la barba di san francesco

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La pecora di Giotto a mia nipote, Simona © 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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L. Bellosi

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Page 1: La Barba Di San Francesco

La pecora di Giotto

a mia nipote, Simona

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La barba di san Francesco

Come è noto, san Francesco aveva la barba. Ce lo assicura Tommaso da Celano che lo aveva conosciuto di persona1, come ce lo assicura l�iconografìa duecentesca del santo, dall�immagine di Subiaco (fig. 1) a quelle di Margarito d�Arezzo, di Bonaventura Berlinghieri, del Maestro del san Francesco, di Cimabue, ecc. Anche nelle Storie della Basilica Superiore di Assisi il santo porta la barba; ma, scendendo nella Basilica Inferiore, ci imbattiamo in numerose immagini che lo mostrano ben rasato: nel finto trittico della cappella di San Nicola, negli affreschi giotteschi del transetto destro, nelle figurazioni di Pietro Lorenzetti, nell�affresco del Maestro di Figline in sagrestia e addirittura nelle Allegorie delle Vele, proprio sopra l�altare, nel punto più in vista dell�intera chiesa. E subito viene in mente la cappella Bardi in Santa Croce a Firenze (fig. 2), dove perfino sul letto di morte il santo è bellamen-te sbarbato, come in altre figurazioni giottesche, quali il polittico della cappella Baroncelli nella stessa chiesa, o il Giudizio Finale nella parete di fondo della cappella Scrovegni. Senza la barba è anche il san Francesco affrescato dal Cavallini in Santa Maria in Aracoeli a Roma, o quello del mosaico del Torriti in Santa Maria Maggiore (fig. 4). Più tardi, da Taddeo Gaddi in poi, il santo torna ad assumere la sua legittima barba, che, pur con numerose ecce-zioni soprattutto quattrocentesche, mantiene fino alle immagini dei nostri giorni.

Che significato riveste, nella storia dell�iconografia di san Francesco, questa innovazione che interessa i primi decenni del Trecento? Chi ha pratica di iconografia sa quanto sia tenace la tradizione figurativa di un santo. San Pietro deve essere vecchio

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e canuto, ma con la barba corta; san Paolo, invece, deve essere più giovane, calvo e con la barba nera, ma lunga e appuntita. San Giacomo minore deve avere le fattezze simili a quelle di Gesù Cristo. Le numerose figurazioni quattro-cinquecentesche di san Sebastiano lo volevano giovane e imberbe e nemmeno il peso del-la Controriforma riuscirà ad imporre un�iconografia più rispon-dente alle immagini antiche del maturo e barbuto soldato romano, martirizzato sotto Diocleziano2. L�improvvisa innovazione icono-grafica del san Francesco senza barba appare, allora, come un�alterazione dell�immagine del santo, che ha tutta l�aria di essere intenzionale; tanto più che si trattava di un santo recente, che qualche vecchio poteva perfino ricordare di aver visto di persona. Ma quale intenzione si poteva nascondere dietro questa singolare novità?

La moda del tempo esigeva che l�uomo fosse ben rasato e si potrebbe pensare semplicemente che si fosse voluto raffigurare san Francesco secondo la moda corrente. Ma perché, allora, non radere la barba anche ad altri santi? Perché, ad esempio, il Torriti raffigura senza barba proprio san Francesco, mentre la lascia a sant�Antonio da Padova nel mosaico di Santa Maria Maggiore? In realtà, portare la barba in quest�epoca in cui non si usava aveva un suo significato. Quando agli inizi degli anni quaranta del Trecento la barba ritorna di moda fra i giovani, non manca di suscitare il biasimo di burberi censori.

Come per dare l�idea di cosa significasse la barba per una generazione di uomini che era vissuta radendosela accuratamente, l�anonimo autore della Vita di Cola di Rienzo si diffonde sul rac-conto straordinario di un uomo saggio che poteva permettersi di sputare impunemente nella barba di un re. Il cronista romano ci informa che i giovani di allora (cioè del 1340 circa), oltre a vestire in modo del tutto nuovo e inusitato, «portavano varve granne e foite; como bene iannetti e Spagnoli voco seguitare. Donanti a questo tiempo queste cose non erano, anche se radevano le per-zone la varva, e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portato varva, fuora stato auto in sospietto da essere omo de pessima rascione»3. Dunque, chi voleva san Fran-

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cesco senza barba, cioè aggiornato alla moda corrente, voleva anche dargli un significato contrario a quello di «omo de pessima rascione», darne un�immagine più coltivata e dignitosa, meno selvaggia e meccanica, meno da povero Cristo - o da povero dia-volo, se si preferisce4.

Questa immagine di un san Francesco senza barba è diffusa, come abbiamo visto, tra la Roma papale, la Firenze di Giotto e Assisi: la Roma della curia pontificia, potenza temporale ed eco-nomica - oltre che spirituale - minacciata nella sua credibilità dalla diffusione delle idee pauperistiche francescane; la Firenze dei ricchi borghesi razionalisti e spregiudicati, che fondavano sul danaro e sull�iniziativa privata una loro forma di protocapitalismo all�avanguardia in Europa; Assisi, ormai dominata dalla corrente dei conventuali alleati alla curia pontificia dal tempo del generalato di Giovanni da Murro (1296-1304) in poi. È risaputo che il movimento francescano stava allora assumendo proporzioni inusitate, soprattutto per il favore che esso godeva presso le classi meno abbienti; al punto che per la stessa Chiesa rischiava di diventare una minaccia. Infatti, la sua rivalutazione della povertà era in netto contrasto con la realtà della curia papale, centro di affluenza di grandi capitali. L�amministrazione di questi capitali era in mano ai potenti banchieri fiorentini, che avevano abilmente soppiantato i loro rivali senesi5. Le preoccupazioni romane erano anche le loro. Gli interessi economici comuni li univano in questa diffidenza soprattutto verso le frange estremiste dei francescani, gli spirituali, che interpretavano in senso radicale l�aspirazione alla povertà e erano infatti fortemente avversi alla Chiesa di Ro-ma. Sia la curia romana che la ricca borghesia fiorentina avevano interesse ad addomesticare il movimento francescano, ad inte-grarlo entro le strutture di potere vigenti, a sostenerlo per guidar-lo. In questo si appoggiavano alla corrente più moderata dei fran-cescani, i conventuali, che davano della aspirazione francescana alla povertà un�interpretazione assai possibilistica.

È in questi ambienti, evidentemente, che si aveva interesse a fornire di san Francesco un�immagine addomesticata, più civile e accettabile, ricondotta all�ordine, integrata entro le strutture

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della società ufficiale; un san Francesco gradito all�establishment, ripulito delle scorie pauperistiche; un san Francesco «perbene», che non assomigliasse ad uomini «de pessima rascione»; insom-ma, un san Francesco senza barba6. Esso compare infatti per la prima volta nel mosaico di Santa Maria Maggiore (fig. 4), com-missionato da Niccolò IV, il primo papa francescano, esponente di primo piano della corrente dei conventuali. Compare nell�affresco del Cavallini sulla tomba del cardinale Matteo d�Acquasparta, il grande sostenitore dei conventuali, citato proprio per questo da Dante7 come contraltare di Ubertino da Casale, capo riconosciuto degli spirituali italiani. All�immagine del san Francesco senza barba fa poi propaganda soprattutto Giotto, i cui legami con l�alta borghesia fiorentina sono stati ripetutamente rilevati. Ad Assisi, il san Francesco senza barba compare più volte nella Basilica Inferiore, in affreschi la cui esecuzione cade certamente dopo il sopravvento dei conventuali, dal tempo di Giovanni da Murro in poi, in coincidenza con l�aprirsi delle ostilità contro gli spirituali, iniziate con la forza da Bonifacio VIII e concluse d�autorità da Giovanni XXII con la bolla del 1323.

Il san Francesco senza la barba si pone, perciò, come un�im-magine intenzionale, pregna di una forte carica ideologica, in polemica con gli spirituali e simbolo del francescanesimo mode-rato dei conventuali, gradito alla Chiesa e alla ricca borghesia fiorentina.

Questa conclusione potrà anche sembrare capziosa; ma, a ripro-va di quanto si afferma, si cerchi di immaginare come poteva essere accolta dagli spirituali un�immagine del loro fondatore cui, in omaggio alla moda vigente, si radeva la barba perché non asso-migliasse ad «omo de pessima rascione». Niente di più contrario, evidentemente, alla loro concezione radicale, misticheggiante e neomedievale del francescanesimo. E del resto si consideri ciò che accade nella Napoli angioina. Gli Angiò avevano sempre sim-patizzato per gli spirituali. Dalla prigionia, i figli di Carlo II avevano scritto a Pietro Olivi, in quel momento il più importante esponente del movimento estremista francescano, le cui opere erano già state condannate. Il primogenito, Ludovico, si fece

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frate francescano, fu in rapporto con personaggi dell�ordine chiaramente spirituali, e la sua vita fu improntata a un ideale di povertà addirittura autolesionistico. Celestino V, salutato con grande giubilo da tutti gli spirituali italiani, fu eletto papa per volontà degli Angiò. Roberto, pur essendo in ottimi rapporti col papa Giovanni XXII, scrisse un trattatello intorno alla povertà di Cristo e degli Apostoli in cui appoggiava le tesi pauperistiche degli spirituali e si rifiutava di pubblicare nel suo regno la bolla papale promulgata nel 1323, circostanza per la quale Giovanni XXII lo rimproverava ancora nel 1331 e nel 13328. Ebbene, a Napoli le immagini di san Francesco, anche quelle di più diretta ispirazione giottesca (come nell�affresco con l�Allegoria della moltiplicazione dei pani in Santa Chiara), sono tutte con la barba. Si pensi che il Cavallini, dopo aver dipinto un san Francesco ben rasato nell�Aracoeli a Roma, una volta arrivato a Napoli lo dipinge con la barba, come nel Giudizio Finale in Santa Maria Donnaregina, dovuto almeno alla sua bottega. E con la barba lo dipinge un suo allievo (forse Lello da Orvieto, come vuole il Bologna)9 nell�affresco in Santa Chiara col Redentore in trono fra sei santi e quattro personaggi angioini.

Non meraviglierà, allora, che le uniche immagini di san Fran-cesco con la barba dei primi decenni del Trecento che si vedono nella Basilica Inferiore di Assisi siano quelle dipinte da Simone Martini (fig. 5). Non vi è dubbio infatti che gli Angiò ebbero a che fare con la commissione degli affreschi assisiati al pittore senese10, cui era stato affidato l�incarico di dipingere la grande tavola di san Ludovico di Tolosa in occasione della sua canonizzazione avve-nuta nel 1317. I santi che, oltre a san Francesco, santa Chiara e sant�Antonio da Padova, compaiono nel sottarco della cappella di San Martino e che si rivedono in una fascia in basso nel transetto destro della Basilica Inferiore hanno quasi tutti a che fare con Roberto d�Angiò. Ludovico di Tolosa era suo fratello, Luigi IX di Francia era suo bisnonno, Elisabetta d�Ungheria era la zia di sua madre, la Maddalena era particolarmente venerata da suo padre e così doveva essere di santa Caterina, perché in Santa Ma-

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ria Donnaregina a Napoli sono dipinte molte storie della sua vita, insieme a quelle delle altre sante che si sono nominate sopra. Ed è proprio partendo da un�ipotesi di committenza angioina e da un confronto con gli affreschi di Santa Maria Donnaregina che si potranno identificare alcuni dei misteriosi santi dipinti da Simone Martini nel transetto destro.

A parte la cosiddetta santa Chiara, che non fu mai tale perché non vestita in abiti monacali e che si dovrebbe identificare semmai con santa Margherita (fig. 6), dato che il recente restauro ne ha rimesso in luce la crocellina tenuta nella mano destra11, si considerino i due misteriosi santi coronati con scettro e globo in mano che compaiono ai lati della Madonna (fig. 7); sarà facile identificarli con santo Stefano d�Ungheria e san Ladislao d�Ungheria, se li confrontiamo con la raffigurazione di questi due santi in Santa Maria Donnaregina12, che recano gli stessi segni iconografici. Si ricorderanno i legami politici degli Angiò con l�Ungheria e i loro interessi sul trono di quel paese, in favore dei quali si era adoperato proprio Gentile Partino da Montefìore, il cardinale francescano amico degli Angiò che aveva voluto dedicare a san Martino la cappella di Assisi dipinta poi da Simone Martini13. L�ingerenza angioina nella commissione assisiate al pittore senese e i rapporti tra gli Angiò e l�Ungheria spiegano anche la presenza del giovane santo con il giglio in mano (fig. 8), che non può essere Luigi di Francia perché non porta la corona in testa, ma che è invece il figlio di santo Stefano d�Ungheria, il principe sant�Enrico, raffigurato raramente, ma perfettamente corrispondente negli attributi iconografici a quello dipinto da Francesco di Michele nel polittico di San Martino a Mensola, datato 139114 (fig. 9). Il san Francesco con barba raffigurato per due volte da Simone Martini nella Basilica Inferiore di Assisi è dunque quello degli Angiò, favorevoli agli spirituali.

Una volta appurato il significato che si nasconde dietro l�in-novazione iconografica del san Francesco senza barba, rimane da chiedersi quali conclusioni se ne possono trarre in relazione al ciclo francescano della Basilica Superiore di Assisi, in cui il santo compare dotato di una corta ma folta barba. L�immagine più an-

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tica che ci sia rimasta di un san Francesco senza barba è quella del Torriti nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore a Roma (fig. 4), che è del 129615. Nel 1290 lo stesso artista, nel mosaico absidale di San Giovanni in Laterano, eseguito per lo stesso committente, il papa Niccolò IV, aveva posto in opera un san Francesco con la barba16 (fig. 3). Se ne deve dedurre che l�idea di un�immagine di san Francesco senza barba è nata tra il 1290 e il 1296. Ora, se la Basilica di Assisi fu uno dei luoghi più ospitali per l�immagine di san Francesco senza barba e se in ambito giottesco essa trova la sua più larga accoglienza, bisognerà prendere in considerazione la possibilità che le Storie francescane di Assisi siano state dipinte prima del 1296. Lo stesso vale anche per chi considera questi affre-schi - come li considerava l�Offner - opera di scuola romana, se è proprio a Roma che troviamo la prima immagine di san Francesco senza barba, nel 1296 appunto.

Mi rendo conto che un argomento simile sembrerà labilissimo a chi ha presente il peso della tradizione critica formatasi intorno a questo problema: sarà difficile pensare seriamente che su una base simile si possa proporre una datazione diversa, soprattutto una datazione anticipata rispetto a quelle proposte generalmente. Do-vremo, per ora, limitarci a considerare le osservazioni fatte sopra per quello che valgono: non più che una pulce nell�orecchio.

Ma se, con questa pulce nell�orecchio, ci mettiamo a riconsi-derare senza pregiudizi proprio il problema della datazione e a meditare su alcuni fatti che non erano stati presi in conside-razione, allora dovremo riconoscere che questo argomento non era poi così futile e peregrino17.

Moda e cronologia nelle «Storie dì san Francesco» ad Assisi.

Guardiamo, ad esempio, le Storie di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi con gli occhi attenti ad un altro aspetto; quello della moda e del costume. Esso ci fornirà dei dati sorprendenti. La storia di san Francesco era una storia moderna e vi comparivano personaggi che non potevano indossare i generici e

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classici abiti delle storie testamentarie. La sua narrazione in figura è stata certamente uno degli stimoli principali in direzione di quel singolare fenomeno che caratterizza l�arte del Tre e Quattrocento, per cui si vestono disinvoltamente i santi in abiti contemporanei e si fanno partecipare a scene sacre, anche le più remote nel tempo, dei personaggi in abiti contemporanei.

Mi si permetta di iniziare l�esame degli affreschi di Assisi sotto l�aspetto della moda e del costume con una citazione da una lettera del Petrarca al fratello Gerardo, in cui, con una punta di nostalgia per la gioventù passata, lamenta gli eccessi nell�ade-guarsi ai dettami della moda, anche i più scomodi.

Ti sovviene egli, o fratello, quanto si fosse la pazza nostra ansietà per la smodata eleganza nel vestire, la quale pur tuttavia, sebbene venuta di giorno in giorno scemando, al tutto non m�abbandona? quali il nostro affaccendarsi in mutar vesti mattina e sera, quali i timori che ci si avesse a scomporre sulla testa un capello, o lieve soffio di vento le chiome laboriosamente acconciate scompigliare? quanta la nostra attenzione a stare in guardia da ogni bestia che per le strade ci venisse di fronte o alle spalle, perché schizzo di fango non lordasse la nitidezza, od urto della persona non alterasse le pieghe delle profumate nostre guarnacche?... E che dirò dei nostri calzari che fatti a difendere i piedi, ad altro non servivano che a dar loro tormento e martorio?... E i ferri da increspare i capelli, e i tormenti delle nostre pettinature?18.

I «ferri da increspare i capelli», o meglio - per rifarsi alla terminologia del Petrarca - i calamistri, sono certamente quelli usati dagli uomini dei primi decenni del Trecento per acconciare i capelli a rullo. Di questa elaborata acconciatura si trovano con-tinue testimonianze figurative: dagli affreschi di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti ad Assisi, a numerose tavole di Bernardo Daddi, agli affreschi del Camposanto di Pisa e della sala della Pace nel Palazzo Pubblico di Siena. I capelli, tenuti assai lunghi, uscivano sulla nuca da sotto la cuffia bianca, e qui venivano rivoltati in su, avvolgendoli intorno ad un ferro (o forse venivano «messi in piega» con un ferro caldo), come dice il Petrarca. Questa acconciatura era già di moda al tempo in cui Giotto dipingeva la cappella dell�Arena a Padova, tra il 1303 e il 130519. Tra i beati del Giudizio Finale (fig. 10), tra i dannati che recano ancora qualche

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traccia di come andavano vestiti in vita, tra gli inservienti delle Nozze di Cana, tra i pretendenti alla mano della Madonna, tra i Magi, tra i servi di Caifa e di Erode, tra i soldati che assistono alla Crocifissione, nelle piccole scene sotto alcune figure allegoriche non mancano casi di acconciature dei capelli come quelle descritte. Anche il donatore, Enrico Scrovegni, al centro del Giudìzio Finale, ne è un esempio; infatti, i suoi capelli non potrebbero terminare con quella piega verso l�alto se non fossero stati trattati almeno con una messa in piega. È evidente che l�uomo coltivato degli inizi del Trecento non voleva in nessun caso lasciarsi cadere i capelli sul collo o sulle spalle e in questo si differenziava assai dagli uomini della seconda metà del Duecento, che lasciavano ricadere sul collo una massa di capelli assai fluente, come si vede - poniamo - nelle miniature del Maestro del De Arte venandi cum avibus o nei rilievi dell�arca di San Domenico a Bologna della bottega di Nicola Pisano (fig. 11) o in quelli dello stesso Nicola e del figlio Giovanni nella Fonte Maggiore di Perugia.

Tra gli esempi di questa acconciatura più arcaica si può citare anche la tavola della Santa Chiara di Assisi (fig. 13), datata 128320, e - quel che a noi più interessa - proprio gli affreschi con la Leggenda di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi. Qui, infatti, ac-canto a personaggi che portano già i capelli a rullo o comunque sollevati sulla nuca, ve ne sono altri con i capelli ricadenti sul collo (figg. 12, 14, 29), persino nella scena con l�Omaggio dell�uomo semplice (fig. 45), che è certamente l�ultimo affresco ad essere stato eseguito21.

Naturalmente, quello relativo alle acconciature maschili è solo uno dei numerosi elementi della moda, il cui esame ci fornisce degli indizi rilevanti per una non generica proposta di datazione. Abbiamo, infatti, due punti di riferimento cronologici: gli affreschi Scrovegni, databili al 1303-30522, e la citata tavola della Santa Chiara del 1283, questa sicuramente più antica degli affreschi di Assisi - ed infatti i personaggi maschili che vi compaiono in abito secolare portano esclusivamente i capelli ricadenti sulle spalle (fig. 13). Confrontando il maggior numero possibile di elementi relativi alla moda e al costume, potremo stabilire, almeno in via appros-simativa, quale posizione vengano ad assumere gli affreschi

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di Assisi tra questi due estremi cronologici: il 1283 della tavola della Santa Chiara e il 1303-305 degli affreschi dell�Arena.

Non che in questo ventennio si registrino dei mutamenti so-stanziali nel costume e nelle acconciature, ma si possono cogliere alcune variazioni notevoli. L�abito, per esempio, rimane fonda-mentalmente lo stesso nelle sue strutture, ma soprattutto quello femminile subisce qualche modifica. Certo, i severi e generici abbigliamenti che caratterizzano i personaggi sacri negli affreschi di Giotto a Padova non ci forniscono molti dati; bisogna ricorrere, semmai, ad alcune figure marginali, ad alcuni personaggi in abito contemporaneo nel Giudizio Finale (fig. 15). Le vesti sono lunghe e larghe, assai accollate; ma lungo i bordi, lungo gli scolli, lungo le cuciture si vedono larghe liste ricamate, o forse applicate, che rendono sontuoso l�abito. Le donne fanno grande sfoggio di questi ornamenti, che si stampano anche in fasce orizzontali molto più larghe, all�altezza del petto (fig. 49). La Madonna stessa se ne adorna. Particolarmente ricca di queste liste ricamate è la veste della giovane sposa nelle Nozze di Cana.

L�abito femminile, inoltre, quello almeno che sta sotto il manto o la guarnacca, è sempre cinto molto in alto, assai al di sopra della vita, subito sotto il seno: un modo di portare l�abito che si rifa forse all�antico, come accadrà con la moda Impero. Venti anni prima degli affreschi padovani, nella tavola della Santa Chiara, le donne portano abiti infinitamente più semplici (fig. 16); nessuna delle loro vesti è ornata come quelle delle donne padovane; la cintura è tenuta assai bassa, all�altezza della vita. Ebbene, l�abito femminile che compare nelle Storie di san Francesco è ancora perfettamente in linea con quello che andava di moda nel 1283; so-lo in un caso esso è cinto subito sotto i seni: si tratta di una gio-vinetta fra le assistenti alla Confessione della donna di Benevento; in tutti gli altri numerosi casi l�abito è cinto alla vita. La totale man-canza di ornati ne accentua l�accollatura severa; la Madonna nel tondo sopra la porta d�ingresso sembra avere la veste pari-collo se confrontata con una donna dell�Arena di Padova, a cui il largo bordo ornato fa sembrare più ampio lo scollo. Con altrettanta evidenza ci riportano ad un�epoca assai precedente a quella degli affreschi

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padovani e vicina alla tavola della Santa Chiara le acconciature femminili. È già diffusa a Padova la moda della treccia a vista (figg. 15, 100), che dalla nuca sale al sommo della testa, girando intorno ai capelli come una ghirlanda. Invece, nessuna delle numerose donne che compaiono negli affreschi assisiati fa mostra di questa treccia (figg. 17, 32). Esse accomodano i capelli in modo assai complicato, tenendoli fermi con bende, nastri e fili. Questa acconciatura si ritrova identica - se si guarda al di là delle diffe-renze di resa figurativa - nelle donne della tavola della Santa Chiara del 1283 (fig. 16), che portano la stessa benda orizzontale sulla fronte e le due laterali che salgono in verticale.

Un�altra osservazione riguarda il copricapo maschile. Quello che più si distingue per la sua foggia singolare nelle Storie di san Francesco è una sorta di cappuccio dalla profilatura molto marcata che si innalza sulla fronte a formare una specie di corno (figg. 14, 29). Così lo portano anche molti uomini nella tavola della Santa Chiara (fig. 13), nonché in altre figurazioni della fine del Duecento; mentre negli affreschi padovani non si ritrova questo modo di portare il copricapo (fig. 10) ma anzi si nota una tendenza a ren-derne più compatto il contorno e, nel caso che esso sia di una fattura più frastagliata, tutto ciò che potrebbe sporgere viene come compresso e rincalzato dentro le falde della stoffa.

Quali conclusioni si possono trarre da queste osservazioni? La prima, intanto, è di importanza capitale nel panorama degli studi sugli affreschi di Assisi e riguarda il termine ante quem. Una volta, chi non credeva nella paternità giottesca delle Storie di san Francesco era disposto a collocarle assai tardi. Più recentemente, il White, il Meiss e il Previtali hanno potuto stabilire che questi affreschi dovevano già esistere prima del 1306-30823. Ma con le osservazioni fatte sulla moda si può stabilire che le Storie di san Francesco sono sicuramente precedenti agli affreschi della cappella degli Scrovegni. Questa è la prima conclusione che scaturisce dalle osservazioni fatte sopra.

Ma mi pare che si possa stringere anche di più. Considerando nel loro insieme, sotto l�aspetto della moda, i rapporti tra la tavola della Santa Chiara del 1283, le Storie di san Francesco nella Basi-

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lica Superiore di Assisi e gli affreschi di Padova, bisogna osservare che gli affreschi di Assisi, più che costituire una fase intermedia, si accostano maggiormente alla tavola del 1283, come abbiamo notato. Dovremmo concludere, dunque, che, salvo controprove, l�esecuzione degli affreschi di Assisi dovrebbe cadere ad una data più vicina al 1283 che al 1303-305; dovrebbe cadere, cioè, verso gli inizi degli anni novanta del Duecento. Una datazione assai alta, come si vede, e che a molti potrà sembrare inaccettabile. Eppure anche altri fatti sembrano portare a questa stessa conclusione, o almeno sembrano renderla possibile.

Le «Storie di san Francesco» e gli affreschi della sala dei Notai a Perugia.

Non mi risulta che alcuno abbia mai messo in rapporto gli affreschi della sala dei Notai nel Palazzo dei Priori a Perugia24 con il ciclo francescano di Assisi. Essi sono stati spesso considerati di scuola cavalliniana25 e se ne possono capire le ragioni. Infatti, il largo spazio dato ai solenni episodi della Genesi fa sì che quando vi compare la figura umana essa sia improntata a una solennità e a una severità da ricordare il Giudizio Finale di Santa Cecilia in Trastevere. Ma a guardar bene, i rapporti col Cavallini diventano sempre più generici via via che sotto le ridipinture si scopre sempre più marcata la caratterizzazione umbra di quelle fisiono-mie. Quegli occhietti acuti, quei tratti marcati, quella inclinazione espressionistica sono bene un denominatore comune di questo pittore con il Maestro del Crocifisso di Montefalco, con l�autore della Crocifissione nel Capitolo del Duomo di Gubbio (fig. 192), col Maestro espressionista di Santa Chiara, o meglio ancora con il perugino Marino, che iscrisse il suo nome sulla spada del san Paolo nella Madonna tra angeli e santi della Pinacoteca di Perugia (fig. 162). I rapporti di questi pittori col ciclo francescano di Assisi sono evidenti, anche nel caso di Marino da Perugia, in cui lo Smart ha creduto di vedere un collaboratore al ciclo stesso. Ora, io non credo di essere lontano dal vero nel proporre l�attribuzione degli

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affreschi della sala dei Notai proprio a Marino26, come ho fatto in altra sede; ma in questo momento ciò che interessa veramente nel nostro discorso è il rapporto di questi affreschi con quelli di Assisi.

Nessun dubbio, ad esempio, che alcuni partiti decorativi siano una derivazione letterale almeno dal registro alto della Basilica Superiore27; così i motivi a voluta floreale con la rosetta, che sono una copia della fascia decorativa sotto i tondi di San Pietro e di San Paolo nella controfacciata di Assisi; o l�incorniciatura decorativa dei busti negli sguanci delle finestre, derivati chiaramente dalle Sante a mezzo busto negli arconi della prima campata di Assisi (figg. 18, 19). Ma il pittore della sala dei Notai conosceva già anche le Storie di san Francesco. Infatti, non avrebbe potuto organizzare così il banchetto del Mese di gennaio senza aver visto la Morte del signore di Celano. E soprattutto la tavola imbandita che ne costi-tuisce una citazione diretta; lo si capisce meglio se la si mette a confronto con quella che ad Assisi stessa aveva imbandito il Torriti o chi per lui nelle Nozze di Cana. Lì era un semplice piano ribaltato e i vassoi che vi poggiavano sopra erano perfettamente circolari, come visti in pianta, in modo del tutto irrazionale. La tavola di Perugia evita i vassoi; ha solo delle brocche e dei recipienti verticali, sicché la loro collocazione sul piano della tavola appare molto più credibile; il piano stesso è molto scorciato e la tovaglia pende già dai lati del tavolo facendo delle pieghe. Con la tavola del signore di Celano ha in comune anche molti degli oggetti imbanditi e soprattutto la tovaglia con la stessa tra-ma di tessuto e le pieghe che forma nel ricadere giù dagli angoli.

Un�altra evidente derivazione da Assisi è la figura di Eva nella sua Creazione. Essa ripete il san Francesco della Rinuncia ai beni, e non soltanto nel gesto, nell�idea stessa del corpo nudo in profilo, nel modo di giungere le mani, nello sporgere in avanti le braccia e nella struttura stessa del corpo. Così come le due teste di Adamo e di Eva sembrano calcate su quelle dei due prelati alle spalle del vescovo nell�affresco di Assisi (figg. 20-21). Anche le architetture richiamano immediatamente quelle delle Storie francescane di Assisi, sia nella loro formulazione in termini oggettuali che nella

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loro caratterizzazione e decorazione (si vedano in particolare le architetture del Mosè e Aronne davanti al faraone, del Cavaliere in preghiera o del Cane che porta la carne}. Nel caso della scena con Gedeone e l�Angelo l�edicola architettonica è addirittura citata da quella che si vede nella Visione dei Troni ad Assisi (figg. 22,23).

Ma per chi avesse ancora dei dubbi ecco un particolare deco-rativo che, per quanto insignificante possa sembrare, è invece decisamente rivelatore. Si ricorderà che le Storie di san Francesco sono inquadrate da un architrave che poggia su colonne tortili (fig. 234); su questo architrave, con la faccia inferiore tavellata a fingere dei cassettoni e il fronte decorato con un motivo cosma-tesco, si appoggia una serie interminabile di mensole viste in prospettiva. Ora, non è tanto il motivo in se stesso, già presente in Cimabue, quanto la soluzione prospettica delle mensole a rivelarci la derivazione: si noterà che le mensole di Cimabue (fig. 24), come quelle che si trovano in numerosi affreschi romani, sono raffigu-rate secondo una prospettiva doppiamente invertita: innanzitutto divergono dal centro, invece di convergere come vuole l�espe-rienza ottica (fig. 172); inoltre, sono molto sottili al punto di attacco colla parete e si ingrossano via via che vengono in avanti, quasi piegando verso il basso per poi risalire in una voluta pura-mente grafica. Questo sistema irrazionale continua anche nelle finte mensole decorative che corrono lungo i costoloni della Volta dei Dottori e della prima campata (fig. 173); ma nelle Storie di san Francesco sono costruite in modo del tutto diverso e molto più razionale (fig. 25); il loro massimo spessore è nel punto di attacco colla parete e diminuisce nel momento in cui la voluta si piega verso l�alto; il loro scorcio è giustamente convergente verso la mensola centrale ed hanno una consistenza oggettuale invece che grafica. Ebbene, nella volta della sala dei Notai corrono delle membrature architettoniche dipinte in forma di architravi che, oltre a ripetere i motivi cosmateschi e lo pseudocassettonato di quelli delle Storie di san Francesco, risolvono nello stesso modo anche lo scorcio della mensola (fig. 26). Ciò dimostra in modo incontrovertibile - mi pare - che riflettono gli affreschi assisiati già nella fase delle Storie di san Francesco, che cioè gli affreschi peru-gini sono successivi alle Storie di san Francesco.

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Ora, gli affreschi della sala dei Notai sono stati dipinti assai precocemente; a giudicare dalle notizie documentarie raccolte dal Pellini, la parte del Palazzo dei Priori dove si trova questa sala fu costruita fra il 1293 e il 1297 e al momento del suo compimento anche gli affreschi dovevano essere già stati portati a termine28. Questo ce lo indica non solo la logica delle cose, trattandosi di un ambiente di rappresentanza, ma anche il fatto che i primi dei numerosi stemmi dei Capitani del Popolo e dei Podestà con cui sono decorate tutte le pareti della sala sono datati 1296 e 1297. Tali date, dunque, costituiscono un termine ante quem per gli affreschi di Assisi29.

Le «Storie di san Francesco» e i mosaici deI Rusuiì.

Ma questo ante quem può arretrare ancora di qualche tempo. Vi è, infatti, un�altra impresa decorativa i cui rapporti con Assisi o non sono stati presi in considerazione o sono stati interpretati nel senso sbagliato. Si tratta dei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore a Roma, firmati da Filippo Rusuti30.

Essi furono certamente commissionati dai Colonna, protettori della Basilica; vi compare infatti il loro stemma e i donatori ingi-nocchiati che vi si vedevano sono due cardinali, uno certamente Giacomo Colonna, come indicava una scritta; l�altro, presumibil-mente, Pietro, il suo più giovane fratello. Mancando tra i com-mittenti la figura di Niccolò IV, che invece compare nel mosaico del Torriti finito nel 1296 ma evidentemente iniziato prima del 1292, prima cioè della morte di quel papa, bisogna pensare che il mosaico della facciata sia stato iniziato dopo quello dell�abside. Tuttavia esso doveva essere già terminato entro il 1297. Nel maggio di quell�anno, infatti, Giacomo e Pietro Colonna furono cacciati da Bonifacio VIII, che li privò del cardinalato e li scomunicò. I Colonna vennero ricostituiti nei loro titoli solo nel 1306, quando, morto Bonifacio VIII, Clemente V li riabilitò. Si è spesso ipotizzato che questi mosaici sarebbero rimasti interrotti nel 1297 e terminati solo dopo il 1306, anche in considerazione del

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fatto che il Vasari indica la data 1308 per la loro esecuzione31. Ma gli argomenti di Julian Gardner in favore di una datazione

che precede il 1297 sono decisivi32. Se i Colonna avessero rimesso mano alla decorazione di Santa Maria Maggiore dopo il 1306, perché non avrebbero fatto completare anche la decorazione del transetto? Inoltre, una evidente citazione dei mosaici di facciata negli affreschi di Santa Maria in Vescovio, quasi certamente già eseguiti prima del 130233, postula per i mosaici stessi una data precedente. Infine, il papa Liberio è raffigurato con la stessa tiara portata da Niccolò IV nel mosaico del Torriti, la tiara con un grosso rubino alla sommità e un cerchio a smalti nella parte inferiore citata negli inventari papali del 1295; la tiara a cui Bonifacio VIII aggiunse due cerchi dopo il Giubileo del 1300 e di cui andò perduto il grosso rubino il 4 novembre 1305, quando essa cadde a terra durante l�ingresso di Clemente V a Lione.

Da parte mia, a sostegno delle argomentazioni del Gardner, vorrei fare osservare un particolare della moda. Nelle scene in basso del mosaico di facciata di Santa Maria Maggiore, proprio quelle scene - cioè - che spesso si considerano eseguite dopo il 1306, si vedono alcuni personaggi laici che, secondo l�uso del tempo, portano una cuffia bianca in testa; ebbene, molti di essi lasciano ancora che i loro capelli ne escano ricadendo sciolti sul collo e non arricciati nel rullo (fig. 28); il loro inconfondibile carattere di personaggi ben vestiti e moderni rende difficile che essi possano essere così raffigurati dal 1306 in avanti, e cioè in un�epoca in cui, come abbiamo visto, non si usava più portare i capelli secondo questa foggia. Anche i mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore hanno dunque come terminus ante quem il 1297.

Le tangenze di queste figurazioni musive con le Storie di san Francesco ad Assisi sono state puntualizzate molto bene dallo stesso Gardner, sia negli aspetti più generali che in alcuni passi particolari. Bisogna riconoscere, infatti, che questo porsi come storia moderna (fig. 28), in abiti contemporanei e fra architetture gotiche fa di queste storie del Miracolo della neve quanto di più vicino si possa immaginare agli affreschi di Assisi. Alcuni pas-saggi, poi,

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mostrano un rapporto talmente stretto da dichiararsi come una ispirazione diretta o addirittura una citazione.

Il Gardner si riferisce soprattutto a tre casi. Uno è la storia con II patrizio Giovanni davanti a papa Liberio, la quale ha molto in comune con la Conferma della Regola ad Assisi (figg. 27, 28). Il secondo caso è rappresentato dal Sogno di papa Liberio, in cui l�idea compositiva, sia pure in controparte, sembra rispecchiarsi pun-tualmente nel Sogno di Innocenzo III ad Assisi. Somiglianze anche più forti rilevava il Gardner tra la Fondazione di Santa Maria Mag-giore e la Rinuncia ai beni. In effetti, il gruppo formato da papa Liberio e il suo seguito richiama invincibilmente quello formato dal padre irato di san Francesco e dai personaggi che lo accom-pagnano (figg. 29, 30). Questo drappello umano così serrato in mezzo a un vuoto figurativo, la soluzione delle teste collocate idealmente allo stesso livello ma realizzate su piani orizzontali sfalsati, la presenza dei due bambini all�estrema sinistra sono evidenti punti di contatto tra le due scene.

Alle osservazioni del Gardner se ne possono aggiungere altre. Cosi, a rileggere la scena del Sogno del patrizio Giovanni nel disegno antico di Edimburgo, eseguito prima che il mosaico di Santa Maria Maggiore fosse danneggiato e malamente rifatto, appare in-dubbio il rapporto tra la figura distesa nel letto e il giovane san Francesco che sogna nella terza scena di Assisi. La posizione delle figure, il loro atteggiarsi nel sonno, il movimento e il panneggio della coperta che li ricopre parzialmente sono soluzioni figurative quasi sovrapponibili nei due casi. Vi sono poi due passi che sem-brano una citazione l�uno dell�altro; si tratta della donna all�estre-ma sinistra nella Fondazione di Santa Maria Maggiore e di quella al centro nel Presepe di Greccio ad Assisi (figg. 31, 32); una delle due figurazioni è certamente il frutto di un appunto ricavato dall�altra. Allo stesso modo, le volte a crociera stellate che compaiono nel So-gno di papa Liberio e nel Patrizio Giovanni davanti a papa Liberio richiamano intensamente la scena assisiate della Predica ad Onorio. Un altro elemento comune è l�idea di inquadrare le scene entro una solida cornice architettonica formata da un architrave agget-tante soffittato a pseudolacunari nella sua faccia verso il basso e sor-

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retto da vistose colonne appoggiate su di un piano orizzontale comune. In Santa Maria Maggiore, le colonne diventano piuttosto dei pilastri (fig. 28) ma la loro consistenza oggettuale ha lo stesso valore che ad Assisi.

Dati i rapporti evidenti fra i due cicli, e cioè i mosaici del Ru-suti sulla facciata di Santa Maria Maggiore e le Storie di san Francesco ad Assisi, sarebbe di capitale importanza stabilire da quale parte stia il dare e l�avere. Il Gardner vede nel ciclo romano una fonte figurativa per Assisi, con l�aria di chi da per scontato che i rapporti vadano in questa direzione. Ci dobbiamo chiedere, invece, se le cose non siano andate in modo diverso34.

Come è noto, l�aspetto più caratterizzante della rivoluzione figurativa avvenuta sullo scorcio del Duecento è la scoperta (o la riscoperta) dei valori spaziali. Ed è soprattutto l�affresco ad essere investito di questa nuova concezione: non più, come era accaduto fino adesso, una grande pagina stesa su una parete, quasi fosse una miniatura ingrandita con il suo fregio a motivi ornamentali coloratissimi e puramente grafici, ma una porzione di spazio proiettata al di là della parete della chiesa, a cui la parete della chiesa fa da piano trasparente, e il suo riquadro è pensato - molto coerentemente - come parte della parete stessa e quindi come un�inquadratura architettonica che entra, o da l�illusione di entra-re, nello spazio reale dell�architettura circostante. Ora, questo nuovo ordine di idee si realizza nel modo più sistematico e coe-rente nelle Storie di san Francesco ad Assisi, dove ogni particolare, ogni scorcio, ogni effetto architettonico e spaziale è controllato sul reale ed ha una sua credibilità e una sua giustezza, seppure raggiunte attraverso mezzi empirici. Ed è tanto autentico e diretto questo controllo sul reale che l�architettura non è più generica, ma è quella moderna, più o meno gotica, com�era davvero quella italiana nella seconda metà del Duecento; ed è in questa occasione che essa viene accolta sistematicamente nella pittura italiana.

Nei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore a Roma, la complessità delle soluzioni di architettura figurata è ormai come ad Assisi. Le coincidenze riguardano soprattutto quei caseggiati così sviluppati in altezza da un articolarsi di altane, di verande e

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di vani; riguardano le soluzioni degli interni con le volte a crociera stellate; riguardano infine l�idea di spartire le scene con colonne che sostengono un architrave soffittato. A Roma invece di colonne vi sono dei pilastri (fig. 28); essi impressionano per il senso di og-gettualità che riescono a dare, per la loro solidità e quasi tangi-bilità. Tuttavia questa impressione è da ridimensionare alquanto alla luce della constatazione che questi pilastri, invece di essere esagonali od ottagonali quali sembrano, sono pensati come qua-drati. Ciò appare chiaro dalla realizzazione del capitello ionico, che vuole imitare, evidentemente, un capitello antico, forse di quelli usati nella navata della basilica stessa. Ma appare anche più chiaro quando esaminiamo la curiosa soluzione prospettica messa in opera per le mensolette che sostengono l�aggetto del pavimento su cui posano i santi dell�ordine superiore (fig. 33); esse, invece di convergere (come vorrebbe l�esperienza visiva) divergono dal centro e la mensoletta centrale ha i due lati in scorcio semplice-mente allineati con quelli delle mensole che stanno alla sua destra e alla sua sinistra; sicché ne viene fuori una specie di forma trape-zoidale. Rappresentando i pilastri, seppure in una proporzione maggiore, lo stesso problema prospettico, sono risolti con lo stesso meccanismo figurativo. Un meccanismo, cioè, già in uso presso Cimabue (fig. 172) e comune a tutti quei motivi architettonici che si incontrano nella pittura romana di questo periodo35; motivi architettonici che, però, sono realizzati in modo puramente gra-fico. Ora, è proprio il fatto che su questo contesto culturale ar-caico, che possiamo chiamare per ora romano-cimabuesco, si inne-stino nel mosaico del Rusuti le nuove esigenze di corposità e di consistenza oggettuale, senza che questo innesto incida minima-mente sulla capacità di comprendere il funzionamento dei mecca-nismi di trasposizione dallo spazio reale a tre dimensioni su una superficie figurata a due dimensioni, a farci sospettare che si tratti di un innesto puramente meccanico tra due concezioni diverse l�una dall�altra e delle quali il Rusuti è soltanto un mediatore.

Che il Rusuti fosse un semplice trascrittore di testi e di idee, che egli non comprendesse fino in fondo come funzionano i mecca-nismi di cui si parlava, perché non li aveva scoperti lui stesso,

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lo dimostrano alcuni particolari, in apparenza quasi insignificanti ma in realtà clamorosamente rivelatori.

Se io ho un pavimento aggettante su una serie di mensolette, questo pavimento mi occupa in larghezza tutto lo spazio della figurazione, questa figurazione è fortemente centralizzata come nel caso nostro dove tutto è perfettamente simmetrico intorno alla mandorla del Redentore, ragione vuole che anche le mie menso-lette si comportino nello stesso modo e che il centro della figura-zione sia in asse con la mensola centrale. Ebbene, il Rusuti ha posto la mensola centrale molto spostata sulla destra, quasi a filo con il vertice dell�arcatura destra della mandorla (fig. 33); come se la composizione e il suo spazio fossero due cose indipendenti.

Ma ecco un�altra curiosa distrazione. I pilastri che separano le scene hanno una base scorciata in profondità e siccome è imma-ginata come vista dal basso le linee di scorcio si dirigono verso la linea orizzontale del pavimento. Ma c�è un passaggio risolto in modo del tutto irrazionale: nella base è incavata una cornice ret-tangolare i cui lati orizzontali nella veduta in scorcio dovrebbero anche essi dirigersi verso la linea del pavimento; invece, mentre quello superiore converge, quello inferiore è perfettamente pa-rallelo alla linea del pavimento (fig. 28). Ad Assisi, nei casi con-simili non si ha mai una défaillance così clamorosa (figg. 43, 234); perfino nelle architetture che inquadrano i santi nei sottarchi della prima campata le cornicette rettangolari che ornano la base, dal lato che cala in profondita (fig. 171), si lasciano tagliare netta-mente dal piano orizzontale del pavimento, dando così la perfetta illusione di essere viste dal basso. Si guardino anche le volte a crociera stellate nelle due scene che abbiamo messo in rapporto con la Predica di san Francesco davanti ad Onorio. Mentre nella scena assisiate esse sono definite con una chiarezza e una credibilità straordinarie, nel mosaico romano (fig. 28) non si riesce a capire come queste volte si articolino realmente, su quale pilastro vada a poggiare quel dato costolone, come si incroci con quell�altro, ecc.

Qualcuno potrebbe, allora, pensare che si tratti della fase più arcaica di un processo di perfezionamento del quale Assisi rappresenta un momento più evoluto. Ma i motivi di architettura

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figurata dànno perfino l�impressione di essere, nei mosaici romani, più complicati che ad Assisi; e non si dimentichi che gli storici dell�arte hanno quasi sempre considerato i mosaici di Santa Maria Maggiore come assai più tardi. Del resto, se esaminiamo la pittura del Trecento nel suo complesso, dobbiamo riconoscere che se il nuovo problema della rappresentazione dello spazio trova le sue soluzioni più razionali e coerenti nelle Storie di san Francesco ad Assisi e in Giotto, via via che ci allontaniamo sia geografi-camente che cronologicamente da questi vertici, una tale razio-nalità e una tale coerenza diminuiscono progressivamente. In altra sede, ho avuto occasione di fare alcuni esempi a tale proposito36, come quello di Duccio, che, partito da un totale disinteresse per i problemi di spazio nella Madonna Rucellai (si vedano gli angeli inginocchiati nel vuoto), si è poi trovato a fare i conti con le novità di Assisi e di Padova nella Maestà eseguita fra il 1308 e il 1311, e, ben lontano dal poter essere considerato come uno dei fondatori della nuova visione spaziosa, ne accoglie i principi con grande spirito di adattamento ma non senza denunciare notevoli incon-gruenze. Altri esempi che portavo sono quelli del Maestro della Santa Cecilia, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Giuliano da Rimini e dello stesso Rusuti. Particolarmente affini gli ultimi due: nel polittico di Boston di Giuliano da Rimini, datato 1307, facevo osservare come le suddivisioni del polittico at-traverso finte partizioni marmoree fossero un�evidente forzatura, trattandosi di un dipinto su tavola e non di un affresco. Una forzatura sono anche i finti pilastri collocati dal Rusuti a separare le scene della Fondazione di Santa Maria Maggiore, non solo perché si tratta di un mosaico e non di un affresco, ma soprattutto perché questi pilastri vengono spezzati inesorabilmente dai due rosoni laterali della facciata (fig. 28), pregiudicando la credibilità dell�in-tera impalcatura architettonica, che ad Assisi è invece immaginata con ben altra razionalità anche rispetto alla parete sulla quale doveva essere figurata.

Insomma, mentre il frescante di Assisi è perfettamente coerente con i principi a cui la sua opera appare ispirata, il mosaicista romano mostra per vari segni di introdurre nelle proprie figura-

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zioni gli stessi elementi con evidenti forzature e con una incom-prensione del loro funzionamento, che lo fa cadere in singolari distrazioni. Se, dunque, uno di questi due testi figurativi deriva dall�altro, al punto che bisogna ammettere che uno dei due artisti abbia preso sul testo dell�altro veri e propri appunti (come nel caso della donna nel Presepe di Greccio e della donna nella Fondazione di Santa Maria Maggiore), si deve concludere che i mosaici romani derivano dagli affreschi assisiati e non viceversa e che anch�essi vanno collocati in quel contesto di fatti che testimo-niano di una irradiazione delle idee di Assisi con progressivo offuscamento del loro razionalismo iniziale (come abbiamo notato in Giuliano da Rimini, nel Maestro espressionista di Santa Chiara, nel Maestro della Santa Cecilia e perfino nel grande Duccio).

Una riprova che le cose siano andate effettivamente così ci è fornita da un altro elemento. Quando notavamo alcune strette somiglianze tra i mosaici del Rusuti e gli affreschi di Assisi, ne abbiamo rilevate di particolarmente evidenti tra il corteo della Fondazione di Santa Maria Maggiore e il gruppo di sinistra della Rinuncia ai beni, il gruppo del padre irato, e dei compagni che gli tengono bordone (figg. 29, 30). Il punto in cui tale somiglianza raggiunge il culmine è nei due bambini all�estrema sinistra. Ora, va osservato che, mentre nel gruppo romano essi costituiscono una presenza puramente esornativa, ad Assisi hanno una loro precisa funzionalità iconografica. Questi fanciulli, infatti, come il Calandrino del Boccaccio, sul greto del Mugnone, si sono tirati su i lembi della veste per riempirla di pietre da tirare contro san Francesco per disprezzo della sua follia, secondo un passo della Legenda maior37. Che sia così ce lo rivela chiaramente la stessa scena nella cappella Bardi in Santa Croce, dove i due fanciulli, posti questa volta alle i due estremità della figurazione, sono colti nell�atto stesso di lanciare i sassi contro san Francesco con una mano, mentre con l�altra si tengono la veste che contiene i sassi. I fanciulli che lanciano sassi contro san Francesco e la Povertà si vedono anche in una delle Vele della Basilica Inferiore di Assisi. Dunque, la presenza dei due fanciulli nella scena assisiate della Rinuncia ai beni ha una i precisa ragion d�essere e risponde ad una puntuale necessità ico-

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nografica. Non così nel mosaico romano, dove costituiscono un puro episodio esornativo. È evidente, perciò, che se una delle due figurazioni deriva dall�altra, è la scena romana a derivare da quella assisiate e a far diventare un semplice abbellimento quanto era nato per una precisa ragione.

Ora, abbiamo visto che i mosaici del Rusuti dovevano essere già terminati nel maggio del 129738: ma quanto tempo prima era-no stati terminati? e soprattutto quanto tempo prima il Rusuti aveva avuto occasione di studiare gli affreschi di Assisi? Se si considera la lentezza di esecuzione dei mosaici, possiamo esser sicuri che questa occasione deve essere arretrata nel tempo ad una data che non può essere posteriore al 1295 almeno. E questo anno diventa un termine ante quem per gli affreschi di Assisi, facendo così cadere ogni possibilità di collegare la commissione con Giovanni da Murro, che divenne generale dei francescani soltanto nel 1296, e sganciandoci a questo punto da ogni obbligo di riferi-mento cronologico che si reggeva esclusivamente sul Vasari39.

Tirando le fila degli argomenti presi qui in esame, possiamo contare ora su tre possibili termini ante quem: quello sicuro degli affreschi della cappella Scrovegni fornitoci dall�esame della moda e del costume; il 1296-97 della decorazione della sala dei Notai a Perugia; il probabile 1295 dei mosaici del Rusuti, che potrebbe - del resto - anche arretrare. Avevamo incominciato il nostro discorso con il forte sospetto che gli affreschi di Assisi fossero precedenti al 1296, come sembrava indicarci il caso della barba di san Francesco; mentre l�esame della moda e del costume ci suggeriva una data intorno agli inizi degli anni novanta40.

Le «Storie di san Francesco» e il papa Niccolò IV.

Con questi nuovi elementi a disposizione, possiamo ora anche riconsiderare seriamente le osservazioni del Murray, che tende-vano a ricollegare gli affreschi di Assisi con Niccolò IV, papa dal 1288 al 129241. Il Murray notò la singolarità della costruzione

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ecclesiale sostenuta da san Francesco nella scena del Sogno di Innocenzo III (fig. 34); una costruzione che corrisponde alle descri-zioni dell�antica basilica lateranense lasciateci dal Panvinio e dal-l�Ugonio. La basilica fu restaurata profondamente da papa Nic-colò IV, come ci attesta un�iscrizione nell�abside sotto il mosaico che egli fece rifare al pittore Jacopo Torriti. L�iscrizione, datata 1290, comincia ricordando il sogno di Innocenzo III, quando vide san Francesco sostenere la basilica di San Giovanni in Laterano che stava andando in rovina; memore di questo, papa Niccolò, figlio di san Francesco, primo dei frati minori a salire al pontificato, vedendo questa chiesa in rovina, «ante retroque levat destructa reformat et ornat et fondamentis partem componit ab ymis». Questi lavori riguardarono anche la facciata visibile nel-l�affresco. La connessione tra l�affresco e i restauri di ispirazione francescana voluti da Niccolò IV sembrò al Murray diretta, tanto più che le figurazioni successive di questa scena derivate da quella di Assisi (come la predella del San Francesco del Louvre) non sono più così fedeli nella raffigurazione della basilica latera-nense42.

Da parte mia, vorrei aggiungere una considerazione che viene a confermare l�intuizione del Murray. È evidente la difformità iconografica del san Francesco che sostiene la basilica di San Giovanni in Laterano rispetto a raffigurazioni più antiche, quali quella in una vetrata della Basilica Superiore e in un affresco della navata della Basilica Inferiore, dove il santo sostiene la chiesa con la schiena, inarcandosi sotto il suo peso e voltando la testa verso di essa. Nell�affresco, dipinto presumibilmente dal Maestro del San Francesco (fig. 35), la scena è frammentaria e si vede solo una metà della figura del santo; ma si può indovinare facilmente la sua posizione: facendo leva colle braccia sulle ginocchia, egli pun-tella la chiesa con la schiena e si volge indietro a guardarla. Che la posizione del santo sia esattamente questa ce lo dimostra il con-fronto con una versione trecentesca dello stesso soggetto, quella del polittico della cattedrale di Ottana (fig. 36). Tale iconografia corrisponde alla lettera al testo della Legenda maior di san Bona-ventura, secondo la quale nel Sogno di Innocenzo III san Francesco sosteneva la basilica lateranense col dorso: «proprio dorso sub-misso».

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Queste stesse parole si leggono anche sotto la storia affrescata nella Basilica Superiore: ma il santo vi figura perfettamente eretto, a sostenere il portico di San Giovanni in Laterano con il braccio e con la spalla (fig. 34). Una difformità che è tanto più notevole in quanto non trasgredisce soltanto il testo letterale della Legenda maior, ma anche una tradizione iconografica già affermata. L�inno-vazione non mancherà dunque di significato. Certo, essa ci mostra un san Francesco in un atteggiamento molto più dignitoso e nobile, meno da uomo di fatica di quanto non apparisse nelle ver-sioni iconografiche precedenti (fig. 35); insomma, un ritocco del-l�iconografia francescana in linea con quello del san Francesco senza barba. Ora, sembra che questa innovazione iconografica sia da riconnettere proprio con Niccolò IV. Infatti, l�iscrizione del 1290 che il papa fece apporre in San Giovanni in Laterano per ricordare la connessione del restauro della chiesa da lui voluto col sogno di Innocenzo III, pur richiamandosi chiaramente al testo della Legenda maior, vuole che san Francesco sostenesse la chiesa «humerum supponens»43: mettendovi sotto le spalle e il braccio, esattamente come nell�affresco della Basilica Superiore di Assisi. Si deve anche notare la modificazione dei tre aggettivi che qualifi-cano l�aspetto del santo: «pauperculus, modicus, despectus», dice-va la Legenda maior; «pannosus, asper, despectus», dice la scritta di Niccolò IV, dove è significativa soprattutto l�abolizione di «pau-perculus», evidentemente sospetto per via della pericolosa dispu-ta sulla povertà. Non farà meraviglia, allora, la ricomparsa del-l�iconografia antica in una figurazione trecentesca come quella del polittico di Ottana (fig. 36), dato che questa opera, eseguita pro-babilmente a Napoli, ha un carattere tutto particolare, da ricon-nettere - come vuole il Bologna44 - con le tendenze spirituali dei committenti. Tutto ciò pone l�affresco assisiate e Niccolò IV in un rapporto molto più stretto di quanto non pensasse lo stesso Murray.

Ma più si approfondisce l�indagine e più si infittiscono gli indizi dei rapporti di questo papa con la Basilica Superiore di Assisi. Nell�abside si vede ancora il bellissimo trono papale, di un�architettura gotica ricca di motivi cosmateschi, che è stata cer-

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tamente una fonte di ispirazione per alcuni edifici dipinti nelle Storie di san Francesco. Come è stato notato da tutti, questo trono è opera romana, ma un fatto per noi ancora più significativo è che nel gradino sono scolpite le quattro bestie della profezia biblica, il cui testo si legge ancora, subito al di sopra: «super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et draconem»; ebbene, nella basilica di San Giovanni in Laterano Niccolò IV aveva fatto porre un trono papale che recava scolpiti su uno dei gradini un aspide, un leone, un drago e un basilisco, esattamente come nella Basilica Superiore di Assisi45.

Non sarà un caso, inoltre, che Jacopo Torriti, l�artista romano prediletto da Niccolò IV che gli fece eseguire i mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, abbia par-tecipato alla decorazione della Basilica Superiore di Assisi.

L�ipotesi che questa decorazione sia legata al pontificato di Niccolò IV è ben plausibile, anche per altre ragioni. Va tenuto presente, innanzitutto, il fatto che egli fu il primo francescano a diventare papa. Egli favorì ampiamente il suo ordine e i frati minori lo idolatravano. Le sue preoccupazioni missionarie rivolte verso l�Oriente erano state anche quelle di san Francesco46. L�ini-ziativa di far porre le immagini di san Francesco e di sant�Antonio da Padova tra quelle degli Apostoli e della Madonna nei due mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore dovette apparire come un fatto inusitato, tanto è vero che Bonifacio VIII sembra abbia progettato di farle togliere, perché non poteva tollerarne l�intrusione in un consesso di santi di così venerabile antichità47.

Questa volontà francescana di Niccolò IV si riversò innanzitutto sulla Basilica di Assisi. Le bolle promulgate in favore di essa in appena quattro anni di pontificato sono più numerose di quelle promulgate dagli altri papi prima e dopo di lui. Le indulgenze da lui concesse a chi la visitava sono di gran lunga superiori a quelle concesse dagli altri papi di quell�epoca. I suoi regali alla Basilica sono splendidi: con una bolla del 13 maggio 1288 egli dona tutti i suoi paramenti di seta di vario colore, vasi d�argento, una somma di danaro e varie altre cose come pegno del passato e del futu-

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ro affetto - sono parole sue - per la Basilica di Assisi. Il 9 agosto 1298 dona un paliotto per l�altare del Santo, ricamato in oro, ar-gento e perle, con le storie di san Francesco. Tra i suoi doni erano anche un piviale con le figure degli Apostoli ricamate e lo splen-dido calice eseguito dall�orafo senese Guccio di Mannaia, uno dei capolavori dell�oreficeria italiana48.

Il 15 maggio 1288, nei primi giorni del suo pontificato, Niccolò IV promulga una bolla in cui si dispone che le elemosine raccolte nella Basilica di Assisi e alla Porziuncola vengano utilizzate anche per «ornare» la Basilica stessa49. Ciò costituisce, come è già stato osservato dal Brandi50, l�aggancio più concreto fra questo papa e la decorazione della Basilica Superiore.

Se è vero che con la Basilica di Assisi ha avuto a che fare il papato, come tutta una serie ben nota di fatti sta a dimostrare, chi potrebbe dubitare che Niccolò IV non vi abbia avuto una parte da protagonista, dal momento che è proprio con lui che il papato mostra il massimo di interesse per la Basilica di Assisi? Non bisogna dimenticare, per giunta, che le sue iniziative in campo artistico sono rilevanti, se paragonate a quelle degli altri papi della sua epoca51. In soli quattro anni di pontificato egli fa restaurare, ingrandire e decorare San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, con un intervento di tale peso che rappresenterà uno dei capitoli più importanti nella storia delle due basiliche romane. Egli fondò il Duomo di Orvieto, consacrò la chiesa dell�Aracoeli e fece costruire un palazzo presso Santa Maria Maggiore52.

Siamo di fronte ad un papa che si presta bene ad avere avuto un ruolo importantissimo nell�impresa della Basilica di Assisi. E se la parte architettonica era ormai ultimata e la decorazione della Basilica Inferiore già compiuta, non rimane da legare alla sua iniziativa che la decorazione della Basilica Superiore53.

Questa decorazione e i lavori intrapresi nelle due basiliche ro-mane si richiamano continuamente. Lo abbiamo visto a proposito del San Giovanni in Laterano nel Sogno di Innocenzo III, lo abbia-mo visto ancora nel caso dei mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore così apertamente appoggiati al ciclo francescano di As-

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sisi. Lo abbiamo visto, infine, a proposito del fatto che proprio l�artista prediletto di Niccolò IV, Jacopo Torriti, che esegue i mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore (figg. 3, 4) è insieme uno dei collaboratori più impor-tanti nell�impresa decorativa della Basilica Superiore (fig. 116, 143, 144). Cosa dire, allora, degli affreschi del transetto sinistro di Santa Maria Maggiore, i cui resti con i famosi clipei (figg. 132, 134) sono stati attribuiti talora a Giotto stesso54, per via degli stretti legami con Assisi?

Dal momento che i lavori di restauro, di ampliamento e di decorazione intrapresi da Niccolò IV in San Giovanni in Laterano e in Santa Maria Maggiore presentano, come abbiamo visto, tutta una serie di rapporti con la Basilica Superiore di Assisi, diventa davvero molto probabile che il suo interessamento per la chiesa madre dei francescani sia da ricollegare con la decorazione della Basilica Superiore55.

1 F. Thomae De Celano, Vita prima S. Francisci, XXIX 83: «Barba nigra, pilis non piene respersa».

2 Vedi G. Previtali, La fortuna dei primitivi, Torino 1964, figg. 7-9. 3 Di questo importantissimo testo (già pubblicato in L. A. Muratori, Antiquitates Italicae

Medii Aevi, Milano 1738-42, III), si riporta qui di seguito tutto il passo relativo al mutamento della moda e alla straordinaria novella cui si è fatto cenno dall�edizione a cura di Giuseppe Porta (Anonimo Romano, Cronica, Milano 1981, cap. ix, pp. 42-44): «In questo tiempo [1340 circa] comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito, si de vestimenta si della perzona. Comenzaro a fare li pizzi delli cappucci luonghi [...] comen-zaro a portare panni stretti alla catalana e celiati, portare scarzelle alle correie e in capo portare capelletti sopra lo cappuccio. Puoi portavano varve granne e foite, como bene iannetti e Spagnuoli voco sequitare. Denanti a questo riempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portata varva, fora stato auto in sospietto de essere orno de pessima rascione, salvo non fusse Spagnuolo overo orno de penitenza. Ora ène mutata connizio-ne, che a deletto portano capelletto in capo per granne autoritate, varva folta a muodo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino. Vedi nova devisanza! E che più ène, chi non portasse capelletto in capo, varva foita, scarzella in cerna, non ène tenuto cobelle, overo poco, overo cosa nulla. Granne capitagna ène la varva. Chi porta varva ène temuto. Qui me voglio un poco stennere. In uno palese fu uno rege lo quale moito onorava li filosofi e l�uomini li quali sono savii e dico bone paravole. Questo re molto cercava de avere compagnia de huomini virtuosi. In sua corte accadde un grande filosofo. Moito fu alegro lo re della presenzia de questo buono orno e tanto maiuremente quanto questo filosofo aveva buono aspietto e pienamente responneva ad orme questione che ad esso

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se faceva. Ora vole lo re onorare la bontate, la scienzia, la vertute, la quale in questo filosofo se trovava. Invitaolo ad uno solenne convito de doverzi civi delicati e buoni, allo quale convito fu tutta soa baronia. La sala, dove lo magnare se faceva, fu granne e larga. Le tavole messe atomo atomo. Tutto lo palmento della sala era copierto de tappiti, li quali tappiti erano de pura e netta seta. Le mura intorno erano ammantate de celoni riccamente lavorati a babuini messi a seta ed aoro filato. Lo cielo de sopra era de cortina, fatto a stelle d�aoro. Moiti panni tartareschi li sparzi erano. Voleva lo re che quello convito solenne fussi. In capo alla sala stava una tavola piccola. A questa tavola sedevano lo re e lo filosofo soli. Viengo li serviziali, delicato portano manicare. Mentre che sse manicava, lo re non perdieva tiempo, anche dilientemente domannava lo filosofo che li rennessi rascione de certi dubbi. Lo filosofo, come prudente perzona, sufficientemente responneva. Soie resposte fortemente cadevano nello animo dello re, ca sse accostavano allo vero. Donne lo re spesse fiate diceva: �Bene dicesti. Piacerne�. Infra tanto allo filosofo venne voluntate de sputare. Teneva in vocca una granne spurgata una ora grossa. Più tenere non la poteva. Fore conveniva che uscissi; guardava lo filosofo intorno allo muro e per terra, cercava lo loco dove potessi sputare. Non vede luoco da ciò; ca, como ditto ène, onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo capo e abbe veduta la faccia dello re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga; la longhezza fi� a mieso lo pietto, le banne fi� nelle ionie delle spalle. Pareva uno varvassore. Considerao lo filosofo che quella varva fussi lo più brutto loco de quella sala e più atto a recipere lo suo sputo. Fermaose lo savio filosofo e sputao in mieso della varva dello re. Quanno lo re se sentio ciò, fortemente stette turbato e regoglioso e disse: �Questo perché hai fatto?� Respuose lo filosofo e disse: �De sotto, da lato, de sopre, de onne canto me staco panni messi ad aoro. Non ce ène luoco alcuno laido da sputare potere, salvo questa toa varva: è lo più laido luoco che nce sia. Perciò ce aio sputato, ca orno deo sputare nello più laido luoco �. A questa paravole lo re non responneva, ma stava muto. Allora lo filosofo lo toccava in la spalla e disse: �Di� ca bene dico? Di� ca te piace�. Ora se questi, li quali portano la varva, staiessino a lato di questo filosofo, reciperano quello che reciperano lo re».

4 A questo proposito è di grande interesse - anche se andrà valutato con la dovuta cir-cospezione - il racconto di Ruggero di Wendover e Matteo Paris, monaci di Sant�Albano, dell�accoglienza riservata inizialmente da Innocenzo III a san Francesco «che gli apparve come uno straccione, dalla faccia insignificante, con la barba lunga [il corsivo è mio], i capelli incolti, le sopracciglia nere e trascurate; �Vattene, frate, dai tuoi maiali ai quali assomigli, e rivoltati con essi, nel fango: la tua regola dalla a loro ed anche la tua predicazione�» (vedi G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d�Italia Einaudi, II, Torino 1974, p. 741).

5 Vedi P. Jones, La storia economica, ibid., pp. 1729-30. 6 La �scomoda� figura di san Francesco è stata oggetto di tutta una serie di

addomesticamenti. Impressionante quello avvenuto durante il generalato di san Bonaventura: «Non credo si dia un altro caso, in questi secoli, di una così sapiente, programmata e consapevole opera di revisione e alterazione degli episodi della vita, dei detti, degli insegnamenti di un personaggio storico, accompagnata dalla sistematica distruzione delle notizie e delle tracce che ne tramandavano un ricordo diverso, come avvenne per la biografia di Francesco durante il generalato di Bonaventura (febbraio 1257 - luglio 1274). Il decreto del capitolo generale di Parigi del 1266, che ordinava la distruzione di tutte le Legendae di san Francesco anteriori a quella di Bonaventura, rappresenta un fatto assolutamente unico nella storia dell�agiografia e della cultura medievali» (Miccoli, La storia cit., p. 764).

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7 «Ma non fia da Casal ne d�Acquasparta | là onda vegnon tali a la scrittura, | ch�uno la fugge e altro la coarta» (Paradiso XII 124-26).

8 Tutta questa situazione napoletana è stata ben riassunta da F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969, pp. 202-3.

9 Si veda ibid., pp. 126-32. 10 Fu A. Gosche, Simone Martini, Leipzig 1899, p. 35, a sostenere la commissione da parte di

Roberto d�Angiò per gli affreschi di Simone ad Assisi. Bologna, I pittori cit., pp. 150-59, ha ripreso l�argomento con dovizia di giustificazioni storiche. Sulla cronologia degli affreschi di Simone nella Basilica Inferiore di Assisi vedi anche L. Bellosi, Moda e cronologia. A) La decorazione della Basilica Inferiore di Assisi, in «Prospettiva», 1977, n. 10, pp. 28-29. Per quanto riguarda i rapporti della decorazione della cappella di San Martino con gli Angiò e con la loro politica ungherese, si veda, più recentemente, S. M. Newton, Tomaso da Modena, Simone Martini, Hungarians and St. Martin in Fourteenth Century Italy, in «Journal of the Warburg and Courtauid Institutes», XLIII, 1980, pp. 234-38.

11 Il fatto che tra questi santi manchi proprio santa Chiara sta a dimostrare che essi non sono qui raggruppati in quanto francescani.

12 Vedi G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Painting, Firenze 1965, nn. 218 e 379. Il san Ladislao è frammentario e non si può stabilire che cosa tenesse nelle mani, ma il santo Stefano regge chiaramente uno scettro e un globo. Ambedue hanno una corona in testa e sono accostati nello stesso contesto decorativo. La differenza più forte consiste nel fatto che i due santi hanno, a Napoli, la barba, diversamente da quelli di Simone Martini. Ma, data la rarità della loro raffigurazione, si può anche pensare che in questo particolare vi fosse una certa libertà di rappresentazione e che Simone Martini li abbia raffigurati in una forma più consona ad un suo ideale della regalità.

13 Vedi Bologna, I pittori cit., p. 150. Il cardinale Gentile Parlino da Montefiore, inviato in Ungheria da Clemente V nel 1307, era riuscito a farvi incoronare re nel 1310 il figlio del fratello maggiore di Roberto d�Angiò, Caroberto, che veniva così compensato della rinuncia ai suoi legittimi diritti sul trono di Napoli, cui Bonifacio VIII aveva destinato fin dal 1297 Roberto stesso.

14 Per l�identificazione dell�autore del polittico di San Martino a Mensola con Francesco di Michele si rimanda a L. Bellosi, Francesco di Michele, Maestro di San Martino a Mensola, di prossima pubblicazione in un numero speciale della rivista «Paragone» in memoria di Carlo Volpe.

15 Il DeAngelis (Basilicae S. Mariae Maioris... Descriptio, Roma 1621, p. 90) vi leggeva «ANNO DOMINI M.CC.XCV», ma la lettura corretta della data che il mosaico recava iscritta è «ANNO DNI. M.CCLXXXXVI» (si veda G. B. Ladner, Die Papstbildnisse des Altertums und des Mittelalters, II, Roma 1970, p. 246).

16 II mosaico absidale di San Giovanni in Laterano è completamente rifatto, ma la barba di san Francesco è ben evidente. Quanto alla datazione, va accolto il 1290 che si legge alla fine della scritta posta alla base del mosaico, secondo quanto riporta P. Lauer, Le palais du Latran, Paris 1911, p. 215, e quanto ha appurato C. Cecchelli, A proposito del mosaico dell�abside lateranense, in «Römische Forschungen der Bibliotheca Hertziana», XVI, 1961, pp. 13-18. La data 1291 si legge invece in un�altra iscrizione incastrata nel muro al lato della porta della sagrestia (Lauer, Le palais cit., p. 193) posta evidentemente al termine dell�intero restauro della basilica.

17 L�amico Ferdinando Bologna (The Crowning Disc of a Duecento «Crucifixion» and

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other Points Relevant to Duccio�s Relationship to Cimabue, in «The Burlington Magazine», 1983, pp. 330-40) solleva delle obiezioni sulla impostazione che ho dato a questo argomento. Devo osservare, tuttavia, che non mi sembra di aver voluto dire che «a beard was invariably considered a sign of �spiritual � or �pauperist �», ma soltanto che l�innovazione iconografica del san Francesco senza barba che compare per la prima volta nel mosaico torritiano dell�abside di Santa Maria Maggiore del 1296, proprio perché riguarda specificamente san Francesco e non altri santi (come Giovanni Battista, Pietro, Paolo) deve avere una ragione che riguarda specificamente la sua immagine. E la ragione che ancora continua a sembrarmi la più plausibile è quella che ho esposto nel testo. Quanto all�obiezione del Boskovits (Studi recenti sulla Basilica di Assisi, in «Arte cristiana», 1983, n. 697, p. 209) relativa al sant�Antonio da Padova che, invece, nello stesso mosaico di Santa Maria Maggiore porta la barba, è facile rispondere che il diverso trattamento riservato a san Francesco sta ad indicare che il problema era proprio quello di addomesticare e «depauperizzare» l�immagine di questo santo. Era Francesco, infatti, il protagonista e l�ispiratore del pauperismo degli spirituali, e non sant�Antonio. II fatto che successivamente anche sant�Antonio sia stato privato della sua barba, al punto che l�immagine più fortunata di questo santo restò proprio quella senza barba, arrivata fino ai nostri giorni (e può forse essersi diffusa da un luogo deputato come la Basilica di Padova, dove si trova - se non vado errato - la sua prima immagine sbarbata in un affresco molto giottesco), significa, mi pare, che, una volta riuscita l�operazione relativamente a san Francesco, la si adattò per estensione anche a sant�Antonio da Padova. Alle obiezioni del Bologna relative al san Francesco con la barba nelle formelle degli armadi di Santa Croce (ora nella Galleria dell�Accademia di Firenze) credo di aver già risposto nel testo. Gli armadi di Santa Croce, così come la Crocifissione della sagrestia, furono eseguiti probabilmente dopo il 1340. Infatti, quando gli uomini del Trecento ricominciarono a piacersi più con la barba che senza, il san Francesco barbato non aveva più alcuna connotazione riprovevole. Nel polittico Bromley Davenport a Macclesfield, lo stesso Taddeo Gaddi raffigura san Francesco senza barba, circostanza che può essere presa in considerazione come conferma della datazione precoce di questo dipinto. Sono comunque d�accordo col Bologna che questo argomento �barboso� non è certo il più forte per proporre una retrodatazione delle Storie di san Francesco. Esso può solo far venire qualche sospetto in proposito.

18 II passo della lettera, del 25 settembre 1348, è riportato nella traduzione di G. Fracassetti, Lettere di Francesco Petrarca, II, Firenze 1864, pp. 461-63. L�originale latino suona così: «Meministi, inquam, quis ille et quam supervacuus exquisitissime vestis nitor, qui me hactenus, fateor, sed in dies solito minus, attonitum habet; quod illud induendi exuendique fastidium et mane ac vesperi repetitus labor: quis ille metus ne dato ordine capillus afflueret, ne complacitos comarum globos levis aura confunderet; que illa con-tra retroque venientium fuga quadrupedum, nequid adventitie sordis redolens ac fulgida toga susciperet neu impressas rugas collisa remitteret [...] Quid de calceis loquar? pedes quos protegere videbantur, quam gravi et quam continuo premebant bello! [...] Quid de calamistris et come studio dixerim?».

19 Una conferma della datazione al 1303-305 della decorazione della cappella Scrovegni sembra suggerita dalla scoperta delle croci della consacrazione - avvenuta il 25 marzo 1305 - aggiunte a tempera sulle parti decorative degli affreschi e dalle notizie documentarie relative ai lavori nel 1306 per gli antifonari del Duomo di Padova, che ripetono alcune scene della cappella (vedi A. Borzon, Codici miniati. Biblioteca Capitolare della Cattedrale di Padova, Padova 1950; M. Walcher Casotti, Miniature e miniatori de! Trecento a Venezia, Trieste 1962, p. 31; D. Gioseffi, Giotto architetto, Milano 1963, pp. 117-18; C. Bellinati, La cappella di Giotto all�Arena, Padova 1967, p. 10; G. Previ-

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tali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, 2a ed. cit. 1974, p. 74). Ma se questi argomenti possono prestare il fianco a qualche dubbio, la datazione tradizionale ha per me un fondamento ben solido nel fatto che alcuni piccoli particolari della moda pongono l�esecuzione degli affreschi di Padova prima del polittico di Giuliano da Rimini del Museo Gardner di Boston, datato 1307. Per esempio: in un periodo in cui l�ampiezza dello scollo degli abiti femminili è rigidamente uniforme e col passare del tempo tende ad allargarsi, tutte le donne - dico tutte - che compaiono negli affreschi padovani hanno ancora uno scollo che non supera la circonferenza del collo, mentre già comincia a superarla negli abiti delle donne del polittico di Boston.

20 La controversa lettura della data della tavola della Santa Chiara (1283?, 1284?, 1285?) è stata risolta in favore del 1283 mediante il calcolo dell�indizione che accompagna la cifra dell�anno («Indic. XI tempore Dmi Martini papae quarti») da F. Casolini, Il protomonastero di S. Chiara in Assisi, Milano 1950, p. 74 e nota 229. Vedi anche E. Zocca, Assisi, Roma 1936, p. 199.

21 Per l�esecuzione dell�Omaggio dell�uomo semplice dopo tutte le altre Storie di san Francesco, si veda oltre, p. 102, nota 91.

22 Vedi la nota 19. 23 J. White, The Date of �The Legend of St. Francis� at Assisi, in «The Burlington Magazine»,

1956, pp. 344-51; M. Meiss, Giotto and Assisi, New York 1960; Previtali, Giotto cit., p. 46, che parla di «termini più stretti di quanto non indichino le pure date, e che si riflettono all�indietro nel tempo anche sulla datazione degli affreschi dell�ordine superiore». Per quanto riguarda il terminus ante quem individuato dal Bracaloni e ripreso dal Kleinschmidt, ma ingiustamente trascurato dalla critica, si veda nel capitolo seguente, p. 46 e nota 19.

24 Su questa decorazione, si veda ora M. Boskovits, Gli affreschi della Sala dei Notari di Perugia e la pittura in Umbria alla fine del XIII secolo, in «Bollettino d�arte», 1981, pp. 1-41, anche per la bibliografia precedente. Si vedano inoltre J. B. Riess, Uno studio iconografico della decorazione ad affresco del 1297 nel Palazzo dei Priori a Perugia, ivi, pp. 43-58; Id., Political Ideals in Medieval Italian Art. The Frescoes in the Palazzo del Priori, Perugia (1297), Ann Arbor 1981.

25 Si vedano, ad esempio, R. Van Marle, The Development of the Italian Schools of Painting, I, The Hague 1923, p. 530; M. Boskovits, Pittura umbra e marchigiana fra Medioevo e Rinascimento, Firenze 1973, pp. 12-13. Si veda anche R. Longhi, La pittura umbra della prima metà del Trecento, a cura di M. Gregori, in «Paragone», 1973, nn. 281-83, p. 13.

26 Ho sviluppato questa proposta in La Sala dei Notai, Marino da Perugia e un ante quem per il «problema di Assisi», in Per Maria Cionini Visoni. Scritti di amici, Torino 1977, pp. 22-25. Il successivo intervento di Boskovits, Gli affreschi cit. ha riesaminato il problema dell�attribuzione a Marino, escludendola e pensando piuttosto a due personalità artistiche, quella del Maestro del Farneto e quella del Maestro espressionista di Santa Chiara, che pare da identificarsi con Palmerino di Guido dopo le ricerche del Todini (si veda oltre, p. 146, nota 80). Debbo dire che il suo esame, finalizzato specificamente a questi affreschi, e perciò molto più sistematico e dettagliato del mio, mi trova sostanzialmente d�accordo sulla divisione di massima della decorazione fra due artisti, e anche sulla partecipazione del Maestro del Farneto; meno su quella del Maestro espressionista di Santa Chiara. Io continuo a trovare nelle figurazioni assegnate dal Boskovits a questo pittore una tendenza a un modellato più gonfiante e a delle caratteristiche anche fisionomiche che mi sembra possano approdare più naturalmente alla Madonna firmata da Marino che ad opere come il Crocifisso di Montefalco. Ma esprimo questo parere con

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qualche esitazione. Comunque sia, la cosa più importante mi pare sia stato il riconoscimento del carattere umbro di questi affreschi anche da parte del Boskovits, che in un primo momento si era allineato sul tradizionale riferimento cavalliniano.

27 Questo rapporto è stato notato anche da H. Belting, Die Oberkirche von San Francesco in Assisi. Ihre Dekoration als Aufgabe und die Genese einer neuen Wandmalerei, Berlin 1977, p. 96.

28 II Pellini (Dell�Historia di Perugia, I, Venezia 1664, p. 317) afferma di aver visto un documento di provvisione del 1296 relativo alla fabbrica del «palazzo nuovo» per gli anni dal 1293 al 1297. Gli spazi sotto gli affreschi sulle pareti della sala sono ricoperti dalle raffigurazioni degli stemmi dei capitani del Popolo e dei podestà che si sono succeduti nel governo di Perugia e i primi stemmi intorno alla porta d�ingresso sono datati 1296 e 1297. Va notato, tuttavia, che, come è confermato dai recenti restauri, tutti gli stemmi sono completamente rifatti; ma ciò non toglie che i rifacimenti si siano modellati su quanto restava di originale, come è avvenuto per gli affreschi negli arconi, che sono stati completamente �ripresi� durante i restauri ottocenteschi. Va considerata, a questo proposito, l�ordinanza del 1296 (vedi A. Briganti, Notizie sui primordi delle arti in Perugia, in «Rassegna d�arte umbra», 1910, pp. 89 e 96, doc. 12), in cui si allude a pitture fatte «nel palazzo novo».

29 Boskovits, Gli affreschi cit., p. 31, nota 47, riconosce che il motivo della fila di mensole - prospetticamente convergenti - deriva «con molta probabilità dalle Storie francescane di Assisi». Successivamente (Studi recenti cit., p. 208), rifiuta questa eventualità, pensando che vi possa essere stato un altro modello comune. Ma il fatto che in un primo momento, già nella fase giottesca della prima campata, si usino ancora le mensole prospetticamente divergenti del tipo cimabuesco e solo sotto i trifori dell�imposto dell�arcone di ingresso si sperimenti la prima piccola fila di mensole prospetticamente convergenti, che anticipano quelle della Leggenda di san Francesco, sta ad indicare con chiarezza che l�evoluzione di questo motivo è avvenuta proprio nella Basilica di Assisi e che li sono nate le mensole prospetticamente convergenti. Come si vede nel testo, altre osservazioni si sono aggiunte a quelle già fatte in occasione della pubblicazione della Barba di san Francesco a convincermi ulteriormente del fatto che gli affreschi della sala dei Notai sono posteriori alle Storie francescane di Assisi, le quali perciò sono state dipinte prima del 1296-97. Sono tranquillamente convinto che anche l�amico Miklós Boskovits si convincerà prima o poi della precocità delle Storie di san Francesco. Alla sua capacità di vedere i fatti artistici non potrà sfuggire, infatti, la stretta contiguità tra gli affreschi dei registri alti dalle Storie di Isacco in poi e le prime Storie di san Francesco, dal Dono del mantello in avanti, in contrapposizione alla distanza che esiste tra questo e gli affreschi Scrovegni. Quanto alla diffusione di un linguaggio �classicheggiante�, di fondamento romano, nella pittura perugina di fine Duecento, a mio parere è dovuta essenzialmente alla presenza degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti. Il contegno solenne e dignitoso, la caratterizzazione sublime, l�alta recitazione delle Storie di Isacco valgono come il più diretto precedente anche per le scene più sostenute della sala dei Notai, come quella con Mosè e Aronne davanti al Faraone. Che, a sua volta, il linguaggio �classicheggiante� delle Storie di Isacco sia romano, lo si potrà ammettere solo in senso molto generale (si veda oltre, pp. 187-201).

30 Per una bibliografia recente sui mosaici del Rusuti, vedi C. Cecchelli, I mosaici della basilica di S. Maria Maggiore, Torino 1956, p. 274; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, II, Roma 1966, pp. 229-30; Id., Mosaici medievali delle chiese di Roma, Roma 1961, p. 382; W. Oakeshott, The Mosaics of Rome, London 1967, pp. 326-28; H. Kerpp, Die Mosaiken in Santa Maria Maggiore zu Rom, Baden-Baden 1966, figg. 196-

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209; Bologna, I pittori cit., pp. 132-35; J. Gardner, Pope Nicholas IV and the Decoration of Santa Maria Maggiore, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», XXXVI, 1973, n. I, pp. 1-30,

31 Si veda, ad esempio, Bologna, I pittori cit., p. 134, che ipotizza un ritorno del Rusuti a Roma per terminare i mosaici della facciata di Santa Maria Maggiore in occasione del trasporto in questa basilica delle spoglie del cardinale Giacomo Colonna, morto in quell�anno. Il Bologna (The Crowning Disc cit., p. 339, nota 38) ha ribadito la sua opinione in favore di una datazione molto più tarda delle Storie della fondazione di Santa Maria Maggiore rispetto alle figure soprastanti. In questo senso si esprime anche A. Tomei, II ciclo vetero e neotestamentario di Santa Maria in Vescovio, negli Atti del convegno (tenutosi nel maggio 1980) Roma anno 1300, Roma 1983, pp. 355-78 (si vedano le pp. 358-60).

32 Gardner, Pope Nicholas cit. Anche M. Boskovits, Proposte (e conferme) per Pietro Cavallini, in Roma cit., pp. 297-329, pensa che le Storie della fondazione di Santa Maria Madore siano anteriori al 1297, anzi databili entro il 1295, in considerazione della proposta di A. Tomei, per cui si veda la nota successiva.

33 Recentemente Tomei, II ciclo cit., propone di vedere in una testimonianza documentaria del 1295 relativa a importanti lavori fatti eseguire in Santa Maria in Vescovio dal cardinale Gerardo Bianchi da Parma, a quel tempo vescovo della Sabina (di cui la chiesa era cattedrale), un punto di riferimento cronologico per la decorazione ad affresco. Pur non potendo superare lo stadio di una cauta ipotesi, lo studio del Tomei mi sembra un contributo importante e, nel suo complesso, indicativo anch�esso della precocità della presenza giottesca ad Assisi. Anche il Tomei accenna a questa circostanza, pur limitando il discorso alle Storie di Isacco.

34 C. L. Ragghianti, Percorso di Giotto, in «Critica d�arte», 1969, nn. 101-2, pp. 3-78, aveva già notato la dipendenza dei mosaici di Santa Maria Maggiore dalle Storie francescane di Assisi (p. 35).

35 Anche il Gioseffi (Giotto cit., p. 21) aveva sottolineato la differenza di costruzione tra le mensole dipinte da Cimabue e dai romani (notando anche la singolarità delle mensole di mezzo in «prospettiva rovesciata») e quelle dipinte sopra le Storie di san Francesco ad Assisi, di ben altra portata illusionistica. Si veda sopra, p. 16, e oltre, p. 151.

36 L. Bellosi, La rappresentazione dello spazio, in Storia dell�arte italiana, IV, Torino 1980, pp. 10-11.

37 San Bonaventura da Bagnorea, Legenda maior, II 2. 38 Nonostante quanto ha ribadito il Bologna (per cui vedi nota 31), a me continuano a

sembrare fondati gli argomenti per una datazione ante 1297. Il malconcio mosaico col Sogno di Innocenzo III nel cavetto sul fianco meridionale della facciata di Santa Maria in Aracoeli, databile probabilmente al tempo di Niccolò IV (M. Andaloro, II sogno di Innocenzo III all�Aracoeli, Niccolò IV e la basilica di S. Giovanni in Laterano, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Roma 1984, pp. 29-42), lascia intravedere una concezione non troppo dissimile dell�articolazione dell�architettura. A spiegare la diversità tra la parte alta e le scene in basso nel mosaico di Santa Maria Maggiore si potrebbe ipotizzare un viaggio del Rusuti ad Assisi. Mi pare che i rapporti con le Storie di san Francesco siano troppo diretti e �freschi� perché si possa pensare a una datazione tarda, che renderebbe mal giustificabili gli �errori� nella rappresentazione dello spazio visti sopra.

39 G. Vasari, Le vite de� più eccellenti pittori scultori e architettori, Firenze 1568, ed. a cura di P. Della Pergola, L. Grassi, G. Previtali, I, Milano 1962, p. 304: «si condusse in Ascesi, città dell�Umbria, essendovi chiamato da fra� Giovanni de Muro della Marca,

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allora generale de� frati di San Francesco, dove nella chiesa di sopra dipinse a fresco sotto il corridor che attraversa le finestre, da i due lati della chiesa». A proposito della scarsa attendibilità della notizia del Vasari, va anche tenuto presente che assai difficilmente qualunque generale dell�ordine francescano potrebbe essere stato il committente delle Storie di san Francesco ad Assisi che era una basilica papale; si veda, in proposito, Belting, Die Oberkirche cit. |

40 Due interventi hanno fornito delle conferme indirette della datazione precoce delle Storie francescane di Assisi. Uno è quello di I. Hueck, II cardinale Napoleone Orsini e la cappella di S. Nicola nella basilica francescana di Assisi, negli atti del convegno Roma cit., pp. 187-98, dedicato a una discussione sulla cronologia degli affreschi della cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore. Le sue osservazioni forniscono un serio argomento per una datazione precedente al 1297. Ora, è di tutta evidenza la seriorità di questi affreschi rispetto alle Storie francescane della Basilica Superiore: a chi non bastasse l�esame dei caratteri di stile, che appaiono assai più evoluti rispetto alle Storie francescane, si potrà ricordare - come fa la Hueck - che la facciata della chiesa nel Perdono del console è direttamente ispirata a quella del Compianto delle Clarisse. Un secondo intervento che sollecita indirettamente una datazione precoce è quello di S. Maddalo, Bonifacio VIII e Jacopo Stefaneschi. Ipotesi di lettura dell�affresco della Loggia Lateranense, in «Studi Romani», XXXI, 1983, n. 2, pp. 129-50, che, sulla base di varie considerazioni - la più convincente delle quali è il confronto con l�Incoronazione di Bonifacio VIII illustrata nel De Coronatione dello Stefaneschi, codice Vat. lat. 4933, c. 7v -, sottopone a una critica serrata l�interpretazione tradizionale dell�affresco lateranense come Bonifacio VIII che indice il Giubileo e lo considera invece la Presa di possesso del Laterano da parte di quel papa, che faceva parte delle cerimonie dell�incoronazione, avvenuta il 23 gennaio 1295. L�autrice suppone che l�affresco (in origine molto più ampio, come è noto) fosse stato eseguito verso il 1297, quando più alte si levarono le voci contro la legittimità della successione di Bonifacio VIII a Celestino V. Il linguaggio di questo affresco, che a mio avviso è stato giustamente attribuito dal Bertelli allo stesso autore degli affreschi più moderni del monastero delle Tre Fontane a Roma (si veda oltre, p. 131 e nota 72), presuppone le Storie di san Francesco ad Assisi: che verrebbero - anche per questa via - a sollecitare una retrodatazione rispetto al 1296-1300 circa previsto di solito da chi crede che esse siano opera di Giotto. Per inciso, vorrei notare che anche S. Nessi, La basilica di S. Francesco in Assisi e la sua documentazione storica, Assisi 1982, p. 215 e passim, sembra convinto della validità di quanto ho proposto e argomentato in proposito. Infine, D. Blume, Wandmalerei als Ordenspropaganda, Worms 1983, p. 37, prende già in seria considerazione una datazione delle Storie di san Francesco agli inizi degli anni novanta.

41 P. Murray, Notes on Some Early Giotto Sources, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1953, pp. 58-80. Le Storie di san Francesco sono state collegate col pontificato di Niccolò IV anche da Ragghianti, Percorso cit., ma senza fornire altro argomento a sostegno di questa tesi che non sia quello di una coerenza cronologica all�interno di un percorso giottesco avanguardisticamente anticipato. Va notato che i mosaici dell�ultima vela del Battistero fiorentino, quelli che il Longhi attribuiva a un «Ultimo maestro del Battistero» e che il Ragghianti vuole inserire nel percorso stesso di Giotto giovane, lungi dall�essere degli anni ottanta del Duecento, sarà difficile possano essere collocati prima degli inizi del Trecento, dato che certi particolari della moda non compaiono prima di quell�epoca: la veste della Salomè, ad esempio, è confrontabile solo con quelle delle donne che si vedono nella cappella degli Scrovegni. Su Niccolò IV come possibile committente per Assisi, si veda anche C. H. Mitchell, The Imagery of the Up-

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per Church at Assisi, negli atti del convegno del 1967 Giotto e il suo tempo, Roma 1971, pp. 113-34, che sottolinea l�importanza di Girolamo d�Ascoli, sia come generale dell�ordine sia soprattutto come papa Niccolò IV, per il programma iconografico della decorazione della Basilica Superiore.

42 Andaloro, II sogno cit., afferma categoricamente che «la facciata della basilica lateranense rappresentata da Giotto non presenta alcun elemento attribuibile ad interventi di Niccolò IV». Ma quello di Niccolò IV fu soprattutto un restauro di una «ruentem ecclesiam»; qualunque incertezza interpretativa si possa avere sul significato esatto di un passo della scritta che egli stesso fece apporre («romanus praesul partes circumspicit huius Ecclesie certa jam dependere ruina ante retroque levat destructa reformat et ornat et fundamentis partem componit ab ymis») è chiaro che qualcosa fu fatto anche nella facciata. V. Hoffmann, Die Fassade von San Giovanni in Laterano, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 1978, pp. 1-46, pensa che il mosaico di facciata fosse stato rinnovato da Niccolò IV, probabilmente ad opera del Torriti, e si pone il problema se tutta la parte superiore della facciata fosse stata rinnovata da quel papa. Egli pensa di no, perché vi mancherebbe una forma costruttiva allora moderna, il «cavetto». In realtà, nell�affresco di Assisi il «cavetto» è indicato molto chiaramente (mentre non lo si vede più nella predella delle Stimmate di san Francesco del Louvre né nell�affresco dell�abside di San Francesco a Pistoia, che sono le due immagini antiche di San Giovanni in Laterano di cui si serve l�Hoffmann, che non considera la raffigurazione della Basilica Superiore di Assisi in quanto largamente lacunosa; ma, nonostante la vasta lacuna, è evidentissima la curvatura del «cavetto» così come l�estremità delle ali di uno dei due angeli che in facciata erano figurati a mosaico ai lati del Salvatore) e questo indurrebbe a rispondere positivamente al dubbio dell�Hoffmann. Quanto al termine dependere con cui è indicato lo stato rovinoso della basilica lateranense, mi pare corrisponda in modo puntuale all�affresco assisiate, tanto da spiegarci la singolarità della raffigurazione della chiesa: �pendente� come la torre di Pisa, per intenderci. Credo valga la pena riportare anche, a complemento e per migliore comprensione della più lunga scritta riportata dall�Andaloro, quella apposta nell�abside della basilica lateranense, datata 1290: «Partem posteriorem et anteriorem ruinosas huius sancti templi a fundamentis reedificari fecit et ornari opere mosayco Nicolaus PP. IIII. filius Beati Francisci, sacrum vultum Salvatoris integrum in loco ubi prius miraculose apparuit quando fuit ecclesia consecrata».

43 Lauer, Le palais cit., p. 193.

44 Bologna, I pittori cit., pp. 252-64. 45 II rapporto tra la cattedra papale di Assisi e quella di San Giovanni in Laterano è già stato

notato, proprio per via di questa raffigurazione. B. Kleinschmidt, Die Basilika San Francesco in Assisi, I, Berlin 1915, p. 144, nota 1, ricorda che il Rohault de Fleury (Le Latran, p. 185) suppone quella lateranense copiata da quella di Assisi, mentre il Lauer (Le palais cit., p. 228) crede questa supposizione poco verosimile.

46 Si veda H. K. Mann, The Lives of the Popes in the Middle Ages, VII, London 1931, pp. 14-141. 47 Si veda Lauer, Le palais cit. Il fatto che si tratti di un racconto evidentemente leggendario

non ne diminuisce il valore indicativo. 48 Queste osservazioni sono già state fatte da C. Brandi, Duccio, Firenze 1951, pp. 130-31, cui

interessava metterle in rapporto con la parte della decorazione della Basilica Superiore intrapresa da Cimabue. Egli dava ancora molto peso alla lettura che il Kleinschmidt (Die Basilika cit., p. 192) aveva fatto delle lettere iscritte nel libro del Cristo fra

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i Dottori nella vetrata a destra dell�abside - «Nicolaus pulcro modo me fecit picturari GM» - che è risultata errata ad esami più recenti (si veda G. Marchini, Le vetrate dell�Umbria, Corpus vitrearum medii aevi. Italia I, L�Umbria, Roma 1973, p. 30).

49 Vedi G. Fratini, Storia della Basilica e del Convento di S. Francesco in Assisi, Prato 1982, pp. 85-88.

50 Si veda la nota 47. 51 A. Venturi, Storia dell�arte italiana, V, Milano 1907, p. 1050, lo chiama «mecenate del Du-

gento». 52 Su Niccolò IV «patron of art» vedi Mann, The Lives cit., pp. 196-206. 53 Nonostante l�opinione espressa da Andaloro, II sogno cit., che, per quanto riguarda il

Sogno di Innocenzo III della Basilica Superiore di Assisi, il rapporto con Niccolò IV «ne costituisce un presupposto ineliminabile», ma che «cronologicamente non è determinante se non come terminus post quem», mi pare che la prospettiva in cui l�autrice vede il papato di Niccolò IV sia estremamente favorevole all�ipotesi di una sua sostanziale responsabilità per le Storie francescane di Assisi: «dal generalato di S. Bonaventura in poi, il cammino dell�ordine francescano, nonostante tutti gli attriti che drammaticamente lo scuotono, procede nella direzione auspicata dalla chiesa romana, fino al punto che a capo di essa viene eletto un francescano. Con questo avvenimento l�osmosi tra le due istituzioni non poteva avere un sigillo più marcato». E proprio questo momento della massima osmosi possibile tra la Chiesa e l�ordine francescano il più favorevole a che la basilica di Assisi, chiesa-madre dell�ordine e insieme basilica papale, si rivestisse di una splendida decorazione, anche contravvenendo a disposizioni come quelle dei capitoli generali, valide per le costruzioni promosse dall�ordine, ma non per la basilica assisiate, che non è toccata da quelle disposizioni in quanto direttamente dipendente dal papa. Su questo punto, il libro del Belting (Die Oberkirche cit.) ha chiarito qualsiasi dubbio. Si tenga presente anche che la nascita di un «tesoro» della Basilica di San Francesco si deve sostanzialmente a Niccolò IV. Se si pensa alle opere artistiche realizzate da questo papa, e in particolare alla promozione dell�arte figurativa con la commissione dei grandiosi mosaici di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, di nuovo si ha in lui il committente ottimale della decorazione della Basilica Superiore di Assisi. Più ci si riflette sopra, più viene da pensare a Niccolò IV come a uno dei papi più importanti come mecenati artistici, paragonabile a un Giulio II. Uno studio su questo papa come committente credo sarebbe di enorme utilità da parte di chi si occupa di questi aspetti della storia dell�arte.

54 Pietro Toesca, cui va il grande merito di aver resi noti gli affreschi (Gli antichi affreschi di Santa Maria Maggiore, in «L�Arte», 1906, pp. 312-17), giunse in seguito ad attribuirli a Giotto (II Medioevo, Torino 1914-27, p. 1061); per la fortuna di questa attribuzione, si veda Previtali, Giotto cit., p. 370. Di una possibile attribuzione a Filippo Rusuti si parlerà oltre.

55 Non si può fare a meno di ricordare qui che l�argomento condizionante per la cronologia degli affreschi di Assisi, secondo cui la Volta dei Dottori non dovrebbe essere precedente al 1298 perché solo allora Bonifacio VIII avrebbe decretato il culto dei Dottori della Chiesa, non ha alcuna validità. Nonostante sia ancora utilizzato con imperterrita ostinazione dal Brandi (Giotto, Milano 1983, p. 14), esso è stato già confutato ampiamente e in modo definitivo. Previtali, Giotto cit., p. 38, adduce la testimonianza dell�Enciclopedia cattolica secondo cui il culto dei Dottori è molto più antico di Bonifacio VIII, che si limitò a istituire per essi il «rito doppio». Gardner, Pope Nicholas cit., nota 113, fa notare la raffigurazione dei Padri della Chiesa già nel mosaico absidale di San

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Clemente a Roma. Anche Belting, Die Oberkirche cit., pp. 95-96, confuta quella vecchia illazione cronologica con gli argomenti addotti dal Previtali e dal Gardner e cita l�affresco di San Giovanni a Tubre degli inizi del XIII secolo, cui ha poi dedicato un�attenzione particolare B. Brenk, Zu den Gewölbefresken der Oberkirche in Assisi, in Roma cit., pp. 221-28. In questo affresco, la presenza di Padri della Chiesa è accostata ai simboli degli Evangelisti e alla Dèesis, in un contesto iconografico assai affine a quello delle volte della Basilica Superiore di Assisi.

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