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Facoltà di Economia
Dipartimento di Metodi e Modelli per l’Economia, il Territorio e la Finanza
Dottorato in Geografia economica
xxv ciclo
La giustizia spaziale
Fondamenti teorici, implicazioni per le politiche,
aspetti metodologici
Relatore: Prof.ssa Roberta GEMMITI Candidata: M. Rosaria PRISCO
Ottobre 2013
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Indice
Premessa ............................................................................................................................................... 3
Introduzione ......................................................................................................................................... 5
1. La giustizia sociale tra redistribuzione e riconoscimento ............................................................. 9
1.1 La giustizia redistributiva: dall’equità di Rawls all’ossimoro di Harvey ....................................... 11
1.1.1 La giustizia come equità .............................................................................................................. 11
1.2.2 Giustizia sociale e capitalismo: un ossimoro .............................................................................. 13
1.2.3 La necessità del riconoscimento della diversità .......................................................................... 14
1.2 Il tentativo di mediazione: N. Fraser, D. Harvey e la giustizia sociale nell’era post-socialista ...... 16
2. Dalla giustizia sociale alla giustizia spaziale: il percorso teorico ............................................... 19
2.1 La giustizia spaziale: il percorso teorico tra context concept e concept content ............................ 19
2.1.1 Le analisi tradizionali e la dimensione etica della geografia ..................................................... 21
2.1.2 La dialettica socio-spaziale ......................................................................................................... 25
2.1.3 Il contributo di E. Soja ................................................................................................................ 28
2.2 La giustizia spaziale alle diverse scale territoriali .......................................................................... 31
2.3 Il problema della relazione causale tra spazio e giustizia: putting space in his place .................... 36
3. Quale “spazio” per la giustizia spaziale? Un approccio critico .................................................. 39
3.1 La svolta spaziale nelle scienze sociali: H. Lefebvre e la trialettica dello spazio........................... 40
3.2 Lo spazio relazionale ...................................................................................................................... 44
3.3 La matrice delle spazialità di D. Harvey ........................................................................................ 49
4. Giustizia spaziale e città: il diritto alla città e la pianificazione della città giusta ...................... 58
4.1 La città contemporanea: una lettura critica .................................................................................... 59
4.2 Spazio e giustizia in città ................................................................................................................ 64
4.3 La giustizia spaziale in città tra teoria e azione .............................................................................. 66
4.3.1 Il diritto alla città ........................................................................................................................ 66
4.3.2 La città giusta .............................................................................................................................. 73
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5. La rappresentazione della giustizia spaziale: aspetti concettuali e metodologici...................... 79
5.1 Gli aspetti concettuali ..................................................................................................................... 80
5.1.1 Integrare lo spazio nell’analisi della giustizia spaziale .............................................................. 80
5.1.2 Decostruire la giustizia spaziale ................................................................................................. 82
5.2 La giustizia spaziale rappresentata: un esercizio ............................................................................ 84
5.3 La scelta del metodo: hybrid geographies...................................................................................... 90
5.3.1 Il web 2.0: opportunità e limiti .................................................................................................... 93
Conclusioni ......................................................................................................................................... 97
Sintesi ................................................................................................................................................ 103
Riferimenti bibliografici .................................................................................................................. 110
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Premessa
Questo lavoro è decisamente situato. Nasce infatti da alcune insoddisfazioni emerse
nell’ambito del contesto professionale in cui ho operato per moltissimi anni, quello
dell’analisi regionale dell’innovazione tecnologica e degli indicatori statistici territoriali per
le politiche di sviluppo e coesione dell’Unione europea.
In particolare, la partecipazione ai lavori della Commissione scientifica sul benessere
istituita da Istat e Cnel nel 2011 ha rappresentato un momento significativo di questo
percorso poiché mi ha fornito lo stimolo per interrogarmi sui limiti teorici e metodologici
delle analisi territoriali tradizionali, in particolare se applicate a fenomeni complessi e
multidimensionali quali il benessere.
Nell’ambito di tale Commissione, infatti, si chiedeva agli esperti di territorio di
individuare indicatori regionali delle varie dimensioni del benessere, un mero esercizio di
disaggregazione possibile dell’offerta di dati, finalizzato alla costruzione di set di indicatori e
scoreboard con cui confrontare e classificare regioni e territori a supporto delle politiche.
La frustrazione di produrre quantificazioni del benessere circoscritte in confini
amministrativi senza alcun riferimento alle specificità locali, insite invece nel concetto stesso
di benessere fortemente dipendente da aspetti storici e culturali locali, di scarso supporto alla
definizione di agende politiche locali in grado di produrre azioni coerenti per migliorare la
condizione delle persone che vi risiedono, ha contribuito a determinare l’esigenza di
identificare in termini più strutturati le cause di questo approccio così parziale e limitato.
Il percorso seguito per contestarlo in modo costruttivo ha seguito due momenti principali
e costituisce lo sfondo di questa tesi.
In primo luogo, ha rimesso in discussione il concetto stesso di benessere come funzionale
al rinnovamento delle politiche locali ispirate alla competitività e finalizzato a contenerne gli
impatti negativi in termini di ricadute sociali e individuali. Dall’analisi della letteratura e del
dibattito attuale in sede nazionale ed internazionale (Istat, Oecd, Commissione europea) il
benessere emerge come un outcome multidimensionale di cui rimane ancora poco indagato il
processo attraverso cui raggiungerlo, le misure da attuare, le scelte da effettuare. In poche
parole, l’agenda politica che dovrebbe portare a questo risultato. Un dibattito che, peraltro,
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non sembra interrogarsi sulle cause strutturali dell’attuale “mancanza” di benessere, con un
approccio fenomenico molto sbilanciato sulla ricerca di indicatori alternativi e poco critico
rispetto al modello di sviluppo che proprio dal Pil è rappresentato.
In secondo luogo, proprio a partire da questi limiti teorici del dibattito sul benessere
territoriale, l’analisi ha cercato di individuare le ragioni dei limiti di quello che Dematteis
definisce il paradigma “normale”, cioè la prospettiva tradizionale di analisi territoriale che
usa fonti di dati ufficiali, indirette, come se fossero reali e il concetto di territorio come
insieme di spazio (space), luogo (place) e territorio (territory), semplice contenitore dei
fenomeni umani che se utilizzato in modo acritico, rischia di inficiare la significatività dei
risultati prodotti, limitandone le ricadute in termini scientifici e di sostegno per le politiche.
Il risultato di questo percorso che per motivi di spazio e coerenza è qui soltanto
brevemente richiamato in premessa e nell’introduzione, ha influenzato la struttura
concettuale e metodologica del presente lavoro. Il punto di partenza è rappresentato, infatti,
dalla scelta di sostituire il concetto di benessere con quello di giustizia spaziale, molto attuale
nel dibattito geografico in lingua inglese, come chiave di lettura dei divari di sviluppo e
valore guida per politiche pubbliche critiche nei confronti dell’attuale modello di sviluppo
locale orientato alla competitività dei territori e in cui la dimensione spaziale risulta
strettamente interrelata al concetto stesso come supporto ontologico ed epistemologico
dell’analisi. Problematizzare il lessico comunemente usato, decostruire il concetto di
territorio e pensare a nuovi strumenti d’analisi ha rappresentato il passo ulteriore del
tentativo di considerare lo spazio come una chiave di lettura della realtà. Space as a keyword.
Le varie fasi di questo percorso, a tratti problematico e insidioso, proprio per la presenza
di concetti scivolosi quali giustizia e spazio in relazione dialettica, mi hanno consentito di
pervenire ad una visione nuova e stimolante e forse più significativa del difficile ma
affascinante mestiere di geografo.
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Introduzione
So what kind of Utopianism is possible or, can the human
imaginary concerning a just society, play a creative role in
anti-capitalist politics? The quest for justice as a way in
which to talk about the need to regulate human relationship
and our collective endeavours so as to achieve a particular
set of goals under a given set of ecological, historical and
geographical conditions (D. Harvey, 1996).
Il recente successo sia in letteratura sia in ambito politico-istituzionale del concetto di
benessere ha in qualche modo stimolato e riaperto, complice la crisi economica, il dibattito
relativo ai fini e ai valori delle politiche pubbliche e dell’economia, riportando alla luce con
urgenza le contraddizioni di un modello di sviluppo, quale quello capitalistico, che ha
implicazioni e costi sia in termini di organizzazione sociale che di insostenibilità ambientale
ed economica con l’acuirsi delle differenze di reddito, di opportunità, di condizioni di vita
sia tra paesi che all’interno di essi.
Il benessere come fine da perseguire da parte di governi e policy makers ha tuttavia dato
luogo, principalmente, ad una riflessione che potremmo definire “tecnica”, in quanto le
energie sono state concentrate per lo più nella ricerca di indicatori statistici alternativi a
quelli correntemente utilizzati per la misura della “crescita” e dello “sviluppo” di un paese.
In particolare, l’imputato principale è stato identificato nel Prodotto interno lordo (Pil) che
ha rappresentato e rappresenta l’indicatore che i governi usano per misurare, quantificare,
valutare la performance non soltanto economica di un paese. L’idea alla base di questo
dibattito, sviluppato principalmente in sedi istituzionali (Oecd, 2011, Commissione europea,
2009) oltre che accademiche è che la disponibilità di misure più adeguate alla complessità
del concetto di sviluppo, comprendenti quindi fattori sociali, ambientali, relazionali e
personali possa funzionare da forza trainante per riposizionare l’agenda dei governi verso
politiche orientate non esclusivamente alla crescita economica, appunto al benessere. Verso,
quindi, un outcome multidimensionale di cui rimangono tuttavia ancora poco indagati sia il
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processo attraverso cui raggiungerlo, le misure da attuare, le scelte da effettuare sia le cause
strutturali dell’attuale “mancanza” di benessere.
Questi limiti concettuali risultano amplificati quando l’analisi riguarda il benessere a
livello sub-nazionale dove il ruolo significativo delle specificità socio-economiche, politiche,
culturali, storiche locali dovrebbe essere considerato come il punto di partenza per analisi
realmente efficaci per le politiche e non una mera dimensione statistica di disaggregazione di
fenomeni nazionali.
Il presente lavoro si pone in modo critico rispetto a questo dibattito e avanza l’ipotesi che
il concetto di giustizia spaziale – la giustizia sociale nelle sue materializzazioni e
rappresentazioni spaziali – più che il benessere, possa essere efficacemente utilizzato sia
come valore di riferimento delle politiche pubbliche locali/urbane ed elemento principale per
la loro valutazione, sia come concetto che consente di integrare lo spazio come variabile
esplicativa e non solo contestuale nell’analisi dei fenomeni a livello locale.
La giustizia spaziale emerge come un’idea che, al di là dei suoi contenuti politici, assume
particolare interesse geografico per almeno tre motivi fondamentali:
1. integra lo spazio in un rapporto dialettico con il sociale (Soja, 2010), di modo che esso
diventa causa ed effetto delle diverse realtà locali/urbane, in una sorta di rapporto di
causazione circolare;
2. permette, proprio per questa sua intrinseca spazialità, attraverso l’adozione di una
visione dello spazio più articolata di quella euclidea, di delineare una proposta metodologica
di rappresentazione più aderente alla complessità del fenomeno, più soddisfacente dei
tradizionali strumenti statistici comunemente usati (indicatori e scoreboard territoriali) e,
quindi, dalle ricadute conoscitive e politiche più efficaci;
3. rappresenta un discorso che, attraverso un lessico nuovo e più critico, può contribuire a
decostruire i discorsi delle politiche orientate alla competitività territoriale per un loro
cambiamento ed evoluzione.
Che cosa distingue il concetto di giustizia spaziale dalla semplice distribuzione equa di
risorse tra territori?
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La giustizia spaziale può essere utilizzata al posto del concetto di benessere come valore
di riferimento delle politiche locali/urbane?
Ci sono casi concreti in cui questo concetto è stato utilizzato come obiettivo delle
politiche oppure è soltanto un discorso che fa da contraltare a quello della competitività?
Come possiamo rappresentarla e non soltanto misurarla, integrando lo spazio nell’analisi?
Sono alcune delle domande a cui il lavoro intende rispondere attraverso un percorso
caratterizzato principalmente da un approccio teorico e concettuale e da una proposta
conclusiva di carattere metodologico.
I riferimenti teorici adottati come base dell’analisi proposta sono :
- la teoria della dialettica socio-spaziale di E. Soja (1989, 2010);
- la teoria dello spazio come “prodotto sociale” di H. Lefebvre (1978) così come
interpretata da D. Harvey nella matrice delle spazialità (2006);
- la teoria dell’ibridizzazione (Rose, 2000, Sui e DeLyser, 2012) finalizzata
all’integrazione di metodi e prospettive di ricerca in geografia.
Il lavoro si articola in tre parti:
La prima parte (capitoli 1, 2 e 3) contiene una riflessione teorica sul concetto di giustizia
spaziale a partire da quello di giustizia sociale. Dall’analisi della letteratura emergono
essenzialmente due punti fondamentali per l’analisi. Il primo, il concetto di giustizia spaziale
come “potente discorso in grado di mobilitare l’azione politica” (Harvey, 1996) e di
rappresentare una discontinuità nel quadro delle politiche locali/urbane di matrice
neoliberista ispirate alla competitività dei territori e delle città. Il secondo, la necessità di
integrare nell’analisi teorica una concettualizzazione dello spazio che vada oltre quella
statica e fissa della tradizione geografica positivista. Per questo motivo, viene dedicato un
capitolo all’analisi delle diverse tipologie di spazio che caratterizzano l’analisi geografica, in
particolare a partire dalle teorie di H. Lefebvre.
La seconda parte (capitolo 4) analizza le pratiche politiche finalizzata a concretizzare sul
campo il discorso sulla giustizia spaziale? Come la giustizia spaziale è considerata nelle
politiche urbane e, più in generale, nell’azione di quei movimenti che rivendicano il diritto
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alla città? Quali sono, a partire dalle teorie esposte nella prima parte, le diverse posizioni del
dibattito in merito all’idea di città giusta?
La terza parte (capitolo 5), alla luce delle indicazioni emerse dai capitoli precedenti,
intende proporre uno schema concettuale e metodologico in cui inserire la rappresentazione
della giustizia spaziale, in particolare a livello urbano, con l’obiettivo di contribuire ad una
migliore conoscenza del fenomeno e, di conseguenza, ad una sua più ampia operatività nelle
politiche locali.
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1. La giustizia sociale tra redistribuzione e riconoscimento
What is space? What is justice? There is no philosophical
answer to philosophical questions. Only an answer
fashioned out of the study of human practice (D. Harvey,
1973).
The quest for justice as a way in which to talk about the
need to regulate human relationship and our collective
endeavours so as to achieve a particular set of goals under
a given set of ecological, historical, and geographical
conditions (D. Harvey, 1996).
La giustizia spaziale può essere definita come la giustizia sociale nelle sue
materializzazioni e rappresentazioni spaziali. Non possiamo, trattando di giustizia spaziale,
fare a meno di richiamare seppur in modo strumentale agli obiettivi di questo capitolo e del
lavoro più in generale, il dibattito sulla giustizia sociale.
La transizione da un’economia di tipo keynesiano alla new economy di stampo
neoliberista e la progressiva finanziarizzazione dell’economia che caratterizza l’attuale crisi
economica ha, in parte, determinato l’esacerbarsi delle differenze socio-economiche tra paesi
e all’interno di essi con un forte aumento delle diseguaglianze geografiche in termini di
reddito, di opportunità, di condizioni di vita sia tra paesi che all’interno di essi (Pianta, 2012,
Dorling, 2011, Franzini e Pianta, 2011). In questo scenario, la nascita di una moltitudine di
rivendicazioni sociali e movimenti “dal basso”, ha contribuito a rinvigorire un dibattito
multidisciplinare sui fini e i valori dell’economia e delle politiche pubbliche (Pike et al.,
2007) e ha riportato l’attenzione su concetti quali benessere e giustizia sociale. Anche se con
un impatto mediatico più limitato rispetto al benessere (Stiglitz et al., 2008, Commissione
europea 2009, Oecd, 2011), ha di recente ripreso vigore il dibattito sulla giustizia sociale
come reazione all’enfasi attuale sulla competitività e al dominio delle formule neoliberiste in
politica, in particolare nelle politiche urbane (Fainstein, 2010, Marcuse, 2009, Harvey,
1996).
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La giustizia sociale diventa quindi un discorso che si pone come contraltare al mantra
della competitività, intersecando così riflessioni teoriche e interventi sul campo. Un
parametro di riferimento per costruire politiche pubbliche più giuste e per la loro
valutazione:
a critical idea that challenges us to reform our institutions and practices in the name of
greater fairness” (Jost e Kai, 2010).
La giustizia sociale è un concetto filosofico largamente usato sia nelle scienze sociali che
nel linguaggio comune, spesso senza essere chiaramente definito, dai confini incerti e
mutevoli che può essere a ragione catalogato tra gli “essentially contestated concepts” di
Gallie (1956).
Essa assume oggi due significati principali nel dibattito corrente. Da un lato l’aggettivo
sociale risponde all’esigenza di definire cosa è una società giusta, se “giusto” può applicarsi
in una dimensione universale o risponde invece ad esigenze particolari e contestualizzate
storicamente e geograficamente (Rawls, 2008); dall’altro la giustizia sociale si occupa, di
solito, della “questione sociale”, la disoccupazione, il welfare, la formazione e l’istruzione, la
povertà.
Una definizione di massima può essere tentata sintetizzando gli elementi comuni dei
diversi approcci filosofici che analizzeremo in seguito (Jost e Kay, 2010): la giustizia sociale
come condizione (reale o ideale) in cui a) i benefici e i costi sociali sono distribuiti in base ad
un principio allocativo predefinito, b) le procedure, le norme e le regole che guidano l’azione
politica e di governo garantiscono i diritti elementari e le libertà individuali e sociali. Questi
due aspetti della definizione di Jost e Kay corrispondono in linea di massima alla giustizia
distributiva e alla giustizia procedurale.
In questi termini la giustizia sociale risulta essere una proprietà dei sistemi sociali così
come affermato da J. Rawls (2008, p. 25):
Justice is the first virtue of social institutions as truth is of systems of thought. A theory
however elegant and economical must be rejected or revisited if it is untrue; likewise laws
and institutions no matter how efficient and well-arranged must be reformed or abolished if
they are unjust.
Il principale problema per gli studiosi consiste nel fatto che permane, dopo secoli di
dibattito, un deciso disaccordo sugli elementi da incorporare nella definizione di giustizia
sociale. Quali sono i principi “giusti” in base ai quali effettuare la distribuzione di benefici e
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costi: equità, eguaglianza, bisogni? Esiste un sistema di diritti e di libertà univocamente e
universalmente riconosciuto o la giustizia sociale è ispirata da valori che si evolvono nel
tempo e nello spazio, mutando a seconda delle condizioni culturali, storiche e geografiche?
Sono queste alcune delle domande che hanno ispirato le opere dei grandi pensatori
dell’Occidente: Aristotele, T. Hobbes, J.J. Rousseau, I. Kant, C. Marx, J.S. Mill e, più di
recente, J. Rawls, A. Sen, M. Nussbaum, D. Harvey, I. M. Young, N. Fraser.
Per cercare di finalizzare il dibattito rispetto al tema del lavoro e attualizzarlo alla luce
della storia recente possiamo introdurre, compiendo una semplificazione, due distinzioni che
possono orientarci nel dibattito sulla giustizia - ampio e complesso - con maggiore chiarezza.
Una prima distinzione fra giustizia sociale e giustizia legale, risalente ad Aristotele. Al
termine giustizia vengono spesso attribuiti due significati principali: il significato ‘sociale’,
relativo alla distribuzione dei beni in una società e il significato ‘legale’, relativo,
direttamente, alla distribuzione di quei beni particolari che sono risarcimenti e pene, e,
indirettamente, all’apparato giudiziale che gestisce quest’ultima distribuzione.
Una seconda distinzione è quella tra giustizia sociale come redistribuzione di beni
materiali ed immateriali o riconoscimento della diversità di razza, sesso, religione, cultura.
Per cercare di rappresentare questo magmatico ed eterogeneo dibattito, opereremo la
scelta di traguardare il concetto di “giustizia sociale” attraverso la lente di questa ultima
distinzione tra giustizia come ridistribuzione e riconoscimento. E’ questa distinzione più
teorica che reale. Nella pratica, infatti, le due istanze sono spesso interrelate.
E’ in base a questa distinzione, strumentale alla chiarezza dell’esposizione, che sarà
compiuta l’analisi del dibattito corrente. Un dibattito che contiene numerose diversità
ideologiche e teoriche al proprio interno. Da un lato, la tradizione liberale e progressista a cui
fa capo J. Rawls, A. Sen, M. Nussbaum dall’altra la tradizione marxista di cui analizzeremo
l’evoluzione attraverso il pensiero di D. Harvey, con al centro il tentativo di ricomposizione
effettuato da N. Fraser.
1.1 La giustizia redistributiva: dall’equità di Rawls all’ossimoro di Harvey
1.1.1 La giustizia come equità
La teoria della giustizia di J. Rawls costituisce un fondamentale contributo nel dibattito
contemporaneo sulla giustizia sociale. Ricollegandosi alle teorie contrattualiste di Hobbes,
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Spinoza, Rousseau e Kant, Rawls, nella sua opera fondamentale A theory of justice del 1971
(trad. it. Rawls, 2008) intende superare la visione della giustizia basata sulle dottrine
utilitaristiche che con la loro massimizzazione del bene collettivo, tendono a sacrificare gli
interessi della minoranza. La giustizia come equità teorizzata da Rawls si basa sull’assunto
che tutti i beni sociali principali devono essere distribuiti in egual modo, contro l’idea della
“lotteria naturale” per cui la distribuzione dei beni avviene secondo regole dettate dal caso o,
ancor, peggio dal “mercato”. Una distribuzione eguale può esserci soltanto se avvantaggia i
più svantaggiati, cioè coloro che immeritatamente, per nascita o per altre circostanze fortuite,
per esempio la malattia, hanno minori possibilità nella società.
Attraverso l’uso del contratto sociale, Rawls compie una decisa astrazione filosofica che
destoricizza la condizione attuale per arrivare a stabilire i principi di giustizia che dovranno
governare la società. Immagina, infatti, una ipotetica situazione pre-sociale dove, ciascun
individuo in una posizione originaria, ignorando (il cd. velo di ignoranza) quale sarà la sua
futura posizione nella società (se sarà ricco o povero, avrà potere o sarà ai margini, ecc.)
sceglierebbe certamente modalità di distribuzione a vantaggio degli svantaggiati, visto che
egli stesso potrebbe farne parte. La distribuzione equa riguarda i beni sociali principali
(social primary goods) che sono necessari per la vita e di cui ciascuno intende ovviamente
disporre nella misura più ampia possibile: diritti, libertà, opportunità, reddito, benessere,
rispetto di sé.
Attraverso questa astrazione, da molti in seguito criticata come de-storicizzata e incurante
dell’identità dei soggetti cui si rivolge, Rawls deduce i principi della giustizia come equità:
- ogni persona ha eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà
fondamentali, compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti: libertà politica, di
parola, di pensiero, libertà personale e di possedere la proprietà privata;
- le ineguaglianze economiche e sociali devono essere a) per il più grande beneficio
dei meno avvantaggiati e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizione di
equa eguaglianza di opportunità.
In definitiva, quindi, una società giusta è quella che ha tra le sue priorità il miglioramento
delle posizioni relative dei gruppi svantaggiati nella distribuzione dei beni sociali primari e
che pratica il “principio di riparazione” che deve cioè prestare maggior attenzione a coloro
che sono nati con meno doti naturali o sociali (regola del maximin, maximum minimorum). In
questo schema di società le ineguaglianze sono ammesse soltanto quando massimizzano le
aspettative di lungo periodo del gruppo meno fortunato.
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Le critiche alla costruzione teorica di Rawls sono pervenute sia dall’ambito liberista in
difesa della distribuzione attuata dalle leggi di mercato, rappresentata dalle posizioni
dell’economista F. von Hayeck che, in particolare, dall’interno dello stesso ambito filosofico
e ideologico liberale di Rawls.
Una delle critiche maggiori riguarda, infatti, la pretesa astrazione dell’identità dei soggetti
interessati che spaccerebbe per universali principi invece decisamente caratterizzanti un
ambito culturale occidentale, maschile e bianco, a danno di una società multiculturale, aperta
alla differenza e al riconoscimento della diversità di razza, sesso, genere, religione.
In anni più recenti, Rawls, aprendo a queste critiche, riformula il proprio liberalismo non
più come una teoria universale e metafisica ma come una concezione meramente politica
della giustizia, valida così in un ambito storico e politico ben delimitato, quello delle società
occidentali contemporanee basate sul pluralismo.
1.2.2 Giustizia sociale e capitalismo: un ossimoro
Anche se il pensiero marxista ha ispirato gran parte dei movimenti per la giustizia sociale,
la concezione della giustizia sociale in Marx è stata oggetto di controversie in quanto dai
suoi scritti è dubbio se si possa ricavare una vera e propria teoria della giustizia sociale
(Rosenfeld, 2001). Cionondimeno, anche se non palesemente, i suoi scritti contengo una
decisa critica justice-based al sistema capitalistico. Nella dialettica marxiana, la giustizia, in
realtà, riguarda ciò che è necessario e appropriato ad un determinato modo di produzione e
quindi il capitalismo con lo sfruttamento dei lavoratori è, per assurdo, giusto in quanto
coerente con le sue logiche. La giustizia, quindi, non dipende dal diritto o da un astratto
contratto sociale ma dai modi di produzione e dai rapporti di classe da essi determinati. A tal
proposito, Marx si mostra altrettanto scettico verso tutte le teorie astratte o universalistiche
della giustizia, quali quelle di Kant o Hegel, che trascendono dalle circostanze storiche e
sociali e sono espressione del potere economico dominante.
Nel sistema capitalistico, la forma di ingiustizia primaria, secondo Marx, è lo
sfruttamento dei lavoratori che non vengono retribuiti in modo equo rispetto al valore reale
del lavoro prestato, generando così il profitto per l’imprenditore. Nella visione marxista,
nello stadio immediatamente successivo alla vittoria del proletariato i prodotti si
distribuiranno in ragione del lavoro prestato da ciascuno, ma nello stadio definitivo, per la
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rivoluzione economica compiuta, ciò avverrà in ragione dei bisogni di ciascuno, attuandosi
così la giustizia sociale.
Nel solco del pensiero marxista, la domanda principale che si pone D. Harvey nel suo
testo fondamentale Social justice and the city del 1973 (trad. it. Harvey, 1978) è proprio
quella relativa alla possibilità di poter arrivare ad una distribuzione giusta delle risorse senza
modificare alla base l’intero processo di produzione capitalistica. E se, invece, le teorie
liberali sulla giustizia, sono un modo di perpetuare, seppur emendandolo, il sistema
capitalistico.
In questo filone, si muovono importanti contributi al dibattito: oltre ad Harvey (che
riprenderemo in seguito sia per il suo contributo all’evoluzione del dibattito post-moderno
sulla giustizia che per il suo contributo più decisamente geografico al tema) troviamo i lavori
di I.M. Young e N. Fraser che rappresentano una significativa evoluzione del dibattito sulla
giustizia sociale.
1.2.3 La necessità del riconoscimento della diversità
La negazione dell’approccio marxista circa la possibilità di attuare la giustizia sociale
all’interno della struttura capitalistica e l’impasse politico che ne deriva, il suo riferimento
esclusivo alla lotta di classe così come, d’altra parte, le concezioni della giustizia basate su
astrazioni quali quelle della tradizione contrattualista che abbiamo visto prima con J. Rawls,
avevano suscitato numerose critiche. Questi approcci riduzionisti della complessità delle
relazioni umane, della loro storicità e contingenza spazio-temporale mostravano i loro limiti
pratici, più che metodologici e filosofici per sè, man mano che le società occidentali
sperimentavano fenomeni quali la globalizzazione e la multiculturalità.
Durante gli ultimi venti anni del XX secolo si affacciano, nel dibattito sulla giustizia, le
teorie cosiddette post-strutturaliste. Partendo dalla critica dell’approccio marxista nella
spiegazione dell’ingiustizia come estremamente semplificatoria della realtà, queste teorie tra
cui ricordiamo i Critical Legal Studies, la teoria critica femminista e il decostruzionismo,
affermano invece che nella società esista una molteplicità di discorsi differenti che
caratterizzano i diversi gruppi sociali in particolare oppongono gruppo dominante e gruppo
oppresso attraverso narrazioni inconciliabili in cui l’ingiustizia coincide con la differenza.
Femministe radicali, minoranze razziali, omosessuali, sette religiose, minoranze etnico-
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religiose aderiscono all’ideale della differenziazione come rifiuto dello status quo imposto
dalle istituzioni dominanti.
Uno dei lavori fondamentali di questa nuova stagione di rivendicazione del
riconoscimento della diversità, per un’idea di giustizia che va quindi oltre il percorso lineare
di una giustizia basata esclusivamente sulla redistribuzione di benefici ed oneri sociali, è il
libro Justice and Politics of Difference della filosofa americana I. M. Young (1990).
Fortemente radicata nel contesto della società multiculturale nordamericana, l’idea di
giustizia di I.M. Young contrappone alle filosofie della giustizia basate sul paradigma
distributivo una teoria della giustizia che parte dal concetto di oppressione: insieme di
condizioni che impediscono alle persone di partecipare alla determinazione del proprio agire
e dominio, condizione di svantaggio e di ingiustizia a cui sono sottoposte alcune persone a
causa delle pratiche quotidiane di una società che impedisce loro di esprimere sentimenti e
punti di vista “differenti”.
I.M. Young identifica la città come il luogo dove questa diversità può dar luogo alla
coesistenza, a quella che lei stessa definisce “lo stare insieme di stranieri” e propone cinque
tipologie di oppressione, le “cinque facce” dell’oppressione: sfruttamento, emarginazione,
impotenza e non partecipazione politica, imperialismo culturale, violenza.
Questa idea di giustizia sposta l’attenzione dagli schemi distributivi alle deliberazioni e al
processo decisionale, a tutte le relazioni sociali e istituzionali suscettibili di decisione
collettiva e finisce col rientrare in quello di politica. Nei vari momenti del processo
decisionale la presenza di un pubblico democratico, eterogeneo, che dà voce anche agli
oppressi, i quali hanno la loro rappresentanza con relativa assunzione di responsabilità,
promuove la giustizia sociale meglio di un pubblico omogeneo in cui le differenze siano
annullate. Il confronto amplia l’informazione e produce conoscenza, al fine di prendere
decisioni giuste. Rispetto ai gruppi di interesse, che mirano esplicitamente ed esclusivamente
a realizzare ciascuno il proprio interesse, i gruppi sociali rappresentano un passo avanti
decisivo in senso democratico, perché nella discussione tra rappresentanti dei gruppi sociali
tutti devono chiarire e giustificare le proprie ragioni, ottenere e offrire ascolto, confrontarsi,
per poi deliberare in base a principi di giustizia condivisi.
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1.2 Il tentativo di mediazione: N. Fraser, D. Harvey e la giustizia sociale nell’era post-
socialista
La lotta per il riconoscimento della diversità, in particolare nelle società multiculturali
quali quella nord-americana, ha spesso coinciso con “la lotta” politica, diventando il conflitto
paradigmatico degli ultimi anni del XX secolo. Un conflitto “post-socialista” in cui l’identità
del gruppo soppianta l’interesse di classe, il riconoscimento culturale sostituisce la
redistribuzione socio-economica come rimedio dell’ingiustizia.
N. Fraser propone un tentativo di ricomposizione del dibattito sulla giustizia sociale che
agli inizi degli anni Novanta si era cristallizzato in questa visione manichea tra
redistribuzione e riconoscimento, etichettando entrambe le posizioni come riduttive e rigide
e considerandole separatamente soltanto in un’ottica analitica ma non politica né empirica.
Propone infatti in un suo famoso scritto (Fraser, 1995) di sviluppare una teoria critica del
riconoscimento che parta dall’assunto che una moderna teoria della giustizia richieda
entrambe riconoscimento e redistribuzione, in un rapporto dialettico che si possa
concretizzare in forme di politica che supportino anziché escludere le due istanze. N. Fraser
inoltre, al contrario di Rawls, parte dall’osservazione empirica dell’ingiustizia e non da un
processo di astrazione, in quanto osserva che, in generale, le diverse forme di ingiustizia sia
di non riconoscimento che di emarginazione economica sono di fatto correlate e non
separate.
Questo tentativo di ricomposizione è in qualche modo proposto anche da D. Harvey in
Justice, Nature and the Geography of Difference (1996) che allargando la sua visione
marxista alle istanze di riconoscimento così urgenti nella società contemporanea, ammette in
qualche misura i limiti di una teoria della giustizia sociale basata esclusivamente su una
formulazione in chiave di classe sociale. Per Harvey, i concetti di spazio, tempo, natura, così
come quello di giustizia rappresentano un insieme di discorsi socialmente costituiti,
espressione delle relazioni di potere, storicamente e geograficamente determinati. Una
permanenza, un sistema istituzionalizzato, un insieme di simboli, parole, frasi che,
(richiamando Wittgenstein), danno luogo a famiglie di significati. Ma per non cadere nel
rischio di un nichilismo post-moderno, in cui la diversità atomizza e disintegra anche
l’azione politica, frammentandola, come nel caso dei numerosi movimenti dal basso sorti
negli ultimi anni le cui rivendicazioni sfiorano il limite del comunitarismo e dei
particolarismi (come nel caso dei movimenti Nimby), in assenza di elementi comuni se non
17
universalistici su cui convergere, Harvey propone di negoziare la tensione tra universalismo
del concetto delle teorie filosofiche moderne (come abbiamo visto in Rawls) e relativismo
post-moderno con una visione dialettica e relazionale del processo sociale per arrivare ad una
accettazione without misunderstanding, focalizzandosi sui processi sociali in cui il concetto
di giustizia prende forma.
Per percorrere questa strada Harvey ricorre a Engels:
The conception of eternal justice varies not only with time and place but also with the
persons concerned… While in everyday life expression like right, wrong, justice and sense of
right are accepted without misunderstandings even with reference to social matters, they
create…the same hopeless confusion in any scientific investigation of economic relations
(Marx and Engels, 1951 in Harvey 1992, p. 598).
Riconosce cioè che, benché sia necessario andare oltre una visione basata soltanto su
principi universalisti, vi sia, pena il perdersi nella nozione di giustizia come decostruzione e
quindi nell’inazione politica, la necessità di una convergenza verso il riconoscimento di
qualcosa di universale al di là della differenza.
Harvey propone, seguendo Engels, di studiare la giustizia contestualizzandola nel tempo e
nello spazio, cercando di convergere il più possibile verso le similarità delle differenze. Il
caso della fabbrica di pollame di Hamlet (North Carolina) in cui muoiono decine di
lavoratori per un incendio è l’esempio di questa ricerca. I lavoratori morti erano per lo più
neri, donne, poveri. Ma erano, al di là delle loro differenze di genere, sesso, razza, religione
uniti dall’appartenenza ad una condizione comune, quella di lavoratori sfruttati. Quindi, per
far sì che la politica possa dare risposte il più possibile unitarie e meno frammentate, Harvey
propone di identificare queste similarità nella differenza, rifacendosi anche ad D. Haraway
per cui non è la differenza tout court che conta ma la differenza “significativa”.
Come riconoscere le differenze significative per arrivare ad una sintesi operativa del
concetto di giustizia, per permettere alleanze in base alle similarità più che in base
all’uniformità? L’epistemologia utilizzata è quella del materialismo storico-geografico di
Harvey in cui le similarità su cui convergere sono quelle trascurate nell’analisi post-
strutturalista: commodities, accumulazione del capitale, mercato. Solo attraverso un re-
impegno critico rispetto alla political economy, e ad una posizione netta contro il modello di
accumulazione capitalistica, la giustizia sociale può diventare un valore chiave universale
(Harvey, 1996).
18
Anche se il concetto di giustiza sociale “varies not only with time and place but also with
the persons concerned… “ (Ivi, p. 226 ) bisogna riconoscere anche la forza politica di una
concezione unitaria di giustizia sebbene non universalistica. Sebbene “hopelessly confused”
se esaminate in astratto, gli ideali di giustizia sociale, contestualizzati nel tempo e nello
spazio, possono ancora funzionare come potente discorso in grado di mobilitare l’azione
politica.
A tale proposito, è esemplificativo il metodo che Harvey (1992, p. 558) adotta per uscire
dall’indeterminatezza post-moderna. Partendo da un approccio dialettico, Harvey sostiene
che la decostruzione dei valori universali deve essere inserita in alcune permanenze1 di cui
siamo circondati nella nostra vita quotidiana: cioè le concrete condizioni di vita materiale, la
“solida roccia” del materialismo storico-geografico. Proprio per cercare una definizione di
giustiza “accepted without misunderstandigs” Harvey propone di identificare, al di là delle
differenze, le similarità che offrono le basi per la comprensione dei diversi gruppi e costruire
alleanze. Commodities, economia di mercato, accumulazione di capitale rappresentano le
similarità e le permanenze da costruire e per realizzare politiche che oltre la denuncia e la
soluzione delle ingiustizie, mettano in discussione il sistema che le ha generate.
Le teorie della giustizia qui esaminate sono soltanto una piccola parte del dibattito sulla
giustizia sociale che vede impegnati da secoli filosofi, giuristi, economisti, sociologi. In
bilico tra universalismo e particolarismo, tra redistribuzione e riconoscimento il dibattito
rischia di lasciarci nel dilemma con cui abbiamo aperto la discussione di questo capitolo:
quale teoria è la più socialmente giusta?
L’approccio del materialismo storico-geografico di Harvey ha sicuramente due vantaggi e
ci consente di uscire dall’impasse: mediare le istanze di redistribuzione e riconoscimento e
inserire l’idea di giustizia sociale in un contesto fortemente localizzato sia storicamente che
geograficamente. Un approccio che offre, inoltre, la possibilità di analizzare la giustizia
sociale in vista di un’ulteriore complicazione che stiamo per aggiungere al dibattito, quella
della sua dimensione e significato spaziale.
1 Il concetto di permanenza sarà più diffusamente trattato nel capitolo 3.
19
2. Dalla giustizia sociale alla giustizia spaziale:
il percorso teorico
Questo capitolo descrive il dibattito teorico sulla giustizia spaziale sviluppatosi, in
particolare, nell’ambito della geografia anglosassone e, più in generale, in lingua inglese. In
Italia manca una riflessione strutturata sul tema, nonostante la ricca tradizione di studi sui
divari territoriali di sviluppo che potrebbe costituire un punto di partenza significativo per
l’analisi. L’obiettivo del capitolo è quello arrivare a delineare una tassonomia di approcci e
al contempo far emergere i principali aspetti problematici e cercare di rispondere alle
seguenti domande: come nasce il concetto di giustizia in relazione allo spazio? Quali sono
gli elementi caratterizzanti questo approccio alla giustizia? Quali sono le giustificazioni
teoriche e quali le ricadute pratiche? Quali sono gli ambiti del pensiero geografico che hanno
fatto riferimento a questo concetto nella spiegazione delle differenze dei livelli di sviluppo
territoriali?
Il concetto di giustizia spaziale richiede una riflessione teorica che oltre all’excursus sulle
teorie della giustizia sociale già presentato, interseca alcuni filoni rilevanti per l’analisi
geografica: la dimensione etica della geografia, le diverse modalità di teorizzare e
rappresentare lo spazio, il suo impatto nella pianificazione territoriale e nell’agenda politica.
La giustizia spaziale si situa, in tal modo, al crocevia tra società e spazio.
2.1 La giustizia spaziale: il percorso teorico tra context concept e concept content
Ricostruire il percorso teorico del concetto di giustizia spaziale esige alcune premesse.
Il termine giustizia spaziale sottende diverse posizioni teoriche e metodologiche. Come
vedremo nel corso dell’analisi effettuata in questo capitolo, è dall’aggettivo spaziale, quindi
dall’approccio concettuale nei confronti dello spazio, più che dal sostantivo giustizia che
vanno indagate le discriminanti per tracciare una definizione chiara e operativa del termine.
20
All’interno del percorso teorico proposto possiamo individuare due posizioni principali.
La prima posizione, che potremmo definire “tradizionale”, utilizza il termine giustizia
spaziale come chiave di lettura delle diseguaglianze territoriali e della diversa allocazione
delle risorse tra territori alle diverse scale, in particolare a scala regionale. Lo spazio, in
questi lavori, è quello della tradizione geografica quantitativa e positivista, uno spazio
lineare, amministrativo, un contenitore di fatti socio-economici in cui la giustizia è analizzata
attraverso il metodo di analisi comparata tra territori alle diverse scale. E’ l’approccio dei
lavori di A. Reynaud, A. Bailly, P. Knox, M. Pacione.
Il secondo approccio, considera, invece, spazio e giustizia in rapporto dialettico in cui lo
spazio è un prodotto sociale, è lo spazio delle relazioni che viene creato creato da politiche
ingiuste e a sua volta alimenta le ingiustizie sociali. Il riferimento principale è alla dialettica
socio-spaziale di E. Soja che rifacendosi alle teorie di H. Lefebvre, in una prospettiva critica,
integra lo spazio come supporto ontologico e come parte integrante delle spiegazioni
dell’in/giustizia sociale. La giustizia sociale diviene, in questa prospettiva, un valore
fortemente localizzato e contingente, con un’enfasi sugli aspetti spaziali della giustizia e
dell’ingiustizia in cui “unire insieme i termini giustizia e spazio può aprire una gamma di
nuove possibilità” (Soja, 2010). E’ la metodologia che caratterizza, seppur con elementi di
diversità, i contributi fondamentali E. Soja (1989, 2009, 2010) e M. Dikeç (2001, 2009), due
dei principali geografi che hanno analizzato la giustizia in questa prospettiva spaziale
critica2.
Un discorso a parte va fatto per i contributi di D. Harvey (1978, 1996, 2006, 2012), che
sebbene non riguardino direttamente la giustizia spaziale come definita dalla geografia
critica di matrice anglosassone, rappresentano un contributo fondamentale sia per la
comprensione del concetto che per la concettualizzazione dello spazio che sarà mutuata in
questo lavoro.
2 Con il termine geografia critica si fa riferimento ad una vasta gamma di posizioni teoriche, idee ed approcci
disciplinari che hanno in comune un deciso impegno politico e sociale. Gregory et al. (2009) identificano tre
elementi distintivi che accomunano l’approccio critico: opposizione alle forme di potere nella produzione dello
spazio, pluralità di approcci teorici (dal marxismo al femminismo, dal post-colonialismo al post-strutturalismo,
per esempio), impegno, dentro e oltre l’accademia, verso la giustizia sociale e le politiche mirate alla
trasformazione delle strutture sociali che riproducono rapporti di potere ingiusti. Anche se non esistono
distinzioni nette con la geografia radicale, la geografia critica è meno istituzionalizzata, più eclettica dal punto di
vista teorico e politico.
21
2.1.1 Le analisi tradizionali e la dimensione etica della geografia
L’equa distribuzione nello spazio dei beni materiali e immateriali, finalizzata sia alla
competitività economica che al benessere sociale, è un tema tradizionale della geografia che
si interroga sulle cause dello sviluppo diseguale tra territori. Il tema della distribuzione equa
tra territori è inoltre, spesso, legata ad un altro tema ricorrente in geografia: quello della
dimensione etica del geografo.
Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, nel saggio La politique des etats et leur
geographie, J. Gottmann (1951) evoca a più riprese la relazione tra geografia e giustizia e
pone il problema del rapporto tra eguaglianza, equità e giustizia. Una geografia al servizio
della giustizia costituisce per Gottmann il fondamento della pianificazione territoriale e la
ricerca della cooperazione e della giustizia nello spazio e la chiave identitaria della geografia
Comment répartir également, dans un monde différencié et inégal au départ, les ressources
utiles de façon équitable ? [...] C’est à la fois dans la psychologie humaine, dans la nature
même des ressources et dans l’organisation spatiale de l’univers que résident les trois
facteurs d’inégalité et même, selon la théorie morale, de l’injustice entre les peuples »
(Gottmann, 1951, p. 189).
Questo engagement a favore di una geografia improntata ad un deciso orientamento etico
sembra essere un primo tentativo di mettere in discussione la generalità della professione
geografica dell’epoca, orientata ad un sempre crescente approccio quantitativo e a criteri
economicisti e utilitaristi, in cui il modello ideologico è quello della crescita economica che
assicurerebbe, oltre ad un aumento del reddito pro capite, anche sviluppo e progresso. In
questa prospettiva, l’impegno per una distribuzione giusta delle risorse nello spazio non
riguarda il rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali quanto piuttosto permettere a
ciascun territorio di avere il suo posto nei ranking mondiali della crescita ed essere
competitivo rispetto ad altri territori per cercare di attrarre capitali ed investimenti.
Con i primi segnali di crisi del modello della crescita illimitata e le conseguenti
contestazioni sociali che si registrano nel mondo occidentale a partire dalla fine degli anni
Sessanta e, parallelamente, a un’evoluzione del quadro epistemologico dominante fino ad
allora, anche in geografia si registrano numerosi lavori orientati ad un impegno significativo
verso il sociale. Il primo lavoro che esplicitamente lega il termine geografia con il termine
giustizia è un libro intitolato Social Needs and Resources in Local Services scritto da
22
Bleddyn Davies nel 1969 (Dikeç, 2001), in cui per la prima volta compare il termine
giustizia territoriale.
Nel 1975 P. Knox, in Social wellbeing: a spatial perspective (Knox, 1973), identifica
l’efficienza economica come un mezzo per migliorare le condizioni sociali e sottolinea
l’esigenza, nella misurazione degli squilibri economici e sociali a livello spaziale, di un
quadro di riferimento teorico intorno a cui articolare la costruzione di indicatori a livello
locale e nazionale per misurare il benessere sociale definito come level of living.
In Espace, société, justice, A. Reynaud (1981) pone il problema della distribuzione
spaziale delle risorse in termini di “classi socio-spaziali” tra cui si instaurano spesso relazioni
ineguali, determinando rapporti gerarchici tra “centri” e “periferie” che per essere equi
necessitano della predisposizione di dispositivi di “giustizia socio-spaziale” definiti come
“moyens utilisés par la puissance publique pour atténuer les inégalités entre classes socio-
spatiales” (Ivi, p. 35) e della creazione di autorità politiche la cui sovranità è spazialmente
legittimata.
Anche se l’oggetto delle sue analisi non è propriamente la giustizia sociale quanto invece
il concetto di benessere, anche A. Bailly può in qualche modo essere citato tra i geografi che
si sono preoccupati di dare un risvolto morale alla disciplina e quindi un suo ruolo attivo
nella definizione delle politiche locali. Nel suo libro Geographie du bien-etre (Bailly, 1981),
infatti, egli mette in discussione le semplici analisi quantitative e comparative tra territori in
favore di una visione dello sviluppo territoriale che si interroghi sui fini delle politiche, e di
un concetto di benessere in cui Bailly incorpora numerosi elementi soggettivi.
In questo filone possiamo inserire anche uno dei primi contributi in cui si parla
espressamente di giustizia territoriale, anche se esso rappresenta una discontinuità nel quadro
dei contributi precedentemente descritti, non soltanto per l’approfondita riflessione sulla
spazialità, ma anche perché mette in discussione i metodi delle scienze regionali e, nei
contenuti, si distacca dall’idea di una giustizia sociale normativa e universalistica del
pensiero liberale a favore di una posizione socialista in cui predomina l’analisi delle
dinamiche strutturali del capitalismo a livello spaziale (urbano, in particolare). E’ il lavoro
Social Justice and the city di D. Harvey (1978), composto da due parti distinte che
rappresentano l’evoluzione del pensiero del geografo: tesi liberali e tesi socialiste. La prima
parte, relativa alle formulazioni liberali, preclude, proprio per la constatazione
dell’incapacità di tale formulazione a cogliere “la causa assente” (lo scambio ineguale insito
nel sistema capitalistico), alla formulazione delle tesi socialiste della seconda parte del libro.
23
La concezione della giustizia contenuta nelle Tesi liberali mutua gli elementi fondamentali
dalla teoria della giustizia di Rawls (cfr. cap. 1). Definisce infatti il concetto di giustizia
sociale-territoriale sotto forma di due principi rawlsiani:
1. la distribuzione del reddito dovrebbe essere tale da assicurare a) il soddisfacimento dei
bisogni della popolazione in ciascun territorio, b) allocare le risorse in modo tale da
massimizzare gli effetti moltiplicatori interterritoriali, c) allocare ulteriori risorse per
contribuire al superamento di particolari difficoltà causate dall’ambiente fisico e sociale.
2. I meccanismi istituzionali organizzativi, politici ed economici dovrebbero essere tali da
massimizzare le prospettive dei territori meno avvantaggiati. (Harvey, 1978, p. 143)
Adempiendo a queste condizioni, si avrà una distribuzione equa conseguita in modo
giusto. Le implicazioni a livello territoriale risiedono principalmente nel decidere una forma
di organizzazione spaziale che massimizzi le prospettive dell’area meno fortunata, ottenuta,
per esempio, attraverso una zonizzazione socialmente giusta in cui i gruppi e i territori in cui
risiedono siano avvantaggiati dalla distribuzione, secondo la tesi rawlsiana del maximin (cfr.
cap. 1). Qui entra in gioco il ruolo di autorità politiche che possano in qualche modo guidare
questo processo in quanto:
è evidente che il capitale si muoverà secondo criteri estranei ai bisogni o alle condizioni dei
territori meno avvantaggiati […]. Ma sembra impossibile imporre queste restrizioni senza
modificare alla base l’intero processo di flussi di capitali”. (Ivi, p.138)
Quindi, malgrado il titolo dell’opera, l’interesse di Harvey si sposta ben presto verso una
forte scetticismo del concetto stesso di giustizia sociale da attuarsi nella società capitalistica:
Sono destinati a fallire i programmi che mirano ad alterare la distribuzione senza modificare
la struttura del mercato capitalistico, dove si formano e si distribuiscono ricchezza e reddito
(Ivi, p. 135).
E’ quindi l’incapacità delle formulazioni liberali nel cogliere “la causa assente” nella
realizzazione della giustizia sociale all’interno del capitalismo che conduce Harvey alla
ricerca di spiegazioni più soddisfacenti attraverso una lettura in chiave marxista delle
strutture spaziali del capitalismo per denunciarne gli effetti sulla società.
Se si ammette che una condizione di scarsità è essenziale al funzionamento del sistema di
mercato ne consegue che privazione, appropriazione e sfruttamento sono fenomeni
concomitanti necessari al sistema di mercato. In un sistema spaziale ciò implica (problemi
ecologici permettendo) che vi sarà una serie di movimenti di appropriazione tra territori che
porterà alcuni a sfruttare ed altri ad essere sfruttati. Questo fenomeno è evidentissimo nei
24
sistemi urbani, dato che l’urbanesimo […] si è fondato sull’appropriazione del prodotto
eccedente (Ivi, p. 140).
In questo contesto va quindi letta la posizione di Harvey nei confronti dell’idea di
giustizia sociale in ambito urbano. Egli, infatti, non sviluppa un modello operativo ma
utilizza la giustizia come un mezzo per denunciare le contraddizioni interne al sistema
capitalistico, una strategia che sarà sviluppata negli scritti successivi, dove appunto la
giustizia diventerà un “potente discorso in grado di mobilitare l’azione politica” (Harvey,
1996) .
Un caso a parte, a cui vale la pena dedicare una riflessione più approfondita, è il saggio
del geografo sudafricano Gordon Pirie. Nel suo scritto “On Spatial Justice” del 1983, Pirie
per primo parla di giustizia spaziale e per primo effettua una articolata critica del termine.
Giudicando intractable la letteratura sulle diverse teorie della giustizia sociale, (Pirie, 1983,
p. 469), egli sottolinea la quasi impossibilità di propendere per una definizione funzionale ad
una applicazione pratica, ad una sua traduzione in politiche. Infatti, è alto il rischio di cadere
nella trappola del feticismo spaziale in quanto non esiste la possibilità, nelle questioni di
giustizia, di effettuare valutazioni attraverso una moralità puramente spaziale e quindi, di
giudicare in modo disgiunto dal contesto storico-sociale dei luoghi analizzati. Il problema
principale, per Pirie, consiste nel fatto che l’aggettivo “spaziale” del termine giustizia
spaziale denota, nella letteratura da lui esaminata (D. M. Smith, B. Davies, ecc.), un concetto
di contesto e non di contenuto.
Questa distinzione tra context concept e concept content rappresenta una svolta
significativa nel dibattito sulla giustizia spaziale. Infatti, se il termine giustizia spaziale può
sembrare una mera abbreviazione della frase “giustizia sociale nello spazio”, ciò è dovuto al
fatto che lo spazio è utilizzato per comparare territori alle diverse scale nella sua accezione di
contenitore di fenomeni sociali e umani, posizionati nello spazio e caratterizzati dalla
distanza tra di essi.
Conceptualizing spatial justice in terms of a view of space as process, and perhaps in terms
of radical notions of justice, stands as an exacting challenge and, not unlikely, as the single
occasion there might be for requiring and constructing a concept of spatial justice...In spite
of the challenge of spatial fetishism and in spite of radical assault on liberal distributive
concerns, it would be worthwhile investigating the possibility of matching justice to notions
of socially constructed space” (Ivi, p. 472).
25
Pirie sottolinea quindi la necessità di integrare lo spazio nell’analisi del termine giustizia
spaziale, uno spazio da riconcettualizzare in chiave di processo e di prodotto sociale e di
problematizzare la nozione di giustizia, oltre il semplice concetto di redistribuzione.
E’ la conclusione del lavoro di Pirie. Come vedremo in seguito, è un passaggio
significativo e, per l’epoca, fortemente innovativo. Il passo successivo è la
concettualizzazione dello spazio che E. Soia e D. Harvey, in modi e tempi diversi e
pervenendo a risultati diversi, utilizzeranno nella costruzione del loro percorso di analisi
dialettica tra spazio e società.
2.1.2 La dialettica socio-spaziale
Se l’approccio teorico alla giustizia spaziale prima descritto raccoglie posizioni variegate
che si possono unire per una visione non problematica del concetto di spazio, il secondo
filone di analisi, in una prospettiva critica, integra lo spazio come supporto ontologico e
come parte integrante delle spiegazioni dell’in/giustizia sociale e quindi come prodotto
sociale3. La giustizia sociale diviene, in questa prospettiva, un valore fortemente localizzato
e contingente, con un’enfasi sugli aspetti spaziali della giustizia e dell’ingiustizia in cui unire
insieme i termini giustizia e spazio può aprire una gamma di nuove possibilità per l’analisi
(Soja, 2010). E’ la metodologia che caratterizza, seppur con elementi di diversità, i contributi
fondamentali di D. Harvey (1973, 1996, 2006), M. Dikeç (2001) e E. Soja (1989, 2000,
2009).
Le insoddisfazioni denunciate da Pirie sul concetto di giustizia spaziale non tengono
conto del ripensamento dello spazio come prodotto sociale che si afferma a partire dall’opera
magistrale di H. Lefebvre, La Production de l'espace (1973, trad. it. 1978), anche se, come
vedremo, le riflessioni sulla natura dello spazio sono centrali per un contributo sulla giustizia
spaziale. La teorizzazione dello spazio va di pari passo con questa evoluzione: da una
giustizia liberale, prescrittiva e normativa a cui è associato uno spazio lineare dei lavori
prima analizzati, si passa, attraverso una nuova concettualizzazione dello spazio come
supporto ontologico e come parte integrante delle spiegazioni dell’in/giustizia sociale e
quindi come prodotto sociale, ad una visione della giustizia le cui diverse tipologie sono in
tensione dialettica tra di loro.
3 Un approfondimento su questo tema sarà fatto nel capitolo 3 del presente lavoro.
26
L’analisi spaziale tradizionale fondata sulla teoria della localizzazione è accusata di
legittimare il quadro di valori dell’economia liberale e secondo Harvey contribuisce a
chiarire l’assenza del concetto di giustizia sociale nell’analisi geografica:
Gli strumenti prescrittivi di cui tipicamente si servono i geografi per esaminare i problemi di
localizzazione derivano dalla teoria classica della localizzazione. Tali teorie sono
generalmente improntate al criterio dell’ottimalità di Pareto, poiché definiscono come
modello di localizzazione ottimale quello in cui nessun individuo può spostarsi senza che i
vantaggi da lui ottenuti con questo spostamento non siano controbilanciati da un analogo
danno per un altro individuo. La teoria della localizzazione si è quindi affidata al criterio
dell’efficienza per specificare i suoi termini […] intesa come minimizzazione dei costi
aggregati di spostamento all’interno di un particolare sistema spaziale […]. Questi modelli
trascurano le conseguenze delle decisioni di localizzazione sulla distribuzione del reddito. I
geografi hanno quindi seguito gli economisti in un tipo di analisi dove sono messe da parte le
questioni relative alla distribuzione del reddito (Harvey, 1978, p. 120).
Queste riflessioni sono centrali per un contributo sulla giustizia sociale.
L’idea che i principi della giustizia sociale assumono un certo rilievo per l’applicazione dei
principi geografici e spaziali alla pianificazione urbana e regionale, mi sembrava un
ragionevole punto di partenza. (Ivi, p. 23).
Harvey tuttavia segue questo percorso fino ad un certo punto. Non può infatti accettare,
nella sua visione ortodossa marxista, di sostituire come preminente il ruolo dello spazio al
posto della storia nella spiegazione delle dinamiche della società capitalistica.
Due decadi più tardi è M. Dikeç che riprende ciò che Pirie indicava come l’agenda di
ricerca per il dibattito sulla giustizia spaziale. Criticando il geografo sudafricano per aver
trattato lo spazio come contenitore statico, Dikeç (2001) afferma che la spazializzazione è
uno dei principali produttori di ingiustizia sociale. Partendo dalla critica della teoria di
Rawls, debole dal punto di vista socio spaziale e orientata alla massimizzazione delle libertà
individuali, egli adotta la definizione di giustizia di I.M. Young secondo cui la giustizia deve
essere primariamente teorizzata in termini di oppressione e dominazione più che di
redistribuzione (cfr. cap. 1). Tale definizione, secondo Dikeç (Ivi, p. 1787), è produttiva per
costruire una nozione di giustizia spaziale in quanto lo spazio –visto come prodotto sociale-
è una delle prime forme di oppressione e segregazione:
I should like to believe that a sensitivity to the spatial dimension of justice may be developed
– especially in societies where injustice of spatial dynamics are exposed and largely
recognized – to guide emancipatory movements to suppress nomination and oppression in
27
and through space. The city seems to provide a fertile ground for such prospects (Ivi, p.
1788).
Dikeç chiarisce per primo un aspetto fondamentale nella dialettica tra spazio e giustizia,
mettendoli in rapporto dialettico nella formulazione della spazialità dell’ingiustizia e
dell’ingiustizia della spazialità.
La spazialità dell’ingiustizia implica che ci sia una dimensione spaziale dell’ingiustizia
per la quale deve essere usata una prospettiva spaziale per individuarle. Questo passaggio
può essere fatto attraverso un’analisi dei patterns distributivi del fenomeno giusto/ingiusto
nello spazio. L’esempio può essere quello di Los Angeles e dei Bus Riders Union citato da
Soja (2010). In questa città ha avuto luogo, nel 1996, la prima sentenza a favore della
mobilità delle classi più svantaggiate (immigrati di colore costretti al pendolarismo per
recarsi al lavoro) contro un progetto della Metropolitan Transit Authoriry relativo alla
costruzione di una rete ferroviaria miliardaria che avrebbe servito principalmente i quartieri
più lussuosi di Los Angeles a discapito dei sobborghi più svantaggiati. Il locale tribunale,
attraverso una sentenza storica, ha imposto invece di dare priorità nella spesa all’acquisto di
nuovi bus, alla riduzione dei tempi di attesa e della messa in sicurezza sia in termini di
viabilità che di riduzione del crimine alle fermate dei bus.
L’ingiustizia della spazialità, d’altra parte, implica secondo Dikeç, che le strutture
esistenti (permanences) siano in grado di produrre e riprodurre le ingiustizie through space.
Confrontato alla spazialità dell’ingiustizia questo è un concetto più dinamico e process
oriented. L’esempio possiamo mutuarlo da Harvey (2006) quando parla di Ground Zero.
Non possiamo capire Ground Zero limitandoci alla sua descrizione spaziale, delimitata da
confini, misurata in termini cartesiani ma dobbiamo estendere necessariamente l’analisi alle
sue componenti sociali, storiche, politiche.
Questa concettualizzazione implica due punti importanti:
1. L’analisi non può essere limitata al fenomeno oggetto dell’analisi in sé ma deve
essere estesa anche alle componenti del fenomeno.
2. Forma spaziale e processo (politico, sociale, economico) sono inseparabili a devono
essere considerati insieme.
Come può un approccio simile essere correlato allo spazio?
Qui interviene il ricorso a Lefebvre che teorizza lo spazio come un prodotto sociale e
l’enfasi è sul processo che produce lo spazio con:
28
- un focus sullo spazio come processo, come produttore e riproduttore di, e allo stesso
tempo a sua volta prodotto e riprodotto da relatively stable structrues
(permanences).
- il riconoscimento del rapporto spazio/giustizia come produttore e riproduttore che si
sostengono a vicenda attraverso la mediazione di permanences che danno luogo ad
entrambe.
Per Dikeç l’enfasi non deve essere posta sullo spazio per sé ma sul processo che produce
lo spazio e sulle implicazioni che questa produzione di spazio ha sulle dinamiche sociali,
economiche e politiche. Spazio che per Harvey come per Dikeç si manifesta attraverso la
mediazione di permanenze.
2.1.3 Il contributo di E. Soja
Il passo ulteriore alle riflessioni di Dikeç è la teorizzazione della giustizia spaziale che
compie E. Soja in un libro intitolato Seeking Spatial Justice (Soja, 2010). In questo
contributo troviamo tutti gli elementi che erano stati precedentemente ipotizzati da Pirie e
utilizzati da Dikeç: una teorizzazione dello spazio in continua tensione dialettica con la
società e un’idea di giustizia, comunque definita, che ha consequential geographies, una
spazialità che va oltre gli attributi fisici mappabili in modo descrittivo. Il ruolo dello spazio
riveste in Soja un aspetto diverso rispetto alla tradizionale formula space matters usata dai
geografi, in particolare di quelli economici che utilizzano la distanza e la prossimità come
chiave di lettura della distribuzione dei fenomeni nello spazio fisico.
Due idee fondamentali, presenti nel libro di Soja, sembrano portare la geografia al di là
del semplice spatial turn che ha interessato le scienze sociali negli ultimi anni.
La prima è che una prospettiva spaziale assertiva può aprire nuove prospettive di analisi
sia teorica che pratica; la seconda, ad essa complementare, è che esiste una relazione
formativa e consequenziale tra la dimensione sociale e spaziale della vita umana, ciascuna
formativa dell’altra.
E’ il concetto di dialettica socio-spaziale che Soja aveva già teorizzato in un lavoro del
1989 (Soja, 1989) dove vengono identificati tre orientamenti che caratterizzano il pensiero
marxista nei confronti del rapporto tra lo spazio - prodotto sociale - e le altre strutture in un
determinato modello di produzione.
29
Il primo orientamento si basa sulle idee di H. Lefebvre. Soja afferma che lo spazio e
l’organizzazione politica dello spazio esprimono le relazioni sociali sottostanti ma che, allo
stesso tempo, retroagiscono su di esse.
E’ da questa key notion che Soja parte per articolare la sua dialettica socio-spaziale:
Social and spatial relationships are dialectically inter-active, interdependent; social
relations of production are both space forming and space contingent (Ivi, p.211).
Un punto di vista che, tuttavia, è stato spesso catalogato, dal marxismo ortodosso, come
determinista e feticista.
Il secondo orientamento è quello che caratterizza la urban political economy4 teorizzata
da un gruppo di studiosi che nonostante l’interesse nell’analisi dello spazio urbano, non
vanno oltre la resistenza a credere che lo spazio organizzato rappresenti qualcosa di più di un
riflesso delle relazioni sociali di produzione e nella spiegazione dei fenomeni socio-spaziali
prediligono un approccio storicista.
Il terzo orientamento può essere individuato all’intersezione dei due precedenti. I suoi
adepti benché adottino le categorie spaziali di Lefebvre (di cui parleremo diffusamente nel
capitolo 3) e riconoscano quindi un ruolo alla spazialità nei processi di produzione,
mantengono alla fine la preminenza di una visione ortodossa storicistica e a-spaziale, per
paura di cadere in quello che è tradizionalmente definito il feticismo dello spazio: la
creazione nella struttura delle relazioni spaziali di una determinante autonoma della storia e
dell’azione umana separata dalla struttura delle relazioni sociali e dal processo produttivo
che la genera. Tradendo, in tal modo, secondo Soja, le loro stese premesse e pervenendo così
in posizioni analitiche deboli e vulnerabili benché rappresentino uno dei contributi più
significativi alla costruzione del concetto di dialettica socio-spaziale. In questo gruppo Soja
colloca le opere di M. Castells, D. Harvey e E. Wallerstein.
Vent’anni dopo, Soja ritorna su questa asimmetria persistente tra spiegazioni sociali e
spiegazioni spaziali e a rinforzare la sua tesi va detto che l’opera fondamentale di H.
Lefebvre è a tutt’oggi poco diffusa nei dipartimenti di geografia ed è stata tradotta in inglese
soltanto nel 1991, ben diciassette anni dopo la sua pubblicazione.
4 Con il termine political economy si intende una variegata e multidisciplinare tradizione di studiosi (marxisti,
post-marxisti, regolazionisti, neo-ricardiani) per cui i processi di produzione e accumulazione e di distribuzione
del surplus formano e sono formati, dialetticamente, dalle decisioni delle istituzioni politiche ed economiche. La
urban political economy concentra invece l’analisi viene sulle dinamiche di tali fenomeni in ambito urbano. Tra i
principali geografi di questo filone possiamo citare D. Harvey.
30
Soja quindi è il primo ad utilizzare il termine giustizia accoppiato a spaziale in questa
accezione di geografia critica. Secondo Soja l’aggettivo territorial al posto di spatial
enfatizza una sorta di sfondo neutrale con poche influenze causali. Ciò riduce la portata
esplicativa della consequenzialità della spazialità della giustizia e limita il potenziale per
generare nuove strategie di applicazione (Ivi, p. 225). E, partendo da questi presupposti cerca
di costruire una teoria della giustizia spaziale.
Our lives are always engaged in what I have described as a socio-spatial dialectic, with
social process shaping spatiality at the same time spatiality shake social process. Stated
another way, our spatiality, sociality, and historicality are mutually constitutive, with no one
inherently privileged a priori (Ivi, p.18).
Soja contesta la tradizionale preminenza accordata dalla nostra tradizione intellettuale ad
una prospettiva space-blinkered di analisi dei fenomeni sociali, ma senza cadere nella
trappola del feticismo spaziale di posizioni che considerano i processi spaziali preminenti
rispetto a quelli sociali nella formazione della realtà, egli afferma che essi sono “dialectically
intertwined, mutually (and often problematically) formative and consequantial (Ibidem).
Senza questo approccio lo spazio diventa poco più di una complicazione di fondo
dell’analisi. Con queste premesse, Soja elabora una serie di argomentazioni per supportare le
sue idee sulla “spazialità” della giustizia, identificando i tre principi fondamentali del suo
critical spatial thinking:
1. l’ontologia spaziale di tutti gli esseri viventi: tutti noi viviamo in una dimensione
spaziale oltre che sociale e temporale;
2. la produzione sociale della spazialità: lo spazio è un prodotto sociale e può per
questo essere cambiato;
3. la dialettica socio spaziale: i fenomeni sociali influenzano quelli spaziali tanto
quanto questi influenzano i fenomeni sociali.
Rifacendosi a Foucault rispetto all’intersezione tra spazio, conoscenza e potere, Soja
afferma che applicando questi principi “geographies in which we live can have negative as
well as positive consequences on practically everything we do” e quindi “expose the spatial
causality of justice and injustice as well as the justice and injustice that are embedded in
spatiality” (Ivi, p. 3).
31
2.2 La giustizia spaziale alle diverse scale territoriali
Il concetto di giustizia spaziale, come abbiamo visto, si caratterizza quindi non tanto per i
contenuti del termine giustizia quanto per una significativa riconsiderazione dello spazio
come prodotto sociale che è in continua tensione dialettica con la (in)giustizia: la spazialità
dell’ingiustizia e l’ingiustizia della spazialità per riprendere Dikeç.
E’ quindi sullo spazio che bisogna lavorare per transitare dalla concettualizzazione del
termine verso il suo versante empirico e un lavoro interpretativo sul campo. Questo
approccio consente inoltre, analizzando il dove ed il come le ingiustizie hanno luogo, di
contestualizzare il concetto di giustizia in ambiti socialmente prodotti più che in astrazioni
universalistiche e idealizzate.
Per illustrare i diversi contesti spaziali e la natura multi scalare della giustizia spaziale,
Soja (2010, p. 32) identifica tre livelli in cui le geografie (in)giuste sono prodotte e
riprodotte, scale di giustizia spaziale soltanto all’apparenza separate e distinte, in quanto,
nella realtà, e nell’analisi, interagiscono e si sovrappongono generando modelli diversi e
complessi:
1. Livello esogeno o top-down. Le geografie mondiali sono caratterizzate da una fitta
trama di layers di organizzazione macrospaziale che Brenner (2009), riprendendo Lefebvre,
paragona ad una torta millefoglie. Queste suddivisioni in distretti, regioni e altre partizioni
amministrative sono frutto non soltanto di una logica amministrativa ma anche di una
ripartizione dello spazio conforme al potere politico, alle egemonie culturali, e al controllo
sociale su individui, gruppi, etnie e minoranze. A tutti i livelli spaziali, da quello globale con,
per esempio, la divisione in “mondi” in base allo sviluppo (primo, secondo, terzo mondo) a
quello locale, l’imposizione dall’alto di distretti e confini può rappresentare, negli esiti sulla
vita quotidiana, forme di ingiustizia spaziale.
E’ il caso dei tumulti del 2005 nelle periferie francesi che M. Dikeç (2007) descrive
effettuandone una lettura in chiave spaziale ed evidenziandone una chiara dimensione
geografica. Mentre le rivolte degli anni ‘90 erano localizzate nelle immediate vicinanze delle
grandi città o diffuse nelle città confinanti, gli eventi del 2005 si diffondono a scala
nazionale. Le geografie della rivolta sembrano sovrapporsi per Dikeç con le geografie della
disoccupazione di massa, della discriminazione e della repressione che a partire dagli anni
32
’80 si sono estese per concentrarsi sempre più nelle banlieus dei grandi agglomerati urbani,
non soltanto in Francia ma nelle analoghe badlands di tutte le megalopoli mondiali.
Questa persistente spazialità dell’ingiustizia ci dice quindi qualcosa in più sulla natura
delle rivolte. I problemi connessi con la segregazione spaziale nelle periferie degli immigrati
e delle fasce deboli della popolazione urbana rendono conto sia della spazialità
dell’ingiustizia urbana (come outcome) sia della costante immissione di ingiustizie (come
processo) nelle geografie urbane, risultato di interessi privati e di politiche locali e nazionali.
Un altro caso di ingiustizia spaziale, citato da Soja (2010, p. 37) è il fenomeno del
gerrymandering, consistente nel ritagliare una circoscrizione elettorale manipolandone i
confini per trarne un vantaggio elettorale. La parola derivante dal nome del Governatore del
Massachusetts Elbridge Gerry e unita alla parola “salamandra” (dalla forma del distretto
manipolato) fu usata per descrivere una circoscrizione elettorale dal disegno decisamente
tortuoso presente durante le elezioni legislative del Massachusetts del 1812. La forma di
questa circoscrizione venne approvata in legge per l’appunto da Gerry su proposta dei
democratici con lo scopo di mettere in svantaggio i diretti rivali nelle successive elezioni
senatoriali. Questa pratica poteva essere usata per trarre vantaggio (o viceversa, per
provocare la sconfitta) in un particolare distretto e potevano esservi gruppi razziali,
linguistici, religiosi che necessitavano di ridisegnare a proprio favore la circoscrizione.
Altre forme di ingiustizia spaziale “dall’alto” vengono individuate da Soja (Ivi, pp. 39-40)
nell’apartheid in Sudafrica e nell’occupazione israeliana dei territori palestinesi come esempi
di geografie oppressive all’intersezione di spazio, conoscenza e potere come descritto da M.
Foucault. Per Soja la lezione è chiara: una volta create e iscritte nello spazio, le ingiustizie
spaziali sono difficili da cancellare anche se, sono in grado di generare potenziali spazi di
resistenza e di attivismi come nel caso dei numerosi movimenti nati dal basso che saranno
esaminati nel capitolo 4 e per i quali è essenziale, secondo Soja, sviluppare una coscienza
critica spaziale. E’ interessante notare questo aspetto delle ingiustizie spaziali: il loro essere
double-sidedness, vale a dire che a loro volto oppressivo uniscono, in potenza, una forte
spinta alla liberazione e quindi all’azione sociale.
Anche le dinamiche di difesa dall’”altro” che si concretizzano in una progressiva
fortificazione della vita urbana che negli ultimi anni ha caratterizzato le dinamiche di molte
33
metropoli mondiali5, in particolare di quelle americane, vengono individuate da Soja come
una forma di ingiustizia spaziale diretta dall’alto. Infatti, quello che è stato descritto come
security-obsessed urbanism (Ivi, p. 42), ha un forte impatto spaziale: costruzione di residenze
“chiuse” (gated communities), controllate e avvolte da sistemi di sicurezza tecnologicamente
avanzati, spesso protette da vigilanza armata. Diretto dalla paura e da preferenze individuali
sempre più rivolte a spazi privati, un altro fenomeno emergente negli Stati Uniti è quello
delle privatopias (così definite dal filosofo Evan Mackenzie nel 1994)6: comunità di
cittadini, legati da interessi comuni, che si stabiliscono in enclaves immobiliari, divise dal
resto della città non solo da recinzioni fisiche ma addirittura da statuti e regolamenti interni
avulsi dal governo urbano “esterno”.
Nella crescente fortificazione dello spazio urbano, sempre più permeato da sistemi
elettronici di sorveglianza, un altro livello di ingiustizia spaziale può essere identificato nelle
dinamiche di ristrutturazione urbana compiute negli ultimi trenta anni: la intensa
commodificazione dello spazio pubblico intesa come tendenza ad effettuare destinazioni
d’uso dello spazio pubblico per usi privati Una tendenza alla privatizzazione che le politiche
neoliberali hanno attuato spesso giustificandola con la logica dell’efficienza e che ha
determinato quella che Soja definisce come una sorta di spazio attraversato da confini di
ogni genere:
This property blanket is the under layer of a thick sedimentation of bounded spaces that
powerfully shape our everyday life.[…] Decades ago, it was noted that looking out from the
top of Empire State Building in NY City one could see more than 1.500 governments. If we
could see further into the thick layers of spatial regulation that enmesh us, the number would
zoom even higher, boggling our geographical imaginations. Every moment we make crosses
some boundary either we are aware of it or not. Understanding how unfair geographies are
formed requires some attention to this underlying blanket property rights” (Soja, 2010, p.
44).
D. Mitchell (2007, p.9) spiega che “publicly-owned property is now more and more being
governed as if it were private property with the right to exclude handed to private,
undemocratic interests”, riferendo di una crescente propensione alla “pseudo-private
property” che contribuisce alla crescente privatizzazione dello spazio urbano. Con
l’installazione di sistemi elettronici di sorveglianza in spazi quali strade, centri commerciali,
5 Oltre a tendenze di fondo delle società capitalistiche, alcuni autori attribuiscono molta importanza, nella
spiegazione di questi fenomeni, anche al clima di paura e di sospetto che ha generato, in particolare nella società
americana, l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle. 6 Esiste anche un blog dedicato alle privatopias gestito da E. Mackenzie: The Privatopias Papers
(www.privatopias.blogspot.it).
34
rimuovendo per esempio le panchine dai parchi e dalle piazze, vengono creati quelli che
Flusty (1994) definisce interdictory spaces, che creano una “paranoia urbana” instillando la
paura cronica per la diversità (l’immigrato, l’alcolizzato, il barbone,…) in coloro che abitano
questi spazi e determinano una gross spatial injustice tra quelli che possono accedere allo
spazio e quelli a cui viene interdetto (the spatial-haves and the spatial have-nots). L’erosione
degli spazi pubblici è in definitiva un assalto non solo allo spazio urbano ma anche alla
qualità della vita e alla giustizia sociale. Molti modelli di sviluppo urbano sono oggi
improntati ad una progressive erosione degli spazi pubblici a favore di insediamenti
frammentati e amministrati privatamente (Cherot e Murray, 2002).
E’ esemplificativo a tale proposito il fenomeno dello sprawl che al di là di motivazioni
funzionali di natura economica (dovuta per lo più ai valori immobiliari dei suoli e degli
immobili) è nato in un’era di pratiche pianificatorie orientate all’uso individuale e privato
degli spazi (abbiamo visto l’esempio delle gated communities) e dei mezzi di trasporto. Un
modello insediativo che crea uno stile di vita e impatta sulla qualità della vita dei residenti
attraverso una serie di implicazioni riassunte bene da Ewing (1997) e Savitch (2003) e di cui
tratteremo nel capitolo 5, proprio per l’interesse che questo fenomeno riveste per la
comprensione della giustizia spaziale nell’ottica della dialettica socio-spaziale: la
cumulatività delle ingiustizie spazializzate è uno dei punti più interessanti della costruzione
di Soja.
2. Livello endogeno o bottom-up. Le forme spaziali non sono tuttavia soltanto il risultato
di azioni esterne allo spazio interessato e non dipendono esclusivamente dal potere
gerarchico. La giustizia spaziale può essere configurata anche dal basso attraverso processi
endogeni di decisioni di localizzazione e distribuzione dei beni nello spazio. E’ il caso
classico, come abbiamo visto precedentemente, di distribuzione del reddito tra regioni,
dell’allocazione e dell’accessibilità nello spazio di servizi essenziali quali strutture sanitarie,
scuole, servizi di trasporto, presidi di sicurezza pubblica (posti di polizia, opportunità di
lavoro, ecc.). Una distribuzione ineguale di questi servizi è l’outcome più visibile di processi
decisionali più invisibili, spesso risultato di una pluralità di attori in contrasto o competizione
tra loro. La forma urbana di numerose città occidentali, per esempio, in una prospettiva
spaziale critica, è il risultato del modello di sviluppo capitalistico. Queste città si sono
sviluppate concentricamente attorno ad un nucleo centrale da cui si dipartivano
progressivamente cerchi concentrici di ricchezza e povertà determinando una geografia
35
sociale di classe della città, descritta da D. Harvey in Social Justice and the City (1978): il
normale funzionamento del mercato del lavoro, delle politiche per l’abitare, il mercato
immobiliare così come le politiche attuate da pianificatori, banche, commercianti,
imprenditori determinano una redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi, facendo
si che la città capitalistica stessa funzioni come macchina per la produzione e riproduzione
delle ineguaglianze distributive che Harvey chiama “territorial injustice”.
Anche la giustizia ambientale può essere considerata una forma di giustizia spaziale in
quanto molto spesso sono le classi più povere e le minoranze etniche, i gruppi di immigrati
che subiscono in modo più grave l’impatto di fenomeni quali l’inquinamento dell’aria e
dell’acqua, le conseguenze dell’abitare in prossimità di siti utilizzati per i rifiuti tossici o di
eventi avversi dovuti al surriscaldamento globale e all’assenza di pianificazione territoriale,
quali inondazioni, cicloni, ecc. Un tema eccessivamente complesso per essere affrontato in
questa sede.
3. Meso-geografie dello sviluppo ineguale. Tra la dimensione globale e quella locale ci
sono una gran varietà di scale intermedie, altrettanto significative per l’analisi e la
comprensione della giustizia spaziale: metropolitana, regionale, nazionale, sovranazionale.
Oltre alla già citata differenza tra Primo e Terzo Mondo, gli esempi di ingiustizia spaziali a
queste scale sono numerosi: si pensi per esempio al perdurante dualismo territoriale nello
sviluppo economico e sociale italiano.
Secondo Soja (2010), negli ultimi quaranta anni si è verificata una significativa nascita di
istituzioni sovranazionali che hanno un ruolo nel patrocinio della giustizia spaziale, benché
questa non sia l’obiettivo dichiarato delle proprie politiche. E’, per esempio, il caso
dell’Unione Europea che, seppur nel suo instabile equilibrio tra competitività e coesione, ha
rappresentato un esempio innovativo di politiche mirate alla riduzione delle diseguaglianze
regionali e alla lotta all’esclusione sociale, con la creazione di appositi Fondi, i Fondi
strutturali, per finanziare questi obiettivi. La politica di coesione territoriale dell’Unione
europea potrebbe, in questa chiave di lettura, essere un esempio di giustizia territoriale più
che di giustizia spaziale, in quanto i documenti di programmazione comunitaria non
esprimono un’idea di spazio come elemento cumulativo dell’ingiustizia sociale ma un’idea
di territorio come contenitore di fatti, in un’ottica in cui anche la coesione sociale sembra
eccessivamente finalizzata al miglior funzionamento dell’unione economica e commerciale,
più che un valore guida delle politiche (Moulaert, 2012). E’ infatti interessare notare che nei
36
documenti di programmazione dell’Unione europea il termine territoriale viene utilizzato
proprio nell’accezione che usa Soja: uno scenario neutro, non politicizzato, che non ha un
ruolo attivo nelle strategie da intraprendere. La stessa metodologia di calcolo delle aree
beneficiarie della politica di coesione, basata sui confini amministrativi e il Prodotto interno
lordo (nel caso dell’obiettivo Coesione) e l’uso del termine place-based riferito alle politiche
locali (Barca, 2009) denotano un uso della spazialità statica, senza alcuna relazione dialettica
con i fenomeni oggetto delle politiche né con gli altri livelli spaziali.
Al di là dei temi trattati in questa tripartizione scalare, rimane da notare che se le
ingiustizie relative allo sviluppo ineguale alle diverse scale sono spesso spiegate in termini
storici e sociologici, aggiungere una prospettiva spaziale costituisce un nuovo, interessante e
costruttivo contributo all’analisi sociale.
2.3 Il problema della relazione causale tra spazio e giustizia: putting space in his place
Dopo aver indagato le geografie della giustizia rimane tuttavia ancora poco chiaro nel
dibattito il rapporto che lega giustizia e spazio, in particolare le loro relazioni di causalità.
Attraverso le posizioni di P. Marcuse ed E. Soja possiamo ricostruire i termini del problema.
P. Marcuse, in uno dei suoi scritti Spatial Justice: Derivative but Causal of Social Justice
(Marcuse, 2011) esprime, già nel titolo, la sua posizione rispetto alla questione. Secondo
Marcuse, infatti, gli aspetti spaziali sono soltanto una causa parziale dei problemi sociali:
A spatial image for the seeds of the future can be helpful…and whatever is done will surely
have a spatial aspect too. But a spatial focus has its dangers too: most problems have a
spatial aspects, but their origins lie in economic, social, political arenas, the spatial being a
partial cause and an aggravation, but only partial (Ivi, p. 3).
A partire da due forme principali (che egli definisce “cardinali”) di ingiustizia spaziale,
cioè segregazione e ghettizzazione di gruppi nello spazio (the unfreedom argument) e
ingiusta allocazione delle risorse nello spazio (the unfair resources argument), Marcuse
individua alcuni elementi per sostenere la sua tesi:
- le ingiustizie spaziali derivano da più vaste ingiustizie sociali (the derivative argument);
- le ingiustizie sociali hanno sempre un aspetto spaziale e non possono essere affrontate
se non unitamente ai loro aspetti e risvolti spaziali (the spatial remedies argument);
37
- i rimedi spaziali sono necessari ma non sufficienti per porre rimedio alle ingiustizie
spaziali stesse (e, a fortiori, non servono per curare le ingiustizie sociali) (the partial
remedy argument);
- il ruolo delle ingiustizie spaziali nei confronti di quelle sociali dipende dal cambiamento
delle condizioni economiche, sociali e politiche che sono storicamente embedded, cioè
place specific (historical embeddedness argument).
In conclusione, possiamo affermare che ripercorrendo la tradizionale traiettoria
intellettuale basata sulla preminenza delle spiegazioni storiche e sociali da cui neanche i
geografi quasi mai divergono (Fincher e Iveson, 2012), Marcuse tende a sottolineare il
primato del “sociale” nella spiegazione delle ingiustizie anche se riconosce che la spazialità
ad esse connessa rinforza le ingiustizie sociali e che la loro risoluzione deve essere affrontata
in modo congiunto (the inseparability argument).
Soja, ripartendo da dove Harvey si era fermato in Social justice and the city, tenta,
secondo Gervais-Lambony e Dufaux (2010), a suo modo, una sintesi tra geografia radicale7.
e geografia postmoderna. La questione centrale per lui non è ridurre le diseguaglianze ma
affermare le differenze, attraverso un originale approccio trasversale in cui lo spazio e le
lotte dei movimenti basati sullo spazio divengono centrali.
Soja non è pronto a concedere che lo spazio è “derivativo” del sociale e afferma che la
giustizia spaziale non è semplicemente una sotto-categoria che può essere assorbita dal
concetto di “just city” o “social justice”. Egli è particolarmente critico delle “tendencies
among geographers and planners to avoid the explicit use of the adjective “spatial” in
describing the search for justice and democracy” (Soja, 2009) ed afferma che aggiungere
l’aggettivo “spaziale” a “giustizia” è cruciale per la teoria e per la pratica non solo a livello
urbano ma, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, a tutte le scale dal locale al
globale.
Dall’analisi condotta in questo capitolo emerge, sostanzialmente, che la giustizia spaziale
si caratterizza come un concetto fortemente contraddistinto dall’aggettivo “spaziale”. E’ in
base all’influenza dello spazio, inteso come prodotto sociale nella costruzione della
in/giustizia sociale, in rapporto dialettico che il concetto trova una sua identità e si
7 Il termine geografia radicale nasce negli anni ’70 per identificare quella parte di studiosi che esprimono nei loro
lavori una critica al modello contemporaneo di società basato sul capitalismo e, al contempo, al positivismo
imperante in quegli anni nella disciplina. Il marxismo è il riferimento teorico prevalente e la lotta di classe
l’approccio analitico privilegiato, sebbene in tempi più recenti, altre linee di approcci sono state sviluppate, in
particolare nell’ambito della geografia femminista (Gregory et. al, 2009).
38
differenzia da altri concetti simili o vicini a cui viene a volte assimilato, come nel caso della
giustizia territoriale e della coesione territoriale.
E’ quindi sul concetto di spazio che bisogna concentrare l’analisi per capire in che misura
e in quali termini esso contribuisce alla formazione e alle specificità del concetto di giustizia
spaziale.
39
3. Quale “spazio” per la giustizia spaziale? Un approccio critico
If two different authors use the words "red," "hard," or
"disappointed," no one doubts that they mean
approximately the same thing .... But in the case of words
such as "place” or "space”.. .there exists a far-reaching
uncertainty of interpretation – A. Einstein (in Rynasiewicz,
1996, p. 280).
Any search for an alternative to neoliberal globalization
must search for a different kind of spatio-temporality
(Harvey, 2001, p. 224).
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la definizione di giustizia spaziale, al di là
dei suoi contenuti teorici relativi all’idea di giustizia e alle sue implicazioni politiche, è
contraddistinta dall’approccio critico proposto da Soja e Dikeç, caratterizzato da una diversa
concettualizzazione dello spazio: spazio come prodotto sociale, spazio di relazioni e non
semplice contenitore di fenomeni umani da analizzare e mappare su una superficie omogenea
e neutrale.
Una più articolata concettualizzazione dello spazio è quindi il primo passo per tentare di
chiarire il concetto di giustizia spaziale e, al tempo stesso, cercare di fornire gli elementi
metodologici per la sua rappresentazione, un aspetto quasi mai affrontato in letteratura e che
costituirà l’oggetto dell’ultimo capitolo di questo lavoro. Una delle aree deboli della
letteratura sul tema infatti sembra essere proprio la mancanza di elementi concreti, sia
metodologici che empirici, su come rappresentare il concetto. Un tema che risulta invece
centrale considerati i contenuti del concetto di giustizia spaziale, funzionale alla pratica
politica, in particolare a livello urbano.
Come abbiamo avuto modo di vedere, in particolare nei lavori citati nel capitolo 2,
parlare di giustizia spaziale implica una revisione del concetto di spazio così come
tradizionalmente concepito ed utilizzato nell’analisi geografica tradizionale, quella di
tradizione quantitativa e positivista, e nelle scienze sociali. Ecco perché il primo paragrafo è
40
dedicato ad una digressione concettuale sullo spazio che ha poi conseguenze sulle
metodologie che adotteremo nella costruzione di un modello critico di rappresentazione della
giustizia spaziale. Lo spazio, quindi, come elemento fondante del concetto di giustizia
spaziale e come fondamento della sua rappresentazione. Uno “spazio” che diventa, in questo
prospettiva, key word (Harvey, 2006), elemento per l’interpretazione e la spiegazione della
realtà sociale.
3.1. La svolta spaziale nelle scienze sociali: H. Lefebvre e la trialettica dello spazio
La decisa affermazione dello spazio come elemento di analisi nelle scienze sociali, il
cosiddetto spatial turn è il risultato di diversi e a volte contraddittori ambiti ideologici di
influenza. In gran parte essa trova le sue radici nella tradizione marxista di critica al
capitalismo insita nei lavori di Harvey (1973, ed. italiana 1978) e di Lefebvre (1974, ed.
italiana 1978) che, in modi diversi, teorizzano lo spazio come “prodotto sociale”.
Dall’altra parte e in anni più recenti (anni Novanta del secolo scorso), questa
riaffermazione dello spazio sembra essere anche il risultato della critica cosiddetta “post-
moderna” alla modernità e del tentativo di comprensione del mondo frammentato delle
differenze (di cui abbiamo parlato nella capitolo 1).
Queste due distinte ideologie sembrano essersi legate nel concetto di spazio come
prodotto sociale e spazio relazionale: la traduzione in inglese de La production de l’espace di
H. Lefebvre risale al 1991 (circa 20 anni dopo la pubblicazione in Francia) e coincide con il
momento più alto del dibattito post-moderno nelle scienze sociali, in particolare in geografia.
Per illustrare il concetto di spazio sociale Lefebvre ricorre all’esempio di Venezia:
Venezia nasce da un progetto profondamente umano, quello di sfidare la natura sottraendo la
laguna al mare e allo stesso tempo, commerciale, attraverso la costruzione di un porto
navigabile che fosse da stimolo ai commerci. A partire dalle prime palafitte piantate in
laguna, la città è stata voluta e pensata dalle gerarchie locali, dai diversi capi politici che vi si
sono avvicendati, dai gruppi che li sostenevano, dai manovali che fisicamente costruivano la
città. La costruzione della città dunque emerge come il risultato di forze diverse, a volte
contrapposte. Lo spazio sociale, a partire dalla natura, contiene oggetti naturali e sociali, reti,
linee, flussi di scambi e di informazioni:
41
Non è riducibile né ai singoli oggetti che contiene né alla loro somma. Questi “oggetti” non
sono soltanto delle cose, ma anche delle relazioni. […] Il lavoro sociale li modifica; li
colloca diversamente negli insiemi spazio-temporali, anche quando ne rispetta la materialità
e naturalità: il loro essere isola, golfo, fiume, collina (Lefebvre, 1978, p. 95).
Lo spazio dunque è prodotto, a partire dalla natura, da attività che implicano l’economia,
la tecnica, la politica e le strategie ad esse connesse che danno luogo ad una molteplicità di
spazi non-numerabile paragonabile, come Lefebvre fa nel caso dello spazio urbano, a una
miriade di strati sovrapposti e interrelati che vengono paragonati agli strati di una torta
millefoglie (Ivi, p. 103).
La trilogia dello spazio di Lefebvre si inserisce in un progetto che egli stesso definisce
spaziologia, una interpretazione in senso spaziale della concezione del “feticismo delle
merci” di Marx. Per Lefebvre la conoscenza dello spazio oscilla tra descrizione e
frammentazione; si descrivono le cose nello spazio o dei pezzi di spazio, attraverso una
epistemologia che si basa su aspetti parziali da cui si traggono generalizzazioni. Il rischio di
questa conoscenza parcellizzata (lo spazio urbanistico, lo spazio dell’architetto, lo spazio del
geografo, del demografo, ecc.) è quello di cadere nel feticismo dello spazio in sé da cui si
può uscire soltanto pensando lo spazio come prodotto sociale.
La tendenza dominante frammenta e suddivide lo spazio, enumera i contenuti, cose, oggetti
diversi mentre varie specializzazioni se lo dividono e agiscono su di esso spezzettandolo,
creando barriere mentali e chiusure pratico sociali. Così l’architetto avrebbe in dotazione
(privata) lo spazio architettonico, l’economista lo spazio economico, il geografo il suo
“luogo”, il suo “bene” al sole nello spazio e così via. La tendenza ideologicamente
dominante ritaglia secondo la divisione del lavoro sociale parti e particelle dello spazio e si
rappresenta le forze che lo occupano come ricettacolo passivo. Invece di mettere in evidenza
i rapporti sociali impliciti negli spazi, invece di occuparsi della produzione dello spazio e dei
rapporti sociali inerenti a questa produzione […], si ricade nella trappola dello spazio “in
sé”: nella trappola della spazialità, del feticismo dello spazio […] della cosa isolata,
considerata in sé (Ivi, p. 106).
Non esiste uno spazio sociale ma più spazi sociali, anzi una molteplicità indefinita, di cui
il termine “spazio sociale” indica l’insieme non-numerabile […]. Gli spazi si compenetrano e
si sovrappongono […] sono insiemi contigui e continui (Ivi, p. 103). Lo spazio sociale inizia
a mostrare la sua ipercomplessità: “unità individuali e particolarità, fissità relative,
movimenti, flussi, onde, gli uni si compenetrano, le altre si affrontano […] ogni frammento
di spazio prelevato per l’analisi non contiene un rapporto sociale ma una molteplicità che
l’analisi stessa rivela” (Ivi, p. 105).
42
Lefebvre intende ricomporre questa molteplicità di spazi in una teoria critica unitaria
dello spazio che possa costituire un rapprochement tra spazio fisico (natura), spazio mentale
(astrazioni formali sullo spazio) e spazio sociale (lo spazio occupato da fenomeni sensoriali).
L’obiettivo è quello di poter decodificare e leggere lo spazio, nella sua complessità. Il suo
piano concettuale è organizzato intorno ai tre concetti di:
- pratica spaziale (spazio percepito) “ingloba produzione e riproduzione, luoghi
specifici e insiemi spaziali, propria di ogni formazione sociale” (Ivi, p. 54). Queste pratiche
spaziali hanno forte affinità con lo spazio dell’esperienza e della percezione, dei sensi tattili
e, secondo Lefebvre, condizionano la realtà delle persone nel loro uso quotidiano dello
spazio. La pratica spaziale associa la realtà quotidiana (l’uso del tempo) e la realtà urbana (i
percorsi, le strade, e le reti che collegano i luoghi di lavoro, della vita privata, del tempo
libero). Per Merrifield (1993, p. 529), Lefebvre mutua questo concetto da Kevin Lynch che
per primo ha esplorato le modalità con cui la percezione dello spazio condiziona la vita
urbana dei soggetti residenti: i monumenti, i paesaggi, determinati percorsi, i confini naturali
aiutano o scoraggiano il senso di appartenenza degli abitanti e i loro comportamenti.
- rappresentazioni dello spazio (spazio concepito e astratto), è lo spazio costruito e
rappresentato dai “discorsi” dei professionisti e tecnocrati dello spazio, architetti, urbanisti,
geografi, attraverso un sistema codificato di segni e simboli (le mappe per esempio). E’ lo
spazio dominante in una società e sottende una precisa ideologia, per cui ogni società
produce il suo spazio. E lo spazio del capitale e trova la sua espressione in monumenti, torri,
fabbriche , autostrade, aeroporti, centri di affari, reti di banche, lo spazio che “contiene il
mondo delle merci” (Lefebvre, 1978, p. 73).
- spazi di rappresentazione (spazio vissuto), è lo spazio delle sensazioni, delle
emozioni, dell’immaginazione e dei significati incorporati nella vita quotidiana, sperimentato
attraverso la complessa rete di simboli e immagini dei suoi abitanti e utilizzatori. E’ lo
spazio dominato che l’immaginazione e l’arte tentano di modificare ed occupare, studiato
dagli antropologi, dagli psicanalisti, intrisi di immaginario e di simbolismo, hanno origine
nella storia di un popolo e nel soggetto che vi appartiene. E’ essenzialmente qualitativo,
fluido, dinamico. “Lo spazio di rappresentazione si vive, si parla; ha un nocciolo o centro
43
affettivo, l’Ego, il letto, la casa, la camera; o ancora la piazza, i luoghi delle situazioni
vissute, dunque implica immediatamente il tempo” (Ivi, p. 62).
Come si intuisce da questa breve descrizione non è semplice la comprensione di questa
tripartizione dello spazio. Lefebvre stesso ricorre ad un esempio che forse può aiutarci nella
comprensione, quando parla dello spazio nel Medioevo.
Nel Medioevo, la pratica spaziale comprendeva sia la rete dei sentieri intorno alle comunità
contadine, ai monasteri, ai castelli, sia le strade che collegavano le città, le grandi vie dei
pellegrinaggi e delle crociate. Le rappresentazioni dello spazio si rifacevano alle concezioni
aristoteliche e tolemaiche, modificate dal cristianesimo: la terra, il mondo sotterraneo e il
Cosmo luminoso, abitato da Dio-padre, […] una sfera fissa, in uno spazio infinito […]. Gli
spazi di rappresentazione ponevano al centro la chiesa del villaggio, il cimitero, il palazzo
municipale e i campi, o ancora la piazza e la torre della città (Ivi, p. 65).
Per Lefebvre, questi tre momenti intervengono in modi diversi nella produzione dello
spazio, a seconda delle epoche storiche e delle diverse caratteristiche politiche e culturali
delle società. Possiamo anche affermare che le prime due tipologie di spazio corrispondono
forse alla definizione di space8 e gli spazi della rappresentazione alla definizione di place.
Per Merrifield, (1993, p. 525) la trialettica di Lefebvre ricompone la dualità place/space, in
quanto lo spazio percepito/concepito/vissuto trova la sua unità nello spazio vissuto, una
permanenza, come direbbe Harvey, una coerenza strutturata. Va in ogni caso sottolineato che
i tre momenti non sono mai da intendersi in modo separato ma in tensione dialettica tra di
essi, così come sottolinea Lefebvre stesso e come ribadirà lo stesso Harvey (2006) anni dopo
(cfr. oltre). Va infine osservato che, come suggerisce Zhung (2006), un elemento importante
nella teoria dello spazio di Lefebvre è l’introduzione del punto di vista dello spettatore, per
cui la sua trialettica non va intesa come una torta tagliata in tre fette ma piuttosto come tre
immagini diverse proiettate contemporaneamente da tre videocamere, immagini che non si
giustappongono ma si sovrappongono. Ciascuna immagine ci restituisce un momento
diverso: gli aspetti quantitativi, la lunghezza di una strada, l’altezza di un edificio, l’altezza
di un uomo (spazio concepito), il movimento dell’uomo, la fenomenologia della natura
(spazio percepito), e, infine, la soggettività, i sentimenti, le frustrazioni, i desideri più intimi
di quest’uomo (spazio vissuto).
8 I concetti di space e place risentono in modo particolare delle influenze linguistiche. In Italia infatti è utilizzato
prevalentemente il termine territorio come onnicomprensivo dei due significati distinti, invece, in lingua inglese.
Con riferimento alla trialettica lefebvriana si potrebbe ipotizzare che lo spazio percepito corrisponde allo spazio,
lo spazio concettualizzato al territorio e quello vissuto al luogo. Si veda Merriman (2012) per un dibattito più
ampio sui concetti di space e place.
44
3.2 Lo spazio relazionale
Più che la tripartizione prima descritta che riveste una funzione importante per questo
lavoro, come vedremo in seguito, è invece il concetto di spazio come prodotto sociale ad
aver avuto un enorme successo nella letteratura geografica post-moderna, in particolare in
quella anglosassone, tanto da essere accettato come un nozione acquisita. Unwin (2000)
afferma che la concezione del tempo e dello spazio è intimamente connessa alla nostra
visione del mondo: il lavoro di Lefebvre segue, nella scia del modernismo, la lunga
tradizione marxista che ha fiducia nella possibilità di rendere il mondo un posto migliore.
Cercando di comprendere tempo e spazio come determinati costrutti sociali che influenzano
la società capitalista, per Lefebvre diviene possibile comprendere il modo di cambiare la
“forma” della società.
E’ questo l’assunto alla base anche dei lavori di Harvey, la spazialità che spiega, al pari
del tempo ed in relazione ad esso, le nostre società e, al tempo stesso, ne viene influenzata in
una dialettica socio-spaziale che Soja assumerà come base teorica dei suoi lavori (Soja,
1982) connotati anche da un deciso intento operativo:
The praxis which guide our journeys to Los Angeles and other real-and-imagined places is
organized around the search for practical solutions to the problems of race, gender, and
other, often closely associated, forms of human inequality and oppression, especially those
that are arising from, or being aggravated by, the dramatic changes that have become
associated with global economic and political restructuring and the related
postmodernization of urban life and society (Soja, 1996, p. 22).
L’adozione della trialettica lefebvriana, con la sua critica dello spazio cartesiano, ha
determinato non soltanto una svolta negli studi geografici post-moderni ma anche una
significativa divisone tra geografia fisica e geografia umana (Unwin, 2000), in quanto, data
anche la complessità del pensiero e del lessico del filosofo francese, ricco di contraddizioni e
in continuo movimento, non ha convinto molti geografi che hanno continuato ad esercitare la
loro disciplina attraverso i concetti tradizionali di spazio fisico ed euclideo:
at times it seems that all the debates around space, society and economics advanced by
Lefebvre, Harvey, Soja, Massey, Hudson, Castells, Gregory and others have never appeared
in print (Hadjimichalis, 2006, p. 699).
Anche il tentativo di Soja di fondare un pensiero e un’immaginazione geografiche che
facciano saltare la dialettica “socialità-storicità” attraverso un elemento terzo e altro, la
45
spazialità, è di fondamentale importanza anche se, ancora oggi, soprattutto nell’ambito del
pensiero marxista, è ancora vivo lo scetticismo verso il tentativo di piegare tutta la filosofia
e, in definitiva, lo stesso pensiero marxista, allo spazio. Per ammissione dello stesso Soja, lo
spazio (e quindi la geografia) al pari della tempo (e quindi della storia) ha un valore
ontologico in grado di fornire spiegazioni più aderenti della realtà sociale.
Questa visione dello spazio sottintende, al di là delle sue implicazioni ideologiche, una
sua diversa concettualizzazione. In questo approccio, infatti, lo spazio non è più un mero
contenitore di fatti, fisso, immobile e rappresentabile in termini di distanza geometrica, di
prossimità fisica, di accessibilità, lo spazio delle mappe e delle coordinate geografiche. Non
è la piccionaia (pigeon-hole, Harvey, 1969, 2006), in cui il geografo deve riempire le singole
caselle, separate le une dalle altre, con informazioni sui fenomeni in esse contenuti,
utilizzando tecniche come la cartografia e individuando categorie spaziali per la raccolta e
l’analisi dei dati, attraverso un approccio che Callon e Law (2005) definiscono “romantico”,
in opposizione a quello “barocco” dell’approccio relazionale. E’ cioè meno territorio e più
spazio. Questo approccio viene descritto efficacemente da Amin quando afferma che lo
spazio deve essere considerato come l’insieme di lontano e vicino, di virtuale e materiale,
presenza e assenza, flussi e fenomeni statici che permettono di definire un luogo sia
topologicamente che in modo relazionale:
These new spatialities have become decisive for the constitution of place. The varied
processes of spatial stretching, inter-dependence and flow, combine in situ trajectories of
sociospatial evolution and change, to propose place – the city, region or rural area – as a
site of intersection between network topologies and territorial legacies. The result is no
simple displacement of the local by the global, of place by space, of history by simultaneity
and flow, of small by big scale, or of the proximate by the remote. Instead, it is a subtle
folding together of the distant and the proximate, the virtual and the material, presence and
absence, flow and stasis, into a single ontological plane upon which location – a place on the
map – has come to be relationally and topologically defined. Grasping the implications of
such a definition of place is not easy, given the grip of cartographic legacy measuring
location on the basis of geographical distance and territorial jurisdiction. (Amin, 2007, p.
103).
“Thinking space relationally” (Geografiska Annaler, 2004) diviene il mantra della
geografia umana dei primi anni del XXI secolo e in modo significativo l’analisi sociale. E’
una prospettiva di analisi che apre nuove possibilità di comprensione dei fenomeni sociali
analizzati nello spazio. Nella moderna condizione di ipermobilità definita come time-space
compression (Harvey, 1989):
46
space is not static nor fixed like a nested hierarchy moving from global to local; it is rather a
“complex and unbound lattice of articulations” (Allen et al., 1998).
Lo spazio diviene un set di layers interconnessi alle diverse scale, descritto bene dalla
metafora del millefeuille di H. Lefebvre e dei pleats and folds di Deleuze e Guattari. Jessop
et al. (2008) suggeriscono che i concetti di territorio, spazio, luogo, scala e reti devono essere
visti come diverse dimensioni delle relazioni socio-spaziali in rapporto di causazione
circolare.
Inoltre, in questo contesto, i concetti di spazio e di tempo sono stati radicalmente alterati
dalle nuove forme di accessibilità e connettività rese possibili dalle tecnologie
dell’informazione, rendendo le relazioni tra spazio materiale e virtuale “complexly
intertwined as layered with fixed physical and fluid digital elements” (de Freitas, 2010, p.
640).
Uno spazio quindi “open, discountinous, relational and internally diverse” (Allen et al.,
1998) in cui necessitano di una revisione anche i tradizionali costrutti geografici di luogo,
regione, locale e globale e tutte le gerarchie scalari nidificate a cui ci ha abituati la geografia
di stampo descrittivo e quantitativo. Ciò che conta non sono la posizione, la taglia, il
contesto ma le relazioni tra le cose (Callon e Law, 2005). Anche Raffestin (1981) afferma
quanto sia limitante per l’analisi ragionare in termini esclusivamente geometrici e statici:
Ogni trama territoriale è simultaneamente l’espressione di un progetto sociale risultante dai
rapporti di produzione che si allacciano nei modi di produzione e il campo ideologico
presente in ogni relazione (Ivi, p. 170).
Se si vuol costruire un’analisi partendo da situazioni dinamiche, occorrerebbe parlare di
organizzazioni o di gruppi in situazione di centralità […] o di marginalità. Non si darebbe
con ciò alla necessaria rappresentazione bifacciale una connotazione geometrica che […]
non è altro che una simbolizzazione a posteriori che non spiega nulla (Ivi, p. 191).
Il concetto di spazio relazionale è spesso associato al nome di Leibnitz. Un evento o una
cosa in un punto dello spazio non può essere compreso solo in relazione a ciò che esiste in
quel punto. Esso dipende invece da tutto che vi è intorno, da tutta la vasta varietà di
influenze che si agitano nello spazio nel passato, presente e futuro si concentrano e
congelano per definire la natura di quel punto: è il concetto di relational space-time proposto
da Harvey (2006) e quello di spazio come simultaneità di eventi (Massey, 2005).
Uno dei risultati principali di questo approccio è analizzare i fenomeni sociali evitando
quella che Agnew (1994, 2010) ha definito la “territorial trap”, vale a dire la visione, diffusa
47
nelle scienze sociali, di spazio come territorio cioè come unità definita da confini
amministrativi, coincidenti con lo Stato o la regione, con un approccio meramente
classificatorio e strumentale. Un approccio in cui, come sottolinea Agnew, viene data per
scontata un’omogeneità dei fenomeni sociali, economici e politici che vi hanno luogo,
attraverso un’assunzione metodologica di 'timeless space' in cui l’unità territoriale di
riferimento diviene un’”unità razionale”. E’ la stessa critica che Hadjimichalis (2006) muove
a gran parte della geografia economica quando, a proposito dell’inserimento dei fattori non-
economici nella spiegazione dei divari di sviluppo territoriali, afferma che la regione è
diventata una sorta di unità-attore e parla di “trappola della reificazione”:
The apotheosis of territories and regions as new units of analysis has disoriented radical and
critical debates from the scalar spatial framework (see Swyngedouw, 1997; Bunnell and Coe,
2001) to a kind of bounded territorial logic finally pushing the argument to the trap of
reification. This could be viewed as opening the door to neoclassical locational arguments in
which capital, labour, raw materials and markets are replaced by territorially defined non-
economic social and cultural factors. […] Sabel’s idea of taking the area or the region rather
than the firm or the sector as units of study, generated major confusions. Researchers started
to study regions as though they were firms (e.g. learning firm — learning region, networked
firm — networked region, competitive firm — competitive region) and this manifests a
dangerous shift from the rationality of the firm as an instrumental actor, to the rationality of
the region as an instrumental actor (Smith, 1999) […] . At times it seems that all the debates
around space, society and economics advanced by Lefebvre, Harvey, Castells, Soja, Massey,
Hudson, Gregory and others have never appeared in print (Hadjimichalis, 2006, p. 699).
La regione entra peraltro nei “discorsi” delle istituzioni nazionali e internazionali e
diviene la scala privilegiata per gli interventi delle politiche dell’Unione europea, dando così
luogo ad una vasta produzione di scoreboards e di indicatori statistici a livello regionale, che
trascurano sistematicamente il problema di significatività dei dati aggregati a tale scala9.
Per Hadjimichalis questo approccio teorico, in cui la regione è uno spazio fisso, che
ignora altresì la teoria mirdaliana della causazione circolare (a cui si potrebbe ascrivere una
delle prime testimonianze di pensiero geografico “relazionale”), implica importanti
conseguenze politiche, in primo luogo che il benessere di coloro che risiedono nella regione
oggetto di indagine è sostituito tout court con un discorso che riguarda il benessere di
9 E’ per esempio, il caso del noto Modifiable Areal Unit Problem (Openshaw, 1984) per cui l’aggregazione di dati
spaziali può variare in base alle dimensioni della scala scelta. I confini geografici sono 'imposti', nel senso che, in
genere, i dati, rilevati ad una certa scala, vengono aggregati ad una scala diversa che non ha necessariamente una
relazione significativa con quella di origine.
L'effetto di scala riguarda le dimensioni delle unità areali utilizzate e l'effetto di aggregazione riguarda invece le
modalità in cui si dati sono assemblati ad una determinata scala, producendo in tal modo cambiamenti
significativi nella distribuzione geografica apparente della variabile in questione.
48
imprese e regioni. Questa considerazione assume un rilievo fondamentale per il percorso
seguito in questo lavoro, confermando che, parlando di non-economic factors, la
concettualizzazione di spazio tradizionalmente utilizzata non risulta sempre adeguata per le
analisi socio-economiche. Anche Paasi (2002) definisce chaotic conceptions la
feticizzazione del concetto di regione, regioni come “attori” in grado di prendere decisioni e
definire obiettivi sociali ed economici, in cui anche il discorso prevalente e l’identità
regionale contribuisce a creare la realtà che si veicola e passa attraverso questa immagine di
regione come “fatto sociale” omogeneo.
Secondo Harvey (2006) alcuni fenomeni, come per esempio la memoria collettiva di
eventi quali quelli legati a luoghi come Tienammen Square o Ground Zero o un’azione
politica nel processo urbano, non possono essere semplicemente posizionati su una mappa e
l’unico modo di rappresentarli è in termini di spazio-tempo relazionale.
I problemi che sorgono da questo approccio allo spazio sono di diversa natura. In primo
luogo, come afferma lo stesso Harvey, man mano che ci avviciniamo all’idea di
relazionalità, abbandonando la logica binaria e lo spazio cartesiano, diventa sempre più
difficile la concettualizzazione e la misurazione dei fenomeni analizzati.
Questa carenza di operatività è uno dei problemi dei lavori sulla giustizia spaziale che si
fondano proprio su un concetto di spazio non euclideo, come abbiamo visto nel capitolo 2.
Sembra infatti difficile tentare una trasposizione operativa dello spazio come qui descritto da
Lefebvre:
Lo spazio sociale non può scappare dalla sua dualità di base…[…]. Non è forse lo spazio
sociale sempre e simultaneamente un campo d’azione e una base per l’azione? Non è al
tempo stesso reale (dato) e potenziale (luogo delle possibilità)? Non è al tempo stesso
quantitativo (misurabile attraverso unità di misura) e qualitativo (come concreta estensione
dove non reintegrate energie scarseggiano, dove la distanza è misurata in termini di fatica o
in termini di tempo necessario per l’attività? (Lefebvre, 1978, p. 201).
Se da un lato, dunque, lavorare su concetti di spazio euclideo definito territorialmente
produce risultati parziali e insoddisfacenti per i fenomeni socio-economici, come fare per
evitare il rischio, parimenti pericoloso, di uno spazio completamente unbound e placeless?
Un puro spazio di flussi à la Castells (Sheppard, 2002, p.312), di cui lo stesso Harvey mette
bene in guardia per le sue implicazioni politiche quando ricorda i rischi connessi ad uno
spazio esclusivamente relazionale e vissuto, al pari dell’approccio della geografia
tradizionale che si è interessata solo allo spazio assoluto e relativo:
49
the reduction of everything to fluxes and flows, and the consequent emphasis upon the
transitoriness of all forms has its limits (Harvey, 1996, p.7).
Come uscire da questo empasse concettuale e metodologico? Come trovare una
mediazione tra lo spazio fisico e fisso e quello topologico, fluido e mobile, tra struttura e
flusso (Hudson, 2004) tra process e permanence (Harvey, 1996)? Come andare oltre il
“territorial fix” (Allen e Cochrane, 2007)?
La letteratura non offre in verità molte soluzioni al dilemma. Jessop at al. (2008)
propongono un framework multidimensionale di analisi per studiare fenomeni sociali in cui
territories (T), places (P), scales (S), and networks (N) (TPSN) sono visti come mutualmente
formativi e interrelati, ricordando in questa formulazione molto da vicino la dialettica socio-
spaziale di Soja (1980). Jones (2009) aggiunge un pezzo al framework TPSN con il concetto
di phase space che incorpora, nella spiegazione delle differenti realtà locali, il fattore
temporale in termini di path dependancy, usandolo, al contempo, anche come elemento
predittivo per l’evoluzione nel tempo delle realtà spaziali oggetto di analisi.
3.3. La matrice delle spazialità di D. Harvey
Probabilmente, la soluzione più promettente anche per le possibilità operative che
potenzialmente offre e quindi più aderente alle necessità del presente lavoro è quella
proposta da Harvey (2006). Già nel 1973 Harvey in Social justice and the city afferma che è
cruciale riflettere sulla natura dello spazio se si vuole capire i processi urbani sotto il
capitalismo. Anni dopo, nel saggio Space as a keyword Harvey (2006) avanza alcune
domande e risposte fondamentali. Alla domanda se spazio è da considerarsi assoluto, relativo
o relazionale, egli risponde:
I simply don’t know whether there is an ontological answer to that question. In my own work
I think of it as being all there. This was the conclusion I reached thirty years ago and I have
found no particular reason (nor heard any arguments) to make me change my mind.
Space is neither absolute, relative or relational in itself, but it can become one or all
simultaneously depending on the circumstances….there are no philosophical answer to
philosophical questions that arise over the nature of space – the answer lies in human
practice. (Harvey, 2006, p. 155).
50
The question “what is space’” is therefore replaced by the question “how is it that different
human practices create and make use of different conceptualization of space’” (Harvey,
1996, p. 149).
Harvey, quindi, non identifica la supremazia di un concetto di spazio ma afferma che sia
lo spazio fisico che relativo e relazionale, in tensione dialettica, sono utili all’analisi.
Attraverso questa soluzione di compromesso riappacifica in qualche modo moderno e post-
moderno e ci consente di avere a disposizione uno strumento operativo di spazio a seconda
delle diverse tipologie di fenomeno da analizzare. Queste le caratteristiche delle tre tipologie
di spazio individuate da Harvey:
- lo spazio assoluto è lo spazio di Newton e di Descartes ed è generalmente
rappresentato come fisso e pre-esistente, disegnato come una griglia immutabile che
permette la misurazione e calcoli standardizzati risulta come una cosa in sé con una esistenza
indipendente dalle cose. Esso possiede così una struttura che ci permette di fissare e
individuare i fenomeni. La geografia, tradizionalmente, ha analizzato fenomeni ed eventi
iscritti in questa tipologia di spazio “a celle” separate (Harvey usa l’espressione pigeon-hole,
piccionaia) in cui incasellare singoli eventi in ciascuna casella, separata dalle altre.
Geometricamente è lo spazio di Euclide e perciò lo spazio delle mappe catastali e delle
pratiche ingegneristiche. Si applica a tutti i fenomeni discreti e finiti. Socialmente questo è lo
spazio della proprietà privata a altri confini territoriali predefiniti, per esempio partizioni
amministrative, mappe e griglie urbane;
- lo spazio relativo è associato al nome di Einstein e delle geometri non-euclidee.
Partendo dall’asserzione di Eulero che non è possibile rappresentare la superficie terrestre
attraverso la geometria euclidea, Gauss per primo espresse i fondamenti di una geometria
sferica non euclidea. Einstein, in seguito, adottò l’argomento affermando che ogni forma di
misurazione dipende dal punto di vista dell’osservatore. Tradotto in geografia, questo vuol
dire che rappresentare la mobilità umana attraverso la rete dei trasporti è molto diverso dal
rappresentare le unità catastali. La frizione della distanza, in questo caso, non può essere
espressa soltanto in termini metrici ma in tempi e costi di percorrenza per esempio. Il
risultato sono mappe completamente differenti di uno stesso luogo adottando metriche
diverse per la misurazione della “distanza”;
51
- lo spazio relazionale. Il concetto di spazio relazionale è associato all’ipotesi di
Leibnitz10
, secondo la quale non esiste differenza tra l’individuo e il suo contesto in quanto le
singole entità sono costituite da una miriade di entità eterogenee, a loro volta composte da
altrettante entità e così via. Un evento o una cosa in un punto dello spazio non può quindi
essere compreso solo in relazione a ciò che esiste in quel punto. Esso dipende, invece, da
tutto ciò che vi è intorno, da tutta l’enorme varietà di influenze che si agitano nello spazio e
nel tempo, quindi nel passato, presente e futuro, si concentrano e congelano per definire la
natura di quel punto (spazio-tempo relazionale). L’identità di un luogo, così, assume un
significato diverso dal senso che ne deriverebbe utilizzando il concetto di spazio assoluto.
Tale approccio prende le mosse dalla dialettica marxista per cui
la semplice osservazione delle cose, sia di un oggetto specifico sia dell’oggetto in generale,
trascura ciò che le cose contengono dissimulandolo: i rapporti sociali e le forme di tali
rapporti. Se trascura questi rapporti inerenti alla cose sociali, la conoscenza si perde: non
può che constatare la varietà indefinita e indefinibile delle cose, e perdersi nelle
classificazioni, descrizioni, frammentazioni (Lefebvre, 1978, p. 99).
Ci sono regole per decidere quale tipologia di spazio utilizzare nell’analisi geografica?
Per Harvey dipende dalla natura del fenomeno da analizzare anche se esiste una gerarchia tra
i tre concetti di spazio: quello assoluto è assoluto e basta, quello relativo può contenere
quello assoluto e quello relazionale può includere gli altri due. Harvey, così come Lefebvre,
trova però molto più utile mettere i tre principi in tensione dialettica tra loro in modo da
capire meglio come significati relazionali sono internalizzati in cose materiali, eventi e
pratiche costruite nello spazio assoluto e nel tempo. E riuscendo a ricomporre, in qualche
misura, anche la distinzione binaria spesso ricorrente in geografia tra space e place. Secondo
Merryfield (1993), infatti, questa ontologia relazionale contrasta notevolmente con la visione
atomistica e cartesiana del mondo che tende a separare i diversi aspetti della realtà sociale
trattandoli come oggetti discreti senza alcun senso di connettività.
La misurazione dei fenomeni diviene, tuttavia, sempre più problematica man mano che ci
avviciniamo a questo concetto di spazio.
Nella figura 1, viene riassunta la proposta di Harvey con un fine operativo. Effettuare
l’analisi di fenomeni sociali nello spazio attraverso tale tripartizione consente di segmentare i
fenomeni rispetto alla loro funzione/significatività spaziale, consentendo così anche la scelta
10 Il riferimento alla monadologia di Leibnitz è costante nella letteratura geografica sullo spazio relazionale, a
partire da Harvey (1974, 1996). Tuttavia Malpas (2012, p. 239) contesta questa attribuzione in quanto l’elemento
di base dell’ontologia leibnitziana sarebbero le monadi e non le relazioni tra di esse.
52
delle metodologie più adeguate alla rappresentazione e un’analisi dei risultati più
significativa.
Fonte: nostre elaborazioni
Figura 1 - Le tipologie di spazio proposte da D. Harvey: una sintesi operativa.
Per illustrare la sua concettualizzazione dialettica dello spazio (spazio-tempo) Harvey
ricorre a due esempi.
Il primo riguarda una lettura “statica” e frazionata della matrice. L’esempio è quello di
una gated community del New Jersey, descritta innanzitutto nella sua materialità di spazio
fisico, delimitato da muri e protetto dalla guardiania. Molti abitanti lavorano nel distretto
finanziario di Manhattan e quotidianamente si spostano con le loro potenti automobili mezzi
Fenomeni da
analizzare
Metodologie/strumenti
di analisi
Significati/implicazioni
Spazio
Assoluto
Fenomeni discreti Geometria euclidea, mappe
Spazio tipico della proprietà privata, del catasto, del “territorio”
Spazio
Relativo
Mobilità di persone, flussi di capitale, di merci, ecc.
Geometria non euclidea, isocrone, matrici I-O, ecc.
Può alterare sensibilmente la rappresentazione dello spazio assoluto perché lo esprime in termini di tempo, costi, flussi, reti di trasporto, reti immateriali, ecc.
Spazio
Relazionale
Relazioni sociali, fenomeni ambientali, flussi di conoscenza, ecc.
Integrazione di diverse metodologie, “convergenza di matematica, musica e poesia”
Spazio espresso non più geometrici ma di flussi, relazioni reali o virtuali in tensione dialettica con altre scale di analisi. Viene introdotta nell’analisi la variabile tempo (spazio-
tempo relazionale).
53
nel centro cittadino e, attraverso i loro movimenti di capitali, influenzano la vita sociale ed
economica non solo a scala locale ma anche globale e, con i soldi guadagnati, riescono a
portare nella loro comunità chiusa, energia, merci e alimenti costosi provenienti da ogni
parte del mondo. Al tempo stesso le modalità consumistiche di questa comunità affluente,
per esempio le emissioni dei potenti Suv con cui si spostano quotidianamente,
contribuiscono all’inquinamento globale, contribuendo a provocare il cambiamento climatico
che causa un ciclone che distruggerà la comunità. Ovviamente si tratta di una
semplificazione estrema ma che rende conto abbastanza chiaramente del disegno concettuale
di Harvey: non possiamo limitare l’analisi alla gated community, nel suo spazio delimitato,
ma dobbiamo estenderla allo spazio delle relazioni che essa intrattiene con il resto del
mondo.
Per mostrare invece l’uso dialettico della sua matrice, Harvey ricorre all’esempio di
Ground Zero a New York. Questo spazio è innanzitutto uno spazio fisico e assoluto in cui
architetti e ingegneri hanno progettato e calcolato la ricostruzione al posto delle Torri
distrutte. Gli interessi in gioco sono molti. Gli investitori vorrebbero una redditività alta nel
tempo e sviluppare il più possibile le diverse modalità di trasporto per accedervi. Quindi per
i progettisti il sito non deve esistere solo nella sua ricostruzione fisica ma deve avere una
proiezione nello spazio (con per esempio migliori collegamenti con l’aeroporto) e nel tempo
(attraverso una redditività a lungo periodo), che, con effetto retroattivo, avranno una ricaduta
sulla redditività dei suoli (quindi sullo spazio assoluto). Ma questo non è tutto. Ricostruire in
un posto come Ground Zero, implica, ovviamente, considerazioni di ordine emotivo ed etico.
I familiari delle vittime, l’opinione pubblica nazionale e mondiale hanno aspettative che
vanno al di là di quelle degli investitori rendendo questo sito uno spazio eminentemente
relazionale. Ground Zero è il sito della memoria collettiva e i progettisti devono tradurre
questa emotività in mattoni, acciaio e vetri. Come si vede dall’esempio, le diverse tipologie
di spazio, sono, nell’analisi, in tensione dialettica tra di loro e concorrono in questo modo ad
una rappresentazione di Ground Zero più aderente alla complessità del fenomeno.
E’ un esempio che calza perfettamente con il nostro tema: la rappresentazione della
giustizia spaziale. Essa può infatti essere rappresentata attraverso una fotografia o la
percezione degli abitanti di un quartiere segregato, può essere misurata in termini di km di
linee urbane che collegano questo quartiere ai servizi essenziali, in termini di tempo
utilizzato per percorrere queste distanze, e, infine nella sua fenomenologia spaziale, nella
54
descrizione degli slums, del patrimonio edilizio, della fatiscenza delle scuole o nella
mancanza di verde pubblico a disposizione degli abitanti...
Al tempo stesso, tuttavia, Harvey ci ricorda che nonostante gli innumerevoli vantaggi di
questo approccio Ground Zero rimane un luogo fisico, una forma fisica da cui bisogna
partire e senza la quale tutte le altre dimensioni non esisterebbero. In questo consiste la
gerarchia delle diverse concettualizzazioni dello spazio. Lo spazio assoluto è la condizione
necessaria ma non sufficiente perché le altre forme esistano.
In recent years many academics, including geographers, have embraced relational concepts
and ways of thinking. This move, as crucial as it is laudable, has to some degree been
associated with the cultural and postmodern turn. But in the same way that traditional and
positivist geography limited its vision by concentrating exclusively on the absolute and
relative and upon material and conceptual aspects of space-time (eschewing the lived and the
relational), so there is a serious danger of dwelling only upon the relational and lived as if
the material and absolute did not matter. Staying exclusively in the lower right part of the
matrix can be just misleading, limiting and stultifying as confining one’s vision to the upper
left. The only strategy that really works is to keep the tension moving dialectically across all
positions in the matrix. (Harvey, 2006, p. 152).
E’ partendo da questa fondamentale affermazione che Harvey definisce la sua nozione di
permanence, mutuata da Whitehead. I significati relazionali sono internalizzati in cose
materiali, eventi, processi costruiti o aventi luogo in uno spazio assoluto. L’esempio di
Harvey ritorna su Ground Zero. Dopo aver discusso dei suoi significati relazionali, del suo
impatto nel tempo, alla fine rimane un segno tangibile, fisico, misurabile che è il grande
vuoto nel terreno o quello che ci sarà al suo posto. Cioè, Ground Zero è una permanence,
una forma che al di là dei significati che le si danno o le si daranno, è una costruzione fisica
nello spazio (e nel tempo):
[…] because it is relationships not entities that define the world. Yet, in turn, such a claim
only makes sense if we also realize that some relationships are reified, institutionalized,
transformed into what David Harvey (1996), following Alfred North Whitehead (1985), calls
”structured permanences''. If all is flux, it is still the case that that flux is channeled, shaped,
given form in institutions, produced spaces (Mitchell, 2003, p. 4).
Sheppard (2002) propone il termine di posizionalità (positionality) per descrivere come
queste diverse “permanenze” o entità sono collocate in termini relazionali nello
spazio/tempo. Ricorrendo all’uso che del termine è stato fatto dalla teoria femminista per
descrivere la singolarità e quindi non oggettività del soggetto che descrive il mondo (in
opposizione all’oggettività della scienza positivista), Sheppard utilizza le connotazioni
55
relazionali del termine per creare una versione geografica del concetto in cui lo spazio è un
processo sociale e fisico, dai connotati fissi e concreti, la materialità dei luoghi, che però
hanno a loro volta un’influenza sulle traiettorie future della società. Egli utilizza il concetto
per spiegare principalmente come le connessioni tra places giocano un ruolo nel formare
differenze geografiche nell’economia globale, ineguaglianze che mostrano notevoli
persistenze e sensibilità alla storia dei luoghi, a quella che le teorie evoluzioniste chiamano
path-dependency.
Harvey afferma che le implicazioni politiche di questa inevitabile materialità dei processi
sociali si ritrova per esempio nell’azione dei movimenti politici che rimangono inefficaci
fino alla loro materializzazione pratica nelle strade di NY o Baltimora (Harvey, 2006, p.
153). Lo spazio pubblico “is material and constitutes an actual site, a place, a ground within
which and from which political activity flows” (Mitchell, 2003, p. 129).
Questo è un aspetto cruciale per le implicazioni della nostra analisi. Vuol dire che
partendo dall’osservazione delle permanences, quindi del paesaggio, per esempio, possiamo
risalire al processo che l’ha generato, alla sua rete di relazioni via via sempre più lontana e
intricata, esplorare la sua complessità, arrivare ad una sua comprensione in termini
relazionali e dialettici.
Per cercare di arrivare ad una concettualizzazione ancora più fine e ricca in possibilità di
segmentare e, al tempo stesso, ri-aggregare e portare ad unità lo spazio, Harvey (2006, p.
152) propone uno “speculative leap” in cui alla tripartizione appena descritta associa la
trialettica lefebvriana dello spazio percepito, rappresentato e vissuto, dando luogo ad una
matrice tre-per-tre in cui i punti di intersezione delle celle rappresentano diverse modalità di
comprendere il significato dello spazio e dello spazio-tempo (Ibidem) (Fig. 2).
56
Fig. 2 - La matrice delle spazialità (Harvey, 2006).
L’obiettivo di Harvey è quello di colmare alcuni limiti della sua classificazione tripartita
dello spazio (assoluto, relativo, relazionale) prima illustrata. Introducendo le categorie
lefebvriane, Harvey accorda grande importanza al soggetto, all’abitante (nella sua accezione
di abitante della città) con la sua percezione della realtà (spazio percepito) e le sue sensazioni
ed emozioni (spazi di rappresentazione), riaffermando in tal modo, con un approccio
decisamente post-moderno, l’importanza della posizionalità11
del soggetto anche nell’analisi
spaziale. Introduce, inoltre, attraverso la categoria della “rappresentazione dello spazio” il
problema del potere politico che attraverso le rappresentazioni mediate della realtà produce e
riproduce lo spazio influenzandone la percezione, la fruizione, l’uso.
Per chiarire la sua originale concettualizzazione dello spazio Harvey afferma che la
percezione delle onde dell’oceano non sarà la stessa per uno studioso di oceanografia e per
un pianista che ama Debussy e leggere una guida su Parigi influenzerà il nostro modo di
11 Sul concetto di posizionalità cfr. oltre, cap. 5.
57
pensare alla città anche dopo aver sperimentato sul posto una realtà diversa da quella che ci
eravamo prefigurati duranti la lettura, così come i luoghi della memoria, per esempio quelli
dell’infanzia, non coincidono quasi mai con quelli fisici, reali.
Il risultato è la matrice delle spazialità in cui le differenti posizioni rappresentate dalle
celle della matrice consentono, se cristallizzate, di identificare i fenomeni nello spazio,
scomponendoli e, attraverso un percorso inverso di movimento dialettico tra le celle, di
ricomporre una loro lettura complessa.
La matrice decostruisce e, al tempo stesso, permette di riassemblare le diverse tipologie di
spazio. Permette, a seconda della cella utilizzata, di poter descrivere lo “spazio assoluto
percepito”, quello dei muri, delle strade, dei ponti e di tutti gli elementi fisici percepibili dal
soggetto; “gli spazi relativi di rappresentazione”, per esempio la frustrazione dei pendolari
generata dalla permanenza per ore nel traffico del tragitto che separa la casa dal lavoro; gli
“spazi relazionali della rappresentazione”, tutta quella produzione artistica che rappresenta lo
spazio mediato dall’artista. Uno stesso spazio, per esempio una piazza, può essere descritto
dalla mappa catastale, da una cartolina, dal tempo necessario ad arrivarci dalla stazione più
vicina, dalla qualità dell’aria registrata da una centralina; può poi essere descritto attraverso
la guida ufficiale della città, corredata da informazioni sull’accesso alla piazza e
rappresentato attraverso un medium artistico (si pensi alle Piazze d’Italia di De Chirico); può
infine assumere connotati diversi se a queste informazione aggiungiamo le emozioni, le
sensazioni di coloro che ci abitano, che la attraversano per lavoro o per piacere, i significati
che essa esprime nella memoria individuale e collettiva.
In conclusione, possiamo affermare che attraverso il compromesso di una matrice (un
confine) Harvey riesce a rendere meno volatile la natura dei flussi di cui pare essere
costituito il relational thinking, il cui rischio, di fatto, è quello di una ontologia piatta.
Concretizzando, al contempo, con l’introduzione del concetto di permanenza lo spazio
relazionale altrimenti difficile da rappresentare.
E’ da questo esercizio speculativo che partiremo per affrontare il problema della
rappresentazione della giustizia spaziale, riprendendolo nell’ultimo capitolo. Ma prima di
passare a questo esercizio metodologico, è necessario contestualizzare gli elementi finora
emersi e dedicare spazio all’analisi della giustizia spaziale nella sua dimensione pratica e
politica, oggetto del capitolo seguente.
58
4. Giustizia spaziale e città: il diritto alla città
e la pianificazione della città giusta
If we are talking about what a real strategy for cities ought
to be in the present time, it clearly needs to deal with issues
like working poverty, inequality, ecological sustainability
and the caring economy. There is a broad raft of questions
which need to be addressed urgently on a ‘Rights to the
City’ kind of framework or Reclaim the City for its citizens
(Peck, 2011).
Torquato Tasso già nel 1587 aveva messo in chiaro la
differenza tra villa e città: la prima è “una ragunanza
d’huomini e di abitazioni con le cose necessarie alla vita”,
la seconda con le “cose necessarie al ben vivere”
(Farinelli, 2007).
Dal percorso teorico fin qui effettuato, la giustizia spaziale emerge come un concetto che
non incorpora una scala spaziale ben definita. E’ possibile, infatti, leggere la
giustizia/ingiustizia a tutte le scale. Tuttavia, se accettiamo la definizione di giustizia
spaziale non soltanto come la giusta distribuzione delle risorse sul territorio (come nelle
“Tesi liberali” di Harvey (1978) ma anche, come ci suggeriscono Dikeç e Soja, come
risultato e processo di una costruzione sociale in cui spazio e società sono dialetticamente
interrelati nelle loro dinamiche evolutive, allora analizzare sul campo la giustizia spaziale e
la sua praticabilità a livello di politiche, implica un livello di osservazione a grande scala, a
livello urbano e sub-urbano dove più è evidente il rapporto tra spazio e società.
In questo capitolo quindi restringeremo l’angolo di osservazione del concetto di giustizia
spaziale precedentemente indagato nei suoi aspetti teorici. Scegliere la città come campo di
osservazione impone due passaggi obbligati.
Il primo consiste nel giustificare perché, nell’analisi della giustizia spaziale, la città può
rappresentare un livello di osservazione utile dal punto di vista empirico, inquadrando quegli
elementi di contesto che ne fanno il luogo dove si concentra la maggior parte della
59
popolazione mondiale e il luogo dei conflitti e dell’ingiustizia sociale. La città
contemporanea “rappresentata”, per usare la terminologia di Lefebvre, come luogo principale
della competitività globale, come nodo di uno scenario globale, di un network economico-
finanziario in cerca di luoghi dove realizzare investimenti produttivi. Una metafora,
insomma, del modello di sviluppo attuale, in cui la spiegazione del mondo è data
principalmente, se non univocamente, da ragioni di ordine economicistico e dettato dalla
logica della competitività. Un modello omologante anche spazialmente che sempre più
accomuna città diverse e lontane migliaia di chilometri, seppur divise da identità e culture
diverse. Riprendendo le considerazioni espresse nel capitolo relativo alla teoria dello spazio,
la città non è quindi uno spazio dai confini delimitati ma come afferma Brenner (2009, p.
206) una condizione planetaria in cui contestualmente si confrontano logiche diverse,
principalmente la logica del modello neoliberista, le regolazione del potere politico e le
organizzazioni sociali e politiche che tentano di opporvisi.
Questa enfasi posta dalla critical urban theory12
sulla condizione urbana come condizione
globale, pone un problema significativo dal punto di vista operativo e dell’analisi che
rappresenta il secondo passaggio da effettuare. Se la città non è identificabile attraverso
confini definiti ma rappresenta una condizione globale e transcalare, diventa difficile
effettuare un’analisi geografica. L’uso del concetto di permanence (cfr. cap. 3) ci supporta
nel delimitare lo “spazio” del concetto di giustizia spaziale in ambito urbano e insieme con
l’adozione di una spazialità molteplice ed in tensione dialettica tra i suoi diversi livelli,
costituirà la base per una metodologia di analisi della giustizia spaziale in città che
affronteremo in questo capitolo.
4.1 La città contemporanea: una lettura critica
Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, nel 2011 il 73% della popolazione europea
vive nelle città, una quota che, secondo le stime, è destinata ad arrivare all’85% nel 2050
(United Nations, 2011).
12 La definizione di teoria urbana critica viene di solito identificata con la tradizione di studi sulla città
conseguenti alla pubblicazione dei lavori fondamentali di alcuni studiosi neo-marxisti quali, principalmente, H.
Lefebvre, D. Harvey, M. Castells e P. Marcuse che rigettano le spiegazioni fornite dalla teoria urbana mainstream
fondata sulla città come espressione della razionalità burocratica e dell’efficienza economica a favore di una
visione in cui trova spazio l’utopia di una città socialmente giusta e sostenibile (Brenner, 2009).
60
Questa straordinaria concentrazione di popolazione, da un punto di vista sociologico, si
può considerare come spazio di prossimità di legami deboli à la Granovetter, di diversità
sociali e culturali e quindi, potenzialmente, del conflitto sociale, in opposizione
all’omogeneità di valori e di identità della campagna. La città rappresenta il luogo di
incontro di persone di diversa provenienza culturale, sociale, etnica, che creano “ hybrid
cultures and cultural heterogeneity in multiple space-time frameworks” (Moulaert et al.,
2012).
Da un punto di vista storico-politico, negli ultimi trenta anni le città sono state oggetto di
significative trasformazioni sia dal punto di vista morfologico che funzionale, con la
conseguenza che anche i “discorsi” sulla città, la sua “rappresentazione”, la sua immagine è
stata oggetto di precise strategie di marketing in cui essa diventa in qualche modo un
prodotto per la competizione di mercato.
D’altra parte, Harvey aveva già anni addietro teorizzato la città capitalista come una sorta
di macchina generatrice di ineguaglianze:
E’ necessario collegare il comportamento sociale al modo in cui la città assume una certa
forma spaziale, una certa geografia. Occorre riconoscere che una forma spaziale, nel
momento stesso in cui viene creata, tende a istituzionalizzare (e per certi aspetti anche a
determinare) il futuro sviluppo del processo sociale (Harvey, 1978, p. 42).
Vanolo e Rossi (2010, p. 35) associano l’evoluzione della forma urbana con le diverse
fasi e caratterizzazioni del modello di sviluppo economico e industriale, richiamando la
metafora geologica dei diversi layers di organizzazione spaziale che sono stati determinati
dalle diverse fasi della divisione del lavoro conseguenti all’evoluzione capitalistica.
Identificano, infatti, due stadi di trasformazione urbana recente, a partire dagli anni settanta,
quando entra in crisi il modello fordista che aveva significativamente inciso sui modelli
insediativi urbani.
Il primo è relativo alla città che si sviluppa in base alle esigenze dell’industria a grande
intensità di lavoro, con la nascita delle periferie urbane, rappresentata come il simbolo della
modernizzazione in opposizione alla vita di campagna, la meta ideale, nell’immaginario
collettivo dell’epoca, di coloro che aspiravano al riscatto sociale. Anche la tipologia
abitativa, con la costruzione di grandi condomini appena fuori le cinta del centro cittadino13
contribuisce a creare di conseguenza un modello di vita. E’ il caso, per esempio, dei ritmi di
13 Si pensi, in Italia, all’uso del suolo selvaggio operato dalla speculazione edilizia a partire dagli anni Cinquanta
descritto efficacemente dal film Le mani sulla città di Francesco Rosi.
61
vita imposti dalla rigida separazione tra casa e luoghi di lavoro raggiungibili soltanto
attraverso percorsi che impegnano lunghe ore e impongono nuovi stili di vita, come per
esempio il pranzo fuori casa, il ricorso agli asili nido per i bambini, l’uso del mezzo privato.
Un esempio che rende bene l’idea di quella che Soja identifica come dialettica socio-
spaziale: la forma urbana prodotto della società che a sua volta influenza i comportamenti
sociali e individuali.
Il secondo stadio, invece, riguarda la crisi del fordismo che contribuisce a cambiare anche
la rappresentazione della città e la sua percezione nell’immaginario collettivo. Le città
industriali (si pensi a Detroit, Manchester, Torino, per esempio) subiscono una profonda crisi
di identità legata non solo al declino economico coincidente con la crisi della manifattura
pesante che aveva caratterizzato la loro specializzazione settoriale ma, al contempo, a questo
si associa una perdita di identità legata proprio al fatto che il modello economico porta con
sé risvolti culturali e politici essenziali. Negli anni Ottanta infatti, sebbene questa
successione temporale semplifichi scenari ben più complessi14
, le città si adeguano
all’evoluzione del quadro economico, con il prevalere delle attività del terziario avanzato,
specialmente quelle connesse alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica che
trovano proprio nelle città il luogo privilegiato al loro insediamento e sviluppo per la
presenza di manodopera qualificata e la presenza di attività economiche verticalmente
integrate: è il modello “vincente” delle città californiane della Silicon Valley, basate
sull’industria hi-tech. Il rapido progresso delle tecnologie dell’informazione e delle
telecomunicazioni ha alterato la percezione dello spazio e del tempo, rendendo meno
importante la frizione dovuta alla distanza fisica per le localizzazioni industriali e, in alcuni
casi, consentito la trasformazione di molte vecchie città industriali in città dell’informazione
e nodi e poli tecnologici di una rete di città globali (Sassen, 1997).
In questo scenario globale, una competizione più accesa si è instaurata tra città come
attrattori di capitali ed investimenti (si pensi ai nuovi concetti di brand e di marketing
territoriale) e di consumatori (in particolare quelli appartenenti alla cosiddetta società
affluente e alla classe “creativa”) attraverso la creazione di amenità e di luoghi di consumo
massificati e la progressiva contrazione degli spazi pubblici (Harvey, 2006). In quella che
Harvey definisce la “disneificazione” delle città:
14 La complessità del fenomeno urbano è efficacemente espressa da Secchi (2012) con l’espressione di “macchina
non banale” con cui intende esprimere il fatto che la città è il risultato di cause storiche ma anche di processi
interni e politici e che non è una forma sintetizzabile attraverso formule predefinite e positiviste e, soprattutto,
prevedibili.
62
The marketing of cultural and historical aspects of a city is now a crucial component in the
economic process. Some cities simply invent unique culture. For example, some cities will
use "signature architecture." For instance, not many people knew about the city of Bilbao in
Spain until the Guggenheim Museum became the hot spot for a particular brand of
architecture. So, cities begin to use cultural production as a way to market their city as being
unique and special. Of course, the problem with this is that much of culture is very easy to
replicate. The uniqueness begins to disappear. Then, we have what I call the "Disneyfication"
of society (Harvey, 2013).
E’ proprio questa omologazione culturale che determina la “commodification” dei luoghi,
“the selling of place specific differences as a commodity for international tourism” (Harvey,
1996, p. 133 ) attraverso, per esempio, la riscoperta a fini turistici e commerciali delle
tradizioni vernacolari, feste storiche, sbandieratori, ecc .
Place construction is now complicitous (directly or indirectly) with the universalism of
money, commodity capital…the production of places a moment in the consolidation of a
capitalist-inspired regime of social relations, institutions and political-economic practices
(Ivi, p. 314).
Lo stesso Harvey, aveva già specificato (1982) ancora meglio il legame perverso tra
forma urbana e capitalismo quando, teorizzando lo spatial fix (dominio dello spazio) del
capitalismo, illustra una delle teorie più interessanti per la geografia e per l’economia
politica urbana. Il capitalismo si serve dello spazio per assicurare la sua produzione e
riproduzione (si pensi ai mercati di sbocco delle merci, alle regioni ricche di materie prime e
alle città come bacino di risorse umane qualificate, per esempio) ma allo stesso tempo la
“fissità”, la materialità delle forme urbane blocca all’interno di particolari luoghi il processo
di accumulazione dato che alcuni investimenti potrebbero, nel corso del tempo, non essere
più proficui. Siccome è impossibile spostare forme urbane create ad hoc per la logica del
profitto (possiamo fare l’esempio delle zone industriali fordiste di numerosi città
occidentali), nei momenti di crisi assistiamo ad uno spostamento dell’interesse del capitale
verso regioni e città nuove che causano il declino di quelle che rispondevano
precedentemente alla logica del capitale. Questa teoria, anche se criticata da molti e non
completamente accettata neanche in ambito marxista per la centralità assegnata allo spazio
come variabile esplicativa delle dinamiche economiche, fornisce tuttavia uno elemento
interessante per costruire una base di partenza per esplorare il legame tra forma urbana e
dinamiche socio-economiche, tra città e giustizia sociale.
In questa chiave di lettura proposta da Harvey, la città capitalista genera ingiustizie ed
ineguaglianze, ghettizzazione degli immigrati, crescente povertà, frammentazione politica,
63
sprawl, servizi pubblici inadeguati, declino dei centri urbani, gentrification, aree dismesse da
precedenti fasi di industrializzazione. Una città frammentata definita in letteratura attraverso
numerose metafore (la città arcipelago, la città diffusa, il “salto di scala”) che non trova più
un’adeguata rappresentazione nell’opposizione centro –periferia e che per Secchi (2012) è
espressione della rottura del modello culturale del Novecento basato sui valori di quella che
è stata definita la modernità. Anche se queste dinamiche evolutive non possono
rappresentare un modello generalizzabile, la città contemporanea può essere identificata in
qualche misura con la postmetropoli di Soja: una città in cui il crescente ruolo delle
multinazionali impatta direttamente e pesantemente sulla capacità dei governi locali di
progettare e guidare “dal basso” il proprio modello di sviluppo.
Brenner e Theodore (2002) identificano due aspetti interessanti per descrivere la
situazione di molte città contemporanee. Da una parte, i governi locali si trovano a dover
“sfruttare” sul mercato i propri territori, a “commodificare” la città per cercare di essere
attrattivi ai capitali delle multinazionali che sempre più orientano le scelte nazionali e locali
e, contemporaneamente, per cercare di far fronte ai dissesti finanziari causati dalla crescente
regressione dello stato sociale conseguente alle scelte di politica nazionale (si pensi per
esempio ai vincoli di bilancio imposti dal Patto di stabilità in Italia che impatta pesantemente
sull’autonomia gestionale e sulle politiche di spesa delle autorità metropolitane). Questo
implica, al di là degli orientamenti politici dei governi locali, azioni che si situano raramente
in un’ottica di “interesse comune” ma che devono rispondere al criterio dell’efficienza: è il
caso, per citarne uno, della svendita ai privati del patrimonio pubblico, delle aree dismesse di
proprietà pubblica, quali caserme, fabbriche sottratte ad una destinazione pubblica. D’altra
parte, si è compiuta una sorta di interiorizzazione della logica di mercato nella gestione delle
politiche locali e urbane che ha ormai definitivamente ratificato la validità del “discorso”
della città come polo di attrazione di capitali attraverso la pratica del marketing territoriale
“as an arena both for market-oriented economic growth and for elite consumption
practices”. (Ivi, p. 368).
In questa prospettiva critica, è interessante anche la proposta di Chatterton (2010) per cui
la città rappresenta l’ultimo baluardo a difesa dei beni comuni contro l’invasione e
l’espansione capitalistica prima descritta. Rifacendosi al concetto di bene comune
(commons) proposto da Hardt e Negri (2010), Chatterton vede nella città il luogo dove la
“moltitudine”, il nuovo soggetto politico dopo la fine della classe operaia, può dar vita
attraverso la densa rete di relazioni sociali, può dar vita ad un nuovo immaginario politico e
64
cambiamento sociale, anche attraverso la produzione e riproduzione di spazio, trovando in
tal modo un forte legame tra beni comuni e giustizia spaziale.
4.2 Spazio e giustizia in città
Come abbiamo visto nelle teorie esposte, se si escludono i lavori di Soja e di Dikeç
esaminati nel secondo capitolo, ispirati da una decisa causalità socio-spaziale, le relazioni tra
spazio e struttura socio-economica non sono quasi mai rese esplicite né trattate come una
varabile che spiega le differenze in ambito rubano. Molte analisi, infatti, utilizzano la città
come contenitore circoscritto di fenomeni dove conta la prossimità fisica di attori differenti
che vi agiscono mentre sembra mancare un riferimento esplicito al ruolo dello spazio come
prodotto-causa della struttura sociale in un luogo e tempo determinati.
Una spiegazione può essere data dalla difficoltà di dimostrare le cause delle ingiustizie
spaziali e spiegare le ragioni del loro rapporto dialettico. Van Kempen e Marcuse (1997)
identificano alcune determinanti attraverso le quali le dinamiche sociali sono visibili
nell’assetto spaziale aiutandoci a delimitare il campo di analisi e di azione del concetto di
giustizia spaziale in ambito urbano:
- Le strategie spaziali delle imprese che scelgono le località più adatte alla
massimizzazione dei profitti e all’accumulazione del capitale (lo spatial fix di Harvey)
- I flussi migratori dettati dalle opportunità di lavoro sia a scala internazionale che di
regione/città
- La segregazione razziale causata da atteggiamenti e politiche xenofobe che possono
avere come risultato una segregazione spaziale di alcuni gruppi etnici
- Alcune tipologie di politiche abitative pubbliche che riducendo progressivamente gli
spazi dedicati all’edilizia pubblica costringono alcuni gruppi sociali meno abbienti in spazi
segregati.
La segregazione è uno dei temi preferiti della geografia sociale (Loda, 2012) proprio per
l’evidente ruolo dello spazio nella spiegazione del fenomeno. Infatti, la segregazione
spaziale produce a sua volta ulteriori forme di esclusione (Hanhorster (2001), Mingione
(2004), Mudu (2006) e diventa motore di ulteriori ingiustizie sociali. Cassirer e Kasteloot
(2012) identificano tre ambiti di influenza in cui si instaura un rapporto dialettico e
cumulativo tra spazio e forma sociale.
65
Il primo riguarda l’influenza della distanza fisica che separa le aree segregate dalle aree
dove è presente il lavoro, una distanza che in termini di mobilità è spesso trascurata dalle
politiche dei trasporti come dimostra il caso citato da Soja relativo a Los Angeles (Soja,
2010, cfr. cap. 2).
Un secondo ambito di analisi, più aderente alla realtà delle città europee, è la correlazione
tra le caratteristiche del quartiere e le opportunità sociali degli abitanti. Alcuni studi (per
esempio, Musterd e Andersson, 2005 per la Svezia) mostrano come la residenza in alcuni
quartieri caratterizzati da carente accesso ai servizi, scarsa qualità dell’istruzione, scarsa
partecipazione sociale e politica rappresenti un limite significativo e autoalimentantesi
dell’esclusione sociale.
Il terzo ambito riguarda, invece, in linea con quanto abbiamo affrontato nel capitolo
relativo allo spazio, un aspetto più generale delle relazioni spazio-società attraverso una
riconcettualizzazione dello spazio in una dimensione relazionale e più complessa. E’ in
questa prospettiva che si situano le analisi della città come luogo degli effetti delle politiche
neoliberiste: gentrification, gated communities, sprawl urbano, ghetti e enclaves per gli
immigrati. Tutti fenomeni che mostrano sul campo la teorizzazione della giustizia spaziale in
ambito urbano: forma e processo che si autoalimentano, in un percorso di causalità e
correlazioni che è stato ampiamente dibattuto da Soja e Marcuse, come approfondito nel
capitolo 2:
Every geography in which we live has some degree of injustice embedded in it. And they can
have negative as well as positive consequences on practically everything we do (Soja, 2009).
In un ambito diverso ma comunque significativo, i lavori di Hillier (2007) attraverso un
complesso framework analitico ed empirico, tendono a dimostrare che “architecture can
cause social malaise” in quanto alcune tipologie abitative (si pensi per esempio all’edilizia
popolare di alcune città italiane tipica del secondo dopoguerra) producono un impoverimento
dello spirito di comunità, cioè del sistema di reciproca fiducia e di co-presenza basata sul
movimento umano, limitato in tipologie abitative sviluppate in altezza. In questo senso l’uso
anti-sociale dello spazio è il primo passo verso il declino, creando disordine e un uso dello
spazio poco sicuro. Anzi Hillier afferma, stabilendo una netta direzionalità nel rapporto
causale tra spazio e società, che “the creation of a disorderly space use through maladroit
spaces design creates the first symptoms of decline, even before any real decline has
66
occurred. In a sense, then it is argued, we find that symptoms help to bring about the
desease” (Ivi, p. 5).
4.3 La giustizia spaziale in città tra teoria e azione
La prospettiva di analisi descritta nel paragrafo precedente implica che se lo spazio è
socialmente prodotto allora può essere, allo stesso tempo, socialmente modificabile. In
questa ottica, negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di nuove teorie della
pianificazione urbana ispirate, da un lato, alle teorie della giustizia e a quelle sul diritto alla
città di Lefebvre dall’altro. In questo paragrafo ci occuperemo infatti della città giusta e del
diritto alla città come espressione di politiche riformiste in un caso e utopistiche e radicali
nell’altro che hanno animato il dibattito accademico e politico degli ultimi anni, in
particolare nei paesi di lingua anglosassone.
4.3.1 Il diritto alla città
Una direttrice teorica che giustifica la scelta della città come terreno di analisi della
giustizia spaziale è l’opera di H. Lefebvre “Le droit à la ville” (1968, trad. it. 1970).
Il testo ha avuto un’eco enorme, in particolare nella costruzione identitaria di numerosi
movimenti politici nati dal basso per contrastare l’avanzata capitalistica che vedeva proprio
nella città il terreno fertile per l’accumulazione capitalistica. Anche se afferma chiaramente
(Lefebvre, 1970, p. 146) che ogni modo di produzione ha avuto, nel corso del tempo, il suo
tipo di città, ribadendo quindi il legame causale inscindibile tra modello economico e forma
urbana, Lefebvre introduce elementi di spiegazione dell’ingiustizia urbana che vanno oltre la
spiegazione produttivista di Harvey. Egli, infatti, introduce il tema dei diritti degli abitanti
che non si limitano ad una distribuzione equa delle risorse economiche ma si estendono,
invece, al diritto di decidere dei propri spazi, oltre la logica del profitto.
Partendo dall’ipotesi che la realizzazione della società urbana è la condizione necessaria
di uno sviluppo sociale non soltanto quantitativo ma qualitativo, Lefebvre afferma che questa
costruzione può avvenire soltanto con una pianificazione urbana orientata ai bisogni sociali.
67
Bisogni urbani specifici non sono forse bisogni di luoghi qualificati, luoghi di simultaneità e
di incontro, luoghi in cui lo scambio non passi attraverso il valore di scambio, il commercio,
il profitto? (Ivi, p. 121).
La città storicamente formata non si vive più, […] non è più che un oggetto di consumo
culturale per i turisti, per l’estetismo avido di spettacoli e di pittoresco. […]. Tuttavia
l’urbano persiste allo stato di attualità dispersa e alienata (Ivi, p. 122).
Lefebvre interpreta la città come il luogo fisico della centralità capitalistica: luogo di
consumo e consumo di luogo, a cui si aggiunge la localizzazione del centro decisionale di
controllo e potere, in cui anche lo spazio fisico viene assoggettato alla logica del valore di
scambio piuttosto che al valore d’uso. In questo contesto rivendicare il diritto alla città
diventa una forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella
socializzazione, all’habitat e all’abitare, il diritto alla fruizione.
Il diritto alla città si pone tra i diritti di base necessari a contrastare la logica capitalistica:
Tra questi diritti in formazione figura il diritto alla città non alla città antica ma alla vita
urbana, alla centralità rinnovata, ai luoghi di incontro e di scambio, ai ritmi di vita e
impieghi di tempo che permettano l’uso pieno e intero di questi momenti e luoghi. La
proclamazione e la realizzazione della vita urbana come regno dell’uso (dello scambio e
dell’incontro liberati dal valore di scambio) reclamano il controllo della sfera economica
(del valore di scambio, del mercato, della merce) (Ivi, p. 159).
Per Lefebvre solo il proletariato può farsi parte attiva nella realizzazione di questo
progetto rivoluzionario, in quanto in grado di produrre un nuovo umanesimo, quello
dell’uomo urbano da attuarsi attraverso non soltanto un modello economico orientato verso i
bisogni sociali e un modello politico democratico dello stato ma attraverso una rivoluzione
culturale permanente, in un fronte globale di resistenza.
Queste premesse teoriche, seppur da rileggere nel contesto culturale in cui sono nate, la
Francia della fine degli anni Sessanta, conservano la loro validità di fondo per la costruzione
di un modello interpretativo attraverso cui traguardare e interpretare la condizione urbana
attuale, anche alla luce della attuale crisi economica che allarga la forbice tra le classi sociali
(Marcuse (2009). Oggi il diritto alla città, nella città dove il diritto di edificare è demandato
alla proprietà e la città serve le esigenze degli investitori e non gli interessi collettivi, può
essere riferito al diritto ad un ambiente sano, alla condizione di vita (servizi, trasporti,
istruzione), all’accesso alla casa per tutti, al diritto ai beni pubblici (è il caso dell’acqua), alla
cittadinanza.
68
L’utopia lefebvriana ha ispirato un fronte numeroso di studi urbani critici (si veda per
esempio il numero monografico di Critical Planning, 2007) e di movimenti politici dal basso
che rivendicano il diritto alla città attraverso una maggiore partecipazione democratica alle
decisioni locali.
Tra i primi, ricordiamo tutta una serie di studi transdisciplinari (per esempio,
Swingedouw, 2000) in cui il motivo di fondo è la critica al capitalismo globale, identificato
principalmente nelle organizzazioni non governative quali WTO, Fondo monetario, Banca
Mondiale e nelle grandi multinazionali visti come gli architetti di una strategia mirata ad una
progressiva privazione dei diritti civili. Questa offensiva sarebbe particolarmente visibile a
livello urbano dove i cittadini vedono sempre più eroso il loro potere di intervento sulle
decisioni che li riguardano (Peck, 1998) rendendo quindi interessanti le opportunità offerte
da un concetto quale quello di diritto alla città (Soja, 2000).
Tuttavia, il concetto di diritto alla città è stato il più delle volte usato in modo poco chiaro
sia nei suoi contenuti che nelle implicazioni che potrebbe contenere. Purcell, in due
interessanti lavori (2006, 2008) effettua, a tal proposito, considerazioni che contengono
spunti interessanti anche per l’oggetto del nostro lavoro, cioè la giustizia spaziale a livello
urbano di cui il diritto alla città è uno degli elementi fondamentali. Purcell, infatti osserva
come l’idea di Lefebvre sia stata il più delle volte usata come uno slogan di resistenza al
potere neoliberista senza declinarne impatti e significati come un concetto acquisito. Una
parte della responsabilità va certamente ascritta a Lefebvre stesso, che per primo lascia
indefinito il progetto politico attraverso cui realizzare il diritto alla città. Come abbiamo
visto, si tratta di un progetto globale, sociale politico ed economico oltre che culturale, in cui
sostanzialmente il potere decisionale passa dal capitale e dallo stato centrale ai cittadini,
definiti urban inhabitants. Le implicazioni di questo concetto sono numerose. Una delle
principali è stata individuata (Purcell, 2006) nella scarsa articolazione scalare del concetto di
“city” e del fatto che anche il concetto di scala non è predefinito ma è un costrutto sociale
(Marston, 2000). Il rischio è quello che Purcell definisce la local trap: identificare la scala
urbana come il luogo esclusivo e “chiuso” che assicura un livello decisionale desiderabile, al
di là dei contenuti dell’agenda politica nazionale e globale. Una sorta di localismo che
contrasta anche con la visione relazionale dello spazio che abbiamo visto nel capitolo 3 e che
implica un approccio dialettico sia dal punto di vista geografico che politico. Come afferma
anche Massey (2004, 2005), una situazione “buona” a scala locale potrebbe invece rivelarsi
69
nei suoi aspetti negativi ad altre scale, ignorando la “responsabilità geografica” per i luoghi
anche lontani da quello che abitiamo e viviamo in un’ottica di “global sense of place”.
Rimane comunque il fatto che il concetto, al di là dell’uso a volte acritico che ne hanno
mutuato alcuni movimenti a livello locale, assume la forma di un discorso che riesce a
connotare un programma di azioni e di rivendicazioni che vanno oltre il contesto storico in
cui è nato. Come afferma Harvey (2008, p. 23), infatti:
The right to the city is far more than the individual liberty to access urban resources: it is a
right to change ourselves by changing the city. It is, moreover, a common rather than an
individual right since this transformation inevitably depends upon the exercise of a collective
power to reshape the processes of urbanization. The freedom to make and remake our cities
and ourselves is, I want to argue, one of the most precious yet most neglected of our human
rights.
Il diritto alla città emerge in definitiva come un diritto allo spazio urbano ma anche un diritto
allo spazio politico in cui parlare di città, come afferma Dikeç riprendendo Balibar (Dikec,
2009, p. 76), vuol dire parlare di un luogo dove realizzare e lottare per l’interesse pubblico.
Una affermazione che implica un importante risvolto metodologico di cui terremo conto nel
prossimo capitolo: la città non solo entità amministrativa ma il luogo in cui sono negoziate le
relazioni tra lo stato, la società e il loro spazio.
Dal punto di vista operativo il diritto alla città ha costituito il manifesto di numerosi gruppi
di azione e di movimenti dal basso nati a livello locale così come globale e che si
arricchiscono, rispetto all’originaria definizione lefebvriana, di elementi che attengono alla
diritto alla diversità (razziale, sessuale, di genere, religiosa, culturale) e ai diritti connessi ai
temi ambientali che negli ultimi anni divengono centrali anche a livello urbano.
Questi movimenti organizzati dal basso ma con effetti anche ad altre scale, hanno trovato
un terreno fertile soprattutto nelle città nord americane dove maggiore è l’impatto delle
politiche neoliberiste descritte nel paragrafo precedente e dove maggiore è il conflitto sociale
dovuto all’integrazione razziale.
Un esempio di questi movimenti è Right to the city “Fighting for democracy justice and
sustainability”(Right to the City Alliance's, 2013). Esso è il risultato dell’unione di diversi
movimenti originariamente nati a New York per lottare contro la gentrificazione e lo
spostamento coatto dai loro quartieri tradizionali di cittadini a basso reddito, persone di
colore, comunità marginalizzate che si sono riuniti, in nome del diritto alla città, per
rappresentare istanze legate alla giustizia sociale, ambientale e razziale, ai diritti umani e alla
democrazia. In questo senso il diritto alla città non vuol dire soltanto combattere per una città
70
più giusta sottratta alla logica del profitto ma anche concretizzare l’idea di una politica
urbana nuova in cui ciascun abitante non soltanto ha il diritto di abitare la città ma allo stesso
tempo di costruirla, disegnarla, plasmarla in modo “giusto” attraverso principi condivisi e un
paradigma di valori comuni.
La piattaforma di rivendicazioni del movimento comprende una serie di punti che
declinano il diritto alla città:
- Uso del suolo
Il diritto alla terra e alla casa deve garantire che l’uso del suolo sia esente da
speculazioni di mercato e deve servire gli interessi della costruzione della
comunità, economie sostenibili, e dello spazio culturale e politico.
- Proprietà dei suoli urbani
Il diritto di proprietà dei territori urbani deve essere permanente e per uso pubblico.
- Giustizia economica
Il diritto delle comunità di lavoratori di colore, donne, omosessuali e ad un'economia
che tuteli i loro interessi.
- Giustizia ambientale
Il diritto a quartieri e luoghi di lavoro sostenibili e sani, il diritto all'assistenza sanitaria
di qualità e al risarcimento per danni alla salute causati da rifiuti tossici.
- Giustizia per gli immigrati
Il diritto di parità di accesso agli alloggi, all'occupazione, e ai servizi pubblici,
indipendentemente da razza, etnia.
- Servizi e istituzioni pubbliche
Il diritto per le comunità di lavoratori di colore all’accesso a al trasporto, alle
infrastrutture e ai servizi che riflettono e sostengono la loro integrità culturale e
sociale.
- Democrazia e Partecipazione
Il diritto da parte dei cittadini al controllo e alla partecipazione al processo decisionale
della pianificazione e del governo delle città, con piena trasparenza e
responsabilità.
- Risarcimento
Il diritto al risarcimento delle comunità di lavoratori che hanno subito lo sfruttamento
e/o lo spostamento della base economica locale.
71
- Internazionalismo
Il diritto a sostenere e costruire la solidarietà tra le città oltre i confini nazionali, senza
l'intervento dello Stato.
- Giustizia rurale
Il diritto delle popolazioni rurali a comunità economicamente sane e stabili protette dal
degrado ambientale e dalle pressioni economiche che costringono la migrazione verso le aree
urbane.
Anche la Carta mondiale per il diritto alla città del 2004 (Brown e Kristiansen, 2009),
nata nell’ambito del Forum sociale di Porto Alegre, identifica una serie di condizioni per
definire il diritto alla città:
- Uso sociale, equo e sostenibile di beni comuni naturali, patrimoniali ed energetici
della città e delle zone circostanti
- Completo esercizio della cittadinanza
- Priorità dell’interesse pubblico definito collettivamente
- Tutela e promozione della capacità produttiva dei suoi abitanti, in particolare dei
settori popolari, incoraggiando e sostenendo la produzione sociale dell’habitat e lo
sviluppo di attività economiche solidali, ad esempio l’agricoltura urbana
- Fruizione democratica ed egualitaria della città
- Diritto all’accessibilità e ad uguali opportunità
- Diritto alla mobilità di tutti gli abitanti, con tecnologia pulita e sostenibile ed
incentivi per il trasporto pubblico e per i mezzi di trasporto alternativi
- Diritto all’inclusione informatica
- Diritto alla giustizia ambientale.
Benché presente in molte dichiarazioni e statuti l’unico paese ad aver adottato il diritto
alla città in modo vincolante è il Brasile che lo inserisce nella propria costituzione (del 1988)
agli articoli 182 e 183 del capitolo 2, Politica urbana
(C o s t i t u z i o n e d e l B r a s i l e ,
http://www.servat.unibe.ch/icl/br00000_.html, scaricata il 30/5/2013) (Maricato, 2009):
Article 182 Municipal Urbanization
72
1. The urban development policy carried out by the Municipal Government, according to
general guidelines set forth in the law, is aimed at organizing the full development of
the city's social functions and ensuring the wellbeing of its inhabitants.
2. The master plan, approved by the City Council, which is compulsory for cities of over
twenty thousand inhabitants, is the basic tool of the urban development and
expansion on policy.
3. Urban property performs its social function when it meets the fundamental
requirements for the city's organization as set forth in the master plan.
4. Expropriation of urban property is made against prior and fair compensation in cash.
5. The Municipal Government may, by means of a specific law, in relation to areas
included in the master plan, demand, according to federal law, that the owner of
unbuilt, underused, or unused urban soil provide for adequate use thereof, subject,
successively, to:
I. compulsory subdivision or construction;
II. rates of urban property and land tax that are progressive in time;
III. expropriation with payment in public debt bonds issued with the prior approval
of the Federal Senate, redeemable within up to ten years, in equal and successive
annual installments, ensuring the real value of the compensation and legal interest.
Article 183 Usurpation
1. An individual who holds as his own an urban area of up to two hundred and fifty
square meters, for five years without interruption or opposition, using it as his or as
his family's home, acquires title to such property, provided that he does not own any
other urban or rural property.
2. The deed of title and authorization of use is granted to the man or woman, or both,
regardless of their marital status.
3. Such right shall not be recognized for the same holder more than once.
4. Public real property shall not be acquired by usurpation.
Questi articoli hanno poi trovato attuazione nel City statute del 2001, una legge che
definisce le linee guida che devono essere osservate dai diversi livelli di governo (da quello
nazionale a quello municipale) per garantire una gestione democratica delle città, il
riconoscimento delle funzioni sociali della proprietà urbana e della città più in generale. E’
73
interessante notare il concetto di “funzioni sociali” della città che si riferisce alla lefebvriana
distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e alla priorità da assegnare e quindi
all’interesse collettivo nella gestione del governo urbano.
Il riferimento alla gestione democratica della città comporta invece il controllo sociale e
la partecipazione della società civile nella gestione, nel progetto delle città con l’obiettivo di
stabilire una nuova etica sociale, istituzionalizzata attraverso vari strumenti e forum, ad
esempio, la partecipazione pubblica obbligatoria nei processi di pianificazione generale in
città e la creazione del Ministero delle Città e il Consiglio Nazionale delle Città, solo per
citarne alcuni. (Santos Carvalho e Rossbach, 2010).
4.3.2 La città giusta
La critica all’avanzata neoliberista alle città come elemento della competizione globale è
stata affrontata anche da studiosi che propongono soluzioni più riformiste e che in qualche
misura si sforzano di contestualizzare l’orientamento ideologico nella pratica quotidiana. H.
Campbell (2006) partendo dal presupposto che le questioni relative ai valori sono una parte
inevitabile delle attività di pianificazione e delle politiche, è tra gli studiosi che afferisce al
filone definito di justice planning la cui caratteristica è quella di contestualizzare gli ideali
astratti di giustizia in casi reali e di incorporare valori etici negli obiettivi delle politiche, in
particolare a livello urbano.
Da questo filone scaturisce il concetto di Just city, la città giusta alla cui definizione
hanno contribuito, principalmente, i lavori di S. Fainstein (2000, 2005, 2010). Pur rimanendo
nell’ambito della political economy, l’approccio di Fainstein alla politica urbana non ha toni
utopistici o rivoluzionari ma si colloca in una dimensione decisamente riformista e
costituisce, per definizione stessa dell’autrice, una sorta di realistic utopianism.
Il suo assunto di partenza si basa infatti sulla distinzione adottata da Fraser (2003, cit. in
Fainstein, 2009, p. 18) secondo cui, per affrontare i temi dell’ingiustizia sociale, sebbene sia
preferibile adottare politiche che mirino alla trasformazione della struttura sociale che li ha
provocati (transformational strategies), i margini di azione di cambiamento radicale sono
oggettivamente ridotti ed è quindi più praticabile un approccio di “nonreformist reform” che
operi all’interno del quadro capitalistico attuale in grado di innescare, allo stesso tempo, una
traiettoria di cambiamento più radicale. Anche il problema dell’autonomia delle politiche
urbane rispetto al contesto nazionale e internazionale, viene risolto da Fainstein secondo
74
questa logica del compromesso. I movimenti urbani, come abbiamo visto, per esempio,
quelli basati sul diritto alla città “do have trasformative potential despite being limited to
achieving change only at level in which they are operating” (Ibidem). Ma rimane la
consapevolezza del ruolo necessario, per il cambiamento, dei livelli politici nazionali e
sovra-nazionali.
Con questi limiti di partenza, Fainstein cerca di mettere in azione i principi di giustizia
che abbiamo visto nel primo capitolo e, richiamandosi espressamente alla teoria della
giustizia di J. Rawls, alla teoria della capacitazione di A. Sen e al concetto di recognition di
I.M. Young, per determinare le politiche per la città giusta sceglie come concetti operativi di
riferimento quelli di: equità, democrazia e diversità. L’obiettivo è quello di costituire un
framework di riferimento in base al quale giudicare e valutare le politiche urbane. Giustizia
intesa non soltanto come outcome “materiale” di riferimento ma, richiamandosi alle teorie di
P. Healey, come processo politico “giusto” in cui l’osservazione di casi diversi di città non
porta alla definizione di uno schema universale di città giusta ma a comprendere i margini di
intervento verso gli obiettivi di giustizia nel quadro delle condizioni attuali (sebbene l’analisi
di Fainstein riguardi città occidentali).
A partire dai criteri di equità, diversità e democrazia, Fainstein identifica una serie di
regole generali, riassunte in otto punti, che possono essere un utile strumento nel processo di
valutazione della giustizia delle politiche urbane:
1. Ogni nuovo piano edilizio deve prevedere quote di abitazioni per le fasce di reddito più
basse con l’obiettivo di fornire a tutti anche ai non cittadini un’abitazione decente
2. Non possono essere ammesse rilocalizzazioni contrarie alla volontà dei diretti
interessati, siano essi famiglie o imprese, in nome dell’efficienza economica o
dell’equilibrio sociale
3. I programmi di sviluppo economico devono avere come priorità l’interesse dei
lavoratori e delle piccole imprese
4. Tutti i piani di sviluppo commerciale devono prevedere spazi pubblici di
socializzazione e agevolare lo sviluppo di attività economiche cooperative
5. I mega progetti urbani devono essere sottoposti a controlli rigorosi circa la loro
capacità di produrre esternalità positive per i ceti meno abbienti sotto forma di posti
di lavoro, servizi pubblici, reddito di cittadinanza cercando di garantire forme di
partecipazione pubblica al progetto
75
6. Le tariffe dei mezzi di trasporto devono essere modulate a seconda delle fasce di
reddito e nelle linee di collegamento da e verso le periferie
7. I pianificatori devono svolgere un ruolo attivo nell’attuazione di soluzioni rispettose
dei principi che costituiscono la città giusta
8. I piani dovrebbero essere sviluppati in accordo con i residenti delle aree interessate e,
contemporaneamente, tenendo in considerazione gli impatti a livello di area urbana
più in generale.
Anche se il contesto locale e storico, rende indeterminata la scelta della politica più
“giusta” da adottare a priori, rendendo impossibile stabilire una ricetta valida per tutte le
città, Fainstein utilizza i concetti guida di equità, democrazia e diversità per analizzare tre
casi di città: Londra, New York, Amsterdam.
La città olandese emerge come quella che rispetta il maggior numero di criteri della città
giusta all’interno del sistema capitalistico attuale che Fainstein (2010, p. 139) stessa
definisce “un’utopia realistica”.
Amsterdam rappresenta per Fainstein una città che ha saputo rispondere alle pressioni per
una maggiore competitività in modo costruttivo, che ha saputo gestire il difficile equilibrio
tra i valori –democrazia, equità, diversità, crescita e sostenibilità che ha fatto di Amsterdam
la “città ideale”, un caso di studio molto diffuso tra gli studiosi di politiche urbane. Essa
inoltre incarna il modello della città europea opposta alla città americana come modello di
città compatta e sostenibile, inclusiva che può rappresentare un esempio da seguire di fronte
alle minacce della globalizzazione (si veda Bagnasco e LeGalès, 2000).
Fainstein inquadra il caso di Amsterdam in una prospettiva evoluzionista in cui la
dipendenza dalla storia gioca un ruolo fondamentale nella realtà attuale della città Infatti per
le sue caratteristiche geomorfologiche, la pianificazione territoriale ha avuto un ruolo sempre
molto importante nella costruzione dell’assetto urbano della città e governi locali molto forti
e autonomi rispetto al potere centrale.
Governi locali di impronta socialista, hanno nel corso degli anni, controllato la rendita
fondiaria attraverso interventi di edilizia pubblica che dal 1945 al 1985 rappresentavano il
90% dell’edilizia residenziale. L’enfasi dei governi locali, fino alla metà degli anni Ottanta,
era sul benessere sociale più che sulla crescita economica, con un rigido controllo
dell’espansione urbana secondo i dettami dei piani regolatori, con un rigido controllo
dell’espansione.
76
I piani di rinnovo urbano degli anni Sessanta, ispirati ad un estremo razionalismo
urbanistico, avevano anche un motivo strutturale: demolire le case ottocentesche costruite su
pali immersi nel terreno paludoso. Questa iniziativa diede vita ad un ampio movimento di
squatters che occupavano le case in attesa di demolizione, compresi molti immobili centrali
dichiarati monumenti della città, resistendo agli sgomberi e riuscendo, di recente, ad essere
riconosciuti legalmente. Il movimento, partendo dall’esigenza di opporsi al rinnovamento
urbano, ha poi nel corso degli anni ampliato la piattaforma delle richieste trasformandosi in
un movimento per uno dei maggiori problemi della città, la grande carenza di case
disponibili. Il governo locale ha risolto dunque il problema garantendo livelli di edilizia
pubblica importanti a vantaggio delle classi sociali meno abbienti e delle etnie più
svantaggiate. Anche la partecipazione democratica, come nel caso degli squatters, e la
tolleranza sono esempi che Fainstein cita come esempio del rispetto dei suoi tre principi
guida.
Per Fainstein la realizzazione della città giusta - è questa la lezione che ci fornisce lo
studio di Amsterdam - è un processo circolare in quanto la preesistenza di un contesto
culturale e politico orientato ai criteri della giustizia sociale e del welfare, rendono più
semplice, attraverso dinamiche cumulative, l’attuazione di politiche giuste. Come questa
affermazione si applichi ad una presunta cumulatività dell’ingiustizia, Fainstein non lo
spiega. E non coglie neppure le relazioni tra strutture socio-politiche e forma urbana.
Il ricorso al modello “Amsterdam” e a quello delle città europee di Bagnasco e LeGalès è
stato tuttavia fortemente criticato in quanto non più rispondente alla realtà attuale perché
anche questa città è stata oggetto in modo crescente negli ultimi anni dell’attacco neoliberista
alle politiche di welfare e a numerose frizioni etniche (come ampiamente documentato in
Novy et al., 2009, p. 110). Altri modelli, suggeriscono questi studi, sono da ricercare come
“città giusta”: quelli per esempio delle città dell’America Latina.
Il concetto di città giusta di Fainstein è stato oggetto di numerose critiche, in particolare
provenienti da posizioni più radicali. Tra questi, D. Harvey afferma che il concetto di Just
city di Fainstein è troppo immerso nel sistema di valori che cerca di oltrepassare e contiene
troppi pochi elementi di utopia che per Harvey sono invece fondamentali. Egli, infatti,
citando Robert Park afferma che:
the city is the man’s most successful attempt to remake the world he lives in more after his
heart’s desire. If the city is the world which man created, it is the world in which he is
77
henceforth condemn to live. Thus, […] in making the city man has remade himself (Harvey e
Potter, 2009, p.45).
Per Harvey dunque il problema di quale città vogliamo riguarda questioni più profonde
relative al modello di società, e quindi il concetto riformista di città giusta diventa per lui
“the struggle for the just city”, la lotta per la città giusta, dove è centrale il conflitto con il
modello neoliberista attualmente dominante.
Anche se molti dei punti che caratterizzano la città giusta hanno un carattere spaziale
(edilizia, trasporti urbani, beni comuni, ecc.), Fainstein non esplicita il legame di causazione
tra lo spazio e la condizione urbana né fornisce una visione più relazionale dei fenomeni
osservati e delle dinamiche politiche anche se riconosce che “justice is not achievable at the
urban level without support from other levels”. Peraltro, non viene giustificata la scelta della
città come luogo in cui mettere alla prova dell’operatività i concetti filosofici di giustizia ma
si limita a definire la città “a site of justice” (Potter e Novy 2009, p. 20). Anche il rapporto
dei principi di giustizia urbana con il concetto di competitività e crescita viene affrontato
solo superficialmente. Alla fine per Fainstein la città giusta è al contempo contenuto etico e
fine delle politiche. E con un approccio comunicativo15
, anche lei afferma l’importanza del
“discorso” nella realizzazione della città giusta:
By continuing to converse about justice, we can make it central to the activity of planning.
The very act of naming has power. If we constantly reiterate the call for a just city, we
change popular discourse and enlarge boundaries of action (Fainstein, 2009, p.35).
Il capitolo appena concluso pone alcune questioni di contenuto e di metodo.
Innanzitutto emerge che non esiste una definizione di giustizia universale e replicabile
adatta a tutte le città. La stessa Fainstein benché costruisca la sua nozione di città giusta
intorno ai tre concetti universali di equità, democrazia e diversità afferma che ciascuna città
ha le sue specificità a cui guardare e intorno alle quali costruire il suo percorso verso un
assetto “giusto”.
15 Il modello comunicativo, definito anche come “argumentative turn” rappresenta una significativa innovazione
teorica nel campo della pianificazione urbana e dell’analisi delle politiche degli ultimi venti anni, finalizzato ad
analizzare le modalità usate dai pianificatori nelle loro pratiche politiche. L’analisi si basa su “acts of power such
as word in use, argumentation in action, as well as gesture, emotions, passions, and moral representing
institutional politics and ways of thinking” (Ploger, in Fischer, 2009, p. 53). Si basa sui lavori di J. Habermas che
enfatizzano l’importanza del discorso e della comunicazione che diviene l’aspetto più importante del processo di
pianificazione pubblica.
78
One can offer a theory of the Just City, but it cannot be more than one of numerous other
contested positions and will be treated as such those with different preferences. This is to say,
it cannot be established once and for all by accepted criteria (Fischer, 2009, p. 60).
Piuttosto, la città giusta e il diritto alla città appaiono come attitudini democratiche
(Fincher e Iveson, 2012, p. 8), forme di resistenza al neoliberismo che come abbiamo visto
ha avuto, negli ultimi anni, il potere di cambiare la forma della città, il più delle volte in
nome della competitività economica. La lotta alla conquista neoliberista della città come
valore di scambio sembra essere l’elemento che unifica il riformismo della città giusta e il
radicalismo del diritto alla città.
L’altro elemento comune che emerge sembra essere quello relativo al riconoscimento
della giustizia attraverso l’ingiustizia, attraverso un approccio quasi emozionale e
fenomenico.
Un altro aspetto da sottolineare è il ruolo dello spazio. Abbiamo visto che il più delle
volte la città è utilizzata come scenario di fatti umani che ha il vantaggio di poter analizzare i
fenomeni socio-economici in uno spazio delimitato a grande scala. Lo spazio inteso come
variabile esplicativa, in tensione dialettica con la società, non emerge, invece, in modo
esplicito e consapevole dalle analisi di Fainstein né, in modi diversi, nel concetto di diritto
alla città di Lefebvre16
. Senza la spiegazione delle modalità in cui lo spazio produce
ingiustizie ed è a sua volta prodotto da queste, il concetto di giustizia spaziale diventa
sinonimo di “giustizia sociale nello spazio”. In questo senso la città giusta condivide
numerosi aspetti con altre formulazioni simili quali, per esempio, la good city di Amin
(2006) che immagina una città efficiente, inclusiva e partecipativa basata sul senso di
solidarietà degli abitanti e indica la centralità di “an urban ethic imagined as an ever-
widening habit of solidarity” fondata sui concetti di “repair”, “relatedness”, “rights” e “re-
enchantement” che fanno parte dell’esperienza quotidiana. (Ivi, p. 1012). E quindi nella
direzione di Dikeç che bisogna procedere se vogliamo differenziare il concetto in senso
critico e non in termini meramente descrittivi.
Il legame tra spazialità e giustizia richiede, tuttavia, un approccio metodologico adeguato
al superamento dei tradizionali metodi di rappresentazione della realtà urbana e di cui
tratteremo nel capitolo successivo.
16
“Le droit à la ville” non contiene riferimenti espliciti alla teoria dello spazio che sarà sviluppata da Lefebvre
solo qualche anno più tardi, anche se la città emerge già chiaramente come “spazio socialmente prodotto”.
79
5. La rappresentazione della giustizia spaziale:
aspetti concettuali e metodologici
I capitoli precedenti hanno mostrato che il concetto di giustizia spaziale composto da
termini così fortemente contestati quali giustizia e spazio, oltre ad uno status teorico e
concettuale di riferimento ancora in corso di definizione, è poco indagato nei suoi risvolti
operativi e rari, nella letteratura esaminata, sono i casi di studio osservati17
. Infatti, il
concetto, variamente definito, sia nella sua accezione tradizionale di distribuzione delle
risorse nello spazio che in quello più critico in cui il ruolo dello spazio è integrato in
rapporto causale con le forme sociali, non viene quasi mai corredato da un supporto
metodologico per la sua operazionalizzazione. Questo limite, se da un certo punto di vista
può essere accettato come inevitabile considerata la scivolosità degli assunti teorici,
contribuisce ad una certa opacità del concetto.
I problemi che scaturiscono da questa indeterminatezza, si ripercuotono anche
sull’operatività del concetto e sulla sua utilizzabilità come principio guida dell’agenda e
della pratica politica. Anche se la letteratura è piena di fuzzy concepts (Markusen, 2003)
utilizzati come pilastri delle politiche regionali (si pensi all’uso del termine cluster, per
esempio, descritto da Martin e Sunley (2003) una migliore gestione metodologica e operativa
del concetto rappresenta un elemento importante per renderlo comunicabile, operativo e in
ultima istanza fruibile per l’agenda politica.
In questo capitolo, tenteremo perciò di aggiungere il pezzo mancante del dibattito sulla
giustizia spaziale, di definire le basi per la sua rappresentazione attraverso strumenti –
concettuali ed operativi- adeguati.
Rappresentazione si presenta forse come il termine più adeguato ad esprimere l’obiettivo
che si pone questo capitolo in quanto, come vedremo, scegliere di rappresentare la giustizia
17 Fanno eccezione Lancione (2009) e Bhome et al. (2004), sebbene nessuno di questi studi utilizzi il concetto di
giustizia spaziale come adottato nel presente lavoro.
80
spaziale implica scelte di ordine concettuale e metodologico strettamente legate alle evidenze
teoriche ed operative emerse nei capitoli precedenti.
Dal punto di vista concettuale significa integrare lo spazio, nella sua triplicità di spazio
assoluto, relativo e relazionale (cfr. Cap. 3) come elemento ontologico essenziale per la
spiegazione della giustizia spaziale. Dal punto di vista metodologico, invece, vuol dire
sperimentare l’utilizzo di diversi metodi e strumenti di analisi integrati tra di loro, attraverso
quella che è stata definita “ibridizzazione” (Sui e DeLyser, 2012): metodi, tecniche e fonti
diverse in un tentativo di integrazione ibrida che possa ricomporre il più possibile la
complessità del tema, where mathematics, poetry and music converge if not merge (Harvey,
2006, p. 124).
Se l’obiettivo di questo esercizio è principalmente finalizzato ad analizzare sul campo le
geografie della giustizia/ingiustizia spaziale, esso può altresì contribuire a identificare le
cause che risiedono alla base della produzione di geografie ingiuste:
Spatial justice can be seen as both outcome and process, as geographies or distributional
patterns that are in themselves just/injust and as the process that produce these outcomes. It
is relatively easy to discover examples of spatial injustice descriptively, but it is much more
difficult to identify and understand the underlying process producing unjust geographies
(Soja, 2009, p. 62).
Possiamo affermare, con espressione solo apparentemente paradossale, che attraverso la
geografia sociale non cerchiamo di conoscere lo spazio (fisico) in sé bensì la società nel suo
relazionarsi allo spazio, lo spazio non essendo il fine della conoscenza, ma piuttosto lo
strumento attraverso il quale riusciamo a meglio intendere le dinamiche sociali (Loda, 2010,
p.28).
5.1 Gli aspetti concettuali
5.1.1 Integrare lo spazio nell’analisi della giustizia spaziale
Impostare l’analisi della giustizia spaziale in questa direttrice di analisi comporta alcuni
rischi. Se da un lato scegliere lo spazio relazionale come unità e dimensione dell’analisi
permette una migliore comprensione del fenomeno in relazione ai suoi assunti teorici e ci
consente di non cadere nella “trappola territoriale” prima ricordata, al tempo stesso questo
approccio comporta il rischio di decontestualizzare l’analisi rischiando, come afferma lo
stesso Harvey (2006), di assomigliare pericolosamente al nichilismo post-moderno in quello
81
che, parafrasando Audrey Kobajashi, potremmo definire “nothing but relations, the
nightmare of post-modern geography”.
Possiamo utilizzare la concettualizzazione di spazio presentata nel capitolo 3 per tentare
di costruire una rappresentazione della giustizia spaziale teoricamente fondata? Le teorie
dello spazio prima esposte possono aiutarci in questo percorso che ha come obiettivo,
andando oltre i tradizionali sistemi di misurazione basati su un concetto di spazio
esclusivamente euclideo, di pervenire ad una rappresentazione della complessità del
concetto di giustizia spaziale che si basa su un rapporto tra spazio e giustizia “intertwined
and mutually constitutive”? Quali implicazioni ne derivano?
Per cercare di essere coerenti con gli assunti teorici e non limitare l’analisi allo spazio
contenitore e, al contempo, evitare i rischi prima esposti, benché complessa concettualmente
e insidiosa dal punto metodologico e operativo, adottare la concezione dello spazio espressa
dalla matrice della spazialità di Harvey (cfr. cap. 3) ha costituito una scelta coerente con il
percorso teorico fin qui seguito.
Attraverso i limiti e i confini di una matrice, Harvey riesce a rendere meno volatile la
natura dei flussi di cui pare essere costituito il relational thinking, concretizzando con il
ricorso al concetto di permanenza lo spazio relazionale altrimenti difficile da rappresentare.
E a superare, nel contempo, l’opposizione binaria place/space che spesso caratterizza
l’analisi geografica.
I problemi che emergono sono di ordine concettuale e metodologico.
Da un punto di vista concettuale il primo passo da compiere è quello di individuare la
giustizia nello spazio, in “uno spazio”. Come abbiamo visto nei primi due capitoli, l’idea di
giustizia assume numerosi connotati a seconda del punto di vista
(universalistico/marxista/post-moderno) da cui può essere interpretato. Per non correre il
rischio di incorrere in un approccio universalistico e poco concreto, Harvey (1996) ci ricorda
(citando Engels) che la giustizia è un concetto “place based” per eccellenza in quanto è
un’idea intimamente legata alla cultura e radicata nelle differenti realtà sociali e solo rispetto
a queste relazioni si può comprendere: la giustizia, o meglio la “lotta per la giustizia” non è
un ideale universale ma “si fa” e anche per questo implica uno spazio per l’azione. Questa
decisa visione della giustizia “sul campo” viene ulteriormente rinforzata da Soja per il quale
lo spazio ne rappresenta un elemento costitutivo e da Dikeç che parla di spazialità
dell’ingiustizia e ingiustizia della spazialità. Lo spazio quindi deve essere integrato
82
nell’analisi come una variabile che spiega i fenomeni rappresentati e sua volta viene spiegata
dall’analisi di quei fenomeni.
Infatti la teoria della giustizia spaziale e, al contempo, la visione dello spazio di Harvey
con la supremazia gerarchica riconosciuta allo spazio assoluto, ci permette di affermare che
possiamo individuare due modi per guardare alla giustizia spaziale:
1. partire da un approccio normativo, stabilendo quali sono gli elementi che compongono
la giustizia spaziale (a livello urbano, per esempio) e associare metodi e fonti informative più
adeguate alla sua rappresentazione e ai suoi legami con lo spazio, attraverso un approccio
transcalare;
2. partire da un approccio descrittivo e dall’osservazione dello spazio giusto/ingiusto (o
meglio delle permanences, ricordiamo l’esempio di Ground Zero riportato nel capitolo 3)
risalire alla complessa rete di rapporti che uno spazio fisico porta con sé. Lo spazio quindi
che viene prodotto dall’azione sociale e che a sua volta la produce e, in qualche misura, la
determina, rendendo unici i luoghi analizzati.
Dal punto di vista operativo questa visione implica la scelta della scala di riferimento per
l’analisi da svolgere secondo lo schema triplice proposto dalla matrice della spazialità di
Harvey. E’ evidente che, anche per le cose dette nel capitolo 4, la città emerge come il livello
privilegiato di analisi. In generale, più il contesto di riferimento per l’analisi è a grande scala
più questa scelta di campo consente un’efficacia operativa maggiore rispetto ad una scala
regionale dove, come nota Manderscheid (2012), le differenze interne sono sistematicamente
trascurate, dando per scontata un’omogeneità dell’entità “regione” che rischia di farci cadere
nella trappola territoriale prima descritta e in una serie di problemi metodologici di difficile
soluzione.
5.1.2 Decostruire la giustizia spaziale
Dobbiamo ora cercare di schematizzare il complesso concetto di giustizia spaziale,
decostruirlo nelle sue componenti, per poi integrare le informazioni così ottenute e declinarle
secondo le tipologie di spazio (celle) della matrice. L’obiettivo è di pervenire ad una
rappresentazione della giustizia spaziale attraverso modalità che possano restituire un quadro
più aderente alla complessità del fenomeno di quanto si possa ottenere attraverso i
tradizionali indicatori quantitativi e/o qualitativi in cui non è integrata la dimensione
spaziale.
83
Per pervenire ad una definizione operativa della giustizia spaziale possiamo seguire il
metodo della cosiddetta analisi strutturale che costituisce una delle fasi del processo di
operazionalizzazione proposto da Lazarsfield (Statera, 1997) e cioè:
1. Formulazione-definizione del concetto empirico corrispondente al fenomeno di
interesse
2. Individuazione delle dimensioni (proprietà) che lo costituiscono
3. Individuazione del maggior numero di indicatori rilevanti per le dimensioni
enucleate
4. Eventuale formulazione di indici.
Tuttavia, ai fini del presente lavoro, al punto 3 non ci limiteremo alla mera
quantificazione e misurazione del fenomeno ma cercheremo di proporre altri metodi per
pervenire ad una rappresentazione del fenomeno più coerente con gli obiettivi esposti in
precedenza.
Inoltre, introdurremo un punto 2.1 che è rappresentato dalla declinazione delle proprietà
individuate secondo le dimensioni spaziali della matrice della spazialità.
Il percorso di ricerca si articola in tal modo in cinque punti.
1. L’analisi della letteratura proposta nei capitoli precedenti ci restituisce un concetto di
giustizia spaziale non soltanto come mero processo descrittivo e comparativo del livello di
distribuzione delle risorse materiali e immateriali fra differenti territori. Il concetto invece si
delinea come un outcome e, al tempo stesso, un processo in cui giustizia sociale e
dimensione spaziale sono “intertwined and mutually constitutive” ed in cui le dimensioni
della giustizia non sono rappresentate soltanto da un’equa distribuzione delle risorse, dei
costi e dei benefici ma anche dal “riconoscimento” della diversità culturale, di genere,
sessuale, etnica e politica delle persone. La città, inoltre, emerge come la scala di
osservazione privilegiata del fenomeno per i motivi esplicitati nel capitolo 4.
2. Estrapolare, in base alla definizione teorica, le dimensioni da cui emerge chiaramente il
rapporto dialettico tra spazio e giustizia sociale e perimetrare di conseguenza il campo di
indagine.
84
2.1 Individuate le dimensioni dell’analisi, scomporre ciascuna dimensione nelle sue
manifestazioni spaziali partendo dalla sua forma (o permanence) nello spazio assoluto e
stabilendo, muovendosi nelle celle della matrice delle spazialità, le sue manifestazioni alle
diverse scale spaziali individuate nelle matrice.
3. Individuare per ciascuna relazione spaziale il metodo e le fonti più adatte per
rappresentarla: indicatori, interviste, indagine diretta, ricorso ai VGI, tecniche visuali, ecc.
4. Ricomporre il fenomeno cercando, attraverso gli elementi quantitativi e qualitativi,
oggettivi e soggettivi analizzati, di rappresentarlo nella sua relazionalità spaziale e settoriale.
5.2 La giustizia spaziale rappresentata: un esercizio
Il passo successivo consiste nel contestualizzare le indicazioni scaturite dal percorso
metodologico.
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, uno dei fenomeni che accomuna la giustizia
spaziale a scala urbana è il consumo di suolo sempre più utilizzato per fini privati. Nel
secondo capitolo abbiamo parlato delle privatopias, delle gated communities, riferendo di
una crescente propensione alla “pseudo-private property” e all’erosione di spazio pubblico
come elementi che caratterizzano gli insediamenti di numerosi città occidentali
contemporanee. La letteratura è ricca di esempi di insediamenti urbani diffusi che, associati
ad altre caratteristiche economiche, sociali, ambientali costituisce un fenomeno definito
anche come sprawl urbano. Esso rappresenta un fenomeno complesso e multidimensionale
iscritto nello spazio, una permanenza da cui possiamo partire per poi allargare la visuale a
tutti i fenomeni ad esso connessi. Un caso interessante per questo studio sia per il rapporto
circolare e cumulativo tra forma spaziale e comportamenti sociali sia perché rappresenta
l’assenza di quelle dimensioni di giustizia spaziale che abbiamo precedentemente esaminato
e che verrà qui usato come una sorta di fatto stilizzato che, seppur operando una estrema
semplificazione del fenomeno, permette di effettuare una prima sperimentazione
dell’efficacia operativa della matrice delle spazialità.
Utilizzare lo sprawl per testare la matrice richiede però una giustificazione circa il suo
essere “spazialmente” ingiusto. Perché definire lo sprawl come esempio di ingiustizia
85
spaziale? La letteratura sul tema (si veda per una sintesi di questi aspetti Ewing, 1997, e per
l’Italia, Gibelli e Salzano (2006), richiamata brevemente per giustificare tale scelta, è
caratterizzata da una decisa tendenza: lo sprawl, come forma urbana dispersa in opposizione
a quella compatta, ha impatti sostanzialmente negativi dal punto di vista:
- economico (mancanza di economie di scala che riduce il livello e l’offerta dei servizi
pubblici, indebolimento della base economica e commerciale dei centri cittadini a
vantaggio di operatori economici di grandi dimensioni, ecc.),
- ambientale (aumentati consumi di carburanti per trasporto privato, congestione del
traffico e relativo inquinamento, alterazione degli ecosistemi causato dal consumo di
suolo agricolo cementificato, ecc.),
- sociale (perdita dell’identità sociale e culturale generata dai quartieri urbani,
mancanza di socialità dovuta alla mancanza di luoghi pubblici di incontro, scarse
opportunità di partecipazione alla vita sociale e politica del quartiere per la
mancanza di un’identità comune, ecc.).
Non mancano ovviamente le voci fuori da questo coro numeroso di condanna: è famosa
la posizione di Gordon e Richardson (1997) che leggono lo sprawl come una libera decisione
degli individui (scelte abitative fuori dal centro cittadino) e delle imprese che
massimizzerebbe il benessere di tutta la collettività anche attraverso una decongestione dei
centri urbani e maggiori livelli di sicurezza dovuti alla minor densità. Rimane un punto che
entrambe le posizioni prima delineate sinteticamente hanno in comune: la consapevolezza
che la forma urbana ha un impatto significativo sull’organizzazione economica e sociale
delle città.
Un aspetto che rimane, al di là delle valutazioni, un fenomeno dagli impatti “presunti” più
che riscontabili empiricamente. Frenkel a Ashkenazi descrivono bene il problema quando
affermano che:
Urban sprawl is a complex phenomenon that is difficult to quantify and measures accurately
[…] moving from sprawl to compact form is more likely to be a direction in a continuum
rather than across fixed and measurable categories (Frenkel a Ashkenazi, 2008, p. 57).
Così sulla stessa scia anche Torrens e Alberti affermano in una prospettiva di integrazione
di metodi e fonti che le analisi sullo sprawl sono generalmente focalizzate sui pattern
insediativi ad una scala data, senza tensione dialettica tra le diverse dimensioni del
fenomeno:
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Each of these techniques captures an essential component of the sprawl problem, and some
can be used quite widely to measure multiple characteristics. Nevertheless, each suffers from
a common set of limitations, notably a lack of dynamism, an emphasis on pattern at the
expense of process, and a dependency on scale. Perhaps the best way to mediate these
limitations is to weave the metrics - in a validatory sense - into dynamic and interactive
simulation environment for exploring sprawl (Torrens e Alberti, 2000, p. 29).
Lo sprawl, peraltro, identifica bene anche la visione dell’evoluzione della città
commodificata presentata nel capitolo 4. La città diffusa infatti assomiglia molto a quella
forma urbana che lo slogan city for people not for profit (Brenner et al. 2009) sembra voler
contrastare. Le scelte connesse a quello che viene definito sprawl, in definitiva, sembrano
avere un impatto significativo su quello che abbiamo descritto come diritto alla città. Ecco
perché, benché consapevoli di incorrere nel rischio di una eccessiva semplificazione data la
complessità del fenomeno (si veda per un esame critico dell’uso e abuso del termine Galster
et al., 2001), lo sprawl, (o, meglio, alcune dimensioni ad esso associate) viene adottato come
un fatto stilizzato, un esempio di in/giustizia spaziale per sperimentare l’efficacia della
matrice delle spazialità.
Fatte queste premesse, possiamo passare a testare la matrice delle spazialità come
strumento che ci consente di ottenere una visione meno parziale e più olistica del fenomeno
prescelto.
Il primo passo da compiere consiste nel decidere, in un approccio dialettico e relazionale,
a partire dal livello prescelto di analisi, quali relazioni bisogna tenere in considerazione
nell’analisi spaziale dei fenomeni che caratterizzano lo sprawl e individuarne la portata in
termini di spazio assoluto, relativo e relazionale.
Anche in questo caso, scomponiamo il fenomeno dello sprawl nelle sue manifestazioni e
impatti principali:
- Pendolarismo nel tragitto casa-lavoro
- Consumo energetico
- Inquinamento atmosferico
- Costi delle infrastrutture (avendo costi fissi molto alti, i costi vengono ammortizzati
solo dopo una certa soglia di densità di utenza)
- Consumo di suolo agricolo
- Rischio di impermeabilizzazione e sigillatura dei suoli
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- Frammentazione dell’habitat naturale (perdita della biodiversità)
- Costi sociali: segregazione per coloro che non guidano o non hanno l’auto, per lo più
gruppi sociali svantaggiati, assenza di relazioni di vicinato, mancanza di identità e
senso di appartenenza ad una comunità, assenza di luoghi di socialità.
Le dimensioni sono strettamente collegate tra di loro in un rapporto di causalità anche
spaziale difficile da cogliere attraverso un’analisi statica.
Come esempio, nella figura 3 cerchiamo di analizzare in termini relazionali uno degli
elementi che caratterizza gli insediamenti urbani diffusi, il pendolarismo casa lavoro,
indagato attraverso la matrice della spazialità:
- Spazio percepito/assoluto (la rete dei trasporti, per esempio),
- Spazio concepito/assoluto (come lo spazio del pendolarismo è rappresentato nei
documenti ufficiali, piani e progetti, mappe tematiche, guide turistiche (per esempio
la mappa del London Tube, ecc.),
- Spazio vissuto/assoluto (l’immaginario delle persone che si spostano
quotidianamente tra casa e lavoro, le loro ansie, frustrazioni che “creano” uno spazio
mentale altrettanto fondamentale per la comprensione degli effetti delle scelte
insediative urbane).
Ciascun incrocio delle celle da’ luogo ad una tipologia di spazio originale che
contribuisce a decostruire un concetto (la mobilità dei pendolari nell’ambito di un
insediamento rubano diffuso) e ad incorporarvi la sua intrinseca spazialità.
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Spazio Percepito Concepito Vissuto
Assoluto Km di strade che collegano le periferie con le zone centrali della città; km di linee di trasporto pubblico; n. di abitanti per kmq; …
Documenti di pianificazione territoriale per la mobilità, statistiche territoriali e Sistemi Locali del Lavoro, studi settoriali sul territorio, descrizioni del paesaggio, documenti del marketing immobiliare di case e uffici,…
Emozioni, senso di sicurezza o insicurezza generato dal luogo in cui si trova la propria abitazione (confronto con abitanti di quartieri storici o centrali della stessa città), …
Relativo Tempi di percorrenza medi per gli
spostamenti casa/lavoro; flussi di pendolarismo casa/lavoro; spostamenti per fini commerciali, …
Mappe tematiche (viabilità, trasporti)
dell’area, orari ferroviari e dei bus, …
Percezione dei pendolari rispetto ai tempi di
spostamento; ansietà generata dai ritardi dei mezzi di trasporto, dal traffico; ansia, malessere, …
Relazionale Concentrazioni di Co2 da trasporti; incidenza di malattie per tipologia nella popolazione residente; luoghi di socialità; accessibilità dei servizi primari e secondari; connettività: reti wi fi, …
Rappresentazioni artistiche (surrealismo, per esempio), psico-geografie, letteratura, blog, twitts dei pendolari, …
Percezioni della qualità della vita e delle relazioni sociali; senso di isolamento; perdita di identità sociale e collettiva (confronto con abitanti di quartieri storici o centrali della stessa città),…
Fonte: nostre elaborazioni
Figura 3 – La matrice delle spazialità: spazi di pendolarismo urbano.
89
Fonte: nostre elaborazioni
Figura 4 – Fonti per la rappresentazione della mobilità pendolare
Il passo successivo è popolare la matrice con le informazioni quantitative e qualitative
che abbiamo delineato. La matrice, come si può vedere (Fig. 4), raggruppa informazioni
diverse e a scale diverse, anche se l’unità spaziale di riferimento è quella più adeguata al
fenomeno oggetto di analisi. In questo caso, i flussi di pendolarismo avranno come
riferimento spaziale i residenti in un’area urbana con caratteristiche di insediamento diffuso
da mettere in relazione con gli altri livelli spaziali coinvolti nell’analisi.
Spazio Percepito Concepito Vissuto
Assoluto Statistiche sui trasporti; documenti catastali delle aree oggetto di indagine,…
Studi tematici sul paesaggio urbano diffuso; cartografia ufficiale; atlanti; modelli scientifici di spazio per l’ottimizzazione dei tempi di trasporto, Google maps; …
Indagini statistiche sulla percezione degli abitanti; interviste semi-strutturate; focus group; analisi delle biografie; documentari; cinema; narrativa, poesia, blogs, social networks, twitts,.…
Relativo Flussi di mobilità tra centro città e periferia rilevati attraverso dati satellitari (per es. Rinzivillo et al. 2012), …
Guide tematiche, turistiche, siti ufficiali con le informazioni su trasporti/mobilità; orari ferroviari e dei bus,…
Interviste semi-strutturate; focus group; analisi delle biografie; documentari; cinema; narrativa, poesia, blogs, social networks, twitts, …
Relazionale Statistiche sull’inquinamento da trasporto; statistiche sulla morbilità della popolazione residente; statistiche sui servizi essenziali; reti di
rilevamento geografico e ambientale; …
Produzione artistica dedicata alla rappresentazione del luogo (eventi, narrativa, film, arti visive, ecc.), Flickr, …
Interviste semi-strutturate; focus group; analisi delle biografie; documentari; cinema; narrativa, poesia, blogs, social networks,
twitts, …
90
La matrice è da testare con dati e situazioni reali. Questo qui presentato è infatti soltanto
un esercizio metodologico che ci permette di proporre un metodo di analisi di fenomeni
spaziali complessi e multidimensionali e di integrare la componente spaziale in accordo con
le istanze teoriche del lavoro.
Rimane certamente da sperimentare sul campo la capacità dello strumento proposto di
cogliere la complessità e la simultaneità delle diverse dimensioni individuate e scomposte ai
diversi livelli spaziali, di solito analizzate singolarmente ed in modo statico e di riassumerle,
riaggregandole.
Anche il problema delle relazioni tra variabili ha bisogno di riflessioni più appropriate,
ma questo apre un percorso diverso da quello proposto in questo lavoro. Ovviamente, questo
non esclude che una volta sperimentata l’efficacia dello strumento si possa procedere
nell’analisi con l’utilizzo di strumenti statistici più sofisticati per tracciare un quadro più
robusto. Ma questo esula dagli obiettivi e, in qualche misura, dallo spirito del lavoro che si
propone di rappresentare la giustizia spaziale a livello urbano e sub-urbano, cercando di
valorizzare quegli elementi soggettivi e qualitativi che di solito sfuggono nelle analisi dove
lo spazio è utilizzato come variabile trasversale ai fenomeni osservati ed è “derivato”
attraverso la disaggregazione di dati pensati per altri livelli spaziali. Una rappresentazione
che come tutte le rappresentazioni costituisce una metafora, un’invenzione (Dematteis, 1985)
ma che seppure nella sua parzialità costituisce un arricchimento della conoscenza del reale
(Raffestin, 2009).
5.3 La scelta del metodo: hybrid geographies
Come affermato nell’introduzione, la scelta di rappresentare la giustizia spaziale nelle
sue diverse dimensioni, senza fermarsi ad un mero elenco di indicatori territoriali, ha come
conseguenza l’adozione di metodologie e fonti diverse. Nella figura 4 viene presentato un
esempio di come rendere operative le informazioni che abbiamo appreso dalla figura 3 e
cercare così di raccontare un pezzo di città in/giusta, costituito dallo spazio della mobilità
pendolare tra centro urbano e pezzi di città diffusa.
Il risultato della ricomposizione delle informazioni che si desumono dalla matrice è una
rappresentazione del fenomeno indagato, da cui è possibile ricavare diversi livelli di analisi,
fermandosi agli aspetti quantitativi o soltanto a quelli quantitativi, oppure definire una story
91
telling complessiva del fenomeno, in cui è fondamentale il ruolo dello spazio, integrato
nell’analisi.
Il dibattito sul metodo più appropriato all’analisi geografica non è nuovo. Da sempre in
bilico tra approccio positivista e quantitativo e approccio descrittivo e qualitativo, negli
ultimi anni la discussione si è incentrata sull’opportunità della decisa prevalenza nel ricorso a
strumenti d’indagine qualitativi, in particolare alle interviste e al case study, tipico della
svolta culturale in geografia. Questo orientamento è caratterizzato da un deciso approccio
epistemologico verso il carattere situato della ricerca in generale e di quella sociale in
particolare, dove tale aggettivo si riferisce all’influenza del contesto e della soggettività del
ricercatore nel sapere scientifico, in opposizione all’approccio “oggettivo” e “neutrale” che
aveva caratterizzato il metodo positivista. Un orientamento post-moderno sviluppato
sensibilmente nell’ambito del filone femminista che estende, parallelamente ai limiti
dell’oggettività della ricerca scientifica (Rose, 1997) il ricorso ad analisi qualitative,
soggettive, anche di stampo antropologico, nell’analisi geografica. Una tendenza che ha
interessato anche la geografia economica, dove attraverso interviste e indagini a scala ridotta,
si cerca di interpretare i fenomeni economici attraverso i differenti contesti sociali e settoriali
(Crang, 2002).
Questa decisa prevalenza nell’utilizzo di metodi e tecniche qualitative18
ha suscitato un
ampio dibattito che viene ben sintetizzato dal famoso articolo di A. Markusen (2003) circa la
pletora di concetti fuzzy utilizzati in geografia e l’abuso di metodi non quantitativi che
condurrebbero ad un sapere superficiale, non generalizzabile, in ultima analisi non
operazionalizzabile e quindi non utilizzabile nella pratica e nella loro traduzione in idee
operative per le politiche.
Secondo Kwan (2004) la geografia è stata negativamente influenzata dal modello
epistemologico khuniano che descrive l’evoluzione scientifica come una successione di
paradigmi che si succedono l’uno con l’altro attraverso punti di svolta che rappresentano
rotture rispetto al passato. Un modello non adatto alla geografia come disciplina in cui
coesistono contemporaneamente una molteplicità di prospettive teoriche e metodologiche. Il
dibattito binario sulla superiorità dell’approccio delle scienze “dure” ed esatte rispetto a
quello qualitativo sembra poter essere superato da un atteggiamento più dialettico e
possibilista nella scelta del metodo più adatto all’ambito della ricerca e alle domande a cui
intende rispondere il ricercatore, a favore quindi di un mix metodologico detto anche
18 Per una descrizione di metodi e tecniche qualitativi utilizzati per l’analisi urbana si veda Memoli (2011).
92
triangolazione (Loda, 2007, p. 138, Peck, 2003, p. 737) o forse in modo più efficace
ibridizzazione (Sui e DeLyser, 2012), il cui obiettivo principale è assecondare la
multidisciplinarietà della geografia e pervenire a risultati nell’analisi più coerenti con gli
obiettivi. In particolare, Kwan (2004, p.760) auspica la nascita di una geography of the third
kind che sembra poter offrire l’occasione di transitare oltre l’empasse del dibattito circa
l’approccio “qualitativo vs quantitativo” e di pervenire ad una sintesi soddisfacente per
l’analisi.
Tra i diversi turn a cui ci ha abituati la geografia negli ultimi anni, infatti, quello relativo
alla svolta metodologica olistica riveste per il nostro lavoro particolare interesse. Sui e
DeLyser (2012) identificano tre elementi, tre ibridi distintivi per questo nuovo framework
concettuale.
In primo luogo, l’esigenza di identità disciplinare e di sintesi in cui “hybrid transgress
and displace boundaries between binary divisions and in so doing produce something
ontologically new” (Rose, 2000). Le geografie ibride sembrano infatti andare oltre i
tradizionali confini tematici – geografia fisica, economica, umana, culturale – e metodologici
– geografia quantitativa, qualitativa - interni alla geografia, con l’obiettivo di integrare le
prospettive di analisi.
Inoltre, negli ultimi venti anni, la cosiddetta svolta spaziale ha rappresentato un elemento
unificante in diverse discipline delle scienze sociali (pensiamo al premio nobel per
l’economia assegnato ad un New economic geographer come P. Krugman nel 2008) ma
anche nelle discipline più quantitative quali per esempio, l’informatica. Questo percorso ha
in qualche modo ridisegnato anche il ruolo e l’identità della geografia che viene sempre più
tirata in causa come disciplina che può fornire spiegazioni della complessità della realtà. Ed
ha avuto notevoli riscontri operativi in quanto considerazioni relative all’importanza della
dimensione spaziale (space) e “locale” (place) entrano nell’agenda politica di numerosi
organismi internazionali: è il caso dell’Unione europea che aggiunge il termine “territoriale”
alle politiche di coesione, della Banca Mondiale che nel suo Rapporto 2009 (World Bank,
2009) sostiene come necessario un ridisegno della geografia economica mondiale.
Il terzo elemento riguarda invece la recente e massiccia disponibilità di dati geografici
disponibili grazie allo sviluppo del Web 2.0 e delle tecnologie geo-spaziali quali Gis
(Geographic information systems), Gps (Global positioning systems), Rs (Remote sensings)
e Lbs (Location-based services) che ha dato luogo a quella che è stata definita
“neogeography” (Batty et al., 2010). Di questo ci occuperemo più diffusamente nel
93
paragrafo successivo proprio per l’elevato interesse e le promettenti potenzialità che questa
tipologia di informazioni e di tecniche rappresenta per l’analisi geografia e, in particolare,
per gli obiettivi di questo lavoro.
5.3.1 Il web 2.0: opportunità e limiti
Attualmente, i dati geografici, se comparati a quelli disponibili anche soltanto del recente
passato, possono essere definiti come una “valanga” (data avalanche, Miller, 2010,) e
riguardano sia i dati provenienti dall’alto, dalle istituzioni o dalle imprese che attraverso i
chip presenti, per esempio, nei bancomat e nelle carte sanitarie, riescono a tracciare i nostri
percorsi di vita e a localizzarli geograficamente, sia quelli provenienti dal basso con
l’informazione definita Vgi (Volountered geographic information) prodotta direttamente
dagli utenti del web 2.0 cioè il web interattivo.
Questa nuova possibilità di analisi sembra contenere opportunità interessanti benché
ancora affette da limiti e vincoli scientifici, metodologici e legali. Per gli obiettivi del nostro
lavoro, ci limiteremo ad affermare l’interesse che questa produzione di informazioni riveste
sia per la possibilità di ottenere informazioni a scala locale fine (per esempio singoli quartieri
di una città) sia per il carattere “dal basso” di queste informazioni che, se aggregate, possono
costituire una fonte preziosa di informazioni da integrare ad altre fonti ufficiali.
Per gran parte della loro storia, le scienze sociali ed in particolare la geografia hanno
operato in un regime di decisa scarsità di dati ed informazioni dovuta alla difficoltà ed ai
costi di ottenere e gestire misurazioni della realtà a scale spaziali ridotte. Negli ultimi anni
assistiamo ad una vera e propria rivoluzione dovuta alla relativa facilità ed economicità con
cui le tecnologie informatiche rendono possibile ottenere grosse quantità di dati ed
informazioni relative ai comportamenti individuali e dei gruppi, prima neanche
immaginabili, in quella che potremmo definire il computational turn nelle scienze sociali
(Lazer et al. 2009).
Rispetto alle tecniche statistiche tradizionali che richiedono un disegno campionario
rigoroso e una serie di domande di ricerca definite ex ante, le informazioni che emergono da
questi enormi database costituiti dalle informazioni desumibili dallo sviluppo delle Ict,
rappresentano invece una fonte di informazioni e dati generata senza un disegno
campionario, incomplete e spesso prodotte per altri scopi (si pensi, per esempio, agli archivi
amministrativi). Nonostante questi limiti nella qualità dell’informazione, molti studiosi
94
(Miller, 2010, p. 188) ritengono che da questi enormi serbatoi di dati si possano trarre
informazioni valide per la generalizzazione, utili e nuove in un processo definito knowledge
discovery from database. Miller definisce questo processo una sorta di telescopio o
microscopio che permette al ricercatore di allargare la visuale sulla realtà per scoprire
elementi non osservabili attraverso le tradizionali tecniche di indagine statistica e che
rappresentano uno degli stadi nel processo di indagine. Uno stadio caratterizzato da un
ragionamento adduttivo in cui l’osservazione dei dati precede le ipotesi che sono
generalmente formulate in base alle risultanze del processo di esplorazione ed elaborazione
dei dati. In questo ambito il geospatial knoweldge discovery emerge come un sottodominio
di questo processo in cui i contenuti dei database sono spazialmente individuabili, cioè
singolarmente georeferenziabili, solitamente in termini di spazio euclideo anche se spesso
questi database offrono la possibilità di indagare anche altri tipi di relazioni che
caratterizzano le unità di analisi quali, per esempio, prossimità, connettività, direzione. Le
possibilità offerte da questa enorme disponibilità di dati geografici rappresenta una svolta
significativa in particolare per l’analisi di sistemi spaziali complessi come le città.
Miller (2010) individua tre tipologie principali di fonti che generalmente vengono
accomunate sotto il nome di Big data:
1. POS Point of sale data che rendono disponibile, attraverso la tracciabilità dei
pagamenti effettuati con le carte, le abitudini dei clienti ed i loro movimenti nello spazio;
2. LAT Location aware technologies rendono disponibili informazioni sulla
localizzazione degli utenti di telefonia mobile che si avvalgono di servizi quali news locali,
informazioni turistiche, social networking, ecc., anche se di scarsa portata operativa perché
mettono a rischio la privacy individuale e per questo motivo sono scarsamente utilizzati. In
questa tipologia di fonti possiamo includere anche le reti di rilevamento geografico
(geosensors) e ambientale quali stazioni di rilevamento della temperatura,
dell’inquinamento, ecc. Anche le tracce desumibili dall’uso di GPS, per esempio, rientrano
in questa categoria. Attraverso la tracciabilità dei movimenti effettuati dalle auto da
automobili con a bordo un GPS per motivi assicurativi, Rinzivillo et al. (2012), per esempio,
hanno evidenziato come i confini amministrativi delle provincie toscane di Pisa e Lucca,
coincidano con i pattern della mobilità degli abitanti che si spostano per le attività quotidiane
e quindi con le attività socio-economiche.
3. Internet. Mentre le precedenti tipologie catturano informazioni relative allo spazio
fisico, le informazioni desumibili dalla rete World Wide Web riguardano anche il
95
cyberspazio: telefonate, email, twitts, scambi di opinioni sui social networks rendono
possibile, attraverso tecniche specifiche che si vanno progressivamente affinando, la
comprensione delle dinamiche relazionali di gruppi e comunità.
Le possibilità offerte da questa nuova tipologia di dati per l’analisi geografica sono
enormi. Infatti, un subset di queste informazioni, definito come Volunteered geographic
information (Vgi) (espressione coniata da Godchild, 2007) indica che gli utenti, attraverso
interfacce ad hoc definite new spatial media, quali per esempio Twitter, GeoAPI, Google
Hearth, Foursquare, Gowalla, hanno la possibilità di creare informazione geografica
geolocalizzando le proprie informazioni (twitts, ricerche, fotografie, filmati, blog, ecc.).
Dando così luogo ad un’informazione dai formati disparati (numeri, testi, racconti, foto,
video, simulazioni, musica,…) in cui, più che nell’analisi, l’innovazione e la ricerca vanno
orientate nella sintesi di questi contenuti così diversi, in una sorta di mush up di layers
diversi, per usare la terminologia dei Gis.
L’aggettivo volontario indica proprio il carattere spontaneo ed estemporaneo che pone
questa tipologia di informazione in netto contrasto con le tradizionali pratiche di mappatura
fornite dalle autorità istituzionali, che per Elwood et al. (2012, p. 585) rappresentano una
delle manifestazioni principali caratterizzanti il XXI secolo come uno spatial century.
L’enorme quantità di osservazioni disponibili in tempo reale compensa, in parte, i bias
risultanti dall’autoselezione dovuta all’assenza di un campione ragionato alla sua base.
Attualmente, solo per fornire una approssimazione dell’entità di questi giganteschi database,
gli utenti di Twitter ammontano 554,750,000 di account con una media di 58milioni di twitt
giornalieri (Fonte: http://www.statisticbrain.com/twitter-statistics/ visitato il 31/5/2013). In
termini tecnici, si tratta di tera e peta-bytes di dati la cui applicabilità è già una realtà in molti
settori come la medicina (per monitorare i flussi di influenza, per esempio, attraverso i
twitts), nella sicurezza (usando le Vgi nella distribuzione dei soccorsi in caso di calamità
naturali), nell’analisi del voto (la rielezione di Obama, nel novembre 2012, è stata prevista,
con precisione geografica, attraverso l’uso dei twitts di milioni di utenti americani).
Se le potenzialità offerte dai Big data sono senza dubbio entusiasmanti per l’analisi
geografica, va detto che permangono numerosi problemi aperti in particolar modo
relativamente a dimensione, qualità, problemi connessi al tempo e accessibilità.
96
- La dimensione dei data base infatti non rappresenta soltanto un vantaggio ma
implica infrastrutture informatiche impegnative in termini di archiviazione e
trattamento dei dati disponibili.
- La qualità di questi dati non può essere valutata in modo univoco in quanto
l’affidabilità, la consistenza e la completezza dell’informazione, la disponibilità di
metadatati dipendono dagli specifici contesti in cui essa viene prodotta.
- I Big data sono in molti casi estremamente volatili nel tempo ed hanno una loro
usabilità e validità che dura anche poche ore, rendendone il trattamento e l’analisi
estremamente difficile (si pensi alle informazioni ricavate dai twitts).
- I Big data non sono necessariamente Open data. Infatti, molti dati sono prodotti da
grosse compagnie (per esempio Google, Facebook) che non rendono disponibili tutte
le informazioni esistenti, sia per motivi di competitività tra i concorrenti sia per
motivi legati alla privacy degli utenti, uno dei fattori più problematici
dell’informazione proveniente dal Web 2.0.
Per il nostro lavoro questa fonte di informazioni dal basso, definita anche Digital
Humanities, per le opportunità offerte nella conoscenza dei fenomeni umani, riveste uno
straordinario interesse per tutti gli aspetti connessi al versante individuale della visione della
città e della giustizia spaziale, per cercare di conoscere quello spazio vissuto e relazionale
che solitamente le indagini statistiche non riescono a rappresentare, in particolare a livello
urbano o sub-urbano, per tracciare pattern geo-sociali che sono stati definiti livehoods:
quartieri (neighbourhoods) delimitati non soltanto in base alla prossimità geografica ma
anche alle similarità culturali delle persone che forniscono l’informazione geo-taggando le
loro attività quotidiane.
Anche dal punto di vista metodologico, questa enorme mole di dati geografici offre spunti
interessanti. Alcuni studiosi identificano addirittura una rottura di paradigma nella
metodologia della ricerca, il cosiddetto quarto paradigma (Elwood et al., 2013, Hey et al.,
2009), che potrebbe rivestire un ruolo importante nel dibattito geografico sul metodo e “may
lead to broader efforts at crossing the qualitative-quantitative chasm” (Sui e DeLyser,
2012), sempre nell’ambito di una pluralità di metodi per evitare il rischio di un nuovo
strumentalismo (Agnew, 2012).
97
Conclusioni
I capitoli appena conclusi hanno permesso di definire con più precisione il concetto di
giustizia spaziale, le sue specificità, le sue implicazioni per le politiche, il suo potenziale per
l’analisi geografica.
E, seppur con i limiti di un lavoro di tesi, circoscritto nel tempo, di rispondere o almeno
iniziare a rispondere alle domande di ricerca poste in apertura.
La giustizia spaziale emerge come l’unione di giustizia e spazio, del loro coesistere in
relazione dialettica, intertwined and mutually constitutive. Attorno a questi due termini
polisemici, entrambe essentially contested, dal lessico a tratti poco chiaro, usati spesso come
sinonimi di altri concetti vicini (giustizia territoriale, città giusta, per esempio), dai significati
multiformi e scivolosi, abbiamo costruito mano a mano che l’analisi avanzava un perimetro
teorico e concettuale che ha permesso di caratterizzare la giustizia spaziale come un concetto
emergente e con una spiccata attualità politica.
Per cercare di pervenire ad un assetto teorico del concetto, abbiamo analizzato i concetti
di giustizia e spazio, il loro significato, la loro posizione nel dibattito contemporaneo, le loro
potenzialità nella spiegazione delle differenze sociali e spaziali.
Individuare una precisa definizione di giustizia, a cui lo stesso Voltaire si diceva incapace
a rispondere, non costituisce l’oggetto del nostro lavoro. Il dibattito sulla giustizia sociale,
articolato, molteplice ed intractable per citare Pirie, sintetizzato nel primo capitolo, ha
mostrato che non esiste un ideale di giustizia universale da applicare in modo predeterminato
ai diversi contesti sociali e politici. In bilico tra universalismo e particolarismo, tra
redistribuzione e riconoscimento questa indeterminatezza definitoria comporta tuttavia il
rischio dell’inazione politica.
Per uscire dall’impasse e pervenire ad una definizione di giustiza accepted without
misunderstandigs abbiamo fatto ricorso ad Harvey che inserisce la decostruzione
postmoderna dei valori universali in alcune permanenze di cui siamo circondati nella nostra
vita quotidiana: cioè le concrete condizioni di vita materiale, in cui identificare, al di là delle
98
differenze, “le similarità che offrono le basi per la comprensione dei diversi gruppi e
costruire alleanze”, similarità identificate nella lotta al sistema capitalistico ed alle sue
espressioni: commodities, economia di mercato, accumulazione di capitale. E’ questa la
permanenza da costruire per cercare una definizione di giustizia sociale without
misunderstandings e per realizzare politiche che andando oltre la denuncia e la soluzione
delle ingiustizie cerchino alla radice le cause delle ingiustizie in modo strutturale, mettendo
in discussione il sistema che le ha generate. E’ la tensione verso la giustizia, quella che
Harvey definisce the struggle for justice, più che la giustizia in sé dato che nel sistema
attuale essa rappresenta un ossimoro.
L’approccio del materialismo storico-geografico di Harvey ha sicuramente due vantaggi:
mediare le istanze di redistribuzione e riconoscimento e inserire l’idea di giustizia sociale in
un contesto fortemente localizzato sia storicamente che geograficamente in cui l’universalità
del concetto è rappresentato dal capitalismo e dalle sue forme di oppressione sociale,
economica e culturale. Qualcosa di qui ed ora, che si deve contestualizzare in un luogo, deve
avere luogo. Questo approccio consente, analizzando il dove ed il come le ingiustizie hanno
luogo, di contestualizzare la giustizia sociale in ambiti socialmente prodotti più che in
astrazioni universalistiche e idealizzate.
Tuttavia, Harvey non procede oltre questa visione della giustizia situata: per lui le
causalità sono già definite, in quanto il sistema capitalistico è per natura creatore di
ingiustizie e disuguaglianze spaziali. Sono Soja e Dikeç che invece spingono all’estremo il
ruolo dello spazio nell’analisi della giustizia sociale.
Cosa aggiunge lo spazio in questa ricerca della giustizia sociale? Per Soja la lezione è
chiara: una volta create e iscritte nello spazio, le ingiustizie spaziali sono difficili da
cancellare e per supportare le sue idee sulla spazialità della giustizia elabora una serie di
argomentazioni fondate sui tre principi fondamentali del suo critical spatial thinking:
1. l’ontologia spaziale di tutti gli esseri viventi: tutti noi viviamo in una dimensione
spaziale oltre che sociale e temporale;
2. la produzione sociale della spazialità: lo spazio è un prodotto sociale e può per
questo essere cambiato;
3. la dialettica socio spaziale: i fenomeni sociali influenzano quelli spaziali tanto
quanto questi influenzano i fenomeni sociali.
99
Le interazioni tra spazio, inteso come socialmente prodotto, e giustizia costituiscono
un’opportunità per l’analisi sociale: l’ingiustizia sociale si traduce in forme spaziali e allo
stesso tempo l’organizzazione sociale dello spazio è produttrice di ingiustizia. Non c’è un
legame meccanico ma piuttosto, un processo dinamico e complesso che si svolge nel tempo e
nello spazio. Chiarisce bene Dikeç il rapporto causale e dialettico tra spazio e giustizia
quando parla di spazialità dell’ingiustizia e ingiustizia della spazialità. Nel primo caso
significa che la giustizia ha spesso una dimensione spaziale che può essere vantaggiosamente
analizzata, per esempio, dallo studio dei patterns distributivi nello spazio del fenomeno
oggetto di studio. E’ il caso dei Bus Riders Unions di Los Angeles citato da Soja e riportato
nel capitolo 4. La decisione di costruire una rete di trasporti metropolitani basata sui criteri
dell’efficienza senza tener conto delle esigenze di mobilità quotidiana di migliaia di
lavoratori delle periferie è l’esempio di come un processo politico ingiusto possa iscriversi
nello spazio e determinare a sua volta altre forme di ingiustizia sociale, quali per esempio, la
discriminazione all’accesso alla mobilità pubblica per alcune categorie di abitanti. Nel
secondo caso, l’ingiustizia della spazialità, implica che le strutture spaziali esistenti
(permanences) siano in grado di produrre e riprodurre le ingiustizie through space.
Confrontato alla “spazialità dell’ingiustizia” questo è un concetto più dinamico e process
oriented.
Questa concettualizzazione implica due punti importanti:
- L’analisi non può essere limitata al fenomeno in sé ma deve essere estesa anche alle
componenti del fenomeno
- Forma e processo sono inseparabili a devono essere considerati insieme.
L’enfasi va posta quindi sullo spazio come produttore e riproduttore di relatively stable
structures (permanences) e, allo stesso tempo, come processo a sua volta da esse prodotto e
riprodotto. Non sullo spazio per sé ma sul processo che produce lo spazio e sulle
implicazioni che questa produzione di spazio ha sulle dinamiche sociali, economiche e
politiche. Spazio che per Harvey come per Dikeç si manifesta attraverso la mediazione di
permanenze.
In questa prospettiva il concetto di giustizia spaziale diviene un potente discorso in grado
di mobilitare l’azione politica e di coagulare le critiche e l’azione contro le forme di
spazialità dell’ingiustizia, come abbiamo visto nei numerosi movimenti ispirati al diritto alla
città descritti nel capitolo 4. Non ci dice se un particolare evento è giusto o ingiusto ma ci
aiuta ad esplorare i processi sociali, spaziali, economici e politici nel loro dinamiche di
100
produzione e riproduzione di permanences che possono essere considerate ingiuste: non
soltanto visibili nell’ambiente costruito ma anche in forme meno visibili come per esempio
lo spazio dei flussi, della distribuzione, delle reti di produzione. E in questo potrebbe
rappresentare l’apparato concettuale di politiche orientate alla produzione dello spazio, in
particolare a livello urbano.
E’ infatti la città, non soltanto definita nella sua fisicità di case, strade, negozi, uffici, ma
spazio del vissuto quotidiano e dell’identità di chi la abita, in opposizione alla città
rappresentata, per usare la terminologia di Lefebvre, come luogo e metafora della
competitività globale, in cui si è compiuta una sorta di interiorizzazione della logica di
mercato nella gestione delle politiche locali e urbane che ha ormai definitivamente ratificato
la validità del discorso della città come polo di attrazione di capitali attraverso la pratica del
marketing territoriale.
E’ nello spazio urbano che il concetto di giustizia spaziale può essere sperimentato nella
sua operatività politica. Sia nella sua versione più radicale di diritto alla città che ha portato
alla nascita di numerosi movimenti di opposizione al modello di sfruttamento dello spazio
urbano, che in Brasile ha addirittura prodotto un capitolo ad hoc nella costituzione del paese
relativa alla funzione sociale della proprietà, sia nella versione più riformista di città giusta
che fornisce, attraverso un disegno meno utopistico del precedente, gli strumenti di
transizione dall’attuale modello di gestione dello spazio urbano nell’ambito del modello
capitalistico ad uno più socialmente giusto.
In entrambe le visioni di giustizia spaziale in città emergono due elementi interessanti. In
primo luogo, la natura double-sidedness delle ingiustizie spaziali, vale a dire che a loro volto
oppressivo uniscono, in potenza, una forte spinta alla liberazione e quindi all’azione sociale.
In secondo luogo, un deciso orientamento verso i diritti e i beni comuni nella formulazione
di politiche urbane giuste. La città sembra rappresentare l’ultimo baluardo a difesa dei beni
comuni il luogo dove la moltitudine, il nuovo soggetto politico proposto da Hardt e Negri
dopo la fine della classe operaia, può dar vita attraverso la densa rete di relazioni sociali, ad
un nuovo immaginario politico e ad un cambiamento sociale, anche attraverso la produzione
e riproduzione di spazio, trovando in tal modo un forte legame tra beni comuni e giustizia
spaziale.
E’ quindi sul concetto di spazio che bisogna lavorare per transitare dalla
concettualizzazione del termine verso il suo versante empirico e un lavoro interpretativo sul
campo. Uno spazio che assume, in questa prospettiva, una portata diversa dalla usuale
101
visione di contenitore di fenomeni sociali per diventare key word (Harvey, 2006), elemento
per l’interpretazione e la spiegazione della realtà sociale.
Se conoscere meglio vuol dire avere gli strumenti per agire meglio, allora risulta
indispensabile fornire gli elementi metodologici per comprendere sul campo la giustizia nelle
sue relazioni spaziali e cercare di tradurla in pratiche e proposte politiche.
Il ruolo preminente dello spazio nel concetto di giustizia spaziale ha numerose
implicazioni di carattere analitico e metodologico. In primo luogo, significa che analizzare le
realtà socio-spaziali in questa chiave di lettura determina un restringimento del campo di
indagine a quei fenomeni che sono iscritti nello spazio, a quelle permanenze in cui forma e
contenuto, risultato e processo si pongono in tensione dialettica dando luogo ad una sorta di
cumulatività autoalimentantesi. In altre parole, alla spazialità dell’ingiustizia e all’ingiustizia
della spazialità. E’ il caso, come abbiamo visto, di alcune dimensioni che caratterizzano il
complesso e multidimensionale fenomeno della diffusione urbana, denominato sprawl. In
secondo luogo, questa tipologia di analisi richiede metodi e strumenti di indagine adeguati
alla specificità delle istanze teoriche del concetto.
Per rispondere a questa esigenza abbiamo avanzato nello studio una proposta
metodologica per rappresentare la giustizia spaziale. Alla luce della complessità del
concetto, infatti, una semplice misurazione e quantificazione sarebbe stata riduttiva per la
sua completa comprensione. E’ per questo che abbiamo proposto un esercizio metodologico
sperimentale, da testare in situazioni e contesti reali.
Il primo passo di questo esercizio consistente nel decostruire il concetto di giustizia
spaziale nelle sue diverse manifestazioni in base alla tripartizione di spazio assoluto, relativo
e relazionale avanzata da Harvey già quaranta anni fa (Harvey, 1969) rappresenta già un
passo in avanti per individuare con più efficacia i meccanismi e le relazioni che si istaurano
nei fenomeni iscritti nello spazio.
A questa tripartizione Harvey aggiunge in seguito, con un deciso quanto inaspettato
afflato post-moderno, le categorie lefebvriane in cui si accorda una nuova importanza al
soggetto, alla sua posizionalità nell’analisi dei fenomeni spaziali, all’abitante (nella sua
accezione di abitante della città) con la sua percezione della realtà (spazio percepito) e le sue
sensazioni ed emozioni (spazi di rappresentazione). Introduce inoltre, attraverso la categoria
della rappresentazione dello spazio il problema del potere politico che attraverso le
rappresentazioni mediate della realtà produce e riproduce lo spazio influenzandone la
percezione, la fruizione, l’uso.
102
Il risultato è la matrice delle spazialità in cui le differenti posizioni rappresentate dalle
celle della matrice ci consentono, se cristallizzate, di identificare i fenomeni nello spazio,
scomponendoli e, attraverso un percorso inverso di movimento dialettico tra le celle, di
ricomporre una loro lettura complessa.
Un esercizio che sembra quanto mai adeguato ai risultati della nostra analisi teorica da cui
emerge un quadro complesso nella sua traduzione operativa. E che richiede strumenti
metodologici nuovi che abbiamo identificato in quelle hibryd geographies che integrando
diverse metodologie di analisi, ci consentono, pur in un percorso articolato e da testare sul
campo, di andare oltre i tradizionali confini tematici – geografia fisica, economica, umana,
culturale – e metodologici – geografia quantitativa, qualitativa - interni alla geografia, con
l’obiettivo di integrare le prospettive di analisi.
I risultati attesi sono di ordine scientifico e politico. Rappresentare meglio vuol dire,
infatti, anche avere un supporto per agire meglio. Uno strumento critico e attivo, al tempo
stesso unico nella sua specificità che non aspira a diventare un classificatore di territori come
le tanto diffuse graduatorie che sempre di più si affiancano al Pil e che conservano una
logica in cui l’unità territoriale emerge come uno spazio chiuso che vince o perde nei
confronti di altri spazi simili e di cui sono ignote le dinamiche interne ed esterne in termini di
relazioni. L’obiettivo è duplice: evitare di cadere nella trappola del determinismo statistico
per cui gli indicatori fanno le politiche e, allo stesso tempo, in quella territoriale per cui i
fenomeni contenuti in un perimetro amministrativo sono letti in modo statico e isolato.
Introdurre una dimensione di spazio vissuto accanto a quella tradizionale di spazio
assoluto vuol dire introdurre, anche attraverso la problematizzazione del lessico
comunemente usato e abusato, sia nell’analisi che nelle politiche, la dimensione delle
persone che questi spazi producono e riproducono. Come afferma Harvey (2006, p.154)
“thinking through the different ways in which space and space-time get used as keywords
helps define certain conditions of possibility for critical engagement. […]. It invites us to
consider the ways we physically shape our environment and the ways in which we both
represent and get to live in it”.
103
Sintesi
I Parte (capitoli 1, 2 e 3) - Il dibattito teorico: dalla giustizia sociale alla giustizia spaziale
Negli ultimi trenta anni la transizione da un’economia di tipo keynesiano alla new
economy di stampo neoliberale ha provocato l’esacerbarsi delle differenze socio-
economiche, dando luogo a una moltitudine di rivendicazioni e movimenti sociali “dal
basso” che hanno contribuito a rinvigorire un dibattito multidisciplinare sulla giustizia
sociale.
In estrema sintesi, il dibattito odierno può essere definito come in bilico tra due istanze
principali: giustizia come redistribuzione di beni materiali e immateriali e giustizia come
riconoscimento dei diritti, della diversità di razza, genere, orientamento sessuale, religione.
Da una parte, con un approccio universalistico e normativo, l’accento viene posto sulla
giustizia come equità, come distribuzione equa dei beni materiali ed immateriali. E’ la tesi di
J. Rawls che nel 1971 pubblica A theory of Justice. Un testo che ha aperto un varco nella
visione liberista di Hayek per cui “la giustizia è l’efficienza e l’efficienza è la distribuzione
affidata al mercato”.
Dall’altra, troviamo invece la tradizione del pensiero marxista, di cui D. Harvey
rappresenta uno degli esponenti principali, per cui la giustizia è un ossimoro in una società
capitalistica e coincide quindi con la “lotta per la giustizia” per scardinare il sistema di
produzione capitalistico (D. Harvey, 1978).
Agli inizi degli anni ’90, queste posizioni sono duramente contestate dal pensiero
femminista americano, in particolare da Iris Marion Young per cui la giustizia deve andare
oltre la semplice redistribuzione delle risorse ma deve, invece, integrare la diversità di razza,
sesso, religione, sessualità e coincidere, quindi, con la recognition, il riconoscimento della
diversità.
Anche D. Harvey, aprendo in qualche misura le sue posizioni marxiste al dibattito sulla
giustizia come riconoscimento della diversità, riconosce un ruolo importante agli aspetti
104
legati allo status culturale e identitario delle persone ma rimane fermo sul fatto che è
l’identità di classe e, più in generale, la lotta al modello di sviluppo capitalistico, che deve
riunire le differenti diversità, pena il perdersi in particolarismi e in derive comunitariste
tipiche dei numerosi movimenti per rivendicazioni locali (si pensi alla causa ambientalista e
ai movimenti Nimby), in quello che A. Kobayanshi (1982) ha definito il ”post-modern
nightmare: nothing but diversity”.
E’ su questa strada che N. Fraser (1995) tenta di integrare le due posizioni del dibattito
diviso tra redistribuzione e riconoscimento, partendo dal dato che le due forme ingiustizie
sono spesso legate (povertà ed emarginazione sociale, razziale e culturale).
Come interviene la geografia in questo dibattito? Qual è il passaggio dalla giustizia
sociale alla giustizia spaziale? Quali sono le specificità del concetto?
La geografia analizza il concetto di giustizia sociale nello spazio essenzialmente in due
modi.
Il primo filone di contributi tra i quali possiamo citare B. Davies (1969), A. Reynaud
(1981), G. Pirie (1983) ha in comune una prospettiva di analisi che possiamo definire
“tradizionale” nel senso che l’analisi dell’equità e della distribuzione delle risorse nello
spazio viene effettuata attraverso una prospettiva comparativa tra territori e il concetto di
spazio utilizzato è quello tradizionale.
Il secondo invece, in una prospettiva critica, integra lo spazio come supporto ontologico e
come parte integrante delle spiegazioni dell’in/giustizia sociale e quindi come “prodotto
sociale”. La giustizia sociale diviene, in questa prospettiva, un valore fortemente localizzato
e contingente, con un’enfasi sugli aspetti spaziali della giustizia e dell’ingiustizia in cui
“unire insieme i termini giustizia e spazio può aprire una gamma di nuove possibilità” per
l’analisi geografica (Harvey, 1973). E’ la metodologia che caratterizza, seppur con elementi
di diversità, i contributi fondamentali di D. Harvey (1973, 1996, 2006), E. Soja (1989, 2010),
M. Dikeç (2001, 2009).
Al di là delle sue formulazioni teoriche ed ideologiche prima richiamate, il concetto di
giustizia spaziale appare come un “potente discorso” in grado di mobilitare l’azione politica
(Harvey, 1996) e di rappresentare una discontinuità nel quadro delle politiche locali/urbane
di matrice neoliberista ispirate alla competitività dei territori e delle città. Esso rappresenta,
inoltre, un valido supporto analitico per identificare e comprendere non soltanto gli outcomes
delle politiche urbane/locali ma anche i processi di produzione di geografie “ingiuste”: di
comprendere l’ingiustizia della spazialità e la spazialità dell’ingiustizia (Dikeç, 2009).
105
E’ lo spazio come prodotto sociale ad emergere come protagonista dell’analisi e, in
questa chiave, analizzare la giustizia spaziale significa comprendere non soltanto le relazioni
dialettiche tra le diverse condizioni socio-economiche dei diversi gruppi (sociali, culturali,
ecc.) ma anche come la produzione sociale dello spazio impatta sui diversi gruppi e le
proprie opportunità. “Il sociale e lo spazio sono dialetticamente intrecciati tra loro (spesso
problematicamente), in modo formativo e consequenziale” (E. Soja, 2010).
La definizione di giustizia spaziale, al di là dei suoi contenuti teorici relativi all’idea di
giustizia e alle sue implicazioni politiche, è contraddistinta dall’approccio critico proposto da
Soja e Dikeç, caratterizzato da una diversa concettualizzazione dello spazio: spazio come
prodotto sociale, spazio di relazioni e non semplice contenitore di fenomeni umani da
analizzare e mappare su una superficie omogenea e neutrale.
Una più articolata concettualizzazione dello spazio è quindi il primo passo per tentare di
chiarire il concetto di giustizia spaziale e, al tempo stesso, cercare di fornire gli elementi
metodologici per la sua rappresentazione, un aspetto quasi mai affrontato in letteratura e che
costituirà l’oggetto dell’ultimo capitolo di questo lavoro. Una delle aree deboli della
letteratura sul tema infatti sembra essere proprio la mancanza di elementi concreti, sia
metodologici che empirici, su come rappresentare il concetto. Un tema che risulta invece
centrale considerati i contenuti del concetto di giustizia spaziale, funzionale alla pratica
politica, in particolare a livello urbano.
Parlare di giustizia spaziale implica quindi una revisione del concetto di spazio così come
tradizionalmente concepito ed utilizzato nell’analisi geografica tradizionale, quella di
tradizione quantitativa e positivista. Ecco perché il terzo capitolo è dedicato ad una
digressione concettuale sullo spazio che ha poi conseguenze sulle metodologie che
adotteremo nella costruzione di un modello critico di rappresentazione della giustizia
spaziale. Lo spazio, quindi, come elemento fondante del concetto di giustizia spaziale e
come fondamento della sua rappresentazione. Uno spazio che diventa, in questo prospettiva,
key word (Harvey, 2006), elemento per l’interpretazione e la spiegazione della realtà sociale.
II parte (capitolo 4) - Le pratiche politiche: il diritto alla città e la città giusta
Perché la città è la scala preferita per mettere alla prova le teorie sulla giustizia spaziale?
Sono molteplici le spiegazioni. Da un punto di vista concettuale, la città si può considerare
106
come spazio di prossimità di legami deboli, di diversità sociali e culturali e quindi,
potenzialmente, del conflitto sociale, in opposizione all’omogeneità di valori e di identità
della campagna.
Negli ultimi trenta anni, inoltre, le città, al pari delle regioni sono state oggetto di
significative trasformazioni sia dal punto di vista morfologico che funzionale e una
competizione più accesa si è instaurata tra città come attrattori di capitali ed investimenti (si
pensi ai nuovi concetti di brand e di marketing territoriale e di consumatori (in particolare
quelli appartenenti alla cosiddetta società affluente e alla classe “creativa”) attraverso la
creazione di amenità e di luoghi di consumo massificati e la progressiva contrazione degli
spazi pubblici.
In questa chiave di lettura, la città genera ingiustizie ed ineguaglianze, ghettizzazione
degli immigrati, crescente povertà, frammentazione politica, sprawl, servizi pubblici
inadeguati, declino dei centri urbani, gentrification, aree dismesse da precedenti fasi di
industrializzazione. Non possiamo non considerare lo spazio urbano come luogo del
malessere e dell’ingiustizia sociale quindi come oggetto primario di politiche finalizzate alla
giustizia e come fenomeno da misurare e monitorare per comprenderne l’evoluzione.
Dal dibattito prima richiamato derivano sia i movimenti politici e le lotte ispirate al diritto
alla città (Carta mondiale per il diritto alla città o Just space a Londra, per esempio) sia le
teorie di pianificazione riformista sulla città giusta.
Il diritto alla città è ispirato all’opera di H. Lefebvre “Le droit à la ville” (1970) che
introduce il tema dei diritti degli abitanti che non si limitano ad una distribuzione equa delle
risorse economiche ma si estendono, invece, al diritto di decidere dei propri spazi, oltre la
logica del profitto. Questo concetto ha costituito il manifesto e lo slogan di numerosi gruppi
di azione e di movimenti dal basso nati a livello locale e globale che rispetto all’originaria
definizione lefebvriana arricchiscono il concetto di elementi che attengono alla diritto alla
diversità (razziale, sessuale, di genere, religiosa, culturale) e ai diritti connessi ai temi
ambientali che negli ultimi anni divengono centrali anche a livello urbano.
S. Fanstein (2009) adotta, invece, un approccio normativo e meno radicale per definire la
sua idea di Just city. Propone tre criteri per valutare il grado di giustizia di una città:
uguaglianza, democrazia, diversità e identifica Amsterdam come la città che più si avvicina,
nella realtà, alla sua definizione di città giusta.
Al di là delle diverse prescrizioni normative sulla giustizia/ingiustizia che possono
contenere le politiche presentate, emerge l’esigenza, nell’ottica della dialettica socio-spaziale
107
di Soja, di una visione problematica delle politiche territoriali. Non si tratta quindi solo di
discernere giusto da ingiusto, attraverso giudizi di valore che sono invece demandati agli
specifici processi decisionali e politici, ma di proporre il concetto di giustizia spaziale come
strumento scientifico di comprensione della complessità delle azioni che si effettuano nello
spazio, per cercare di superare la visione legata troppo spesso al mantra “competitività” dei
territori che ha caratterizzato larga parte delle politiche locali degli ultimi anni (Bristow,
2011).
III Parte (capitolo 5) - Metodologie e strumenti di rappresentazione della giustizia
spaziale
Come rappresentare il concetto di giustizia spaziale e renderlo operativo nell’analisi
geografica, nella pianificazione urbana e nella valutazione delle politiche? Come
rappresentare lo spazio urbano dell’ingiustizia? Come descrivere, misurare, quantificare ma
al tempo stesso raccontare la città in/giusta, in base alle indicazioni emerse dal dibattito
teorico e dalle pratiche spaziali emergenti?
Le implicazioni di questa fase del lavoro sono di natura concettuale e metodologica e
vengono affrontate in due fasi:
1. Integrazione dello spazio nell’analisi della giustizia spaziale
Il primo passo da compiere consiste nell’esaminare, scomponendole, le diverse
concezioni dello spazio che possono essere funzionali all’analisi del tema. Così come già
argomentato nella prima parte del lavoro ed in accordo con l’analisi teorica, lo sforzo da
attuare è quello di incorporare e integrare nella rappresentazione della giustizia spaziale una
definizione di spazio non soltanto euclidea cercando di concettualizzare una visione dello
spazio relazionale e discontinuo (Allen et al. 1998) in cui necessitano di una revisione anche
i tradizionali costrutti geografici di luogo, regione, locale e globale e tutte le gerarchie scalari
“nidificate” a cui ci ha abituati la geografia di stampo descrittivo e quantitativo.
Per tentare di concettualizzare una dimensione di spazio adeguata ad una lettura della
giustizia spaziale a livello locale/urbano e, al contempo, limitare i vincoli che un approccio
esclusivamente relazionale allo spazio impone ad una rappresentazione strutturata, il lavoro
fa ricorso alla matrice delle spazialità di D. Harvey (2006).
108
La matrice della spazialità è un esercizio speculativo che può essere adottato per tentare
di strutturare un sistema di rappresentazione critica sulla giustizia spaziale. Ciascuna
tipologia di spazio (spazio assoluto, spazio relativo, spazio relazionale) incrocia, nella
matrice, le categorie lefebvriane di spazio pratico, rappresentazione dello spazio e spazio
della rappresentazione (H. Lefebvre, 1978).
La sua specificità è quella di accogliere nell’analisi del fenomeno in esame le diverse
dimensioni della spazialità (con un’enfasi sulla materialità dei fenomeni spaziali), partendo
dal presupposto che “the reduction of everything to fluxes and flows, and the consequent
emphasis upon the transitoriness of all forms and positions has its limits” (Harvey, 1996,
p.7).
2. Adozione di una metodologia di analisi “ibrida”
Il passo ulteriore proposto nel lavoro è quello di testare la validità esplicativa della
matrice attraverso un caso concreto. L’esempio considerato riguarda lo sprawl urbano, che
scegliamo, nonostante la sua complessità, come un fatto stilizzato, come un fenomeno in cui
possiamo osservare l’intricata rete di rapporti causali tra spazio e società. Partendo dalla sua
materialità (permanences) (forma e densità urbana espressa in quantità misurabili, per
esempio) possiamo scomporre il fenomeno nelle sue diverse componenti che impattano nelle
diverse tipologie di spazio.
L’obiettivo di questo esercizio è quello di ottenere una rappresentazione del fenomeno
meno parziale e non a “celle separate” (Harvey, 2006) e di tentare di integrare, a partire dal
dato fisico (la forma urbana dispersa prodotta dallo sprawl, a cui molte analisi del fenomeno
sembrano limitarsi), le sue relazioni sia con altri livelli di spazio sia con i suoi impatti
sociali, collettivi ed individuali.
A ciascuna tipologia di spazialità del fenomeno così scomposto è associata una diversa
modalità di analisi e uso dei dati/informazioni. Dal punto di vista operativo, questo significa
affiancare, e tentare di integrare, le fonti secondarie (dati amministrativi, fonti statistiche e
censuarie, ecc.) e le fonti primarie (interviste, focus group, ecc. a livello locale), a materiali
multimediali e alla immensa produzione di informazioni proveniente dallo sviluppo del web
2.0 (social network, in particolare) denominata Big Data che rappresenta un enorme
potenziale informativo per l’analisi geografica (Sui e DeLyser, 2012).
I risultati attesi sono essenzialmente due: superare la tradizionale dicotomia
spazio/territorio che limita la comprensione dei fenomeni complessi (quali la giustizia
109
spaziale a scala urbana) e far convergere, attraverso un approccio integrato (Sui e DeLyser,
2013, 2013a), le fonti statistiche ed informative disponibili, quantitative e qualitative, per
cercare di pervenire ad una conoscenza della giustizia spaziale in grado di raccontare e
rappresentare, oltre che quantificare, la giustizia spaziale nella sua complessità.
110
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