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LA BATTAGLIA DI CAPORETTO E LA TESTIMONIANZA DEL FANTE BOLOGNESE LUIGI MELLONI di Angelo Nataloni 1 – Mappa della Battaglia di Caporetto Caporetto ha messo in luce le pecche nella strategia militare italiana ha fatto emergere l'inettitudine di Cadorna e più in generale l'incapacità degli alti comandi militari di rispondere prontamente ad una situazione

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LA BATTAGLIA DI CAPORETTO E LA TESTIMONIANZA

DEL FANTE BOLOGNESE LUIGI MELLONI

di Angelo Nataloni

1 – Mappa della Battaglia di Caporetto

Caporetto ha messo in luce le pecche nella strategia militare italiana

ha fatto emergere l'inettitudine di Cadorna e più in generale l'incapacità

degli alti comandi militari di rispondere prontamente ad una situazione

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di emergenza e ha provocato gravi ripercussioni politiche. Tuttavia non

si tratta di un disastro, ma di una clamorosa e dolorosa sconfitta inflitta

all'esercito italiano, certamente con le sue gravi implicazioni, ma è

sempre e solo una sconfitta militare. Infatti sul Piave, sul Grappa e poi

a Vittorio Veneto gli stessi italiani "stanchi, demoralizzati e mal

comandati" rimanderanno indietro quegli stessi austriaci che tanto

abilmente erano riusciti ad arrivare in pochi giorni fino al Piave.

Alle 2 della mattina del 24 ottobre 1917 una rapida e poderosa

sequenza di cannonate, proveniente dall'artiglieria austro-tedesca,

assedia il fronte italiano stanziato sul fiume Isonzo. Pochi minuti dopo

un gas sconosciuto si propaga lentamente, ma inesorabilmente sulle

nostre truppe rendendo inutile l'uso delle maschere antigas in

dotazione. Non è una delle solite azioni offensive, è il segno evidente di

un imminente e massiccio assalto nemico. Ci troviamo sul fronte Giulio.

Le Alpi Giulie costituiscono a est la linea di confine tra il Regno d'Italia e

l'impero asburgico d'Austria e Ungheria ed il fiume Isonzo è quasi

interamente in mani italiane. In tutto sono schierate 63 divisioni per un

totale di circa 1.800.000 uomini. Sono disposti su tre linee: quella di

difesa avanzata, la più esposta, quella di difesa ad oltranza, in mezzo, e

quella d'armata, la più arretrata. Lo schieramento di difesa più

avanzato, scende dal monte Rombon nella valle di Plezzo, si inerpica

nuovamente sul monte Nero, scende ancora fino alla cittadina di

Tolmino. E giunge all'altopiano della Bainsizza. E' tra Plezzo e Tolmino

che avviene il bombardamento, proprio in quella zona dove fino a poche

ore prima si è perpetrata una estenuante guerra di trincea. I soldati

sono immersi nel fango fino alle ginocchia, logorati nel fisico e nel

morale, da mesi e mesi vivono in condizioni igieniche deplorevoli, senza

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potersi né cambiare né lavare, esposti alle intemperie e ai periodici

attacchi avversari. Non sono mai usciti dalla trincea, salvo che per

compiere qualche azione pericolosa di ricognizione notturna o per

lanciarsi all'attacco delle trincee nemiche e morire sotto i colpi delle

raffiche delle mitragliatrici austriache.

Soldati italiani in ritirata

Quel mattino del 24 ottobre il gas e i colpi dell'artiglieria nemica non

danno tregua, soprattutto nella conca di Plezzo il gas, ristagnando, si

rivela devastante. Si tratta di acido cianidrico in alta concentrazione,

mortale istantaneamente per paralisi del centro respiratorio cerebrale.

Alle 4.30 tutto tace e cala sulle truppe un insolito silenzio, di attesa e di

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indecisione. Alle 6.30 scoppia nuovamente e improvvisamente l'inferno.

Questa volta l'artiglieria italiana risponde prontamente, ma c'è la nebbia

che crea un ostacolo non indifferente e impedisce di accorgersi che le

truppe austriache guidate dal comandante tedesco Otto von Below,

stanno avanzando lentamente, ma con decisione a ridosso del fronte

italiano. Non incedono in ranghi numerosi, rumorosi e facilmente

individuabili; avanzano in plotoni ristretti, più agili, cercando di

rompere lo schieramento italiano in più punti, penetrare il più possibile

senza preoccuparsi di fortificare le postazioni conquistate o fare

prigionieri, quindi sorprendere alle spalle i soldati rimasti a difendere il

fronte. Sono aiutati dalle asperità del terreno e dal fuoco intenso che li

precede e hanno in dotazione non solo gli ingombranti e pesanti fucili

usati anche dal nostro esercito, ma nuove e leggere mitragliatrici. Il

preciso piano di attacco nemico, si saprà in seguito, è quello di sfondare

in conca di Plezzo e a Za Kraiu, puntando su Saga e Caporetto,

immettersi nella val Natisone e arrivare a Cividale. Più a sud, attaccare

frontalmente il monte Jeza, conquistare tutta la catena del Kolovrat,

entrare nella valle del fiume Judrio, accerchiare la Bainsizza e arrivare a

Korada. Le linee telefoniche del nostro fronte, indispensabili per

coordinare l'azione tra i vari corpi d'armata, saltano una dopo l'altra in

quanto non sono state interrate né protette con tubi di piombo. Inoltre

tutta la rete di comunicazione è mal predisposta. Saltano anche

ricoveri, magazzini e caverne. Alle 8 l'assalto finale. Gli alpini del monte

Rombon riescono a resistere per ore all'attacco, ma nella valle

dell'Isonzo l'avanzata nemica, tra cadaveri e trincee abbandonate, è

implacabile. Alla destra del fronte i bosniaci aprono via via varchi

sempre più ampi sbaragliando la brigata Caltanissetta e la brigata

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Alessandria e riescono a raggiungere facilmente Gabrie e Volarie. Le

postazioni italiane sotto il monte Mrzli e il monte Vodil, famose perché

considerate inespugnabili si rivelano una trappola: ogni colpo

d'artiglieria provoca frane verso valle e la presenza della nebbia, che

impedisce la visibilità, favorisce chi attacca dall'alto. Alle 12.15 i

bosniaci e gli slesiani arrivano a Kamno puntando verso il ponte di

Caporetto.

Dal nord i tedeschi raggiungono Idersko con facilità e alle 15.30 sono

a Caporetto dove il capitano Platania ha appena dato l'ordine di far

saltare il ponte di ferro. Slesiani e tedeschi si ricongiungono e

proseguono uniti nella penetrazione: Staro, Stelo, Robic, Creda, 27

chilometri in cui fanno 10.000 prigionieri. Entro mezzogiorno anche i

monti Podklabuc, Jeza e Krad Vrh sono espugnati. Gli alpini italiani pur

opponendosi strenuamente sono in inferiorità numerica, sterminati dal

gas o debilitati dal lungo combattimento a cui, su quel tratto, non sono

abituati. L'unica parte del fronte dove non avviene lo sfondamento delle

nostre linee, è quella dell'Alta Bainsizza, a sinistra dell'Isonzo, ma una

logorante difesa ci costa la perdita di un migliaio di uomini tra morti e

feriti. In ogni caso, la difesa è nel complesso debole e insufficiente.

L'artiglieria è fiacca e disordinata, praticamente innocua per

l'avversario.

Ma ciò che incide maggiormente sull'esito della battaglia è la

disorganizzazione con cui viene diretto l'intero esercito. Fin dal 21

ottobre due disertori rumeni avevano rivelato con sufficiente precisione

le intenzioni degli austriaci di attaccare alle due della mattina, ma

nonostante queste avvisaglie, da parte italiana non viene studiato alcun

piano di difesa. I comandi intermedi vengono colti di sorpresa e in

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mancanza di ordini dall'alto (solo in parte per colpa delle linee di

comunicazione saltate) o si danno alla fuga, lasciando soli i battaglioni o

rimangono coraggiosamente con i propri uomini, ma inutilmente. Il

risultato è che viene spalancata la strada agli austriaci. In un modo o

nell'altro la maggior parte fugge e una fiumana di soldati si riversa nelle

strade principali per scendere a fondovalle, verso Caporetto. E' la rotta.

Alle 18 finalmente arrivano precisi ordini direttamente dal Capo di Stato

maggiore dell'Esercito e Comandante supremo militare, generale Luigi

Cadorna. E' necessario rinforzare le linee arretrate e le vette dei monti

retrostanti con le riserve e, nel caso di un cedimento ulteriore, tutte le

forze si dovranno attestare sul Tagliamento, cercando però di resistere il

più possibile sul fiume Torre. Ma le riserve sono scarse. Cadorna ha

infatti costipato di uomini, magazzini e materiale bellico le prime linee

del fronte allo scopo di portare avanti una strategia di combattimento di

tipo esclusivamente offensivo (le famose "spallate" in avanti). Nel caso ci

fosse necessità di difendersi, gli ordini sono quelli di resistere per

presidiare anche l'ultimo palmo di terra con l'ultimo uomo disponibile.

Dunque di forze fresche disponibili ve ne sono ben poche. Inoltre quelli

che riescono a ritirarsi, non trovando punti di appoggio negli

schieramenti più arretrati quasi inesistenti, sono costretti a cercare

rifugio sempre più indietro. Più in generale manca un piano di ritirata.

E ormai, comunque, per qualunque tipo di strategia è troppo tardi.

Il cedimento presso Caporetto della II Armata sotto il comando del

generale Luigi Capello, mette a repentaglio tutta la zona a sinistra della

Carnia col rischio di una discesa degli austro-tedeschi lungo la valle del

Torre, del Natisone e dello Judrio e quindi l'aggiramento dell'esercito

italiano stanziato nel Carso e forse nell'intero Trentino. Nel frattempo la

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fuga di massa continua: soldati che corrono a presidiare il Piave prima

che vi sopraggiunga il nemico, civili che scappano abbandonando le

proprie abitazioni di fronte all'avanzata nemica, i vinti che, gettate le

armi e strappate le mostrine dalle divise per paura di essere rispediti a

combattere, si mescolano ai civili.

Soldati italiani che avanzano per tamponare, mentre i civili abbandonano

le loro case all’invasore

In tutto si contano tra i due e i tre milioni di uomini in movimento

mentre il Friuli appare come un enorme campo di battaglia: roghi ed

incendi vengono appiccati un po' ovunque dagli invasori o dagli italiani

che tentano di distruggere i depositi di munizioni; saccheggi e

depredazioni compiute dai fuggitivi per la sopravvivenza durante la

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fuga, si mescolano ad atti di vandalismo puro; tedeschi e austriaci

ubriachi si danno allo scasso di negozi e abitazioni e non mancano casi

in cui fraternizzano con italiani sbandati allo scopo di rubare e fare

razzia. Gli alti comandi dell'esercito rispondono immediatamente a

questa situazione con dure repressioni e fucilazioni di civili o soldati

sorpresi a rubare, applicando anche in questa circostanza

l'atteggiamento di ferreo autoritarismo con cui gestivano le truppe in

guerra. Così vengono comminate condanne a morte immediate e senza

processo per gli accusati di insubordinazione; durante la rotta il

generale Andrea Graziani viene appositamente nominato “ispettore

generale del movimento di sgombro”. Gli austriaci non sono messi

meglio: "Greve il passo, terrei i volti, avanzavano con andare pesante,

indifferenti a tutto e dall'indifferenza resi coraggiosi e insensibili. Modeste

(e tenute celate) le perdite cruente in combattimento, molti soldati si

disperdevano lungo gli itinerari percorsi dalle loro formazioni" (da: M.

Silvestri, Caporetto, ed. Mondadori, 1990, p. 207). In questa situazione

di anarchia e disorientamento generale, Cadorna ha buon gioco nello

scaricare tutta la colpa sulle truppe per l'andamento disastroso della

guerra: "La mancata resistenza di reparti della II Armata" scrive il 28

ottobre sul bollettino di guerra indirizzato al governo "vilmente ritiratasi

senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso

alle forze armate austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra

sulla fronte giulia". E' uno degli ultimi atti di Cadorna che viene

sollevato dall'incarico dal nuovo governo presieduto da Vittorio

Emanuele Orlando. Al suo posto viene nominato il generale Armando

Diaz con il compito prioritario di organizzare la resistenza. Il 27 ottobre

gli austriaci arrivano in pianura e in tre giorni occupano Cividale, Udine

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e prendono posizione sul Tagliamento; quindi il 9 novembre si fermano

sul Piave dove Cadorna aveva concentrato tutti gli uomini e il materiale

bellico possibile. La guerra offensiva lascia il posto ad una azione

prettamente difensiva. Il fronte diventa più corto rispetto al precedente,

protetto dal monte Grappa e dal fiume Piave, ma soprattutto facilmente

raggiungibile dalle vie di comunicazione principali. E qui comincia

un’altra guerra.

Abbiamo visto che a quell’evento partecipano in milioni. Tra questi il

maestro Luigi Melloni da San Pietro in Casale (BO), fante della brigata

Lombardia.

Luigi Melloni nasce il 2 luglio 1883 a Gavaseto frazione di San Pietro

in Casale (BO), da Raffaele, maestro elementare e Virginia Bignardi.

Consegue la licenza ginnasiale presso il Regio Liceo-Ginnasio Torricelli

di Faenza nel 1899 (è nella stessa classe con Benito Mussolini), poi la

licenza d’insegnamento per la scuola elementare nel 1902 a Firenze

presso la Scuola Normale. Il 29 giugno 1916 è chiamato alle armi e

arruolato come soldato nel 68° fanteria a Lodi e dopo appena 2 mesi di

istruzione militare, in seguito a sorteggio, viene inviato il 18 settembre

1916, in zona di guerra effettivo della 4° compagnia del 73° fanteria

della Brigata Lombardia. Combatte nelle trincee del Carso presso

Castagnevizza (TS) e con ordine N° 946 del 11.11.1916 del 73° fanteria,

è autorizzato a fregiarsi del distintivo di militare ardito con la seguente

motivazione ”Per la bella condotta tenuta nel novembre 1916 in varie

azioni di guerra”.

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Con la rotta di Caporetto la Brigata Lombardia che si trova a riposo,

essendo in perfetta efficienza viene subito richiamata in linea e

schierata nell’alto Tagliamento per coprire la ritirata agli altri reparti. La

mancanza di artiglieria, le munizioni che scarseggiavano, l’assenza di

viveri, i nemici che passavano il Tagliamento, fanno però indietreggiare

la Brigata rimasta distaccata dalla 22° divisione di cui fa parte. Per

accordi intercorsi tra il bolognese Colonnello Brigadiere Vito Puglioli

comandante la Brigata Lombardia e il Colonnello degli Alpini Alliney con

i Battaglioni Pinerolo, Val D’Ellero, Monte Canin, la Brigata Lombardia

proveniente da San Francesco e Cuel di Forchia, si attesta presso

Tramonti (UD) e resiste all’inverosimile per permettere lo sganciamento

e il ripiegamento dei reparti Alpini.

Il fante Melloni assiste presso il comando al quadrato ufficiali, dove il

Colonnello Puglioli convocati i propri ufficiali dice loro “ Signori, siamo

destinati al sacrificio”. Ormai circondati da forze avversarie e rimasti

senza munizioni, viene ordinato al fante Melloni di bruciare tutti i

documenti del comando. Egli obbedisce all’ordine ma non distrugge 4

fotografie che conserverà durante tutta la prigionia. Il 6 novembre la

Brigata si arrende ed inizia il calvario della prigionia.

A piedi vengono trasferiti fino a Villach, una marcia che dura 6 giorni

coprendo circa 150 Km con pochissimi alimenti sotto la pioggia poi a

Tarviso subentra la neve, dormendo sempre all’aperto. Da Villach in

treno viene internato nel campo di concentramento di Kleimünken,

spogliato di tutti gli indumenti di lana, poi è trasferito a Marchtrenke.

Per il freddo e le privazioni si ammala gravemente di una polmonite.

Viene sottoposto ad una visita medica, il Colonnello medico austriaco in

perfetto italiano gli dice “ Maestro voi ora tornerete in Italia dai vostri

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allievi” (ma viene rilasciato solo perché lo davano per spacciato!). Così

viene trasferito con 150 militari italiani a Mauthausen e da li

rimpatriato con uno scambio di prigionieri feriti e malati attraverso la

Croce Rossa. Il 15 giugno 1918 lascia Mauthausen con vestiti di carta e

il mattino del 19 rientra in Italia attraverso la Svizzera. Destinazione

l’ospedale militare di Sestri Levante.

Esodo di civili

Luigi Melloni così ricorda Caporetto ed il calvario della prigionia

“Fui chiamato alle armi il 29 giugno 1916, il 20 luglio arruolato come

soldato nel 68° fanteria e dopo appena due mesi di istruzione militare, in

seguito a sorteggio fui inviato il 18 settembre 1916 in zona di guerra,

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effettivo alla 4° compagnia del 73° fanteria. La Brigata Lombardia (73° e

74° fant.) tornava allora dalla trincea e si era distinta nelle azioni

vittoriose del Nod Logem e Pemira?

La sera del 31 ottobre il nostro reggimento era nuovamente in trincea

e la mattina del 1° novembre dopo intensa preparazione delle artiglierie

per distruggere le difese nemiche antistanti, alle ore 11 scattammo dalla

trincee ricacciando il nemico oltre le case di Loquizza e catturando alcune

centinaia di prigionieri e parecchio materiale da guerra. La notte la

passammo in trincee improvvisate e la mattina seguente 2 novembre,

dopo aver infranto alcuni contrattacchi nemici, riprendemmo l’avanzata

spingendoci fino alle case del Faiti ed oltre ancora fino quasi alla

sommità del Dosso Faiti. Quivi dovemmo sostare perché le ali sinistra

verso Gorizia e destra verso Castagnevizza non si erano quasi mosse, e

con la nostra avanzata rischiavamo di incunearci in modo a noi

pericoloso nella linea nemica. Quindi ci rafforzammo, incominciando a

scavare trincee, camminamenti e opere di difesa. In quell’epoca con

ordine N° 946 del giorno 11.11.16 del 73° fanteria, fui autorizzato a

fregiarmi del distintivo di Militare Ardito con la seguente motivazione “Per

la bella condotta tenuta nel novembre 1916 in varie azioni di guerra”.

In seguito fui chiamato come scritturale al comando della Brigata e

quivi mi trovavo quando avvenne la sciagura di Caporetto. In quei giorni

la nostra Brigata si trovava a riposo ed essendo in perfetta efficienza fu

schierata sull’alto Tagliamento per coprire la ritirata delle nostre truppe.

Eravamo però affatto privi di artiglieria, difettavano le munizioni, non

giungevano più i viveri, quindi la nostra resistenza fu in breve tempo

infranta. I nemici passavano il Tagliamento e noi dopo alcuni giorni,

affamati stanchi ridotti a poco più di un migliaio di uomini dovemmo

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arrenderci il 6 novembre nei pressi di Tramonti pur combattendo fino

all’ultimo per rompere il cerchio che si stringeva da tutte le parti.

Comandante della nostra Brigata era allora un bolognese il Colonnello

Brigadiere Cav. Vito Puglioli il quale in quei tristi giorni moltiplicò le sue

energie prima per opporsi all’avanzata nemica e poi per salvare il resto

delle sue truppe..

Con la prigionia incominciò per me una triste odissea di stenti e di

patimenti. Fummo spogliati di qualunque oggetto di lana, delle coperte e

delle mantelline e costretti a dormire così malcoperti su nudi tavolati,

pigiati come acciughe coi pochi abiti pieni di pidocchi che non potevamo

sterminare per quanta caccia dessimo loro. La fame era terribile: poche

rape o barbabietole cotte nell’acqua e 200 grammi di pane scuro e

immangiabile era il nostro cibo quotidiano.

In seguito a tutte queste sofferenze mi ammalai e il 6 aprile 1918 fui

ricoverato all’ospedale del concentramento. In maggio una commissione

medica austriaca mi dichiarò invalido di guerra di III° grado, e il 15

giugno partivo da Mauthausen ed aveva così fine la mia orribile prigionia.

Fante Ardito Luigi Melloni

73° Fanteria Brigata Lombardia

Nell’ospedale militare di Sestri Levante vi rimane in convalescenza

fino al 16 luglio 1919.

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Materiale abbandonato dagli italiani in ritirata

Di fatto la sua guerra è finita e così scrive a casa:

Nervi, 22 giugno 1918

Caro babbo,

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grande sarà la loro ansietà nel conoscere in che modo sono stato

liberato da un’orrenda prigionia, e più nel conoscere e voler sapere notizie

sulla mia salute, ma maggiore ancora è il desiderio vivissimo che ho di

sapere notizie di tutti loro. Dal 30 ottobre n.s. non ho più ricevuto un loro

scritto e anche quando ero prigioniero, nulla, neppure una cartolina, mi è

giunta da Gavaseto. Come stanno? Come sta lei? La mamma è sempre

svelta e sana? Ha ricevuto le cartoline che le ho spedito dall’Austria? Il

nonno è sempre arzillo? La Maria e la Peppina godono buona salute? Che

c’è di nuovo a Gavaseto? Dei miei compagni (soldati come me) chi è

morto, ferito o prigioniero? Mi scrivano, mi scrivano a lungo, narrandomi

tante cose e mi leveranno dall’ansietà di pensare a male a loro riguardo.

Intanto in breve racconterò quanto mi è successo, non nascondendo

nulla, tanto il peggio è, passato e ora sono completamente libero da

quell’incubo pauroso.

Fui fatto prigioniero il 6 novembre alle ore 22 nei pressi di Tramonti,

insieme a tutto il resto della Brigata Lombardia, compresi il generale, i

due colonnelli e i comandi della Brigata e dei due reggimenti. Ho detto il

resto della Lombardia, perché il 73° era ridotto a poco più di 300 uomini e

il 74° a un migliaio: gli altri erano caduti (morti, feriti o dispersi) per

arrestare l’invasione. Noi stessi la sera del 6, sostenemmo combattimenti

prima di arrenderci e lo dovemmo fare perché accerchiati completamente

e senza via di scampo. E questo glielo scrivo non per vantare la mia

Brigata, ma per farle conoscere che non fummo vigliacchi e che facemmo

tutti il nostro dovere. La mattina stessa cominciò il nostro calvario: in 6

giorni ci fecero fare a piedi 150 Km, dandoci solo una pagnotta dopo 4

giorni di cammino, un goccio di caffè e una scatoletta di carne in due. Per

soprappiù il tempo cominciò a guastarsi e facemmo le ultime marce sotto

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la pioggia a dirotto e la neve che fioccava. La notte di S. Martino (dall’11

al 12) la ricorderò fin che campo. Avevamo camminato tutto il giorno, con

un solo goccio di caffè datoci la mattina a Pontebba. Verso sera

arrivammo in vista di Tarvisio, dove ci avevano promesso di caricarci in

treno e darci da mangiare. Invece, dopo una sosta di un’ora in mezzo al

fango e sotto una bufera di neve ci fecero riprendere il viaggio. Immagini

la nostra condizione: in quella notte ho pianto come un bambino, ho

imprecato, maledetto tutti e ho sofferto quanto è dato umanamente

soffrire. Non tutti i miei compagni di sventura resistettero e di tanto in

tanto qualcuno di essi si abbatteva a terra per non più rialzarsi,

nonostante le calciate di fucile dei soldati austriaci. Dopo 6 giorni

giungemmo sfiniti e ridotti a uno stato pietoso, a Villach dove ci fecero

sostare 2 giorni. La fame che avevamo incominciato a conoscere seguitò e

si accentuò, il rancio austriaco consisteva in erba cotta nell’acqua, che noi

si continuava a mangiare per la gran fame, ma che non saziava

altamente. Da Villach ci caricarono in treno, pigiati come le acciughe e il

15 novembre finivamo internati nel campo di concentramento di

Kleinmünchen. Ci spogliarono subito di tutta la roba di lana che

avevamo, (si figuri che ho passato tutto l’inverno senza maglia e senza

panciotto con la pura camicia e la giubba) e ci misero a dormire in

baracche sul nudo tavolato. Io ebbi ancora la fortuna relativa di non

essere mandato a lavorare, ma tanti poveri soldati furono spediti ai lavori

e non fecero più ritorno. Intanto per noi la fame si accendeva ancor più: si

figuri che il cibo giornaliero era: 250 grammi di pane, ma senza caffè alla

mattina, acqua a mezzogiorno e acqua alla sera. Dico acqua, poiché

quando nel manico si trovava una patata o due oppure alcuni fagioli o un

piccolo cavolo era un miracolo. Creda, papà che la fame è qualche casa di

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orribile e io in Austria non me la sono mai levata!.. Finché ebbi qualche

soldo, mi difesi alla meglio, ma poi finiti questi cominciai a soffrire

atrocemente. Da Kleimünchen fummo condotti a Marchtrenke nel gennaio

di quest’anno e anche qui soffrì la fame e il freddo. Attendevo sempre

l’arrivo dei pacchi, ma questi non giunsero, ed io mi ridussi uno scheletro.

Ero appena capace di muovermi, per la gran debolezza, mentre poi lo

stomaco avrebbe mangiato qualunque cosa pur di soddisfarsi. Marcai

visita parecchie volte e finalmente l’8 aprile fui ricoverato all’ospedale. Fu

la mia liberazione. Là si aveva un rancio un po’ discreto: trovai compagni

buoni che mi aiutarono (fra i quali Gherardi) è così incominciai a

rimettermi e rinascere un po’. Sono stato però in letto quasi un mese di

continuo, vedendomi morire accanto di sfinimento tanti miei poveri

compagni. Il 10 maggio il capitano medico austriaco mi propose per

l’invalidità di guerra per bronchite cronica, il 20 mi passò alla vista un

colonnello medico che mi dichiarò invalido. E così il 5 giugno in 150

ammalati di Marchtrenke fummo mandati a Mauthausen per essere

rimpatriati. Qui ci passarono ancora un’altra visita e finalmente sabato

15 giugno (data per me memoranda) lasciammo Mauthausen e partimmo

alla volta della Svizzera. Il 19 mattina toccavamo il suolo della nostra

bella Italia: eravamo liberi finalmente da una prigionia torturante e

brutale! Ed ora sono qui in questa graziosa cittadina in attesa di essere

spediti presso il nostro distretto. Vedesse la magnifica posizione in cui ci

troviamo! Siamo all’hotel Savoia il principale della città, e distante 200

metri dalla riva del mare. Il vitto è sano ed abbondante e buonissimo : ci

ha fatto subito dimenticare il rancio orribile dell’Austria. Le cure del

medico e delle suore sono affettuosissime e noi ci troviamo come in

paradiso! Quando ripenso a tutto l’insieme degli eventi che mi ha portato

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alla liberazione da quella barbara prigionia mi sembra di sognare e

scorgo la mano della Divina Provvidenza che mi ha protetto ed aiutato.

Ringrazino con me il Signore della grazia speciale che mi ha fatto: io non

cesserò per parte mia di lodarlo e benedirlo. Qui non si sa ancora quanto

tempo staremo, di certo ci starò un po’ più degli altri per rimettermi

completamente e perché il capitano medico che mi ha preso a ben volere

vuole che stia qui. Lo aiuto nel copiare tutte le note degli ammalati e mi

rendo così utile al capitano e al suo aiutante. Anzi otterrò forse che loro

(mia moglie e qualcuno della famiglia) abbiano il viaggio gratis per

venirmi a trovare. Desidererei venisse lei o la Peppina, o Maria. Si

mettano d’accordo subito con Maria mia, ma non si muovano finchè non

glielo scriverò io. Appena ricevuta questa mia lettera, mi mandi una

cartolina vaglia di £ 25: gliele restituirò poi quando ci rivedremo costì.

Sono affatto sprovvisto di soldi, e sono stanco di essere sempre in

bolletta. Stasera ho ricevuto un telegramma di Arturo e questo mi fa

pensare che anche loro a quest’ora sapranno del mio arrivo in Italia. Che

scrivano dunque e mi dicano tutto quello è successo costì. Di alla mamma

che mi prepari uova e pollastri.

Di alla Peppina e alla Maria che attendo i rogiti che mi scrivevano

prima della mia prigionia e che leggevo tanto volentieri. Mi scrivano

magari tutti i giorni. Saluti per me tutti quelli di Gavaseto che conosco,

specialmente il Sig. Curato. Gli dica che avrò tante cose da raccontargli

dell’Austria infame e degli austriaci barbari e bestiali! A loro di famigli

tanti saluti affettuosi e baci tanti, nella speranza di presto tutti

riabbracciarvi.

Gigino

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Congedato riprende l’attività di insegnante elementare in vari istituti

di Bologna fino al pensionamento. Il 22 novembre 1923 è insignito della

Croce al merito di Guerra. Muore a 62 anni il 6 gennaio 1946 a Bologna

in seguito ad una infezione contratta durante un intervento chirurgico.

Riposa nella Certosa di Bologna.

Proclama del Re Vittorio Emanuele III° dopo Caporetto

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Bibliografia

1. Orio Di Brazzano, Caporetto. I luoghi della grande guerra

sull'Isonzo raccontano la 12ª battaglia, Nordpress Editore, 2007

2. Angelo Gatti, Caporetto. Diario di guerra (maggio-dicembre

1917), Il Mulino Editore, 2007

3. Nicola Labanca, Caporetto. Storia di una disfatta, Giunti

Editore, 2006