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Lectio magistralis Stiglitz, Camera dei Deputati 230914TRANSCRIPT
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La crisi dell’euro: cause e rimedi
Prima questione: crisi dell’euro o crisi dell’eurozona?. Il tema va circoscritto alla
moneta o coinvolge il complessivo quadro macroeconomico della zona?. Il dato di
fatto1 è che attualmente quella europea è l’unica importante economia del pianeta
(insieme a quella giapponese, ma quest’ultima ha troppe specificità per essere
agevolmente comparabile) a non crescere, configurandosi come un’area che,
pertanto, perde progressivamente peso rispetto a tutte le altre, in particolare quella
americana, cinese e quelle di altri paesi emergenti. Ma è anche l’area che, a fronte di
circa il 25% del prodotto lordo mondiale e del 7% della popolazione, sostiene il 50%
delle spese mondiali per il welfare: spese che, com’è noto, la bassa dinamica
demografica tende a far crescere. Un dato che, a prescindere da giudizi di merito,
pesa sulla competitività, euro o non euro.
Seconda questione: all’inizio della crisi, alla fine del 2007, l’area euro si presenta
con un debito pubblico (mediamente il 66,4% nei 17 paesi della zona euro) ed una
spesa pubblica, al 2008 (45 % del Pil.) superiore a quella degli altri paesi avanzati
(Giappone a parte), e tali due fattori conferiscono ai paesi dell’area un minor
margine per stabilizzare il ciclo, indipendentemente dagli effetti della moneta.
Ciò accennato, una riflessione sulle regole europee sembra al momento
opportuna.
Si tratta di regole che in presenza di una situazione di bassa crescita e di
deflazione vanno riconsiderate? Potrebbe essere il caso dell’effetto congiunto
della regola del pareggio di bilancio (rectius, Obiettivo di medio termine, Mto) e
regola sul debito. Occorre ricordare come la regola del rispetto del Mto è più
stringente della seconda, e in condizioni normali, il rispetto della prima implica il
rispetto della seconda. Le condizioni normali sono quelle in cui il Pil nominale
cresce, sia pur di poco, anche in assenza di crescita reale, per l’aumento del
livello generale dei prezzi. Poiché, con riguardo agli effetti sul debito, ciò che di
esso va ridotto di un ventesimo in media all’anno, ai sensi del Six-Pack, non è lo
stock di debito in valore assoluto, bensì il rapporto tra due variabili espresse in
termini nominali (il debito a numeratore, il Pil a denominatore), si può dimostrare
che, in presenza di un sostanziale equilibrio di bilancio (assenza o quasi di
nuovo indebitamento, vale a dire rispetto dell’Mto), la crescita del Pil nominale
tende a ridurre il rapporto debito/Pil, con la possibile conseguenza che
possono evitarsi manovre correttive addizionali (oltre a quelle per mantenere
l’equilibrio). Il problema si pone, invece, quando il Pil nominale si riduce. Un
evento che, nel nostro Paese è capitato finora solo tre volte del dopoguerra2, ma
tutte e tre nel corso della crisi economica post-2008: nel 2009, nel 2012 e nel
1 Corriere della sera 15 agosto 2014 a firma D.Taino.
2 In attesa di vedere come andrà nel 2014, che rischia di essere la quarta volta.
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2013. A questa situazione, fonte di possibili gravi problemi – anzi gravissimi –
non sembra assolutamente possibile farsi fronte con la incerta flessibilità
prevista attualmente dalla complessa impalcatura delle regole europee:
flessibilità non trasparente, ma soprattutto né sufficiente, né abbastanza certa e
tempestiva da compensare, nelle situazioni più gravi - come quella italiana, la
mancanza di una politica anticiclica discrezionale di livello europeo (quale
sarebbe consentita da un robusto bilancio federale, come negli Stati Uniti) o
quantomeno coordinata in modo vincolante tra tutti i paesi dell’Unione monetaria.
Se inoltre, come molti ritengono – ma la questione è al momento controversa -
la riduzione del Pil potenziale fosse da attribuirsi in misura rilevante alle politiche
di austerity avviate in tutta l’Eurozona su spinta della Commissione, avremmo il
paradosso che una riduzione della crescita potenziale innescata da politiche di
bilancio restrittive provoca un peggioramento dei saldi strutturali, i quali
dovrebbero portare a ulteriori misure di austerity. Ci si troverebbe allora in
presenza non solo in una assenza di strumenti – la possibilità della politica
europea anticiclica – ma piuttosto in un situazione di dannosità delle regole.
Ma nel frattempo quali potrebbero essere i possibili rimedi?
1) Giavazzi-Tabellini ritengono che la stagnazione dell’Eurozona richieda
un’azione politica coordinata tra gli Stati. Tra gli interventi chiave, significativo
taglio delle tasse, estensione degli obiettivi di disavanzo di bilancio ed emissione
di debito pubblico a lungo termine, acquistato dalla Bce, senza sterilizzazione. In
sintesi “quantitative fiscale insieme al quantitative easing”. Quest’ultimo è un
importante strumento per far ripartire l’economia, ma se ci si affida solo ad esso
si sopravvaluta il potere della politica monetaria.
La sfida principale che l’Eurozona si trova ad affrontare è infatti la mancanza di
domanda aggregata: un problema molto più importante rispetto a squilibri interni
o mancanza di competitività in periferia.
Alla fine del 2013:
• i consumi privati nella zona euro sono stati del 2 per cento inferiori rispetto al
2007;
• gli investimenti privati sono diminuiti del 20 per cento in confronto ai dati
registrati nel 2007;
• i prezzi alla produzione sono in calo da oltre un anno.
L’unica nota positiva è l’aumento delle esportazioni di quasi il 10 per cento
dalla fine del 2013.
Negli Stati Uniti, invece, Pil e consumi privati sono del 6-7 per cento superiori
rispetto a sei anni fa e anche gli investimenti sono più alti del livello pre-crisi.
Se il problema è la mancanza di domanda, allora, ritengono i due economisti,
la soluzione può essere trovata solo a livello europeo. La politica fiscale è
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vincolata dal Patto di stabilità e la politica monetaria è nelle mani della Bce.
Inoltre, gli effetti di ricaduta tra gli Stati membri fanno sì che uno sforzo
coordinato per rilanciare la domanda aggregata siano più efficace rispetto a
isolate azioni specifiche di singoli paesi.
Che cosa si può fare quindi per aumentare la domanda aggregata nella zona
euro?.
• Tutti i paesi dovrebbero varare un significativo taglio delle tasse, per
esempio dell’ordine del 5 per cento del Pil.
• Per ridurre il deficit di bilancio creatosi in seguito al taglio delle tasse, i paesi
dovrebbero avere a disposizione un certo numero di anni (almeno tre o quattro) e
dovrebbero cercare di raggiungere questo obiettivo attraverso una combinazione
di maggiore crescita e minori spese.
• Per finanziare ulteriori deficit, gli Stati membri dovrebbero emettere debito
pubblico a lungo termine, con scadenza a 30 anni, per esempio.
Il debito supplementare dovrebbe essere acquistato integralmente dalla
Bce, senza alcuna sterilizzazione corrispondente, e gli interessi sul debito
dovrebbero essere restituiti agli azionisti della Banca centrale come signoraggio.
Come dimostra la recente esperienza di altri paesi avanzati, la chiave per il
successo della gestione della domanda aggregata è in una giusta
combinazione di espansione monetaria e fiscale. Il quantitative easing di
per sé non servirebbe a molto per rilanciare il credito bancario e la spesa
privata: il credito in Europa passa principalmente attraverso le banche e non nei
mercati finanziari.
D’altra parte, l’espansione fiscale senza allentamento monetario sarebbe quasi
impossibile: il debito pubblico in circolazione è già troppo elevato in molti paesi.
Invece, una simultanea espansione monetaria e fiscale stimolerebbe la
domanda aggregata sia in modo diretto che indiretto, attraverso un tasso di
cambio svalutato. E la conseguente inflazione temporaneamente più elevata
sarebbe utile, in quanto ridurrebbe il problema dell’eccesso di debito e
faciliterebbe il raggiungimento dell’obiettivo di stabilità dei prezzi in capo alla Bce.
Se le obiezioni politiche dovessero impedire un’azione coordinata per
rilanciare la domanda aggregata, entro qualche mese la Bce sarà comunque
costretta ad avviare un quantitative easing, per cercare di combattere la
deflazione. Ma questo non funzionerà. E l’Eurozona rimarrà in depressione,
alimentando così sentimenti anti-europei tra i suoi cittadini.
2) Roberto Perotti non condivide però questa proposta (i paesi dell’Eurozona
dovrebbero tagliare le tasse simultaneamente del 5 per cento del Pil, e la Bce
dovrebbe comprare il debito pubblico risultante. Allo stesso tempo, questi paesi
dovrebbero presentare dei piani credibili per la riduzione della spesa pubblica
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futura) rilevando come essa comporti, per l’Italia, un taglio alle tasse di 80
miliardi, finanziato dalla Bce e accompagnato da una riduzione della spesa
futura.
Ma nessun paese, nota Perotti, ha mai prodotto un piano credibile di riduzione
di spesa così enorme, e comunque, il piano non funzionerebbe.
Certo, un piano di riduzione della spesa è necessario, ma deve essere, per
l’appunto, credibile. Parecchie economie europee, come l’Italia o la Francia,
hanno bisogno di ridurre permanentemente le tasse. Il vincolo di bilancio
intertemporale dello Stato comporta però che questo può essere ottenuto solo
riducendo la spesa pubblica permanentemente. Un così enorme taglio delle
tasse (del 5 per cento) può essere interpretato come un modo di anticipare i
benefici del taglio medesimo, mentre si attende che i tagli di spesa si
materializzino. Perché questo funzioni, è necessario appunto un piano credibile
di riduzione della spesa in futuro.
Perché? Nel mondo reale, il debito pubblico è rischioso, e ai mercati non piace
che esso cresca, soprattutto in paesi con un alto livello di spesa e debito pubblici.
Senza un piano credibile di riduzione della spesa in futuro, di fronte a un taglio
delle tasse gigantesco come quello proposto da Giavazzi e Tabellini i mercati
finanziari reagirebbero negativamente, perché vedrebbero un ritorno alle
politiche di bilancio irresponsabili del passato; questo avrebbe effetti pesanti sul
settore bancario, ancora molto esposto al debito sovrano, come nel 2011. Il
tentativo di espandere la domanda aggregata attraverso un taglio delle tasse si
trasformerebbe in un boomerang.
Il problema di fondo è che è praticamente impossibile produrre un piano
credibile di riduzione della spesa futura, tantomeno per l’importo enorme che un
taglio delle tasse del 5 percento comporterebbe. L’esempio più chiaro è offerto
dai due piani di consolidamento fiscali più celebri, la Finlandia e la Svezia negli
anni novanta. Tra il 1992 e il 1996, secondo gli annunci ufficiali la Finlandia
avrebbe dovuto ridurre il disavanzo dell’11,4 percento del Pil, di cui 12,1 percento
del Pil in tagli alla spesa; gli stessi numeri per la Svezia erano del 10,6 e del 6,8
percento del Pil, rispettivamente. Tuttavia, questi erano gli annunci; la realtà fu
molto differente. Alla fine di quel quinquennio, la Finlandia ridusse la spesa
pubblica di solo lo 0,4 percento del Pil (contro previsioni di un taglio del 12,1
percento!), la Svezia del 3,6 percento.
Il problema è ancora più complicato perché, ritiene Perotti, la promessa di
monetizzazione del taglio alle tasse della proposta di Giavazzi e Tabellini crea un
insormontabile problema di azzardo morale. Si potrebbe pensare che, se le
cose non dovessero andare come ci si aspetta, si possono sempre ritirare i tagli
alle tasse. Ma un paese come l’Italia non ha mai sperimentato un taglio
discrezionale alle tasse di più del 0,5 percento del Pil. Un taglio e poi un
aumento di tasse di una cifra come 80 miliardi di euro, creerebbero un disastro
politico, ed enorme incertezza economica.
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Non tutti i disavanzi di bilancio sono uguali. Una cosa è un disavanzo
temporaneo per ricapitalizzare il sistema bancario in un paese con basso debito
e con una storia di politiche fiscali responsabili, come in Gran Bretagna dopo la
crisi finanziaria. Un’altra cosa è un disavanzo di bilancio senza un piano credibile
per ridurre le spese future, in un paese ad alto debito pubblico, con una storia di
politiche di bilancio irresponsabili e con governi tradizionalmente deboli.
Per un tale paese, l’unica alternativa possibile per raggiungere lo scopo più
importante – ridurre le tasse – è di tagliare le tasse insieme alla spesa. Questo
processo richiede tempo, e funzionerà incrementalmente, miliardo di risparmi
di spesa dopo miliardo. Ma è l’unico approccio realistico. L’alternativa non
raggiungerebbe il proposito di aumentare la domanda.
3) La questione rimane comunque al momento ancora incerta, come espone
la replica di Giavazzi/Tabellini, secondo i quali c’è un consenso quasi unanime
tra gli economisti sul fatto che le politiche anti-cicliche messe in atto negli Stati
Uniti e nel Regno Unito, accompagnate da un eccezionale allentamento
monetario, abbiano contribuito a stabilizzare le fluttuazioni cicliche e spieghino la
ripresa molto più veloce di queste economie rispetto all’Eurozona (sebbene
l’epicentro della crisi finanziaria sia stato proprio nei paesi anglosassoni e non
nell’Europa continentale). L’affermazione (di Perotti) che nelle condizioni attuali
una politica fiscale anticiclica accompagnata da quantitative easing sia
economicamente destabilizzante è quindi ritenuta difficile da comprendere,
anche se fosse realizzata interamente attraverso riduzioni di imposte non
accompagnate da tagli di spesa futuri.
Come si è visto, notano Giavazzi/Tabellini, nei paesi anglosassoni il ritorno della
crescita ha contribuito in maniera rilevante a riassorbire i disavanzi. E questo è
esattamente il punto: accadrebbe lo stesso anche nell’Eurozona.
Tra il 2009 e il 2013, dopo che l’output gap nell’Eurozona è passato dal +3,2 per
cento al -3 per cento, il saldo di bilancio complessivo aggiustato per il ciclo si è
ridotto di circa 4 punti percentuali di Pil. In alcuni paesi, la restrizione pro-ciclica è
avvenuta principalmente attraverso tagli alla spese (in Spagna in particolare) ed
è stata più innocua. Altrove, come in Italia, si è basata interamente su un
inasprimento delle tasse e ha prodotto una grave e duratura recessione. Parte
del taglio alle tasse che viene proposto, rilevano gli autori, semplicemente
cancellerebbe gli aumenti pro-ciclici delle imposte varati in questi paesi al
culmine della crisi del debito sovrano. Quando redditi e prezzi cominceranno di
nuovo a salire, una parte dell’espansione di bilancio si ridurrà automaticamente
senza la necessità di alcun intervento, come è avvenuto negli Usa e nel Regno
Unito.
La sequenza corretta, dal punto di vista sia economico che politico, è dunque
una sostituzione intertemporale: tagli alle tasse espansivi ora per far ripartire la
crescita e tagli alla spesa via via che l’economia si riprende. Per dare credibilità
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alle misure future, i tagli di spesa potrebbero essere votati subito dal Parlamento,
rimandandone però avanti nel tempo l’entrata in vigore, e con un impegno di
legge (una clausola di salvaguardia) ad alzare le tasse di un ammontare
corrispondente se i tagli alla spesa dovessero essere abbandonati.
La strategia alternativa suggerita da Perotti – passi incrementali e simultanei
per ridurre spesa e tassazione allo stesso tempo – può funzionare in tempi
normali, ma, ritengono Giavazzi/Tabellini, è politicamente troppo difficile da
percorrere nelle attuali circostanze. Inoltre, e più importante, non coglie
assolutamente il punto centrale: in questo momento è necessario un importante
sforzo coordinato per far ripartire la domanda aggregata nell’Eurozona. Non si
può lasciare questo compito alla sola Bce, pena il fallimento.
4) Da ultimo, la posizione del CER, nel suo recente rapporto n.2 del 2014.
Le incertezze del quadro internazionale evidenziano i ritardi della politica
economica europea. La normalizzazione della politica monetaria statunitense e
l’aggiustamento dei paesi emergenti sono infatti fenomeni fisiologici rispetto agli
andamenti osservati negli ultimi sei anni, ma di fronte ad essi l’Eurozona si trova
in posizione di vulnerabilità. L’attenzione quasi esclusiva dedicata al tema della
restrizione fiscale e alle procedure di sorveglianza reciproca contribuisce infatti a
prolungare il vuoto di domanda interna, esponendo il ciclo europeo alle
fluttuazione del commercio mondiale. Allo stesso tempo, l’enfasi posta sulle
riforme strutturali perde di credibilità, perché gli effetti di queste ultime dipendono
strettamente dalla presenza di un ambiente espansivo esterno, come quello che
poté sfruttare la Germania nella prima parte del passato decennio.