspects, but their origins lie in economic, social, political arenas, the spatial being a

partial cause and an aggravation, but only partial (Ivi, p. 3).

A partire da due forme principali (che egli definisce “cardinali”) di ingiustizia spaziale,

cioè segregazione e ghettizzazione di gruppi nello spazio (the unfreedom argument) e

ingiusta allocazione delle risorse nello spazio (the unfair resources argument), Marcuse

individua alcuni elementi per sostenere la sua tesi:

- le ingiustizie spaziali derivano da più vaste ingiustizie sociali (the derivative argument);

- le ingiustizie sociali hanno sempre un aspetto spaziale e non possono essere affrontate

se non unitamente ai loro aspetti e risvolti spaziali (the spatial remedies argument);

37

- i rimedi spaziali sono necessari ma non sufficienti per porre rimedio alle ingiustizie

spaziali stesse (e, a fortiori, non servono per curare le ingiustizie sociali) (the partial

remedy argument);

- il ruolo delle ingiustizie spaziali nei confronti di quelle sociali dipende dal cambiamento

delle condizioni economiche, sociali e politiche che sono storicamente embedded, cioè

place specific (historical embeddedness argument).

In conclusione, possiamo affermare che ripercorrendo la tradizionale traiettoria

intellettuale basata sulla preminenza delle spiegazioni storiche e sociali da cui neanche i

geografi quasi mai divergono (Fincher e Iveson, 2012), Marcuse tende a sottolineare il

primato del “sociale” nella spiegazione delle ingiustizie anche se riconosce che la spazialità

ad esse connessa rinforza le ingiustizie sociali e che la loro risoluzione deve essere affrontata

in modo congiunto (the inseparability argument).

Soja, ripartendo da dove Harvey si era fermato in Social justice and the city, tenta,

secondo Gervais-Lambony e Dufaux (2010), a suo modo, una sintesi tra geografia radicale7.

e geografia postmoderna. La questione centrale per lui non è ridurre le diseguaglianze ma

affermare le differenze, attraverso un originale approccio trasversale in cui lo spazio e le

lotte dei movimenti basati sullo spazio divengono centrali.

Soja non è pronto a concedere che lo spazio è “derivativo” del sociale e afferma che la

giustizia spaziale non è semplicemente una sotto-categoria che può essere assorbita dal

concetto di “just city” o “social justice”. Egli è particolarmente critico delle “tendencies

among geographers and planners to avoid the explicit use of the adjective “spatial” in

describing the search for justice and democracy” (Soja, 2009) ed afferma che aggiungere

l’aggettivo “spaziale” a “giustizia” è cruciale per la teoria e per la pratica non solo a livello

urbano ma, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, a tutte le scale dal locale al

globale.

Dall’analisi condotta in questo capitolo emerge, sostanzialmente, che la giustizia spaziale

si caratterizza come un concetto fortemente contraddistinto dall’aggettivo “spaziale”. E’ in

base all’influenza dello spazio, inteso come prodotto sociale nella costruzione della

in/giustizia sociale, in rapporto dialettico che il concetto trova una sua identità e si

7 Il termine geografia radicale nasce negli anni ’70 per identificare quella parte di studiosi che esprimono nei loro

lavori una critica al modello contemporaneo di società basato sul capitalismo e, al contempo, al positivismo

imperante in quegli anni nella disciplina. Il marxismo è il riferimento teorico prevalente e la lotta di classe

l’approccio analitico privilegiato, sebbene in tempi più recenti, altre linee di approcci sono state sviluppate, in

particolare nell’ambito della geografia femminista (Gregory et. al, 2009).

38

differenzia da altri concetti simili o vicini a cui viene a volte assimilato, come nel caso della

giustizia territoriale e della coesione territoriale.

E’ quindi sul concetto di spazio che bisogna concentrare l’analisi per capire in che misura

e in quali termini esso contribuisce alla formazione e alle specificità del concetto di giustizia

spaziale.

39

3. Quale “spazio” per la giustizia spaziale? Un approccio critico

If two different authors use the words "red," "hard," or

"disappointed," no one doubts that they mean

approximately the same thing .... But in the case of words

such as "place” or "space”.. .there exists a far-reaching

uncertainty of interpretation – A. Einstein (in Rynasiewicz,

1996, p. 280).

Any search for an alternative to neoliberal globalization

must search for a different kind of spatio-temporality

(Harvey, 2001, p. 224).

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la definizione di giustizia spaziale, al di là

dei suoi contenuti teorici relativi all’idea di giustizia e alle sue implicazioni politiche, è

contraddistinta dall’approccio critico proposto da Soja e Dikeç, caratterizzato da una diversa

concettualizzazione dello spazio: spazio come prodotto sociale, spazio di relazioni e non

semplice contenitore di fenomeni umani da analizzare e mappare su una superficie omogenea

e neutrale.

Una più articolata concettualizzazione dello spazio è quindi il primo passo per tentare di

chiarire il concetto di giustizia spaziale e, al tempo stesso, cercare di fornire gli elementi

metodologici per la sua rappresentazione, un aspetto quasi mai affrontato in letteratura e che

costituirà l’oggetto dell’ultimo capitolo di questo lavoro. Una delle aree deboli della

letteratura sul tema infatti sembra essere proprio la mancanza di elementi concreti, sia

metodologici che empirici, su come rappresentare il concetto. Un tema che risulta invece

centrale considerati i contenuti del concetto di giustizia spaziale, funzionale alla pratica

politica, in particolare a livello urbano.

Come abbiamo avuto modo di vedere, in particolare nei lavori citati nel capitolo 2,

parlare di giustizia spaziale implica una revisione del concetto di spazio così come

tradizionalmente concepito ed utilizzato nell’analisi geografica tradizionale, quella di

tradizione quantitativa e positivista, e nelle scienze sociali. Ecco perché il primo paragrafo è

40

dedicato ad una digressione concettuale sullo spazio che ha poi conseguenze sulle

metodologie che adotteremo nella costruzione di un modello critico di rappresentazione della

giustizia spaziale. Lo spazio, quindi, come elemento fondante del concetto di giustizia

spaziale e come fondamento della sua rappresentazione. Uno “spazio” che diventa, in questo

prospettiva, key word (Harvey, 2006), elemento per l’interpretazione e la spiegazione della

realtà sociale.

3.1. La svolta spaziale nelle scienze sociali: H. Lefebvre e la trialettica dello spazio

La decisa affermazione dello spazio come elemento di analisi nelle scienze sociali, il

cosiddetto spatial turn è il risultato di diversi e a volte contraddittori ambiti ideologici di

influenza. In gran parte essa trova le sue radici nella tradizione marxista di critica al

capitalismo insita nei lavori di Harvey (1973, ed. italiana 1978) e di Lefebvre (1974, ed.

italiana 1978) che, in modi diversi, teorizzano lo spazio come “prodotto sociale”.

Dall’altra parte e in anni più recenti (anni Novanta del secolo scorso), questa

riaffermazione dello spazio sembra essere anche il risultato della critica cosiddetta “post-

moderna” alla modernità e del tentativo di comprensione del mondo frammentato delle

differenze (di cui abbiamo parlato nella capitolo 1).

Queste due distinte ideologie sembrano essersi legate nel concetto di spazio come

prodotto sociale e spazio relazionale: la traduzione in inglese de La production de l’espace di

H. Lefebvre risale al 1991 (circa 20 anni dopo la pubblicazione in Francia) e coincide con il

momento più alto del dibattito post-moderno nelle scienze sociali, in particolare in geografia.

Per illustrare il concetto di spazio sociale Lefebvre ricorre all’esempio di Venezia:

Venezia nasce da un progetto profondamente umano, quello di sfidare la natura sottraendo la

laguna al mare e allo stesso tempo, commerciale, attraverso la costruzione di un porto

navigabile che fosse da stimolo ai commerci. A partire dalle prime palafitte piantate in

laguna, la città è stata voluta e pensata dalle gerarchie locali, dai diversi capi politici che vi si

sono avvicendati, dai gruppi che li sostenevano, dai manovali che fisicamente costruivano la

città. La costruzione della città dunque emerge come il risultato di forze diverse, a volte

contrapposte. Lo spazio sociale, a partire dalla natura, contiene oggetti naturali e sociali, reti,

linee, flussi di scambi e di informazioni:

41

Non è riducibile né ai singoli oggetti che contiene né alla loro somma. Questi “oggetti” non

sono soltanto delle cose, ma anche delle relazioni. […] Il lavoro sociale li modifica; li

colloca diversamente negli insiemi spazio-temporali, anche quando ne rispetta la materialità

e naturalità: il loro essere isola, golfo, fiume, collina (Lefebvre, 1978, p. 95).

Lo spazio dunque è prodotto, a partire dalla natura, da attività che implicano l’economia,

la tecnica, la politica e le strategie ad esse connesse che danno luogo ad una molteplicità di

spazi non-numerabile paragonabile, come Lefebvre fa nel caso dello spazio urbano, a una

miriade di strati sovrapposti e interrelati che vengono paragonati agli strati di una torta

millefoglie (Ivi, p. 103).

La trilogia dello spazio di Lefebvre si inserisce in un progetto che egli stesso definisce

spaziologia, una interpretazione in senso spaziale della concezione del “feticismo delle

merci” di Marx. Per Lefebvre la conoscenza dello spazio oscilla tra descrizione e

frammentazione; si descrivono le cose nello spazio o dei pezzi di spazio, attraverso una

epistemologia che si basa su aspetti parziali da cui si traggono generalizzazioni. Il rischio di

questa conoscenza parcellizzata (lo spazio urbanistico, lo spazio dell’architetto, lo spazio del

geografo, del demografo, ecc.) è quello di cadere nel feticismo dello spazio in sé da cui si

può uscire soltanto pensando lo spazio come prodotto sociale.

La tendenza dominante frammenta e suddivide lo spazio, enumera i contenuti, cose, oggetti

diversi mentre varie specializzazioni se lo dividono e agiscono su di esso spezzettandolo,

creando barriere mentali e chiusure pratico sociali. Così l’architetto avrebbe in dotazione

(privata) lo spazio architettonico, l’economista lo spazio economico, il geografo il suo

“luogo”, il suo “bene” al sole nello spazio e così via. La tendenza ideologicamente

dominante ritaglia secondo la divisione del lavoro sociale parti e particelle dello spazio e si

rappresenta le forze che lo occupano come ricettacolo passivo. Invece di mettere in evidenza

i rapporti sociali impliciti negli spazi, invece di occuparsi della produzione dello spazio e dei

rapporti sociali inerenti a questa produzione […], si ricade nella trappola dello spazio “in

sé”: nella trappola della spazialità, del feticismo dello spazio […] della cosa isolata,

considerata in sé (Ivi, p. 106).

Non esiste uno spazio sociale ma più spazi sociali, anzi una molteplicità indefinita, di cui

il termine “spazio sociale” indica l’insieme non-numerabile […]. Gli spazi si compenetrano e

si sovrappongono […] sono insiemi contigui e continui (Ivi, p. 103). Lo spazio sociale inizia

a mostrare la sua ipercomplessità: “unità individuali e particolarità, fissità relative,

movimenti, flussi, onde, gli uni si compenetrano, le altre si affrontano […] ogni frammento

di spazio prelevato per l’analisi non contiene un rapporto sociale ma una molteplicità che

l’analisi stessa rivela” (Ivi, p. 105).

42

Lefebvre intende ricomporre questa molteplicità di spazi in una teoria critica unitaria

dello spazio che possa costituire un rapprochement tra spazio fisico (natura), spazio mentale

(astrazioni formali sullo spazio) e spazio sociale (lo spazio occupato da fenomeni sensoriali).

L’obiettivo è quello di poter decodificare e leggere lo spazio, nella sua complessità. Il suo

piano concettuale è organizzato intorno ai tre concetti di:

- pratica spaziale (spazio percepito) “ingloba produzione e riproduzione, luoghi

specifici e insiemi spaziali, propria di ogni formazione sociale” (Ivi, p. 54). Queste pratiche

spaziali hanno forte affinità con lo spazio dell’esperienza e della percezione, dei sensi tattili

e, secondo Lefebvre, condizionano la realtà delle persone nel loro uso quotidiano dello

spazio. La pratica spaziale associa la realtà quotidiana (l’uso del tempo) e la realtà urbana (i

percorsi, le strade, e le reti che collegano i luoghi di lavoro, della vita privata, del tempo

libero). Per Merrifield (1993, p. 529), Lefebvre mutua questo concetto da Kevin Lynch che

per primo ha esplorato le modalità con cui la percezione dello spazio condiziona la vita

urbana dei soggetti residenti: i monumenti, i paesaggi, determinati percorsi, i confini naturali

aiutano o scoraggiano il senso di appartenenza degli abitanti e i loro comportamenti.

- rappresentazioni dello spazio (spazio concepito e astratto), è lo spazio costruito e

rappresentato dai “discorsi” dei professionisti e tecnocrati dello spazio, architetti, urbanisti,

geografi, attraverso un sistema codificato di segni e simboli (le mappe per esempio). E’ lo

spazio dominante in una società e sottende una precisa ideologia, per cui ogni società

produce il suo spazio. E lo spazio del capitale e trova la sua espressione in monumenti, torri,

fabbriche , autostrade, aeroporti, centri di affari, reti di banche, lo spazio che “contiene il

mondo delle merci” (Lefebvre, 1978, p. 73).

- spazi di rappresentazione (spazio vissuto), è lo spazio delle sensazioni, delle

emozioni, dell’immaginazione e dei significati incorporati nella vita quotidiana, sperimentato

attraverso la complessa rete di simboli e immagini dei suoi abitanti e utilizzatori. E’ lo

spazio dominato che l’immaginazione e l’arte tentano di modificare ed occupare, studiato

dagli antropologi, dagli psicanalisti, intrisi di immaginario e di simbolismo, hanno origine

nella storia di un popolo e nel soggetto che vi appartiene. E’ essenzialmente qualitativo,

fluido, dinamico. “Lo spazio di rappresentazione si vive, si parla; ha un nocciolo o centro

43

affettivo, l’Ego, il letto, la casa, la camera; o ancora la piazza, i luoghi delle situazioni

vissute, dunque implica immediatamente il tempo” (Ivi, p. 62).

Come si intuisce da questa breve descrizione non è semplice la comprensione di questa

tripartizione dello spazio. Lefebvre stesso ricorre ad un esempio che forse può aiutarci nella

comprensione, quando parla dello spazio nel Medioevo.

Nel Medioevo, la pratica spaziale comprendeva sia la rete dei sentieri intorno alle comunità

contadine, ai monasteri, ai castelli, sia le strade che collegavano le città, le grandi vie dei

pellegrinaggi e delle crociate. Le rappresentazioni dello spazio si rifacevano alle concezioni

aristoteliche e tolemaiche, modificate dal cristianesimo: la terra, il mondo sotterraneo e il

Cosmo luminoso, abitato da Dio-padre, […] una sfera fissa, in uno spazio infinito […]. Gli

spazi di rappresentazione ponevano al centro la chiesa del villaggio, il cimitero, il palazzo

municipale e i campi, o ancora la piazza e la torre della città (Ivi, p. 65).

Per Lefebvre, questi tre momenti intervengono in modi diversi nella produzione dello

spazio, a seconda delle epoche storiche e delle diverse caratteristiche politiche e culturali

delle società. Possiamo anche affermare che le prime due tipologie di spazio corrispondono

forse alla definizione di space8 e gli spazi della rappresentazione alla definizione di place.

Per Merrifield, (1993, p. 525) la trialettica di Lefebvre ricompone la dualità place/space, in

quanto lo spazio percepito/concepito/vissuto trova la sua unità nello spazio vissuto, una

permanenza, come direbbe Harvey, una coerenza strutturata. Va in ogni caso sottolineato che

i tre momenti non sono mai da intendersi in modo separato ma in tensione dialettica tra di

essi, così come sottolinea Lefebvre stesso e come ribadirà lo stesso Harvey (2006) anni dopo

(cfr. oltre). Va infine osservato che, come suggerisce Zhung (2006), un elemento importante

nella teoria dello spazio di Lefebvre è l’introduzione del punto di vista dello spettatore, per

cui la sua trialettica non va intesa come una torta tagliata in tre fette ma piuttosto come tre

immagini diverse proiettate contemporaneamente da tre videocamere, immagini che non si

giustappongono ma si sovrappongono. Ciascuna immagine ci restituisce un momento

diverso: gli aspetti quantitativi, la lunghezza di una strada, l’altezza di un edificio, l’altezza

di un uomo (spazio concepito), il movimento dell’uomo, la fenomenologia della natura

(spazio percepito), e, infine, la soggettività, i sentimenti, le frustrazioni, i desideri più intimi

di quest’uomo (spazio vissuto).

8 I concetti di space e place risentono in modo particolare delle influenze linguistiche. In Italia infatti è utilizzato

prevalentemente il termine territorio come onnicomprensivo dei due significati distinti, invece, in lingua inglese.

Con riferimento alla trialettica lefebvriana si potrebbe ipotizzare che lo spazio percepito corrisponde allo spazio,

lo spazio concettualizzato al territorio e quello vissuto al luogo. Si veda Merriman (2012) per un dibattito più

ampio sui concetti di space e place.

44

3.2 Lo spazio relazionale

Più che la tripartizione prima descritta che riveste una funzione importante per questo

lavoro, come vedremo in seguito, è invece il concetto di spazio come prodotto sociale ad

aver avuto un enorme successo nella letteratura geografica post-moderna, in particolare in

quella anglosassone, tanto da essere accettato come un nozione acquisita. Unwin (2000)

afferma che la concezione del tempo e dello spazio è intimamente connessa alla nostra

visione del mondo: il lavoro di Lefebvre segue, nella scia del modernismo, la lunga

tradizione marxista che ha fiducia nella possibilità di rendere il mondo un posto migliore.

Cercando di comprendere tempo e spazio come determinati costrutti sociali che influenzano

la società capitalista, per Lefebvre diviene possibile comprendere il modo di cambiare la

“forma” della società.

E’ questo l’assunto alla base anche dei lavori di Harvey, la spazialità che spiega, al pari

del tempo ed in relazione ad esso, le nostre società e, al tempo stesso, ne viene influenzata in

una dialettica socio-spaziale che Soja assumerà come base teorica dei suoi lavori (Soja,

1982) connotati anche da un deciso intento operativo:

The praxis which guide our journeys to Los Angeles and other real-and-imagined places is

organized around the search for practical solutions to the problems of race, gender, and

other, often closely associated, forms of human inequality and oppression, especially those

that are arising from, or being aggravated by, the dramatic changes that have become

associated with global economic and political restructuring and the related

postmodernization of urban life and society (Soja, 1996, p. 22).

L’adozione della trialettica lefebvriana, con la sua critica dello spazio cartesiano, ha

determinato non soltanto una svolta negli studi geografici post-moderni ma anche una

significativa divisone tra geografia fisica e geografia umana (Unwin, 2000), in quanto, data

anche la complessità del pensiero e del lessico del filosofo francese, ricco di contraddizioni e

in continuo movimento, non ha convinto molti geografi che hanno continuato ad esercitare la

loro disciplina attraverso i concetti tradizionali di spazio fisico ed euclideo:

at times it seems that all the debates around space, society and economics advanced by

Lefebvre, Harvey, Soja, Massey, Hudson, Castells, Gregory and others have never appeared

in print (Hadjimichalis, 2006, p. 699).

Anche il tentativo di Soja di fondare un pensiero e un’immaginazione geografiche che

facciano saltare la dialettica “socialità-storicità” attraverso un elemento terzo e altro, la

45

spazialità, è di fondamentale importanza anche se, ancora oggi, soprattutto nell’ambito del

pensiero marxista, è ancora vivo lo scetticismo verso il tentativo di piegare tutta la filosofia

e, in definitiva, lo stesso pensiero marxista, allo spazio. Per ammissione dello stesso Soja, lo

spazio (e quindi la geografia) al pari della tempo (e quindi della storia) ha un valore

ontologico in grado di fornire spiegazioni più aderenti della realtà sociale.

Questa visione dello spazio sottintende, al di là delle sue implicazioni ideologiche, una

sua diversa concettualizzazione. In questo approccio, infatti, lo spazio non è più un mero

contenitore di fatti, fisso, immobile e rappresentabile in termini di distanza geometrica, di

prossimità fisica, di accessibilità, lo spazio delle mappe e delle coordinate geografiche. Non

è la piccionaia (pigeon-hole, Harvey, 1969, 2006), in cui il geografo deve riempire le singole

caselle, separate le une dalle altre, con informazioni sui fenomeni in esse contenuti,

utilizzando tecniche come la cartografia e individuando categorie spaziali per la raccolta e

l’analisi dei dati, attraverso un approccio che Callon e Law (2005) definiscono “romantico”,

in opposizione a quello “barocco” dell’approccio relazionale. E’ cioè meno territorio e più

spazio. Questo approccio viene descritto efficacemente da Amin quando afferma che lo

spazio deve essere considerato come l’insieme di lontano e vicino, di virtuale e materiale,

presenza e assenza, flussi e fenomeni statici che permettono di definire un luogo sia

topologicamente che in modo relazionale:

These new spatialities have become decisive for the constitution of place. The varied

processes of spatial stretching, inter-dependence and flow, combine in situ trajectories of

sociospatial evolution and change, to propose place – the city, region or rural area – as a

site of intersection between network topologies and territorial legacies. The result is no

simple displacement of the local by the global, of place by space, of history by simultaneity

and flow, of small by big scale, or of the proximate by the remote. Instead, it is a subtle

folding together of the distant and the proximate, the virtual and the material, presence and

absence, flow and stasis, into a single ontological plane upon which location – a place on the

map – has come to be relationally and topologically defined. Grasping the implications of

such a definition of place is not easy, given the grip of cartographic legacy measuring

location on the basis of geographical distance and territorial jurisdiction. (Amin, 2007, p.

103).

“Thinking space relationally” (Geografiska Annaler, 2004) diviene il mantra della

geografia umana dei primi anni del XXI secolo e in modo significativo l’analisi sociale. E’

una prospettiva di analisi che apre nuove possibilità di comprensione dei fenomeni sociali

analizzati nello spazio. Nella moderna condizione di ipermobilità definita come time-space

compression (Harvey, 1989):

46

space is not static nor fixed like a nested hierarchy moving from global to local; it is rather a

“complex and unbound lattice of articulations” (Allen et al., 1998).

Lo spazio diviene un set di layers interconnessi alle diverse scale, descritto bene dalla

metafora del millefeuille di H. Lefebvre e dei pleats and folds di Deleuze e Guattari. Jessop

et al. (2008) suggeriscono che i concetti di territorio, spazio, luogo, scala e reti devono essere

visti come diverse dimensioni delle relazioni socio-spaziali in rapporto di causazione

circolare.

Inoltre, in questo contesto, i concetti di spazio e di tempo sono stati radicalmente alterati

dalle nuove forme di accessibilità e connettività rese possibili dalle tecnologie

dell’informazione, rendendo le relazioni tra spazio materiale e virtuale “complexly

intertwined as layered with fixed physical and fluid digital elements” (de Freitas, 2010, p.

640).

Uno spazio quindi “open, discountinous, relational and internally diverse” (Allen et al.,

1998) in cui necessitano di una revisione anche i tradizionali costrutti geografici di luogo,

regione, locale e globale e tutte le gerarchie scalari nidificate a cui ci ha abituati la geografia

di stampo descrittivo e quantitativo. Ciò che conta non sono la posizione, la taglia, il

contesto ma le relazioni tra le cose (Callon e Law, 2005). Anche Raffestin (1981) afferma

quanto sia limitante per l’analisi ragionare in termini esclusivamente geometrici e statici:

Ogni trama territoriale è simultaneamente l’espressione di un progetto sociale risultante dai

rapporti di produzione che si allacciano nei modi di produzione e il campo ideologico

presente in ogni relazione (Ivi, p. 170).

Se si vuol costruire un’analisi partendo da situazioni dinamiche, occorrerebbe parlare di

organizzazioni o di gruppi in situazione di centralità […] o di marginalità. Non si darebbe

con ciò alla necessaria rappresentazione bifacciale una connotazione geometrica che […]

non è altro che una simbolizzazione a posteriori che non spiega nulla (Ivi, p. 191).

Il concetto di spazio relazionale è spesso associato al nome di Leibnitz. Un evento o una

cosa in un punto dello spazio non può essere compreso solo in relazione a ciò che esiste in

quel punto. Esso dipende invece da tutto che vi è intorno, da tutta la vasta varietà di

influenze che si agitano nello spazio nel passato, presente e futuro si concentrano e

congelano per definire la natura di quel punto: è il concetto di relational space-time proposto

da Harvey (2006) e quello di spazio come simultaneità di eventi (Massey, 2005).

Uno dei risultati principali di questo approccio è analizzare i fenomeni sociali evitando

quella che Agnew (1994, 2010) ha definito la “territorial trap”, vale a dire la visione, diffusa

47

nelle scienze sociali, di spazio come territorio cioè come unità definita da confini

amministrativi, coincidenti con lo Stato o la regione, con un approccio meramente

classificatorio e strumentale. Un approccio in cui, come sottolinea Agnew, viene data per

scontata un’omogeneità dei fenomeni sociali, economici e politici che vi hanno luogo,

attraverso un’assunzione metodologica di 'timeless space' in cui l’unità territoriale di

riferimento diviene un’”unità razionale”. E’ la stessa critica che Hadjimichalis (2006) muove

a gran parte della geografia economica quando, a proposito dell’inserimento dei fattori non-

economici nella spiegazione dei divari di sviluppo territoriali, afferma che la regione è

diventata una sorta di unità-attore e parla di “trappola della reificazione”:

The apotheosis of territories and regions as new units of analysis has disoriented radical and

critical debates from the scalar spatial framework (see Swyngedouw, 1997; Bunnell and Coe,

2001) to a kind of bounded territorial logic finally pushing the argument to the trap of

reification. This could be viewed as opening the door to neoclassical locational arguments in

which capital, labour, raw materials and markets are replaced by territorially defined non-

economic social and cultural factors. […] Sabel’s idea of taking the area or the region rather

than the firm or the sector as units of study, generated major confusions. Researchers started

to study regions as though they were firms (e.g. learning firm — learning region, networked

firm — networked region, competitive firm — competitive region) and this manifests a

dangerous shift from the rationality of the firm as an instrumental actor, to the rationality of

the region as an instrumental actor (Smith, 1999) […] . At times it seems that all the debates

around space, society and economics advanced by Lefebvre, Harvey, Castells, Soja, Massey,

Hudson, Gregory and others have never appeared in print (Hadjimichalis, 2006, p. 699).

La regione entra peraltro nei “discorsi” delle istituzioni nazionali e internazionali e

diviene la scala privilegiata per gli interventi delle politiche dell’Unione europea, dando così

luogo ad una vasta produzione di scoreboards e di indicatori statistici a livello regionale, che

trascurano sistematicamente il problema di significatività dei dati aggregati a tale scala9.

Per Hadjimichalis questo approccio teorico, in cui la regione è uno spazio fisso, che

ignora altresì la teoria mirdaliana della causazione circolare (a cui si potrebbe ascrivere una

delle prime testimonianze di pensiero geografico “relazionale”), implica importanti

conseguenze politiche, in primo luogo che il benessere di coloro che risiedono nella regione

oggetto di indagine è sostituito tout court con un discorso che riguarda il benessere di

9 E’ per esempio, il caso del noto Modifiable Areal Unit Problem (Openshaw, 1984) per cui l’aggregazione di dati

spaziali può variare in base alle dimensioni della scala scelta. I confini geografici sono 'imposti', nel senso che, in

genere, i dati, rilevati ad una certa scala, vengono aggregati ad una scala diversa che non ha necessariamente una

relazione significativa con quella di origine.

L'effetto di scala riguarda le dimensioni delle unità areali utilizzate e l'effetto di aggregazione riguarda invece le

modalità in cui si dati sono assemblati ad una determinata scala, producendo in tal modo cambiamenti

significativi nella distribuzione geografica apparente della variabile in questione.

48

imprese e regioni. Questa considerazione assume un rilievo fondamentale per il percorso

seguito in questo lavoro, confermando che, parlando di non-economic factors, la

concettualizzazione di spazio tradizionalmente utilizzata non risulta sempre adeguata per le

analisi socio-economiche. Anche Paasi (2002) definisce chaotic conceptions la

feticizzazione del concetto di regione, regioni come “attori” in grado di prendere decisioni e

definire obiettivi sociali ed economici, in cui anche il discorso prevalente e l’identità

regionale contribuisce a creare la realtà che si veicola e passa attraverso questa immagine di

regione come “fatto sociale” omogeneo.

Secondo Harvey (2006) alcuni fenomeni, come per esempio la memoria collettiva di

eventi quali quelli legati a luoghi come Tienammen Square o Ground Zero o un’azione

politica nel processo urbano, non possono essere semplicemente posizionati su una mappa e

l’unico modo di rappresentarli è in termini di spazio-tempo relazionale.

I problemi che sorgono da questo approccio allo spazio sono di diversa natura. In primo

luogo, come afferma lo stesso Harvey, man mano che ci avviciniamo all’idea di

relazionalità, abbandonando la logica binaria e lo spazio cartesiano, diventa sempre più

difficile la concettualizzazione e la misurazione dei fenomeni analizzati.

Questa carenza di operatività è uno dei problemi dei lavori sulla giustizia spaziale che si

fondano proprio su un concetto di spazio non euclideo, come abbiamo visto nel capitolo 2.

Sembra infatti difficile tentare una trasposizione operativa dello spazio come qui descritto da

Lefebvre:

Lo spazio sociale non può scappare dalla sua dualità di base…[…]. Non è forse lo spazio

sociale sempre e simultaneamente un campo d’azione e una base per l’azione? Non è al

tempo stesso reale (dato) e potenziale (luogo delle possibilità)? Non è al tempo stesso

quantitativo (misurabile attraverso unità di misura) e qualitativo (come concreta estensione

dove non reintegrate energie scarseggiano, dove la distanza è misurata in termini di fatica o

in termini di tempo necessario per l’attività? (Lefebvre, 1978, p. 201).

Se da un lato, dunque, lavorare su concetti di spazio euclideo definito territorialmente

produce risultati parziali e insoddisfacenti per i fenomeni socio-economici, come fare per

evitare il rischio, parimenti pericoloso, di uno spazio completamente unbound e placeless?

Un puro spazio di flussi à la Castells (Sheppard, 2002, p.312), di cui lo stesso Harvey mette

bene in guardia per le sue implicazioni politiche quando ricorda i rischi connessi ad uno

spazio esclusivamente relazionale e vissuto, al pari dell’approccio della geografia

tradizionale che si è interessata solo allo spazio assoluto e relativo:

49

the reduction of everything to fluxes and flows, and the consequent emphasis upon the

transitoriness of all forms has its limits (Harvey, 1996, p.7).

Come uscire da questo empasse concettuale e metodologico? Come trovare una

mediazione tra lo spazio fisico e fisso e quello topologico, fluido e mobile, tra struttura e

flusso (Hudson, 2004) tra process e permanence (Harvey, 1996)? Come andare oltre il

“territorial fix” (Allen e Cochrane, 2007)?

La letteratura non offre in verità molte soluzioni al dilemma. Jessop at al. (2008)

propongono un framework multidimensionale di analisi per studiare fenomeni sociali in cui

territories (T), places (P), scales (S), and networks (N) (TPSN) sono visti come mutualmente

formativi e interrelati, ricordando in questa formulazione molto da vicino la dialettica socio-

spaziale di Soja (1980). Jones (2009) aggiunge un pezzo al framework TPSN con il concetto

di phase space che incorpora, nella spiegazione delle differenti realtà locali, il fattore

temporale in termini di path dependancy, usandolo, al contempo, anche come elemento

predittivo per l’evoluzione nel tempo delle realtà spaziali oggetto di analisi.

3.3. La matrice delle spazialità di D. Harvey

Probabilmente, la soluzione più promettente anche per le possibilità operative che

potenzialmente offre e quindi più aderente alle necessità del presente lavoro è quella

proposta da Harvey (2006). Già nel 1973 Harvey in Social justice and the city afferma che è

cruciale riflettere sulla natura dello spazio se si vuole capire i processi urbani sotto il

capitalismo. Anni dopo, nel saggio Space as a keyword Harvey (2006) avanza alcune

domande e risposte fondamentali. Alla domanda se spazio è da considerarsi assoluto, relativo

o relazionale, egli risponde:

I simply don’t know whether there is an ontological answer to that question. In my own work

I think of it as being all there. This was the conclusion I reached thirty years ago and I have

found no particular reason (nor heard any arguments) to make me change my mind.

Space is neither absolute, relative or relational in itself, but it can become one or all

simultaneously depending on the circumstances….there are no philosophical answer to

philosophical questions that arise over the nature of space – the answer lies in human

practice. (Harvey, 2006, p. 155).

50

The question “what is space’” is therefore replaced by the question “how is it that different

human practices create and make use of different conceptualization of space’” (Harvey,

1996, p. 149).

Harvey, quindi, non identifica la supremazia di un concetto di spazio ma afferma che sia

lo spazio fisico che relativo e relazionale, in tensione dialettica, sono utili all’analisi.

Attraverso questa soluzione di compromesso riappacifica in qualche modo moderno e post-

moderno e ci consente di avere a disposizione uno strumento operativo di spazio a seconda

delle diverse tipologie di fenomeno da analizzare. Queste le caratteristiche delle tre tipologie

di spazio individuate da Harvey:

- lo spazio assoluto è lo spazio di Newton e di Descartes ed è generalmente

rappresentato come fisso e pre-esistente, disegnato come una griglia immutabile che

permette la misurazione e calcoli standardizzati risulta come una cosa in sé con una esistenza

indipendente dalle cose. Esso possiede così una struttura che ci permette di fissare e

individuare i fenomeni. La geografia, tradizionalmente, ha analizzato fenomeni ed eventi

iscritti in questa tipologia di spazio “a celle” separate (Harvey usa l’espressione pigeon-hole,

piccionaia) in cui incasellare singoli eventi in ciascuna casella, separata dalle altre.

Geometricamente è lo spazio di Euclide e perciò lo spazio delle mappe catastali e delle

pratiche ingegneristiche. Si applica a tutti i fenomeni discreti e finiti. Socialmente questo è lo

spazio della proprietà privata a altri confini territoriali predefiniti, per esempio partizioni

amministrative, mappe e griglie urbane;

- lo spazio relativo è associato al nome di Einstein e delle geometri non-euclidee.

Partendo dall’asserzione di Eulero che non è possibile rappresentare la superficie terrestre

attraverso la geometria euclidea, Gauss per primo espresse i fondamenti di una geometria

sferica non euclidea. Einstein, in seguito, adottò l’argomento affermando che ogni forma di

misurazione dipende dal punto di vista dell’osservatore. Tradotto in geografia, questo vuol

dire che rappresentare la mobilità umana attraverso la rete dei trasporti è molto diverso dal

rappresentare le unità catastali. La frizione della distanza, in questo caso, non può essere

espressa soltanto in termini metrici ma in tempi e costi di percorrenza per esempio. Il

risultato sono mappe completamente differenti di uno stesso luogo adottando metriche

diverse per la misurazione della “distanza”;

51

- lo spazio relazionale. Il concetto di spazio relazionale è associato all’ipotesi di

Leibnitz10

, secondo la quale non esiste differenza tra l’individuo e il suo contesto in quanto le

singole entità sono costituite da una miriade di entità eterogenee, a loro volta composte da

altrettante entità e così via. Un evento o una cosa in un punto dello spazio non può quindi

essere compreso solo in relazione a ciò che esiste in quel punto. Esso dipende, invece, da

tutto ciò che vi è intorno, da tutta l’enorme varietà di influenze che si agitano nello spazio e

nel tempo, quindi nel passato, presente e futuro, si concentrano e congelano per definire la

natura di quel punto (spazio-tempo relazionale). L’identità di un luogo, così, assume un

significato diverso dal senso che ne deriverebbe utilizzando il concetto di spazio assoluto.

Tale approccio prende le mosse dalla dialettica marxista per cui

la semplice osservazione delle cose, sia di un oggetto specifico sia dell’oggetto in generale,

trascura ciò che le cose contengono dissimulandolo: i rapporti sociali e le forme di tali

rapporti. Se trascura questi rapporti inerenti alla cose sociali, la conoscenza si perde: non

può che constatare la varietà indefinita e indefinibile delle cose, e perdersi nelle

classificazioni, descrizioni, frammentazioni (Lefebvre, 1978, p. 99).

Ci sono regole per decidere quale tipologia di spazio utilizzare nell’analisi geografica?

Per Harvey dipende dalla natura del fenomeno da analizzare anche se esiste una gerarchia tra

i tre concetti di spazio: quello assoluto è assoluto e basta, quello relativo può contenere

quello assoluto e quello relazionale può includere gli altri due. Harvey, così come Lefebvre,

trova però molto più utile mettere i tre principi in tensione dialettica tra loro in modo da

capire meglio come significati relazionali sono internalizzati in cose materiali, eventi e

pratiche costruite nello spazio assoluto e nel tempo. E riuscendo a ricomporre, in qualche

misura, anche la distinzione binaria spesso ricorrente in geografia tra space e place. Secondo

Merryfield (1993), infatti, questa ontologia relazionale contrasta notevolmente con la visione

atomistica e cartesiana del mondo che tende a separare i diversi aspetti della realtà sociale

trattandoli come oggetti discreti senza alcun senso di connettività.

La misurazione dei fenomeni diviene, tuttavia, sempre più problematica man mano che ci

avviciniamo a questo concetto di spazio.

Nella figura 1, viene riassunta la proposta di Harvey con un fine operativo. Effettuare

l’analisi di fenomeni sociali nello spazio attraverso tale tripartizione consente di segmentare i

fenomeni rispetto alla loro funzione/significatività spaziale, consentendo così anche la scelta

10 Il riferimento alla monadologia di Leibnitz è costante nella letteratura geografica sullo spazio relazionale, a

partire da Harvey (1974, 1996). Tuttavia Malpas (2012, p. 239) contesta questa attribuzione in quanto l’elemento

di base dell’ontologia leibnitziana sarebbero le monadi e non le relazioni tra di esse.

52

delle metodologie più adeguate alla rappresentazione e un’analisi dei risultati più

significativa.

Fonte: nostre elaborazioni

Figura 1 - Le tipologie di spazio proposte da D. Harvey: una sintesi operativa.

Per illustrare la sua concettualizzazione dialettica dello spazio (spazio-tempo) Harvey

ricorre a due esempi.

Il primo riguarda una lettura “statica” e frazionata della matrice. L’esempio è quello di

una gated community del New Jersey, descritta innanzitutto nella sua materialità di spazio

fisico, delimitato da muri e protetto dalla guardiania. Molti abitanti lavorano nel distretto

finanziario di Manhattan e quotidianamente si spostano con le loro potenti automobili mezzi

Fenomeni da

analizzare

Metodologie/strumenti

di analisi

Significati/implicazioni

Spazio

Assoluto

Fenomeni discreti Geometria euclidea, mappe

Spazio tipico della proprietà privata, del catasto, del “territorio”

Spazio

Relativo

Mobilità di persone, flussi di capitale, di merci, ecc.

Geometria non euclidea, isocrone, matrici I-O, ecc.

Può alterare sensibilmente la rappresentazione dello spazio assoluto perché lo esprime in termini di tempo, costi, flussi, reti di trasporto, reti immateriali, ecc.

Spazio

Relazionale

Relazioni sociali, fenomeni ambientali, flussi di conoscenza, ecc.

Integrazione di diverse metodologie, “convergenza di matematica, musica e poesia”

Spazio espresso non più geometrici ma di flussi, relazioni reali o virtuali in tensione dialettica con altre scale di analisi. Viene introdotta nell’analisi la variabile tempo (spazio-

tempo relazionale).

53

nel centro cittadino e, attraverso i loro movimenti di capitali, influenzano la vita sociale ed

economica non solo a scala locale ma anche globale e, con i soldi guadagnati, riescono a

portare nella loro comunità chiusa, energia, merci e alimenti costosi provenienti da ogni

parte del mondo. Al tempo stesso le modalità consumistiche di questa comunità affluente,

per esempio le emissioni dei potenti Suv con cui si spostano quotidianamente,

contribuiscono all’inquinamento globale, contribuendo a provocare il cambiamento climatico

che causa un ciclone che distruggerà la comunità. Ovviamente si tratta di una

semplificazione estrema ma che rende conto abbastanza chiaramente del disegno concettuale

di Harvey: non possiamo limitare l’analisi alla gated community, nel suo spazio delimitato,

ma dobbiamo estenderla allo spazio delle relazioni che essa intrattiene con il resto del

mondo.

Per mostrare invece l’uso dialettico della sua matrice, Harvey ricorre all’esempio di

Ground Zero a New York. Questo spazio è innanzitutto uno spazio fisico e assoluto in cui

architetti e ingegneri hanno progettato e calcolato la ricostruzione al posto delle Torri

distrutte. Gli interessi in gioco sono molti. Gli investitori vorrebbero una redditività alta nel

tempo e sviluppare il più possibile le diverse modalità di trasporto per accedervi. Quindi per

i progettisti il sito non deve esistere solo nella sua ricostruzione fisica ma deve avere una

proiezione nello spazio (con per esempio migliori collegamenti con l’aeroporto) e nel tempo

(attraverso una redditività a lungo periodo), che, con effetto retroattivo, avranno una ricaduta

sulla redditività dei suoli (quindi sullo spazio assoluto). Ma questo non è tutto. Ricostruire in

un posto come Ground Zero, implica, ovviamente, considerazioni di ordine emotivo ed etico.

I familiari delle vittime, l’opinione pubblica nazionale e mondiale hanno aspettative che

vanno al di là di quelle degli investitori rendendo questo sito uno spazio eminentemente

relazionale. Ground Zero è il sito della memoria collettiva e i progettisti devono tradurre

questa emotività in mattoni, acciaio e vetri. Come si vede dall’esempio, le diverse tipologie

di spazio, sono, nell’analisi, in tensione dialettica tra di loro e concorrono in questo modo ad

una rappresentazione di Ground Zero più aderente alla complessità del fenomeno.

E’ un esempio che calza perfettamente con il nostro tema: la rappresentazione della

giustizia spaziale. Essa può infatti essere rappresentata attraverso una fotografia o la

percezione degli abitanti di un quartiere segregato, può essere misurata in termini di km di

linee urbane che collegano questo quartiere ai servizi essenziali, in termini di tempo

utilizzato per percorrere queste distanze, e, infine nella sua fenomenologia spaziale, nella

54

descrizione degli slums, del patrimonio edilizio, della fatiscenza delle scuole o nella

mancanza di verde pubblico a disposizione degli abitanti...

Al tempo stesso, tuttavia, Harvey ci ricorda che nonostante gli innumerevoli vantaggi di

questo approccio Ground Zero rimane un luogo fisico, una forma fisica da cui bisogna

partire e senza la quale tutte le altre dimensioni non esisterebbero. In questo consiste la

gerarchia delle diverse concettualizzazioni dello spazio. Lo spazio assoluto è la condizione

necessaria ma non sufficiente perché le altre forme esistano.

In recent years many academics, including geographers, have embraced relational concepts

and ways of thinking. This move, as crucial as it is laudable, has to some degree been

associated with the cultural and postmodern turn. But in the same way that traditional and

positivist geography limited its vision by concentrating exclusively on the absolute and

relative and upon material and conceptual aspects of space-time (eschewing the lived and the

relational), so there is a serious danger of dwelling only upon the relational and lived as if

the material and absolute did not matter. Staying exclusively in the lower right part of the

matrix can be just misleading, limiting and stultifying as confining one’s vision to the upper

left. The only strategy that really works is to keep the tension moving dialectically across all

positions in the matrix. (Harvey, 2006, p. 152).

E’ partendo da questa fondamentale affermazione che Harvey definisce la sua nozione di

permanence, mutuata da Whitehead. I significati relazionali sono internalizzati in cose

materiali, eventi, processi costruiti o aventi luogo in uno spazio assoluto. L’esempio di

Harvey ritorna su Ground Zero. Dopo aver discusso dei suoi significati relazionali, del suo

impatto nel tempo, alla fine rimane un segno tangibile, fisico, misurabile che è il grande

vuoto nel terreno o quello che ci sarà al suo posto. Cioè, Ground Zero è una permanence,

una forma che al di là dei significati che le si danno o le si daranno, è una costruzione fisica

nello spazio (e nel tempo):

[…] because it is relationships not entities that define the world. Yet, in turn, such a claim

only makes sense if we also realize that some relationships are reified, institutionalized,

transformed into what David Harvey (1996), following Alfred North Whitehead (1985), calls

”structured permanences''. If all is flux, it is still the case that that flux is channeled, shaped,

given form in institutions, produced spaces (Mitchell, 2003, p. 4).

Sheppard (2002) propone il termine di posizionalità (positionality) per descrivere come

queste diverse “permanenze” o entità sono collocate in termini relazionali nello

spazio/tempo. Ricorrendo all’uso che del termine è stato fatto dalla teoria femminista per

descrivere la singolarità e quindi non oggettività del soggetto che descrive il mondo (in

opposizione all’oggettività della scienza positivista), Sheppard utilizza le connotazioni

55

relazionali del termine per creare una versione geografica del concetto in cui lo spazio è un

processo sociale e fisico, dai connotati fissi e concreti, la materialità dei luoghi, che però

hanno a loro volta un’influenza sulle traiettorie future della società. Egli utilizza il concetto

per spiegare principalmente come le connessioni tra places giocano un ruolo nel formare

differenze geografiche nell’economia globale, ineguaglianze che mostrano notevoli

persistenze e sensibilità alla storia dei luoghi, a quella che le teorie evoluzioniste chiamano

path-dependency.

Harvey afferma che le implicazioni politiche di questa inevitabile materialità dei processi

sociali si ritrova per esempio nell’azione dei movimenti politici che rimangono inefficaci

fino alla loro materializzazione pratica nelle strade di NY o Baltimora (Harvey, 2006, p.

153). Lo spazio pubblico “is material and constitutes an actual site, a place, a ground within

which and from which political activity flows” (Mitchell, 2003, p. 129).

Questo è un aspetto cruciale per le implicazioni della nostra analisi. Vuol dire che

partendo dall’osservazione delle permanences, quindi del paesaggio, per esempio, possiamo

risalire al processo che l’ha generato, alla sua rete di relazioni via via sempre più lontana e

intricata, esplorare la sua complessità, arrivare ad una sua comprensione in termini

relazionali e dialettici.

Per cercare di arrivare ad una concettualizzazione ancora più fine e ricca in possibilità di

segmentare e, al tempo stesso, ri-aggregare e portare ad unità lo spazio, Harvey (2006, p.

152) propone uno “speculative leap” in cui alla tripartizione appena descritta associa la

trialettica lefebvriana dello spazio percepito, rappresentato e vissuto, dando luogo ad una

matrice tre-per-tre in cui i punti di intersezione delle celle rappresentano diverse modalità di

comprendere il significato dello spazio e dello spazio-tempo (Ibidem) (Fig. 2).

56

Fig. 2 - La matrice delle spazialità (Harvey, 2006).

L’obiettivo di Harvey è quello di colmare alcuni limiti della sua classificazione tripartita

dello spazio (assoluto, relativo, relazionale) prima illustrata. Introducendo le categorie

lefebvriane, Harvey accorda grande importanza al soggetto, all’abitante (nella sua accezione

di abitante della città) con la sua percezione della realtà (spazio percepito) e le sue sensazioni

ed emozioni (spazi di rappresentazione), riaffermando in tal modo, con un approccio

decisamente post-moderno, l’importanza della posizionalità11

del soggetto anche nell’analisi

spaziale. Introduce, inoltre, attraverso la categoria della “rappresentazione dello spazio” il

problema del potere politico che attraverso le rappresentazioni mediate della realtà produce e

riproduce lo spazio influenzandone la percezione, la fruizione, l’uso.

Per chiarire la sua originale concettualizzazione dello spazio Harvey afferma che la

percezione delle onde dell’oceano non sarà la stessa per uno studioso di oceanografia e per

un pianista che ama Debussy e leggere una guida su Parigi influenzerà il nostro modo di

11 Sul concetto di posizionalità cfr. oltre, cap. 5.

57

pensare alla città anche dopo aver sperimentato sul posto una realtà diversa da quella che ci

eravamo prefigurati duranti la lettura, così come i luoghi della memoria, per esempio quelli

dell’infanzia, non coincidono quasi mai con quelli fisici, reali.

Il risultato è la matrice delle spazialità in cui le differenti posizioni rappresentate dalle

celle della matrice consentono, se cristallizzate, di identificare i fenomeni nello spazio,

scomponendoli e, attraverso un percorso inverso di movimento dialettico tra le celle, di

ricomporre una loro lettura complessa.

La matrice decostruisce e, al tempo stesso, permette di riassemblare le diverse tipologie di

spazio. Permette, a seconda della cella utilizzata, di poter descrivere lo “spazio assoluto

percepito”, quello dei muri, delle strade, dei ponti e di tutti gli elementi fisici percepibili dal

soggetto; “gli spazi relativi di rappresentazione”, per esempio la frustrazione dei pendolari

generata dalla permanenza per ore nel traffico del tragitto che separa la casa dal lavoro; gli

“spazi relazionali della rappresentazione”, tutta quella produzione artistica che rappresenta lo

spazio mediato dall’artista. Uno stesso spazio, per esempio una piazza, può essere descritto

dalla mappa catastale, da una cartolina, dal tempo necessario ad arrivarci dalla stazione più

vicina, dalla qualità dell’aria registrata da una centralina; può poi essere descritto attraverso

la guida ufficiale della città, corredata da informazioni sull’accesso alla piazza e

rappresentato attraverso un medium artistico (si pensi alle Piazze d’Italia di De Chirico); può

infine assumere connotati diversi se a queste informazione aggiungiamo le emozioni, le

sensazioni di coloro che ci abitano, che la attraversano per lavoro o per piacere, i significati

che essa esprime nella memoria individuale e collettiva.

In conclusione, possiamo affermare che attraverso il compromesso di una matrice (un

confine) Harvey riesce a rendere meno volatile la natura dei flussi di cui pare essere

costituito il relational thinking, il cui rischio, di fatto, è quello di una ontologia piatta.

Concretizzando, al contempo, con l’introduzione del concetto di permanenza lo spazio

relazionale altrimenti difficile da rappresentare.

E’ da questo esercizio speculativo che partiremo per affrontare il problema della

rappresentazione della giustizia spaziale, riprendendolo nell’ultimo capitolo. Ma prima di

passare a questo esercizio metodologico, è necessario contestualizzare gli elementi finora

emersi e dedicare spazio all’analisi della giustizia spaziale nella sua dimensione pratica e

politica, oggetto del capitolo seguente.

58

4. Giustizia spaziale e città: il diritto alla città

e la pianificazione della città giusta

If we are talking about what a real strategy for cities ought

to be in the present time, it clearly needs to deal with issues

like working poverty, inequality, ecological sustainability

and the caring economy. There is a broad raft of questions

which need to be addressed urgently on a ‘Rights to the

City’ kind of framework or Reclaim the City for its citizens

(Peck, 2011).

Torquato Tasso già nel 1587 aveva messo in chiaro la

differenza tra villa e città: la prima è “una ragunanza

d’huomini e di abitazioni con le cose necessarie alla vita”,

la seconda con le “cose necessarie al ben vivere”

(Farinelli, 2007).

Dal percorso teorico fin qui effettuato, la giustizia spaziale emerge come un concetto che

non incorpora una scala spaziale ben definita. E’ possibile, infatti, leggere la

giustizia/ingiustizia a tutte le scale. Tuttavia, se accettiamo la definizione di giustizia

spaziale non soltanto come la giusta distribuzione delle risorse sul territorio (come nelle

“Tesi liberali” di Harvey (1978) ma anche, come ci suggeriscono Dikeç e Soja, come

risultato e processo di una costruzione sociale in cui spazio e società sono dialetticamente

interrelati nelle loro dinamiche evolutive, allora analizzare sul campo la giustizia spaziale e

la sua praticabilità a livello di politiche, implica un livello di osservazione a grande scala, a

livello urbano e sub-urbano dove più è evidente il rapporto tra spazio e società.

In questo capitolo quindi restringeremo l’angolo di osservazione del concetto di giustizia

spaziale precedentemente indagato nei suoi aspetti teorici. Scegliere la città come campo di

osservazione impone due passaggi obbligati.

Il primo consiste nel giustificare perché, nell’analisi della giustizia spaziale, la città può

rappresentare un livello di osservazione utile dal punto di vista empirico, inquadrando quegli

elementi di contesto che ne fanno il luogo dove si concentra la maggior parte della

59

popolazione mondiale e il luogo dei conflitti e dell’ingiustizia sociale. La città

contemporanea “rappresentata”, per usare la terminologia di Lefebvre, come luogo principale

della competitività globale, come nodo di uno scenario globale, di un network economico-

finanziario in cerca di luoghi dove realizzare investimenti produttivi. Una metafora,

insomma, del modello di sviluppo attuale, in cui la spiegazione del mondo è data

principalmente, se non univocamente, da ragioni di ordine economicistico e dettato dalla

logica della competitività. Un modello omologante anche spazialmente che sempre più

accomuna città diverse e lontane migliaia di chilometri, seppur divise da identità e culture

diverse. Riprendendo le considerazioni espresse nel capitolo relativo alla teoria dello spazio,

la città non è quindi uno spazio dai confini delimitati ma come afferma Brenner (2009, p.

206) una condizione planetaria in cui contestualmente si confrontano logiche diverse,

principalmente la logica del modello neoliberista, le regolazione del potere politico e le

organizzazioni sociali e politiche che tentano di opporvisi.

Questa enfasi posta dalla critical urban theory12

sulla condizione urbana come condizione

globale, pone un problema significativo dal punto di vista operativo e dell’analisi che

rappresenta il secondo passaggio da effettuare. Se la città non è identificabile attraverso

confini definiti ma rappresenta una condizione globale e transcalare, diventa difficile

effettuare un’analisi geografica. L’uso del concetto di permanence (cfr. cap. 3) ci supporta

nel delimitare lo “spazio” del concetto di giustizia spaziale in ambito urbano e insieme con

l’adozione di una spazialità molteplice ed in tensione dialettica tra i suoi diversi livelli,

costituirà la base per una metodologia di analisi della giustizia spaziale in città che

affronteremo in questo capitolo.

4.1 La città contemporanea: una lettura critica

Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, nel 2011 il 73% della popolazione europea

vive nelle città, una quota che, secondo le stime, è destinata ad arrivare all’85% nel 2050

(United Nations, 2011).

12 La definizione di teoria urbana critica viene di solito identificata con la tradizione di studi sulla città

conseguenti alla pubblicazione dei lavori fondamentali di alcuni studiosi neo-marxisti quali, principalmente, H.

Lefebvre, D. Harvey, M. Castells e P. Marcuse che rigettano le spiegazioni fornite dalla teoria urbana mainstream

fondata sulla città come espressione della razionalità burocratica e dell’efficienza economica a favore di una

visione in cui trova spazio l’utopia di una città socialmente giusta e sostenibile (Brenner, 2009).

60

Questa straordinaria concentrazione di popolazione, da un punto di vista sociologico, si

può considerare come spazio di prossimità di legami deboli à la Granovetter, di diversità

sociali e culturali e quindi, potenzialmente, del conflitto sociale, in opposizione

all’omogeneità di valori e di identità della campagna. La città rappresenta il luogo di

incontro di persone di diversa provenienza culturale, sociale, etnica, che creano “ hybrid

cultures and cultural heterogeneity in multiple space-time frameworks” (Moulaert et al.,

2012).

Da un punto di vista storico-politico, negli ultimi trenta anni le città sono state oggetto di

significative trasformazioni sia dal punto di vista morfologico che funzionale, con la

conseguenza che anche i “discorsi” sulla città, la sua “rappresentazione”, la sua immagine è

stata oggetto di precise strategie di marketing in cui essa diventa in qualche modo un

prodotto per la competizione di mercato.

D’altra parte, Harvey aveva già anni addietro teorizzato la città capitalista come una sorta

di macchina generatrice di ineguaglianze:

E’ necessario collegare il comportamento sociale al modo in cui la città assume una certa

forma spaziale, una certa geografia. Occorre riconoscere che una forma spaziale, nel

momento stesso in cui viene creata, tende a istituzionalizzare (e per certi aspetti anche a

determinare) il futuro sviluppo del processo sociale (Harvey, 1978, p. 42).

Vanolo e Rossi (2010, p. 35) associano l’evoluzione della forma urbana con le diverse

fasi e caratterizzazioni del modello di sviluppo economico e industriale, richiamando la

metafora geologica dei diversi layers di organizzazione spaziale che sono stati determinati

dalle diverse fasi della divisione del lavoro conseguenti all’evoluzione capitalistica.

Identificano, infatti, due stadi di trasformazione urbana recente, a partire dagli anni settanta,

quando entra in crisi il modello fordista che aveva significativamente inciso sui modelli

insediativi urbani.

Il primo è relativo alla città che si sviluppa in base alle esigenze dell’industria a grande

intensità di lavoro, con la nascita delle periferie urbane, rappresentata come il simbolo della

modernizzazione in opposizione alla vita di campagna, la meta ideale, nell’immaginario

collettivo dell’epoca, di coloro che aspiravano al riscatto sociale. Anche la tipologia

abitativa, con la costruzione di grandi condomini appena fuori le cinta del centro cittadino13

contribuisce a creare di conseguenza un modello di vita. E’ il caso, per esempio, dei ritmi di

13 Si pensi, in Italia, all’uso del suolo selvaggio operato dalla speculazione edilizia a partire dagli anni Cinquanta

descritto efficacemente dal film Le mani sulla città di Francesco Rosi.

61

vita imposti dalla rigida separazione tra casa e luoghi di lavoro raggiungibili soltanto

attraverso percorsi che impegnano lunghe ore e impongono nuovi stili di vita, come per

esempio il pranzo fuori casa, il ricorso agli asili nido per i bambini, l’uso del mezzo privato.

Un esempio che rende bene l’idea di quella che Soja identifica come dialettica socio-

spaziale: la forma urbana prodotto della società che a sua volta influenza i comportamenti

sociali e individuali.

Il secondo stadio, invece, riguarda la crisi del fordismo che contribuisce a cambiare anche

la rappresentazione della città e la sua percezione nell’immaginario collettivo. Le città

industriali (si pensi a Detroit, Manchester, Torino, per esempio) subiscono una profonda crisi

di identità legata non solo al declino economico coincidente con la crisi della manifattura

pesante che aveva caratterizzato la loro specializzazione settoriale ma, al contempo, a questo

si associa una perdita di identità legata proprio al fatto che il modello economico porta con

sé risvolti culturali e politici essenziali. Negli anni Ottanta infatti, sebbene questa

successione temporale semplifichi scenari ben più complessi14

, le città si adeguano

all’evoluzione del quadro economico, con il prevalere delle attività del terziario avanzato,

specialmente quelle connesse alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica che

trovano proprio nelle città il luogo privilegiato al loro insediamento e sviluppo per la

presenza di manodopera qualificata e la presenza di attività economiche verticalmente

integrate: è il modello “vincente” delle città californiane della Silicon Valley, basate

sull’industria hi-tech. Il rapido progresso delle tecnologie dell’informazione e delle

telecomunicazioni ha alterato la percezione dello spazio e del tempo, rendendo meno

importante la frizione dovuta alla distanza fisica per le localizzazioni industriali e, in alcuni

casi, consentito la trasformazione di molte vecchie città industriali in città dell’informazione

e nodi e poli tecnologici di una rete di città globali (Sassen, 1997).

In questo scenario globale, una competizione più accesa si è instaurata tra città come

attrattori di capitali ed investimenti (si pensi ai nuovi concetti di brand e di marketing

territoriale) e di consumatori (in particolare quelli appartenenti alla cosiddetta società

affluente e alla classe “creativa”) attraverso la creazione di amenità e di luoghi di consumo

massificati e la progressiva contrazione degli spazi pubblici (Harvey, 2006). In quella che

Harvey definisce la “disneificazione” delle città:

14 La complessità del fenomeno urbano è efficacemente espressa da Secchi (2012) con l’espressione di “macchina

non banale” con cui intende esprimere il fatto che la città è il risultato di cause storiche ma anche di processi

interni e politici e che non è una forma sintetizzabile attraverso formule predefinite e positiviste e, soprattutto,

prevedibili.

62

The marketing of cultural and historical aspects of a city is now a crucial component in the

economic process. Some cities simply invent unique culture. For example, some cities will

use "signature architecture." For instance, not many people knew about the city of Bilbao in

Spain until the Guggenheim Museum became the hot spot for a particular brand of

architecture. So, cities begin to use cultural production as a way to market their city as being

unique and special. Of course, the problem with this is that much of culture is very easy to

replicate. The uniqueness begins to disappear. Then, we have what I call the "Disneyfication"

of society (Harvey, 2013).

E’ proprio questa omologazione culturale che determina la “commodification” dei luoghi,

“the selling of place specific differences as a commodity for international tourism” (Harvey,

1996, p. 133 ) attraverso, per esempio, la riscoperta a fini turistici e commerciali delle

tradizioni vernacolari, feste storiche, sbandieratori, ecc .

Place construction is now complicitous (directly or indirectly) with the universalism of

money, commodity capital…the production of places a moment in the consolidation of a

capitalist-inspired regime of social relations, institutions and political-economic practices

(Ivi, p. 314).

Lo stesso Harvey, aveva già specificato (1982) ancora meglio il legame perverso tra

forma urbana e capitalismo quando, teorizzando lo spatial fix (dominio dello spazio) del

capitalismo, illustra una delle teorie più interessanti per la geografia e per l’economia

politica urbana. Il capitalismo si serve dello spazio per assicurare la sua produzione e

riproduzione (si pensi ai mercati di sbocco delle merci, alle regioni ricche di materie prime e

alle città come bacino di risorse umane qualificate, per esempio) ma allo stesso tempo la

“fissità”, la materialità delle forme urbane blocca all’interno di particolari luoghi il processo

di accumulazione dato che alcuni investimenti potrebbero, nel corso del tempo, non essere

più proficui. Siccome è impossibile spostare forme urbane create ad hoc per la logica del

profitto (possiamo fare l’esempio delle zone industriali fordiste di numerosi città

occidentali), nei momenti di crisi assistiamo ad uno spostamento dell’interesse del capitale

verso regioni e città nuove che causano il declino di quelle che rispondevano

precedentemente alla logica del capitale. Questa teoria, anche se criticata da molti e non

completamente accettata neanche in ambito marxista per la centralità assegnata allo spazio

come variabile esplicativa delle dinamiche economiche, fornisce tuttavia uno elemento

interessante per costruire una base di partenza per esplorare il legame tra forma urbana e

dinamiche socio-economiche, tra città e giustizia sociale.

In questa chiave di lettura proposta da Harvey, la città capitalista genera ingiustizie ed

ineguaglianze, ghettizzazione degli immigrati, crescente povertà, frammentazione politica,

63

sprawl, servizi pubblici inadeguati, declino dei centri urbani, gentrification, aree dismesse da

precedenti fasi di industrializzazione. Una città frammentata definita in letteratura attraverso

numerose metafore (la città arcipelago, la città diffusa, il “salto di scala”) che non trova più

un’adeguata rappresentazione nell’opposizione centro –periferia e che per Secchi (2012) è

espressione della rottura del modello culturale del Novecento basato sui valori di quella che

è stata definita la modernità. Anche se queste dinamiche evolutive non possono

rappresentare un modello generalizzabile, la città contemporanea può essere identificata in

qualche misura con la postmetropoli di Soja: una città in cui il crescente ruolo delle

multinazionali impatta direttamente e pesantemente sulla capacità dei governi locali di

progettare e guidare “dal basso” il proprio modello di sviluppo.

Brenner e Theodore (2002) identificano due aspetti interessanti per descrivere la

situazione di molte città contemporanee. Da una parte, i governi locali si trovano a dover

“sfruttare” sul mercato i propri territori, a “commodificare” la città per cercare di essere

attrattivi ai capitali delle multinazionali che sempre più orientano le scelte nazionali e locali

e, contemporaneamente, per cercare di far fronte ai dissesti finanziari causati dalla crescente

regressione dello stato sociale conseguente alle scelte di politica nazionale (si pensi per

esempio ai vincoli di bilancio imposti dal Patto di stabilità in Italia che impatta pesantemente

sull’autonomia gestionale e sulle politiche di spesa delle autorità metropolitane). Questo

implica, al di là degli orientamenti politici dei governi locali, azioni che si situano raramente

in un’ottica di “interesse comune” ma che devono rispondere al criterio dell’efficienza: è il

caso, per citarne uno, della svendita ai privati del patrimonio pubblico, delle aree dismesse di

proprietà pubblica, quali caserme, fabbriche sottratte ad una destinazione pubblica. D’altra

parte, si è compiuta una sorta di interiorizzazione della logica di mercato nella gestione delle

politiche locali e urbane che ha ormai definitivamente ratificato la validità del “discorso”

della città come polo di attrazione di capitali attraverso la pratica del marketing territoriale

“as an arena both for market-oriented economic growth and for elite consumption

practices”. (Ivi, p. 368).

In questa prospettiva critica, è interessante anche la proposta di Chatterton (2010) per cui

la città rappresenta l’ultimo baluardo a difesa dei beni comuni contro l’invasione e

l’espansione capitalistica prima descritta. Rifacendosi al concetto di bene comune

(commons) proposto da Hardt e Negri (2010), Chatterton vede nella città il luogo dove la

“moltitudine”, il nuovo soggetto politico dopo la fine della classe operaia, può dar vita

attraverso la densa rete di relazioni sociali, può dar vita ad un nuovo immaginario politico e

64

cambiamento sociale, anche attraverso la produzione e riproduzione di spazio, trovando in

tal modo un forte legame tra beni comuni e giustizia spaziale.

4.2 Spazio e giustizia in città

Come abbiamo visto nelle teorie esposte, se si escludono i lavori di Soja e di Dikeç

esaminati nel secondo capitolo, ispirati da una decisa causalità socio-spaziale, le relazioni tra

spazio e struttura socio-economica non sono quasi mai rese esplicite né trattate come una

varabile che spiega le differenze in ambito rubano. Molte analisi, infatti, utilizzano la città

come contenitore circoscritto di fenomeni dove conta la prossimità fisica di attori differenti

che vi agiscono mentre sembra mancare un riferimento esplicito al ruolo dello spazio come

prodotto-causa della struttura sociale in un luogo e tempo determinati.

Una spiegazione può essere data dalla difficoltà di dimostrare le cause delle ingiustizie

spaziali e spiegare le ragioni del loro rapporto dialettico. Van Kempen e Marcuse (1997)

identificano alcune determinanti attraverso le quali le dinamiche sociali sono visibili

nell’assetto spaziale aiutandoci a delimitare il campo di analisi e di azione del concetto di

giustizia spaziale in ambito urbano:

- Le strategie spaziali delle imprese che scelgono le località più adatte alla

massimizzazione dei profitti e all’accumulazione del capitale (lo spatial fix di Harvey)

- I flussi migratori dettati dalle opportunità di lavoro sia a scala internazionale che di

regione/città

- La segregazione razziale causata da atteggiamenti e politiche xenofobe che possono

avere come risultato una segregazione spaziale di alcuni gruppi etnici

- Alcune tipologie di politiche abitative pubbliche che riducendo progressivamente gli

spazi dedicati all’edilizia pubblica costringono alcuni gruppi sociali meno abbienti in spazi

segregati.

La segregazione è uno dei temi preferiti della geografia sociale (Loda, 2012) proprio per

l’evidente ruolo dello spazio nella spiegazione del fenomeno. Infatti, la segregazione

spaziale produce a sua volta ulteriori forme di esclusione (Hanhorster (2001), Mingione

(2004), Mudu (2006) e diventa motore di ulteriori ingiustizie sociali. Cassirer e Kasteloot

(2012) identificano tre ambiti di influenza in cui si instaura un rapporto dialettico e

cumulativo tra spazio e forma sociale.

65

Il primo riguarda l’influenza della distanza fisica che separa le aree segregate dalle aree

dove è presente il lavoro, una distanza che in termini di mobilità è spesso trascurata dalle

politiche dei trasporti come dimostra il caso citato da Soja relativo a Los Angeles (Soja,

2010, cfr. cap. 2).

Un secondo ambito di analisi, più aderente alla realtà delle città europee, è la correlazione

tra le caratteristiche del quartiere e le opportunità sociali degli abitanti. Alcuni studi (per

esempio, Musterd e Andersson, 2005 per la Svezia) mostrano come la residenza in alcuni

quartieri caratterizzati da carente accesso ai servizi, scarsa qualità dell’istruzione, scarsa

partecipazione sociale e politica rappresenti un limite significativo e autoalimentantesi

dell’esclusione sociale.

Il terzo ambito riguarda, invece, in linea con quanto abbiamo affrontato nel capitolo

relativo allo spazio, un aspetto più generale delle relazioni spazio-società attraverso una

riconcettualizzazione dello spazio in una dimensione relazionale e più complessa. E’ in

questa prospettiva che si situano le analisi della città come luogo degli effetti delle politiche

neoliberiste: gentrification, gated communities, sprawl urbano, ghetti e enclaves per gli

immigrati. Tutti fenomeni che mostrano sul campo la teorizzazione della giustizia spaziale in

ambito urbano: forma e processo che si autoalimentano, in un percorso di causalità e

correlazioni che è stato ampiamente dibattuto da Soja e Marcuse, come approfondito nel

capitolo 2:

Every geography in which we live has some degree of injustice embedded in it. And they can

have negative as well as positive consequences on practically everything we do (Soja, 2009).

In un ambito diverso ma comunque significativo, i lavori di Hillier (2007) attraverso un

complesso framework analitico ed empirico, tendono a dimostrare che “architecture can

cause social malaise” in quanto alcune tipologie abitative (si pensi per esempio all’edilizia

popolare di alcune città italiane tipica del secondo dopoguerra) producono un impoverimento

dello spirito di comunità, cioè del sistema di reciproca fiducia e di co-presenza basata sul

movimento umano, limitato in tipologie abitative sviluppate in altezza. In questo senso l’uso

anti-sociale dello spazio è il primo passo verso il declino, creando disordine e un uso dello

spazio poco sicuro. Anzi Hillier afferma, stabilendo una netta direzionalità nel rapporto

causale tra spazio e società, che “the creation of a disorderly space use through maladroit

spaces design creates the first symptoms of decline, even before any real decline has

66

occurred. In a sense, then it is argued, we find that symptoms help to bring about the

desease” (Ivi, p. 5).

4.3 La giustizia spaziale in città tra teoria e azione

La prospettiva di analisi descritta nel paragrafo precedente implica che se lo spazio è

socialmente prodotto allora può essere, allo stesso tempo, socialmente modificabile. In

questa ottica, negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di nuove teorie della

pianificazione urbana ispirate, da un lato, alle teorie della giustizia e a quelle sul diritto alla

città di Lefebvre dall’altro. In questo paragrafo ci occuperemo infatti della città giusta e del

diritto alla città come espressione di politiche riformiste in un caso e utopistiche e radicali

nell’altro che hanno animato il dibattito accademico e politico degli ultimi anni, in

particolare nei paesi di lingua anglosassone.

4.3.1 Il diritto alla città

Una direttrice teorica che giustifica la scelta della città come terreno di analisi della

giustizia spaziale è l’opera di H. Lefebvre “Le droit à la ville” (1968, trad. it. 1970).

Il testo ha avuto un’eco enorme, in particolare nella costruzione identitaria di numerosi

movimenti politici nati dal basso per contrastare l’avanzata capitalistica che vedeva proprio

nella città il terreno fertile per l’accumulazione capitalistica. Anche se afferma chiaramente

(Lefebvre, 1970, p. 146) che ogni modo di produzione ha avuto, nel corso del tempo, il suo

tipo di città, ribadendo quindi il legame causale inscindibile tra modello economico e forma

urbana, Lefebvre introduce elementi di spiegazione dell’ingiustizia urbana che vanno oltre la

spiegazione produttivista di Harvey. Egli, infatti, introduce il tema dei diritti degli abitanti

che non si limitano ad una distribuzione equa delle risorse economiche ma si estendono,

invece, al diritto di decidere dei propri spazi, oltre la logica del profitto.

Partendo dall’ipotesi che la realizzazione della società urbana è la condizione necessaria

di uno sviluppo sociale non soltanto quantitativo ma qualitativo, Lefebvre afferma che questa

costruzione può avvenire soltanto con una pianificazione urbana orientata ai bisogni sociali.

67

Bisogni urbani specifici non sono forse bisogni di luoghi qualificati, luoghi di simultaneità e

di incontro, luoghi in cui lo scambio non passi attraverso il valore di scambio, il commercio,

il profitto? (Ivi, p. 121).

La città storicamente formata non si vive più, […] non è più che un oggetto di consumo

culturale per i turisti, per l’estetismo avido di spettacoli e di pittoresco. […]. Tuttavia

l’urbano persiste allo stato di attualità dispersa e alienata (Ivi, p. 122).

Lefebvre interpreta la città come il luogo fisico della centralità capitalistica: luogo di

consumo e consumo di luogo, a cui si aggiunge la localizzazione del centro decisionale di

controllo e potere, in cui anche lo spazio fisico viene assoggettato alla logica del valore di

scambio piuttosto che al valore d’uso. In questo contesto rivendicare il diritto alla città

diventa una forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella

socializzazione, all’habitat e all’abitare, il diritto alla fruizione.

Il diritto alla città si pone tra i diritti di base necessari a contrastare la logica capitalistica:

Tra questi diritti in formazione figura il diritto alla città non alla città antica ma alla vita

urbana, alla centralità rinnovata, ai luoghi di incontro e di scambio, ai ritmi di vita e

impieghi di tempo che permettano l’uso pieno e intero di questi momenti e luoghi. La

proclamazione e la realizzazione della vita urbana come regno dell’uso (dello scambio e

dell’incontro liberati dal valore di scambio) reclamano il controllo della sfera economica

(del valore di scambio, del mercato, della merce) (Ivi, p. 159).

Per Lefebvre solo il proletariato può farsi parte attiva nella realizzazione di questo

progetto rivoluzionario, in quanto in grado di produrre un nuovo umanesimo, quello

dell’uomo urbano da attuarsi attraverso non soltanto un modello economico orientato verso i

bisogni sociali e un modello politico democratico dello stato ma attraverso una rivoluzione

culturale permanente, in un fronte globale di resistenza.

Queste premesse teoriche, seppur da rileggere nel contesto culturale in cui sono nate, la

Francia della fine degli anni Sessanta, conservano la loro validità di fondo per la costruzione

di un modello interpretativo attraverso cui traguardare e interpretare la condizione urbana

attuale, anche alla luce della attuale crisi economica che allarga la forbice tra le classi sociali

(Marcuse (2009). Oggi il diritto alla città, nella città dove il diritto di edificare è demandato

alla proprietà e la città serve le esigenze degli investitori e non gli interessi collettivi, può

essere riferito al diritto ad un ambiente sano, alla condizione di vita (servizi, trasporti,

istruzione), all’accesso alla casa per tutti, al diritto ai beni pubblici (è il caso dell’acqua), alla

cittadinanza.

68

L’utopia lefebvriana ha ispirato un fronte numeroso di studi urbani critici (si veda per

esempio il numero monografico di Critical Planning, 2007) e di movimenti politici dal basso

che rivendicano il diritto alla città attraverso una maggiore partecipazione democratica alle

decisioni locali.

Tra i primi, ricordiamo tutta una serie di studi transdisciplinari (per esempio,

Swingedouw, 2000) in cui il motivo di fondo è la critica al capitalismo globale, identificato

principalmente nelle organizzazioni non governative quali WTO, Fondo monetario, Banca

Mondiale e nelle grandi multinazionali visti come gli architetti di una strategia mirata ad una

progressiva privazione dei diritti civili. Questa offensiva sarebbe particolarmente visibile a

livello urbano dove i cittadini vedono sempre più eroso il loro potere di intervento sulle

decisioni che li riguardano (Peck, 1998) rendendo quindi interessanti le opportunità offerte

da un concetto quale quello di diritto alla città (Soja, 2000).

Tuttavia, il concetto di diritto alla città è stato il più delle volte usato in modo poco chiaro

sia nei suoi contenuti che nelle implicazioni che potrebbe contenere. Purcell, in due

interessanti lavori (2006, 2008) effettua, a tal proposito, considerazioni che contengono

spunti interessanti anche per l’oggetto del nostro lavoro, cioè la giustizia spaziale a livello

urbano di cui il diritto alla città è uno degli elementi fondamentali. Purcell, infatti osserva

come l’idea di Lefebvre sia stata il più delle volte usata come uno slogan di resistenza al

potere neoliberista senza declinarne impatti e significati come un concetto acquisito. Una

parte della responsabilità va certamente ascritta a Lefebvre stesso, che per primo lascia

indefinito il progetto politico attraverso cui realizzare il diritto alla città. Come abbiamo

visto, si tratta di un progetto globale, sociale politico ed economico oltre che culturale, in cui

sostanzialmente il potere decisionale passa dal capitale e dallo stato centrale ai cittadini,

definiti urban inhabitants. Le implicazioni di questo concetto sono numerose. Una delle

principali è stata individuata (Purcell, 2006) nella scarsa articolazione scalare del concetto di

“city” e del fatto che anche il concetto di scala non è predefinito ma è un costrutto sociale

(Marston, 2000). Il rischio è quello che Purcell definisce la local trap: identificare la scala

urbana come il luogo esclusivo e “chiuso” che assicura un livello decisionale desiderabile, al

di là dei contenuti dell’agenda politica nazionale e globale. Una sorta di localismo che

contrasta anche con la visione relazionale dello spazio che abbiamo visto nel capitolo 3 e che

implica un approccio dialettico sia dal punto di vista geografico che politico. Come afferma

anche Massey (2004, 2005), una situazione “buona” a scala locale potrebbe invece rivelarsi

69

nei suoi aspetti negativi ad altre scale, ignorando la “responsabilità geografica” per i luoghi

anche lontani da quello che abitiamo e viviamo in un’ottica di “global sense of place”.

Rimane comunque il fatto che il concetto, al di là dell’uso a volte acritico che ne hanno

mutuato alcuni movimenti a livello locale, assume la forma di un discorso che riesce a

connotare un programma di azioni e di rivendicazioni che vanno oltre il contesto storico in

cui è nato. Come afferma Harvey (2008, p. 23), infatti:

The right to the city is far more than the individual liberty to access urban resources: it is a

right to change ourselves by changing the city. It is, moreover, a common rather than an

individual right since this transformation inevitably depends upon the exercise of a collective

power to reshape the processes of urbanization. The freedom to make and remake our cities

and ourselves is, I want to argue, one of the most precious yet most neglected of our human

rights.

Il diritto alla città emerge in definitiva come un diritto allo spazio urbano ma anche un diritto

allo spazio politico in cui parlare di città, come afferma Dikeç riprendendo Balibar (Dikec,

2009, p. 76), vuol dire parlare di un luogo dove realizzare e lottare per l’interesse pubblico.

Una affermazione che implica un importante risvolto metodologico di cui terremo conto nel

prossimo capitolo: la città non solo entità amministrativa ma il luogo in cui sono negoziate le

relazioni tra lo stato, la società e il loro spazio.

Dal punto di vista operativo il diritto alla città ha costituito il manifesto di numerosi gruppi

di azione e di movimenti dal basso nati a livello locale così come globale e che si

arricchiscono, rispetto all’originaria definizione lefebvriana, di elementi che attengono alla

diritto alla diversità (razziale, sessuale, di genere, religiosa, culturale) e ai diritti connessi ai

temi ambientali che negli ultimi anni divengono centrali anche a livello urbano.

Questi movimenti organizzati dal basso ma con effetti anche ad altre scale, hanno trovato

un terreno fertile soprattutto nelle città nord americane dove maggiore è l’impatto delle

politiche neoliberiste descritte nel paragrafo precedente e dove maggiore è il conflitto sociale

dovuto all’integrazione razziale.

Un esempio di questi movimenti è Right to the city “Fighting for democracy justice and

sustainability”(Right to the City Alliance's, 2013). Esso è il risultato dell’unione di diversi

movimenti originariamente nati a New York per lottare contro la gentrificazione e lo

spostamento coatto dai loro quartieri tradizionali di cittadini a basso reddito, persone di

colore, comunità marginalizzate che si sono riuniti, in nome del diritto alla città, per

rappresentare istanze legate alla giustizia sociale, ambientale e razziale, ai diritti umani e alla

democrazia. In questo senso il diritto alla città non vuol dire soltanto combattere per una città

70

più giusta sottratta alla logica del profitto ma anche concretizzare l’idea di una politica

urbana nuova in cui ciascun abitante non soltanto ha il diritto di abitare la città ma allo stesso

tempo di costruirla, disegnarla, plasmarla in modo “giusto” attraverso principi condivisi e un

paradigma di valori comuni.

La piattaforma di rivendicazioni del movimento comprende una serie di punti che

declinano il diritto alla città:

- Uso del suolo

Il diritto alla terra e alla casa deve garantire che l’uso del suolo sia esente da

speculazioni di mercato e deve servire gli interessi della costruzione della

comunità, economie sostenibili, e dello spazio culturale e politico.

- Proprietà dei suoli urbani

Il diritto di proprietà dei territori urbani deve essere permanente e per uso pubblico.

- Giustizia economica

Il diritto delle comunità di lavoratori di colore, donne, omosessuali e ad un'economia

che tuteli i loro interessi.

- Giustizia ambientale

Il diritto a quartieri e luoghi di lavoro sostenibili e sani, il diritto all'assistenza sanitaria

di qualità e al risarcimento per danni alla salute causati da rifiuti tossici.

- Giustizia per gli immigrati

Il diritto di parità di accesso agli alloggi, all'occupazione, e ai servizi pubblici,

indipendentemente da razza, etnia.

- Servizi e istituzioni pubbliche

Il diritto per le comunità di lavoratori di colore all’accesso a al trasporto, alle

infrastrutture e ai servizi che riflettono e sostengono la loro integrità culturale e

sociale.

- Democrazia e Partecipazione

Il diritto da parte dei cittadini al controllo e alla partecipazione al processo decisionale

della pianificazione e del governo delle città, con piena trasparenza e

responsabilità.

- Risarcimento

Il diritto al risarcimento delle comunità di lavoratori che hanno subito lo sfruttamento

e/o lo spostamento della base economica locale.

71

- Internazionalismo

Il diritto a sostenere e costruire la solidarietà tra le città oltre i confini nazionali, senza

l'intervento dello Stato.

- Giustizia rurale

Il diritto delle popolazioni rurali a comunità economicamente sane e stabili protette dal

degrado ambientale e dalle pressioni economiche che costringono la migrazione verso le aree

urbane.

Anche la Carta mondiale per il diritto alla città del 2004 (Brown e Kristiansen, 2009),

nata nell’ambito del Forum sociale di Porto Alegre, identifica una serie di condizioni per

definire il diritto alla città:

- Uso sociale, equo e sostenibile di beni comuni naturali, patrimoniali ed energetici

della città e delle zone circostanti

- Completo esercizio della cittadinanza

- Priorità dell’interesse pubblico definito collettivamente

- Tutela e promozione della capacità produttiva dei suoi abitanti, in particolare dei

settori popolari, incoraggiando e sostenendo la produzione sociale dell’habitat e lo

sviluppo di attività economiche solidali, ad esempio l’agricoltura urbana

- Fruizione democratica ed egualitaria della città

- Diritto all’accessibilità e ad uguali opportunità

- Diritto alla mobilità di tutti gli abitanti, con tecnologia pulita e sostenibile ed

incentivi per il trasporto pubblico e per i mezzi di trasporto alternativi

- Diritto all’inclusione informatica

- Diritto alla giustizia ambientale.

Benché presente in molte dichiarazioni e statuti l’unico paese ad aver adottato il diritto

alla città in modo vincolante è il Brasile che lo inserisce nella propria costituzione (del 1988)

agli articoli 182 e 183 del capitolo 2, Politica urbana

(C o s t i t u z i o n e d e l B r a s i l e ,

http://www.servat.unibe.ch/icl/br00000_.html, scaricata il 30/5/2013) (Maricato, 2009):

Article 182 Municipal Urbanization

72

1. The urban development policy carried out by the Municipal Government, according to

general guidelines set forth in the law, is aimed at organizing the full development of

the city's social functions and ensuring the wellbeing of its inhabitants.

2. The master plan, approved by the City Council, which is compulsory for cities of over

twenty thousand inhabitants, is the basic tool of the urban development and

expansion on policy.

3. Urban property performs its social function when it meets the fundamental

requirements for the city's organization as set forth in the master plan.

4. Expropriation of urban property is made against prior and fair compensation in cash.

5. The Municipal Government may, by means of a specific law, in relation to areas

included in the master plan, demand, according to federal law, that the owner of

unbuilt, underused, or unused urban soil provide for adequate use thereof, subject,

successively, to:

I. compulsory subdivision or construction;

II. rates of urban property and land tax that are progressive in time;

III. expropriation with payment in public debt bonds issued with the prior approval

of the Federal Senate, redeemable within up to ten years, in equal and successive

annual installments, ensuring the real value of the compensation and legal interest.

Article 183 Usurpation

1. An individual who holds as his own an urban area of up to two hundred and fifty

square meters, for five years without interruption or opposition, using it as his or as

his family's home, acquires title to such property, provided that he does not own any

other urban or rural property.

2. The deed of title and authorization of use is granted to the man or woman, or both,

regardless of their marital status.

3. Such right shall not be recognized for the same holder more than once.

4. Public real property shall not be acquired by usurpation.

Questi articoli hanno poi trovato attuazione nel City statute del 2001, una legge che

definisce le linee guida che devono essere osservate dai diversi livelli di governo (da quello

nazionale a quello municipale) per garantire una gestione democratica delle città, il

riconoscimento delle funzioni sociali della proprietà urbana e della città più in generale. E’

73

interessante notare il concetto di “funzioni sociali” della città che si riferisce alla lefebvriana

distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e alla priorità da assegnare e quindi

all’interesse collettivo nella gestione del governo urbano.

Il riferimento alla gestione democratica della città comporta invece il controllo sociale e

la partecipazione della società civile nella gestione, nel progetto delle città con l’obiettivo di

stabilire una nuova etica sociale, istituzionalizzata attraverso vari strumenti e forum, ad

esempio, la partecipazione pubblica obbligatoria nei processi di pianificazione generale in

città e la creazione del Ministero delle Città e il Consiglio Nazionale delle Città, solo per

citarne alcuni. (Santos Carvalho e Rossbach, 2010).

4.3.2 La città giusta

La critica all’avanzata neoliberista alle città come elemento della competizione globale è

stata affrontata anche da studiosi che propongono soluzioni più riformiste e che in qualche

misura si sforzano di contestualizzare l’orientamento ideologico nella pratica quotidiana. H.

Campbell (2006) partendo dal presupposto che le questioni relative ai valori sono una parte

inevitabile delle attività di pianificazione e delle politiche, è tra gli studiosi che afferisce al

filone definito di justice planning la cui caratteristica è quella di contestualizzare gli ideali

astratti di giustizia in casi reali e di incorporare valori etici negli obiettivi delle politiche, in

particolare a livello urbano.

Da questo filone scaturisce il concetto di Just city, la città giusta alla cui definizione

hanno contribuito, principalmente, i lavori di S. Fainstein (2000, 2005, 2010). Pur rimanendo

nell’ambito della political economy, l’approccio di Fainstein alla politica urbana non ha toni

utopistici o rivoluzionari ma si colloca in una dimensione decisamente riformista e

costituisce, per definizione stessa dell’autrice, una sorta di realistic utopianism.

Il suo assunto di partenza si basa infatti sulla distinzione adottata da Fraser (2003, cit. in

Fainstein, 2009, p. 18) secondo cui, per affrontare i temi dell’ingiustizia sociale, sebbene sia

preferibile adottare politiche che mirino alla trasformazione della struttura sociale che li ha

provocati (transformational strategies), i margini di azione di cambiamento radicale sono

oggettivamente ridotti ed è quindi più praticabile un approccio di “nonreformist reform” che

operi all’interno del quadro capitalistico attuale in grado di innescare, allo stesso tempo, una

traiettoria di cambiamento più radicale. Anche il problema dell’autonomia delle politiche

urbane rispetto al contesto nazionale e internazionale, viene risolto da Fainstein secondo

74

questa logica del compromesso. I movimenti urbani, come abbiamo visto, per esempio,

quelli basati sul diritto alla città “do have trasformative potential despite being limited to

achieving change only at level in which they are operating” (Ibidem). Ma rimane la

consapevolezza del ruolo necessario, per il cambiamento, dei livelli politici nazionali e

sovra-nazionali.

Con questi limiti di partenza, Fainstein cerca di mettere in azione i principi di giustizia

che abbiamo visto nel primo capitolo e, richiamandosi espressamente alla teoria della

giustizia di J. Rawls, alla teoria della capacitazione di A. Sen e al concetto di recognition di

I.M. Young, per determinare le politiche per la città giusta sceglie come concetti operativi di

riferimento quelli di: equità, democrazia e diversità. L’obiettivo è quello di costituire un

framework di riferimento in base al quale giudicare e valutare le politiche urbane. Giustizia

intesa non soltanto come outcome “materiale” di riferimento ma, richiamandosi alle teorie di

P. Healey, come processo politico “giusto” in cui l’osservazione di casi diversi di città non

porta alla definizione di uno schema universale di città giusta ma a comprendere i margini di

intervento verso gli obiettivi di giustizia nel quadro delle condizioni attuali (sebbene l’analisi

di Fainstein riguardi città occidentali).

A partire dai criteri di equità, diversità e democrazia, Fainstein identifica una serie di

regole generali, riassunte in otto punti, che possono essere un utile strumento nel processo di

valutazione della giustizia delle politiche urbane:

1. Ogni nuovo piano edilizio deve prevedere quote di abitazioni per le fasce di reddito più

basse con l’obiettivo di fornire a tutti anche ai non cittadini un’abitazione decente

2. Non possono essere ammesse rilocalizzazioni contrarie alla volontà dei diretti

interessati, siano essi famiglie o imprese, in nome dell’efficienza economica o

dell’equilibrio sociale

3. I programmi di sviluppo economico devono avere come priorità l’interesse dei

lavoratori e delle piccole imprese

4. Tutti i piani di sviluppo commerciale devono prevedere spazi pubblici di

socializzazione e agevolare lo sviluppo di attività economiche cooperative

5. I mega progetti urbani devono essere sottoposti a controlli rigorosi circa la loro

capacità di produrre esternalità positive per i ceti meno abbienti sotto forma di posti

di lavoro, servizi pubblici, reddito di cittadinanza cercando di garantire forme di

partecipazione pubblica al progetto

75

6. Le tariffe dei mezzi di trasporto devono essere modulate a seconda delle fasce di

reddito e nelle linee di collegamento da e verso le periferie

7. I pianificatori devono svolgere un ruolo attivo nell’attuazione di soluzioni rispettose

dei principi che costituiscono la città giusta

8. I piani dovrebbero essere sviluppati in accordo con i residenti delle aree interessate e,

contemporaneamente, tenendo in considerazione gli impatti a livello di area urbana

più in generale.

Anche se il contesto locale e storico, rende indeterminata la scelta della politica più

“giusta” da adottare a priori, rendendo impossibile stabilire una ricetta valida per tutte le

città, Fainstein utilizza i concetti guida di equità, democrazia e diversità per analizzare tre

casi di città: Londra, New York, Amsterdam.

La città olandese emerge come quella che rispetta il maggior numero di criteri della città

giusta all’interno del sistema capitalistico attuale che Fainstein (2010, p. 139) stessa

definisce “un’utopia realistica”.

Amsterdam rappresenta per Fainstein una città che ha saputo rispondere alle pressioni per

una maggiore competitività in modo costruttivo, che ha saputo gestire il difficile equilibrio

tra i valori –democrazia, equità, diversità, crescita e sostenibilità che ha fatto di Amsterdam

la “città ideale”, un caso di studio molto diffuso tra gli studiosi di politiche urbane. Essa

inoltre incarna il modello della città europea opposta alla città americana come modello di

città compatta e sostenibile, inclusiva che può rappresentare un esempio da seguire di fronte

alle minacce della globalizzazione (si veda Bagnasco e LeGalès, 2000).

Fainstein inquadra il caso di Amsterdam in una prospettiva evoluzionista in cui la

dipendenza dalla storia gioca un ruolo fondamentale nella realtà attuale della città Infatti per

le sue caratteristiche geomorfologiche, la pianificazione territoriale ha avuto un ruolo sempre

molto importante nella costruzione dell’assetto urbano della città e governi locali molto forti

e autonomi rispetto al potere centrale.

Governi locali di impronta socialista, hanno nel corso degli anni, controllato la rendita

fondiaria attraverso interventi di edilizia pubblica che dal 1945 al 1985 rappresentavano il

90% dell’edilizia residenziale. L’enfasi dei governi locali, fino alla metà degli anni Ottanta,

era sul benessere sociale più che sulla crescita economica, con un rigido controllo

dell’espansione urbana secondo i dettami dei piani regolatori, con un rigido controllo

dell’espansione.

76

I piani di rinnovo urbano degli anni Sessanta, ispirati ad un estremo razionalismo

urbanistico, avevano anche un motivo strutturale: demolire le case ottocentesche costruite su

pali immersi nel terreno paludoso. Questa iniziativa diede vita ad un ampio movimento di

squatters che occupavano le case in attesa di demolizione, compresi molti immobili centrali

dichiarati monumenti della città, resistendo agli sgomberi e riuscendo, di recente, ad essere

riconosciuti legalmente. Il movimento, partendo dall’esigenza di opporsi al rinnovamento

urbano, ha poi nel corso degli anni ampliato la piattaforma delle richieste trasformandosi in

un movimento per uno dei maggiori problemi della città, la grande carenza di case

disponibili. Il governo locale ha risolto dunque il problema garantendo livelli di edilizia

pubblica importanti a vantaggio delle classi sociali meno abbienti e delle etnie più

svantaggiate. Anche la partecipazione democratica, come nel caso degli squatters, e la

tolleranza sono esempi che Fainstein cita come esempio del rispetto dei suoi tre principi

guida.

Per Fainstein la realizzazione della città giusta - è questa la lezione che ci fornisce lo

studio di Amsterdam - è un processo circolare in quanto la preesistenza di un contesto

culturale e politico orientato ai criteri della giustizia sociale e del welfare, rendono più

semplice, attraverso dinamiche cumulative, l’attuazione di politiche giuste. Come questa

affermazione si applichi ad una presunta cumulatività dell’ingiustizia, Fainstein non lo

spiega. E non coglie neppure le relazioni tra strutture socio-politiche e forma urbana.

Il ricorso al modello “Amsterdam” e a quello delle città europee di Bagnasco e LeGalès è

stato tuttavia fortemente criticato in quanto non più rispondente alla realtà attuale perché

anche questa città è stata oggetto in modo crescente negli ultimi anni dell’attacco neoliberista

alle politiche di welfare e a numerose frizioni etniche (come ampiamente documentato in

Novy et al., 2009, p. 110). Altri modelli, suggeriscono questi studi, sono da ricercare come

“città giusta”: quelli per esempio delle città dell’America Latina.

Il concetto di città giusta di Fainstein è stato oggetto di numerose critiche, in particolare

provenienti da posizioni più radicali. Tra questi, D. Harvey afferma che il concetto di Just

city di Fainstein è troppo immerso nel sistema di valori che cerca di oltrepassare e contiene

troppi pochi elementi di utopia che per Harvey sono invece fondamentali. Egli, infatti,

citando Robert Park afferma che:

the city is the man’s most successful attempt to remake the world he lives in more after his

heart’s desire. If the city is the world which man created, it is the world in which he is

77

henceforth condemn to live. Thus, […] in making the city man has remade himself (Harvey e

Potter, 2009, p.45).

Per Harvey dunque il problema di quale città vogliamo riguarda questioni più profonde

relative al modello di società, e quindi il concetto riformista di città giusta diventa per lui

“the struggle for the just city”, la lotta per la città giusta, dove è centrale il conflitto con il

modello neoliberista attualmente dominante.

Anche se molti dei punti che caratterizzano la città giusta hanno un carattere spaziale

(edilizia, trasporti urbani, beni comuni, ecc.), Fainstein non esplicita il legame di causazione

tra lo spazio e la condizione urbana né fornisce una visione più relazionale dei fenomeni

osservati e delle dinamiche politiche anche se riconosce che “justice is not achievable at the

urban level without support from other levels”. Peraltro, non viene giustificata la scelta della

città come luogo in cui mettere alla prova dell’operatività i concetti filosofici di giustizia ma

si limita a definire la città “a site of justice” (Potter e Novy 2009, p. 20). Anche il rapporto

dei principi di giustizia urbana con il concetto di competitività e crescita viene affrontato

solo superficialmente. Alla fine per Fainstein la città giusta è al contempo contenuto etico e

fine delle politiche. E con un approccio comunicativo15

, anche lei afferma l’importanza del

“discorso” nella realizzazione della città giusta:

By continuing to converse about justice, we can make it central to the activity of planning.

The very act of naming has power. If we constantly reiterate the call for a just city, we

change popular discourse and enlarge boundaries of action (Fainstein, 2009, p.35).

Il capitolo appena concluso pone alcune questioni di contenuto e di metodo.

Innanzitutto emerge che non esiste una definizione di giustizia universale e replicabile

adatta a tutte le città. La stessa Fainstein benché costruisca la sua nozione di città giusta

intorno ai tre concetti universali di equità, democrazia e diversità afferma che ciascuna città

ha le sue specificità a cui guardare e intorno alle quali costruire il suo percorso verso un

assetto “giusto”.

15 Il modello comunicativo, definito anche come “argumentative turn” rappresenta una significativa innovazione

teorica nel campo della pianificazione urbana e dell’analisi delle politiche degli ultimi venti anni, finalizzato ad

analizzare le modalità usate dai pianificatori nelle loro pratiche politiche. L’analisi si basa su “acts of power such

as word in use, argumentation in action, as well as gesture, emotions, passions, and moral representing

institutional politics and ways of thinking” (Ploger, in Fischer, 2009, p. 53). Si basa sui lavori di J. Habermas che

enfatizzano l’importanza del discorso e della comunicazione che diviene l’aspetto più importante del processo di

pianificazione pubblica.

78

One can offer a theory of the Just City, but it cannot be more than one of numerous other

contested positions and will be treated as such those with different preferences. This is to say,

it cannot be established once and for all by accepted criteria (Fischer, 2009, p. 60).

Piuttosto, la città giusta e il diritto alla città appaiono come attitudini democratiche

(Fincher e Iveson, 2012, p. 8), forme di resistenza al neoliberismo che come abbiamo visto

ha avuto, negli ultimi anni, il potere di cambiare la forma della città, il più delle volte in

nome della competitività economica. La lotta alla conquista neoliberista della città come

valore di scambio sembra essere l’elemento che unifica il riformismo della città giusta e il

radicalismo del diritto alla città.

L’altro elemento comune che emerge sembra essere quello relativo al riconoscimento

della giustizia attraverso l’ingiustizia, attraverso un approccio quasi emozionale e

fenomenico.

Un altro aspetto da sottolineare è il ruolo dello spazio. Abbiamo visto che il più delle

volte la città è utilizzata come scenario di fatti umani che ha il vantaggio di poter analizzare i

fenomeni socio-economici in uno spazio delimitato a grande scala. Lo spazio inteso come

variabile esplicativa, in tensione dialettica con la società, non emerge, invece, in modo

esplicito e consapevole dalle analisi di Fainstein né, in modi diversi, nel concetto di diritto

alla città di Lefebvre16

. Senza la spiegazione delle modalità in cui lo spazio produce

ingiustizie ed è a sua volta prodotto da queste, il concetto di giustizia spaziale diventa

sinonimo di “giustizia sociale nello spazio”. In questo senso la città giusta condivide

numerosi aspetti con altre formulazioni simili quali, per esempio, la good city di Amin

(2006) che immagina una città efficiente, inclusiva e partecipativa basata sul senso di

solidarietà degli abitanti e indica la centralità di “an urban ethic imagined as an ever-

widening habit of solidarity” fondata sui concetti di “repair”, “relatedness”, “rights” e “re-

enchantement” che fanno parte dell’esperienza quotidiana. (Ivi, p. 1012). E quindi nella

direzione di Dikeç che bisogna procedere se vogliamo differenziare il concetto in senso

critico e non in termini meramente descrittivi.

Il legame tra spazialità e giustizia richiede, tuttavia, un approccio metodologico adeguato

al superamento dei tradizionali metodi di rappresentazione della realtà urbana e di cui

tratteremo nel capitolo successivo.

16

“Le droit à la ville” non contiene riferimenti espliciti alla teoria dello spazio che sarà sviluppata da Lefebvre

solo qualche anno più tardi, anche se la città emerge già chiaramente come “spazio socialmente prodotto”.

79

5. La rappresentazione della giustizia spaziale:

aspetti concettuali e metodologici

I capitoli precedenti hanno mostrato che il concetto di giustizia spaziale composto da

termini così fortemente contestati quali giustizia e spazio, oltre ad uno status teorico e

concettuale di riferimento ancora in corso di definizione, è poco indagato nei suoi risvolti

operativi e rari, nella letteratura esaminata, sono i casi di studio osservati17

. Infatti, il

concetto, variamente definito, sia nella sua accezione tradizionale di distribuzione delle

risorse nello spazio che in quello più critico in cui il ruolo dello spazio è integrato in

rapporto causale con le forme sociali, non viene quasi mai corredato da un supporto

metodologico per la sua operazionalizzazione. Questo limite, se da un certo punto di vista

può essere accettato come inevitabile considerata la scivolosità degli assunti teorici,

contribuisce ad una certa opacità del concetto.

I problemi che scaturiscono da questa indeterminatezza, si ripercuotono anche

sull’operatività del concetto e sulla sua utilizzabilità come principio guida dell’agenda e

della pratica politica. Anche se la letteratura è piena di fuzzy concepts (Markusen, 2003)

utilizzati come pilastri delle politiche regionali (si pensi all’uso del termine cluster, per

esempio, descritto da Martin e Sunley (2003) una migliore gestione metodologica e operativa

del concetto rappresenta un elemento importante per renderlo comunicabile, operativo e in

ultima istanza fruibile per l’agenda politica.

In questo capitolo, tenteremo perciò di aggiungere il pezzo mancante del dibattito sulla

giustizia spaziale, di definire le basi per la sua rappresentazione attraverso strumenti –

concettuali ed operativi- adeguati.

Rappresentazione si presenta forse come il termine più adeguato ad esprimere l’obiettivo

che si pone questo capitolo in quanto, come vedremo, scegliere di rappresentare la giustizia

17 Fanno eccezione Lancione (2009) e Bhome et al. (2004), sebbene nessuno di questi studi utilizzi il concetto di

giustizia spaziale come adottato nel presente lavoro.

80

spaziale implica scelte di ordine concettuale e metodologico strettamente legate alle evidenze

teoriche ed operative emerse nei capitoli precedenti.

Dal punto di vista concettuale significa integrare lo spazio, nella sua triplicità di spazio

assoluto, relativo e relazionale (cfr. Cap. 3) come elemento ontologico essenziale per la

spiegazione della giustizia spaziale. Dal punto di vista metodologico, invece, vuol dire

sperimentare l’utilizzo di diversi metodi e strumenti di analisi integrati tra di loro, attraverso

quella che è stata definita “ibridizzazione” (Sui e DeLyser, 2012): metodi, tecniche e fonti

diverse in un tentativo di integrazione ibrida che possa ricomporre il più possibile la

complessità del tema, where mathematics, poetry and music converge if not merge (Harvey,

2006, p. 124).

Se l’obiettivo di questo esercizio è principalmente finalizzato ad analizzare sul campo le

geografie della giustizia/ingiustizia spaziale, esso può altresì contribuire a identificare le

cause che risiedono alla base della produzione di geografie ingiuste:

Spatial justice can be seen as both outcome and process, as geographies or distributional

patterns that are in themselves just/injust and as the process that produce these outcomes. It

is relatively easy to discover examples of spatial injustice descriptively, but it is much more

difficult to identify and understand the underlying process producing unjust geographies

(Soja, 2009, p. 62).

Possiamo affermare, con espressione solo apparentemente paradossale, che attraverso la

geografia sociale non cerchiamo di conoscere lo spazio (fisico) in sé bensì la società nel suo

relazionarsi allo spazio, lo spazio non essendo il fine della conoscenza, ma piuttosto lo

strumento attraverso il quale riusciamo a meglio intendere le dinamiche sociali (Loda, 2010,

p.28).

5.1 Gli aspetti concettuali

5.1.1 Integrare lo spazio nell’analisi della giustizia spaziale

Impostare l’analisi della giustizia spaziale in questa direttrice di analisi comporta alcuni

rischi. Se da un lato scegliere lo spazio relazionale come unità e dimensione dell’analisi

permette una migliore comprensione del fenomeno in relazione ai suoi assunti teorici e ci

consente di non cadere nella “trappola territoriale” prima ricordata, al tempo stesso questo

approccio comporta il rischio di decontestualizzare l’analisi rischiando, come afferma lo

stesso Harvey (2006), di assomigliare pericolosamente al nichilismo post-moderno in quello

81

che, parafrasando Audrey Kobajashi, potremmo definire “nothing but relations, the

nightmare of post-modern geography”.

Possiamo utilizzare la concettualizzazione di spazio presentata nel capitolo 3 per tentare

di costruire una rappresentazione della giustizia spaziale teoricamente fondata? Le teorie

dello spazio prima esposte possono aiutarci in questo percorso che ha come obiettivo,

andando oltre i tradizionali sistemi di misurazione basati su un concetto di spazio

esclusivamente euclideo, di pervenire ad una rappresentazione della complessità del

concetto di giustizia spaziale che si basa su un rapporto tra spazio e giustizia “intertwined

and mutually constitutive”? Quali implicazioni ne derivano?

Per cercare di essere coerenti con gli assunti teorici e non limitare l’analisi allo spazio

contenitore e, al contempo, evitare i rischi prima esposti, benché complessa concettualmente

e insidiosa dal punto metodologico e operativo, adottare la concezione dello spazio espressa

dalla matrice della spazialità di Harvey (cfr. cap. 3) ha costituito una scelta coerente con il

percorso teorico fin qui seguito.

Attraverso i limiti e i confini di una matrice, Harvey riesce a rendere meno volatile la

natura dei flussi di cui pare essere costituito il relational thinking, concretizzando con il

ricorso al concetto di permanenza lo spazio relazionale altrimenti difficile da rappresentare.

E a superare, nel contempo, l’opposizione binaria place/space che spesso caratterizza

l’analisi geografica.

I problemi che emergono sono di ordine concettuale e metodologico.

Da un punto di vista concettuale il primo passo da compiere è quello di individuare la

giustizia nello spazio, in “uno spazio”. Come abbiamo visto nei primi due capitoli, l’idea di

giustizia assume numerosi connotati a seconda del punto di vista

(universalistico/marxista/post-moderno) da cui può essere interpretato. Per non correre il

rischio di incorrere in un approccio universalistico e poco concreto, Harvey (1996) ci ricorda

(citando Engels) che la giustizia è un concetto “place based” per eccellenza in quanto è

un’idea intimamente legata alla cultura e radicata nelle differenti realtà sociali e solo rispetto

a queste relazioni si può comprendere: la giustizia, o meglio la “lotta per la giustizia” non è

un ideale universale ma “si fa” e anche per questo implica uno spazio per l’azione. Questa

decisa visione della giustizia “sul campo” viene ulteriormente rinforzata da Soja per il quale

lo spazio ne rappresenta un elemento costitutivo e da Dikeç che parla di spazialità

dell’ingiustizia e ingiustizia della spazialità. Lo spazio quindi deve essere integrato

82

nell’analisi come una variabile che spiega i fenomeni rappresentati e sua volta viene spiegata

dall’analisi di quei fenomeni.

Infatti la teoria della giustizia spaziale e, al contempo, la visione dello spazio di Harvey

con la supremazia gerarchica riconosciuta allo spazio assoluto, ci permette di affermare che

possiamo individuare due modi per guardare alla giustizia spaziale:

1. partire da un approccio normativo, stabilendo quali sono gli elementi che compongono

la giustizia spaziale (a livello urbano, per esempio) e associare metodi e fonti informative più

adeguate alla sua rappresentazione e ai suoi legami con lo spazio, attraverso un approccio

transcalare;

2. partire da un approccio descrittivo e dall’osservazione dello spazio giusto/ingiusto (o

meglio delle permanences, ricordiamo l’esempio di Ground Zero riportato nel capitolo 3)

risalire alla complessa rete di rapporti che uno spazio fisico porta con sé. Lo spazio quindi

che viene prodotto dall’azione sociale e che a sua volta la produce e, in qualche misura, la

determina, rendendo unici i luoghi analizzati.

Dal punto di vista operativo questa visione implica la scelta della scala di riferimento per

l’analisi da svolgere secondo lo schema triplice proposto dalla matrice della spazialità di

Harvey. E’ evidente che, anche per le cose dette nel capitolo 4, la città emerge come il livello

privilegiato di analisi. In generale, più il contesto di riferimento per l’analisi è a grande scala

più questa scelta di campo consente un’efficacia operativa maggiore rispetto ad una scala

regionale dove, come nota Manderscheid (2012), le differenze interne sono sistematicamente

trascurate, dando per scontata un’omogeneità dell’entità “regione” che rischia di farci cadere

nella trappola territoriale prima descritta e in una serie di problemi metodologici di difficile

soluzione.

5.1.2 Decostruire la giustizia spaziale

Dobbiamo ora cercare di schematizzare il complesso concetto di giustizia spaziale,

decostruirlo nelle sue componenti, per poi integrare le informazioni così ottenute e declinarle

secondo le tipologie di spazio (celle) della matrice. L’obiettivo è di pervenire ad una

rappresentazione della giustizia spaziale attraverso modalità che possano restituire un quadro

più aderente alla complessità del fenomeno di quanto si possa ottenere attraverso i

tradizionali indicatori quantitativi e/o qualitativi in cui non è integrata la dimensione

spaziale.

83

Per pervenire ad una definizione operativa della giustizia spaziale possiamo seguire il

metodo della cosiddetta analisi strutturale che costituisce una delle fasi del processo di

operazionalizzazione proposto da Lazarsfield (Statera, 1997) e cioè:

1. Formulazione-definizione del concetto empirico corrispondente al fenomeno di

interesse

2. Individuazione delle dimensioni (proprietà) che lo costituiscono

3. Individuazione del maggior numero di indicatori rilevanti per le dimensioni

enucleate

4. Eventuale formulazione di indici.

Tuttavia, ai fini del presente lavoro, al punto 3 non ci limiteremo alla mera

quantificazione e misurazione del fenomeno ma cercheremo di proporre altri metodi per

pervenire ad una rappresentazione del fenomeno più coerente con gli obiettivi esposti in

precedenza.

Inoltre, introdurremo un punto 2.1 che è rappresentato dalla declinazione delle proprietà

individuate secondo le dimensioni spaziali della matrice della spazialità.

Il percorso di ricerca si articola in tal modo in cinque punti.

1. L’analisi della letteratura proposta nei capitoli precedenti ci restituisce un concetto di

giustizia spaziale non soltanto come mero processo descrittivo e comparativo del livello di

distribuzione delle risorse materiali e immateriali fra differenti territori. Il concetto invece si

delinea come un outcome e, al tempo stesso, un processo in cui giustizia sociale e

dimensione spaziale sono “intertwined and mutually constitutive” ed in cui le dimensioni

della giustizia non sono rappresentate soltanto da un’equa distribuzione delle risorse, dei

costi e dei benefici ma anche dal “riconoscimento” della diversità culturale, di genere,

sessuale, etnica e politica delle persone. La città, inoltre, emerge come la scala di

osservazione privilegiata del fenomeno per i motivi esplicitati nel capitolo 4.

2. Estrapolare, in base alla definizione teorica, le dimensioni da cui emerge chiaramente il

rapporto dialettico tra spazio e giustizia sociale e perimetrare di conseguenza il campo di

indagine.

84

2.1 Individuate le dimensioni dell’analisi, scomporre ciascuna dimensione nelle sue

manifestazioni spaziali partendo dalla sua forma (o permanence) nello spazio assoluto e

stabilendo, muovendosi nelle celle della matrice delle spazialità, le sue manifestazioni alle

diverse scale spaziali individuate nelle matrice.

3. Individuare per ciascuna relazione spaziale il metodo e le fonti più adatte per

rappresentarla: indicatori, interviste, indagine diretta, ricorso ai VGI, tecniche visuali, ecc.

4. Ricomporre il fenomeno cercando, attraverso gli elementi quantitativi e qualitativi,

oggettivi e soggettivi analizzati, di rappresentarlo nella sua relazionalità spaziale e settoriale.

5.2 La giustizia spaziale rappresentata: un esercizio

Il passo successivo consiste nel contestualizzare le indicazioni scaturite dal percorso

metodologico.

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, uno dei fenomeni che accomuna la giustizia

spaziale a scala urbana è il consumo di suolo sempre più utilizzato per fini privati. Nel

secondo capitolo abbiamo parlato delle privatopias, delle gated communities, riferendo di

una crescente propensione alla “pseudo-private property” e all’erosione di spazio pubblico

come elementi che caratterizzano gli insediamenti di numerosi città occidentali

contemporanee. La letteratura è ricca di esempi di insediamenti urbani diffusi che, associati

ad altre caratteristiche economiche, sociali, ambientali costituisce un fenomeno definito

anche come sprawl urbano. Esso rappresenta un fenomeno complesso e multidimensionale

iscritto nello spazio, una permanenza da cui possiamo partire per poi allargare la visuale a

tutti i fenomeni ad esso connessi. Un caso interessante per questo studio sia per il rapporto

circolare e cumulativo tra forma spaziale e comportamenti sociali sia perché rappresenta

l’assenza di quelle dimensioni di giustizia spaziale che abbiamo precedentemente esaminato

e che verrà qui usato come una sorta di fatto stilizzato che, seppur operando una estrema

semplificazione del fenomeno, permette di effettuare una prima sperimentazione

dell’efficacia operativa della matrice delle spazialità.

Utilizzare lo sprawl per testare la matrice richiede però una giustificazione circa il suo

essere “spazialmente” ingiusto. Perché definire lo sprawl come esempio di ingiustizia

85

spaziale? La letteratura sul tema (si veda per una sintesi di questi aspetti Ewing, 1997, e per

l’Italia, Gibelli e Salzano (2006), richiamata brevemente per giustificare tale scelta, è

caratterizzata da una decisa tendenza: lo sprawl, come forma urbana dispersa in opposizione

a quella compatta, ha impatti sostanzialmente negativi dal punto di vista:

- economico (mancanza di economie di scala che riduce il livello e l’offerta dei servizi

pubblici, indebolimento della base economica e commerciale dei centri cittadini a

vantaggio di operatori economici di grandi dimensioni, ecc.),

- ambientale (aumentati consumi di carburanti per trasporto privato, congestione del

traffico e relativo inquinamento, alterazione degli ecosistemi causato dal consumo di

suolo agricolo cementificato, ecc.),

- sociale (perdita dell’identità sociale e culturale generata dai quartieri urbani,

mancanza di socialità dovuta alla mancanza di luoghi pubblici di incontro, scarse

opportunità di partecipazione alla vita sociale e politica del quartiere per la

mancanza di un’identità comune, ecc.).

Non mancano ovviamente le voci fuori da questo coro numeroso di condanna: è famosa

la posizione di Gordon e Richardson (1997) che leggono lo sprawl come una libera decisione

degli individui (scelte abitative fuori dal centro cittadino) e delle imprese che

massimizzerebbe il benessere di tutta la collettività anche attraverso una decongestione dei

centri urbani e maggiori livelli di sicurezza dovuti alla minor densità. Rimane un punto che

entrambe le posizioni prima delineate sinteticamente hanno in comune: la consapevolezza

che la forma urbana ha un impatto significativo sull’organizzazione economica e sociale

delle città.

Un aspetto che rimane, al di là delle valutazioni, un fenomeno dagli impatti “presunti” più

che riscontabili empiricamente. Frenkel a Ashkenazi descrivono bene il problema quando

affermano che:

Urban sprawl is a complex phenomenon that is difficult to quantify and measures accurately

[…] moving from sprawl to compact form is more likely to be a direction in a continuum

rather than across fixed and measurable categories (Frenkel a Ashkenazi, 2008, p. 57).

Così sulla stessa scia anche Torrens e Alberti affermano in una prospettiva di integrazione

di metodi e fonti che le analisi sullo sprawl sono generalmente focalizzate sui pattern

insediativi ad una scala data, senza tensione dialettica tra le diverse dimensioni del

fenomeno:

86

Each of these techniques captures an essential component of the sprawl problem, and some

can be used quite widely to measure multiple characteristics. Nevertheless, each suffers from

a common set of limitations, notably a lack of dynamism, an emphasis on pattern at the

expense of process, and a dependency on scale. Perhaps the best way to mediate these

limitations is to weave the metrics - in a validatory sense - into dynamic and interactive

simulation environment for exploring sprawl (Torrens e Alberti, 2000, p. 29).

Lo sprawl, peraltro, identifica bene anche la visione dell’evoluzione della città

commodificata presentata nel capitolo 4. La città diffusa infatti assomiglia molto a quella

forma urbana che lo slogan city for people not for profit (Brenner et al. 2009) sembra voler

contrastare. Le scelte connesse a quello che viene definito sprawl, in definitiva, sembrano

avere un impatto significativo su quello che abbiamo descritto come diritto alla città. Ecco

perché, benché consapevoli di incorrere nel rischio di una eccessiva semplificazione data la

complessità del fenomeno (si veda per un esame critico dell’uso e abuso del termine Galster

et al., 2001), lo sprawl, (o, meglio, alcune dimensioni ad esso associate) viene adottato come

un fatto stilizzato, un esempio di in/giustizia spaziale per sperimentare l’efficacia della

matrice delle spazialità.

Fatte queste premesse, possiamo passare a testare la matrice delle spazialità come

strumento che ci consente di ottenere una visione meno parziale e più olistica del fenomeno

prescelto.

Il primo passo da compiere consiste nel decidere, in un approccio dialettico e relazionale,

a partire dal livello prescelto di analisi, quali relazioni bisogna tenere in considerazione

nell’analisi spaziale dei fenomeni che caratterizzano lo sprawl e individuarne la portata in

termini di spazio assoluto, relativo e relazionale.

Anche in questo caso, scomponiamo il fenomeno dello sprawl nelle sue manifestazioni e

impatti principali:

- Pendolarismo nel tragitto casa-lavoro

- Consumo energetico

- Inquinamento atmosferico

- Costi delle infrastrutture (avendo costi fissi molto alti, i costi vengono ammortizzati

solo dopo una certa soglia di densità di utenza)

- Consumo di suolo agricolo

- Rischio di impermeabilizzazione e sigillatura dei suoli

87

- Frammentazione dell’habitat naturale (perdita della biodiversità)

- Costi sociali: segregazione per coloro che non guidano o non hanno l’auto, per lo più

gruppi sociali svantaggiati, assenza di relazioni di vicinato, mancanza di identità e

senso di appartenenza ad una comunità, assenza di luoghi di socialità.

Le dimensioni sono strettamente collegate tra di loro in un rapporto di causalità anche

spaziale difficile da cogliere attraverso un’analisi statica.

Come esempio, nella figura 3 cerchiamo di analizzare in termini relazionali uno degli

elementi che caratterizza gli insediamenti urbani diffusi, il pendolarismo casa lavoro,

indagato attraverso la matrice della spazialità:

- Spazio percepito/assoluto (la rete dei trasporti, per esempio),

- Spazio concepito/assoluto (come lo spazio del pendolarismo è rappresentato nei

documenti ufficiali, piani e progetti, mappe tematiche, guide turistiche (per esempio

la mappa del London Tube, ecc.),

- Spazio vissuto/assoluto (l’immaginario delle persone che si spostano

quotidianamente tra casa e lavoro, le loro ansie, frustrazioni che “creano” uno spazio

mentale altrettanto fondamentale per la comprensione degli effetti delle scelte

insediative urbane).

Ciascun incrocio delle celle da’ luogo ad una tipologia di spazio originale che

contribuisce a decostruire un concetto (la mobilità dei pendolari nell’ambito di un

insediamento rubano diffuso) e ad incorporarvi la sua intrinseca spazialità.

88

Spazio Percepito Concepito Vissuto

Assoluto Km di strade che collegano le periferie con le zone centrali della città; km di linee di trasporto pubblico; n. di abitanti per kmq; …

Documenti di pianificazione territoriale per la mobilità, statistiche territoriali e Sistemi Locali del Lavoro, studi settoriali sul territorio, descrizioni del paesaggio, documenti del marketing immobiliare di case e uffici,…

Emozioni, senso di sicurezza o insicurezza generato dal luogo in cui si trova la propria abitazione (confronto con abitanti di quartieri storici o centrali della stessa città), …

Relativo Tempi di percorrenza medi per gli

spostamenti casa/lavoro; flussi di pendolarismo casa/lavoro; spostamenti per fini commerciali, …

Mappe tematiche (viabilità, trasporti)

dell’area, orari ferroviari e dei bus, …

Percezione dei pendolari rispetto ai tempi di

spostamento; ansietà generata dai ritardi dei mezzi di trasporto, dal traffico; ansia, malessere, …

Relazionale Concentrazioni di Co2 da trasporti; incidenza di malattie per tipologia nella popolazione residente; luoghi di socialità; accessibilità dei servizi primari e secondari; connettività: reti wi fi, …

Rappresentazioni artistiche (surrealismo, per esempio), psico-geografie, letteratura, blog, twitts dei pendolari, …

Percezioni della qualità della vita e delle relazioni sociali; senso di isolamento; perdita di identità sociale e collettiva (confronto con abitanti di quartieri storici o centrali della stessa città),…

Fonte: nostre elaborazioni

Figura 3 – La matrice delle spazialità: spazi di pendolarismo urbano.

89

Fonte: nostre elaborazioni

Figura 4 – Fonti per la rappresentazione della mobilità pendolare

Il passo successivo è popolare la matrice con le informazioni quantitative e qualitative

che abbiamo delineato. La matrice, come si può vedere (Fig. 4), raggruppa informazioni

diverse e a scale diverse, anche se l’unità spaziale di riferimento è quella più adeguata al

fenomeno oggetto di analisi. In questo caso, i flussi di pendolarismo avranno come

riferimento spaziale i residenti in un’area urbana con caratteristiche di insediamento diffuso

da mettere in relazione con gli altri livelli spaziali coinvolti nell’analisi.

Spazio Percepito Concepito Vissuto

Assoluto Statistiche sui trasporti; documenti catastali delle aree oggetto di indagine,…

Studi tematici sul paesaggio urbano diffuso; cartografia ufficiale; atlanti; modelli scientifici di spazio per l’ottimizzazione dei tempi di trasporto, Google maps; …

Indagini statistiche sulla percezione degli abitanti; interviste semi-strutturate; focus group; analisi delle biografie; documentari; cinema; narrativa, poesia, blogs, social networks, twitts,.…

Relativo Flussi di mobilità tra centro città e periferia rilevati attraverso dati satellitari (per es. Rinzivillo et al. 2012), …

Guide tematiche, turistiche, siti ufficiali con le informazioni su trasporti/mobilità; orari ferroviari e dei bus,…

Interviste semi-strutturate; focus group; analisi delle biografie; documentari; cinema; narrativa, poesia, blogs, social networks, twitts, …

Relazionale Statistiche sull’inquinamento da trasporto; statistiche sulla morbilità della popolazione residente; statistiche sui servizi essenziali; reti di

rilevamento geografico e ambientale; …

Produzione artistica dedicata alla rappresentazione del luogo (eventi, narrativa, film, arti visive, ecc.), Flickr, …

Interviste semi-strutturate; focus group; analisi delle biografie; documentari; cinema; narrativa, poesia, blogs, social networks,

twitts, …

90

La matrice è da testare con dati e situazioni reali. Questo qui presentato è infatti soltanto

un esercizio metodologico che ci permette di proporre un metodo di analisi di fenomeni

spaziali complessi e multidimensionali e di integrare la componente spaziale in accordo con

le istanze teoriche del lavoro.

Rimane certamente da sperimentare sul campo la capacità dello strumento proposto di

cogliere la complessità e la simultaneità delle diverse dimensioni individuate e scomposte ai

diversi livelli spaziali, di solito analizzate singolarmente ed in modo statico e di riassumerle,

riaggregandole.

Anche il problema delle relazioni tra variabili ha bisogno di riflessioni più appropriate,

ma questo apre un percorso diverso da quello proposto in questo lavoro. Ovviamente, questo

non esclude che una volta sperimentata l’efficacia dello strumento si possa procedere

nell’analisi con l’utilizzo di strumenti statistici più sofisticati per tracciare un quadro più

robusto. Ma questo esula dagli obiettivi e, in qualche misura, dallo spirito del lavoro che si

propone di rappresentare la giustizia spaziale a livello urbano e sub-urbano, cercando di

valorizzare quegli elementi soggettivi e qualitativi che di solito sfuggono nelle analisi dove

lo spazio è utilizzato come variabile trasversale ai fenomeni osservati ed è “derivato”

attraverso la disaggregazione di dati pensati per altri livelli spaziali. Una rappresentazione

che come tutte le rappresentazioni costituisce una metafora, un’invenzione (Dematteis, 1985)

ma che seppure nella sua parzialità costituisce un arricchimento della conoscenza del reale

(Raffestin, 2009).

5.3 La scelta del metodo: hybrid geographies

Come affermato nell’introduzione, la scelta di rappresentare la giustizia spaziale nelle

sue diverse dimensioni, senza fermarsi ad un mero elenco di indicatori territoriali, ha come

conseguenza l’adozione di metodologie e fonti diverse. Nella figura 4 viene presentato un

esempio di come rendere operative le informazioni che abbiamo appreso dalla figura 3 e

cercare così di raccontare un pezzo di città in/giusta, costituito dallo spazio della mobilità

pendolare tra centro urbano e pezzi di città diffusa.

Il risultato della ricomposizione delle informazioni che si desumono dalla matrice è una

rappresentazione del fenomeno indagato, da cui è possibile ricavare diversi livelli di analisi,

fermandosi agli aspetti quantitativi o soltanto a quelli quantitativi, oppure definire una story

91

telling complessiva del fenomeno, in cui è fondamentale il ruolo dello spazio, integrato

nell’analisi.

Il dibattito sul metodo più appropriato all’analisi geografica non è nuovo. Da sempre in

bilico tra approccio positivista e quantitativo e approccio descrittivo e qualitativo, negli

ultimi anni la discussione si è incentrata sull’opportunità della decisa prevalenza nel ricorso a

strumenti d’indagine qualitativi, in particolare alle interviste e al case study, tipico della

svolta culturale in geografia. Questo orientamento è caratterizzato da un deciso approccio

epistemologico verso il carattere situato della ricerca in generale e di quella sociale in

particolare, dove tale aggettivo si riferisce all’influenza del contesto e della soggettività del

ricercatore nel sapere scientifico, in opposizione all’approccio “oggettivo” e “neutrale” che

aveva caratterizzato il metodo positivista. Un orientamento post-moderno sviluppato

sensibilmente nell’ambito del filone femminista che estende, parallelamente ai limiti

dell’oggettività della ricerca scientifica (Rose, 1997) il ricorso ad analisi qualitative,

soggettive, anche di stampo antropologico, nell’analisi geografica. Una tendenza che ha

interessato anche la geografia economica, dove attraverso interviste e indagini a scala ridotta,

si cerca di interpretare i fenomeni economici attraverso i differenti contesti sociali e settoriali

(Crang, 2002).

Questa decisa prevalenza nell’utilizzo di metodi e tecniche qualitative18

ha suscitato un

ampio dibattito che viene ben sintetizzato dal famoso articolo di A. Markusen (2003) circa la

pletora di concetti fuzzy utilizzati in geografia e l’abuso di metodi non quantitativi che

condurrebbero ad un sapere superficiale, non generalizzabile, in ultima analisi non

operazionalizzabile e quindi non utilizzabile nella pratica e nella loro traduzione in idee

operative per le politiche.

Secondo Kwan (2004) la geografia è stata negativamente influenzata dal modello

epistemologico khuniano che descrive l’evoluzione scientifica come una successione di

paradigmi che si succedono l’uno con l’altro attraverso punti di svolta che rappresentano

rotture rispetto al passato. Un modello non adatto alla geografia come disciplina in cui

coesistono contemporaneamente una molteplicità di prospettive teoriche e metodologiche. Il

dibattito binario sulla superiorità dell’approccio delle scienze “dure” ed esatte rispetto a

quello qualitativo sembra poter essere superato da un atteggiamento più dialettico e

possibilista nella scelta del metodo più adatto all’ambito della ricerca e alle domande a cui

intende rispondere il ricercatore, a favore quindi di un mix metodologico detto anche

18 Per una descrizione di metodi e tecniche qualitativi utilizzati per l’analisi urbana si veda Memoli (2011).

92

triangolazione (Loda, 2007, p. 138, Peck, 2003, p. 737) o forse in modo più efficace

ibridizzazione (Sui e DeLyser, 2012), il cui obiettivo principale è assecondare la

multidisciplinarietà della geografia e pervenire a risultati nell’analisi più coerenti con gli

obiettivi. In particolare, Kwan (2004, p.760) auspica la nascita di una geography of the third

kind che sembra poter offrire l’occasione di transitare oltre l’empasse del dibattito circa

l’approccio “qualitativo vs quantitativo” e di pervenire ad una sintesi soddisfacente per

l’analisi.

Tra i diversi turn a cui ci ha abituati la geografia negli ultimi anni, infatti, quello relativo

alla svolta metodologica olistica riveste per il nostro lavoro particolare interesse. Sui e

DeLyser (2012) identificano tre elementi, tre ibridi distintivi per questo nuovo framework

concettuale.

In primo luogo, l’esigenza di identità disciplinare e di sintesi in cui “hybrid transgress

and displace boundaries between binary divisions and in so doing produce something

ontologically new” (Rose, 2000). Le geografie ibride sembrano infatti andare oltre i

tradizionali confini tematici – geografia fisica, economica, umana, culturale – e metodologici

– geografia quantitativa, qualitativa - interni alla geografia, con l’obiettivo di integrare le

prospettive di analisi.

Inoltre, negli ultimi venti anni, la cosiddetta svolta spaziale ha rappresentato un elemento

unificante in diverse discipline delle scienze sociali (pensiamo al premio nobel per

l’economia assegnato ad un New economic geographer come P. Krugman nel 2008) ma

anche nelle discipline più quantitative quali per esempio, l’informatica. Questo percorso ha

in qualche modo ridisegnato anche il ruolo e l’identità della geografia che viene sempre più

tirata in causa come disciplina che può fornire spiegazioni della complessità della realtà. Ed

ha avuto notevoli riscontri operativi in quanto considerazioni relative all’importanza della

dimensione spaziale (space) e “locale” (place) entrano nell’agenda politica di numerosi

organismi internazionali: è il caso dell’Unione europea che aggiunge il termine “territoriale”

alle politiche di coesione, della Banca Mondiale che nel suo Rapporto 2009 (World Bank,

2009) sostiene come necessario un ridisegno della geografia economica mondiale.

Il terzo elemento riguarda invece la recente e massiccia disponibilità di dati geografici

disponibili grazie allo sviluppo del Web 2.0 e delle tecnologie geo-spaziali quali Gis

(Geographic information systems), Gps (Global positioning systems), Rs (Remote sensings)

e Lbs (Location-based services) che ha dato luogo a quella che è stata definita

“neogeography” (Batty et al., 2010). Di questo ci occuperemo più diffusamente nel

93

paragrafo successivo proprio per l’elevato interesse e le promettenti potenzialità che questa

tipologia di informazioni e di tecniche rappresenta per l’analisi geografia e, in particolare,

per gli obiettivi di questo lavoro.

5.3.1 Il web 2.0: opportunità e limiti

Attualmente, i dati geografici, se comparati a quelli disponibili anche soltanto del recente

passato, possono essere definiti come una “valanga” (data avalanche, Miller, 2010,) e

riguardano sia i dati provenienti dall’alto, dalle istituzioni o dalle imprese che attraverso i

chip presenti, per esempio, nei bancomat e nelle carte sanitarie, riescono a tracciare i nostri

percorsi di vita e a localizzarli geograficamente, sia quelli provenienti dal basso con

l’informazione definita Vgi (Volountered geographic information) prodotta direttamente

dagli utenti del web 2.0 cioè il web interattivo.

Questa nuova possibilità di analisi sembra contenere opportunità interessanti benché

ancora affette da limiti e vincoli scientifici, metodologici e legali. Per gli obiettivi del nostro

lavoro, ci limiteremo ad affermare l’interesse che questa produzione di informazioni riveste

sia per la possibilità di ottenere informazioni a scala locale fine (per esempio singoli quartieri

di una città) sia per il carattere “dal basso” di queste informazioni che, se aggregate, possono

costituire una fonte preziosa di informazioni da integrare ad altre fonti ufficiali.

Per gran parte della loro storia, le scienze sociali ed in particolare la geografia hanno

operato in un regime di decisa scarsità di dati ed informazioni dovuta alla difficoltà ed ai

costi di ottenere e gestire misurazioni della realtà a scale spaziali ridotte. Negli ultimi anni

assistiamo ad una vera e propria rivoluzione dovuta alla relativa facilità ed economicità con

cui le tecnologie informatiche rendono possibile ottenere grosse quantità di dati ed

informazioni relative ai comportamenti individuali e dei gruppi, prima neanche

immaginabili, in quella che potremmo definire il computational turn nelle scienze sociali

(Lazer et al. 2009).

Rispetto alle tecniche statistiche tradizionali che richiedono un disegno campionario

rigoroso e una serie di domande di ricerca definite ex ante, le informazioni che emergono da

questi enormi database costituiti dalle informazioni desumibili dallo sviluppo delle Ict,

rappresentano invece una fonte di informazioni e dati generata senza un disegno

campionario, incomplete e spesso prodotte per altri scopi (si pensi, per esempio, agli archivi

amministrativi). Nonostante questi limiti nella qualità dell’informazione, molti studiosi

94

(Miller, 2010, p. 188) ritengono che da questi enormi serbatoi di dati si possano trarre

informazioni valide per la generalizzazione, utili e nuove in un processo definito knowledge

discovery from database. Miller definisce questo processo una sorta di telescopio o

microscopio che permette al ricercatore di allargare la visuale sulla realtà per scoprire

elementi non osservabili attraverso le tradizionali tecniche di indagine statistica e che

rappresentano uno degli stadi nel processo di indagine. Uno stadio caratterizzato da un

ragionamento adduttivo in cui l’osservazione dei dati precede le ipotesi che sono

generalmente formulate in base alle risultanze del processo di esplorazione ed elaborazione

dei dati. In questo ambito il geospatial knoweldge discovery emerge come un sottodominio

di questo processo in cui i contenuti dei database sono spazialmente individuabili, cioè

singolarmente georeferenziabili, solitamente in termini di spazio euclideo anche se spesso

questi database offrono la possibilità di indagare anche altri tipi di relazioni che

caratterizzano le unità di analisi quali, per esempio, prossimità, connettività, direzione. Le

possibilità offerte da questa enorme disponibilità di dati geografici rappresenta una svolta

significativa in particolare per l’analisi di sistemi spaziali complessi come le città.

Miller (2010) individua tre tipologie principali di fonti che generalmente vengono

accomunate sotto il nome di Big data:

1. POS Point of sale data che rendono disponibile, attraverso la tracciabilità dei

pagamenti effettuati con le carte, le abitudini dei clienti ed i loro movimenti nello spazio;

2. LAT Location aware technologies rendono disponibili informazioni sulla

localizzazione degli utenti di telefonia mobile che si avvalgono di servizi quali news locali,

informazioni turistiche, social networking, ecc., anche se di scarsa portata operativa perché

mettono a rischio la privacy individuale e per questo motivo sono scarsamente utilizzati. In

questa tipologia di fonti possiamo includere anche le reti di rilevamento geografico

(geosensors) e ambientale quali stazioni di rilevamento della temperatura,

dell’inquinamento, ecc. Anche le tracce desumibili dall’uso di GPS, per esempio, rientrano

in questa categoria. Attraverso la tracciabilità dei movimenti effettuati dalle auto da

automobili con a bordo un GPS per motivi assicurativi, Rinzivillo et al. (2012), per esempio,

hanno evidenziato come i confini amministrativi delle provincie toscane di Pisa e Lucca,

coincidano con i pattern della mobilità degli abitanti che si spostano per le attività quotidiane

e quindi con le attività socio-economiche.

3. Internet. Mentre le precedenti tipologie catturano informazioni relative allo spazio

fisico, le informazioni desumibili dalla rete World Wide Web riguardano anche il

95

cyberspazio: telefonate, email, twitts, scambi di opinioni sui social networks rendono

possibile, attraverso tecniche specifiche che si vanno progressivamente affinando, la

comprensione delle dinamiche relazionali di gruppi e comunità.

Le possibilità offerte da questa nuova tipologia di dati per l’analisi geografica sono

enormi. Infatti, un subset di queste informazioni, definito come Volunteered geographic

information (Vgi) (espressione coniata da Godchild, 2007) indica che gli utenti, attraverso

interfacce ad hoc definite new spatial media, quali per esempio Twitter, GeoAPI, Google

Hearth, Foursquare, Gowalla, hanno la possibilità di creare informazione geografica

geolocalizzando le proprie informazioni (twitts, ricerche, fotografie, filmati, blog, ecc.).

Dando così luogo ad un’informazione dai formati disparati (numeri, testi, racconti, foto,

video, simulazioni, musica,…) in cui, più che nell’analisi, l’innovazione e la ricerca vanno

orientate nella sintesi di questi contenuti così diversi, in una sorta di mush up di layers

diversi, per usare la terminologia dei Gis.

L’aggettivo volontario indica proprio il carattere spontaneo ed estemporaneo che pone

questa tipologia di informazione in netto contrasto con le tradizionali pratiche di mappatura

fornite dalle autorità istituzionali, che per Elwood et al. (2012, p. 585) rappresentano una

delle manifestazioni principali caratterizzanti il XXI secolo come uno spatial century.

L’enorme quantità di osservazioni disponibili in tempo reale compensa, in parte, i bias

risultanti dall’autoselezione dovuta all’assenza di un campione ragionato alla sua base.

Attualmente, solo per fornire una approssimazione dell’entità di questi giganteschi database,

gli utenti di Twitter ammontano 554,750,000 di account con una media di 58milioni di twitt

giornalieri (Fonte: http://www.statisticbrain.com/twitter-statistics/ visitato il 31/5/2013). In

termini tecnici, si tratta di tera e peta-bytes di dati la cui applicabilità è già una realtà in molti

settori come la medicina (per monitorare i flussi di influenza, per esempio, attraverso i

twitts), nella sicurezza (usando le Vgi nella distribuzione dei soccorsi in caso di calamità

naturali), nell’analisi del voto (la rielezione di Obama, nel novembre 2012, è stata prevista,

con precisione geografica, attraverso l’uso dei twitts di milioni di utenti americani).

Se le potenzialità offerte dai Big data sono senza dubbio entusiasmanti per l’analisi

geografica, va detto che permangono numerosi problemi aperti in particolar modo

relativamente a dimensione, qualità, problemi connessi al tempo e accessibilità.

96

- La dimensione dei data base infatti non rappresenta soltanto un vantaggio ma

implica infrastrutture informatiche impegnative in termini di archiviazione e

trattamento dei dati disponibili.

- La qualità di questi dati non può essere valutata in modo univoco in quanto

l’affidabilità, la consistenza e la completezza dell’informazione, la disponibilità di

metadatati dipendono dagli specifici contesti in cui essa viene prodotta.

- I Big data sono in molti casi estremamente volatili nel tempo ed hanno una loro

usabilità e validità che dura anche poche ore, rendendone il trattamento e l’analisi

estremamente difficile (si pensi alle informazioni ricavate dai twitts).

- I Big data non sono necessariamente Open data. Infatti, molti dati sono prodotti da

grosse compagnie (per esempio Google, Facebook) che non rendono disponibili tutte

le informazioni esistenti, sia per motivi di competitività tra i concorrenti sia per

motivi legati alla privacy degli utenti, uno dei fattori più problematici

dell’informazione proveniente dal Web 2.0.

Per il nostro lavoro questa fonte di informazioni dal basso, definita anche Digital

Humanities, per le opportunità offerte nella conoscenza dei fenomeni umani, riveste uno

straordinario interesse per tutti gli aspetti connessi al versante individuale della visione della

città e della giustizia spaziale, per cercare di conoscere quello spazio vissuto e relazionale

che solitamente le indagini statistiche non riescono a rappresentare, in particolare a livello

urbano o sub-urbano, per tracciare pattern geo-sociali che sono stati definiti livehoods:

quartieri (neighbourhoods) delimitati non soltanto in base alla prossimità geografica ma

anche alle similarità culturali delle persone che forniscono l’informazione geo-taggando le

loro attività quotidiane.

Anche dal punto di vista metodologico, questa enorme mole di dati geografici offre spunti

interessanti. Alcuni studiosi identificano addirittura una rottura di paradigma nella

metodologia della ricerca, il cosiddetto quarto paradigma (Elwood et al., 2013, Hey et al.,

2009), che potrebbe rivestire un ruolo importante nel dibattito geografico sul metodo e “may

lead to broader efforts at crossing the qualitative-quantitative chasm” (Sui e DeLyser,

2012), sempre nell’ambito di una pluralità di metodi per evitare il rischio di un nuovo

strumentalismo (Agnew, 2012).

97

Conclusioni

I capitoli appena conclusi hanno permesso di definire con più precisione il concetto di

giustizia spaziale, le sue specificità, le sue implicazioni per le politiche, il suo potenziale per

l’analisi geografica.

E, seppur con i limiti di un lavoro di tesi, circoscritto nel tempo, di rispondere o almeno

iniziare a rispondere alle domande di ricerca poste in apertura.

La giustizia spaziale emerge come l’unione di giustizia e spazio, del loro coesistere in

relazione dialettica, intertwined and mutually constitutive. Attorno a questi due termini

polisemici, entrambe essentially contested, dal lessico a tratti poco chiaro, usati spesso come

sinonimi di altri concetti vicini (giustizia territoriale, città giusta, per esempio), dai significati

multiformi e scivolosi, abbiamo costruito mano a mano che l’analisi avanzava un perimetro

teorico e concettuale che ha permesso di caratterizzare la giustizia spaziale come un concetto

emergente e con una spiccata attualità politica.

Per cercare di pervenire ad un assetto teorico del concetto, abbiamo analizzato i concetti

di giustizia e spazio, il loro significato, la loro posizione nel dibattito contemporaneo, le loro

potenzialità nella spiegazione delle differenze sociali e spaziali.

Individuare una precisa definizione di giustizia, a cui lo stesso Voltaire si diceva incapace

a rispondere, non costituisce l’oggetto del nostro lavoro. Il dibattito sulla giustizia sociale,

articolato, molteplice ed intractable per citare Pirie, sintetizzato nel primo capitolo, ha

mostrato che non esiste un ideale di giustizia universale da applicare in modo predeterminato

ai diversi contesti sociali e politici. In bilico tra universalismo e particolarismo, tra

redistribuzione e riconoscimento questa indeterminatezza definitoria comporta tuttavia il

rischio dell’inazione politica.

Per uscire dall’impasse e pervenire ad una definizione di giustiza accepted without

misunderstandigs abbiamo fatto ricorso ad Harvey che inserisce la decostruzione

postmoderna dei valori universali in alcune permanenze di cui siamo circondati nella nostra

vita quotidiana: cioè le concrete condizioni di vita materiale, in cui identificare, al di là delle

98

differenze, “le similarità che offrono le basi per la comprensione dei diversi gruppi e

costruire alleanze”, similarità identificate nella lotta al sistema capitalistico ed alle sue

espressioni: commodities, economia di mercato, accumulazione di capitale. E’ questa la

permanenza da costruire per cercare una definizione di giustizia sociale without

misunderstandings e per realizzare politiche che andando oltre la denuncia e la soluzione

delle ingiustizie cerchino alla radice le cause delle ingiustizie in modo strutturale, mettendo

in discussione il sistema che le ha generate. E’ la tensione verso la giustizia, quella che

Harvey definisce the struggle for justice, più che la giustizia in sé dato che nel sistema

attuale essa rappresenta un ossimoro.

L’approccio del materialismo storico-geografico di Harvey ha sicuramente due vantaggi:

mediare le istanze di redistribuzione e riconoscimento e inserire l’idea di giustizia sociale in

un contesto fortemente localizzato sia storicamente che geograficamente in cui l’universalità

del concetto è rappresentato dal capitalismo e dalle sue forme di oppressione sociale,

economica e culturale. Qualcosa di qui ed ora, che si deve contestualizzare in un luogo, deve

avere luogo. Questo approccio consente, analizzando il dove ed il come le ingiustizie hanno

luogo, di contestualizzare la giustizia sociale in ambiti socialmente prodotti più che in

astrazioni universalistiche e idealizzate.

Tuttavia, Harvey non procede oltre questa visione della giustizia situata: per lui le

causalità sono già definite, in quanto il sistema capitalistico è per natura creatore di

ingiustizie e disuguaglianze spaziali. Sono Soja e Dikeç che invece spingono all’estremo il

ruolo dello spazio nell’analisi della giustizia sociale.

Cosa aggiunge lo spazio in questa ricerca della giustizia sociale? Per Soja la lezione è

chiara: una volta create e iscritte nello spazio, le ingiustizie spaziali sono difficili da

cancellare e per supportare le sue idee sulla spazialità della giustizia elabora una serie di

argomentazioni fondate sui tre principi fondamentali del suo critical spatial thinking:

1. l’ontologia spaziale di tutti gli esseri viventi: tutti noi viviamo in una dimensione

spaziale oltre che sociale e temporale;

2. la produzione sociale della spazialità: lo spazio è un prodotto sociale e può per

questo essere cambiato;

3. la dialettica socio spaziale: i fenomeni sociali influenzano quelli spaziali tanto

quanto questi influenzano i fenomeni sociali.

99

Le interazioni tra spazio, inteso come socialmente prodotto, e giustizia costituiscono

un’opportunità per l’analisi sociale: l’ingiustizia sociale si traduce in forme spaziali e allo

stesso tempo l’organizzazione sociale dello spazio è produttrice di ingiustizia. Non c’è un

legame meccanico ma piuttosto, un processo dinamico e complesso che si svolge nel tempo e

nello spazio. Chiarisce bene Dikeç il rapporto causale e dialettico tra spazio e giustizia

quando parla di spazialità dell’ingiustizia e ingiustizia della spazialità. Nel primo caso

significa che la giustizia ha spesso una dimensione spaziale che può essere vantaggiosamente

analizzata, per esempio, dallo studio dei patterns distributivi nello spazio del fenomeno

oggetto di studio. E’ il caso dei Bus Riders Unions di Los Angeles citato da Soja e riportato

nel capitolo 4. La decisione di costruire una rete di trasporti metropolitani basata sui criteri

dell’efficienza senza tener conto delle esigenze di mobilità quotidiana di migliaia di

lavoratori delle periferie è l’esempio di come un processo politico ingiusto possa iscriversi

nello spazio e determinare a sua volta altre forme di ingiustizia sociale, quali per esempio, la

discriminazione all’accesso alla mobilità pubblica per alcune categorie di abitanti. Nel

secondo caso, l’ingiustizia della spazialità, implica che le strutture spaziali esistenti

(permanences) siano in grado di produrre e riprodurre le ingiustizie through space.

Confrontato alla “spazialità dell’ingiustizia” questo è un concetto più dinamico e process

oriented.

Questa concettualizzazione implica due punti importanti:

- L’analisi non può essere limitata al fenomeno in sé ma deve essere estesa anche alle

componenti del fenomeno

- Forma e processo sono inseparabili a devono essere considerati insieme.

L’enfasi va posta quindi sullo spazio come produttore e riproduttore di relatively stable

structures (permanences) e, allo stesso tempo, come processo a sua volta da esse prodotto e

riprodotto. Non sullo spazio per sé ma sul processo che produce lo spazio e sulle

implicazioni che questa produzione di spazio ha sulle dinamiche sociali, economiche e

politiche. Spazio che per Harvey come per Dikeç si manifesta attraverso la mediazione di

permanenze.

In questa prospettiva il concetto di giustizia spaziale diviene un potente discorso in grado

di mobilitare l’azione politica e di coagulare le critiche e l’azione contro le forme di

spazialità dell’ingiustizia, come abbiamo visto nei numerosi movimenti ispirati al diritto alla

città descritti nel capitolo 4. Non ci dice se un particolare evento è giusto o ingiusto ma ci

aiuta ad esplorare i processi sociali, spaziali, economici e politici nel loro dinamiche di

100

produzione e riproduzione di permanences che possono essere considerate ingiuste: non

soltanto visibili nell’ambiente costruito ma anche in forme meno visibili come per esempio

lo spazio dei flussi, della distribuzione, delle reti di produzione. E in questo potrebbe

rappresentare l’apparato concettuale di politiche orientate alla produzione dello spazio, in

particolare a livello urbano.

E’ infatti la città, non soltanto definita nella sua fisicità di case, strade, negozi, uffici, ma

spazio del vissuto quotidiano e dell’identità di chi la abita, in opposizione alla città

rappresentata, per usare la terminologia di Lefebvre, come luogo e metafora della

competitività globale, in cui si è compiuta una sorta di interiorizzazione della logica di

mercato nella gestione delle politiche locali e urbane che ha ormai definitivamente ratificato

la validità del discorso della città come polo di attrazione di capitali attraverso la pratica del

marketing territoriale.

E’ nello spazio urbano che il concetto di giustizia spaziale può essere sperimentato nella

sua operatività politica. Sia nella sua versione più radicale di diritto alla città che ha portato

alla nascita di numerosi movimenti di opposizione al modello di sfruttamento dello spazio

urbano, che in Brasile ha addirittura prodotto un capitolo ad hoc nella costituzione del paese

relativa alla funzione sociale della proprietà, sia nella versione più riformista di città giusta

che fornisce, attraverso un disegno meno utopistico del precedente, gli strumenti di

transizione dall’attuale modello di gestione dello spazio urbano nell’ambito del modello

capitalistico ad uno più socialmente giusto.

In entrambe le visioni di giustizia spaziale in città emergono due elementi interessanti. In

primo luogo, la natura double-sidedness delle ingiustizie spaziali, vale a dire che a loro volto

oppressivo uniscono, in potenza, una forte spinta alla liberazione e quindi all’azione sociale.

In secondo luogo, un deciso orientamento verso i diritti e i beni comuni nella formulazione

di politiche urbane giuste. La città sembra rappresentare l’ultimo baluardo a difesa dei beni

comuni il luogo dove la moltitudine, il nuovo soggetto politico proposto da Hardt e Negri

dopo la fine della classe operaia, può dar vita attraverso la densa rete di relazioni sociali, ad

un nuovo immaginario politico e ad un cambiamento sociale, anche attraverso la produzione

e riproduzione di spazio, trovando in tal modo un forte legame tra beni comuni e giustizia

spaziale.

E’ quindi sul concetto di spazio che bisogna lavorare per transitare dalla

concettualizzazione del termine verso il suo versante empirico e un lavoro interpretativo sul

campo. Uno spazio che assume, in questa prospettiva, una portata diversa dalla usuale

101

visione di contenitore di fenomeni sociali per diventare key word (Harvey, 2006), elemento

per l’interpretazione e la spiegazione della realtà sociale.

Se conoscere meglio vuol dire avere gli strumenti per agire meglio, allora risulta

indispensabile fornire gli elementi metodologici per comprendere sul campo la giustizia nelle

sue relazioni spaziali e cercare di tradurla in pratiche e proposte politiche.

Il ruolo preminente dello spazio nel concetto di giustizia spaziale ha numerose

implicazioni di carattere analitico e metodologico. In primo luogo, significa che analizzare le

realtà socio-spaziali in questa chiave di lettura determina un restringimento del campo di

indagine a quei fenomeni che sono iscritti nello spazio, a quelle permanenze in cui forma e

contenuto, risultato e processo si pongono in tensione dialettica dando luogo ad una sorta di

cumulatività autoalimentantesi. In altre parole, alla spazialità dell’ingiustizia e all’ingiustizia

della spazialità. E’ il caso, come abbiamo visto, di alcune dimensioni che caratterizzano il

complesso e multidimensionale fenomeno della diffusione urbana, denominato sprawl. In

secondo luogo, questa tipologia di analisi richiede metodi e strumenti di indagine adeguati

alla specificità delle istanze teoriche del concetto.

Per rispondere a questa esigenza abbiamo avanzato nello studio una proposta

metodologica per rappresentare la giustizia spaziale. Alla luce della complessità del

concetto, infatti, una semplice misurazione e quantificazione sarebbe stata riduttiva per la

sua completa comprensione. E’ per questo che abbiamo proposto un esercizio metodologico

sperimentale, da testare in situazioni e contesti reali.

Il primo passo di questo esercizio consistente nel decostruire il concetto di giustizia

spaziale nelle sue diverse manifestazioni in base alla tripartizione di spazio assoluto, relativo

e relazionale avanzata da Harvey già quaranta anni fa (Harvey, 1969) rappresenta già un

passo in avanti per individuare con più efficacia i meccanismi e le relazioni che si istaurano

nei fenomeni iscritti nello spazio.

A questa tripartizione Harvey aggiunge in seguito, con un deciso quanto inaspettato

afflato post-moderno, le categorie lefebvriane in cui si accorda una nuova importanza al

soggetto, alla sua posizionalità nell’analisi dei fenomeni spaziali, all’abitante (nella sua

accezione di abitante della città) con la sua percezione della realtà (spazio percepito) e le sue

sensazioni ed emozioni (spazi di rappresentazione). Introduce inoltre, attraverso la categoria

della rappresentazione dello spazio il problema del potere politico che attraverso le

rappresentazioni mediate della realtà produce e riproduce lo spazio influenzandone la

percezione, la fruizione, l’uso.

102

Il risultato è la matrice delle spazialità in cui le differenti posizioni rappresentate dalle

celle della matrice ci consentono, se cristallizzate, di identificare i fenomeni nello spazio,

scomponendoli e, attraverso un percorso inverso di movimento dialettico tra le celle, di

ricomporre una loro lettura complessa.

Un esercizio che sembra quanto mai adeguato ai risultati della nostra analisi teorica da cui

emerge un quadro complesso nella sua traduzione operativa. E che richiede strumenti

metodologici nuovi che abbiamo identificato in quelle hibryd geographies che integrando

diverse metodologie di analisi, ci consentono, pur in un percorso articolato e da testare sul

campo, di andare oltre i tradizionali confini tematici – geografia fisica, economica, umana,

culturale – e metodologici – geografia quantitativa, qualitativa - interni alla geografia, con

l’obiettivo di integrare le prospettive di analisi.

I risultati attesi sono di ordine scientifico e politico. Rappresentare meglio vuol dire,

infatti, anche avere un supporto per agire meglio. Uno strumento critico e attivo, al tempo

stesso unico nella sua specificità che non aspira a diventare un classificatore di territori come

le tanto diffuse graduatorie che sempre di più si affiancano al Pil e che conservano una

logica in cui l’unità territoriale emerge come uno spazio chiuso che vince o perde nei

confronti di altri spazi simili e di cui sono ignote le dinamiche interne ed esterne in termini di

relazioni. L’obiettivo è duplice: evitare di cadere nella trappola del determinismo statistico

per cui gli indicatori fanno le politiche e, allo stesso tempo, in quella territoriale per cui i

fenomeni contenuti in un perimetro amministrativo sono letti in modo statico e isolato.

Introdurre una dimensione di spazio vissuto accanto a quella tradizionale di spazio

assoluto vuol dire introdurre, anche attraverso la problematizzazione del lessico

comunemente usato e abusato, sia nell’analisi che nelle politiche, la dimensione delle

persone che questi spazi producono e riproducono. Come afferma Harvey (2006, p.154)

“thinking through the different ways in which space and space-time get used as keywords

helps define certain conditions of possibility for critical engagement. […]. It invites us to

consider the ways we physically shape our environment and the ways in which we both

represent and get to live in it”.

103

Sintesi

I Parte (capitoli 1, 2 e 3) - Il dibattito teorico: dalla giustizia sociale alla giustizia spaziale

Negli ultimi trenta anni la transizione da un’economia di tipo keynesiano alla new

economy di stampo neoliberale ha provocato l’esacerbarsi delle differenze socio-

economiche, dando luogo a una moltitudine di rivendicazioni e movimenti sociali “dal

basso” che hanno contribuito a rinvigorire un dibattito multidisciplinare sulla giustizia

sociale.

In estrema sintesi, il dibattito odierno può essere definito come in bilico tra due istanze

principali: giustizia come redistribuzione di beni materiali e immateriali e giustizia come

riconoscimento dei diritti, della diversità di razza, genere, orientamento sessuale, religione.

Da una parte, con un approccio universalistico e normativo, l’accento viene posto sulla

giustizia come equità, come distribuzione equa dei beni materiali ed immateriali. E’ la tesi di

J. Rawls che nel 1971 pubblica A theory of Justice. Un testo che ha aperto un varco nella

visione liberista di Hayek per cui “la giustizia è l’efficienza e l’efficienza è la distribuzione

affidata al mercato”.

Dall’altra, troviamo invece la tradizione del pensiero marxista, di cui D. Harvey

rappresenta uno degli esponenti principali, per cui la giustizia è un ossimoro in una società

capitalistica e coincide quindi con la “lotta per la giustizia” per scardinare il sistema di

produzione capitalistico (D. Harvey, 1978).

Agli inizi degli anni ’90, queste posizioni sono duramente contestate dal pensiero

femminista americano, in particolare da Iris Marion Young per cui la giustizia deve andare

oltre la semplice redistribuzione delle risorse ma deve, invece, integrare la diversità di razza,

sesso, religione, sessualità e coincidere, quindi, con la recognition, il riconoscimento della

diversità.

Anche D. Harvey, aprendo in qualche misura le sue posizioni marxiste al dibattito sulla

giustizia come riconoscimento della diversità, riconosce un ruolo importante agli aspetti

104

legati allo status culturale e identitario delle persone ma rimane fermo sul fatto che è

l’identità di classe e, più in generale, la lotta al modello di sviluppo capitalistico, che deve

riunire le differenti diversità, pena il perdersi in particolarismi e in derive comunitariste

tipiche dei numerosi movimenti per rivendicazioni locali (si pensi alla causa ambientalista e

ai movimenti Nimby), in quello che A. Kobayanshi (1982) ha definito il ”post-modern

nightmare: nothing but diversity”.

E’ su questa strada che N. Fraser (1995) tenta di integrare le due posizioni del dibattito

diviso tra redistribuzione e riconoscimento, partendo dal dato che le due forme ingiustizie

sono spesso legate (povertà ed emarginazione sociale, razziale e culturale).

Come interviene la geografia in questo dibattito? Qual è il passaggio dalla giustizia

sociale alla giustizia spaziale? Quali sono le specificità del concetto?

La geografia analizza il concetto di giustizia sociale nello spazio essenzialmente in due

modi.

Il primo filone di contributi tra i quali possiamo citare B. Davies (1969), A. Reynaud

(1981), G. Pirie (1983) ha in comune una prospettiva di analisi che possiamo definire

“tradizionale” nel senso che l’analisi dell’equità e della distribuzione delle risorse nello

spazio viene effettuata attraverso una prospettiva comparativa tra territori e il concetto di

spazio utilizzato è quello tradizionale.

Il secondo invece, in una prospettiva critica, integra lo spazio come supporto ontologico e

come parte integrante delle spiegazioni dell’in/giustizia sociale e quindi come “prodotto

sociale”. La giustizia sociale diviene, in questa prospettiva, un valore fortemente localizzato

e contingente, con un’enfasi sugli aspetti spaziali della giustizia e dell’ingiustizia in cui

“unire insieme i termini giustizia e spazio può aprire una gamma di nuove possibilità” per

l’analisi geografica (Harvey, 1973). E’ la metodologia che caratterizza, seppur con elementi

di diversità, i contributi fondamentali di D. Harvey (1973, 1996, 2006), E. Soja (1989, 2010),

M. Dikeç (2001, 2009).

Al di là delle sue formulazioni teoriche ed ideologiche prima richiamate, il concetto di

giustizia spaziale appare come un “potente discorso” in grado di mobilitare l’azione politica

(Harvey, 1996) e di rappresentare una discontinuità nel quadro delle politiche locali/urbane

di matrice neoliberista ispirate alla competitività dei territori e delle città. Esso rappresenta,

inoltre, un valido supporto analitico per identificare e comprendere non soltanto gli outcomes

delle politiche urbane/locali ma anche i processi di produzione di geografie “ingiuste”: di

comprendere l’ingiustizia della spazialità e la spazialità dell’ingiustizia (Dikeç, 2009).

105

E’ lo spazio come prodotto sociale ad emergere come protagonista dell’analisi e, in

questa chiave, analizzare la giustizia spaziale significa comprendere non soltanto le relazioni

dialettiche tra le diverse condizioni socio-economiche dei diversi gruppi (sociali, culturali,

ecc.) ma anche come la produzione sociale dello spazio impatta sui diversi gruppi e le

proprie opportunità. “Il sociale e lo spazio sono dialetticamente intrecciati tra loro (spesso

problematicamente), in modo formativo e consequenziale” (E. Soja, 2010).

La definizione di giustizia spaziale, al di là dei suoi contenuti teorici relativi all’idea di

giustizia e alle sue implicazioni politiche, è contraddistinta dall’approccio critico proposto da

Soja e Dikeç, caratterizzato da una diversa concettualizzazione dello spazio: spazio come

prodotto sociale, spazio di relazioni e non semplice contenitore di fenomeni umani da

analizzare e mappare su una superficie omogenea e neutrale.

Una più articolata concettualizzazione dello spazio è quindi il primo passo per tentare di

chiarire il concetto di giustizia spaziale e, al tempo stesso, cercare di fornire gli elementi

metodologici per la sua rappresentazione, un aspetto quasi mai affrontato in letteratura e che

costituirà l’oggetto dell’ultimo capitolo di questo lavoro. Una delle aree deboli della

letteratura sul tema infatti sembra essere proprio la mancanza di elementi concreti, sia

metodologici che empirici, su come rappresentare il concetto. Un tema che risulta invece

centrale considerati i contenuti del concetto di giustizia spaziale, funzionale alla pratica

politica, in particolare a livello urbano.

Parlare di giustizia spaziale implica quindi una revisione del concetto di spazio così come

tradizionalmente concepito ed utilizzato nell’analisi geografica tradizionale, quella di

tradizione quantitativa e positivista. Ecco perché il terzo capitolo è dedicato ad una

digressione concettuale sullo spazio che ha poi conseguenze sulle metodologie che

adotteremo nella costruzione di un modello critico di rappresentazione della giustizia

spaziale. Lo spazio, quindi, come elemento fondante del concetto di giustizia spaziale e

come fondamento della sua rappresentazione. Uno spazio che diventa, in questo prospettiva,

key word (Harvey, 2006), elemento per l’interpretazione e la spiegazione della realtà sociale.

II parte (capitolo 4) - Le pratiche politiche: il diritto alla città e la città giusta

Perché la città è la scala preferita per mettere alla prova le teorie sulla giustizia spaziale?

Sono molteplici le spiegazioni. Da un punto di vista concettuale, la città si può considerare

106

come spazio di prossimità di legami deboli, di diversità sociali e culturali e quindi,

potenzialmente, del conflitto sociale, in opposizione all’omogeneità di valori e di identità

della campagna.

Negli ultimi trenta anni, inoltre, le città, al pari delle regioni sono state oggetto di

significative trasformazioni sia dal punto di vista morfologico che funzionale e una

competizione più accesa si è instaurata tra città come attrattori di capitali ed investimenti (si

pensi ai nuovi concetti di brand e di marketing territoriale e di consumatori (in particolare

quelli appartenenti alla cosiddetta società affluente e alla classe “creativa”) attraverso la

creazione di amenità e di luoghi di consumo massificati e la progressiva contrazione degli

spazi pubblici.

In questa chiave di lettura, la città genera ingiustizie ed ineguaglianze, ghettizzazione

degli immigrati, crescente povertà, frammentazione politica, sprawl, servizi pubblici

inadeguati, declino dei centri urbani, gentrification, aree dismesse da precedenti fasi di

industrializzazione. Non possiamo non considerare lo spazio urbano come luogo del

malessere e dell’ingiustizia sociale quindi come oggetto primario di politiche finalizzate alla

giustizia e come fenomeno da misurare e monitorare per comprenderne l’evoluzione.

Dal dibattito prima richiamato derivano sia i movimenti politici e le lotte ispirate al diritto

alla città (Carta mondiale per il diritto alla città o Just space a Londra, per esempio) sia le

teorie di pianificazione riformista sulla città giusta.

Il diritto alla città è ispirato all’opera di H. Lefebvre “Le droit à la ville” (1970) che

introduce il tema dei diritti degli abitanti che non si limitano ad una distribuzione equa delle

risorse economiche ma si estendono, invece, al diritto di decidere dei propri spazi, oltre la

logica del profitto. Questo concetto ha costituito il manifesto e lo slogan di numerosi gruppi

di azione e di movimenti dal basso nati a livello locale e globale che rispetto all’originaria

definizione lefebvriana arricchiscono il concetto di elementi che attengono alla diritto alla

diversità (razziale, sessuale, di genere, religiosa, culturale) e ai diritti connessi ai temi

ambientali che negli ultimi anni divengono centrali anche a livello urbano.

S. Fanstein (2009) adotta, invece, un approccio normativo e meno radicale per definire la

sua idea di Just city. Propone tre criteri per valutare il grado di giustizia di una città:

uguaglianza, democrazia, diversità e identifica Amsterdam come la città che più si avvicina,

nella realtà, alla sua definizione di città giusta.

Al di là delle diverse prescrizioni normative sulla giustizia/ingiustizia che possono

contenere le politiche presentate, emerge l’esigenza, nell’ottica della dialettica socio-spaziale

107

di Soja, di una visione problematica delle politiche territoriali. Non si tratta quindi solo di

discernere giusto da ingiusto, attraverso giudizi di valore che sono invece demandati agli

specifici processi decisionali e politici, ma di proporre il concetto di giustizia spaziale come

strumento scientifico di comprensione della complessità delle azioni che si effettuano nello

spazio, per cercare di superare la visione legata troppo spesso al mantra “competitività” dei

territori che ha caratterizzato larga parte delle politiche locali degli ultimi anni (Bristow,

2011).

III Parte (capitolo 5) - Metodologie e strumenti di rappresentazione della giustizia

spaziale

Come rappresentare il concetto di giustizia spaziale e renderlo operativo nell’analisi

geografica, nella pianificazione urbana e nella valutazione delle politiche? Come

rappresentare lo spazio urbano dell’ingiustizia? Come descrivere, misurare, quantificare ma

al tempo stesso raccontare la città in/giusta, in base alle indicazioni emerse dal dibattito

teorico e dalle pratiche spaziali emergenti?

Le implicazioni di questa fase del lavoro sono di natura concettuale e metodologica e

vengono affrontate in due fasi:

1. Integrazione dello spazio nell’analisi della giustizia spaziale

Il primo passo da compiere consiste nell’esaminare, scomponendole, le diverse

concezioni dello spazio che possono essere funzionali all’analisi del tema. Così come già

argomentato nella prima parte del lavoro ed in accordo con l’analisi teorica, lo sforzo da

attuare è quello di incorporare e integrare nella rappresentazione della giustizia spaziale una

definizione di spazio non soltanto euclidea cercando di concettualizzare una visione dello

spazio relazionale e discontinuo (Allen et al. 1998) in cui necessitano di una revisione anche

i tradizionali costrutti geografici di luogo, regione, locale e globale e tutte le gerarchie scalari

“nidificate” a cui ci ha abituati la geografia di stampo descrittivo e quantitativo.

Per tentare di concettualizzare una dimensione di spazio adeguata ad una lettura della

giustizia spaziale a livello locale/urbano e, al contempo, limitare i vincoli che un approccio

esclusivamente relazionale allo spazio impone ad una rappresentazione strutturata, il lavoro

fa ricorso alla matrice delle spazialità di D. Harvey (2006).

108

La matrice della spazialità è un esercizio speculativo che può essere adottato per tentare

di strutturare un sistema di rappresentazione critica sulla giustizia spaziale. Ciascuna

tipologia di spazio (spazio assoluto, spazio relativo, spazio relazionale) incrocia, nella

matrice, le categorie lefebvriane di spazio pratico, rappresentazione dello spazio e spazio

della rappresentazione (H. Lefebvre, 1978).

La sua specificità è quella di accogliere nell’analisi del fenomeno in esame le diverse

dimensioni della spazialità (con un’enfasi sulla materialità dei fenomeni spaziali), partendo

dal presupposto che “the reduction of everything to fluxes and flows, and the consequent

emphasis upon the transitoriness of all forms and positions has its limits” (Harvey, 1996,

p.7).

2. Adozione di una metodologia di analisi “ibrida”

Il passo ulteriore proposto nel lavoro è quello di testare la validità esplicativa della

matrice attraverso un caso concreto. L’esempio considerato riguarda lo sprawl urbano, che

scegliamo, nonostante la sua complessità, come un fatto stilizzato, come un fenomeno in cui

possiamo osservare l’intricata rete di rapporti causali tra spazio e società. Partendo dalla sua

materialità (permanences) (forma e densità urbana espressa in quantità misurabili, per

esempio) possiamo scomporre il fenomeno nelle sue diverse componenti che impattano nelle

diverse tipologie di spazio.

L’obiettivo di questo esercizio è quello di ottenere una rappresentazione del fenomeno

meno parziale e non a “celle separate” (Harvey, 2006) e di tentare di integrare, a partire dal

dato fisico (la forma urbana dispersa prodotta dallo sprawl, a cui molte analisi del fenomeno

sembrano limitarsi), le sue relazioni sia con altri livelli di spazio sia con i suoi impatti

sociali, collettivi ed individuali.

A ciascuna tipologia di spazialità del fenomeno così scomposto è associata una diversa

modalità di analisi e uso dei dati/informazioni. Dal punto di vista operativo, questo significa

affiancare, e tentare di integrare, le fonti secondarie (dati amministrativi, fonti statistiche e

censuarie, ecc.) e le fonti primarie (interviste, focus group, ecc. a livello locale), a materiali

multimediali e alla immensa produzione di informazioni proveniente dallo sviluppo del web

2.0 (social network, in particolare) denominata Big Data che rappresenta un enorme

potenziale informativo per l’analisi geografica (Sui e DeLyser, 2012).

I risultati attesi sono essenzialmente due: superare la tradizionale dicotomia

spazio/territorio che limita la comprensione dei fenomeni complessi (quali la giustizia

109

spaziale a scala urbana) e far convergere, attraverso un approccio integrato (Sui e DeLyser,

2013, 2013a), le fonti statistiche ed informative disponibili, quantitative e qualitative, per

cercare di pervenire ad una conoscenza della giustizia spaziale in grado di raccontare e

rappresentare, oltre che quantificare, la giustizia spaziale nella sua complessità.

110

Riferimenti bibliografici

Agnew J. (1994), The Territorial Trap: the Geographical Assumptions Of International

Relations Theory, Review of International Political Economy, 1, 1, 53-80.

Agnew J. (2010), Still Trapped in Territory?, Geopolitics, 15, 4, 779-784.

Agnew J (2012), A Review of Envisioning Landscapes, Making the Worlds: Geography and

the Humanities”, Annals of the Association of American Geographers, 102, 514-516.

Allen J., Massey D., Cochrane A. (1998), Rethinking the Region, Routledge, London.

Allen J., Cochrane A. (2007), Beyond the Territorial Fix: Regional Assemblages, Politics

and Power, Regional Studies, 41, 9, 1161–1175.

Amin A. (2006), The Good city, Urban Studies, 5/6, 1009-1023.

Amin A (2007), Rethinking the Urban Social, City, 11, 1, 100-114.

Bagnasco A., LeGales P. (eds) (2000), Cities in Contemporary Europe, Cambridge

University Press, Cambridge.

Bailly A. (1981), Geographie du bien-etre, PUF, Paris.

Barca F. (2009), An Agenda for a Reformed Cohesion Policy. A place-based approach to

meeting European Union challenges and expectations. Independent Report prepared

at the request of Danuta Hübner, Commissioner for Regional Policy.

Batty M., Hudson-Smith A., Milton R., Crooks A. (2010), Map Mashups, Web 2.0 and the

Gis Revolution, Annals of GIS, 16, 1-13.

Bhome K., Richardson T., Dabinett G., Jensen O. (2004),Values in Vacuum? Multi-level

Analisys of the Governance of European Space, European Planning Studies, 12, 8,

1175-1188.

Bignante E. (2011), Geografia e ricerca visuale. Strumenti e metodi, Lateza Bari.

Brenner N., Theodore N. (2002), Cities and the Geographies of “Actually Existing

Neoliberalism”, Antipode, 34, 3, 349–379.

Brenner N. (2009), What is critical urban theory?, CITY, 13, 2-3, 195-204.

Brenner N., Marcuse P., Mayer M. (2009), Cities for People, not for Profit, City, 13, 2-3,

176-184.

Bristow, G. (2011), Critical Reflections on Regional Competitiveness, London, Routledge.

Brown A., Kristiansen A. (2009), Urban Policies and the Right to the City. Rights,

responsibilities and citizenship, UN-Habitat, United Nations,

http://unesdoc.unesco.org/images/0017/001780/178090e.pdf, scaricato il 10-6-2013.

Callon M., Law J. (2005), Guest Editorial, Environment and Planning D: Society and Space,

22, 3-11.

111

Campbell H. (2006), Just Planning: the Art of Situated Ethical Judgment, Journal of

Planning Education and Research, 26, 92-106.

Cassirer T., Kasteloot C. (2012), Socio Spatial Inequalities and Social Cohesion in European

Cities, Urban Studies, 49(9), 1909-1924.

Chatterton P. (2010), Seeking urban common, CITY, 14, 6, 625-628.

Cherot N., Murray M. (2002), Postmodern Urbanism: Reality or Fantasy? Urban Affairs

Review, 37, 432-438.

Costituzione del Brasile (2001), on line al sito http://www.servat.unibe.ch/icl/br00000_.html,

scaricata il 30/5/2013.

Crang M. (2002), Qualitative methods: the new orthodoxy?, Progress in Human Geography,

26, 5, 647-655.

Critical Planning (2007), UCLA Journal of Urban Planning, Special issue on Spatial Justice,

14.

Davies B. (1969), Social Needs And Resources In Local Services, cit. in Dikeç M. (2001).

De Freitas C. A. (2010), Changing Spaces: Locating Public Space at the Intersection of the

Physical and Digital, Geography Compass, 4, 6, 630–643.

Dematteis G. (1985), Le metafore della terra. La geografia umana tra mito e scienza,

Feltrinelli, Milano.

Dikeç M (2009), Justice and the Spatial Imagination, in Searching for the just city, edited by

Marcuse P. et al., Routledge.

Dikeç M. (2001), Justice and the spatial imagination, Environment and Planning A, 33, 10,

1785–1805.

Dorling D. (2011), Injustice. Why Social Inequality Persists, The Policy Press, University of

Bristol.

Elwood S., Leszczynski A. (2012), New Spatial Media, New Knowledge Politics,

Transactions of the Institute of British Geographers, 38, 4, 544–559.

Elwood S., Goodchild M., Sui D. (2013), Prospects for VGI Research and the Emerging

Fourth Paradigm in Crowdsourcing Geographic Knowledge Volunteered

Geographic Information (VGI) in Theory and Practice, edited by Sui D., Elwood S.,

Goodchild M., Springer.

European Commission (2009), Communication from the Commission to the Council and

European Parliament, Gdp and beyond. Measuring progress in a changing world,

COM (2009, 433 final).

Ewing R. (1997), Is Los Angeles-Style Sprawl Desirable? American Planning Association.

Journal of the American Planning Association; Winter; 63, 1, 107-126.

Fanstein S. (2000), New Directions in Planning Theory, Urban Affairs Review, 35, 4, 451-

478.

Fanstein S. (2005), Cities and Diversity: Should We Want It? Can We Plan for It?, Urban

Affairs Review, 41, 1, 3-19.

Fanstein S. (2009), Planning and the just city, in Marcuse P., Searching for the just city, New

York, Routledge.

Fanstein S. (2010), The Just City, New York, Cornell University Press.

Farinelli F. (2007), Dopo la misura, Postfazione a E. Soja, Dopo la metropoli, op. cit.

112

Fincher R., Iveson K. (2012), Justice and Injustice in The City, Geographical Reseach, 50, 3,

1-11.

Fischer F. (2009), Discursive planning, in Marcuse P. Searching for the just city, New York,

Routledge.

Flusty, S. (1994), Building Paranoia: The Proliferation of Interdictory Space and the

Erosion of Spatial Justice. West Hollywood, Los Angeles Forum for Architecture

and Urban Design, Hollywood, cit. in Critical Planning (2007), p. 5.

Franzini M., Pianta M. (2011), Explaining inequality in today’s capitalism, Working Papers,

University of Urbino Carlo Bo, Department of Economics, Society & Politics.

Fraser N. (1995), From redistribution to recognition? Dilemmas of justice in a “post

socialist” age, New Left Review, 212, 1-19.

Fraser N. (2003), Social Justice in the Age of Identity Politics, in Redistribution or

Recognition? A Political-Philosophical Exchange, edited by N. Fraser and A.

Honneth, New York, Verso.

Frenkel A., Ashkenazi M. (2008), Measuring urban sprawl: how can we deal with it?

Environment and Planning B: Planning and Design, 35, 56-79.

Gallie W.B. (1956), Essentially contested concepts, Lecture at Meeting of the Aristotelian

Society, London.

Galster G., Hanson R., Ratcliffe M., Wolman H., Coleman S., Freihage J. (2001),Wrestling

Sprawl to the Ground: Defining and measuring an elusive concept, Housing Policy

Debate, 12, 4, 681-717.

Gervais-Lambony P., F. Dufaux (2010), "Espace et justice: ouverture et ouvertures", in

Justice et injustices spatiales, a cura di B. Bret, P. Gervais-Lambony, C. Hancock, F.

Landy, pp.9-20 , Presses Universitaires De Paris Ouest, Nanterre.

Gibelli M.C., Salzano E. (a cura di), 2006 No sprawl: perchè è necessario controllare la

dispersione urbana e il consumo di suolo, Firenze, Alinea.

Godchild M. (2007), Citizens as sensors: the world of volunteered geography, GeoJournal,

69, 4, 211-21.

Gordon P., Richardson H.W. (1997), Are Compact Cities a Desirable Planning Goal?

Journal of the American Planning Association, 63,1, 95-106.

Gottmann J. (1951), La politique des etats et leur geographie, A. Colin, Paris.

Governa F., Memoli M. (2011), Geografie dell’urbano, Carocci, Roma.

Granovetter M. (1973), The strength of weak ties, American Journal of Sociology, 78, 6,

1360-1380.

Gregory D., Johnston R., Pratt G., Watts M., Whatmore S. (edited by) (2009), The

Dictionary of Human Geography, Wyley, London.

Hadjimichalis C. (2006), Non-Economic Factors in Economic Geography and in ‘New

Regionalism’: A Sympathetic Critique, International Journal of Urban and Regional

Research, 30, 3, 690–704.

Hanhorster H. (2001), Whose neighborhood is this? Ethnic diversity in urban spaces in

Germany, Geojournal, 51, 329-338.

Hardt M., Negri T. (2010), Commonwealth. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli.

Harvey D. (1969), Explanation in geography, London, Edward Arnold.

113

Harvey D (1978), Giustizia sociale e città, Milano (ed. or. Social Justice and the City,

Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1973).

Harvey D (1990),The Condition of Postmodernity. An enquiry into the origins of cultural

change. Oxford, Blackwell.

Harvey D. (1992), Social Justice, Postmodernism and the City, International Journal of

Urban and Regional Research, 16, 4, 588–601.

Harvey D. (1996), Justice, Nature and the Geography of Difference, Oxford, Blackwell.

Harvey D. (2001), Spaces of Capital. Towards a Critical Geography, Routledge, New York.

Harvey D. (2006), Spaces of global capitalism: a theory of uneven geographical

development, London and New York, Verso.

Harvey D (2008), The Right to the City, New Left Review, 53, 23–40.

Harvey D. (2012), Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre corte, Verona.

Harvey D. (2013), Interview with David Harvey: Rebel Cities & Urban Resistance Part II,

ZCommunications, http://www.zcommunications.org, scaricata il 30-5-2013.

Harvey D., Potter C. (2009), The right to the Just city, in Marcuse P. Searching for the just

city, New York, Routledge.

Hey Y., Tansley S., Tolle K. (eds) (2009), The Fourth Paradigm: Data Intensive Scientific

Discovery, Redmond, WA, Microsoft Research.

Hillier B. (2007), Space is the machine. A configurational theory of architecture, electronic

edition, www.spacesyntax.com, scaricato il 2-5-2013.

Hudson R. (2004), Conceptualizing economies and their geographies: spaces, flows and

circuits, Progress in Human Geography, 28, 447-471.

Ischia U. (2012), La città giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici, Donzelli, Roma.

Jessop B., Brenner N., Jones M. (2008), Theorizing socio-spatial relations, Environment and

Planning D: Society and Space, 26, 3, 389–401.

Jones M. (2009), Phase space: geography, relational thinking, and beyond, Progress in

Human Geography 33, 4, 487–506.

Jost J.T., Key A.C. (2010), Social Justice. History, Theory and Research, in Handbook of

Social Psychology, Edited by Susan T. Fiske, Daniel T. Gilbert, Gardner Lindzey,

Wiley http://onlinelibrary.wiley.com/book/10.1002/9780470561119, scaricato il 10-

12-2012.

Knox P. (1975), Social Well‐Being: a Spatial Perspective, OUP, London.

Kwan M. (2004), Beyond Difference: From Canonical Geography to Hybrid Geographies,

Annals of the Association of American Geographers, 94, 4, 756–763.

Lancione, M. (2010), Giustizia sociale, spazio e città, in Rivista Geografica Italiana, 117, 4,

625-652.

Lazer D., Pentland A., Adamic L., Aral S., Barabasi A.L., Brewer D., Christakis N.,

Contractor N., Fowler M., Gutmann T., Jebara T., King G., Macy M., Roy D., Val

Alstyn. (2009), Computational Social Science, Science, 323, 721-723.

Lefebvre H. (1970), Il diritto alla città , Marsilio, Venezia (ed. or. Le droit à la ville, Paris,

Anthrops, 1968).

Lefebvre H. (1978), La produzione dello spazio, Moizzi, Milano (ed. or. La production de

l’espace, Paris, Anthrops, 1974).

114

Loda M. (2012), Geografia sociale. Storia, teoria e metodi di ricerca, Carocci, Roma.

Malpas J. (2012), Putting space in place: philosophical topography and relational

Geography, Environment and Planning D: Society and Space, 30, 226-242.

Manderscheid K. (2012), Planning Sustainability: Intergenerational and Intra-generational

Justice in Spatial Planning Strategies, Antipode, 44, 197–216.

Marcuse P. (2009), Searching for the just city, New York, Routledge.

Marcuse P., von Kempen R. (1997), A New Spatial Order in Cities?, American Behavioral

Scientist, 41, 3, 285-299.

Maricato E. (2009), Fighting for Just Cities in capitalism’s periphery, cit. in Marcuse P.,

Searching for the Just City.

Markusen A. (2003), Fuzzy Concepts, Scanty Evidence, Policy Distance: The Case for

Rigour and Policy Relevance, Regional Studies, 37, 6-7, 701-717.

Marston S. (2000), The social construction of scale, Progress in Human Geography, 24,2,

219–242.

Martin R., Sunley P.(2003), Deconstructing clusters: chaotic concept or policy panacea?

Journal of Economic Geography, 3, 1, 5-35.

Massey D. (2004), Geography of responsibility, Geografiska Annaler, 86B, 1, 5-18.

Massey D. (2005), For Space, London, Sage.

Memoli M. (2011), Descrivere la città: metodologie, metodi e tecniche, in Governa F. et al.,

op. cit.

Merrifield A. (1993), Place and Space: A Lefebvrian Reconciliation, Transactions of the

Institute of British Geographers, New Series, 18, 4, 516-31.

Merriman P., Jones M., Olsson G., Sheppard E., Thrift N., Tuan Y.F. (2012), Space and

spatiality in theory, Dialogues in Human Geography, 2(1) 3–22,

sagepub.co.uk/journals, scaricato il 24-3-2013.

Miller, H.J. (2010), The data avalanche is here. Shouldn’t we be digging? Journal of

regional science, 50, 1, 181-201.

Mingione E. (2004), Poverty and social exclusion in European cities: diversity and

convergence at local level, CITY, 8, 381-389.

Mitchell D. (2003), The Right to the City: Social Justice and the Fight for Public Space,

Guilford Press, New York.

Mitchell D. (2007), What makes justice spatial? What makes spaces just? Three interviews

on the concept of spatial justice, Critical Planning, UCLA Journal of Urban

Planning, 14, 8-15.

Moulaert F., Novy A., Swiatek D.C. (2012), Social Cohesion: A Conceptual and Political

Elucidation, Urban Studies, 49, 9, 1873-1889.

Mudu P. (2006), Patterns of segregation in contemporary Rome, Urban Geography, 27, 422-

440.

Musterd S., Andersson R. (2005), Housing mix, social mix and social opportunities, Urban

Affairs Review, 40, 761-780.

Novy A., Swiatek D., Moulaert F. (2012), Social Cohesion: A Conceptual and Political

Elucidation, Urban Study, 49, 9, 1873-1889.

115

Novy A., Mayer J. (2009), As just as it gets? The European city in the “Just city” discourse,

in Marcuse P. ,Searching for the just city, New York, Routledge.

OECD (2011), Compendium of Oecd well-being indicators, Paris.

Openshaw, S. (1984), The modifiable areal unit problem. Concepts and Techniques in

Modern Geography, Geo Books, n. 38, Norwich http://qmrg.org.uk/files/2008/11/38-

maup-openshaw.pdf

Paasi A. (2002), Bounded spaces in the mobile world: Deconstructing ‘regional identity’,

Tijdschrift voor economische en sociale geografie, 93, 2, 137–148.

Pacione M. (2003), Urban environmental quality and human wellbeing: a social geographical

perspective, Landscape and Urban Planning, 65, 19-30.

Peck J. (1998), Geographies of governance: TECs and the neo-liberalisation of “local

interests”, Space and Polity, 2, 5-31.

Peck, J. (2003) Fuzzy Old World: A Response to Markusen, Regional Studies, 37, 6-7, 729-

740.

Peck, J. (2011) Interview in Amsterdam 26 July 2009. In: Buchholz, T. (ed.) Creativity and

the Capitalist City – The struggle for affordable Space in Amsterdam,

http://www.creativecapitalistcity.org/, scaricato il 15-12.12.

Pianta M. (2012), Nove su dieci, Laterza, Bari.

Pike A., Rodriguez-Pose A., Tomaney J. (2007), What kind of local regional development

and for whom? Regional Studies, 14, 1253-1269.

Pirie G.H. (1983), On Spatial Justice, Environment and Planning A, 15, 465-73.

Ploger J. (2001), Public Participation and the art of governance, Environment and planning

B. Planning and Design, 28, 219.

Potter C., Novy J. (2009), Conclusion: Just City on the horizon: summing up, moving

forward, in Marcuse P. Searching for the just city, New York, Routledge.

Purcell M. ( 2006), Urban democracy and the local trap, Urban Studies, 43 (11), 1921-1941.

Purcell M. ( 2008), Recapturing democracy, in Fincher and Iveson, 2012, Justice and

injustice in the city, Geographical Reaseach, 1-11.

Raffestin C. (1981), Per una geografia del potere, Unicopli, Milano.

Raffestin C. (2009), L’invenzione dello spazio o il “feuilletage” delle rappresentazioni, in Le

frontiere della geografia. Testi, dialoghi e racconti per G. Dematteis, Utet, Torino.

Rawls J. (2008), Una teoria della giustizia, Feltrinelli (trad. di Rawls J., A theory of Justice,

Oxford University Press, Oxford).

Reynaud A. (1981), Société, espace et justice: inégalités régionales et justice socio-spatiale,

Paris, PUF.

Right to the City Alliance's (2013), 2012 Annual Report,

http://www.flipsnack.com/BD5A7E86AED/ftk5w9kt, scaricato il 2-6-2013.

Rynasiewicz R. (1996), Absolute Versus Relational Space-Time: An Outmoded Debate? The

Journal of Philosophy, 93, 6, 279-306.

Rinzivillo S., Mainardi S., Pezzoni F., Coscia M., Pedreschi D., Giannotti F. (2012),

Discovering the Geographical Borders of Human Mobility, KI - Künstliche

Intelligenz, 26, 3, 253-260.

116

Rose G. (1997), Situated Knowledge: Positionality, Reflexivities and other Tactics, Progress

in Human Geography, 21, 3, 305-20.

Rose G. (2000), Hybridity, in Johnston R.J., Gregory D., Pratt G. and Watts M. (eds) The

Dictionary of Human Geography, Blackwell, Oxford.

Rose G. (2011), Prefazione a Bignante E., Geografia e ricerca visuale. Strumenti e metodi,

Lateza Bari.

Rosenfeld M., (2001), Teorie della giustizia, Enciclopedia delle scienze sociali, I

Supplemento, Treccani.it.

Santos Carvalho C., Rossbach A. (2010), The City Statute of Brazil. A commentary, São

Paulo : Cities Alliance and Ministry of Cities – Brazil.

Sassen S.(1997), Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna.

Savitch H. V., (2003), How Suburban Sprawl Shapes Human Well-Being, Journal of Urban

Health, Bulletin of the New York Academy of Medicine, 80, 4, 590-607.

Secchi B. (2012), La città giusta e la nuova questione urbana, in Ischia U. (2012), La città

giusta. Idee di piano e atteggiamenti etici, Donzelli, Roma.

Sen A. (1992), Risorse, valori e sviluppo, Torino.

Sheppard E. (2002), The Spaces and Times of Globalization: Place, Scale, Networks, and

Positionality, Economic Geography, 78, 3, 307–330.

Soja E., Hadjimichalis C. (1979), Between Geographical Materialism and Spatial Fetishism:

Some Observations on the Development of Marxist Spatial Analysis, Antipode, 11,

3, 3-1 1.

Soja E. (1989), The socio spatial dialectic, Annals of the Association of American

Geographers, 70, 2, 207–225.

Soja E. (1996), Thirdspace: Journeys to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places,

Blackwell, Us.

Soja E. (2007), Dopo la metropoli. Per una critica della geografia urbana e regionale, a

cura di E. Frixia, Patron, Bologna.

Soja E. (2009),The city and spatial justice, Justice spatiale, 1, www.jsjs.org.

Soja E. (2010), Seeking spatial justice, University of Minnesota Press, Minneapolis, London.

Smith D.M. (2000), Moral progress in human geography: transcending the place of good

fortune, Progress in Human Geography, 24, 1, 1-18.

Statera G. (1997), La ricerca sociale. Logica, strategie, tecniche, Collana Studi Sociali,

SEAM.

Stiglitz J, Sen A., Fitoussi J. (2008), Issues paper, Commission on the measurement of

economic performance and social progress.

Sui D., DeLyser D. (2012), Crossing the Qualitative-Quantitative Chasm I: Hybrid

Geographies, the Spatial Turn, and Volunteered Geographic Information (VGI),

Progress in Human Geography 36, 1, 111-124.

Sui D., Elwood S., Goodchild M. (edited by) (2013), Crowdsourcing Geographic Knowledge

Volunteered Geographic Information (VGI) in Theory and Practice, Springer.

Sui D., DeLyser D. (2013), Crossing the Qualitative-Quantitative Chasm II: Inventive

approaches to big data, mobile methods, and rhythmanalysis, Progress in Human

Geography 37, 2, 293–305.

117

Sui D., DeLyser D. (2013a), Crossing the Qualitative-Quantitative Chasm III: Enduring

Methods, open Geography, Participatory Research, and the Fourth Paradigm,

Progress in Human Geography, published on line, 1-14.

Swingedouw E., (2000) Authoritarian governance, power and the politics of rescaling,

Environment and Planning D Society and Space, 18, 63-76.

Torrens P., Alberti M. (2000), Measuring Sprawl, Working Papers, Centre for Advanced

Spatial Analysis.

United Nations (2011), Urban Population, Development and the Environment,

www.unpopulation.org.

Unwin T. (2000), A waste of space? Towards a critique of the social production of space,

Transactions of the Institute of British Geographers, 25, 11-29.

Vanolo A., Rossi U. (2010), Geografia politica urbana, Laterza, Bari.

World Bank (2009), Reshaping Economic Geography – World Development Report,

Washington DC, World Bank.

Young I.M. (1990), Justice and the Politics of Difference, Princeton University Press,

Princeton, NJ.

Zhang Z. (2006), What Is Lived Space? Ephemera, Theory & Politics in Organization, 6, 2,

219-223.