la conquista dell'america. il problema dell'altro. tzvetan todorov

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1. T. TODOROV: VITA E PENSIERO. Fonte : Grande dizionario enciclopedico UTET . Vita Nato a Sofia nel 1939, Tzvetan Todorov, dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all'Ecole pratique des hautes études e alla Yale University. Attualmente, è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi. Pensiero Dopo i primi lavori di critica letteraria, l'interesse di Todorov si allarga alla filosofia del linguaggio, disciplina che egli concepisce come parte della semiotica o scienza del segno in generale. In questo contesto, Todorov cerca di cogliere la peculiarità del "simbolo", che va interpretato facendo ricorso, accanto al senso materiale dell'enunciazione, ad un secondo senso che si colloca nell'atto interpretativo. Con La conquista dell'America (1982), Todorov ha intrapreso una ricerca sulla categoria dell'alterità e sul rapporto tra individui appartenenti a culture e gruppi sociali diversi. Questo tema, che ha la sua lontana origine psicologica nella situazione di emigrato che Todorov si trova a vivere in Francia, trova la sua compiuta espressione in un ideale umanistico di razionalità, moderazione e tolleranza. 2. TODOROV, LA CONQUISTA DELLAMERICA: SCOPRIRE. Fonte : T. TODOROV , La conquista dell’America. Il problema dell’«altro» , Torino, Einaudi 1984 1

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Riassunto di La Conquista Dell'America. Il Problema Dell'Altro. Tzvetan Todorov

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Page 1: La Conquista Dell'America. Il Problema Dell'Altro. Tzvetan Todorov

1. T. TODOROV: VITA E PENSIERO.

Fonte : Grande dizionario enciclopedico UTET .

Vita

Nato a Sofia nel 1939, Tzvetan Todorov, dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia

filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all'Ecole pratique des hautes études e alla Yale

University. Attualmente, è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi.

Pensiero

Dopo i primi lavori di critica letteraria, l'interesse di Todorov si allarga alla filosofia del linguaggio,

disciplina che egli concepisce come parte della semiotica o scienza del segno in generale. In questo contesto,

Todorov cerca di cogliere la peculiarità del "simbolo", che va interpretato facendo ricorso, accanto al senso

materiale dell'enunciazione, ad un secondo senso che si colloca nell'atto interpretativo. Con La conquista

dell'America (1982), Todorov ha intrapreso una ricerca sulla categoria dell'alterità e sul rapporto tra

individui appartenenti a culture e gruppi sociali diversi. Questo tema, che ha la sua lontana origine

psicologica nella situazione di emigrato che Todorov si trova a vivere in Francia, trova la sua compiuta

espressione in un ideale umanistico di razionalità, moderazione e tolleranza.

2. TODOROV, LA CONQUISTA DELL’AMERICA: SCOPRIRE.

Fonte : T. TODOROV , La conquista dell’America. Il problema dell’«altro» , Torino, Einaudi 1984

La scoperta dell’America rappresenta un esempio paradigmatico della scoperta che l’io fa dell’Altro. Fu il

primo incontro con l’Altro: nella scoperta degli altri continenti, infatti, non ci fu questo sentimento di

estraneità radicale che accompagnò le spedizioni europee in America. Anche la scoperta della Luna, in

fondo, è stata meno radicale: non vi abbiamo incontrato nuove e differenti popolazioni!

Il primo personaggio presentato da Todorov è Colombo, che, paradossalmente, non si è mai accorto di avere

scoperto un nuovo continente. Scorrendo le pagine del suo diario di bordo, ci si può accorgere che, malgrado

la controversia scoppiata poi tra gli eredi del navigatore e la Corona spagnola, a Colombo il denaro

interessava relativamente. Ciò che gli stava davvero a cuore, infatti, era la diffusione della fede cristiana in

tutto il mondo, come dice egli stesso nel febbraio del 1502: "Spero di poter diffondere il santo nome di

Nostro Signore e il Suo vangelo in tutto l’universo". La religiosità di Colombo non è solo di facciata, ma è

autenticamente vissuta, tanto che, ad esempio, egli non viaggiava mai la domenica, e il suo bisogno di denaro

è anch’esso al servizio della diffusione del vero Dio: Colombo coltiva il sogno, in ritardo di diversi secoli, di

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bandire con i denari guadagnati nelle Americhe una nuova Crociata per liberare i luoghi santi di

Gerusalemme.

Colombo, alla partenza, non è certo che oltre le fatidiche “colonne d’Ercole” non vi sia l’abisso; dai diari e

dalle lettere emerge che, lentamente, nel corso della navigazione, individua i segni che avvalorano la sua

supposizione che, navigando verso ovest, possa giungere alla terraferma, a un vero e proprio continente (che,

per lui, doveva essere quello delle già note Indie): l’abbondanza di acqua dolce, l’autorità dei libri santi e

l’opinione degli uomini (i “cannibali”) da lui incontrati durante gli sbarchi successivi. Colombo, cioè,

visitando mari del tutto inesplorati e sconosciuti, cerca di trovare indizi, di interpretare i segni che gli si

pongono davanti: è un vero e proprio ermeneuta. Le diverse tipologie di indizi riscontrati rivelano che il

mondo di Colombo si articolava in tre sfere : una naturale, una divina ed una umana . Per noi, oggi, queste

tre sfere non possono essere messe sullo stesso piano. Colombo, invece, mentre naviga, nota segni naturali

della possibile vicinanza alla terraferma (come l’avvistamento di gabbiano o di un grande banco di alghe) e,

allo stesso tempo, è convinto di vedere da lontano tre sirene nel mare e di esser passato vicino al monte del

Paradiso terrestre!

Tutta la ricerca di Colombo serve a cercare conferme ad una verità giù conosciuta in anticipo: egli infatti,

sebbene impieghi circa un mese a raggiungere l’America dopo aver lasciato le Canarie, trova già a partire dal

16 settembre gli indizi di cui è alla ricerca, che gli indichino cioè la prossimità della terra: "Qui essi

cominciarono a vedere grande quantità d’alghe molto verdi che, come sembrava, non si erano staccate

molto tempo prima da terra"; ancora il 18, il 19, il 20 ed il 21 settembre, e poi sempre, tutti i giorni,

Colombo avvista segni della presenza della terra, malgrado essa sia ancora distante centinaia di miglia, tanto

che vi giungerà solo il 12 ottobre: in mare, tutti i segni indicano la prossimità della terra poiché tale è il suo

desiderio. L’osservazione attenta della natura, quindi, conduce Colombo a tre diversi esiti: all’interpretazione

pragmatica (nel caso di questioni di navigazione), a quella finalistica (quando i segni confermano le

credenze e le speranze già possedute), e al rifiuto di ogni interpretazione (nel caso dell’ammirazione

sconfinata per la bellezza delle specie animali e vegetali).

Colombo presta un’attenzione quasi esclusiva ai nomi propri. Nel corso di tutta la sua vita, dedicò al suo

nome ed alla sua firma un’attenzione quasi feticistica: cambiò il suo cognome in Colòn (che significa

ripopolatore) ed il suo nome in Cristòbal (cioè portatore di Cristo). Egli si dedica con grande vigore,

quasi da novello Adamo nel paradiso terrestre, ad assegnare ai luoghi che incontra i nomi "giusti" . Il

battesimo dei luoghi segue l’ordine di importanza di ciò (Dio, la Madonna, il re di Spagna, la regina,

l’infanta erede al trono) che è assegnato a quei nomi: la prima isola, quindi, è chiamata San Salvador, la

seconda Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina, la quarta Isabela e la quinta Juana. Colombo

vuole attribuire a quei luoghi i nomi "giusti" e contemporaneamente, attraverso il battesimo, prenderne

possesso; ad ogni isola incontrata, infatti, si ripeteva il medesimo cerimoniale: il navigatore scendeva con un

notaio munito di calamaio su una scialuppa con il vessillo della Corona spagnola e, sotto gli sguardi increduli

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e incuriositi degli indigeni, battezzava le isole, affinché queste divenissero possesso spagnolo attraverso un

atto ufficiale.

Per quanto riguarda la sfera della comunicazione umana, Colombo manca di attenzione per la lingua

dell’Altro, mostrando un’incomprensione totale per ciò che è completamente diverso dai propri

parametri di “civiltà”.Trovatosi di fronte a una lingua completamente diversa, egli non può fare altro

che negare che si tratti di una lingua. Quando incontra gli Indiani, scrive nel suo diario, il 12 ottobre: "A

Nostro Signore piacendo, al momento della partenza porterò sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così

che possano imparare a parlare"; in seguito, ammette che gli Indiani abbiano una lingua, ma si rifiuta di

crederla diversa e ritiene che gli indigeni usino le stesse parole degli europei, ma in una cattiva pronuncia.

Durante il primo viaggio, quindi, vi fu una totale incomprensione fra Spagnoli ed indiani. Gli indigeni, per

Colombo, sono anch’essi, in fondo, parte del paesaggio, come dimostra il fatto che i suoi accenni agli

abitanti delle isole siano inframmezzati alle sue notazioni sulla natura, come ad esempio in questo passo:

"Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di bene e in meglio, tanto per le terre, gli

alberi, i frutti e i fiori quanto per gli abitanti" (25 novembre 1492). Gli indiani, che si presentano come

fisicamente nudi, sono anche privi di ogni proprietà culturale, e sono caratterizzati dalla mancanza di

costumi, di riti e di religioni: "Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge"

(4 novembre 1492). L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nel migliore dei casi,

quello del collezionista di curiosità, tanto che, trovando per la prima volta delle costruzioni in pietra in

occasione del suo quarto viaggio, si accontenta che ne venga staccato un pezzo per ricordo. Per lui, è naturale

che questi indiani si somiglino tutti fra loro, privi come sono di ogni identità culturale: "Vennero molti di

questi abitanti, che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti" ; la cultura degli

indiani è quindi misconosciuta ed essi sono assimilati alla natura, venendo perciò ammirati,

analogamente a quanto Colombo faceva con le piante, i fiori e gli animali.

Colombo, nell’atteggiamento che ha verso gli indiani, si dibatte tra due posizioni: riconoscere gli indiani

come esseri umani completi o meno. Quando riconosce che gli indigeni sono uomoni con i suoi stessi diritti,

non riesce, però, considerarli come tali nella loro diversità: assimila la loro civiltà alla propria cultura, ossia

proietta i propri valori sugli altri (assimilazionismo). Quando, invece, tende riconoscere la differenza che li

separa dagli indigeni, traduce immediatamente questa differenza in inferiorità. Nell’ideologia di Colombo,

cioè, è ravvisabile un atteggiamento di egocentrismo: egli, cioè, identifica il proprio io e i propri valori con

l’universo. Nel momento in cui, quindi, riconosce gli Indios come uomini, vuole imporre loro nomi

Spagnoli, la lingua spagnola ed è animato dal desiderio di convertirli, evangelizzarli. Il navigatore genovese,

però, passò gradatamente dall’atteggiamento assimilazionista all’ideologia schiavista: non considerò più gli

Indios come popoli da evangelizzare, ma come esseri inferiori che dovevano essere schiavizzati. Egli, come

è noto, fu un fermo sostenitore della schiavitù degli indiani; anche quando non si trattava di schiavi,

comunque, il suo comportamento nei confronti degli indiani indica che egli li considera, in fondo, una sorta

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di oggetti viventi: nella sua passione naturalistica, Colombo, vuole riportare in Spagna esemplari di ogni

genere, alberi, uccelli, animali e indiani.

Com’è possibile, dunque, che Colombo abbia tenuto due atteggiamenti decisamente contraddittori, nei

confronti degli Indios? Il legame tra posizioni così diverse è dato dal fatto che, in realtà, entrambe si fondano

sul disconoscimento degli indiani e sul rifiuto di considerarli un soggetto con i nostri stessi diritti, ma

diverso da noi . Colombo, in fondo, ha scoperto l’America, ma non gli Americani…

3. ANTOLOGIA: Cristoforo Colombo e la percezione degli indiani

L’incapacità di comprendere le altrui culture e la convinzione della propria superiorità, sempre presenti

nelle descrizioni di Colombo e degli altri viaggiatori e conquistatori, sono state messe a nudo dal semiologo

bulgaro Tzvetan Todorov. Nelle seguenti pagine, lo studioso rileva che il navigatore genovese aveva

assimilato nativi incontrati nelle scoperte al paesaggio e alla natura, sottovalutando le loro religioni,

culture e leggi, ossia la loro qualità di uomini civili.

Fonte: T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Torino, Einaudi 1984.

“Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del paesaggio. I suoi

accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframmezzati alle sue notazioni sulla natura: fra gli uccelli e gli

alberi vi sono anche gli uomini. «Nell’interno vi sono molte miniere di metalli e innumerevoli abitanti»

(Lettera a Santángel, febbraio-marzo 1493). «Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di

bene in meglio, tanto per le terre, gli alberi, i frutti e i fiori, quanto per gli abitanti» (Giornale di bordo, 25

novembre 1492). «Quattro o cinque di queste radici [...] sono molto gustose ed hanno lo stesso sapore delle

castagne. Ma qui sono molto piú grandi e migliori di quelle che aveva trovato nelle altre isole, e

l’Ammiraglio dice di averne trovate anche in Guinea, ma qui erano grandi come una coscia. Afferma anche,

di questa gente, che eran tutti robusti e valenti» (16 dicembre 1492). È chiaro in che modo vengono introdotti

gli esseri umani: per mezzo di una comparazione, che serve a descrivere le radici. «I marinai videro che le

donne maritate portavano mutandoni di cotone, ma non le ragazze, eccettuate alcune che avevano già

diciott’anni. C’erano dei mastini e altri piccoli cani, e videro un uomo che aveva nel naso un pezzo d’oro,

che poteva avere la grandezza di mezzo castellano [castigliano: moneta d’oro del regno di Castiglia]» (17

ottobre 1492): questa menzione dei cani in mezzo alle osservazioni sulle donne e sugli uomini indica bene il

registro nel quale questi saranno integrati.

Significativa è la prima menzione degli indiani: «Subito videro gente nuda» (11 ottobre 1492). Era vero, ma

è rivelatore che la prima caratteristica di quel popolo che colpisce Colombo sia la mancanza di abiti, i quali a

loro volta sono un simbolo di cultura (di qui l’interesse di Colombo per le persone vestite, che avrebbero

potuto essere un po’ meglio assimilate a ciò che si sapeva del Gran Khan; è un po’ deluso di aver trovato

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solo dei selvaggi). E la constatazione ritorna: «Vanno ignudi, uomini e donne, come le loro madri li hanno

partoriti» (6 novembre 1492). «Questo re e tutti gli altri andavano nudi come la loro madre li aveva fatti, e

cosí anche le donne, senza alcuna traccia di vergogna» (16 dicembre 1492): le donne, almeno, avrebbero

potuto fare uno sforzo... Le sue osservazioni si limitano, non di rado, all’aspetto fisico delle persone, alla loro

statura, al colore della pelle (molto piú apprezzato quando è piú chiaro, cioè piú simile al suo). «E sono del

colore degli abitanti delle Canarie, né neri né bianchi» (11 ottobre 1492). «Erano decisamente piú belli degli

altri; tra loro videro due giovani donne, bianche come spagnole» (13 dicembre 1492). «Ci sono alcune donne

molto belle» (21 dicembre 1492). E conclude con sorpresa che, benché nudi, gli indiani sembravano piú

simili a uomini che ad animali. [...]

Fisicamente nudi, gli indiani – agli occhi di Colombo – sono anche privi di ogni proprietà culturale: sono

caratterizzati, in qualche modo, dalla mancanza di costumi, di riti, di religione (e in ciò vi è una certa logica,

perché per un uomo come Colombo gli esseri umani si vestono in conseguenza della loro espulsione dal

paradiso terrestre, che è poi all’origine della loro identità culturale). C’è inoltre la sua abitudine di vedere le

cose cosí come gli conviene di vederle; ma è significativo che questa abitudine lo porti a costruirsi

l’immagine della nudità spirituale. «Mi parve che fossero gente molto povera di ogni cosa, – scrive in

occasione del primo incontro con gli indiani; e aggiunge: – Mi parve che non abbiano alcuna religione» (11

ottobre 1492). «Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge» (4 novembre

1492). «Non hanno religione e non sono idolatri» (27 novembre 1492). Già privi di lingua, gli indiani si

rivelano anche sprovvisti di leggi e di religione; e se hano una cultura materiale, essa non attira l’attenzione

di Colombo piú di quanto lo interessi la loro cultura spirituale: «Essi portavano delle balle di cotone filato,

pappagalli, lance e altra cosette, che sarebbe noioso mettere per iscritto» (13 ottobre 1492): l’importante,

naturalmente, era la presenza dei pappagalli. L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è,

nella migliore delle ipotesi, quello del collezionista di curiosità, e non si accompagna mai a un tentativo di

comprensione: osservando per la prima volta delle costruzioni in muratura (nel corso del suo quarto viaggio,

sulle coste dell’Honduras), si accontenta di ordinare che ne venga staccato un pezzo da conservare per

ricordo.

Non desta meraviglia che tutti questi indiani culturalmente vergini, pagina bianca in attesa dell’iscrizione

spagnola e cristiana, si somiglino fra loro. «Tutta questa gente è affine a quella già menzionata. Sono dello

stesso tipo, egualmente nudi e della medesima statura» (17 ottobre 1492). «Vennero molti di questi abitanti,

che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti» (22 ottobre 1492). «Questa gente,

dice l’Ammiraglio, ha gli stessi caratteri e gli stessi costumi di quella incontrata prima» (1° novembre 1492).

«Costoro sono simili agli altri che avevo trovato, dice l’Ammiraglio, e credono anch’essi che noi siamo

venuti dal cielo» (3 dicembre 1492). Gli indiani si assomigliano perché sono tutti nudi, privi di caratteri

distintivi.

Misconoscimento, dunque, della cultura degli indiani e loro assimilazione alla natura; con queste premesse,

non possiamo certo attenderci di trovare negli scritti di Colombo un ritratto particolareggiato della

popolazione. L’immagine ch’egli ce ne offre obbedisce, in parte, alle stesse regole che presiedono alla

descrizione della natura: Colombo ha deciso di ammirare tutto, e quindi in primo luogo la bellezza fisica.

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«Erano molto ben fatti, con corpi molto belli e volti molto graziosi» (11 ottobre 1492). «Tutti altissimi, gente

veramente bella» (13 ottobre 1492). «Erano gli uomini e le donne piú belli che avevano trovato sinora» (16

dicembre 1492).

Un autore come Pietro Martire, che riflette fedelmente le impressioni (o i fantasmi) di Colombo e dei suoi

primi compagni, si compiace di dipingere scene idilliache. Cosí, ad esempio, descrive le indiane che vengono

a salutare Colombo: «Erano tutte belle. Si sarebbe creduto di vedere quelle splendide naiadi o quelle ninfe

delle fontane tanto celebrate nell’antichità. Tenendo in mano grandi ciuffi di palme, che portavano mentre

eseguivano le loro danze accompagnandole col canto, piegarono le ginocchia e li presentarono all’adelantado

[comandante della spedizione].

Questa ammirazione, aprioristicamente decisa, si estende anche al campo morale. Sono brava gente, dichiara

di primo acchito Colombo, senza preoccuparsi di giustificare la sua affermazione. «Sono il miglior popolo

del mondo e soprattutto il piú dolce» (16 dicembre 1492). «L’Ammiraglio afferma che è impossibile credere

che qualcuno abbia mai visto un popolo con tanto cuore» (21 dicembre 1492). «Assicuro le Vostre Altezze

che al mondo non c’è gente o terra migliori di queste» (25 dicembre 1492): il facile nesso istituito fra uomini

e terre indica assai bene in quale spirito scrive Colombo, e quanta poca fiducia si debba attribuire al carattere

descrittivo delle sue affermazioni. Del resto, quando conoscerà un po’ meglio gli indiani, egli cadrà

nell’estremo opposto, senza per questo fornire informazioni piú degne di fede: naufrago in Giamaica, si vede

«circondato da un milione di selvaggi crudelissimi e a noi ostili» (Lettera rarissima, 7 luglio 1503). Certo, si

resta colpiti dal fatto che Colombo non trova – per caratterizzare gli indiani – aggettivi diversi dalla coppia

buono/cattivo, che in realtà non dice niente: non solo perché queste qualità dipendono da un determinato

punto di vista, ma anche perché corrispondono a stati momentanei e non a caratteristiche permanenti; non

sono il frutto del desiderio di conoscere, ma dell’apprezzamento pragmatico di una situazione.

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4. TODOROV, LA CONQUISTA DELL’AMERICA: CONQUISTARE.

Limitando la nostra attenzione alla conquista del Messico, vediamo anzitutto le tappe della

definitiva sconfitta dell’impero azteco. La spedizione di Cortés, iniziata nel 1519, è la terza che

tocca le coste messicane e coinvolge solo alcune centinaia di uomini.

Cortés guadagna alla sua causa le popolazioni di cui attraversa i territori (in particolare i tlxcaltechi,

che diverranno i suoi migliori alleati) ed entra a Città del Messico, la capitale dell’Impero azteco.

Dopo essere stato ben ricevuto, decide di far prigioniero il sovrano Montezuma; in seguito alla

morte misteriosa di quest’ultimo, Cortés decide di abbandonare nottetempo la città, ma viene

scoperto e metà del suo esercito annientata: è la cosiddetta Noche triste. Egli, allora, si ritira tra i

suoi alleati e ricostruisce il suo esercito, espugnando la città: per l’operazione di conquista sono

bastati appena due anni! Come fece Cortés a conquistare con un pugno di soldati un Impero forte di

centinaia di migliaia di uomini?

Per poter rispondere a questa domanda, si hanno tre tipi di fonti a disposizione:

1) i rapporti di Cortés al re di Spagna,

2) le cronache spagnole degli avvenimenti d’america,

3) i racconti indigeni, trascritti dai missionari Spagnoli o dai messicani.

Si possono fornire varie ipotesi sulle ragioni della vittoria di Cortés:

1) comportamento ambiguo ed esitante di Montezuma,

2) i dissidi interni tra fazioni indigene rivali, abilmente sfruttati da Cortés,

3) il carattere oppressivo dell’Impero azteco,

4) la superiorità delle armi spagnole,

5) la guerra “batteriologica”,

6) l’effetto-sorpresa.

1) Il comportamento ambiguo ed esitante di Montezuma. Montezuma, fino al momento della

sua morte, non oppone quasi nessuna resistenza a Cortés. In molte cronache, il sovrano azteco è

rappresentato come un uomo malinconico e rassegnato, che sente di espiare di persona un episodio

poco glorioso della storia azteca: gli Aztechi, infatti, avevano usurpato il trono ai Toltechi ed è

plausibile che questo "senso di colpa" collettivo abbia fatto immaginare a Moctezuma che gli

Spagnoli fossero i legittimi discendenti dei Toltechi, venuti a riprendersi i loro domini. Il

comportamento di Montezuma diviene veramente singolare all’arrivo dei soldati di Cortés a Città

del Messico: non solo egli si lascia imprigionare, ma, una volta prigioniero, cerca soltanto di

evitare ogni spargimento di sangue, senza cercare di approfittare della situazione per sbarazzarsi

degli Spagnoli.

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2) I dissidi interni tra le popolazioni indigene. L’operato del sovrano azteco ebbe sicuramente la

sua importanza nella mancata resistenza agli invasori, ma bisogna tener presente che egli morì nel

bel mezzo della guerra e che i suoi successori dichiararono immediatamente una guerra totale

contro gli Spagnoli. In questa seconda fase del conflitto, però, un ruolo decisivo viene giocato dai

contrasti tra le diverse popolazioni che abitano il Messico. Cortés sa sfruttare con grande

abilità i dissidi interni tra le popolazioni, tanto da avere, nella fase finale della campagna, un

esercito di alleati indiani numericamente equivalente a quello azteco, in cui gli Spagnoli svolgono

soltanto un ruolo logistico e di comando: migliaia di Indios a piedi sono comandati da una decina di

cavalieri Spagnoli!

3) Il carattere oppressivo dell’Impero azteco. Le donne, l’oro e le pietre preziose, che attirano la

rapacità degli Spagnoli, erano già prelevati dai funzionari di Moctezuma. Per le popolazioni che già

hanno subito la dura colonizzazione azteca, Cortés non incarnerà certo il male assoluto: questi

rappresentava soltanto un oppressore che si sostituiva a un altro o, meglio, la speranza di essere

salvati dal giogo della tirannia presente. Vi sono, dunque, moltissime somiglianze tra vecchi e

nuovi conquistatori. Gli Spagnoli, ad esempio, bruceranno i libri dei messicani e distruggeranno i

loro monumenti per eliminare ogni ricordo della passata grandezza, ma anche gli Aztechi avevano

fatto altrettanto: avevano distrutto i libri antichi, per poter riscrivere a modo loro la storia. Gli

Aztechi, poi, mostrano spesso di considerarsi i continuatori dei Toltechi; allo stesso modo, gli

Spagnoli manifestano una certa fedeltà al passato, conservando la stessa capitale (Tenochtitlàn,

ribattezzata “Città del Messico”) e utilizzando i registri fiscali dell’impero azteco. Cortés, cioè,

sembra cercare una legittimazione agli occhi della popolazione locale, conservando anche gli

stessi luoghi di culto e limitandosi a sostituire gli idoli con statue cristiane: "I maggiori di quegli

idoli […] io li abbattei e li scaraventai giù dalle scale; feci pulire le cappelle in cui stavano e misi in

esse statue della Madonna e di altri Santi" (Cortés).

4) La superiorità militare spagnola. Tra le cause della sconfitta aztecaè da annoverare la

superiorità degli Spagnoli in materia di armi. Gli Aztechi non conoscono la lavorazione dei metalli,

né la polvere da sparo; essi poi sono più lenti degli Spagnoli, che utilizzano i cavalli, sconosciuti

agli indigeni.

5) La guerra “batteriologica”. Senza saperlo, gli Spagnoli conducono una sorta di guerra

batteriologica, diffondendo tra gli indiani il vaiolo, che compie nelle file nemiche delle stragi

enormi.

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6) L’effetto-sorpresa. Gli Aztechi si trovano di fronte a un modo completamente nuovo di

condurre la guerra. Ignorano i cavalli, le armi da sparo; le stesse modalità belliche degli Spagnoli

sono completamente diverse. Per gli Indios, infatti, la guerra era soggetta a un vero e proprio

rituale bellico: si decideva in anticipo il tempo, il luogo e il modo di condurre una determinata

battaglia. Si lasciava sempre una striscia di terra deserta per le guerre e ci si ritrovava lì con gli

eserciti a un’ora stabilita! La battaglia iniziava sempre con un lancio di frecce; il capo era vestito

sontuosamente e facilmente riconoscibile. L’arma segreta degli indigeni era un abito di piume dai

poteri magici. Tali regole e credenze ebbero un esito fallimentare con gli Spagnoli, che erano

completamente diversi e imprevedibili. I racconti indiani danno alla domanda sulle ragioni della

sconfitta una risposta diversa: tutto è avvenuto perché gli Aztechi hanno perso il controllo della

comunicazione con gli dei. La parola degli dei è divenuta inintelligibile, come dice il libro delle

profezie indiano, il Chilam Balam: "La comprensione è perduta, la saggezza è perduta. Non c’era

più nessun gran maestro, nessun grande oratore, nessun gran sacerdote" . Leggendo queste parole,

dunque, viene il sospetto che, tra le ragioni della vittoria degli Spagnoli, vi sia anche la loro

padronanza dei segni. Spagnoli e Aztechi, infatti, praticano la comunicazione in modo diverso.

Comunicazione e civiltà presso gli Aztechi

Gli indiani dedicano tempo ed energia all’interpretazione dei messaggi, con tecniche elaborate di

divinazione. Possiedono un calendario religioso composto di tredici mesi di venti giorni ciascuno;

ognuno di questi giorni ha un suo carattere fasto o nefasto, che si trasmette alle persone nate in

corrispondenza di esso. Appena nasce un bambino, questi è portato da un professionista

dell’interpretazione, un indovino, che consulta il libro divinatorio (con un idolo in ogni casella) per

conoscere il destino del neonato. A questa forma di divinazione si affiancano i presagi: nelle storie

indiane, molti personaggi affermano di essere stati in comunicazione con gli dei e profetizzano

l’avvenire. Tutta la storia degli Aztechi è considerata come la realizzazione di profezie

antecedenti, quasi come se un evento non possa aver luogo senza essere stato prima profetizzato.

Per gli Aztechi, cioè, tutto è previsto e regolamentato: tutto è ordine. La concezione del tempo,

per gli Aztechi, è di tipo ciclico: il calendario si ripete con gli stessi avvenimenti e con la sua

successione di giorni fasti e nefasti. Anche gli eventi della collettività si ripetono con ricorrenza

ciclica. Le profezie, quindi, sono date dall’interpretazione di segni che fanno supporre che si

ripeterà un certo evento già successo in passato. La profezia è memoria. Il mondo è posto fin da

principio come determinato e gli uomini si adeguano a ciò con la minuziosa regolamentazione

della vita sociale. La parola chiave delle società indiana è "ordine", come si legge in una pagina

del Chilam Balam: "Essi conoscono l’ordine dei loro giorni. Completo era il mese, completo l’anno,

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completo il giorno, completa la notte. […] In buon ordine recitavano le preghiere, in buon ordine

cercavano i giorni fasti […]". Gli Aztechi poi non apprezzano certo l’opinione personale e

l’iniziativa individuale, come si evince dalla importanza attribuita alla famiglia, che permette di

capire bene la preminenza del sociale sull’individuale. E’ la società, tramite la casta sacerdotale, a

decidere le sorti dell’individuo, secondo una concezione organicistica della società: l’individuo è

considerato in funzione della collettività, come membro di un unico grande organismo che è

l’intera società. La stessa solidarietà familiare è sottomessa alle regole sociali: i legami famigliari

passano in secondo piano rispetto agli obblighi verso la società, tanto che i genitori accettano di

buon grado le punizioni che colpiscono le infrazioni dei figli, che pure essi amano sopra ogni cosa. I

genitori accettano di buon grado di sacrificare agli dei i figli più belli o dotati: il beneficio che ne

ricaverà la società conta più del dolore del singolo. Anche le distinzioni sociali sono molto

accentuate: il re non può essere guardato in volto da un suddito, pena la morte; ci sono insegne,

abiti, ornamenti e tipi di abitazione stabiliti per le diverse caste. L’uomo azteco, quindi, interpreta il

divino, il naturale e il sociale attraverso indizi e presagi, con l’ausilio di un professionista, il

sacerdote-indovino. Come aveva fatto colombo con gli indigeni incontrati, Montezuma rifiuta

fin dall’inizio di comunicare con gli Spagnoli: in lui, infatti, si associano la paura

dell’informazione ricevuta (l’avanzata spagnola) e la paura dell’informazione richiesta dagli altri,

specie quando essa riguarda la propria persona. Quando riceve l’informazione sull’avanzata dei

conquistadores, Montezuma punisce coloro che gliela recano, fallendo così sul piano dei rapporti

umani. Per avere consigli, poi, su come comportarsi con gli Spagnoli (cioè in questioni totalmente

umane), si rivolge ai suoi dèi. Perché questo modo inspiegabile di comportarsi? L’identità degli

Spagnoli è così diversa e il loro comportamento così imprevedibile , che l’intero sistema di

comunicazione azteco è sconvolto. Bernal Dìaz si chiede più volte cosa sarebbe stato di loro se gli

indiani avessero saputo quanto fossero pochi, deboli e spossati!

Si può riscontrare una conferma di tale atteggiamento nella costruzione, da parte degli indiani, dei

racconti della conquista: essi cominciano con l’enumerazione dei molti presagi che annunciano la

venuta degli Spagnoli, in modo così invariabile e preciso che si può sospettare fortemente che tali

profezie e presagi siano tutti posteriori agli effettivi anni della conquista. Le profezie e le cronache

indiane della conquista, cioè, sarebbero state scritte “a cose fatte”, quando la conquista era già

avvenuta! Gli Aztechi, cioè, abituati a vivere in un cosmo ordinato e completamente regolamentato,

sentono l’esigenza di spiegare la conquista, di renderla più accettabile, inserendola in una rete di

rapporti sovrannaturali, di modo che il presente, annunciato già dal passato, divenga intelligibile e

meno inammissibile: è considerata l’avveramento di una profezia. Al modo di comunicare degli

Aztechi, che trascura la comunicazione interumana per privilegiare il contatto con il mondo e il

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Page 11: La Conquista Dell'America. Il Problema Dell'Altro. Tzvetan Todorov

divino, è da ricondurre l’immagine che essi ebbero degli Spagnoli, ed in particolare l’idea che essi

fossero degli dèi. Mentre gli Aztechi riuscivano senza fatica a percepire le differenze tra loro stessi

e i tlaxcaltechi, giudicandoli inferiori e sottomessi, considerano l’alterità degli Spagnoli come

terribilmente radicale. Non riuscendo ad assimilare gli Spagnoli agli altri popoli di cui

avevano conoscenza, gli Aztechi rinunciano al loro sistema di alterità umane e si sentono

spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo possibile: la comunicazione con gli dèi.

Un altro elemento che giocò a sfavore degli Aztechi fu la loro incapacità di dissimulare la verità.

Questa incapacità si vede bene, ad esempio, dal fatto che essi, prima di impegnarsi in battaglia,

lanciano un grido di guerra, che ottiene in pratica solo l’effetto di rivelare la loro presenza. Cortés

riesce a vincere una battaglia decisiva proprio grazie a questa incapacità di dissimulazione degli

indiani: "Cortés, aprendosi un cammino tra gli indiani, riusciva a meraviglia ad individuare e ad

uccidere i loro capi, riconoscibili per i loro scudi d’oro" (F. de Aguilar). Secondo gli Aztechi, cioè, i

segni del linguaggio (le parole) sono fatti per indicare gli oggetti in modo chiaro e

inequivocabile e non possono essere manipolati. Tale caratteristica della comunicazione azteca è

all’origine della leggenda secondo la quale gli indiani sono un popolo che ignora la menzogna: Las

Casas insiste sulla totale mancanza di doppiezza da parte degli indiani. Quando entrano nella

capitale azteca, i conquistadores dichiarano ipocritamente di volere la pace e poi saccheggiano la

città. Gli Aztechi, invece, avevano creduto al discorso: non usano l’arte della dissimulazione, della

menzogna. C’era, addirittura, una Legge di Montezuma, che puniva con la morte i bugiardi; anche

se la menzogna era di lieve entità, il bugiardo era trascinato per le strade!

Cortés e la comunicazione

Cortés è il primo, fra tutti i conquistadores, ad avere una coscienza politica e storica dei suoi atti:

non appena sente parlare dell’esistenza del regno di Moctezuma,

decide di non accontentarsi di estorcere ricchezze, ma di

sottomettere quel regno. La prima cosa che egli vuole fare non è

prendere, ma comprendere: la sua spedizione comincia, infatti, con

la ricerca di informazioni, non di oro. Il primo atto che compie è

proprio cercarsi un interprete, deducendo, dal fatto che alcuni

indiani usano parole spagnole, che vi siano Spagnoli naufraghi fra

loro e che dunque essi parlino la lingua degli indigeni. Fondamentale

è la figura di Dona Marina, più comunemente conosciuta come "la

Malinche", un’indiana offerta in dono agli Spagnoli, che diventa

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un’intima collaboratrice di Cortés: il suo ruolo è ben superiore a quello di una semplice interprete,

poiché ella fu indispensabile agli Spagnoli per la sua conoscenza delle usanze e dei costumi

Aztechi, come ben mostrano anche i racconti indiani, che spesso la raffigurano, durante gli incontri tra

Moctezuma e Cortés, al centro dell’immagine e molto più grande dei due personaggi. La Maliche è,

secondo Todorov, il primo esempio di ibridazione delle culture: né azteca né spagnola, ma sia azteca che

spagnola, anticipa quelli che saranno i caratteri del moderno Stato messicano. Cortés, dunque, una volta

postosi nelle condizioni di comprendere la lingua degli indiani, non perde nessuna occasione per raccogliere

nuove informazioni; grazie a questo sistema informativo efficientissimo, viene presto a sapere dell’esistenza

di dissensi interni fra gli indiani e li sfrutta a suo vantaggio: la conquista delle informazioni porta alla

conquista del regno. La comunicazione limitata degli indiani, dedicata esclusivamente allo scambio con gli

dei, lascia negli Spagnoli il posto ad una comunicazione umana, in cui l’altro è chiaramente riconosciuto,

anche se non stimato uguale: la presenza di uno spazio chiaramente riservato agli altri, nell’universo

mentale degli Spagnoli, è emblematicamente dimostrato dal loro costante desiderio di comunicare, che si

contrappone alle reticenze di Moctezuma. Il solo fatto di assumere un ruolo attivo nel processo di

comunicazione, assicura agli Spagnoli una superiorità incontestabile: essi sono i soli ad agire, mentre

gli Aztechi si limitano a reagire.

La migliore prova della capacità di Cortés di comprendere ed utilizzare il linguaggio dell’altro è data dalla

sua partecipazione all’elaborazione del mito del ritorno di Quetzalcoatl. Nei racconti indiani anteriori alla

conquista, questi è contemporaneamente un personaggio storico e una divinità; costretto ad abbandonare il

suo regno e a partire verso est, promette di tornare un giorno per riprendere possesso dei suoi beni. Il suo

mito non aveva, nell’antica mitologia indiana, un ruolo essenziale, ma era solo quello di una divinità tra

molte altre.I racconti indiani posteriori alla conquista, invece, ci informano che Moctezuma scambiò Cortés

per Quetzalcoatl, tornato a riprendersi il suo regno, e attribuiscono a questa identificazione un ruolo decisivo

nella mancata resistenza all’avanzata degli Spagnoli. Cortés, consapevole che la radicale differenza tra

Spagnoli ed indiani faceva nascere l’idea che essi fossero degli dèi, seppe inserire l’anello mancante,

spiegando anche "quali dèi" fossero, e mettendo in rapporto il mito, fino ad allora marginale, del ritorno di

Quetzalcoatl con la loro venuta. Da cosa si può dedurre l’operazione di Cortés? Sono le sue stesse lettere

all’imperatore Carlo V (che ra anche re di Spagna) a mostrarcelo, quando dichiara: "nel modo che mi parve

più conveniente, specialmente per fargli credere che Vostra Maestà era appunto colui che essi attendevano"

(Cortés). Se non si può esser certi che Cortés sia stato il responsabile dell’identificazione tra Quetzalcoatl e

gli Spagnoli, egli ha sicuramente fatto del suo meglio perché la cosa fosse creduta. Tale credenza, infatti,

legittima Cortés agli occhi degli indiani, e fornisce loro un mezzo per razionalizzare la loro storia, giacché,

altrimenti, la sua venuta sarebbe apparsa inspiegabile e la resistenza sarebbe stata sicuramente ben più

accanita. Cortés, quindi, si assicura il controllo dell’impero azteco in virtù della sua padronanza dei

segni degli uomini: la conquista dell’informazione porta alla conquista del regno.

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5. ANTOLOGIA: LA MALINCHE

Cortes e i segni

 Fonte: Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro.

 Tutti sono d’accordo nel riconoscere l’importanza del ruolo della Malinche. Cortés la considera un’alleata

indispensabile, come è dimostrato dal ruolo che egli attribuisce alla loro intimità fisica. Mentre, subito dopo

averla «ricevuta», l’aveva «offerta» a uno dei suoi luogotenenti (e la darà in sposa a un altro conquistador

dopo la resa di Città del Messico), la Malinche diventerà la sua amante nella fase decisiva, dalla partenza per

Città del Messico fino alla caduta della capitale azteca. Senza voler trarre delle conclusioni sul modo in cui

gli uomini decidono il destino delle donne, si può senz’altro dire che quella relazione fu motivata da ragioni

strategiche e militari più che sentimentali: grazie ad essa, la Malinche poté assumere il suo ruolo essenziale.

Ma anche dopo la caduta di Città del Messico la vediamo ugualmente apprezzata: «Senza di lei Cortés non

poteva trattare alcun affare con gli indiani» (Bernal Diaz, 180). Anche questi ultimi vedono in lei qualcosa di

più di un interprete; tutti i racconti la menzionano frequentemente e la troviamo raffigurata in tutte le

immagini. Quella che illustra, nel Codice fiorentino, il primo incontro fra Cortés e Moctezuma è assai

caratteristica al riguardo: i due capi militari occupano i lati estremi dell’immagine, dominata dal personaggio

centrale della Malinche. Bernal Diaz riferisce a sua volta: «Doña Marina era donna di grande valore; aveva

un ascendente enorme su tutti gli indiani della Nuova Spagna» (37). E’ rivelatore anche il soprannome che

gli Aztechi danno a Cortés: lo chiamano... Malinche (una volta tanto, non è la donna che prende nome

dall’uomo).

Dopo l’indipendenza, i messicani hanno — in genere — disprezzato e biasimato la Malinche, divenuta

simbolo del tradimento dei valori autoctoni, della sottomissione servile alla cultura e al potere europei. E’

vero che la conquista del Messico sarebbe stata impossibile senza di lei (o di qualcun altro che avesse svolto

la medesima funzione), e che essa fu dunque responsabile di quanto avvenne. Ma io la vedo sotto una luce

assai diversa: la Malinche è il primo esempio, e quindi il simbolo, dell’ibridazione delle culture; come tale,

essa preannunzia il moderno Stato messicano e, al di là di esso, precorre una condizione che è oggi comune a

tutti, poiché, se non sempre siamo bilingui, siamo tutti inevitabilmente partecipi di due o tre culture. La

Malinche esalta la mescolanza a danno della purezza (azteca o spagnola) ed enfatizza il ruolo

dell’intermediario. Non si sottomette puramente e semplicemente all’altro (caso, purtroppo, molto più

comune: si pensi a tutte le giovani indiane, «offerte in dono» o meno, di cui si impadroniscono gli Spagnoli);

ne adotta l’ideologia e se ne serve per meglio comprendere la propria cultura, come dimostra l’efficacia del

suo comportamento (anche se «comprendere» serve, in questo caso, a «distruggere»).

Più tardi, molti Spagnoli imparano il nahuatl e Cortés se ne trova avvantaggiato. Per esempio, dona a

Moctezuma imprigionato un paggio che parla la sua lingua; l’informazione circola allora nei due sensi, ma

con risultati — nell’immediato — molto diseguali. «Poi Moctezuma chiese a Cortés un paggio spagnolo, che

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sapeva già la sua lingua; era costui un tal Orteguilla, che fu molto utile a tutti: a Moctezuma perché gli

raccontava molte cose di Castiglia, ed a noi perché ci riferiva tutto quel che diceva il re coi suoi messicani»

(Bernal Diaz, 95).

Postosi così in grado di comprendere la lingua, Cortés non trascura alcuna occasione per raccogliere nuove

informazioni. «Terminato il pasto, Cortés chiese loro, per mezzo dei nostri interpreti, alcune cose riguardanti

il loro signore Moctezuma» (Bernal Diaz, 61). «Cortés prese a parte i cacicchi e chiese loro notizie molto

particolareggiate su Città del Messico» (ibid., 78). Le sue domande sono legate direttamente alla condotta

della guerra. Dopo un primo scontro, interroga subito i capi dei vinti: «Come mai, essendo così numerosi,

erano fuggiti dinanzi a un piccolo numero di avversari?» (Gòmara, 22). Una volta ottenute le informazioni,

Cortés non manca mai di ricompensare generosamente chi gliel’ha fornite. E’ pronto ad ascoltare dei

consigli, anche se non sempre li segue (poiché le informazioni vanno interpretate).

Grazie a questo sistema informativo perfettamente efficiente Cortés viene a conoscere rapidamente e in

modo circostanziato l’esistenza di dissensi interni fra gli indiani, un fatto che — come abbiamo visto — ebbe

importanza decisiva per la vittoria finale. Fin dagli inizi della spedizione, egli è attentissimo a ogni notizia in

proposito. Quei dissensi erano effettivamente molto numerosi. Scrive Bernal Diaz: «Erano continuamente in

guerra, provincia contro provincia, villaggio contro villaggio» (208); e Motolinia ribadisce: «Quando

arrivarono gli Spagnoli, tutti i signori e tutte le province erano fra loro in aspro contrasto e in guerra continua

gli uni contro gli altri» (III, 1). Giunto a Tlaxcala, Cortés è particolarmente sensibile alla cosa: «Vista la

discordia e inimicizia degli uni contro gli altri, non ne ebbi poco piacere perché mi sembrò che mi venisse

molto utile per sottometterli più in fretta, secondo quel proverbio che dice: “dal bosco uscirà quel che

distruggerà il bosco”; e mi ricordai anche di un detto evangelico che dice: Omne regnum in seipsum divisum

desolabitur». E’ curioso notare come Cortés ami leggere questo principio dei Cesari nel libro dei cristiani!

Gli indiani arriveranno al punto di sollecitare l’intervento di Cortés nei loro conflitti interni, come scrive

Pietro Martire: «Speravano che, coperti da tali eroi, avrebbero avuto aiuto e protezione contro i loro vicini,

poiché soffrono anch’essi di quella malattia che non è mai scomparsa e che è, in qualche modo, innata

all’umanità: hanno, come gli altri uomini, la sete di dominio» (IV, 7). È proprio l’efficace conquista

dell’informazione che provoca la caduta finale dell’impero azteco: mentre Cuauhtemoc inalbera

imprudentemente le insegne reali sull’imbarcazione che dovrebbe consentirgli la fuga, gli ufficiali di Cortés

raccolgono immediatamente tutte le informazioni che lo riguardano e possono condurre alla sua cattura.

«Accortosi della fuga del re, Sandoval tralasciò di demolir case e barbacani e diede ordine ai brigantini

d’inseguir le piroghe» (Bernal Diaz, 156). «Garcìa de Olguin, comandante di uno dei brigantini, avendo

saputo — da un messicano fatto prigioniero — che la canoa che stava inseguendo aveva a bordo il re, le

diede una caccia cosi spietata che alla fine la raggiunse» (Ixtlilxochitl, XIII, 173). La conquista

dell’informazione porta alla conquista del regno.

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