la conquista dell'america. il problema dell'altro. tzvetan todorov
Embed Size (px)
DESCRIPTION
Riassunto di La Conquista Dell'America. Il Problema Dell'Altro. Tzvetan TodorovTRANSCRIPT

1. T. TODOROV: VITA E PENSIERO.
Fonte : Grande dizionario enciclopedico UTET .
Vita
Nato a Sofia nel 1939, Tzvetan Todorov, dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia
filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all'Ecole pratique des hautes études e alla Yale
University. Attualmente, è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi.
Pensiero
Dopo i primi lavori di critica letteraria, l'interesse di Todorov si allarga alla filosofia del linguaggio,
disciplina che egli concepisce come parte della semiotica o scienza del segno in generale. In questo contesto,
Todorov cerca di cogliere la peculiarità del "simbolo", che va interpretato facendo ricorso, accanto al senso
materiale dell'enunciazione, ad un secondo senso che si colloca nell'atto interpretativo. Con La conquista
dell'America (1982), Todorov ha intrapreso una ricerca sulla categoria dell'alterità e sul rapporto tra
individui appartenenti a culture e gruppi sociali diversi. Questo tema, che ha la sua lontana origine
psicologica nella situazione di emigrato che Todorov si trova a vivere in Francia, trova la sua compiuta
espressione in un ideale umanistico di razionalità, moderazione e tolleranza.
2. TODOROV, LA CONQUISTA DELL’AMERICA: SCOPRIRE.
Fonte : T. TODOROV , La conquista dell’America. Il problema dell’«altro» , Torino, Einaudi 1984
La scoperta dell’America rappresenta un esempio paradigmatico della scoperta che l’io fa dell’Altro. Fu il
primo incontro con l’Altro: nella scoperta degli altri continenti, infatti, non ci fu questo sentimento di
estraneità radicale che accompagnò le spedizioni europee in America. Anche la scoperta della Luna, in
fondo, è stata meno radicale: non vi abbiamo incontrato nuove e differenti popolazioni!
Il primo personaggio presentato da Todorov è Colombo, che, paradossalmente, non si è mai accorto di avere
scoperto un nuovo continente. Scorrendo le pagine del suo diario di bordo, ci si può accorgere che, malgrado
la controversia scoppiata poi tra gli eredi del navigatore e la Corona spagnola, a Colombo il denaro
interessava relativamente. Ciò che gli stava davvero a cuore, infatti, era la diffusione della fede cristiana in
tutto il mondo, come dice egli stesso nel febbraio del 1502: "Spero di poter diffondere il santo nome di
Nostro Signore e il Suo vangelo in tutto l’universo". La religiosità di Colombo non è solo di facciata, ma è
autenticamente vissuta, tanto che, ad esempio, egli non viaggiava mai la domenica, e il suo bisogno di denaro
è anch’esso al servizio della diffusione del vero Dio: Colombo coltiva il sogno, in ritardo di diversi secoli, di
1

bandire con i denari guadagnati nelle Americhe una nuova Crociata per liberare i luoghi santi di
Gerusalemme.
Colombo, alla partenza, non è certo che oltre le fatidiche “colonne d’Ercole” non vi sia l’abisso; dai diari e
dalle lettere emerge che, lentamente, nel corso della navigazione, individua i segni che avvalorano la sua
supposizione che, navigando verso ovest, possa giungere alla terraferma, a un vero e proprio continente (che,
per lui, doveva essere quello delle già note Indie): l’abbondanza di acqua dolce, l’autorità dei libri santi e
l’opinione degli uomini (i “cannibali”) da lui incontrati durante gli sbarchi successivi. Colombo, cioè,
visitando mari del tutto inesplorati e sconosciuti, cerca di trovare indizi, di interpretare i segni che gli si
pongono davanti: è un vero e proprio ermeneuta. Le diverse tipologie di indizi riscontrati rivelano che il
mondo di Colombo si articolava in tre sfere : una naturale, una divina ed una umana . Per noi, oggi, queste
tre sfere non possono essere messe sullo stesso piano. Colombo, invece, mentre naviga, nota segni naturali
della possibile vicinanza alla terraferma (come l’avvistamento di gabbiano o di un grande banco di alghe) e,
allo stesso tempo, è convinto di vedere da lontano tre sirene nel mare e di esser passato vicino al monte del
Paradiso terrestre!
Tutta la ricerca di Colombo serve a cercare conferme ad una verità giù conosciuta in anticipo: egli infatti,
sebbene impieghi circa un mese a raggiungere l’America dopo aver lasciato le Canarie, trova già a partire dal
16 settembre gli indizi di cui è alla ricerca, che gli indichino cioè la prossimità della terra: "Qui essi
cominciarono a vedere grande quantità d’alghe molto verdi che, come sembrava, non si erano staccate
molto tempo prima da terra"; ancora il 18, il 19, il 20 ed il 21 settembre, e poi sempre, tutti i giorni,
Colombo avvista segni della presenza della terra, malgrado essa sia ancora distante centinaia di miglia, tanto
che vi giungerà solo il 12 ottobre: in mare, tutti i segni indicano la prossimità della terra poiché tale è il suo
desiderio. L’osservazione attenta della natura, quindi, conduce Colombo a tre diversi esiti: all’interpretazione
pragmatica (nel caso di questioni di navigazione), a quella finalistica (quando i segni confermano le
credenze e le speranze già possedute), e al rifiuto di ogni interpretazione (nel caso dell’ammirazione
sconfinata per la bellezza delle specie animali e vegetali).
Colombo presta un’attenzione quasi esclusiva ai nomi propri. Nel corso di tutta la sua vita, dedicò al suo
nome ed alla sua firma un’attenzione quasi feticistica: cambiò il suo cognome in Colòn (che significa
ripopolatore) ed il suo nome in Cristòbal (cioè portatore di Cristo). Egli si dedica con grande vigore,
quasi da novello Adamo nel paradiso terrestre, ad assegnare ai luoghi che incontra i nomi "giusti" . Il
battesimo dei luoghi segue l’ordine di importanza di ciò (Dio, la Madonna, il re di Spagna, la regina,
l’infanta erede al trono) che è assegnato a quei nomi: la prima isola, quindi, è chiamata San Salvador, la
seconda Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina, la quarta Isabela e la quinta Juana. Colombo
vuole attribuire a quei luoghi i nomi "giusti" e contemporaneamente, attraverso il battesimo, prenderne
possesso; ad ogni isola incontrata, infatti, si ripeteva il medesimo cerimoniale: il navigatore scendeva con un
notaio munito di calamaio su una scialuppa con il vessillo della Corona spagnola e, sotto gli sguardi increduli
2

e incuriositi degli indigeni, battezzava le isole, affinché queste divenissero possesso spagnolo attraverso un
atto ufficiale.
Per quanto riguarda la sfera della comunicazione umana, Colombo manca di attenzione per la lingua
dell’Altro, mostrando un’incomprensione totale per ciò che è completamente diverso dai propri
parametri di “civiltà”.Trovatosi di fronte a una lingua completamente diversa, egli non può fare altro
che negare che si tratti di una lingua. Quando incontra gli Indiani, scrive nel suo diario, il 12 ottobre: "A
Nostro Signore piacendo, al momento della partenza porterò sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così
che possano imparare a parlare"; in seguito, ammette che gli Indiani abbiano una lingua, ma si rifiuta di
crederla diversa e ritiene che gli indigeni usino le stesse parole degli europei, ma in una cattiva pronuncia.
Durante il primo viaggio, quindi, vi fu una totale incomprensione fra Spagnoli ed indiani. Gli indigeni, per
Colombo, sono anch’essi, in fondo, parte del paesaggio, come dimostra il fatto che i suoi accenni agli
abitanti delle isole siano inframmezzati alle sue notazioni sulla natura, come ad esempio in questo passo:
"Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di bene e in meglio, tanto per le terre, gli
alberi, i frutti e i fiori quanto per gli abitanti" (25 novembre 1492). Gli indiani, che si presentano come
fisicamente nudi, sono anche privi di ogni proprietà culturale, e sono caratterizzati dalla mancanza di
costumi, di riti e di religioni: "Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge"
(4 novembre 1492). L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nel migliore dei casi,
quello del collezionista di curiosità, tanto che, trovando per la prima volta delle costruzioni in pietra in
occasione del suo quarto viaggio, si accontenta che ne venga staccato un pezzo per ricordo. Per lui, è naturale
che questi indiani si somiglino tutti fra loro, privi come sono di ogni identità culturale: "Vennero molti di
questi abitanti, che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti" ; la cultura degli
indiani è quindi misconosciuta ed essi sono assimilati alla natura, venendo perciò ammirati,
analogamente a quanto Colombo faceva con le piante, i fiori e gli animali.
Colombo, nell’atteggiamento che ha verso gli indiani, si dibatte tra due posizioni: riconoscere gli indiani
come esseri umani completi o meno. Quando riconosce che gli indigeni sono uomoni con i suoi stessi diritti,
non riesce, però, considerarli come tali nella loro diversità: assimila la loro civiltà alla propria cultura, ossia
proietta i propri valori sugli altri (assimilazionismo). Quando, invece, tende riconoscere la differenza che li
separa dagli indigeni, traduce immediatamente questa differenza in inferiorità. Nell’ideologia di Colombo,
cioè, è ravvisabile un atteggiamento di egocentrismo: egli, cioè, identifica il proprio io e i propri valori con
l’universo. Nel momento in cui, quindi, riconosce gli Indios come uomini, vuole imporre loro nomi
Spagnoli, la lingua spagnola ed è animato dal desiderio di convertirli, evangelizzarli. Il navigatore genovese,
però, passò gradatamente dall’atteggiamento assimilazionista all’ideologia schiavista: non considerò più gli
Indios come popoli da evangelizzare, ma come esseri inferiori che dovevano essere schiavizzati. Egli, come
è noto, fu un fermo sostenitore della schiavitù degli indiani; anche quando non si trattava di schiavi,
comunque, il suo comportamento nei confronti degli indiani indica che egli li considera, in fondo, una sorta
3

di oggetti viventi: nella sua passione naturalistica, Colombo, vuole riportare in Spagna esemplari di ogni
genere, alberi, uccelli, animali e indiani.
Com’è possibile, dunque, che Colombo abbia tenuto due atteggiamenti decisamente contraddittori, nei
confronti degli Indios? Il legame tra posizioni così diverse è dato dal fatto che, in realtà, entrambe si fondano
sul disconoscimento degli indiani e sul rifiuto di considerarli un soggetto con i nostri stessi diritti, ma
diverso da noi . Colombo, in fondo, ha scoperto l’America, ma non gli Americani…
3. ANTOLOGIA: Cristoforo Colombo e la percezione degli indiani
L’incapacità di comprendere le altrui culture e la convinzione della propria superiorità, sempre presenti
nelle descrizioni di Colombo e degli altri viaggiatori e conquistatori, sono state messe a nudo dal semiologo
bulgaro Tzvetan Todorov. Nelle seguenti pagine, lo studioso rileva che il navigatore genovese aveva
assimilato nativi incontrati nelle scoperte al paesaggio e alla natura, sottovalutando le loro religioni,
culture e leggi, ossia la loro qualità di uomini civili.
Fonte: T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Torino, Einaudi 1984.
“Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del paesaggio. I suoi
accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframmezzati alle sue notazioni sulla natura: fra gli uccelli e gli
alberi vi sono anche gli uomini. «Nell’interno vi sono molte miniere di metalli e innumerevoli abitanti»
(Lettera a Santángel, febbraio-marzo 1493). «Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di
bene in meglio, tanto per le terre, gli alberi, i frutti e i fiori, quanto per gli abitanti» (Giornale di bordo, 25
novembre 1492). «Quattro o cinque di queste radici [...] sono molto gustose ed hanno lo stesso sapore delle
castagne. Ma qui sono molto piú grandi e migliori di quelle che aveva trovato nelle altre isole, e
l’Ammiraglio dice di averne trovate anche in Guinea, ma qui erano grandi come una coscia. Afferma anche,
di questa gente, che eran tutti robusti e valenti» (16 dicembre 1492). È chiaro in che modo vengono introdotti
gli esseri umani: per mezzo di una comparazione, che serve a descrivere le radici. «I marinai videro che le
donne maritate portavano mutandoni di cotone, ma non le ragazze, eccettuate alcune che avevano già
diciott’anni. C’erano dei mastini e altri piccoli cani, e videro un uomo che aveva nel naso un pezzo d’oro,
che poteva avere la grandezza di mezzo castellano [castigliano: moneta d’oro del regno di Castiglia]» (17
ottobre 1492): questa menzione dei cani in mezzo alle osservazioni sulle donne e sugli uomini indica bene il
registro nel quale questi saranno integrati.
Significativa è la prima menzione degli indiani: «Subito videro gente nuda» (11 ottobre 1492). Era vero, ma
è rivelatore che la prima caratteristica di quel popolo che colpisce Colombo sia la mancanza di abiti, i quali a
loro volta sono un simbolo di cultura (di qui l’interesse di Colombo per le persone vestite, che avrebbero
potuto essere un po’ meglio assimilate a ciò che si sapeva del Gran Khan; è un po’ deluso di aver trovato
4

solo dei selvaggi). E la constatazione ritorna: «Vanno ignudi, uomini e donne, come le loro madri li hanno
partoriti» (6 novembre 1492). «Questo re e tutti gli altri andavano nudi come la loro madre li aveva fatti, e
cosí anche le donne, senza alcuna traccia di vergogna» (16 dicembre 1492): le donne, almeno, avrebbero
potuto fare uno sforzo... Le sue osservazioni si limitano, non di rado, all’aspetto fisico delle persone, alla loro
statura, al colore della pelle (molto piú apprezzato quando è piú chiaro, cioè piú simile al suo). «E sono del
colore degli abitanti delle Canarie, né neri né bianchi» (11 ottobre 1492). «Erano decisamente piú belli degli
altri; tra loro videro due giovani donne, bianche come spagnole» (13 dicembre 1492). «Ci sono alcune donne
molto belle» (21 dicembre 1492). E conclude con sorpresa che, benché nudi, gli indiani sembravano piú
simili a uomini che ad animali. [...]
Fisicamente nudi, gli indiani – agli occhi di Colombo – sono anche privi di ogni proprietà culturale: sono
caratterizzati, in qualche modo, dalla mancanza di costumi, di riti, di religione (e in ciò vi è una certa logica,
perché per un uomo come Colombo gli esseri umani si vestono in conseguenza della loro espulsione dal
paradiso terrestre, che è poi all’origine della loro identità culturale). C’è inoltre la sua abitudine di vedere le
cose cosí come gli conviene di vederle; ma è significativo che questa abitudine lo porti a costruirsi
l’immagine della nudità spirituale. «Mi parve che fossero gente molto povera di ogni cosa, – scrive in
occasione del primo incontro con gli indiani; e aggiunge: – Mi parve che non abbiano alcuna religione» (11
ottobre 1492). «Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge» (4 novembre
1492). «Non hanno religione e non sono idolatri» (27 novembre 1492). Già privi di lingua, gli indiani si
rivelano anche sprovvisti di leggi e di religione; e se hano una cultura materiale, essa non attira l’attenzione
di Colombo piú di quanto lo interessi la loro cultura spirituale: «Essi portavano delle balle di cotone filato,
pappagalli, lance e altra cosette, che sarebbe noioso mettere per iscritto» (13 ottobre 1492): l’importante,
naturalmente, era la presenza dei pappagalli. L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è,
nella migliore delle ipotesi, quello del collezionista di curiosità, e non si accompagna mai a un tentativo di
comprensione: osservando per la prima volta delle costruzioni in muratura (nel corso del suo quarto viaggio,
sulle coste dell’Honduras), si accontenta di ordinare che ne venga staccato un pezzo da conservare per
ricordo.
Non desta meraviglia che tutti questi indiani culturalmente vergini, pagina bianca in attesa dell’iscrizione
spagnola e cristiana, si somiglino fra loro. «Tutta questa gente è affine a quella già menzionata. Sono dello
stesso tipo, egualmente nudi e della medesima statura» (17 ottobre 1492). «Vennero molti di questi abitanti,
che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti» (22 ottobre 1492). «Questa gente,
dice l’Ammiraglio, ha gli stessi caratteri e gli stessi costumi di quella incontrata prima» (1° novembre 1492).
«Costoro sono simili agli altri che avevo trovato, dice l’Ammiraglio, e credono anch’essi che noi siamo
venuti dal cielo» (3 dicembre 1492). Gli indiani si assomigliano perché sono tutti nudi, privi di caratteri
distintivi.
Misconoscimento, dunque, della cultura degli indiani e loro assimilazione alla natura; con queste premesse,
non possiamo certo attenderci di trovare negli scritti di Colombo un ritratto particolareggiato della
popolazione. L’immagine ch’egli ce ne offre obbedisce, in parte, alle stesse regole che presiedono alla
descrizione della natura: Colombo ha deciso di ammirare tutto, e quindi in primo luogo la bellezza fisica.
5

«Erano molto ben fatti, con corpi molto belli e volti molto graziosi» (11 ottobre 1492). «Tutti altissimi, gente
veramente bella» (13 ottobre 1492). «Erano gli uomini e le donne piú belli che avevano trovato sinora» (16
dicembre 1492).
Un autore come Pietro Martire, che riflette fedelmente le impressioni (o i fantasmi) di Colombo e dei suoi
primi compagni, si compiace di dipingere scene idilliache. Cosí, ad esempio, descrive le indiane che vengono
a salutare Colombo: «Erano tutte belle. Si sarebbe creduto di vedere quelle splendide naiadi o quelle ninfe
delle fontane tanto celebrate nell’antichità. Tenendo in mano grandi ciuffi di palme, che portavano mentre
eseguivano le loro danze accompagnandole col canto, piegarono le ginocchia e li presentarono all’adelantado
[comandante della spedizione].
Questa ammirazione, aprioristicamente decisa, si estende anche al campo morale. Sono brava gente, dichiara
di primo acchito Colombo, senza preoccuparsi di giustificare la sua affermazione. «Sono il miglior popolo
del mondo e soprattutto il piú dolce» (16 dicembre 1492). «L’Ammiraglio afferma che è impossibile credere
che qualcuno abbia mai visto un popolo con tanto cuore» (21 dicembre 1492). «Assicuro le Vostre Altezze
che al mondo non c’è gente o terra migliori di queste» (25 dicembre 1492): il facile nesso istituito fra uomini
e terre indica assai bene in quale spirito scrive Colombo, e quanta poca fiducia si debba attribuire al carattere
descrittivo delle sue affermazioni. Del resto, quando conoscerà un po’ meglio gli indiani, egli cadrà
nell’estremo opposto, senza per questo fornire informazioni piú degne di fede: naufrago in Giamaica, si vede
«circondato da un milione di selvaggi crudelissimi e a noi ostili» (Lettera rarissima, 7 luglio 1503). Certo, si
resta colpiti dal fatto che Colombo non trova – per caratterizzare gli indiani – aggettivi diversi dalla coppia
buono/cattivo, che in realtà non dice niente: non solo perché queste qualità dipendono da un determinato
punto di vista, ma anche perché corrispondono a stati momentanei e non a caratteristiche permanenti; non
sono il frutto del desiderio di conoscere, ma dell’apprezzamento pragmatico di una situazione.
6

4. TODOROV, LA CONQUISTA DELL’AMERICA: CONQUISTARE.
Limitando la nostra attenzione alla conquista del Messico, vediamo anzitutto le tappe della
definitiva sconfitta dell’impero azteco. La spedizione di Cortés, iniziata nel 1519, è la terza che
tocca le coste messicane e coinvolge solo alcune centinaia di uomini.
Cortés guadagna alla sua causa le popolazioni di cui attraversa i territori (in particolare i tlxcaltechi,
che diverranno i suoi migliori alleati) ed entra a Città del Messico, la capitale dell’Impero azteco.
Dopo essere stato ben ricevuto, decide di far prigioniero il sovrano Montezuma; in seguito alla
morte misteriosa di quest’ultimo, Cortés decide di abbandonare nottetempo la città, ma viene
scoperto e metà del suo esercito annientata: è la cosiddetta Noche triste. Egli, allora, si ritira tra i
suoi alleati e ricostruisce il suo esercito, espugnando la città: per l’operazione di conquista sono
bastati appena due anni! Come fece Cortés a conquistare con un pugno di soldati un Impero forte di
centinaia di migliaia di uomini?
Per poter rispondere a questa domanda, si hanno tre tipi di fonti a disposizione:
1) i rapporti di Cortés al re di Spagna,
2) le cronache spagnole degli avvenimenti d’america,
3) i racconti indigeni, trascritti dai missionari Spagnoli o dai messicani.
Si possono fornire varie ipotesi sulle ragioni della vittoria di Cortés:
1) comportamento ambiguo ed esitante di Montezuma,
2) i dissidi interni tra fazioni indigene rivali, abilmente sfruttati da Cortés,
3) il carattere oppressivo dell’Impero azteco,
4) la superiorità delle armi spagnole,
5) la guerra “batteriologica”,
6) l’effetto-sorpresa.
1) Il comportamento ambiguo ed esitante di Montezuma. Montezuma, fino al momento della
sua morte, non oppone quasi nessuna resistenza a Cortés. In molte cronache, il sovrano azteco è
rappresentato come un uomo malinconico e rassegnato, che sente di espiare di persona un episodio
poco glorioso della storia azteca: gli Aztechi, infatti, avevano usurpato il trono ai Toltechi ed è
plausibile che questo "senso di colpa" collettivo abbia fatto immaginare a Moctezuma che gli
Spagnoli fossero i legittimi discendenti dei Toltechi, venuti a riprendersi i loro domini. Il
comportamento di Montezuma diviene veramente singolare all’arrivo dei soldati di Cortés a Città
del Messico: non solo egli si lascia imprigionare, ma, una volta prigioniero, cerca soltanto di
evitare ogni spargimento di sangue, senza cercare di approfittare della situazione per sbarazzarsi
degli Spagnoli.
7

2) I dissidi interni tra le popolazioni indigene. L’operato del sovrano azteco ebbe sicuramente la
sua importanza nella mancata resistenza agli invasori, ma bisogna tener presente che egli morì nel
bel mezzo della guerra e che i suoi successori dichiararono immediatamente una guerra totale
contro gli Spagnoli. In questa seconda fase del conflitto, però, un ruolo decisivo viene giocato dai
contrasti tra le diverse popolazioni che abitano il Messico. Cortés sa sfruttare con grande
abilità i dissidi interni tra le popolazioni, tanto da avere, nella fase finale della campagna, un
esercito di alleati indiani numericamente equivalente a quello azteco, in cui gli Spagnoli svolgono
soltanto un ruolo logistico e di comando: migliaia di Indios a piedi sono comandati da una decina di
cavalieri Spagnoli!
3) Il carattere oppressivo dell’Impero azteco. Le donne, l’oro e le pietre preziose, che attirano la
rapacità degli Spagnoli, erano già prelevati dai funzionari di Moctezuma. Per le popolazioni che già
hanno subito la dura colonizzazione azteca, Cortés non incarnerà certo il male assoluto: questi
rappresentava soltanto un oppressore che si sostituiva a un altro o, meglio, la speranza di essere
salvati dal giogo della tirannia presente. Vi sono, dunque, moltissime somiglianze tra vecchi e
nuovi conquistatori. Gli Spagnoli, ad esempio, bruceranno i libri dei messicani e distruggeranno i
loro monumenti per eliminare ogni ricordo della passata grandezza, ma anche gli Aztechi avevano
fatto altrettanto: avevano distrutto i libri antichi, per poter riscrivere a modo loro la storia. Gli
Aztechi, poi, mostrano spesso di considerarsi i continuatori dei Toltechi; allo stesso modo, gli
Spagnoli manifestano una certa fedeltà al passato, conservando la stessa capitale (Tenochtitlàn,
ribattezzata “Città del Messico”) e utilizzando i registri fiscali dell’impero azteco. Cortés, cioè,
sembra cercare una legittimazione agli occhi della popolazione locale, conservando anche gli
stessi luoghi di culto e limitandosi a sostituire gli idoli con statue cristiane: "I maggiori di quegli
idoli […] io li abbattei e li scaraventai giù dalle scale; feci pulire le cappelle in cui stavano e misi in
esse statue della Madonna e di altri Santi" (Cortés).
4) La superiorità militare spagnola. Tra le cause della sconfitta aztecaè da annoverare la
superiorità degli Spagnoli in materia di armi. Gli Aztechi non conoscono la lavorazione dei metalli,
né la polvere da sparo; essi poi sono più lenti degli Spagnoli, che utilizzano i cavalli, sconosciuti
agli indigeni.
5) La guerra “batteriologica”. Senza saperlo, gli Spagnoli conducono una sorta di guerra
batteriologica, diffondendo tra gli indiani il vaiolo, che compie nelle file nemiche delle stragi
enormi.
8

6) L’effetto-sorpresa. Gli Aztechi si trovano di fronte a un modo completamente nuovo di
condurre la guerra. Ignorano i cavalli, le armi da sparo; le stesse modalità belliche degli Spagnoli
sono completamente diverse. Per gli Indios, infatti, la guerra era soggetta a un vero e proprio
rituale bellico: si decideva in anticipo il tempo, il luogo e il modo di condurre una determinata
battaglia. Si lasciava sempre una striscia di terra deserta per le guerre e ci si ritrovava lì con gli
eserciti a un’ora stabilita! La battaglia iniziava sempre con un lancio di frecce; il capo era vestito
sontuosamente e facilmente riconoscibile. L’arma segreta degli indigeni era un abito di piume dai
poteri magici. Tali regole e credenze ebbero un esito fallimentare con gli Spagnoli, che erano
completamente diversi e imprevedibili. I racconti indiani danno alla domanda sulle ragioni della
sconfitta una risposta diversa: tutto è avvenuto perché gli Aztechi hanno perso il controllo della
comunicazione con gli dei. La parola degli dei è divenuta inintelligibile, come dice il libro delle
profezie indiano, il Chilam Balam: "La comprensione è perduta, la saggezza è perduta. Non c’era
più nessun gran maestro, nessun grande oratore, nessun gran sacerdote" . Leggendo queste parole,
dunque, viene il sospetto che, tra le ragioni della vittoria degli Spagnoli, vi sia anche la loro
padronanza dei segni. Spagnoli e Aztechi, infatti, praticano la comunicazione in modo diverso.
Comunicazione e civiltà presso gli Aztechi
Gli indiani dedicano tempo ed energia all’interpretazione dei messaggi, con tecniche elaborate di
divinazione. Possiedono un calendario religioso composto di tredici mesi di venti giorni ciascuno;
ognuno di questi giorni ha un suo carattere fasto o nefasto, che si trasmette alle persone nate in
corrispondenza di esso. Appena nasce un bambino, questi è portato da un professionista
dell’interpretazione, un indovino, che consulta il libro divinatorio (con un idolo in ogni casella) per
conoscere il destino del neonato. A questa forma di divinazione si affiancano i presagi: nelle storie
indiane, molti personaggi affermano di essere stati in comunicazione con gli dei e profetizzano
l’avvenire. Tutta la storia degli Aztechi è considerata come la realizzazione di profezie
antecedenti, quasi come se un evento non possa aver luogo senza essere stato prima profetizzato.
Per gli Aztechi, cioè, tutto è previsto e regolamentato: tutto è ordine. La concezione del tempo,
per gli Aztechi, è di tipo ciclico: il calendario si ripete con gli stessi avvenimenti e con la sua
successione di giorni fasti e nefasti. Anche gli eventi della collettività si ripetono con ricorrenza
ciclica. Le profezie, quindi, sono date dall’interpretazione di segni che fanno supporre che si
ripeterà un certo evento già successo in passato. La profezia è memoria. Il mondo è posto fin da
principio come determinato e gli uomini si adeguano a ciò con la minuziosa regolamentazione
della vita sociale. La parola chiave delle società indiana è "ordine", come si legge in una pagina
del Chilam Balam: "Essi conoscono l’ordine dei loro giorni. Completo era il mese, completo l’anno,
9

completo il giorno, completa la notte. […] In buon ordine recitavano le preghiere, in buon ordine
cercavano i giorni fasti […]". Gli Aztechi poi non apprezzano certo l’opinione personale e
l’iniziativa individuale, come si evince dalla importanza attribuita alla famiglia, che permette di
capire bene la preminenza del sociale sull’individuale. E’ la società, tramite la casta sacerdotale, a
decidere le sorti dell’individuo, secondo una concezione organicistica della società: l’individuo è
considerato in funzione della collettività, come membro di un unico grande organismo che è
l’intera società. La stessa solidarietà familiare è sottomessa alle regole sociali: i legami famigliari
passano in secondo piano rispetto agli obblighi verso la società, tanto che i genitori accettano di
buon grado le punizioni che colpiscono le infrazioni dei figli, che pure essi amano sopra ogni cosa. I
genitori accettano di buon grado di sacrificare agli dei i figli più belli o dotati: il beneficio che ne
ricaverà la società conta più del dolore del singolo. Anche le distinzioni sociali sono molto
accentuate: il re non può essere guardato in volto da un suddito, pena la morte; ci sono insegne,
abiti, ornamenti e tipi di abitazione stabiliti per le diverse caste. L’uomo azteco, quindi, interpreta il
divino, il naturale e il sociale attraverso indizi e presagi, con l’ausilio di un professionista, il
sacerdote-indovino. Come aveva fatto colombo con gli indigeni incontrati, Montezuma rifiuta
fin dall’inizio di comunicare con gli Spagnoli: in lui, infatti, si associano la paura
dell’informazione ricevuta (l’avanzata spagnola) e la paura dell’informazione richiesta dagli altri,
specie quando essa riguarda la propria persona. Quando riceve l’informazione sull’avanzata dei
conquistadores, Montezuma punisce coloro che gliela recano, fallendo così sul piano dei rapporti
umani. Per avere consigli, poi, su come comportarsi con gli Spagnoli (cioè in questioni totalmente
umane), si rivolge ai suoi dèi. Perché questo modo inspiegabile di comportarsi? L’identità degli
Spagnoli è così diversa e il loro comportamento così imprevedibile , che l’intero sistema di
comunicazione azteco è sconvolto. Bernal Dìaz si chiede più volte cosa sarebbe stato di loro se gli
indiani avessero saputo quanto fossero pochi, deboli e spossati!
Si può riscontrare una conferma di tale atteggiamento nella costruzione, da parte degli indiani, dei
racconti della conquista: essi cominciano con l’enumerazione dei molti presagi che annunciano la
venuta degli Spagnoli, in modo così invariabile e preciso che si può sospettare fortemente che tali
profezie e presagi siano tutti posteriori agli effettivi anni della conquista. Le profezie e le cronache
indiane della conquista, cioè, sarebbero state scritte “a cose fatte”, quando la conquista era già
avvenuta! Gli Aztechi, cioè, abituati a vivere in un cosmo ordinato e completamente regolamentato,
sentono l’esigenza di spiegare la conquista, di renderla più accettabile, inserendola in una rete di
rapporti sovrannaturali, di modo che il presente, annunciato già dal passato, divenga intelligibile e
meno inammissibile: è considerata l’avveramento di una profezia. Al modo di comunicare degli
Aztechi, che trascura la comunicazione interumana per privilegiare il contatto con il mondo e il
10

divino, è da ricondurre l’immagine che essi ebbero degli Spagnoli, ed in particolare l’idea che essi
fossero degli dèi. Mentre gli Aztechi riuscivano senza fatica a percepire le differenze tra loro stessi
e i tlaxcaltechi, giudicandoli inferiori e sottomessi, considerano l’alterità degli Spagnoli come
terribilmente radicale. Non riuscendo ad assimilare gli Spagnoli agli altri popoli di cui
avevano conoscenza, gli Aztechi rinunciano al loro sistema di alterità umane e si sentono
spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo possibile: la comunicazione con gli dèi.
Un altro elemento che giocò a sfavore degli Aztechi fu la loro incapacità di dissimulare la verità.
Questa incapacità si vede bene, ad esempio, dal fatto che essi, prima di impegnarsi in battaglia,
lanciano un grido di guerra, che ottiene in pratica solo l’effetto di rivelare la loro presenza. Cortés
riesce a vincere una battaglia decisiva proprio grazie a questa incapacità di dissimulazione degli
indiani: "Cortés, aprendosi un cammino tra gli indiani, riusciva a meraviglia ad individuare e ad
uccidere i loro capi, riconoscibili per i loro scudi d’oro" (F. de Aguilar). Secondo gli Aztechi, cioè, i
segni del linguaggio (le parole) sono fatti per indicare gli oggetti in modo chiaro e
inequivocabile e non possono essere manipolati. Tale caratteristica della comunicazione azteca è
all’origine della leggenda secondo la quale gli indiani sono un popolo che ignora la menzogna: Las
Casas insiste sulla totale mancanza di doppiezza da parte degli indiani. Quando entrano nella
capitale azteca, i conquistadores dichiarano ipocritamente di volere la pace e poi saccheggiano la
città. Gli Aztechi, invece, avevano creduto al discorso: non usano l’arte della dissimulazione, della
menzogna. C’era, addirittura, una Legge di Montezuma, che puniva con la morte i bugiardi; anche
se la menzogna era di lieve entità, il bugiardo era trascinato per le strade!
Cortés e la comunicazione
Cortés è il primo, fra tutti i conquistadores, ad avere una coscienza politica e storica dei suoi atti:
non appena sente parlare dell’esistenza del regno di Moctezuma,
decide di non accontentarsi di estorcere ricchezze, ma di
sottomettere quel regno. La prima cosa che egli vuole fare non è
prendere, ma comprendere: la sua spedizione comincia, infatti, con
la ricerca di informazioni, non di oro. Il primo atto che compie è
proprio cercarsi un interprete, deducendo, dal fatto che alcuni
indiani usano parole spagnole, che vi siano Spagnoli naufraghi fra
loro e che dunque essi parlino la lingua degli indigeni. Fondamentale
è la figura di Dona Marina, più comunemente conosciuta come "la
Malinche", un’indiana offerta in dono agli Spagnoli, che diventa
11

un’intima collaboratrice di Cortés: il suo ruolo è ben superiore a quello di una semplice interprete,
poiché ella fu indispensabile agli Spagnoli per la sua conoscenza delle usanze e dei costumi
Aztechi, come ben mostrano anche i racconti indiani, che spesso la raffigurano, durante gli incontri tra
Moctezuma e Cortés, al centro dell’immagine e molto più grande dei due personaggi. La Maliche è,
secondo Todorov, il primo esempio di ibridazione delle culture: né azteca né spagnola, ma sia azteca che
spagnola, anticipa quelli che saranno i caratteri del moderno Stato messicano. Cortés, dunque, una volta
postosi nelle condizioni di comprendere la lingua degli indiani, non perde nessuna occasione per raccogliere
nuove informazioni; grazie a questo sistema informativo efficientissimo, viene presto a sapere dell’esistenza
di dissensi interni fra gli indiani e li sfrutta a suo vantaggio: la conquista delle informazioni porta alla
conquista del regno. La comunicazione limitata degli indiani, dedicata esclusivamente allo scambio con gli
dei, lascia negli Spagnoli il posto ad una comunicazione umana, in cui l’altro è chiaramente riconosciuto,
anche se non stimato uguale: la presenza di uno spazio chiaramente riservato agli altri, nell’universo
mentale degli Spagnoli, è emblematicamente dimostrato dal loro costante desiderio di comunicare, che si
contrappone alle reticenze di Moctezuma. Il solo fatto di assumere un ruolo attivo nel processo di
comunicazione, assicura agli Spagnoli una superiorità incontestabile: essi sono i soli ad agire, mentre
gli Aztechi si limitano a reagire.
La migliore prova della capacità di Cortés di comprendere ed utilizzare il linguaggio dell’altro è data dalla
sua partecipazione all’elaborazione del mito del ritorno di Quetzalcoatl. Nei racconti indiani anteriori alla
conquista, questi è contemporaneamente un personaggio storico e una divinità; costretto ad abbandonare il
suo regno e a partire verso est, promette di tornare un giorno per riprendere possesso dei suoi beni. Il suo
mito non aveva, nell’antica mitologia indiana, un ruolo essenziale, ma era solo quello di una divinità tra
molte altre.I racconti indiani posteriori alla conquista, invece, ci informano che Moctezuma scambiò Cortés
per Quetzalcoatl, tornato a riprendersi il suo regno, e attribuiscono a questa identificazione un ruolo decisivo
nella mancata resistenza all’avanzata degli Spagnoli. Cortés, consapevole che la radicale differenza tra
Spagnoli ed indiani faceva nascere l’idea che essi fossero degli dèi, seppe inserire l’anello mancante,
spiegando anche "quali dèi" fossero, e mettendo in rapporto il mito, fino ad allora marginale, del ritorno di
Quetzalcoatl con la loro venuta. Da cosa si può dedurre l’operazione di Cortés? Sono le sue stesse lettere
all’imperatore Carlo V (che ra anche re di Spagna) a mostrarcelo, quando dichiara: "nel modo che mi parve
più conveniente, specialmente per fargli credere che Vostra Maestà era appunto colui che essi attendevano"
(Cortés). Se non si può esser certi che Cortés sia stato il responsabile dell’identificazione tra Quetzalcoatl e
gli Spagnoli, egli ha sicuramente fatto del suo meglio perché la cosa fosse creduta. Tale credenza, infatti,
legittima Cortés agli occhi degli indiani, e fornisce loro un mezzo per razionalizzare la loro storia, giacché,
altrimenti, la sua venuta sarebbe apparsa inspiegabile e la resistenza sarebbe stata sicuramente ben più
accanita. Cortés, quindi, si assicura il controllo dell’impero azteco in virtù della sua padronanza dei
segni degli uomini: la conquista dell’informazione porta alla conquista del regno.
12

5. ANTOLOGIA: LA MALINCHE
Cortes e i segni
Fonte: Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro.
Tutti sono d’accordo nel riconoscere l’importanza del ruolo della Malinche. Cortés la considera un’alleata
indispensabile, come è dimostrato dal ruolo che egli attribuisce alla loro intimità fisica. Mentre, subito dopo
averla «ricevuta», l’aveva «offerta» a uno dei suoi luogotenenti (e la darà in sposa a un altro conquistador
dopo la resa di Città del Messico), la Malinche diventerà la sua amante nella fase decisiva, dalla partenza per
Città del Messico fino alla caduta della capitale azteca. Senza voler trarre delle conclusioni sul modo in cui
gli uomini decidono il destino delle donne, si può senz’altro dire che quella relazione fu motivata da ragioni
strategiche e militari più che sentimentali: grazie ad essa, la Malinche poté assumere il suo ruolo essenziale.
Ma anche dopo la caduta di Città del Messico la vediamo ugualmente apprezzata: «Senza di lei Cortés non
poteva trattare alcun affare con gli indiani» (Bernal Diaz, 180). Anche questi ultimi vedono in lei qualcosa di
più di un interprete; tutti i racconti la menzionano frequentemente e la troviamo raffigurata in tutte le
immagini. Quella che illustra, nel Codice fiorentino, il primo incontro fra Cortés e Moctezuma è assai
caratteristica al riguardo: i due capi militari occupano i lati estremi dell’immagine, dominata dal personaggio
centrale della Malinche. Bernal Diaz riferisce a sua volta: «Doña Marina era donna di grande valore; aveva
un ascendente enorme su tutti gli indiani della Nuova Spagna» (37). E’ rivelatore anche il soprannome che
gli Aztechi danno a Cortés: lo chiamano... Malinche (una volta tanto, non è la donna che prende nome
dall’uomo).
Dopo l’indipendenza, i messicani hanno — in genere — disprezzato e biasimato la Malinche, divenuta
simbolo del tradimento dei valori autoctoni, della sottomissione servile alla cultura e al potere europei. E’
vero che la conquista del Messico sarebbe stata impossibile senza di lei (o di qualcun altro che avesse svolto
la medesima funzione), e che essa fu dunque responsabile di quanto avvenne. Ma io la vedo sotto una luce
assai diversa: la Malinche è il primo esempio, e quindi il simbolo, dell’ibridazione delle culture; come tale,
essa preannunzia il moderno Stato messicano e, al di là di esso, precorre una condizione che è oggi comune a
tutti, poiché, se non sempre siamo bilingui, siamo tutti inevitabilmente partecipi di due o tre culture. La
Malinche esalta la mescolanza a danno della purezza (azteca o spagnola) ed enfatizza il ruolo
dell’intermediario. Non si sottomette puramente e semplicemente all’altro (caso, purtroppo, molto più
comune: si pensi a tutte le giovani indiane, «offerte in dono» o meno, di cui si impadroniscono gli Spagnoli);
ne adotta l’ideologia e se ne serve per meglio comprendere la propria cultura, come dimostra l’efficacia del
suo comportamento (anche se «comprendere» serve, in questo caso, a «distruggere»).
Più tardi, molti Spagnoli imparano il nahuatl e Cortés se ne trova avvantaggiato. Per esempio, dona a
Moctezuma imprigionato un paggio che parla la sua lingua; l’informazione circola allora nei due sensi, ma
con risultati — nell’immediato — molto diseguali. «Poi Moctezuma chiese a Cortés un paggio spagnolo, che
13

sapeva già la sua lingua; era costui un tal Orteguilla, che fu molto utile a tutti: a Moctezuma perché gli
raccontava molte cose di Castiglia, ed a noi perché ci riferiva tutto quel che diceva il re coi suoi messicani»
(Bernal Diaz, 95).
Postosi così in grado di comprendere la lingua, Cortés non trascura alcuna occasione per raccogliere nuove
informazioni. «Terminato il pasto, Cortés chiese loro, per mezzo dei nostri interpreti, alcune cose riguardanti
il loro signore Moctezuma» (Bernal Diaz, 61). «Cortés prese a parte i cacicchi e chiese loro notizie molto
particolareggiate su Città del Messico» (ibid., 78). Le sue domande sono legate direttamente alla condotta
della guerra. Dopo un primo scontro, interroga subito i capi dei vinti: «Come mai, essendo così numerosi,
erano fuggiti dinanzi a un piccolo numero di avversari?» (Gòmara, 22). Una volta ottenute le informazioni,
Cortés non manca mai di ricompensare generosamente chi gliel’ha fornite. E’ pronto ad ascoltare dei
consigli, anche se non sempre li segue (poiché le informazioni vanno interpretate).
Grazie a questo sistema informativo perfettamente efficiente Cortés viene a conoscere rapidamente e in
modo circostanziato l’esistenza di dissensi interni fra gli indiani, un fatto che — come abbiamo visto — ebbe
importanza decisiva per la vittoria finale. Fin dagli inizi della spedizione, egli è attentissimo a ogni notizia in
proposito. Quei dissensi erano effettivamente molto numerosi. Scrive Bernal Diaz: «Erano continuamente in
guerra, provincia contro provincia, villaggio contro villaggio» (208); e Motolinia ribadisce: «Quando
arrivarono gli Spagnoli, tutti i signori e tutte le province erano fra loro in aspro contrasto e in guerra continua
gli uni contro gli altri» (III, 1). Giunto a Tlaxcala, Cortés è particolarmente sensibile alla cosa: «Vista la
discordia e inimicizia degli uni contro gli altri, non ne ebbi poco piacere perché mi sembrò che mi venisse
molto utile per sottometterli più in fretta, secondo quel proverbio che dice: “dal bosco uscirà quel che
distruggerà il bosco”; e mi ricordai anche di un detto evangelico che dice: Omne regnum in seipsum divisum
desolabitur». E’ curioso notare come Cortés ami leggere questo principio dei Cesari nel libro dei cristiani!
Gli indiani arriveranno al punto di sollecitare l’intervento di Cortés nei loro conflitti interni, come scrive
Pietro Martire: «Speravano che, coperti da tali eroi, avrebbero avuto aiuto e protezione contro i loro vicini,
poiché soffrono anch’essi di quella malattia che non è mai scomparsa e che è, in qualche modo, innata
all’umanità: hanno, come gli altri uomini, la sete di dominio» (IV, 7). È proprio l’efficace conquista
dell’informazione che provoca la caduta finale dell’impero azteco: mentre Cuauhtemoc inalbera
imprudentemente le insegne reali sull’imbarcazione che dovrebbe consentirgli la fuga, gli ufficiali di Cortés
raccolgono immediatamente tutte le informazioni che lo riguardano e possono condurre alla sua cattura.
«Accortosi della fuga del re, Sandoval tralasciò di demolir case e barbacani e diede ordine ai brigantini
d’inseguir le piroghe» (Bernal Diaz, 156). «Garcìa de Olguin, comandante di uno dei brigantini, avendo
saputo — da un messicano fatto prigioniero — che la canoa che stava inseguendo aveva a bordo il re, le
diede una caccia cosi spietata che alla fine la raggiunse» (Ixtlilxochitl, XIII, 173). La conquista
dell’informazione porta alla conquista del regno.
14