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Università degli Studi di Firenze

La crisi finanziaria internazionale del 2007-2008: lezioni per la vigilanza e la politica monetaria

di

Fabrizio Saccomanni Direttore Generale della Banca d'Italia

Firenze, 16 ottobre 2008

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Premessa

La crisi finanziaria del 2007-2008 va inquadrata nel contesto del sistema

monetario internazionale che si è gradualmente instaurato a partire dagli anni

settanta del secolo scorso.

Per sistema monetario si intende quel complesso di regole, istituzioni e prassi che

disciplinano gli scambi internazionali di beni, servizi e capitali e i meccanismi di

aggiustamento degli squilibri dei pagamenti internazionali. Il sistema monetario

ha assunto nella storia configurazioni diverse che riflettono l’evoluzione dei

sistemi economici nazionali e degli equilibri geopolitici a livello mondiale.

Nel periodo che va dal 1870 al 1914, il sistema monetario prevalente è stato il

gold standard con tassi di cambio fissi ancorati a parità auree, libertà dei

commerci e dei movimenti di capitali. Potere economico dominante era l’impero

britannico e la Banca d’Inghilterra svolgeva un ruolo guida nella gestione del

sistema monetario mondiale.

Dopo la prima guerra mondiale si ha un periodo di grande instabilità. Si tenta

prima di ripristinare il gold standard, ma la crisi del 1929-31 porta a una fase di

anarchia monetaria, con frequenti svalutazioni dei cambi, restrizioni valutarie e

commerciali. Molti storici vedono nella recessione economica che caratterizzò

quel periodo una delle cause maggiori dell’avvento del fascismo e del nazismo e

poi dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Già prima della fine della guerra, nel 1944, le potenze alleate gettarono le basi

alla Conferenza di Bretton Woods per un nuovo sistema monetario internazionale

nuovamente basato su cambi fissi, ancorati sia all’oro che al dollaro, sulla libertà

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degli scambi commerciali. Si introduce anche un meccanismo di aggiustamento

degli squilibri dei pagamenti internazionali, governato dal Fondo Monetario

Internazionale, che può erogare finanziamenti condizionati all’attuazione di

politiche macroeconomiche di stabilizzazione da parte dei paesi beneficiari. Il

sistema di Bretton Woods consente l’introduzione di controlli nei movimenti di

capitali per contenere i disavanzi delle bilance dei pagamenti.

Il sistema di Bretton Woods entra in crisi nel 1971 a causa dei crescenti disavanzi

della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti che rende necessario l’abbandono

della parità aurea per il dollaro e la sua svalutazione. Si entra in un regime

generalizzato di cambi fluttuanti. La crescente integrazione commerciale e

finanziaria internazionale pone le basi per un vasto processo di

deregolamentazione e liberalizzazione finanziaria, promosso da Stati Uniti e

Gran Bretagna all’inizio degli anni ottanta e che coinvolge l’Unione Europea e

via via gli altri paesi industrializzati. Si instaura un “sistema governato dai

mercati” che è la caratteristica centrale del regime di globalizzazione finanziaria.

La storia della globalizzazione dalla metà degli anni ottanta registra una serie di

episodi di instabilità monetaria e finanziaria di crescente intensità e frequenza

che ho analizzato in dettaglio negli ultimi anni1. In breve, si sono registrati

crescenti squilibri dei pagamenti globali, disallineamenti dei cambi delle

principali monete, crisi debitorie di paesi emergenti, bolle speculative sui mercati

azionari e immobiliari, episodi di eccessiva espansione del credito seguiti da

brusche contrazioni e da diffusa illiquidità dei mercati monetari e finanziari

internazionali.

La risposta della comunità internazionale a queste crisi è stata parziale, episodica

e non coordinata. Ci si è concentrati sulle cause prossime di ogni episodio, 1 Cfr. Saccomanni F. (2002), Tigri globali, domatori nazionali. Il difficile rapporto tra finanza globale autorità monetarie nazionali, Il Mulino, Bologna; Saccomanni F. (2008), Managing International Financial Instability. National Tamers versus Global Tigers, Edward Elgar, Cheltenham, UK.

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trascurando il quadro globale e le interazioni tra le politiche macroeconomiche

dei principali paesi e le dinamiche del mercato finanziario globale. Si è fatto

eccessivo affidamento sulla capacità dei cambi flessibili di aggiustare gli

squilibri globali dei pagamenti, divenuti essi stessi fattore di accentuazione e

propagazione delle tensioni finanziarie. È in questo contesto che si è sviluppata la

crisi attuale.

1. La complessa natura del rischio finanziario

Le turbolenze che stanno attraversando i mercati da più di un anno hanno posto

in primo piano, nel dibattito pubblico e politico, la complessa e multiforme

natura del rischio e le sue implicazioni per la stabilità dei sistemi finanziari. In

particolare, gli eventi drammatici delle scorse settimane – sia negli Stati Uniti

che in Europa – hanno rappresentato uno spartiacque per gli organi di vigilanza e

le autorità monetarie ma, nel contempo, confermano la necessità di ridisegnare il

sistema finanziario internazionale e renderlo più solido.

Prima di passare ad un’analisi più dettagliata delle recenti turbolenze e degli

insegnamenti che ne possiamo trarre, vorrei iniziare con alcune considerazioni

sulla natura del rischio e sulle difficoltà che incontriamo nel misurarlo. La

gestione del rischio, insieme all’allocazione delle risorse, è il compito prioritario

di un sistema finanziario. Il concetto di rischio è tuttavia ambiguo e può

assumere nel tempo connotazioni assai diverse.

La maggior parte delle crisi finanziarie – se non tutte – provoca essenzialmente

una diminuzione del valore delle attività o l’impossibilità di rimborsare un

prestito; in taluni casi entrambe queste evenienze. Tuttavia, ogni crisi mette in

luce debolezze specifiche del sistema finanziario: le esposizioni eccessive verso i

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paesi emergenti nei primi anni ottanta, il sistema di contrattazioni automatizzato

in occasione del crollo del mercato azionario nel 1987, la vulnerabilità del

sistema di cambi caratterizzati da ancoraggi non rigidi nelle economie emergenti

nel 1997 e il crescente ruolo degli hedge funds nel 1998. Un eccessivo ricorso

alla leva finanziaria e un insufficiente livello di trasparenza nella

cartolarizzazione sono alla base dell’attuale crisi.

Il rischio si cristallizza ogni volta in luoghi e forme diverse, ma quasi sempre

finisce con il colpire il sistema bancario: per quanto si parli di

disintermediazione, le banche rappresentano tuttora il pilastro fondamentale del

nostro sistema finanziario.

Oggigiorno, la globalizzazione e l’integrazione finanziaria hanno facilitato il

trasferimento del rischio, ma anche il contagio. L’innovazione finanziaria ha

determinato un nuovo modello di intermediazione, basato sulla predisposizione e

la distribuzione del credito (originate to distribute), piuttosto che sulla

detenzione delle attività fino alla naturale scadenza, il che ha aumentato la

complessità del sistema finanziario rendendolo probabilmente più fragile. In altre

parole, il rischio idiosincratico può anche essere stato ridotto, ma quello

sistemico ne è risultato ampliato.

Le principali categorie di rischio

Venti anni fa, l’intermediazione finanziaria era diversa da quella odierna. Il

rischio di credito riguardava i bilanci delle banche, il rischio azionario le

famiglie, e il rischio di liquidità era contenuto grazie alla dimensione

relativamente modesta dei mercati rispetto ai bilanci degli istituti finanziari.

Questo mondo così semplice è oggi completamente cambiato.

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Negli anni recenti, il rischio di credito è stato negoziato su base giornaliera; le

banche e gli altri istituti finanziari hanno avuto l’opportunità di assumere e

cedere il rischio di credito senza alcun rapporto diretto con il debitore originario.

Si è sostenuto che ciò avrebbe portato ad una più efficiente distribuzione di

questo tipo di rischio, ripartendolo sia tra più investitori, sia tra coloro in grado di

sostenerlo in modo più adeguato; ma si è anche sostenuto che avrebbe portato ad

una concentrazione del rischio di credito tra coloro più disposti a sostenerlo,

indipendentemente dalla solvibilità dei singoli investitori o dall’efficienza del

sistema. Quest’ultima ipotesi è quella verificatasi in concreto. Il rischio di credito

è stato trasferito al di fuori del settore regolamentato (soprattutto quello bancario)

e, in assenza di informazioni su tutte le sottostanti negoziazioni, è difficile sapere

con esattezza dove si trovi il rischio in questione sino a quando la situazione

potrebbe risultare compromessa. Inoltre, il rischio di credito è de facto

amplificato dal rischio di controparte, ossia dal rischio che una delle controparti

di un contratto non adempia agli obblighi contrattuali. Tali fattori rappresentano

ulteriori fonti di incertezza.

Anche l’investimento in titoli azionari ha subito significativi cambiamenti. Con

la diffusione dei fondi comuni di investimento e dei fondi pensione, una quota

crescente dei risparmi delle famiglie è gestita da professionisti; ciò ha consentito

una maggiore diversificazione, ma ha portato a una concentrazione delle

contrattazioni nelle mani di pochi grandi operatori. Questi intermediari globali

operano con analoghi modelli di gestione del rischio, analoghe strategie operative

e analoghe strutture di incentivi. Essi tendono pertanto ad assumere

comportamenti sostanzialmente similari. Il risultato è una maggiore probabilità

che nei mercati finanziari si sviluppino tendenze a senso unico nelle scelte degli

investitori e negli andamenti dei prezzi.

Anche il rischio di liquidità ha assunto connotazioni diverse. Il funding liquidity

risk (che ricorre quando un’azienda non è in grado di fronteggiare le proprie

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esigenze di cassa) è divenuto un problema, ora che le banche fanno molto più

affidamento sulla provvista all’ingrosso e devono pertanto prestare maggiore

attenzione all’allineamento delle scadenze. Il market liquidity risk (che ricorre

quando un’azienda non riesce facilmente a ridurre o estinguere una posizione

senza influenzare in modo significativo il prezzo di mercato) è aumentato con il

crescente numero di mercati, sempre più interconnessi e con il numero sempre

maggiore di transazioni. Ora i problemi di un mercato si trasmettono facilmente

agli altri: il sistema finanziario può disperdere le turbolenze ma può anche

ampliarle.

Il crescente ruolo delle istituzioni che adottano strategie sofisticate ha aumentato

il rischio operativo (il rischio di perdite che deriva dal malfunzionamento delle

procedure o delle infrastrutture, oppure da errore umano). L’aumento delle

transazioni internazionali o di quelle aventi ad oggetto strumenti complessi ha

accresciuto il rischio giuridico. La presenza di operatori sul mercato globale ha

aumentato il rischio di reputazione (il rischio di pregiudicare la reputazione di

un’azienda a causa dei problemi emersi in un particolare segmento del mercato).

Gli operatori, nel commercializzare una più ampia gamma di prodotti, si

espongono al rischio che un problema relativo a un prodotto “marginale” possa

intaccare il core business dell’azienda. Tali rischi sono difficilmente

quantificabili, ma in presenza di eventi negativi i costi possono essere elevati.

In ultima analisi, è la stessa complessità dell’attuale sistema finanziario, con la

sua miriade di partecipanti, strumenti e prassi a rappresentare di per sé un fattore

di rischio.

Possiamo misurare il rischio?

Non solo il rischio sta cambiando rapidamente nel modo di manifestarsi, ma sta

diventando sempre più difficile una sua precisa individuazione e valutazione.

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Secondo semplici misure standard, il rischio sembrerebbe essere diminuito nel

corso degli ultimi dieci anni: per le banche statunitensi, le più colpite dalle attuali

turbolenze, il rapporto tra passività a breve e attività a lungo termine è in effetti

diminuito e il rapporto tra patrimonio e attività verso il settore privato è

aumentato. Tuttavia, è ormai evidente che le banche statunitensi presentavano un

disallineamento delle scadenze e risultavano poco patrimonializzate rispetto ai

rischi assunti. Senza contare che fino a un anno fa gli spread creditizi erano ai

minimi storici, segnalando una quasi totale assenza di rischio, malgrado i ripetuti

avvertimenti delle autorità monetarie e finanziarie, sia nazionali che

internazionali.

Persino sofisticati strumenti di misurazione del rischio si sono dimostrati

inadeguati. Modelli complessi attribuivano probabilità di uno ogni 10.000 anni a

eventi che si sono, in concreto, avverati e addirittura ripetuti nel giro di alcuni

giorni. Vi sono naturalmente delle questioni tecniche, sulle quali mi soffermerò

in seguito, ma quello che vorrei evidenziare ora, è il fatto che stiamo andando

verso un mondo sempre più complesso, che può essere difficile rappresentare in

un modello, anche disponendo di strumenti analitici sempre più sofisticati.

Per riassumere, mentre la finanza moderna è riuscita nell’intento di valutare i

rischi derivanti da shock modesti e ricorrenti, essa sta ancora cercando una

soluzione per fronteggiare i rischi associati a eventi estremi.

2. Lezioni da trarre dalle attuali turbolenze finanziarie

Una caratteristica singolare dei mercati finanziari, negli anni che hanno

preceduto le attuali turbolenze, è stata la bassa volatilità degli stessi – mercati

monetari, dei titoli di Stato, creditizi, azionari e dei cambi – sia nelle economie

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dei paesi maggiormente industrializzati che in quelle dei paesi emergenti. Mentre

bassi livelli di volatilità si erano già verificati in altri periodi, a rendere unica la

situazione degli anni recenti è stata una volatilità assai contenuta per un periodo

molto lungo, in tutti i settori di attività finanziaria e in tutte le aree geografiche.

Fattori economici hanno interagito con la bassa volatilità finanziaria e con quella

reale nel favorire un’errata quantificazione del rischio: in primo luogo, il calo

dell’inflazione dei prezzi al consumo, a seguito dell’apertura al commercio

mondiale dei paesi emergenti resa possibile dalla globalizzazione; in secondo

luogo, il basso livello di inflazione ha favorito politiche monetarie accomodanti

che, amplificate dalla relativa fissità dei regimi di cambio delle principali

economie emergenti (in particolar modo la Cina), ha portato a condizioni di

credito insolitamente favorevoli a livello globale.

Col senno di poi, un contesto finanziario e macroeconomico così favorevole ha

contribuito a porre le fondamenta della successiva instabilità incoraggiando gli

investitori a cercare dei rendimenti che troppo spesso degeneravano in

investimenti particolarmente rischiosi.

Inoltre, la stessa innovazione finanziaria può aver avuto un ruolo destabilizzante.

L’innovazione ha effetti positivi quando amplia i mercati e migliora la

distribuzione del rischio. Ma può anche essere utilizzata per sfruttare “buchi”

nella rete regolamentare, per aggirare la normativa, o per trarre vantaggio da

asimmetrie informative a beneficio di alcune parti e a scapito di altre, come si è

probabilmente verificato con alcuni degli strumenti finanziari meno trasparenti.

In tale contesto, la generale sottostima di gran parte delle categorie di rischio è il

principale insegnamento che può essere tratto dalle attuali turbolenze. Ancora

una volta la speranza che si potessero realizzare gli alti rendimenti impliciti nei

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prodotti finanziari innovativi senza correre altrettanto elevati rischi si è rivelata

illusoria.

La sottostima del rischio può dipendere da diversi fattori. Il rischio di credito è

intrinsecamente difficile da misurare, sia per motivi tecnici che per problemi di

informativa. Le attività illiquide utilizzate per trasferire il rischio di credito,

attraverso titoli strutturati come ad esempio gli asset-backed securities sono uno

dei casi in questione. In mancanza di un mercato secondario, gli asset-backed

securities sono valutati da modelli. Tali modelli tuttavia non si sono rivelati

adeguati, per esempio nel caso di titoli garantiti da ipoteca, dal momento che essi

si basavano su ipotesi formulate sull’andamento storico dei prezzi degli immobili

nelle diverse condizioni economiche e finanziarie. Non sempre i dati avevano

l’accuratezza richiesta per un’analisi statistica affidabile. Gli investitori facevano

affidamento sul prospetto informativo e sulle valutazioni delle agenzie di rating,

dimostratesi anch’esse poco accurate, talvolta persino distorte. Inoltre, per molti

strumenti finanziari le prospettive di profittabilità non erano per nulla lineari e

quindi difficilmente estrapolabili. In tali condizioni, in mancanza di prezzi di

mercato di riferimento sui quali basarsi e con inadeguati modelli di pricing, la

valutazione diventa quasi un’arte, in particolar modo quando la volatilità

aumenta.

La sottostima è divenuta evidente anche nel caso dei rischi di mercato e di

funding liquidity risk. Il passaggio a un modello originate and distribute ha reso

l’intero sistema molto più dipendente dalla liquidità del mercato, poiché gli

originators non bancari si finanziavano con l’emissione di titoli piuttosto che con

i depositi. È vero che, sul versante degli acquisti, gli hedge funds creano liquidità,

ma solo finché possono aumentare il ricorso al finanziamento, e tale capacità è

stata messa in discussione proprio quando la liquidità si è assottigliata. Infine, le

strategie di trading basate sull’ipotesi di negoziazione continua possono livellare

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i prezzi in periodi normali, ma in caso di shock possono generare comportamenti

imitativi, sottraendo liquidità proprio quando di questa c’è più bisogno.

Un altro esempio di sottovalutazione del rischio di liquidità si è verificato

laddove le banche si sono impegnate a fornire liquidità a proprie entità

appositamente costituite e legalmente distinte (conduits o special vehicles) per la

commercializzazione di prodotti strutturati. Quando i conduits hanno avuto

bisogno di liquidità le banche sono state colte di sorpresa dalla profondità della

crisi dei mercati e hanno esitato a richiedere assistenza alle banche centrali per lo

stigma connesso a tali richieste. Al tempo stesso, esse sono diventate restie anche

a prestarsi reciprocamente denaro, iniziando ad accumulare liquidità. Anche in

questo caso, ciò che era razionale in un’ottica individuale portava a un aumento

dell’esposizione sistemica agli shock di liquidità.

Incentivi perversi riscontrati a tutti i livelli del processo di intermediazione hanno

portato a una sottostima del rischio. Gli originators sono stati incoraggiati a

concedere crediti pressoché a tutti, dal momento che li avrebbero

successivamente ceduti. Le agenzie di rating sono state indotte a essere

indulgenti, visto che fornivano il proprio parere in un mercato concentrato, e in

presenza di prodotti strutturati così opachi e complessi che sarebbe stato difficile

per chiunque metterne in dubbio il giudizio. Gli investitori erano così determinati

a voler conseguire rendimenti elevati, in un contesto di tassi d’interesse

particolarmente contenuti, che non hanno voluto dar ascolto agli ammonimenti

delle banche centrali e delle istituzioni internazionali su un’errata determinazione

del prezzo del rischio. Infine, i forti incentivi riconosciuti ai gestori dei fondi li

inducevano ad assumere ulteriori rischi, presentando i maggiori rendimenti

derivanti dalle proprie strategie come il risultato di una particolare abilità

piuttosto che, più prosaicamente, di un rischio più elevato, che veniva di

conseguenza a gravare sugli investitori.

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La combinazione di prodotti complessi e di un non agevole processo di

intermediazione ha reso estremamente difficile l’individuazione e la valutazione

del rischio; conseguentemente di estrema complessità è risultata la sua gestione.

Il rischio di contagio è aumentato: anche piccoli shock hanno determinato

problemi sistemici, propagandosi tra le istituzioni e generando una spirale, al

ribasso, dei prezzi e dei mercati. Il rischio associato a eventi estremi è stato

amplificato dal leverage, divenuto endemico in un contesto caratterizzato da

favorevoli condizioni macroeconomiche e di accesso al credito.

Il modello aziendale che ha portato alla formazione di istituzioni finanziarie di

rilevanti dimensioni e particolare complessità si è anche rivelato vulnerabile ai

rischi. Le ingenti perdite subite da alcune importanti banche internazionali e la

scarsa performance dei loro sistemi di gestione del rischio sollevano interrogativi

sulla validità del modello. Una pluralità di funzioni svolte da un unico

intermediario, anche su larga scala, non necessariamente ne aumenta l’efficienza:

le economie di scala nel settore bancario e finanziario non sono del tutto evidenti.

I benefici della diversificazione possono essere vanificati, in particolare dal costo

della complessità soprattutto per quanto riguarda i due profili della gestione del

rischio e delle risorse umane.

Il secondo importante insegnamento riguarda l’esigenza di contenere il

comportamento prociclico del sistema finanziario. L’andamento del ciclo del

credito, caratterizzato da fasi ricorrenti di espansione e contrazione, è fenomeno

che si è riscontrato ripetutamente nella storia dei sistemi finanziari di ogni epoca

e regime. Tuttavia, una serie di nuovi elementi può aver accentuato la frequenza

e l’intensità delle fasi nell’era della globalizzazione.

La valutazione delle poste di bilancio in base al principio del “mark to maket”

può non riflettere con la dovuta accuratezza il “giusto valore” (fair value) in

momenti di crisi acuta e di illiquidità dei mercati. Ovviamente, la soluzione non è

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ricorrere al costo storico, ma fornire alle imprese e ai revisori dei conti linee

guida riguardo l’adeguatezza, l’utilizzo e la divulgazione di tecniche di

valutazione basate su indicatori fondamentali laddove non vi siano prezzi di

mercato. Tuttavia, affinché tali orientamenti siano efficaci ed equi, essi

dovrebbero essere applicati in modo simmetrico, sia in un contesto economico

favorevole sia avverso, e in condizioni di totale trasparenza.

Anche i requisiti patrimoniali imposti alle banche possono trasmettere una

tendenza prociclica all’industria finanziaria, aggravando la stretta creditizia

derivante da un’economia in fase di rallentamento. L’accresciuto ricorso al

finanziamento di mercato, in alternativa ai depositi della clientela, può rafforzare

il feedback tra la disponibilità di finanziamento e i prezzi delle attività. Un’altra

fonte potenziale di prociclicità è la diffusione in banche e hedge funds di

incentivi a breve termine legati a obiettivi di volume delle vendite di prodotti

finanziari, che può portare a un’eccessiva assunzione di rischio in periodi di

espansione e, più in generale, a comportamenti imitativi che accentuano le

fluttuazioni di mercato.

In definitiva, la crisi evidenzia come l’autoregolamentazione del mercato sia stata

sovrastimata e i relativi malfunzionamenti sottostimati. Quando la crisi è esplosa,

è stato subito chiaro che le autorità avrebbero dovuto affrontare dei problemi

sistemici.

3. Il ruolo degli organi di regolamentazione e di vigilanza

La crisi ha rivelato lacune nella struttura regolamentazione e di vigilanza, oltre

alla presenza di incentivi non corretti volti a trasferire rischi a entità non

regolamentate, favorendo in tal modo la costituzione di un “sistema bancario

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ombra”, composto da conduit e strumenti di investimento strutturati. Un’azione

volta a ripristinare la fiducia e a preservare la stabilità è in corso presso gli

organismi della cooperazione finanziaria internazionale, principalmente il

Financial Stability Forum, presieduto dal Governatore della Banca d’Italia Mario

Draghi.

Il sistema di incentivi, costituito dai requisiti patrimoniali e di liquidità e

dall’azione di sorveglianza, è in fase di riesame nell’intento di ridurre la

possibilità di arbitraggio regolamentare e di rafforzare la disciplina di mercato.

Lo schema di Basilea II fornisce maggiori incentivi ad allineare i requisiti

patrimoniali ai rischi effettivi delle banche, prescrivendo tecniche moderne di

gestione del rischio e un processo di revisione prudenziale delle prassi bancarie,

promuovendo la divulgazione delle informazioni di mercato. L’adozione,

avvenuta quest’anno, di Basilea II da parte di un gran numero di paesi è un passo

essenziale per il rafforzamento del sistema finanziario, superando le

inadeguatezze del modello di Basilea I. La valutazione dell’adeguatezza del

quadro regolamentare è in corso su iniziativa del Financial Stability Forum, in

cui saranno pienamente verificati tutti i potenziali effetti di Basilea II sul capitale

delle banche, in particolare la possibilità di causare prociclicità nei flussi di

credito.

A questo proposito, saranno prese in considerazione misure per attenuare o

eliminare la prociclicità, ad esempio attraverso requisiti patrimoniali anticiclici

che aumentano quando il prezzo di rischio del mercato scende.

Gli standard e le norme di vigilanza nazionali richiedono un’armonizzazione per

assicurare che le prassi e la regolamentazione di vigilanza non influenzino

negativamente le scelte strategiche di banche multinazionali e di global players.

È importante evitare una “corsa al lassismo” e la possibilità di “arbitraggio tra gli

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ordinamenti”. La cooperazione dovrebbe ridurre progressivamente le differenze

nelle prassi nazionali e incoraggiare i confronti tra paesi al riguardo, al fine di

sviluppare le prassi “migliori” e accrescere l’efficacia delle azioni di vigilanza

rispetto a istituzioni finanziarie di particolare dimensione e complessità.

La cooperazione transfrontaliera tra le autorità di vigilanza deve essere

rafforzata, avvalendosi dell’esperienza maturata nei comitati multinazionali di

vigilanza. L’istituzione di un comitato internazionale per ciascuna delle

principali istituzioni finanziarie attive a livello globale è un passo nella giusta

direzione. Le autorità di vigilanza dovrebbero inoltre cercare di creare le

condizioni per coordinare valutazioni e azioni nel campo della vigilanza e per

scambi di opinioni su esposizioni e prassi gestionali, al fine di trarre lezioni

dall’esperienza e sviluppare benchmark comuni.

Le turbolenze finanziarie hanno evidenziato il ruolo dei meccanismi retributivi

nell’incoraggiare l’eccessiva assunzione di rischio. Per salvaguardare la stabilità

finanziaria di un’istituzione, i suoi meccanismi di remunerazione dovrebbero

essere correlati alla redditività dell’azienda nel lungo periodo, opportunamente

ponderata per il rischio. Molte banche stanno ora rivedendo i propri sistemi di

remunerazione e numerose autorità di regolamentazione e di vigilanza hanno

annunciato che intensificheranno le proprie valutazioni sulla capacità delle

banche di contenere i rischi associati a incentivi non corretti. Un’accresciuta

trasparenza e maggiori informazioni a favore degli azionisti circa le politiche di

remunerazione contribuirebbero ad allineare gli incentivi con gli obiettivi di

lungo termine.

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4. Il ruolo per le banche centrali

Le turbolenze hanno posto in primo piano il ruolo delle banche centrali nella loro

azione di immissione di liquidità, stabilizzazione del mercato finanziario e

risoluzione della crisi.

Come ho sostenuto, la crisi è derivata anzitutto da una sottovalutazione del

rischio da parte delle banche e degli investitori istituzionali. Ma un contesto di

bassi tassi di interesse reali e nominali ha contribuito a creare liquidità in

eccesso, a una sottovalutazione del prezzo del rischio e alla sua non corretta

distribuzione. Le banche centrali dovrebbero tener conto di questi effetti nella

formulazione delle strategie di gestione della liquidità e della politica monetaria.

Il quadro operativo per l’immissione di liquidità è stato messo a dura prova e ha

tenuto bene; le banche centrali hanno reagito alla crisi in modo rapido e

innovativo. Sin dal primo manifestarsi delle turbolenze finanziarie, le banche

centrali hanno fornito ingenti quantitativi di liquidità alle banche commerciali e

poi anche ad altre istituzioni, e hanno adeguato i propri interventi per accrescerne

la flessibilità, soprattutto con riferimento alle garanzie, e intensificare il

coordinamento a livello internazionale. Di conseguenza, le infrastrutture del

mercato finanziario e il sistema internazionale dei pagamenti hanno continuato a

funzionare in modo efficiente, nonostante il fallimento di importanti intermediari.

Su un piano più generale di strategia di politica monetaria, i recenti eventi

indicano che tassi di interesse troppo bassi e un’eccessiva espansione della

liquidità e del credito possono incoraggiare comportamenti imprudenti da parte

degli investitori. Per far fronte alle tensioni finanziarie, le banche centrali

dovrebbero definire i casi di “squilibrio finanziario” – come ad esempio una

tendenza unidirezionale prolungata dei prezzi delle attività o dei flussi finanziari

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– per i quali sarebbe richiesta una strategia di politica monetaria di “resistenza al

vento” (leaning against the wind).

Al contrario, una volta che la crisi è scoppiata e l’economia registra un

rallentamento, la politica monetaria non può essere il solo o il principale

strumento per una ripresa dell’economia e del sistema finanziario: il

mantenimento della stabilità dei prezzi è il contributo migliore che la politica

monetaria può fornire per il ritorno alla stabilità finanziaria; nel lungo termine

non dovrebbe esserci alcun conflitto tra i due obiettivi. Gli strumenti più adatti

sono le politiche fiscali, se ve ne sono i margini, una sana regolamentazione volta

a ridurre l’incertezza e a migliorare la trasparenza, e un settore privato disposto a

scommettere sul futuro.

Le turbolenze hanno confermato che il quadro strategico della BCE, con la sua

enfasi sugli sviluppi della moneta e del credito, è appropriato e costituisce un

buon fondamento per ogni ulteriore riflessione in materia.

Conclusioni

Questa crisi ha evidenziato che l’autoregolamentazione, ancorché efficace in

presenza di un adeguato sistema di informazioni, non funziona bene quando nel

sistema si diffondono asimmetrie e incentivi perversi. Il ritorno a un sistema

meglio regolamentato sembra inevitabile per preservare la stabilità finanziaria e

proteggere i contribuenti da costi ingenti e inattesi. Di conseguenza, il trade-off

di fronte al quale si trovano oggi i policy makers è come mantenere i benefici

della liberalizzazione e dell’innovazione per il settore finanziario e per

l’economia nel suo insieme, riducendo al minimo il rischio di instabilità

finanziaria e i relativi costi. Ciò richiederà quello che nel nostro gergo

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Page 18: La crisi finanziaria internazionale del 2007-2008: lezioni ... · Premessa . La crisi finanziaria del 2007-2008 va inquadrata nel contesto del sistema monetario internazionale che

chiamiamo un “quadro macro-prudenziale” di regolamentazione e vigilanza,

ovverosia un contesto che prenda in considerazione i rischi del sistema

finanziario nel suo complesso e non soltanto dei singoli intermediari,

concentrandosi sui fattori di contagio e sulle esposizioni degli intermediari a

rischi comuni. Anche in questo caso, le autorità finanziarie dovranno rivedere

l’adeguatezza dello strumentario a loro disposizione per soddisfare i requisiti

dell’approccio macro-prudenziale.

Il sistema finanziario che scaturirà da questa crisi opererà con meno debiti, più

capitale e con una regolamentazione più efficace. Il processo di riforma dovrebbe

rivedere l’equilibrio tra disciplina di mercato e regolamentazione, aumentando la

trasparenza, incoraggiando una migliore gestione del rischio ed evitando, per

quanto possibile, incentivi che minaccino la stabilità sistemica.

Questi miglioramenti dovranno inserirsi in un contesto più ampio di riforma del

sistema monetario e finanziario internazionale che affronti le cause di fondo degli

squilibri finanziari globali. La gestione della crisi ha poggiato in misura senza

precedenti sulla cooperazione internazionale, sia a livello del Gruppo dei Sette

sia a livello europeo. Le proposte che da vari esponenti politici di primo piano

sono state avanzate per un nuovo Bretton Woods sono la prova che vi è ormai

consenso sulla necessità di affrontare le sfide – e le crisi – della globalizzazione

con una strategia globale e coordinata. Del vecchio sistema di Bretton Woods

sono da recepire il forte impegno a una gestione multilaterale del sistema

monetario e gli obiettivi di stabilità monetaria e di libertà degli scambi

commerciali, adattandoli nelle regole e nelle procedure istituzionali alla realtà

politica economica e finanziaria del XXI secolo.

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