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43 MAGISTRATI, POLITICI E DIRITTI UMANI IN ITALIA E IN FRANCIA. UN'IPOTESI DI RICERCA L'Italia e la Francia furono attraversate alla fine dell'Ottocento da una crisi istituzionale di portata tale da mettere in discussione i regimi di entrambi i paesi. Le differenze furono tante, innanzitutto di ordine cronologico e di scala. In Francia la crisi scoppiò attorno al caso di un solo individuo, durò quattro anni e si presentò sotto forma di un attacco delle forze reazionarie e nazionaliste contro la giovane repubblica; in Italia fu un intero paese ad essere coinvolto per dieci anni nella reazio- ne scatenata dalla classe di governo contro un'ondata di sommovimenti che chiedevano per le classi popolari il riconoscimento del diritto di cittadinanza all'interno del nuovo stato, tale per cui pare più appropriato utilizzare per l'Italia la definizione di "decennio della crisi", più che quella di "crisi di fine secolo". Un fondamentale elemento accomunò tuttavia le due crisi: entram- be furono un momento di tragica messa in discussione dei diritti fonda- mentali, individuali e collettivi e per questo motivo la magistratura as- sunse sia in Italia che in Francia un ruolo di primaria importanza nel corso del loro svolgimento. L'ondata repressiva si trasformò infine in un terreno di elaborazione di nuove culture politiche incentrate sul tema dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Questi elementi comuni alle due crisi assunsero configurazioni ed esiti differenti a seconda del contesto nazionale di appartenenza. 1. Due magistrature a confronto Nelle crisi di regime la magistratura è sempre chiamata a svolgere compiti molto impegnativi, che possono anche travalicare quelli che le Abbreviazioni: Gì = "Giurisprudenza italiana"; TV = "Temi veneta"; Cass. = Cas- sazione; leg. = legislatura; interp. = interpellanza. 43

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MAGISTRATI, POLITICI E DIRITTI UMANI IN ITALIA E IN FRANCIA.

UN'IPOTESI DI RICERCA

L'Italia e la Francia furono attraversate alla fine dell'Ottocento da una crisi istituzionale di portata tale da mettere in discussione i regimi di entrambi i paesi. Le differenze furono tante, innanzitutto di ordine cronologico e di scala. In Francia la crisi scoppiò attorno al caso di un solo individuo, durò quattro anni e si presentò sotto forma di un attacco delle forze reazionarie e nazionaliste contro la giovane repubblica; in Italia fu un intero paese ad essere coinvolto per dieci anni nella reazio-ne scatenata dalla classe di governo contro un'ondata di sommovimenti che chiedevano per le classi popolari il riconoscimento del diritto di cittadinanza all'interno del nuovo stato, tale per cui pare più appropriato utilizzare per l'Italia la definizione di "decennio della crisi", più che quella di "crisi di fine secolo".

Un fondamentale elemento accomunò tuttavia le due crisi: entram-be furono un momento di tragica messa in discussione dei diritti fonda-mentali, individuali e collettivi e per questo motivo la magistratura as-sunse sia in Italia che in Francia un ruolo di primaria importanza nel corso del loro svolgimento. L'ondata repressiva si trasformò infine in un terreno di elaborazione di nuove culture politiche incentrate sul tema dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Questi elementi comuni alle due crisi assunsero configurazioni ed esiti differenti a seconda del contesto nazionale di appartenenza.

1. Due magistrature a confronto

Nelle crisi di regime la magistratura è sempre chiamata a svolgere compiti molto impegnativi, che possono anche travalicare quelli che le

Abbreviazioni: Gì = "Giurisprudenza italiana"; TV = "Temi veneta"; Cass. = Cas-sazione; leg. = legislatura; interp. = interpellanza.

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sono istituzionalmente assegnati. Nel corso degli anni Settanta e fino agli inizi del decennio successivo, la storiografia italiana fu sollecitata dalla crisi che stava attraversando il paese a volgersi all'indietro e a cercare, seppure in modo implicito, un paragone tra gli anni di piombo e la crisi di fine Ottocento. Applicando un metodo tipicamente regressivo, storici e giuristi partirono dal presente e si interrogarono su quanto era accaduto cento anni prima focalizzando l'attenzione sui comportamenti della classe politica e della magistratura dell'epoca. La magistrale ricostruzione di Umberto Levra delle dinamiche e degli attori della crisi italiana degli anni Novanta, le pagine appassionate di Antonio Canosa e Amedeo Santosuosso sulla magistratura durante la crisi di fine secolo, lo studio di Ferdinando Cordova incentrato sulla magistratura militare, e per finire gli accenni ricchi di spunti che Guido Neppi Modona dedica alla crisi di fine secolo nel suo libro sullo sciopero, sono accomunati da un giudizio concorde: la magistratura italiana fu la cinghia di trasmissione della volontà dell'esecutivo e mostrò in quegli anni quanto forte fosse il suo asservimento al potere politico '.

A rileggere oggi queste opere, quel giudizio di fondo condiviso dalla storiografia degli anni di piombo appare meno compatto. All'interno di un quadro interpretativo che si presenta senza sbavature gli autori citati segnalano casi anomali che non rientrano nel modello di una magistratura totalmente assoggettata al potere esecutivo. Neppi Modona, in particolare cita vari casi di sentenze favorevoli agli imputati di reati politici, sot-tolineando le difficoltà dei giudici di ottemperare alle direttive del ministro che incitavano a reprimere ogni manifestazione di protesta, dal momento che gli elementi probatori erano il più delle volte inesistenti; Canosa e Santosuosso, dal canto loro, parlano dell'atteggiamento benevolo mostrato da una parte della magistratura nei confronti degli anarchici2. Si tratta in ogni modo di suggestioni che restano ai margini della tesi principale senza che gli autori, che pure si sono preoccupati di comunicarle, le sottopongano ad un'analisi più approfondita.

1 U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia 1896-1900, Milano, Feltrinelli, 1975, in part., pp. 145-46, 160-62, 256-60; G. NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 81-89; R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti alla fine dell'ottocento in Italia, Milano, Feltrinelli, 1981; F. CORDOVA, De mocrazia e repressione nell'Italia di fine secolo, Roma, Bulzoni, 1983.

2 G. NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura, cit, p. 86. Da notare che Umberto Levra (op. cit., p. 161) dichiara di non condividere le affermazioni di Neppi Modona relative alle assoluzioni avvenute per i fatti del '98; R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., cap. II.

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Passati gli anni di piombo, la crisi di fine secolo divenne un tema marginale all'interno della storiografìa degli anni Ottanta. L'unica ecce-zione è rappresentata dal volume di Luisa Mangoni3, che incentra la sua analisi sulla crisi della cultura di fine secolo prestando una particolare at-tenzione al campo del diritto e proponendo una comparazione tra l'Italia e la Francia. La magistratura non registrava dal canto suo un successo maggiore tra gli studiosi. Gli unici studi di vasto respiro su questo argo-mento furono la grande ricerca a base prosopografica iniziata da Pietro Saraceno, e il volume di Ferdinando Venturini sull'associazione dei ma-gistrati italiani4. Essi privilegiavano l'aspetto della magistratura come corpo e come professione incentrando l'analisi della sua composizione sull’ organizzazione interna ed inauguravano una nuova stagione di ricerche sul potere giudiziario che si è aperta negli anni Novanta5.

Nel 1989 la crisi di fine secolo tornò, quasi inaspettatamente, alla ri-balta grazie ad un lungo saggio di Rita Cambria che ne proponeva una reinterpretazione scegliendo come punto di osservazione l'intreccio crea-tosi a partire dagli anni Ottanta tra la Sinistra storica, la cultura giuridica e la magistratura6.I risultati sono per molti versi sorprendenti. Rita Cambria riapre il discorso sul biennio 1898-1900 a partire dalla sentenza della Cassazione del 20 febbraio 1900, la quale dichiarava decaduto il decreto liberticida che Pelloux aveva imposto il 22 giugno 1899 contribuendo in questo modo a far cadere il secondo ministero Pelloux ed a giungere alla conclusione della crisi. Attribuendo a questa sentenza un valore negatole dalla precedente storiografia, Rita Cambria rilegge la cultura giuridica italiana dell'epoca e le sue realizzazioni concrete. A fianco di correnti dottrinali tradizionalmente attaccate ad una visione dei diritti dello stato piuttosto che dell'individuo, la Cambria sottolinea l'azione marginale (ma alla fine decisiva) del filone liberale che faceva capo a "La

3 L. MANGONI, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Ot to e Novecento, Torino, Einaudi, 1985.

4 P. SARACENO, Alta magistratura e classe politica dalla integrazione alla sepa razione: linee di una analisi socio-politica del personale dell'alta magistratura italiana dall'Unità al fascismo, Roma, ed. dell'Ateneo e Bizzarri, 1979; / magistrati italiani dall'Unità al fascismo. Studi biografici e prosopograficì, a cura di P. SARACENO, Ro ma, Canicci, 1988; F. VENTURINI, Un "sindacato" di giudici da Giolitti a Mussolini. L'Associazione Generale tra i magistrati 1909-1926, Bologna, il Mulino, 1987.

5 Magistrati e potere nella storia europea, a cura di R. ROMANELLI, Bolognu, il Mulino, 1997; C. GUARNIERI, Magistratura e politica in Italia. Pesi senza contrap pesi, Bologna, il Mulino, 1993.

6 R. CAMBRIA, Alle origini del Ministero Zanardelli-Giolitti. L'ordine e la li bertà, in "Nuova Rivista Storiai", LXXIII, 1989, LXXIV, 1990, pp.1-191.

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Rivista penale", diretta da Luigi Lucchini. Magistrato e parlamentare, le-gatissimo a Zanardelli con il quale aveva collaborato alla stesura del nuovo codice penale, Lucchini è l'ispiratore della citata sentenza della Cas-sazione e di molte altre sentenze liberali che si ebbero in quegli anni.

Rita Cambila arriva alla conclusione che di fronte al sostanziale fallimento della Sinistra costituzionale di incidere sulla situazione politica, fu la magistratura a registrare un primo, sia pure ambiguo, successo. La sentenza infatti non dichiarava illegittimi i provvedimenti eccezionali, il che significa che la Corte Suprema, così come aveva fatto in altre occasioni, aveva rifiutato di svolgere il ruolo di sindacato di costi-tuzionalità. Era arrivata all'obiettivo per un'altra via, meno compromet-tente, che azzerava tutto e investiva nuovamente il potere politico delle questioni relative alla libertà fondamentali. Questioni rimaste largamente irrisolte anche in epoca giolittiana a proposito del mancato riconoscimento del diritto di associazione7.

Il saggio di Rita Cambria segna un mutamento storiografico consi-derevole. Da una rappresentazione della magistratura controllata o iden-tificata totalmente con il potere esecutivo, si passa a quella di un corpo professionale differenziato al suo interno, al punto tale che alcune sue componenti furono in grado di contrastare l'azione del governo. In ogni caso, e questo è l'elemento di maggior rilievo, una magistratura a cui venne ripetutamente affidato il compito di risolvere i problemi per i quali il potere politico non riusciva a trovare una soluzione.

Un mutamento di prospettiva per molti aspetti analogo a quello pro-posto dalla Cambria si è verificato negli ultimi anni all'interno della sto-riografia francese in relazione al ruolo svolto dalla magistratura durante L’affaire Dreyfus. Pur non occultando gli influssi esercitati sul potere giu-diziario e sull'esercito francesi dalle ideologie antisemite e nazionaliste, la storiografia francese tende oggi a distinguere nettamente l'operato dei giudici militari da quello svolto dalla magistratura ordinaria valorizzando non solo il ruolo di difesa giuridica di Dreyfus, ma addirittura quello di tutela della stessa repubblica che quest'ultima svolse La magistratura or-dinaria francese fu il garante del regime repubblicano al momento in cui l'interesse nazionale e la sicurezza delle stato portava il potere esecutivo e quello legislativo a sospendere lo stato di diritto sotto la pressione dell'opinione nazionalista e del potere militare8.

7 Sulla tematica del mancato riconoscimento del diritto di associazione si rimanda al saggio di F. SOFIA, infra.

8 J-P. ROYER, La magistrature déchirée, in La France de l'affaire Dreyfus, a cu ra di P. BIRNBAUM, Paris, Éditions Gallimard, 1994, pp. 251-89; ID, Histoire de laju-

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E possibile rintracciare all'interno della magistratura ordinaria ita-liana di fine Ottocento delle piste che consentano di rileggere il suo operato, allo stesso modo di quanto è stato fatto a proposito della magi-stratura francese? Gli elementi di contatto tra le due situazioni non sono pochi. In primo luogo in entrambi i paesi la crisi di fine secolo fu ca-ratterizzata dall'azione congiunta di due magistrature, quella ordinaria e quella militare. Inoltre l'operato della magistratura ordinaria di entrambi i paesi favorì la conclusione della crisi: la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione italiana del 20 febbraio 1900 è paragonabile all'operato del giudice francese che fece crollare l'impianto accusatorio contro Dreyfus facendo arrestare Esterazy, mentre la Corte Suprema cassava il verdetto di colpevolezza che aveva condannato Zola.

Ma vi furono anche delle differenze rilevanti. La revisione storio-grafica avvenuta in Francia ha portato a contrapporre nettamente il com-portamento della giustizia militare rispetto a quella ordinaria, sottoli-neando al tempo stesso che l'azione politica dei giudici consistette pre-cisamente nel rigettare ogni attribuzione politica. Difendendo ostinata-mente l'ordine giudiziario, la magistratura francese consentì "a Waldeck-Rousseau di trionfare sul piano dei principi repubblicani. Questa resistenza dell'ordine giudiziario, che esisteva già durante l'Antico Regime, non si limita a proteggere un'elite intellettuale e professionale; essa è al tempo stesso la testimonianza del fatto che i giudici avessero una coscienza politica derivante dalla pratica del diritto"9.

Non sarebbe appropriato applicare all'Italia come unico criterio un'interpretazione basata sul confronto tra la magistratura ordinaria e quella militare. Il confronto si pone per il nostro paese all'interno di un contesto non costituito da un processo, ma dallo stato d'assedio e dall'applicazione di leggi eccezionali che spogliavano la magistratura ordinaria di una parte consistente del suo spazio d'intervento a favore dei tribunali militari. Se si dovesse limitare l'analisi al confronto tra le due magistrature italiane il discorso arriverebbe ad una conclusione rapida, dal momento che - come vedremo - lo stato d'assedio significò per i giudici ordinari ribadirne, sentenza dopo sentenza, la legittimità.

stice en France, Paris, PUF, 1995; V. DUCLERT, Lesjuges devant l'affaire Dreyfus. Un modèle d'engagement républicain?, in "Jean Jaurès cahiers trimestriels", n. 141, giugno-settembre 1996, pp. 7-26; ID., L'affaire Dreyfus, l'État et la République, in M.O. BARUCH et V. DUCLERT (a cura di), Serviteurs de l'État. Une histoire politique de l'administration francaise 1875-1945, Paris, La Découverte, 2000, pp. 37-68; F. CHAUVAUD, L'insaisissable modèle l'identité brouillée de la justice républicuine (1X80-1940), ivi, pp. 325-36.

" V. DUCLERT, Lesjuges devant l'affaire Dreyfus, cit., p. 22.

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Si tratta invece di sottoporre nuovamente ad esame i comportamenti dei magistrati ordinari, non limitandosi al rapporto intercorso tra costoro e la giustizia militare negli anni in cui vigeva la legislazione di emergenza, ma prendendo in considerazione un ampio spettro di reati sui quali la magistratura ordinaria fu chiamata a giudicare durante il decennio della crisi e oltre.

2. La costruzione di un dossier

Il metodo usato per attuare questo tipo di ricerca è consistito nel creare un dossier di sentenze emanate dai vari gradi della magistratura, relative ai reati attraverso i quali vennero colpite negli anni della crisi le libertà individuali e collettive dei cittadini, e ad altri tipi di reati ritenuti utili per comprendere il comportamento della magistratura in quegli anni. Sono evidenti i limiti insiti nell'utilizzare come unica fonte le sentenze al fine di ricostruire le tendenze della magistratura in un determinato periodo: spesso nei repertori giuridici e nelle riviste veniva pubblicata la parte finale della sentenza, o addirittura solo le massime.

Sarebbe stato necessario un lavoro di ricerca più approfondito, con-sistente nel reperimento dell'intera sentenza o ancora meglio, gli interi atti processuali depositati negli archivi di stato10. Solo in questo modo sarebbe possibile ricostruire in modo esaustivo il comportamento tenuto dai magistrati nei vari gradi del giudizio. Dalle sentenze pubblicate nei repertori è infatti spesso assente anche la sola informazione relativa alle sentenze dei gradi precedenti nello stesso processo. Infine, l'ultima limi-tazione consiste nel fatto che i repertori di giurisprudenza privilegiano la pubblicazione della sentenza finale e per questo la Cassazione è sovra-rappresentata rispetto alle sentenze dei gradi inferiori.

Il dossier che è stato messo assieme è dunque da ritenersi uno stru-mento di lavoro da cui partire per elaborare alcune ipotesi, la cui validità potrà essere comprovata solo impostando una ricerca sulla magistratura di fine secolo basata sull'utilizzazione di una pluralità di fonti: gli atti dei processi, i fascicoli personali dei giudici, la documentazione del Ministero degli Interni e di Grazia e Giustizia, infine le fonti prefettizie e la stampa locale per collocare i processi nell'ambiente locale.

È stato ricostruito, laddove era possibile, l'intero iter giudiziario degli imputati, allo scopo di focalizzare le posizioni dei magistrati che

10 Si vedano a questo proposito le indicazioni di ricerca contenute nel saggio di I.

ZANNI ROSIELLO, infra

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operavano nei diversi gradi e di confrontarle tra loro. L'ipotesi da cui sono partita consiste nel ritenere l'intero iter processuale un indicatore efficace del comportamento della magistratura. Il confronto tra le sentenze emesse dal tribunale o la pretura, la Corte d'Appello o l'Assise e infine la Cassazione, può aiutare a capire se la magistratura italiana abbia agito come un corpo compatto nel decennio dell'emergenza, ossequioso del clima politico di quegli anni, o se invece vi siano state posizioni più articolate e diversificate, addirittura dalle opposizioni rispetto alle linee di cui i procuratori generali e del re erano i portavoce, sulla base delle indicazioni provenienti dallo stesso presidente del consiglio.

Il pubblico ministero era, come oggi, la pubblica accusa. Rappre-sentava lo stato ed era alle dipendenze del ministro di Grazia e Giustizia. Il suo ufficio era composto dal procuratore generale del re che risiedeva, con i suoi sostituti, presso ogni Corte d'Appello. Da costui dipendevano i procuratori del re e i loro sostituti, addetti ad ogni tribunale del distretto giudiziario u. In quanto rappresentanti dell'esecutivo, i procuratori del re ebbero un ruolo cruciale durante la crisi di fine secolo. Umberto Levra ha documentato in modo efficace la rete di comunicazioni e informazioni che fu intessuta in quegli anni tra il primo ministro e i procuratori generali, allo scopo di aumentare il controllo sull'ordine pubblico e inasprire la repressione giudiziaria n.

Canosa e Santosuosso hanno reperito le sentenze analizzate nel loro volume sulle seguenti fonti: "La Rivista penale", "La Giustizia penale", "Il Foro italiano", "Repertorio del Foro italiano". Per allargare ulterior-mente la ricerca, ho consultato, per gli anni 1889-1909, altri repertori quali "il Circolo giuridico", "Temi romana", "Temi genovese". Tuttavia gli unici repertori nei quali sono state rinvenute sentenze sui reati interessanti ai fini di questa indagine sono stati: "La Giurisprudenza italiana" e 'Temi veneta. Eco dei tribunali". Il dossier risulta così formato dalle sentenze rinvenute in queste ultime due fonti e da quelle citate da Canosa e Santo-suosso, per un periodo di tempo compreso tra il 1889 e il 1906.

I reati presi in considerazione sono innanzitutto quelli compresi nel titolo V del nuovo Codice penale del 1889, e contenuti negli articoli 246, 247, 248, 251, 252, i quali costituiscono l'oggetto dell'analisi di Canosa e Santosuosso. Ho inoltre indirizzato la ricerca delle sentenze in altre di-rezioni: i reati a mezzo stampa, che risultano quelli più perseguiti; la ca-

" L. LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze Barbera ed 1905 nn

222-23. ' "12 U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia, cit., pp. 160-61, 256-57

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sistica varia compresa nel divieto di riunione pubblica non autorizzata; il rifiuto di obbedienza all'autorità pubblica e per finire la questione del sindacato di costituzionalità, sorto a proposito della legittimità del d.l. 22 giugno 1899.

I processi che compongono il dossier appartengono alla normale routine del decennio della crisi, quando ogni forma di manifestazione e di organizzazione politica oppositiva veniva quotidianamente sottopo sta al controllo e alla repressione dei pubblici poteri. Non sono stati in seriti nel dossier, ma trattati a parte proprio per il loro carattere di ec cezionalità, i processi celebrati dai tribunali militari e le sentenze della magistratura ordinaria relative alla loro legittimità a quella dello stato d'assedio; queste sentenze sono state tuttavia inserite nel quadro stati stico relativo alla Corte di Cassazione. Sono stati infine stralciati, per lo stesso motivo, i processi relativi alla legittimità del regio decreto 22 giugno 1899 e alla questione del sindacato di costituzionalità.

II risultato di questa ricerca è un campione costituito da 48 proces- si di cui è stato documentato l'intero iter, dal primo grado alla Cassa zione, o quanto meno una parte di esso. Le sentenze che corrispondono al campione di 48 processi sono 110, così composte: 42 sentenze di pri- mo grado, 25 sentenze d'appello, 3 emesse dalla Corte d'Assise e 40 dalla Cassazione. Il numero sensibilmente più basso delle sentenze di secondo grado si spiega, oltre che con una semplice mancanza di indi cazione nella fonte utilizzata, che nella maggior parte dei casi è la sen- tenza finale della Cassazione, con il fatto che il ricorso in Cassazione poteva avvenire anche dopo la sentenza di primo grado, emessa dal giu- dice di merito o dal pretore, purché fosse di carattere definitivo, saltan- do il giudizio d'appello.

Si tratta di un campione limitato, che tuttavia offre una rappresen-tazione della realtà abbastanza significativa. Il numero dei processi istruiti dalla magistratura ordinaria per i reati contro l'ordine pubblico e la sicurezza dello stato non fu infatti elevatissimo. Non solo molti pro-cessi furono istruiti dai tribunali militari, ma anche molti degli arresti vennero pronunciati all'ombra del testo di pubblica sicurezza, senza ar-rivare all'imputazione penale vera e propria. Inoltre le ordinanze istrut-torie di non farsi luogo a procedere superarono, nonostante le pressioni del ministro di Grazia e Giustizia, di gran lunga le condanne per il fatto che il più delle volte gli elementi probatori a disposizione dei giudici erano pressoché inesistenti13.

13 G. NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura, cit., p. 86

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Per quanto riguarda le sentenze della Cassazione, abbiamo utilizzato un criterio di "traduzione" sulla base dell'effetto sortito, quando cioè il rigetto del ricorso oppure il suo accoglimento si trasformava di fatto nella conferma della condanna o nell'assoluzione.

La Corte di Cassazione aveva anche nell'ordinamento del periodo li-berale il compito di riparare alle eventuali violazioni della legge com-messe nel procedimento annullando la sentenza con o senza conseguente rinnovamento del giudizio, ossia il rinvio della causa a un magistrato di merito (normalmente) dello stesso grado di quello della sentenza annullata, perché iniziasse un nuovo procedimento giudiziario. Veniva meno il rinvio quando la sentenza d'annullamento accertava che il fatto su cui si fondava la sentenza di condanna non costituiva reato, o aveva cessato di esserlo. La Cassazione poteva rigettare il ricorso che era stato presentato dal condannato o dal pubblico ministero. Il rigetto aveva come effetto quello di riconfermare, senza alcun aggravio, la sentenza precedente.

Per quanto riguarda le sentenze emesse dalla Cassazione, non sono stati presi in considerazione i casi (in realtà pochi) nei quali la Suprema Corte dopo la cancellazione della sentenza, rinviava tutti gli atti al giu-dice di merito per avviare un nuovo processo. Si è tenuto solo conto del risultato conclusivo del primo iter giudiziario.

3. Un corpo omogeneo? Su 48 processi presi in esame le sentenze di assoluzione emesse com-plessivamente nei vari gradi sono 44, quelle di condanna ammontano a 66

Tab. 1. Sentenze di assoluzione e di condanna

GRADO ASSOLUZIONE CONDANNA TOTALE SENTENZE

1° grado 18 24 42

appello 10 15 25

assise 3 3

Cassazione 16 24 40

TOTALE SENTENZE 44 66 110

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La suddivisione interna ai singoli gradi del giudizio mostra un certo equilibrio tra le assoluzioni e le condanne: in primo grado le condanne furono 24 e le assoluzioni 18; in secondo grado le condanne furono 15 e le assoluzioni 10; in Cassazione le assoluzioni furono 16 e le condanne 24, infine 3 sentenze di condanna emesse dalle Corti di Assise. Due elementi vanno sottolineati al fine di interpretare correttamente questi dati: essi non sono omogenei, perché non sempre è stato possibile ricostruire l'intero iter processuale relativo ad ogni caso giudiziario; inoltre offrono una rappresentazione approssimativa, dal momento che si è dovuto forzatamente unificare tutte le sentenze di condanna, senza poter specificare le differenziazioni e le articolazioni contenute al loro interno. Questo tipo di analisi è stata compiuta descrivendo e commentando i singoli casi.

Dei nove processi di primo grado istruiti per il reato di istigazione alla disobbedienza della legge, sette si conclusero con un'assoluzione (tre a Genova, uno a Verona, Cuneo, Torino e Lecce) e due con una condanna. Tre dei cinque processi di primo grado per istigazione all'odio di classe si conclusero con un' assoluzione (a Genova, Torino e in un terzo tribunale non identificato) e tre con una condanna14.

I processi istituiti contro gli anarchici a Roma, Sarzana e Ancona si conclusero con l'assoluzione degli imputati dall'aver commesso il reato di associazione per delinquere (art. 248 c.p.), attraverso il quale - e dietro sollecitazione esplicita del governo - si voleva colpire al cuore il movimento anarchico catalogandolo nella categoria dei delinquenti co-muni e applicando ad esso le pene severe (da uno a cinque anni di de-tenzione) previste per questo reato. I tre tribunali si pronunciarono per una condanna politica applicando l'art. 247, che puniva l'istigazione all'odio tra le classi e l'art. 251, che perseguiva invece l'associazione perpetrata allo scopo di istigare all'odio tra le classi, punibile con una detenzione da sei a diciotto mesi. I quattro processi di primo grado contro le associazioni socialiste terminarono invece con tre condanne (a Firenze, Modena e Volterra) e un'assoluzione. A queste sentenze, che fanno parte dei processi che abbiamo ricostruito, vanno aggiunte la sentenza di condanna emessa dal tribunale di Milano nel 1894 contro Filippo Turati e il gruppo dirigente del partito socialista, puniti in base agli artt. 243, 251 c.p. e l'art. 5 della legge 316/1894, a cui fa da contrappeso la

14 R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici, socialisti, ut., cap. VI; Cass. 26 aprile 1894 (sez.II), Gì, parte II, 1894; Cass. 25 maggio 1896 (sez.II); Gì, 1896; Cass. 30 novembre 1897 (sez.II), TV, 1898; Cass. 28 settembre 1898 (sez.II), Gì, 1898; Appello Venezia, 10 gennaio 1901, TV, 1901.

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Tab. 2. Sentenze suddivise per argomenti e per gradi di giudizio

Oggetto Totale sentenze

Assoluzione Grado Condanna Grado

Istigazione alla disobbedienza della legge e apologia di reato

24 7 3 4

I grado appello cassazione

2 4 4

1° grado appello

cassazione

Istigazione all'odio di classe 13 3 2 3

I grado appello cassazione

2 2 1

I grado appello

cassazione

Vilipendio alle istituzioni costituzionali

6 1 cassazione 3 2 assise

cassazione Divieto di associazione per i socialisti

9 1 3 1

I grado appello cassazione

3 1 I grado appello

Associazione a delinquere e divieto di associazione anarchica

7 3 1 3

I grado appello

cassazione

Riunione non autorizzata 10 2 cassazione 5 3 I grado cassazione

Rifiuto di obbedienza 8 1 2

I grado cassazione

3 2 I grada cassazione

Diffamazione a mezzo stampa

7 1 2 I grado

cassazione

1 2 1

I grado appello

cassazione

Responsabilità dello stampatore

11 3 2 1

I grado appello cassazione

1 1 3

I grado appello

cassazione

Responsabilità del gerente 13 1 I grado 4 4 4

I grado appello

cassazione

Autorizzazione e vendita di stampati

2 1 I grado 1 cassazione

TOTALE 110 44 66

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sentenza assolutoria emessa nel 1895 dal tribunale di Roma sulla base della medesima imputazione ".

Dei dodici processi istruiti in primo grado per i reati commessi at-traverso la stampa, cinque si conclusero con una condanna penale e civile sia per il gerente che per lo stampatore, cinque li assolsero dalla re-sponsabilità civile; a Mantova il gerente e lo stampatore furono assolti penalmente e condannati civilmente; per finire il tribunale di Napoli condannò per sola negligenza il direttore del giornale e lo stampatore non ritenendoli civilmente responsabili di un reato di stampa16.

La tendenza dei giudici di primo grado che emerge da questi dati pare essere quella di una certa comprensione nei confronti dei reati politici che caratterizzarono il decennio della repressione, quali l'istigazione all'odio di classe, alla disobbedienza della legge e l'apologia di reato (artt. 246, 247). Ad esempio, alcuni imputati vennero prosciolti nel 1898 in primo grado dall'accusa di aver incitato all'odio di classe cantando Virino dei lavoratori. Il giudice non rinvenne nell'atto alcun dolo, ritenendo che "essi non intendevano, con il loro canto sconnesso e forse fuori dalla portata della scarsa loro cultura intellettuale, di far propaganda dei concetti e delle teorie cui l'inno allude, né di destare l'allarme nelle persone che dentro il caffè si trovavano".

Si trattò di una sentenza importante che aprì la strada ad una suc-cessiva sentenza della Cassazione destinata a mutare indirizzo nella giurisprudenza. La Corte Suprema infatti diede ragione al giudice di primo grado ribadendo il concetto che l'elemento intenzionale fosse un fattore decisivo nei reati contro l'ordine pubblico e che la volontà in-tenzionale dell'imputato dovesse essere chiaramente dimostrata e argo-mentata nella sentenza ".

Un'analoga tendenza a non applicare in modo rigido le condanne per i reati politici nel primo grado del giudizio, è riscontrabile nei riguardi delle imputazioni per istigazione alla disobbedienza della legge: l'apologia del delitto, lo sciopero, contro la monarchia, a favore del re-

15 R. CANOSA-A.SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici, socialisti, cit., capp.

II, III, IV. 16 Cass. 23 novembre 1889, TV, 1890; Cass. 1 settembre 1892 (sez.II), TV, 1893;

Cass. 9 febbraio 1893 (sez.II), Gì, 1895; Cass. 6 aprile 1894 (sez.II), Gì, 1894; Cass. 6 giugno 1893 (sez.II), Gì, 1895; Cass. 24 agosto 1896 (sez. feriale), Gì, 1896; Cass. 11 novembre 1896 (sez.II), Gì, 1897; Appello Venezia (sez. ferie), 20 agosto 1897, TV, 1897; Cass. 11 agosto 1897 (sez.II), TV, 1897; Cass. 26 maggio 1898 (sez.II), Gì, 1899; Cass. 9 gennaio 1899 (sez.II), Gì, 1899. 17Commento di A. Pozzolini alla sentenza della Cass. del 28 settembre 1898, cit

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gicidio, il sostegno a favore di Felice Giuffrida, fino al caso Viale, il di-rettore del "Caffaro" di Genova, imputato di aver criticato la legge Cri-spi sulla pubblica amministrazione 18, trovano comprensione da parte dei giudici dei tribunali.

Molto più intransigenti appaiono, per converso, i pretori quando si trattava di controllare le riunioni pubbliche. Esse erano regolamentate dalla legge di pubblica sicurezza e contravvenire alle norme che essa conteneva, relative ai permessi e alle finalità consentite, significava commettere un reato lieve che cadeva sotto la competenza della pretura. Abbiamo ricostruiti alcuni processi, avvenuti tra il 1896 e il 1898, che riguardavano prevalentemente riunioni tenutesi all'interno delle chiese e bande musicali, nei quali la sentenza di primo grado venne impugnata e portata direttamente in Cassazione.

I pretori emisero cinque condanne su cinque processi, colpendo con particolare durezza le riunioni in chiesa perché sospette di essere fatte a scopi non religiosi ma politici. In questi casi i pretori si allinearono con la tendenza che aveva visto colpire nella prima fase dell'ondata repressiva, anche le associazioni cattoliche, ritenute colpevoli di attentare alla sicurezza dello stato19.

Un atteggiamento ugualmente rigido caratterizzò l'azione dei pretori nei confronti degli imputati accusati di essersi rifiutati di obbedire all'ordine emesso da un pubblico ufficiale. In quattro casi i pretori emi-sero tre condanne per gli imputati che in una situazione pubblica (un comizio) e pericolosa (un tumulto) si erano rifiutati di seguire il delegato di pubblica sicurezza. Solo il pretore di Novi Ligure assolse nel 1899 l'imputato Giovanni Cocco per essersi rifiutato di seguire il funzionario di pubblica sicurezza per motivi personali e non legati a problemi di ordine pubblico20. Per quanto riguarda infine i reati commessi a mezzo stampa i giudici di primo grado sembrano voler attenuare, quando addirittura non riconoscere la responsabilità penale del gerente (che secondo la legge sulla stampa era responsabile sia penalmente che civilmente) e tendere a condannarlo solo civilmente, oppure condannarlo penalmente in base alla

18Cass. 20 novembre 1897, cit. 19Cass. 11 settembre 1896 (sez.II), TV, 1897; Cass. 6 febbraio 1897 (sez.II), GÌ, 1897; Cass. 22 aprile 1897 (sez.II), TV, 1897; Cass. 16 luglio 1897 (sez.II), Gì, 1897; Cass. 15 luglio 1898 (sez.II), TV, 1899; sulla repressione contro le associazioni cutloli- che cfr. U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia, cit., p. 283.

20Cass. 19 settembre 1894 (sez.II). TV, 1895; Cass. 13 luglio 1898 (sez.II), 01, 1898; Cass. 26 giugno 1899 (sc/,.II). TV, 1899; Cass. 4 luglio 1899 (sez.II), TV, 1899

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legge sulla stampa (che comportava una pena molto più lieve), mentre il pubblico ministero cercava di perseguirlo in base all'art. 247 cap. Alcuni dei giudici di primo grado si contrapposero così alla tendenza che stava prendendo piede all'interno della magistratura, che consisteva nel ri-solvere l'ambiguità che il nuovo codice penale aveva mantenuto (non eliminando totalmente le norme sulla stampa contenute nell'editto alber-tino, ma inserendo all'interno del codice penale solo alcuni dei reati commessi attraverso la stampa) interpretando in modo restrittivo questo tipo di reati, in modo da colpirli con le pene più gravi previste dalla legge comune21.

Sintomatico di una certa morbidezza riscontrabile nell'azione di al-cuni giudici di primo grado è il caso del sequestro dell'opuscolo Assalto al convento di Paolo Valera (già processato nel 1898 assieme al gruppo dei socialisti milanesi), avvenuto presso la ditta stampatrice quando ancora non era stato messo in distribuzione. Il Tribunale di Milano negò che si potesse intervenire su di una vendita virtuale e affermò che per applicare l'art. 443 c.p. fosse necessario che lo smercio venisse effettuato22.

Si può ipotizzare che la minore disponibilità di alcuni tribunali di primo grado a tradurre in sentenze di colpevolezza le sollecitazioni dei pubblici ministeri dipendesse dall'influenza esercitata dall'ambiente circostante. Andrebbe studiata innanzitutto la funzione svolta dagli av-vocati, sia dal punto di vista esclusivamente tecnico e del prestigio pro-fessionale, che da quello sociale. Un avvocato che fosse anche un grosso notabile ricopriva all'epoca nella comunità un ruolo che veniva rico-nosciuto anche all'interno del tribunale. Anche le culture locali entravano nelle aule dei tribunali, influenzavano gli umori del pubblico, della stampa locale e non lasciavano indifferenti i giudici.

Sono molto significative a questo proposito le assoluzioni dal reato di associazione a delinquere (art. 247 c.p.) per le associazioni anarchiche emesse dai tribunali di primo grado di Ancona (1898) e Sarzana (1892) dove fortissima era la presenza dell'anarchismo. La stessa influenza delle culture locali non aveva lasciato indenne neppure la Corte d'Appello di Ancona. La Corte aveva assolto con un sentenza del 14 ottobre 1891 gli anarchici dal reato di associazione a delinquere distinguendo nettamente fra lo scopo a fine di interesse e di lucro, che contraddistingueva l'associazione a delinquere così come era previsto dall'art. 248 c.p., dal-

21 G. LAZZARO, La libertà di stampa in Italia. Dall'Editto albertirw alle norme vigenti, Milano, Mursia, 1969, pp. 49-58.

22 Cass. 3 luglio 1900 (sez.II), Gì, 1900.

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lo scopo politico consistente nel realizzare il programma di un partito, scopo non perseguibile in quanto tale ma solo al momento in cui avesse messo in pratica in modo concreto gli obiettivi eversivi che si proponeva in via di principio23.

L'influenza dell'ambiente circostante sul tribunale poteva significare una maggiore impermeabilità dei giudici di primo grado rispetto a Roma e una loro autonomia rispetto alle direttive che in quegli anni il potere esecutivo impartiva ai procuratori generali affinché le magistrature periferiche collaborassero attivamente ai piani di repressione e di controllo orditi dal governo.

La stessa azione dei pubblici ministeri, che impugnavano le sentenze di primo grado per portarle in appello, risulta non aver condizionato in misura clamorosa i giudici di secondo grado. Nei sette processi d'appello celebrati per il reato di disobbedienza alla legge le condanne emesse furono cinque (a fronte di sette assoluzioni di primo grado), tre delle quali rovesciavano il giudizio assolutorio di primo grado e due lo confermavano; le assoluzioni furono tre e confermarono il giudizio precedente.

Nei confronti delle associazioni socialiste le Corti d'Appello furono spesso più clementi dei tribunali: ad esempio cambiarono in assoluzione le condanne emesse in primo grado le Corti d'Appello di Firenze e di Lucca nel 1895, a cui deve aggiungersi un'altra assoluzione emessa il 26 ottobre 1895 dalla Corte d'Appello di Lucca. Abbiamo già citato la sentenza della Corte d'Appello di Ancona del 14 ottobre 1891, che assolveva gli anarchici dal reato di associazione a delinquere. Nel 1893 tuttavia, la Corte d'Appello di Roma li condannò per quello stesso dopo che il tribunale li aveva assolti e condannati invece in base agli artt. 247, 251 c.p.

Delle quattro sentenze d'appello relative ai processi per istigazione all'odio di classe, due confermarono il giudizio di primo grado. La Corte d'Appello di Milano trasformò in un'ammenda la pena detentiva che condannavano da 75 a 62 giorni emessa dal tribunale della città nei confronti di Talamona, Marchini, Majocchi e Bozzini sulla base dell'art. 247 c.p. per aver cantato per le strade un inno in cui si incitava a pugnalare "l'odiato borghese". La Corte d'Appello ritenne al contrario che il canto costituisse solo disturbo alla quiete pubblica (art. 457 c.p.) e inflisse loro solo un'ammenda24.

23 La motivazione della sentenza è in A. ZERBOGLIO, Dei delitti contro l'ordine pubblico la fede pubblica e la pubblica incolumità, Milano, F. Vallardi, s.d., pp. 79-81,' tir. anche CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cil.. pp. 38-39.

24 Cass. 26 aprile 1894, cil.

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Infine la Corte d'Appello di Venezia assolveva nel 1901 gli imputati che erano stati condannati in primo grado per incitamento all'odio di classe (art. 247 c.p.). Mentre il giudice di primo grado, che ragionava ancora con la logica dell'emergenza, aveva sostenuto che in un articolo di giornale fossero contenuti gli estremi del reato di istigazione all'odio di classe, quello di secondo grado dimostrò che nell'articolo incriminato, nel quale la colpa del regicidio veniva fatta ricadere sul partito moderato e sulle mancate riforme, si parlava appunto di partiti, i quali non erano classi sociali ma raggruppamenti trasversali a cui la legge consentiva "libertà del pensiero, discussione"25.

La Corte d'Appello di Venezia si faceva interprete del nuovo clima e affermava che la politica svolta da un partito, ossia da un organismo rap-presentativo, anche se ostile al governo, non poteva essere considerata come un mezzo di eccitamento all'odio tra le classi per il fatto che si trat-tava di un partito politico. Veniva rovesciato in questa occasione il criterio che aveva precedentemente guidato la condotta di buona parte dei giudici: ciò che negli anni precedenti diventava reato solo perché di dimensione collettiva e associativa, veniva ora depenalizzato perché espressione di quella dimensione specifica, politica, associativa e collettiva.

Le sentenze d'appello pronunciate sui reati a mezzo stampa (reperite all'interno dei 48 processi che formano il nostro campione) sono otto. Tre di queste confermano le sentenza di primo grado (due condanne del gerente e un'assoluzione dal punto di vista penale). La Corte d'Appello di Napoli condannò il direttore e il proprietario di un giornale sia penalmente che civilmente, mentre il tribunale li aveva condannati per sola negligenza26. La Corte d'Appello di Catania accolse infine il ricorso del direttore dell'"Unione", Salvatore Lo Faro, che era stato imputato del reato di istigazione a delinquere a mezzo stampa per aver scritto nel 1896 "non paghiamo le tasse" ed era stato condannato in primo grado alla pena detentiva di tre mesi27.

Le condanne pronunciate nelle Corti d'Appello presenti nel dossier sono in proporzione maggiori di numero rispetto a quelle di primo grado. Proprio per questo motivo meritano di essere sottolineati i casi nei quali i giudici di secondo grado respinsero il ricorso del pubblico ministero e confermarono le assoluzioni, e quelli in cui accolsero il ricorso dei condannati. Appello Venezia, 10 gennaio 1901, cit. Cass. 6 giugno 1893, cit. Cass. 11 novembre 1896

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4. La corte di Cassazione

Il comportamento tenuto dalla Cassazione, a cui spettava l'ultima parola, risulta fondamentale per completare l'analisi relativa al grado di compattezza della magistratura italiana. Abbiamo condotto l'analisi sulla Corte di Cassazione lungo due piste: le sentenze contenute all'interno del dossier formato da 48 processi; e altre sentenze di cui non è stato ri-costruito L’iter processuale precedente. Nel dossier sono contenute 40 sentenze della Cassazione, 24 di condanna e 16 di assoluzione.

Per il reato di istigazione alla disobbedienza della legge vi furono quattro condanne che confermavano le precedenti condanne di primo o di secondo grado; e quattro assoluzioni, due delle quali accoglievano i giudizi di assoluzione espressi in entrambi i due gradi rigettando il ricorso del pubblico ministero, e due che accoglievano quello dei condannati, cassando la sentenza di secondo grado e confermando l'assoluzione emessa in primo grado28.

Quattro dei processi per istigazione all'odio di classe si conclusero con una condanna, che rigettava la sentenza di appello risoltasi con una semplice ammenda, e con tre assoluzioni, che cassavano le condanne emesse in primo o in secondo grado.

Più dura la linea tenuta nei confronti del reato di vilipendio com-messo pubblicamente contro le istituzioni costituzionali, punito con l'art. 126 c.p. Questo reato era di competenza della Corte d'Assise, la quale era composta dai magistrati e dalla giuria popolare. Delle tre condanne emesse dalla Corte d'Assise (della sentenza di Bologna del 27 giugno 1892 ne parla Isabella Zanni Rosiello in questo stesso numero), la Cassazione ne confermò due, mentre cassò senza rinvio quella emessa dall'Assise di Firenze29.

Nei processi contro gli anarchici abbiamo reperito tre sentenze della Cassazione. Due di esse confermavano la condanna emessa in appello sulla base dell'art. 248 c.p., rigettando dunque l'assoluzione in primo grado dall'accusa di associazione a delinquere e la conseguente condanna per as-sociazione politica eversiva. Famosa fu la sentenza del 24 novembre 1892, con la quale la Cassazione dichiarava le associazioni anarchiche colpevoli di distruggere le proprietà privata e lo stato usando la violenza30. Un'al-

28 Cass. 30 dicembre 1897; Cass. 27 marzo 1905, cit. in R. CANOSA-A. SAN TOSUOSSO, Magistrati, anarchici, socialisti, cit., pp. 114-15.

29 Cass. 12 dicembre 1892 (sez.II), Gì, 1895; Cass. 12 febbraio 1894 (sez.II), 01. 1894; Cass. 3 luglio 1901 (sez.II); TV, 1901.

10 Cass. 24 novembre 1892, "Rivista penale", 1893; A. ZERBOGLIO, Dei delitti

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tra sentenza rigettava invece il ricorso del pubblico ministero e confermava l'assoluzione dal reato di associazione per delinquere emessa in primo grado dal tribunale di Ancona. Anche la sentenza sui socialisti emessa in primo e secondo grado a Modena veniva confermata dalla Corte suprema.

I cinque processi relativi all'obbligo di preavviso per indire una riunione pubblica si conclusero in Cassazione con tre condanne, che confermavano quelle emesse dai pretori e due assoluzioni: in un caso la Suprema Corte rigettò il ricorso del pubblico ministero e confermò il non luogo a procedere emesso dal pretore di Novi Ligure, nell'altro accolse il ricorso dei condannati e cassò la condanna di primo grado.

I processi istruiti sui reati a mezzo stampa si conclusero in vario modo. Due delle tre sentenze della Cassazione concernenti la diffamazione a mezzo stampa assolsero i condannati, rovesciando i giudizi precedenti; una accolse invece il ricorso del pubblico ministero e cassò il non luogo a procedere emesso in primo grado. Nei confronti della responsabilità penale del gerente e dello stampatore, la linea della Corte Suprema fu orientata a riaffermarla (cinque sentenze su otto). Ma questa tendenza si articolò in posizioni differenti tra loro. Ad esempio, nel processo di Napoli, nel quale la Corte d'Appello aveva stabilito la totale responsabilità penale e civile del direttore del giornale e del proprietario, la Suprema Corte cassò la sentenza rinviando al primo grado31; cassò la sentenza del Tribunale di Milano relativa alla condanna dello stampatore, mentre veniva riconfermata la condanna del gerente32; infine nel processo ai tipografi Mondovì che stampavano la "Provincia di Mantova" e che erano stati condannati penalmente in primo grado e assolti civilmente, la Cassazione aveva rigettato il ricorso dei condannati che erano stati difesi davanti alla suprema corte da due avvocati di grido: Enrico Ferri e Ettore Sacchi33.

All'interno dei processi che abbiamo ricostruito la Cassazione si man-tenne in definitiva su posizioni non dissimili da quelle tenute dai magistrati che operavano negli altri gradi del giudizio. Accolse cioè in molti casi il ricorso dei condannati e respinse quello del pubblico ministero.

Ma se ampliamo la casistica delle sentenze emesse dalla Cassazione e consideriamo anche altre sentenze di cui non abbiamo potuto ricostruire l'intero iter processuale, il quadro si modifica sensibilmente. Abbiamo creato un altro dossier formato da sole sentenze della Cassazione, nel qua-

contro l'ordine pubblico, cit., p.73; R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., pp. 45-46. 31 Cass. 6 giugno 1893, cit. 52 Cass. 24 agosto 1896, Gì, 1896. 33 Cass. 23 novembre 1889, TV, 1890

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Tab. 3. Sentenze della Cassazione

OGGETTO ASSOLUZIONE CONDANNA

Istigazione all'odio di classe 6 19

Istigazione alla disobbedienza della legge e apologia di reato

3 16

Vilipendio delle istituzioni costituzionali

2 4

Associazione a delinquere e divieto di associazione anarchici

5

Divieto di associazione socialisti 3

Riunione non autorizzata 3 9

Stato d'assedio Rifiuto

di obbedienza

1 6

8 2

Diffamazione a mezzo stampa 2 1

Responsabilità penale e civile del gerente

2 7

Responsabilità penale e civile dello stampatore

4 3

Stampa, smercio, affissione 3

TOTALE 29 80

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le abbiamo inserito anche quelle relative alla legittimità dello stato d'as-sedio e dei tribunali di guerra che avevamo lasciato fuori dal dossier pre-cedente. I risultati questa volta sono sensibilmente differenti. Il numero delle condanne cresce con l'aumentare del numero delle sentenze ed esse si concentrano sui reati politici caratteristici del decennio della crisi.

Non è possibile trarre delle conclusioni definitive da questi dati re-lativi alle sentenze della Cassazione che, per essere significativi, an-drebbero completati con la ricostruzione per ognuna di loro dell'/ter processuale precedente. Solo così potremmo confermare se siano stati solo i magistrati della Cassazione ad esercitare la funzione più repressiva rispetto agli altri giudici. Ma anche in presenza di dati parziali è possibile affermare che in questi anni il volto repressivo della Suprema Corte, emerga soprattutto nei riguardi di quei reati che hanno, o possono, implicare, una dimensione collettiva. Diversamente, nei confronti dell'individuo, visto in rapporto all'autorità costituita, la Cassazione tendeva a schierarsi contro le decisioni dei pretori a favore dell'imputato, difendendo il suo diritto di opporsi agli abusi perpetrati da un pubblico funzionario nei suoi confronti (otto sentenze emesse dalla Cassazione sul rifiuto di obbedienza all'autorità pubblica, di cui sei assoluzioni) 34. Il diritto di resistenza che veniva negato nelle sue manifestazioni collettive, veniva invece riconosciuto se rivendicato dal singolo, purché il fatto avvenisse all'interno di un contesto ritenuto non politico.

È probabile che la vicinanza col potere politico condizionasse in misura maggiore i giudici di Cassazione, e rendesse ancora forte quell'identificazione con la classe politica che era stato fino a quel mo-mento uno dei tratti peculiari della magistratura italiana. Ma anche nel caso dei giudici della Cassazione ci troviamo di fronte a figure diverse tra loro alcune delle quali orientarono la Suprema Corte su posizioni più aperte. Luigi Lucchini fu uno di costoro. Professore universitario, avvocato, magistrato, deputato e senatore, Lucchini si affermò come figura di rilievo nel campo giuridico negli anni Ottanta: basti pensare al lavoro svolto assieme a Zanardelli per la stesura del nuovo codice penale e all'opera compiuta con la "Rivista penale" per la diffusione tra gli operatori del diritto di una cultura giuridica più liberale35.

34 Oltre alle sentenze citate nella nota cfr. Cass. 3 luglio 1894 (sez.II), Gì, 1894; Cass. 24 luglio 1896 (sez.II), Gì, 1896. 35 Su Lucchini cfr.Ministri, deputati e senatori dal 1848 al 1922, a cura di A. MA LATESTA, Roma, Ist. Edit.Ital. Bernardo Carlo Tosi, Roma 1940-1941, 3 v., ad vocem; e R. CAMBRIA, Alle origini del Ministero Zanardelli-Giolitti, cit., passim

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Lucchini era stato un difensore delle libertà politiche fin da quando era avvocato. Nel processo di Bologna del 1890 aveva sostenuto l'inco-stituzionalità del divieto di riunione applicato alla giornata del primo maggio e aveva difeso il diritto dei cittadini di resistere agli abusi dell'autorità pubblica. Non abbandonò la difesa dei diritti fondamentali anche quando divenne giudice della corte di Cassazione. Nel 1896 con-tribuì a cassare la condanna emessa in primo grado, ritenendo che i toni enfatici usati in una campagna elettorale non costituissero incitamento all'odio fra le classi sociali. Fece confermare la sentenza di assoluzione nel 1898 dal reato di associazione a delinquere emessa nei confronti degli anarchici dal tribunale di Ancona. Infine nel 1905 cassò la sentenza di colpevolezza emessa in secondo grado a Torino per apologia di reato contro la monarchia36.

Anche altri magistrati di Cassazione mostrarono un atteggiamento più morbido. Michelangelo De Cesare è uno di questi. Liberale, esiliato da Napoli nel 1849, entrò in magistratura dopo il 1860 e fu nominato senatore37. Il giudice Risi rigettò nel 1897 il ricorso del pubblico ministero e confermò il non luogo a procedere che il tribunale di Genova e successivamente la Corte d'Appello avevano dichiarato nei confronti di Giovanni Chiozza, gerente responsabile de "Il Caffaro" di Genova, imputato di avere inneggiato al regicidio attraverso un articolo pubblicato sul giornale. La Cassazione aveva ribadito l'interpretazione secondo la quale non si poteva giudicare il tenore di uno scritto da singole frasi, mentre si doveva valutare nel complesso se esso contenesse delle ragioni valide per rientrare in un reato penale come quello contenuto nell'art. 247 c.p.38.

Un'altra sentenza della corte suprema presieduta dal giudice Capaldo rigettò il ricorso del pubblico ministero riconfermando l'assoluzione emessa in primo grado (di cui abbiamo già parlato). Andando oltre la linea giurisprudenziale che aveva fino a quel momento sostenuto che il reato si consumava con il semplice canto dell'inno, la Cassazione affermava invece l'importanza di valutare l'elemento intenzionale che in questo caso era la volontà deliberata di turbare l'ordine pubblico incitando i poveri all'odio contro i ricchi. Volontà che la sentenza d'appello non motivava e per questo veniva cassata39. Cass. 25 maggio 1896, pres. De Cesare, estensore Lucchini, cit. Ministri, deputati e senatori, cit., ad vocem. Cass. 30 novembre 1897 (sez.II), presidente Risi, cit. Cass. 28 settembre 1898 (sez.II), ff. di presidente Capaldo, Gì, 1898.

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Altro personaggio significativo di quegli anni è il giudice Tancredi Canónico. Professore universitário di diritto penale a Torino, moderato ma con forti aperture democratiche, filosofo, Canónico entro in magistratura nel 1876, e fu nominato senatore nel 188140. Fu presidente tra il 1892 e il 1893 in tre udienze delia Cassazione nelle quali si di-scusse di reati commessi attraverso la stampa. Canónico mantenne una linea decisa nei confronti delia responsabilità penale dei gerente di un giornale, che riaffermò in due casi mentre in un terzo ribadi anche la responsabilità civile nei confronti dei direttore, ritenuto responsabile delia scelta dei gerente41. Lo ritroviamo nei processi dei 1898 nei quali si decise delia legittimità dello stato d'assedio e infine nell'udienza in cui fu dichiarato decaduto il decreto 22 giugno 1899. Figura emblemática di una magistratura in equilíbrio tra spinte contrastanti, Canónico svolse un ruolo per alcuni aspetti complementare a quello rivestito da Lucchini.

5. Unafunzione vicária Sulla magistratura italiana di fine secolo gravarono responsabilità enormi. In quegli anni drammatici essa fu chiamata ripetutamente a legit-timare 1'operato dei governo e addirittura a prendere decisioni per conto dei potere politico. Quest'ultimo attribui frequentemente alia magistratura una funzione vicária che essa non sempre riconobbe come própria, ma con la quale dovette in ogni caso misurarsi. Questa funzione era facilitata dai-lo stesso sistema liberale. Con una costituzione flessibile quale era lo sta-tuto albertino, e senza avere una norma fondamentale a cui riferirsi, la magistratura poteva spaziare ali'interno di confini molto ampi per quanto ri-guarda 1'interpretazione delia legge42. Inoltre, siccome nell'ordinamento giuridico dei período liberale non esisteva di conseguenza un organo para-gonabile all'attuale corte costituzionale, la Cassazione era ripetutamente chiamata a pronunciarsi sulla legittimità stessa delle leggi. Compito che la Suprema Corte a volte accettava e a volte tendeva a rifiutare, instaurando

40 Dizionario biográfico degli italiani, vol. XVIII, Roma, 1986 ad vocem. 41 Cass. 1 settembre 1892 (sez.II), presidente Canónico, TV, 1893; Cass. 6 giugno

1893 (sez.II), presidente Canónico, GI, 1895; Cass. 6 giugno 1895 (sez.II), presidente Canónico, GI, 1895.

42 J. LUTHER, Idee e storie di giustizia costituzionale nelVottocento, Torino, Giappichelli, 1990, cap.VII.

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con il potere politico una dialettica complessa e non infrequentemente di tipo oppositivo43.

Nel decennio delia crisi la magistratura italiana venne chiamata a svolgere un'azione eminentemente politica in due momenti cruciali, che coincisero con 1'inizio e la conclusione delia grande ondata repressiva. II compito principale che la Corte di Cassazione dovette affrontare a partire dalla prima legislazione eccezionale contro gli anarchici e i so-cialisti, consistette neH'esprimersi sulla legittimità dello stato d'assedio e dell'utilizzazione dei tribunali militari per giudicare reati che nel códice penale erano catalogati come delitti contro 1'ordine pubblico. La storiografia non ha dubbi nel giudicare il comportamento delia Cassazione in quel frangente: per Canosa e Santosuosso essa legittimò lo stato d'assedio non sulla base di motivazioni giuridiche ma in nome dei bene delia pátria; per Córdova la Suprema Corte arrivò a smentire se stessa e a rimangiarsi quanto aveva stabilito in occasioni analoghe dando cosi prova di muoversi in perfetta sintonia con il potere esecutivo44.

Tre dei cinque processi che abbiamo ricostruito relativi alia legittimità dello stato d'assedio iniziano con Farto di riconoscimento da parte dei tribunali di primo grado dello stato d'emergenza. II tribunale di Massa e quello di Trapani si dichiararono infatti incompetenti a giudicare i reati nominati nel régio decreto dei 1894 che istituiva i tribunali di guerra. Gli atti processuali passarono ai giudice militare che condan-narono gli imputati di associazione a delinquere e istigazione alia guerra civile a pene che arrivavano fino a venticinque anni di detenzione. I condannati basarono il ricorso in Cassazione su due punti: 1'anticostitu-zionalità dei tribunali militari, dal momento che non vi era alcuna guerra in corso e l'illegittimità dell'applicazione retroattiva delle leggi ecce-zionali a fatti accaduti precedentemente45.

La Cassazione non mise assolutamente in discussione in nessuna delle cinque sentenze né lo stato d'assedio né la retroattività delle legge, come emerge dalla piú famosa delle sentenze, quella contro Turati, Ku-liscioff e il gruppo dei socialisti milanesi46. All'interno di una linea so-stanzialmente uniforme in base alia quale la Corte Suprema, alio stesso

43 F. ROSELLI, Giudici e limiti ai potere dei legislatore, vigente lo statuto alber tino, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1986, pp. 476-547.

44 R.CANOSA-A.SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., p. 81; F. CÓRDOVA, Democrazia e repressione nellltalia diflne secolo, cit., p. 54.

45 Cass. 19 marzo 1894 (sez.I), presidente Canónico, GI, 1894; Cass. 6 aprile 1894. in R. CANOSA-A.SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., p. 79. 46Cass. 22 agosto 1898 e 25 agosto 1898 (sez.I), presidente Canónico, GI. 1898

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modo dei giudici di primo grado, accetta di legittimare lo stato d'asse-dio, alcune sentenze mostrarono tra le righe l'esistenza di posizioni dub-biose, o quanta meno incerte. Nel processo contro Luigi Molinari, con-dannato dal tribunale militare di Massa a venticinque anni di carcere, la Cassazione, presieduta dal giudice Tancredi Canonico, affermo la legit-timita della retroattivita della legge eccezionale soltanto alla luce del cli-ma di emergenza47, cosi come nel processo contro Gattini sostenne che la retroattivita era giustificabile solo alla presenza di un nesso causale preciso tra gli avvenimenti del passato e il presente48.

Nel processo contro Molinari inoltre, la Corte Suprema dichiaro in-competente il tribunale militare a giudicare del reato di istigazione alla guerra civile, asserendo che quest'ultimo dovesse essere giudicato nel-la sua sede legittima, ossia la Corte d'Assise. Venne cosi cassata la parte della sentenza che riguardava I'istigazione alla guerra civile, per la quale i ricorrenti venivano rinviati alla Corte d'Assise. Veniva inoltre cancellata anche la pena inflitta dal tribunale militare a Molinari: essa doveva essere ridotta e commisurata al solo reato di cui il tribunale militare era tenuto a giudicare, ossia l'associazione a delinquere.

L'altro momenta cruciale nel quale la magistratura venne investita di un ruolo politico fu alla fine della crisi, quando fu chiamata ad espri-mersi sulla legittimita del decreto che Pelloux aveva emanato alla Camera il 22 giugno 1899, otto giorni prima del suo scioglimento. Si trat-tava di un decreto che riuniva le principali disposizioni del governo relative alla liberta di stampa e alla pubblica sicurezza che la Camera sta-va discutendo. In questo modo Pelloux pensava di superare l'ostacolo dell'ostruzionismo usando l'arma del decreto per evitare che il suo con-tenuto, totalmente lesivo delle liberta fondamentali, venisse discusso alla Camera. II decreto doveva entrare in vigore il 20 luglio, indipenden-temente dal fatto che il parlamento avesse o no deliberato sulle disposi-zioni in esso contenute.

La presentazione del decreto suscito le reazioni piu vivaci da parte dell'estrema Sinistra. Esso non riusci ad essere convertito in legge e il 1° luglio venne chiusa la Camera. Alla riapertura della Camera riprese l'ostruzionismo dell'opposizione senza che si intravedesse una chiara via d'uscita politica rispetto ad una situazione di stallo nella quale le forze d'opposizione, compresi i socialisti, erano incapaci di condurre un'azione politica che uscisse fuori dal parlamento e trovasse una sal-

47 Cass. 19 marzo 1894 (sez.I), presidente Canonico, GI, 1894. 48 Cass. 19 marzo 1894 (sez.I), presidente Canonico, GI, 1894.

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datura organica tra la lotta istituzionale e i movimenti di protesta che agitavano il paese49. Intervenne, in quella situazione di stallo, la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione il 20 febbraio 1900 che dichia-rava decaduto il decreto legge incriminate perche era scaduto il termine della sua conversione in legge.

Umberto Levra afferma che la sentenza arrivo inaspettata, e che in-flisse un duro colpo al governo dando nuovo spazio alla lotta ostruzio-nistica; lo storico torinese ritiene tuttavia che l'obiettivo principale di Pelloux non fosse piu l'immediata conversione in legge dei provvedi-menti politici, bensi l'approvazione del nuovo regolamento della Camera che avrebbe dovuto impedire la ripresa dell'ostruzionismo da parte dell'opposizione, E che, comunque, la risoluzione della crisi avvenne grazie al risultato ottenuto daU'estrema e dalla Sinistra costituzionale nelle elezioni del giugno 1900 che Pelloux aveva indetto anticipata-mente sperando di ottenere l'effetto contrario. L'avanzata di tutte le componenti dello schieramento di sinistra accelero lo sfaldamento della maggioranza e indusse Pelloux a dimettersi50. Rita Cambria, dal canto suo, asserisce che la sentenza della Cassazione del 20 febbraio 1900 fu il risultato di un accordo tra le frazioni dell'alta magistratura legate a Giolitti e a Zanardelli e la Sinistra costituzionale. Tancredi Canonico, come presidente e Luigi Lucchini, come consigliere, firmarono una sentenza che offri alla Sinistra costituzionale un'occasione per uscire dalla crisi che essa, con tutte le ambiguita che avevano contraddistinto il suo comportamento nel biennio della crisi, non era riuscita a trovare sul piano politico51.

La storiografia si e soffermata a riflettere sugli effetti esercitati dall'operato della Suprema Corte sul sistema politico. Ma quale signifi-cato riveste la sentenza del 20 febbraio 1900 all'interno della storia della magistratura nel decennio della crisi? In realta non si tratta di una sola sentenza, ma di un pool di dieci sentenze emesse tra luglio 1899 e febbraio 1900 da giudici di primo grado, di Corte d'Appello e di Cas-sazione, su casi che riguardavano per la maggior parte reati di stampa contemplati negli artt. 5, 6, 7, 8 del decreto liberticida del 22 giugno 1899, n.226. Per applicarlo o no, i magistrati dovettero affrontare il pro-blema della sua stessa esistenza giuridica. 49 U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia, cit., p. 332 e ss. 50 IvL, p. 382 e ss. 51 R. CAMBRIA, Mil' orinini del Ministero Zanardelli-Giolitti, cit., pp. 186-87.

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Rispose affermativamente al quesito la Corte d'Appello di Milano52, la quale cancellò la pena pecuniaria inflitta dal tribunale di Como al ge-rente Migliavada, responsabile de "Il lavoratore di Como", perché costui poteva usufruire delle condizioni previste dall'art. 5 del decreto n.. 226, in base al quale il gerente ere esente da pena nel caso in cui "l'autore o i cooperatori delle pubblicazioni siano condannati e risiedano nel re-gno"53. Lo stesso fece la seconda sezione della Cassazione che rigettò il ricorso del Migliavada perché ritenuto contrario ai suoi interessi54.

Nello stesso giorno, il 29 dicembre 1899, la corte suprema, sempre presieduta da De Cesare, aveva ribadito l'applicabilità del decreto riba-dendo la sua estraneità ad esercitare la funzione di sindacato di costitu-zionalità. I giudici della Corte d'Appello di Venezia avevano dichiarato colpevole il gerente Alberto Gherardi per le ingiurie pubblicate sul "Corriere del Polesine", per poi discolparlo in base all'art. 5 del decreto 22 giugno 1899, n. 226; lo avevano tuttavia condannato ad una multa e al pagamento del danno e delle spese. Il ricorso di Gherardi, fondato sulla non legittimità del decreto n. 226, era stato respinto dalla Cassazione, la quale aveva sostenuto che se esso era fondato sulla non corretta applicazione del decreto, non spettava alla Cassazione addentrarsi nell'esame della sua costituzionalità55.

Il tribunale di Chieti, dal canto suo, affermava che nonostante non spettasse all'autorità giudiziaria pronunciarsi "sulla costituzionalità o legittimità di un procedimento emanato dal governo sotto propria re-sponsabilità politica, esercitando in via straordinaria e d'emergenza la podestà legislativa", riteneva non potersi comunque esimere dall'appli-care il decreto n. 22656.

L'unica voce discorde che si levò all'interno di questo coro fu quella del tribunale di Messina. Si trattava in questo caso dell'accusa di vilipendio al parlamento che il giudice istruttore aveva formulato nei confronti di un articolo pubblico sulla "Gazzetta di Messina e della Calabria", reato contro il quale - secondo la legge ordinaria - non si poteva procedere senza richiedere l'autorizzazione del ramo del parlamento che era stato offeso. L'art. 9 del decreto n. 226 abrogava l'auto-

52 Appello Milano, 9 settembre 1899, Gì, 1899. 53 Sulle norme in materia di stampa contenute nel decreto 226, cfr. G. LAZZARO,

La libertà di stampa in Italia, cit, pp 89-91. La citazione è a p. 90. 54 Cass. 29 dicembre 1899 (sez.II), presidente De Cesare, Gì, 1900. 55 Cass. 29 dicembre 1899 (sez.II), presidente De Cesare, Gì, 1900. 56 Tribunale penale Chieti, 16 febbraio 1900, Gì, 1900.

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rizzazione e obbligava l'invio immediato degli atti processuali al pro-curatore generale del re. La camera di consiglio del tribunale di Messina decideva, di conseguenza, prima di dare avvio alla azione penale, di esaminare se il decreto in questione avesse forza di legge. E, secondo i giudici di Messina, esso non l'aveva per il fatto di essere un decreto legge emanato non a parlamento chiuso, cioè in una vera situazione di emergenza e eccezionalità, ma a parlamento aperto, con il potere legislativo pienamente funzionante. Il decreto n. 226 era la prova che il potere esecutivo si arrogava "incostituzionalmente la potestà di creare o modificare le leggi". Inoltre, dato che non era stato rispettato quanto previsto dall'art. 10 (secondo il quale il decreto, che diventava esecutivo il 20 luglio 1899, sarebbe stato presentato subito per la conversione in legge) perché si era chiuso il parlamento, il decreto non aveva forza di legge57.

La Corte d'Appello di Messina respinse invece la decisione del tri-bunale affermando con vigore la legittimità del decreto, della sua re-troattività nonché del diritto del potere esecutivo di usare misure ecce-zionali "per far fronte alla responsabilità della sicurezza e della esistenza dello stato."58.

Fino al 20 febbraio 1900 la stragrande maggioranza dei giudici si pronunciò dunque a favore della validità del decreto 226. Non è un ele-mento trascurabile il fatto che i magistrati si pronunciassero a favore o contro la validità del decreto per alleggerire la condanna dell'imputato e per cercare di tutelare meglio la sua posizione. Molti di loro utilizzarono infatti l'art. 5 del decreto per non punire i gerenti responsabili. Ma al di là delle buona intenzioni dei giudici, rimaneva aperta una questione delicatissima, ossia se fosse compito o meno della magistratura esprimersi sulla legittimità dell'operato del potere esecutivo e farsi carico nella sostanza di un compito politico.

Su questo punto le posizioni dei magistrati erano contrastanti. Quelli che riconobbero il carattere d'urgenza del decreto finirono di fatto per approvare l'operato dell'esecutivo. Come affermò Enrico Presutti commentando la sentenza della Corte d'Appello di Milano, le mo-tivazioni addotte da quei magistrati erano politiche, non giuridiche, e per questo priva di fondamento59. Un'altra componente riteneva invece

57 Tribunale penale Messina, 29 novembre 1899 (camera di consiglio), Gì, 1900. 58 Appello Messina, 30 dicembre 1899, Gì, 1900. w E. PRESUTTI, // decreto 22 giugno 1899 avanti la giurisdizione penale, GÌ, 1899,

pp. 367-68.

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che il giudice dovesse esprimere solo valutazioni di natura giuridica e che nella fattispecie queste riguardassero il problema se fosse legittimo o meno utilizzare lo strumento del decreto legge, senza addentrarsi a giudicare delle circostanze sulle quali il decreto in questione era stato emanato.

La sentenza emessa il 20 febbraio 1900 dalla prima sezione della Cassazione rappresentò un tentativo di sintesi (o forse di compromesso) tra queste due tendenze60. Essa risolse innanzitutto la questione pratica che più interessava la Sinistra storica, dichiarando decaduto il decreto n. 226 perché non erano stati rispettati i tempi della sua conversione in legge. Non essendo stato emanato a sessione chiusa un nuovo decreto -sosteneva la Cassazione - relativo ai provvedimento contenuti in quello decaduto, la sua applicazione in un periodo successivo era da ritenersi non valida. Entrando in conflitto con le sentenze emesse precedentemente dalla seconda sezione, la prima sezione faceva proprio il ragionamento dei giudici di primo grado di Messina, ma si spingeva ancora oltre. Sbagliavano - sosteneva la Suprema Corte - i magistrati che avevano legittimato l'applicazione del decreto n. 226 invocando lo stato di emergenza; se infatti l'emergenza fosse stata davvero tale, il governo avrebbe potuto emanare un nuovo decreto a sessione chiusa. Solo in quel caso il potere giudiziario avrebbe potuto eventualmente riconoscere l'applicabilità del nuovo decreto.

Questa conclusione suonava - secondo Giorgio Lazzaro - quasi come una beffa nei confronti del governo, dal momento che indicava le circostanze nelle quali avrebbe potuto svolgere un compito che non le spettava61.1 giochi erano fatti: quattro giorni dopo, il 24 febbraio 1900, la Corte d'Appello di Perugia riconfermava decaduto il decreto n 226. Ma la prima sezione della Cassazione volle rappresentare anche l'altra tendenza della magistratura. Dichiarando che "il potere giudiziario non dia facoltà di modificare l'esecuzione del potere esecutivo in ciò che riguarda le necessità dello stato", la Cassazione riprendeva sia i pronunciamenti del tribunale di Chieti che le massime di questo tenore espresse dalla seconda sezione della Corte Suprema. La prima sezione della Cassazione aveva scelto una via compromissoria nel momento in cui si era limitata a valutare l'esistenza giuridica del decreto, accantonando l'esame della sua costituzionalità62 . La 60 Cass. 20 febbraio 1900 (sez.l), presidente Canonico, Gì, 1900. 61 G. LAZZARO, La libertà di stampa in Italia, cit., p. 88. 62 R. CAMBRIA, Alle origini del Ministero Zanardelli-Giolitti, cit., p. 14.

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linea imboccata dai giudici non rientrava appieno negli intendimenti di uno dei membri della corte, Luigi Lucchini, che di questa sentenza era stato l'ispiratore. Il giudice-deputato infatti, aveva sostenuto alla Camera l'idea di una magistratura che giudicasse l'operato del governo. A Sonnino, che si proclamava sostenitore della linea contraria, Lucchini aveva contrapposto quella giurisprudenza che dal tempo dello stato d'assedio in Lunigiana aveva ammesso che "la magistratura, com'è suo dovere, intervenga e ricerchi se tali provvedimento siano o meno fondati in legge e consentano alla costituzione politica dello stato"63. Il deputato Lucchini riteneva che la magistratura avesse "il diritto e il dovere di indicare la legittimità degli atti del governo"; il giudice Lucchini firmò invece una sentenza che intendeva mettere al riparo la magistratura dal compito di giudicare il potere esecutivo.

Compromesso, ricerca di nuovi equilibri, posizione difensiva: la sentenza del 20 febbraio 1900 conteneva tutte queste motivazioni e contribuiva a chiudere la crisi politica di fine secolo, e la fase durissima che aveva attraversato la magistratura nel decennio della crisi.

6. Giudici d'assalto ?

Attraversata da indirizzi e tensioni molteplici e a volte contrastanti, costretta a muoversi in un ambiente nel quale si assottigliavano ogni giorno di più gli spazi di libertà degli individui, la magistratura italiana fu sottoposta nel decennio della crisi a pressioni enormi. Ad essa furono affidati compiti politici di portata esorbitante che erano non solo il prodotto di un'emergenza durata negli anni, ma anche - e soprattutto -di una legislazione che affidare al giudice uno spazio interpretativo va-stissimo. Ai giudici - spiega in modo lapidario Mario Sbriccoli - veniva assegnata in modo strumentale una delega da parte della classe do-minante. Non era una delega che "assegnava alla decisione di un corpo dello stato una questione irrisolta", ma che al contrario "lasciava prov-videnzialmente irrisolta la questione, rinviandola alla sola istanza del potere che per la natura del suo ruolo (per esempio il fatto di provvedere per interpretationem), per le sue varie articolazioni (non tutti i giudici, e non tutti i livelli di giurisdizione, si esprimono allo stesso modo), per la credibilità tecnica che essa conserva anche quando si contraddi- 63 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, leg. XX, sess. 1899-1900, voi. IV, Discussioni, 2° tornata del 28 giugno 1899, pp. 4788-4789.

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ce, può lasciarla aperta a tempo indeterminato, pronunciandosi su di essa innumerevoli volte, senza definirla mai una volta per tutte" .

Per far un solo esempio, una sentenza della Cassazione del 1897 ri-guardante il mancato preavviso di una riunione indetta a scopi pacifici, esprimeva il principio secondo il quale spettava al magistrato e solo a lui di segnare il limite tra pubblico e privato, di decidere a quale di questi due territori appartenesse una riunione, e decidere dunque a quale dei due regimi essa dovesse appartenere. Su una questione vitale per le libertà del cittadino quale appunto la definizione dello spazio privato e di quello pubblico, era il giudice a doversi pronunciare e decidere quali fossero i confini dell'azione politica65.

Sotto la spinta di questi fattori l'identificazione tra magistratura e ceto politico iniziò a incrinarsi e si delinearono situazioni di conflitto, quando non di scontro aperto tra alcuni giudici e il governo. Sono storie tutte da ricostruire, di cui sono state rinvenute alcune tracce. Esse ci inducono a pensare che nel decennio della crisi non furono pochi i ma-gistrati che interpretarono il loro ruolo nei termini dell'affermazione di un'autonomia totale nei confronti del potere esecutivo e di difesa della legalità, fino ad assumere posizioni ritenute quasi eversive dal governo. Dell'esistenza di "giudici d'assalto" negli anni della crisi ne parlò più volte alla Camera Felice Cavallotti, l'uomo politico più rappresentativo, assieme a Matteo Imbriani Poerio, del partito dei diritti umani.

Il caso più clamoroso riguarda il muratore Romano Trezzi, forse il primo detenuto della storia d'Italia a essere stato 'suicidato'. Arrestato dalla polizia di Roma assieme ad altri anarchici, socialisti e repubblicani dopo l'attentato fatto il 22 aprile 1897 da Pietro Acciarito al re Umberto I mentre si recava in carrozza all'ippodromo delle Capannelle. Trezzi fu massacrato nel carcere di San Michele dagli agenti di pubblica sicurezza che lo avevano tenuto tre giorni nella prigione romana senza avvertire l'autorità giudiziaria66.

La compiacenza del medico di fiducia della questura e di un perito assai discusso avallarono la tesi del suicidio che un altro coscienzioso perito, il dottor Pardo, non si sentì però di sottoscrivere. Comunicati i suoi dubbi al magistrato inquirente Boccelli, costui si decise a chiedere

64 M. SBRICCOLI, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra otto e novecen to. Il problema dei reati politici dal Programma di Carrara al trattato di Manzini, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", 2, 1973, pp. 659-60.

65 Cass. 18 dicembre 1897, Gì, 1898. 66 Sul caso Frezzi cfr. G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna. VII. La crisi

di fine secolo e l'età giolittiana 1896-1914, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 39-40.

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un'altra perizia. In questo modo fu impedito che il caso venisse insabbiato come aveva tentato di fare la questura di Roma che mise in atto fin dal primo momento un'operazione di depistaggio, ricorrendo al pretore, anziché al giudice, per evitare che iniziassero gli interrogatori e facendo sparire i detenuti delle celle vicine che avevano udito le grida di Trezzi mentre gli agenti lo picchiavano fino ad ucciderlo.

Il magistrato inquirente non si piegò davanti ai tentativi dell'autorità politica di deviare le indagini in un'altra direzione; affidò a tre professori una nuova perizia e dopo aver letto il verdetto spiccò un mandato di cattura nei confronti dei tre agenti di questura che avevano ucciso Trezzi e li arrestò. Pare che - rivelò Cavallotti alla Camera - il procuratore generale - dicendo di parlare a nome del Guardasigilli - avesse tentato di sospendere l'arresto delle guardie e avesse rivolto delle minacce anche al giudice istruttore67. Ma Boccelli non si era fatto intimorire e aveva ordinato la perquisizione della questura e emesso un mandato di comparizione nei confronti del questore Martelli.

Il fatto non era nuovo: a Roma più volte negli ultimi anni i questori erano stati citati come imputati senza che nessuno si interessasse dell'accaduto. L'atto del giudice Boccelli scatenò invece le ire di Antonio di Rudinì. Il primo ministro accusò alla Camera il magistrato di violazione dell'articolo 8 della legge comunale e provinciale, secondo il quale era vietato procedere contro un'autorità politica senza aver richiesto l'autorizzazione sovrana. Per il capo del governo, il giudice Boccelli non si era limitato a violare la legge. Con il suo comportamento aveva indotto nel pubblico il sospetto che "si volesse fare non un procedimento penale contro alcuni cittadini colpevoli di reati, ma una vera e propria inquisizione sopra un altro istituto dello stato, il quale dev'essere così indipendente com'è quello giudiziario". Dopo aver difeso l'operato della polizia, di Rudinì concludeva la sua invettiva denunciando il fatto che "l'autorità giudiziaria (...) aveva avvalorato nel pubblico il pensiero che si trattasse di una vera inquisizione dell'ordine giudiziario sopra l'ordine politico"68. Ma di Rudinì non si limitò a questo: coprendo il questore di Roma con la sua autorità ministeriale, impedì la prosecuzione dell'istruttoria.

Il fatto suscitò grande sdegno tra le fila dell'estrema Sinistra. Giovan Battista Impallomeni, giurista militante appartenente alla scuola del

67 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, leg. XX, I sess., Discussioni, tornuta 17 maggio 1897, pp. 724-34.

68 Ivi, leg. XX, I sess.. Discussioni, tornata 8 giugno 1897, p. 1594.

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Mtialiimo giuridico, scrisse parole di fuoco contro il regime di polizia che stava prendendo piede nel paese69. Per Cavallotti significò rompere definitivamente con il governo di Rudinì . Secondo il leader radicale l'intervento alla Camera di Rudinì aveva rappresentato una rottura anche nei confronti della prassi consueta rappresentata dagli attacchi del potere esecutivo contro l'autonomia dei giudici. Si era arrivati, di recente, a prefetti che minacciavano giudici di inviarli al domicilio coatto, ma non si era ancora arrivati all'"offesa alla maestà della legge e del giudice, glorificata dalla tribuna parlamentare e chiamata a costituire un precedente inaugurante tutto un sistema di governo". Secondo Cavallotti, la tendenza strisciante che stava affiorando all'interno del governo consisteva nel sottrarre ai giudici il maggior numero di reati e di metterli sotto la responsabilità del governo per sottoporli al giudizio del parlamento. Bastava un primo ministro sicuro della sua maggioranza "e per tutti i reati la cui persecuzione dia noi al Governo, voi potete mandare il giudice a dormire"71.

Cavallotti concludeva il suo terzo discorso pronunciato alla Camera sul caso Trezzi mettendo in guardia il governo dal mettere le mani sulla magistratura. L'immagine del corpo giudiziario che il leader radicale trasmetteva al Parlamento era quella di un'istituzione composta di membri che lottavano strenuamente per difendere il diritto e la loro autonomia dagli attacchi del potere politico. Ma egli si spingeva oltre, dichiarando quali compiti spettassero alla magistratura nei periodi di grave crisi istituzionale:

Quando le tristi onnipotenti dittature, quando le maggioranze enormi, schiaccianti imperversano, è allora che all'uomo libero, com-battente da solo contro tutti, al cittadino soltanto armato della sua co-scienza, del suo diritto e di una giusta causa non resta altro rifugio che il tempo della giustizia, altro ausilio che quello del magistrato per tener testa a maggioranze e dittatori.

69 G.B. IMPALLOMENI, Responsabilità ministeriale e responsabilità comune a

proposito del caso Frezzi, in "La Giustizia penale", 1897, citato in M. SBRICCOLI, // diritto penale sociale 1883-1912, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giu ridico moderno", 3-4, 1974-75, t. I, pp. 592-93.

70 A. GALANTE GARRONE, / radicali in Italia 1849-1925, Milano, Garzanti, 1973, p. 353.

71 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, leg. XX, I sess., tornata 20 giugno 1897, p. 2142.

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7. Il partito dei diritti umani

La crisi di fine secolo si presentò, sia in Italia che in Francia, sotto la forma di uno scontro aspro tra due culture politiche che guardavano alla questione delle libertà fondamentali in modo totalmente antagonistico. Questo scontro non rimase una sterile contrapposizione, né si risolse in un'azione puramente difensiva; costituì invece un terreno favorevole allo sviluppo di nuove progettualità. La creatività sprigionatasi negli anni della crisi si incanalò in due direzioni: da un lato imboccò la via della costruzione di un immaginario sociale che avrebbe dato luogo nei due paesi a due differenti stagioni del riformismo72; dall'altro ripropose come elemento di aggregazione politica la tematica dei diritti dell'uomo. La cultura delle libertà che aveva attraversato l'Europa sette-ottocentesca si presentò di nuovo sul finire del secolo con problematiche specifiche e diede vita a forme organizzative totalmente nuove. Entrambi i paesi furono interessati da questa risposta che una parte della società elaborò di fronte al pericolo di una deriva repressiva. Le differenze furono però notevoli.

Nella Francia di fine Ottocento la cultura dei diritti umani rivendicò l'atto fondante della moderna nazione francese. Attorno alla mitologia politica dell'89 e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo si creò un'azione di difesa di diritti già esistenti73. Si trattò della ripresa di una cultura che aveva già permeato lungo un secolo la società francese e che ora, di fronte ad una grave crisi dello stato, venne riproposta come terreno sul quale far nascere nuove aggregazioni politiche allo scopo di riaffermare il nesso tra cittadinanza, diritti dell'individuo e repubblica74. I diritti dell'individuo divennero dunque in Francia la bandiera per riaf-fermare la legittimità della democrazia e della repubblica. Tutti e tre questi elementi furono ripresi e riproposti da un gruppo di cittadini come il canale per la risoluzione della crisi e per la riaffermazione di una cittadinanza repubblicana che da quei diritti individuali non poteva "ge-neticamente" prescindere.

72 Si vedano a questo proposito le analisi condotte da G. GEMELLI, infra. 73 E. NAQUET, La Ligue des droits de l'Homme: une polìtique des droits et de la

justice dans le premier vingtième siede, in "Jean Jaurès cahiers trimestriels", cit., pp. 29-48.

74 M. REBERIOUX, Polìtique et société dans l'histoire de la Ligue des droits de l'homme, in Les droits de l'homme en polìtique, a cura di M. REBERIOUX, in "Le Mouvement social", 183, aprile-giugno 1998, pp. 3-25.

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In Francia la cultura dei diritti umani di fine secolo assunse una for-ma organizzativa stabile: la Ligue des Droits de l'Homme, sorta nel 1898 divenne un organismo permanente che fino a tutti gli anni Trenta si oc-cupò della difesa dei diritti degli stranieri e degli emarginati, degli diritti sociali, dei diritti dei popoli, della giustizia internazionale. Essa nacque per iniziativa di un gruppo formato da qualche politico, da avvocati favorevoli alla revisione del processo a Dreyfus e da un numero signifi-cativo di professori universitari e scienziati (tra i più famosi va citato Emile Durkheim), a cui si affiancarono medici e insegnanti attivi nelle sezioni locali della lega. Si trattò di un'iniziativa che trovò il suo terreno fertile tra gli intellettuali, o meglio tra i savants, ossia tra individui abi-tuati a fare ricerca e ad applicare metodi scientifici nel loro lavoro75. La Ligue des Droits de l'Homme va così inquadrata come un'iniziativa nata all'interno della società civile grazie alla quale venne sottolineato l'impegno dei savants nella città, un impegno che assunse per questo motivo un significato profondamente politico.

Anche in Italia il decennio della crisi fu un periodo fertile per la pro-liferazione e la diffusione di discorsi sui diritti umani. Il susseguirsi di leggi eccezionali e di attacchi alle libertà costituzionali fondamentali rap-presentarono un terreno di coltura per queste tematiche. Si può dunque parlare anche per l'Italia di "diritti umani di fine secolo", usando l'espres-sione coniata da Emmanuel Naquet per definire il terreno di aggregazione di una parte della società francese nel corso dell'affaire Dreyfus?

La prima cosa da rilevare è il totale silenzio della storiografia ita-liana contemporaneista sulla cultura dei diritti umani. Anche studi re-centissimi76, non contengono alcun accenno all'impegno dei radicali su questa tematica, che pure costituì fin dall'Ottocento una componente fondamentale e altamente identificativa del loro lavoro politico. Un analogo silenzio su questi temi attraversa gli studi sulla massoneria otto-novecentesca, che condivideva con i radicali e i socialisti, buona parte dei quali erano di fede massonica, un'eguale sensibilità nei confronti del tema dei diritti umani77.

Il fatto che la storiografia italiana, a differenza di quella francese, non si sia posta domande esplicite a questo riguardo e che quando lo ha

75 V. DUCLERT, La Ligue de "epoque héroique": la politique des savants, in "Le Mouvement social", 183 cit, pp. 27-60.

76 G. ORSINA, Il partito radicale nell'età giolittiana, Roma, Carocci, 1998. 77 Si veda ad esempio il volume di F. CORDOVA, Massoneria e politica in Italia

1892-1908, Roma-Bari, Laterza, 1985, che non contiene alcun accenno a questo tema neppure nelle pagine relative alla crisi di fine secolo.

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fatto, non abbia superato la soglia della descrizione senza tentare alcuna concettualizzazione, non è casuale. È un ulteriore segno del fatto che la cultura dei diritti dell'individuo e delle sue libertà non abbia mai avuto un vero radicamento nel nostro paese, come spiegò in modo mirabile Giuliano Amato nella monografia dedicata al rapporto tra individuo e autorità78.

L'ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse è stata quella di veri-ficare se nell'Italia di fine Ottocento si fosse presentato un fenomeno paragonabile alla nascita della Ligue des Droits de l'Homme e se la crisi di regime avesse agito da acceleratore nei confronti dell'elaborazione e della diffusione di una cultura dei diritti umani. Per ricercare manife-stazioni visibili di simili tematiche è stata scelta come fonte le interpel-lanze parlamentari. Seguendo un metodo analogo a quello utilizzato per le sentenze della magistratura, è stato creato un altro dossier nel quale sono state inserite tutte le interpellanze presentate alla Camera dei Deputati aventi come argomento i diritti umani, individuali e collettivi e la loro difesa di fronte ai soprusi dell'autorità pubblica.

A differenza di quanto è stato fatto per le sentenze della magistratura, nel caso delle interpellanze parlamentari sono stati presi in esame solo gli anni più caldi della crisi, dal 1896 al 1900. Sono state individuate 109 interpellanze presentate alla Camera da deputati radicali, socialisti e repubblicani, ossia le forze politiche che diedero vita in quegli anni terribili ad un ideale partito dei diritti umani. Le interpellanze sono state classificate in base agli argomenti di cui trattavano. Questi sono i risultati:

Tab. 4. Interpellanze parlamentari

Carcere 17 Divieto di riunione 31

Arresti arbitrari 11 Stampa 20

Abuso di potere 16 Divieto di associazione 6

Chiusura pubblici esercizi 3 Scioglimento consigli comunali 3

Repressione, espulsione 2 TOTALE 109

78 G. AMATO, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milu-no, Giuffrè, 1967.

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Queste interpellanze sono l'opposto speculare dei rapporti di polizia: esse rappresentano la voce dell'opposizione che attraverso i suoi deputati faceva in parlamento una sorta di cronaca in diretta, e spesso in tempo quasi reale, di tutti gli episodi di violazione e limitazione delle libertà personali e collettive. Esse descrivono il formarsi e riformarsi continuo di una rete repressiva alimentata dai vari provvedimenti eccezionali adottati in quegli anni, che calava in modo cieco e indiscriminato sui cittadini, anche su coloro che non partecipavano ad alcuna attività politica. Era una rete repressiva totale che arrivava a controllare e a vietare, oltre alle riunioni politiche, ogni forma di sociabilità e ogni espressione della vita collettiva nazionale. Non sfuggivano al controllo poliziesco né la musica suonata dalle bande (la polizia vietò ad esempio a Padova di suonare a teatro l'inno di Garibaldi dopo che l'orchestra aveva suonato l'inno reale79), né le commemorazioni di politici defunti, quali Cavallotti80, o di eventi e personaggi della storia nazionale. Clamorosi sono al riguardo i divieti che impedirono in alcune città le commemorazioni per il cinquantenario del 48-4981 o quelli in onore di Giordano Bruno che si tennero nel corso del 1900. La ragione addotta dal governo a proposito di queste ultime fu che non si riteneva opportuno dare spazio a manifestazioni anticlericali quando era in corso l'anno santo82.

Queste interpellanze descrivono l'Italia di fine secolo come di un paese buio, governato da una classe politica dotata di una vocazione au-toritaria forte, pervasiva e strutturalmente lesiva dei diritti individuali. Si tratta, com'è ovvio, di un'immagine che prese corpo all'interno di un contesto di opposizione: questa rappresentazione è al tempo stesso testi-monianza della cultura delle forze politiche che la crearono, del loro modo di interpretare la realtà e al tempo stesso della forma del loro impegno.

Sono le 17 interpellanze che hanno come oggetto le carceri italiane, le condizioni dei detenuti, i prigionieri innocenti e 27 quelle relative agli arresti arbitrari e all'abuso di potere, a comporre un manifesto dei diritti individuali violati. Le parole appassionate dei deputati dell'Estrema par-lano di un universo di soprusi perpetrati dalle forze dell'ordine nei con-fronti di cittadini inermi: carabinieri e poliziotti avvezzi a sparare alla vi-

79 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, sess. 1898-1899, leg. XX, Discussioni, voi. Ili, 20 marzo 1899, interp. Veronese e Alessio.

80 Ivi, 14 marzo 1899, interp. Valeri; 17 marzo 1899, interp. Costa. 81 Ivi, 23 marzo 1899, interp. Del Balzo

82 Ivi, sess. 1899-1900, leg. XX, Discussioni, voi. II, 23 febbraio 1900, interp. Sini- baldi, 2 febbraio 1900, interp. Socci e risposta del sottosegretario agli Interni Bettolini

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sta di sospetti, ferendo o più spesso uccidendo innocenti per errore, come il caso del pastore Celestino de Murtas, ucciso dai carabinieri perché scambiato per il pluriomicida Ferdinando Deplanu83; abusi da parte delle autorità pubbliche e delle forze di polizia, arresti arbitrari e senza mandati di cattura84; lunghe carcerazioni preventive; maltrattamenti sui detenuti che arrivano fino all'omicidio (come il caso Frezzi, di cui ab-biamo già parlato)85; condizioni carcerarie spaventose86; intimidazioni e violenze sui testimoni87.

Paladini della difesa dei diritti umani, individuali e collettivi, fu-rono un gruppo di parlamentari dell'estrema Sinistra. Tra questi spicca la figura di Matteo Imbriani Poerio. Noto per il suo iper-attivismo par-lamentare, il deputato radicale napoletano può essere considerato as-sieme a Cavallotti il difensore dei diritti individuali per eccellenza. Si deve a Imbriani la maggior parte delle interpellanze sulle carceri (6 su 13) e sugli abusi di potere da parte della forza pubblica (10 su 17)88.

La sua morte, avvenuta il 20 settembre 1897 mentre pronunciava il discorso inaugurale per un monumento a Giuseppe Garibaldi, e quella di Cavallotti sopraggiunta a pochi mesi di distanza (il 6 marzo 1898), significarono non solo la fine del disegno politico che mirava alla co-struzione di un'opposizione autenticamente radicale, ma anche una re-

83 Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 12 luglio 1897, interp. Imbriani Poerio. 84 Ivi, leg. XIX, sess. 1896, Discussioni, 2 dicembre 1896, interp. Zabeo, Caldesi,

Garavetti, Cavallotti, Engel; 3 dicembre 1896, interp. Costa, Agnini; leg. XX, sess. 1897, 18 giugno 1897, interp. Socci, Bissolati, Ferri;12 luglio 1897, interp. Imbriani, 14 luglio 1897, interp. Bissolati, Sichel, Agnini, Morgari; XX leg, sess. 1897-98, Discus sioni, voi. IV, V, VI, VII, 3 marzo 1898, interp. Rondani, Bissolati; 25 maggio 1898, in terp. Campi; 20 dicembre 1898, interp. Bosdari, Valeri, Bovio, Socci, Budassi; leg. XX, sess. 1898-1899, Discussioni, voi. IV, 1 maggio 1899, interp. Costa, Agnini; 10 giugno 1899, interp. Costa.

85 Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 17 maggio 1897, interp. Venturi; interp. Cavallotti, Imbriani, Costa, Berenini, De Marinis, Sichel, Nofri; 2 giugno 1897, interp. Imbriani, Pinna, Gaetani, De Marinis, Pala; 9 giugno 1897, interp. Cavallotti; 23 giugno 1897, interp. Imbriani; sess. 1898-1899, Discussioni, voi. Ili, 23 marzo 1899, interp. Bissolati, Costa, Ferri.

86 Ivi, leg. XX, sess. 1898-1899, Discussioni, voi. VII, 6 dicembre 1898, interp. Bianchi. Sul sistema carcerario italiano dell'epoca cfr. G. NEPPI MODONA, Carcere e società civile dall'Unità a Giolitti, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, voi. VI, Tori no, Giappichelli, 1974, pp. 515-64.

87 Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 14 giugno 1897, interp. Imbriani. 88Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 8, 14, 16,17,19, 23 giugno 1897, 14 luglio

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pentina caduta del dibattito sulle condizioni delle carceri italiane e sugli abusi delle forze dell'ordine.

Sui diritti collettivi furono particolarmente attivi i socialisti, in parti-colare Costa e Bissolati, seguiti da Morgari, Cottafavi, Agnini, ai quali si deve l'impegno costante di denuncia delle violazioni continue del diritto di associazione e di riunione e contro gli arresti e i sequestri per i reati commessi attraverso la stampa. È questo il gruppetto dei deputati che rap-presentò in parlamento il partito dei diritti umani. Di fronte al loro strenuo attivismo spiccano le posizioni più defilate degli altri leaders dell'Estre-ma. Molto appartato risulta Turati, il quale firmò la maggior parte delle interpellanze ma non prese quasi mai la parola; defilatissimo fu Enrico Ferri, la cui professione di avvocato, oltre che alla fede politica avrebbe dovuto spingerlo ad un'attenzione ancora maggiore nei riguardi di queste tematiche. E tuttavia su temi cruciali, quali ad esempio le carceri e gli ar-resti illegali, rispetto ai quali avrebbe potuto portare in parlamento la sua competenza professionale unita alla sua esperienza di avvocato militante Ferri preferì tacere, riservandosi di intervenire come politico nella batta-glia sull'ostruzionismo e contro i provvedimenti di Pelloux89.

La fonte che abbiamo esaminato ci mostra che anche in Italia la cul-tura politica laica otto-novecentesca si fece portatrice durante la crisi di fine secolo di una cultura dei diritti umani nella quale venivano rappresentati e trasformati in altrettante occasioni di battaglia politica ogni segnale di sopruso e di sopraffazione proveniente dal profondo della società. Ma a differenza di quanto accadde in Francia, i deputati dell'estrema Sinistra combatterono una battaglia in favore di diritti che erano ancora in buona parte da conquistare, non per difendere un patrimonio nazionale sottoposto all'attacco di forze conservatrici. In Italia i "diritti di fine secolo" non affondavano le loro radici nel passato e non poggiavano, come accadde invece in Francia, su alcuna mitologia politica; al contrario si pre-sentavano come un elemento di rottura culturale molto forte, che tuttavia non riuscì più che tanto ad attecchire, né ad essere riconosciuto come tale. L'assenza di un mito fondatore quale la "gloriosa rivoluzione" fu uno degli elementi che rese difficile, se non impossibile, far uscire dalle aule parlamentari il partito virtuale dei diritti umani e trasformarlo in un'ag-gregazione politica concreta. Negli anni più drammatici della crisi non sorse in Italia nulla di simile alla Ligue des Droits dell'Homme. L'unica iniziativa paragonabile ad essa fu l'associazione pacifista sorta nel 1886

89 E. FERRI, Battaglie parlamentari. Una campagna ostruzionista, Milano, So-cietà Editrice Lombarda, 1899.

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ad opera di Teodoro Moneta, radicale, l'Unione lombarda per la pace e l'arbitrato internazionale, divenuta poi Società per la pace e la giustizia internazionale. Grazie alla sua attività di pacifista Moneta avrebbe vinto nel 1907 il premio Nobel per la pace90. Ma dalla società civile non era giunta alcuna spinta ad organizzarsi sulla difesa dei diritti umani. Gli unici ad averli sostenuti erano stati i politici, ma non ci sono segni che inducano a pensare all'esistenza di un'azione collettiva capillare paragonabile a quella della Ligue des Droits de VHomme all'interno del paese.

Un elemento di ulteriore differenziazione tra i due paesi è rappre-sentato dal ruolo svolto dagli intellettuali. In Francia i savants agirono da cinghia di trasmissione tra lo stato e la società, il centro e la periferia. Costoro non si identificavano necessariamente in uno schieramento politico, ma esprimevano quella parte della società in grado di esercitare una funzione critica. Per queste ragioni la Francia uscì dall' affaire Dreyfus come un paese dominato dall' élite degli intellettuali.91 La nuova élite fu costituita da giornalisti, scrittori, accademici, ossia dalle pro-fessioni che avevano difeso la nazione in nome della repubblica e dei diritti umani durante la crisi ed erano state in grado di rappresentare e diffondere la loro lotta politica, contribuendo a trasformare Y affaire Dreyfus in un fatto mediatico. La repubblica degli intellettuali, sorta in quegli anni, contribuì a erodere l'egemonia della repubblica degli avvo-cati, che aveva dominato la Francia fin dai tempi della rivoluzione. Gli avvocati francesi, infatti, parte dei quali erano anche uomini politici, non seppero utilizzare i nuovi mezzi di lotta e di mobilitazione e scelsero la strada del conservatorismo o dell'astensionismo, piuttosto che quella dell'impegno e della mobilitazione92.

In Italia la cultura dei diritti umani era limitata ad una sola parte politica, ma era forte e soprattutto consapevole. Avanziamo l'ipotesi che, tra le molte ragioni per le quali non riuscì a svilupparsi, vi fu l'assenza di mediatori convincenti, in grado di diffonderla in primo luogo tra i ceti medi e farla poi calare in basso.

90 Su Teodoro Moneta cfr. L. BARILE, // Secolo, 1865-1923. Storia di due gene razioni della democrazìa lombarda, Milano, Guanda, 1980, pp. 252-53; A. GALANTE GARRONE, / radicali italiani, cit., pp. 321-22; 1 periodici di Milano. Bibliografia e storia, t. I (1860-1904), Milano, Feltrinelli, pp. 10-12.

91 C. CHARLE, Les élites de la République, 1880-1900, Paris, Fayard, 1987; 1D„ Naissance des "intellectuels", 1880-1900, Paris, ed. De Minuit, 1990; Paris, Fayard, 1987; ID., La République des universitaires, 1870-1940, Paris, Seuil, 1994.

92 ID., Le déclin de la République des avocats, in La France de l'affaire Dreyfus, cit, p 82.

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8. Conclusioni

La crisi di fine secolo si presentò in Italia e in Francia come un in-treccio complesso tra corpi, istituzioni e culture che si scontrarono, si scomposero e ricomposero dando vita nel primo Novecento a una nuova stagione riformista. Sono stati presi in esame due elementi che gio-carono un ruolo decisivo nel corso della crisi e nella sua risoluzione: la magistratura e la cultura delle libertà politiche e civili. La magistratura ebbe una funzione ausiliaria, quando non di primo piano, nell'imprimere una nuova direzione alla politica nazionale.

In Francia la magistratura fu complessivamente in grado di difen-dere la propria autonomia di fronte al potere politico negli anni della crisi dello stato di fine secolo. Quest'ultimo sferrò nei suoi confronti degli attacchi diretti di una violenza estrema, quale fu la hi de dessai-sisement, del febbraio 1899, grazie alla quale il governo cancellava l'istruttoria decisa dalla Chambre cuminelle (la sezione penale) della corte di Cassazione al fine di dare avvio alla revisione del processo Dreyfus, attribuendo tutta l'istruttoria alle tre sezioni unite della Cassa-zione, delle quali le due civili rappresentavano il fronte conservatore. Ma, a differenza di quanto previsto, le tre sezioni unite della Cassazione francese difesero l'autonomia del loro corpo e confermarono la validità dell'istruttoria condotta dalla sezione penale.

In Francia l'attacco del potere politico nei confronti di quello giudi-ziario in un periodo di crisi dello stato fu diretto e istituzionalizzato at-traverso l'emanazione di una legge votata dal parlamento. Dal punto di vista istituzionale, invece, l'autonomia della magistratura italiana non venne soggetta a tentativi di controllo istituzionale paragonabili a quelli verificatisi in Francia. In Italia si trattò di un controllo di natura squisita-mente politica, esercitato spesso in modo sotterraneo, i cui esiti furono nella maggior parte dei casi positivi.

Esisteva tuttavia, ed è questa l'ipotesi di lavoro che abbiamo sug-gerito, una cultura dell'autonomia che molti magistrati italiani difesero anche in quegli anni tremendi e che meriterebbe di essere indagata a fondo. Era una cultura diffusa alla base, di cui furono in buona parte in-terpreti i giudici dei tribunali, i magistrati di periferia che la storiografia ha finora trascurato privilegiando lo studio dei vertici. I quali, a loro volta, furono attraversati da tensioni e inquietudini profonde, alcune delle quali furono incanalate verso una "soluzione giudiziaria" della crisi. Da questa ricerca è emersa l'ombra di una frazione della magistratura, gelosa della propria autonomia, forse anche critica, che partecipò in

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qualche modo a quella cultura dei diritti umani che rappresentò l'aspetto creativo della crisi.

La cultura dei diritti umani costituì anche in Italia un momento qua-lificante della crisi ma, diversamente da quanto avvenne in Francia, non venne incanalata in una forma associativa autonoma e stabile, non riuscì a diffondersi in modo capillare, né ad affermarsi in età giolittiana come terreno di convergenza di varie componenti politiche e sociali. Anche la frazione critica della magistratura, che abbiamo visto apparire in controluce nel decennio della crisi, faticò a trovare visibilità negli anni del riformismo. In quel periodo infatti, nonostante i mutamenti verificatisi sul piano della politica, le questioni scottanti che riguardavano il ricono-scimento dei diritti fondamentali, quali il diritto di associazione* non ri-cevettero alcuna risposta e il potere giudiziario fu chiamato ancora una volta a risolvere i problemi che il potere politico continuava a eludere. Maria Malatesta