in piena facoltÀ - gennaio 2012

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Edizione di Gennaio 2012 di "In Piena Facoltà"

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N questi mesi, a Scienze Politiche, abbiamo assistito attoniti ed impotenti ad uno spettacolo che definirlo indecente è poca cosa. La Facoltà ha già pagato in questi anni la crisi d‟Ateneo e anche se il CENSIS ci posiziona in

alto rispetto a molte altre facoltà italiane, la sensazione è di profondo smarrimento e di estrema confusione, generata in primis dalla dipartimentalizzazione imposta dalla recente legge Gelmini. Come studenti ci siamo ampiamente schierati, vedasi movimento studentesco del 2010, contro una riforma che, senza l‟investimento di adeguate risorse, rischiava di essere una semplice riorganizzazione della pubblica amministrazione. La nostra profonda preoccupazione, rivelatasi effettiva, era costituita dai sempre più poveri investimenti statali e dalle sempre crescenti risorse “esterne”, paradigma di tutte le divisioni e delle maggiori conflittualità all‟interno delle facoltà. Non solo finanziamento degli esterni alla ricerca: dietro queste divisioni c‟è soprattutto la corsa un po‟ goffa all‟acquisizione di ruoli come quelli di Direttore di Dipartimento, che avrebbero permesso ai nuovi Dipartimenti di sostituire le vecchie Facoltà, in barba alla qualità della Didattica. A Scienze Politiche la situazione è ampiamente complicata e discussa: i Consigli di Facoltà sono esautorati. Prove tecniche di divorzio. Riunioni fatte in gran segreto, ordini del giorno presentati, magari visioni di uffici di Presidenza diversi, documenti votati, scelte di linee. Nei Consigli di Facoltà si fanno grandi discussioni, i toni diventano accessi e polemici, spesso più o meno esplicitamente volano parole anche dure, ma tutto ha il sapore di costruito e plastificato. Nella sostanza, ad oggi nel simulacro della Facoltà aleggiano due spiriti, uno si chiama DISPOC (Dipartimento Scienze Politiche e Cognitive), l‟altro DISPSI (Dipartimento Scienze Politiche Sociali e Internazionali), entrambi con lo stesso nome fino a rendere questo dettaglio simpatico ma anche grottesco, nessuno ha provato in alcun modo a fare passi in avanti e a prendere in considerazione che i due progetti, entrambi legittimi, con le loro analisi, anche buone, sulla didattica e sulla ricerca, forse avrebbero potuto, e potrebbero ancora, stare insieme. Negli incontri di fazione, ormai i Docenti sono abituati a vedere le stesse facce, ad ascoltare le stesse analisi fino a prendere con odio e con diffidenza anche le parole di quelli che erano fino a ieri tra i più onesti collaboratori. Non vogliamo essere maestri del giudizio, non è una condanna o una assoluzione quella che cerchiamo di raggiungere, quello che proviamo a fare è soltanto una analisi sincera e lucida (forse l‟unica, forse l‟ultima). L‟Università, in pochi lo sanno, si muove come l‟economia, anche noi abbiamo indicatori di valutazione per la qualità, anche noi agenzie di rating pronte a declassarci, anche noi con differenziali e punti di riferimento più o meno stabili. Sotto gli occhi, indicatori di qualità non limitati alla ricerca, ma anche il rapporto docenti/studenti, l‟aumento delle immatricolazioni, l‟arrivo di nuovi studenti “bravi” da altri atenei che si iscrivono alle magistrali. Del resto qualcuno asserisce che “si può avere una buona didattica senza fare una buona ricerca, ma viceversa difficilmente si può fare una buona ricerca senza una buona didattica”. Vero o falso che sia, il CENSIS fa da padrone come agenzia di rating: lo scorso anno siamo finiti quarti, sotto il podio ma ancora abbastanza in alto per reggere. Già, ma a cosa? E un altro declassamento sarebbe un duro colpo. Ma alla base c‟è un grave problema: il nostro spread! Proprio così, anche noi possiamo avere un differenziale: se si prendono in considerazione le immatricolazioni dell‟anno in corso, fatte salve le Facoltà scientifiche che fanno storia a sé, sono tutte cresciute, tranne Lettere che ha perso il 12% circa di immatricolati, mentre noi siamo rimasti fermi: nessun crollo, nessun incremento. Se poi si prende in considerazione il dato stabile di Economia (che abbiamo ritenuto essere la facoltà con un numero di immatricolati all‟anno più o meno stabile e sicuro) e quello di Scienze Politiche, il differenziale tra le due facoltà è pari a 482 studenti in meno. Numeri che non fanno ben sperare. Qualcuno direbbe che è strumentale fare questo tipo di rapporto, ma resta abbastanza utile avere un punto di riferimento. Questa enorme preoccupazione deriva però anche da un timore: un‟ulteriore divisione complicherebbe ancor più i vari indicatori di qualità. La crisi dell‟Ateneo, come già accennato, ha sfiancato la nostra facoltà: il nostro dovere dovrebbe essere non una ulteriore divisione ma un

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piano di rilancio comune. Altra pecca dei due Dipartimenti sono i numeri troppo bassi, che con i vari pre-pensionamenti rischiano di mettere in crisi la continuità temporale dei progetti. Siamo dunque proiettati verso un “oltre” che non ci permette di uscire dal pantano in cui siamo finiti e da cui, forse per sadismo, non si vuole e non si riesce proprio a uscire: perché non è più importante chi ha iniziato e come, si è arrivati ad un punto in cui le analisi e le riflessioni hanno lasciato il posto alle recriminazioni. È l‟agonia di una classe docente senza più idee, lanciate nel baratro dalle proprie posizioni, incapaci di essere maestri del buon senso. Proprio a casa della “politica” si sono generate divisioni e contrasti, si sono alimentate incomprensioni e si è finito per dare spettacolo oltre misura (vedi la delibera approvata dal Senato Accademico il 14 dicembre). I tempi per un ripensamento sono ormai scarsi, difficilmente un gruppo docenti che fino ad oggi si è riunito separatamente, potrà nei prossimi giorni tentare di ricucire lo strappo. I vari tentavi, maldestri, per evitarlo in totosono le contitolarità di alcuni, se non di tutti i corsi di studio. Perché contitolare corsi di studio? Qualcuno ci può assicurare che i Corsi di Studio non sono a rischio neanche per i futuri anni? Che questi progetti sono lungimiranti e resisteranno? Che sono troppo in contrasto per essere ridiscussi in progetto più ampio? A questo punto la parola spetterà al Senato Accademico a fine mese, senza un accordo. L‟unica possibilità è che il Rettore, ed è il nostro auspicio, metta una croce su tutti e due i progetti: il Consiglio di Facoltà avrebbe così perso una grande opportunità per assumersi in prima persona questa iniziativa, ma avrebbe vinto Scienze Politiche, che non può proprio permettersi una frattura. Se dal Senato arrivasse una precisa indicazione di questo genere, un parere negativo, la nostra proposta sarebbe quella di mettere in piedi una Commissione Costituente che avesse il compito di riscrivere un progetto allargato a tutti gli studi già presenti nella nostra Facoltà fino, magari, ad allargarsi ad altre nuove ed importanti esperienze. Sul banco degli imputati purtroppo non poteva non finire il Preside, il professor Luca Verzichelli, reo di non essere stato capace di guidare questa transizione a lidi più sereni e tranquilli. Eppure nessuno di noi se la sente di lasciargli tutto il peso delle enormi responsabilità, che potrebbero essere facilmente redistribuite tra i molti docenti presenti nella nostra facoltà. Qualcuno lo definirà “traditore” ma la sua è stata una scelta che immaginiamo sofferta, l‟afferenza del resto è stata imposta dal Senato, l‟unica tragedia è essersi trovati nel ruolo scomodo che ricopre. Non a caso in questi gironi si è fatta più pressante la voce di una sua possibile uscita di scena, le dimissioni. L‟assenza del Preside stesso al Senato in cui molti studenti di Scienze del Servizio Sociale decisero l‟interruzione, sostituito (commissariato?) da ben altri docenti, ha azzerato il rapporto di fiducia tra lui e gran parte del Consiglio di Facoltà, complicando ancor più il quadro. Dietro tutto questo rumore, c‟è solo la guerra tra tribù in cui si può sacrificare chiunque in nome del “Capo”. Una guerra che non fa prigionieri, che non permette tentennamenti. Storiche rivalità che si consumano sotto gli occhi di una facoltà che fatica a reggersi in piedi. La parola passerà, dunque, il 25 gennaio al Rettore: qualunque sia la scelta quello che ci sentiamo di dire è di fare in fretta, per tornare a parlare di corsi di studio e rilancio dell‟Ateneo ed archiviare così questa difficile e traumatica fase. Sul Rettore e su quanto disporrà, cresce l‟attesa. Come studenti abbiamo già detto che l‟unica via d‟uscita è che bocci entrambi i progetti fatti dai nostri docenti. Quello che ci si chiede è se il Magnifico si assumerà questa responsabilità. A dispetto di ogni pronostico la partita è tutt‟altro che chiusa, basterà trovare il coraggio che è mancato da un anno a questa parte. Come studenti abbiamo l‟esclusivo dovere di verificare l‟impatto che i nuovi Dipartimenti avranno sui corsi di studio, assicurando la piena sostenibilità dei Corsi e il mantenimento inalterato dell‟offerta formativa già troppo ridimensionata in questi anni, basti pensare alla già sacrificata “Scienze dell‟Amministrazione”. Il nostro è un appello chiaro al Rettore: verifichi quale siano le reali condizioni dei due Dipartimenti e opti per una soluzione che vada verso la riunificazione! Ai Docenti quello che ci sentiamo di dire è: facciamo tutti un passo indietro, prima che sia troppo tardi! Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Per questo motivo noi abbiamo deciso di scegliere l‟unica parte in cui la nostra intelligenza ci costringe a stare: quella dell‟unificazione delle Scienze Politiche.

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CON BUONA PACE di zio Fëdor.

Un decreto scellerato sacrifica l’insegnamento al bisogno di denaro

Il Consiglio di Facoltà approva uno status quo. Status di emergenza quasi un anno dall‟approvazione dell‟attuale Offerta Formativa della Facoltà di Lettere di Siena, vorremmo tirare le somme. La proposta delle due triennali, Studi Umanistici (il magico calderone liceale) e Comunicazione Lingue e Culture (o meglio Colture), non ha

superato la prova. OFFERTA RELATIVA –Ciononostante, lo “sveglissimo e lungimirante” Consiglio di Facoltà (CdF) pare voglia riconfermare la stessa Offerta anche per l‟anno 2012/2013. Pare che sia i professori che il Preside non si siano accorti: delle aule gremite di studenti seduti a terra o addirittura fuori dalla porta; neppure di interminabili liste di iscrizione agli appelli d‟esame, esami che per questo motivo durano giorni e giorni causando evidenti problemi agli studenti; per non parlare dei già e prossimi trasferimenti dalla Facoltà, poiché quasi tutti i curricula non offrono un adeguato numero di crediti caratterizzanti per iscriversi a Lauree Magistrali che non siano di Lettere di Siena; ed anche la sostenibilità di tre ordinamenti attivi con mutuazioni di corsi e di crediti degli stessi o persino soppressione di alcuni. OK, va bene, abbiamo capito che Lettere diventerà essenzialmente una Facoltà per Siena e Provincia, ma farlo così di sottecchi è una presa in giro! DELITTO E CASTIGO – Un po‟ di storia: ormai quasi un anno fa al CdF straordinario di Lettere del 22 febbraio 2011, il punto all‟ordine del giorno era l‟approvazione dell‟Offerta Formativa (OF) per l‟a.a. 2011/2012; noi, rappresentanti degli studenti di Link, abbiamo manifestato il dissenso per essa, per l‟appunto l‟attuale, e non siamo stati presi nemmeno in considerazione. In seguito al D.M. del 22 settembre 2010 n. 17 eravamo di fronte ad un‟ardua scelta: quantità o qualità? È evidente che, nonostante la non lungimiranza e la dequalificazione dell‟OF, la scelta sia stata la prima e, come già detto, studenti del primo o degli anni successivi, ne stiamo pagando le conseguenze. Il processo di smantellamento, soprattutto a livello nazionale, dell‟istruzione pubblica mascherato da un‟apparente meritocrazia e da un malcelato potere baronale continua, ma noi studenti urliamo come da titolo: “provaci ancora, Lettere!”. ALL’ERTA STIAMO – Saremo presenti, come sempre, al Consiglio di Facoltà del 19 gennaio 2012 e nei successivi straordinari, chiederemo per l‟ennesima volta che chi di dovere, docenti e studenti, si assumano le proprie responsabilità e abbiano il coraggio di scegliere la qualità: consci del sacrificio che richiediamo, proponiamo il taglio dei curricula con un esiguo numero di crediti caratterizzanti la propria disciplina a favore di un rafforzamento degli altri che offrono già un‟offerta minima. Lottando per gli studenti saremo sempre a testa alta, noi.

Cosimo Laterza – Sara Santoro

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Scuola, università, welfare: non un passo indietro su queste tematiche

Il Coordinamento Nazionale ribadisce le linee guida del Movimento AVANTI ai grandi movimenti studenteschi dello scorso autunno più volte il ministro Gelmini e altri esponenti della sua maggioranza di governo hanno replicato solo con accuse sprezzanti: “siete strumentalizzati” o il classico “non avete neanche letto la

riforma”... Mentivano sapendo di mentire: infatti nelle mobilitazioni sono nate tantissime proposte e analisi, tra queste le AltreRiforme della scuola dell‟Università (www.altrariforma.it). Cambiato il governo, e insieme ad esso, cambiata radicalmente la fase politica, per noi cambia poco. Le nostre condizioni sono le stesse e sembra resteranno tali. Il neoministro Profumo, che tanto aveva criticato i tagli, quanto apprezzato la riforma Gelmini, non ha intenzione di fare marcia indietro sull‟attuazione della 240/10, e continua a ripetere che non ci sono risorse da investire. La scuola pubblica italiana è un arido deserto. Hanno ridotto e precarizzato il personale docente, ATA, annullato l‟offerta formativa, tagliato ore agli istituti tecnici e professionali mentre hanno finanziato con centinaia di migliaia d‟euro le scuole private. Hanno calpestato i nostri diritti: primo su tutti quello al dissenso, inserendo il voto di condotta e il limite di 50 assenze. Resta ancora l‟impianto fascista del secolo scorso: da una parte gli studenti che fanno percorsi di serie A e dall‟altra di serie B, a cui si aggiunge la serie Z: la formazione professionale. Questo il contesto delle nostre scuole, che nel frattempo continuano a cadere a pezzi (oltre il 40% non è a norma), senza risorse per l‟edilizia scolastica, senza laboratori, palestre e spazi per gli studenti. Infine mentre aumenta la dispersione scolastica, il diritto allo studio nelle scuole superiori è lettera morta: nessuna legge che definisca cos‟è, nessuna risorsa che lo finanzi. All‟inizio dell‟autunno 2010 dicevamo che l‟università prospettata dalla riforma Gelmini sarebbe diventata una non-università, privatizzata, autoritaria, esclusiva. Avevamo ragione. Quella che viviamo oggi è un‟università sempre più privata perché la riforma fa entrare le aziende nei Cda degli atenei, ma anche privata di democrazia, perché vengono cancellati i pochi spazi di partecipazione degli studenti, privata di senso, perché con una didattica sempre più vuota. I tagli della 133 hanno messo in ginocchio gli atenei, portando a tasse sempre più alte. I tagli del 90% al diritto allo studio dell‟anno scorso (soltanto parzialmente rifinanziati dall‟ultima legge di stabilità) stanno portando all‟espulsione di 200mila studenti dal sistema formativo italiano. Quella che si sta delineando è un‟università per pochi, solo per coloro se lo può permettere, costringendo chi non può a indebitarsi per tutta la vita attraverso i prestiti d‟onore. I nuovi statuti targati Gelmini disegnano atenei sempre più autoritari, con pochi baroni con sempre più potere. Tutto ciò in un contesto in cui la dittatura dei mercati sulle nostre vite si fa sentire come sempre più concreta, e dinanzi a ciò le politiche dei singoli stati nazionali su spinta dell‟UE impongono a tutti noi di pagare un debito che non ci appartiene. Rifiuteremo ogni manovra che sia non solo recessiva e iniqua, ma che nel contempo non interrompa, o peggio, alimenti la spirale speculativa. Non intendiamo pagare questo debito, non crediamo lo debba pagare la nostra generazione, che certamente non l‟ha prodotto, ma rifiutiamo anche la logica per cui la colpa dell‟enorme debito pubblico italiano sia colpa dei nostri padri. Le conseguenze sociali della crisi non devono ricadere su studenti, precari, lavoratori e pensionati che fino a ora hanno pagato fin troppo la insostenibile e avida corsa ai profitti che sta distruggendo l‟Europa e il mondo, socialmente e ambientalmente. Sappiamo bene che la democrazia, in Italia come in Europa, è ormai in ginocchio, e che non basta chiedere e proporre per ottenere un cambiamento che non può che essere profondo per essere vero. È necessario mettere in campo una nuova stagione di lotte, costruendo e rinsaldando alleanze sociali, mobilitandosi su obiettivi chiari, con battaglie specifiche, così come sui grandi temi, con una incessante opposizione a qualunque governo non risponda subito sui seguenti punti, e non metta in campo politiche economiche che cambino radicalmente l‟Unione Europea, il ruolo della finanza, insostenibilità ambientale di questo modello economico. Vogliamo poter studiare in scuole pubbliche, di qualità e accessibili a tutte e tutti.

LINK – Coordinamento Nazionale

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E intanto gli studenti di Santiago continuano a scendere in piazza

In Cile Piñera riscrive i libri di storia. E “ammorbidisce” Pinochet UELLA di Augusto Pinochet non è stata una dittatura ma piuttosto un regime militare. Questo è quanto ha deciso il Consiglio Nazionale dell‟Educazione cilena il passato mercoledì nella riunione per l‟elaborazione dei programmi curriculari delle scuole. Il

Ministro dell‟Educazione Harald Bayer ha tentato da subito di ridimensionare il valore politico della modifica sottolineando il “carattere più generale” del termine regime militare e dell‟intensione di non imporre la modifica ma, piuttosto, di “aprire un dibattito”. LE REAZIONI – Le reazioni non si sono fatte attendere. Camila Vallejo, a nome della Federazione degli Studenti dell‟Università del Cile, ha dichiarato che la misura rappresenta “un attacco alla memoria storica e al pensiero critico”. Per i deputati dell‟opposizione il Governo sta tentando di modificare la storia recente. “Le dittature sono dittature” ha attaccato l‟ex presidente Eduardo Frei. “Possono provare a cambiarlo nei libri di scuola ma nell‟immaginario collettivo resterà il fatto che il Cile ha vissuto una terribile dittatura” ha aggiunto. Durissima anche la reazione dei comunisti e dei socialisti, che hanno denunciato l‟intenzione del Governo di Sebastián Piñera di voler far dimenticare le violenze perpetrate durante 17 anni di dittatura militare. Il Cile tra il 1973 e il 1990 è stato governato da una giunta militare - a seguito del golpe che rovesciò l‟esecutivo socialista di Salvador Allende - che ha causato la morte di circa tremila oppositori politici. Per parte sua la destra difende la misura. Secondo Alberto Cardemil, ex ministro di Pinochet, “qualcuno vorrebbe una interpretazione unica della storia, a tinte rosse”. Il deputato conservatore Ivan Moreira ha voluto sottolineare che “il termine dittatura stigmatizza un governo che ha consegnato democraticamente i suoi poteri, cosa che mai nessuna dittatura ha fatto”. IL CONTESTO – A seguito delle proteste, il Consiglio Nazionale dell‟Educazione si è mostrato disponibile a rivedere la modifica apportata ai piani curriculari. Quella sui programmi scolastici è solo l‟ultima delle proteste e delle polemiche che negli ultimi mesi si sono sviluppate in Cile sul tema dell‟istruzione. Da un anno gli studenti manifestano per una liberalizzazione dell‟accesso alle università e un abbassamento delle tasse. A seguito a queste proteste si sono dimessi ben due Ministri dell‟Educazione.

Nicola Tanno

11 settembre 1973 muore, a Santiago del Cile, Salvador Allende. Non c‟è una verità pacifica sulle cause della morte, o meglio non c‟è la certezza su chi fu a premere il grilletto, infatti il motivo della morte fu certamente il colpo di Stato attuato

da Augusto Pinochet e altri capi militari cileni. Allende rifiutò l‟offerta di un volo per lasciare il paese, preferendo barricarsi all‟interno della Moneda, il palazzo presidenziale, e comandando una strenua difesa. Quando fu ormai chiaro l‟esito dello scontro, ordinò a tutti di mettersi in salvo fuori dal palazzo, restando da solo nel suo ufficio, ad attendere l‟arrivo degli uomini dell‟esercito assediante; tuttavia il suo medico personale, disubbidendo agli ordini, tornò indietro e fu testimone del suicidio del presidente, che, con il suo fucile mitragliatore, si sparò in testa per non cadere prigioniero delle truppe di Pinochet. L‟altra ipotesi è che siano state queste ultime a fare fuoco a vista. L‟autopsia confermò il suicidio, e anche le circostanze dovrebbero favorire questa ipotesi: una volta rifiutato di fuggire, erano già delineate le scelte dell‟uomo. In ogni caso, non vengono meno le responsabilità di chi mise in atto il golpe.

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HO FIDUCIA NEL CILE E NEL SUO DESTINO. (Monumento a Salvador Allende, Santiago, Cile)

Salvador Allende era nato nel 1908, era diventato medico, sin da giovane aveva avuto idee socialiste, forse anche grazie all‟amicizia con l‟emigrato italiano Juan De Marchi, anarchico, e finalmente nel 1970 riuscì a vincere le elezioni, con il 36% dei voti. Mise in atto un programma che prevedeva la riforma scolastica, malvista dalla Chiesa Cattolica, l‟esproprio di ogni terreno superiore agli 80 ettari irrigati, ovviamente contrastato dai ceti agrari medi e grandi, la nazionalizzazione della maggiori industrie private, tra cui spiccavano quelle del rame, in cui il Cile era tra i maggiori esportatori mondiali, l‟innalzamento del livello dei salari e la maggiore occupazione, soprattutto dei ceti più poveri, la sospensione del pagamento del debito estero. Come si può facilmente intuire, in un clima di piena guerra fredda, gli Stati Uniti d‟America non potevano tollerare una tale ristrutturazione del paese in chiave socialista, perchè avrebbe causato una diretta perdita di proprietà per le multinazionali e avrebbe destabilizzato tutti paesi dell‟America Latina. Track I e Track II si chiamavano i piani della CIA per evitare questa soluzione, il primo mirava alla corruzione del Congresso cileno, che avrebbe dovuto avallare la presidenza di Allende, non avendo ottenuto la maggioranza assoluta, e il secondo prevedeva il pesante finanziamento delle opposizioni e soprattutto di un colpo di Stato. Ogni indagine e dichiarazione ha portato ad allontanare la responsabilità diretta degli Usa di Nixon nel golpe di Pinochet, anche se

l‟ammissione che altri golpe non erano stati sostenuti solo perché il candidato ad attuarlo non sembrava quello adatto, fanno pensare ben diversamente, senza contare il massiccio flusso di armi e finanze che certamente c‟è stato. Il forzatamente dimezzato mandato di Allende fu pieno di difficoltà, sia per i contrasti interni ed esterni da un punto di vista politico, che portavano, oltre ai problemi di destabilizzazione diretta appena descritta, a problemi economici come gli embarghi commerciali e gli scioperi motivati da finanziamenti statunitensi, come quello dei camionisti del „72, sia per le difficoltà oggettive nel gestire un paese, nel quale si vorrebbero tutelare i ceti poveri ma l‟inflazione galoppa, nel quale l‟esportazione del rame rappresenta più del 50% degli introiti delle esportazioni ma il suo prezzo nel mercato mondiale cala del 25% dal „70 al „71. L‟11 settembre 1973 termina la possibilità di esistenza di uno Stato socialista, nato in democrazia, costituzionale, che ebbe il coraggio di ribellarsi alla dipendenza economica e politica degli Stati Uniti, che solo marginalmente vide guadagni dal lato sovietico per questa scelta, che si erse da solo a rappresentanza di sé stesso. I cittadini cileni scelsero il programma socialista non con le armi, ma con il voto. Quegli stessi cittadini, dopo il golpe, si videro arrestati, torturati, gettati da aerei in volo, giustiziati, divennero noti con il tristemente noto appellativo di “desaparecidos”, semplicemente scomparsi, a decine di migliaia, lo Stadio Nazionale di Santiago venne allestito a campo di concentramento; i figli più piccoli degli oppositori venivano rapiti e affidati a sostenitori del regime. L‟11 settembre 1973 muore Salvador Allende, che si trasforma in mito. L‟11 settembre 1973 svanisce la visione di un paese socialista e nasce una dittatura.

Antonio Totonik Gallo

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PARE che Charlie abbia visto in anteprima cosa aspet-ta gli operai della Fiat.

Si scrive “necessità”, ma forse potrebbe pure leggersi “golpe morale”…

Cosa c’è oltre il fumo negli occhi di spread, equità e compagnia? N questi confusi e cupi giorni di approvazione di manovre finanziarie “inevitabili”, di conformismo culturale e di consenso più o meno generalizzato, al netto del gioco delle parti che stanno simulando ciò che rimane del centro-sinistra ed i sindacati confederali, intorno a

provvedimenti evidentemente recessivi, punitivi e classisti, abbiamo almeno la fortuna di poter finalmente identificare con chiarezza quale ruolo ricoprono, nella società odierna, economisti ed esperti del settore, specialisti e commentatori dei mezzi di informazione. È un ruolo che ha una duplice natura, niente altro che due facce della stessa medaglia. FACCIAMOCI DEL MALE – In principio infatti, sui giornali e nei programmi di approfondimento, si incaricano di presentare in maniera scarsamente comprensibile, fintamente tecnicista e piena di termini oscuri la situazione di crisi che il nostro paese attraversa da mesi. In questa maniera è possibile creare un‟area grigia dell‟informazione, troppo complicata per essere compresa dal comune mortale, lontana dalle possibilità di riflessione ed elaborazione personale da parte del lettore (o dello spettatore) indifeso. Il tutto condito con una dose non indifferente di disonestà, nella maniera di presentare o nascondere notizie e fatti. Al riguardo sarebbe molto educativo fare una analisi congiunta di due interessanti variabili : da un lato lo spread (questo nuovo e misterioso protagonista della storia) tra titoli del debito pubblico italiano e quello tedesco e dall‟altro i titoli di un qualsiasi quotidiano. Il quotidiano la Repubblica in particolare, in maniera sfacciata, dopo avere agitato per mesi questo spettro ora sembra avere dimenticato tutte le riflessioni dolorose e urgenti che le ispirava il tema “quando c‟era Silvio”, nonostante lo spread stesso continui la sua oscillante e preoccupante traiettoria. Tuttavia, proprio per rispondere a questa oscurità e complessità del tema, gli stessi economisti e brillanti commentatori (qualche anno fa un lungimirante signore avrebbe parlato di “pugilatori a pagamento”), si preoccupano anche di fornire direttamente le risposte, le soluzioni pre-cotte, presentate nella forma, scientificamente assai dubbia, di verità assolute ed indistruttibili, fornendo così una base ed una giustificazione teorica all‟ingiustificabile. È così che ci sentiamo dire ossessivamente che i sacrifici sono necessari ed urgenti. Ma per fare cosa? Per chi? E soprattutto a quale scopo? “È L’UNICA ARMA CHE ABBIAMO” – È così che scopriamo che il nostro sistema pensionistico è insostenibile, implosivo, niente altro che un ladro di futuro per i “giovani”, senza che questo sia argomentato o giustificato, nascondendosi dietro alla banale motivazione della speranza di vita allungatasi. Da notare drammaticamente come una vulgata di tale fattura cada nel silenzio, dove invece dovrebbe essere doveroso rispondere che quaranta anni di lavoro salariato sono un tributo da pagare già piuttosto salato, in termini di tempo e di salute, ad un sistema alienante e massificante. Senza dimenticare che allungare la vita lavorativa significa sottrarre possibilità di inserimento a chi si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro. Senza dimenticare, volendo porre la questione in termini che non appartengono a chi scrive, che è piuttosto ovvio che a 67 o 68

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EQUITÀ? Ehi, l’ultimo che aveva solo l’equità nel pro-gramma di governo stava per tagliare a metà un bambino! (Giambattista Tiepolo, Il giudizio di Salomone)

anni la produttività del lavoro, questo mantra agitato da padroni e marchionnidi vari solo quando fa comodo, diminuisca drammaticamente, danneggiando così la competitività del paese. La storia tuttavia, purtroppo, non è affatto complicata, se si guarda ai suoi aspetti fondamentali. L‟attacco che la FIAT porta a termine in questi giorni ai danni dei suoi lavoratori è lo specchio più attendibile, la chiave interpretativa che permette di dire a voce alta, come sosteneva Wu Ming nell‟aforisma sul tema più efficace degli ultimi mesi, che “la crisi non c‟entra un cazzo”. Il colpo sferrato al mondo del lavoro, la cancellazione di diritti acquisiti e consolidati per decenni, il contingentamento dei tempi di lavoro a ritmi fordisti, la compressione delle libertà all‟interno della fabbrica perpetrata tramite l‟eliminazione per i lavoratori della possibilità di decidere i propri rappresentanti, il ripudio della contrattazione collettiva nazionale, ci mostrano la via maestra che il governo Monti ha l‟incarico di seguire: l‟estensione del modello Pomigliano all‟Italia tutta. L‟impressione è confermata dal dibattito che inizia a montare intorno alla riforma del mercato del lavoro e dal Protocollo sul lavoro firmato pochi mesi or sono dal precedente Governo e dalle parti sociali. Attaccare l‟articolo 18 non ha nulla a che vedere con la recessione e ciò che essa comporta. Pretendere di stimolare la crescita e favorire la ripresa del paese rendendo più facili i licenziamenti è intellettualmente disonesto ed è privo di ogni fondamento teorico, la più ipocrita delle verità assolute di cui il capitalismo si serve e ci ciba per garantirsi la percezione della propria tollerabilità. Sostituire alla garanzia di non poter perdere il proprio lavoro per motivi politici, discriminatori o per il mero interesse di breve periodo del proprio padrone (l‟articolo 18 in breve) un contratto unico precario con libertà di licenziamento è una precisa ed ideologica scelta di campo, che toglie tutele e libertà a chi oggi ne è in possesso e al contempo lascia la marea di precari e disoccupati in balia delle legge della giungla rappresentata dalla ricerca del profitto, costi quel che costi. LE PAROLE SONO IMPORTANTI – Se la situazione non fosse drammatica, ci sarebbe quasi la tentazione di liquidare con una risata le risposte, quando ci sono, che l‟ormai ex opposizione, parlamentare e non, e la stragrande maggioranza del sindacalismo confederale cercano di contrapporre a questo pensiero dominante. Però due parole le meritano: per salvare la faccia,

sembra vada di moda ripetere ossessivamente la parola magica “equità”, da abbinare ai “sacrifici”, che ovviamente non

vanno messi in discussione. La riflessione è: cosa significa equità? E poi, come si può chiedere equità ad un progetto e ad un disegno che hanno come finalità unica quella di tutelare e difendere interessi e privilegi? Come e perché aspettarsi equità da un Governo che ha come ragione genetica, al di fuori della retorica, quella di spostare il baricentro dei rapporti di forza in favore della infima minoranza di chi prospera sul lavoro della stragrande maggioranza della

popolazione? Ciò rimane un mistero. In realtà, anche un‟altra riflessione meriterebbe attenzione, una riflessione che vada alla radice del tema in discussione e non si limiti alla contingenza. Quale è l‟interesse per un lavoratore dipendente, per un pensionato, un precario o uno studente, nel fare anche il minimo sforzo o sacrificio? È razionale adoperarsi per la sopravvivenza di un sistema che si fonda sulla disuguaglianza e l‟ingiustizia sociale ed ha bisogno di questi elementi per il proprio perpetuarsi? È razionale rinunciare anche solo alla minima, infima cosa, per rafforzare un meccanismo che non può che rivolgersi contro chi fa il sacrificio stesso? Ma questa è un‟altra storia.

Riccardo Pariboni

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Vi sveliamo il segreto di una vertenza ben riuscita: portarla avanti

La Sala Rosa è rimasta aperta: battaglia vinta. La guerra ancora no… UELLA che segue è la cronaca di una battaglia vinta, a Siena, in una città ostica e fredda, da un movimento studentesco capace di uscire dai suoi limiti e dai suoi confini, capace di lottare per un interesse comune più grande del suo piccolo mondo privilegiato. È una

storia ambientata nella vecchia chiesa della Sala Rosa, utilizzata da poco più di un anno come luogo di studio per gli studenti e non solo. LA STORIA NON FINITA – Proprio un anno fa, con un accordo tra Provincia, Università degli Studi e Fondazione Monte dei Paschi, venivano assunti dieci dipendenti con contratto a scadenza annuale, per portare a termine un progetto culturale che avrebbe dovuto avere luogo nella Chiesa dei Fisiocritici, denominata Sala Rosa. Il progetto prevedeva mostre e concerti, oltre che l‟utilizzo a sala da lettura per gli studenti e la cittadinanza in generale. Durante la prima metà di Novembre, la situazione della Sala precipita. Gli effetti della maledetta crisi finanziaria ci raggiungono. Il baratro in cui l‟ateneo senese si è cacciato con anni di pratiche opache, sporche e clientelari e il disinteresse generalizzato portano al licenziamento di fatto di metà dei dipendenti. Il tutto passa sotto silenzio, ma la tensione è alta e gli studenti sentono più di altri il disagio di un orario ridimensionato e di uno spazio da cui si viene di fatto sfrattati. La situazione è incandescente, la miccia pronta ad accendersi. Gli studenti decidono di prendere in mano la situazione e al termine della Manifestazione per la giornata Internazionale per il Diritto allo Studio, il 17 novembre, occupano la Sala e la tengono aperta fino alle ore 23 (orario previsto fino alla scadenza degli ultimi contratti), pretendendo chiarimenti ed una presa di posizione da parte dei sindacati. SI COMINCIA – Parte così una sarabanda di incontri, con le autorità universitarie, dove queste ultime sostanzialmente prendono e perdono tempo; qualche frase di vicinanza e l‟incoraggiamento a togliersi dalle scatole e a proseguire la battaglia altrove. Le frasi sono sempre le stesse, quelle che si e ci ripetono ossessivamente, come un mantra, e che informano ormai la totalità del lessico politco dominante odierno: “è la crisi, non possiamo fare diversamente, con la situazione dei mercati, sono i tempi che ce lo impongono”. Gli studenti mettono in campo tematiche complesse, come i trasporti, un problema evidente, sentito non soltanto da chi studia nei poli distaccati ma anche da un‟ampia fetta di popolazione, quella che lavora in periferia o usufruisce dell‟Ospedale; come la questione affitti, che con l‟aumento delle iscrizioni universitarie di quest‟anno sono magicamente lievitati (anche questa è speculazione, e delle più infami), fino a temi di cittadinanza studentesca più stretta, come gli spazi e i luoghi di ritrovo e di socialità. Le risposte sono semplici, blande, qualunquiste e generiche, come solo certa cattiva politica sa fare. CAPRE E CAVOLI (NOSTRI) – L‟Università allora tira fuori l‟asso dalla manica e propone la carta a sorpresa de “i servizi gestiteveli da voi”. Una soluzione alla crisi abbastanza fai da te. Volete più spazi? Teneteli aperti voi. La morale della favola è questa: per aprire gli spazi servono i soldi. I soldi non ci sono e serve qualcuno che, in cambio di poche briciole, garantisca i servizi e gli spazi. Salviamo capra e cavoli, i lavoratori non si possono assumere, ecco che la soluzione è nella costituzione di cooperative studentesche. Un bel modo per mettere gli studenti contro i lavoratori. Il più antico e classico metodo del divide et impera. I giorni passano, l‟incontro con il Sindaco salta, gli universitari fanno appello di nuovo ai sindacati, ma tutto tace, e ancora oggi resta da capire il perché. Non è più il momento di farsi dettare l‟agenda dai tempi imposti dalla politica. Da questo momento l‟agenda la impongono studenti e lavoratori.

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NON SIAMO stati buoni profeti. Lasciateci commentare: ne siamo strafelici.

ATTO DI FORZA – Il 6 dicembre, nonostante qualche finta soluzione proposta dall‟Università che non toglie la sensazione di presa in giro, il movimento decide di occupare definitivamente gli spazi della Sala Rosa, prontamente ribattezzata Sala Rossa. Iniziano i cinque giorni più lunghi, cinque giorni in cui 24 ore su 24 si fa cultura, dibattito, lotta politica ed elaborazione. Ma sono anche cinque giorni in qui uno spazio viene liberato e restituito alla città, aperto e socializzato. Contemporaneamente, iniziano gli incontri con il primo cittadino, poi le promesse e l‟appuntamento del tavolo inter-istituzionale, che avviene subito dopo. I temi sono chiari. I risultati ottenuti anche: spazi da riconquistare in tempo di crisi, estensione dell‟utilizzo e delle funzioni della Biblioteca Comunale, adeguamento ed appropriazione dello spazio del Santa Maria della Scala come luogo di studio e di confronto, reperimento di fondi da parte della Provincia per un bando per tenere aperta la Sala Rosa o uno spazio più grande. Sul tema trasporti l‟opportunità di aprire un tavolo di discussione con la Toscana Mobilità. Una sterzata importante in campo di Cittadinanza Studentesca, come non era mai successo. L‟otto dicembre è la giornata più importante per testare anche il favore degli studenti e della città. La Sala, che dopo le enormi concessioni ottenute doveva essere disoccupata, viene tenuta aperta anche nel giorno di festa per tentare una prova di forza e mostrare la sua reale importanza e la sua natura di luogo di interesse sociale e culturale. Proprio in quella giornata il libro di rilevazioni statistiche, molto spesso utilizzato come arma di ricatto per chiudere gli spazi ritenuti poco trafficati dagli studenti e quindi, paradossalmente, tagliabili, registra una presenza media di più di centocinquanta persone, per uno spazio deputato a raccoglierne appena ottanta. A dimostrazione che gli spazi riconquistati sono più belli da frequentare, sono un posto migliore dove passare il proprio tempo, dove condividere e dove fare cultura. FINE DEL PRINCIPIO – Quello che resta è una battaglia vinta e dei risultati da monitorare passo per passo, secondo per secondo. Una battaglia vinta nonostante il tentativo di imporre al movimento una solitudine forzata, con l‟apparente disinteresse di chi dovrebbe, almeno formalmente, essere deputato a difendere i diritti dei lavoratori, cui si aggiunge il totale oblio sui mezzi di disinfomazione cittadini, impegnati nel gossip e nello shopping prenatalizio. Un tentativo fallito miseramente, grazie all‟enorme mobilitazione di studenti e lavoratori, che ancora una volta mettono in fuga la solitudine per riappropriarsi di una socialità diversa, pulita e partecipata. Resta anche un principio guida fondamentale: il posto di lavoro di dieci dipendenti è importante tanto quanto la disponibilità di una sala studio. Il diritto al lavoro è di pari d‟importanza del diritto ad accedere alla cultura e del diritto allo studio. Sono diritti che si tutelano insieme, non uno in contrapposizione all‟altro. Sono diritti che non si contrattano al ribasso e non si tutelano accettando briciole di concessioni alle spese di chi lavora, da precario, e non è tutelato né garantito. Resta soprattutto un‟enorme prova di maturità del movimento, che dopo anni e anni di nobilissime battaglie di retroguardia e di resistenza, riesce a passare all‟offensiva, spostando la propria attenzione da cosa è concretamente in pericolo qui e ora in favore di cosa è giusto e necessario. E non c‟è crisi che tenga. Non l‟abbiamo generata noi, non la pagheremo noi. E non è uno slogan, è pratica politica.

Mario Dimonte - Riccardo Pariboni

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Sferzante postilla umoristica a cura di Viva la Satira (facebook.com/vivalasatira)

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per il Diritto allo Studio Universitario