il segreto di montaldo

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Un piccolo paese immerso nel verde. Un incubo ricorrente. Un vecchio libro che contiene una filastrocca in latino. Un luogo da non dissacrare. Un quadro inquietante. Due misteriose sparizioni. Un nome impronunciabile. Dopo una visita al cimitero di Montaldo, Paolo Ranalli e Giovanni Martini scompaiono misteriosamente. Il loro amico Matteo Parisi diventerà testimone di una verità terribile e spaventosa, tenuta nascosta per tanto, troppo tempo. Tutti in paese sanno, ma nessuno può parlare. Improvvisamente il segreto di Montaldo torna a galla, ma per svelarlo c’è un prezzo da pagare. Un prezzo altissimo.

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DESCRIZIONE:

Un piccolo paese immerso nel verde. Un incubo ricorrente. Un vecchio libro che contiene una filastrocca in latino. Un luogo da non dissacrare. Un quadro inquietante. Due misteriose sparizioni. Un nome impronunciabile. Dopo una visita al cimitero di Montaldo, Paolo Ranalli e Giovanni Martini scompaiono misteriosamente. Il loro amico Matteo Parisi diventerà testimone di una verità terribile e spaventosa, tenuta nascosta per tanto, troppo tempo. Tutti in paese sanno, ma nessuno può parlare. Improvvisamente il segreto di Montaldo torna a galla, ma per svelarlo c’è un prezzo da pagare. Un prezzo altissimo.

L'AUTORE:

Michele Pilla è nato a Napoli il 19 dicembre 1982. Giornalista pubblicista, dopo la laurea in Comunicazione si è dedicato al suo hobby: la scrittura. È devoto a Stephen King, Robert Crais e Arthur Conan Doyle, e alle serie “Twin Peaks” e “X-Files”. “Il segreto di Montaldo” è il suo primo romanzo. Il viaggio nel buio è appena iniziato...

Titolo: Il segreto di Montaldo Autore: Michele Pilla

Editore: 0111edizioni Collana: Opera PrimaPagine: 240 Prezzo: 15,00 euro

12,75 euro su www.ilclubdeilettori.com

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

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Michele Pilla

Il segreto di Montaldo

www.0111edizioni.com

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IL SEGRETO DI MONTALDO 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Michele Pilla

ISBN 978-88-6307-243-3 In copertina: Foto di Massimo Di Pasquale

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da

Digital Print Segrate - Milano

Ad Antonietta e Antonio (che di solito chiamo mamma e papà),

a mia sorella (che di solito chiamo Esther) e al mitico nonno Peppe (che di solito chiamo

Nonno Peppe) Senza il loro affetto e la loro fiducia, difficilmente

sarei riuscito a portare avanti un lavoro così faticoso

Prologo «Potes conari relinquere patriam, sed patria te numquam relinquet.» Che cosa vuol dire? Ripeti, ripeti! Niente, solo silenzio. E… non c’è più nessuno! Sono solo! Non è possibile! Non è possibile! Mi giro e comincio a urlare: «Dove siete? Mio Dio, dove siete?» Non possono essere scomparsi. Svaniti nel nulla. No, queste cose non succedono, no. Non in questo mondo, non nella vita reale. Ma non ci sono, Dio santissimo! Non ci sono! «Dove siete? Uscite fuori!» Sento le mie urla, le mie urla che riecheggiano nel buio. «Datemi un segno, CI SIETE?» Il segno arriva, ma non è quello che mi sarei aspettato. Una voce spettrale. La sento con le mie orecchie. Mette i brividi. È una voce metallica. Penetrante. «Devi entrare, Matteo! Per capire, devi entrare… È l’unico modo che hai…» DOVE?, grido, ma l’urlo mi si spegne in gola. Dove devo entrare? Capire che cosa? Voglio urlare, ma non ci riesco. Sono bloccato. È la paura che mi blocca. È tutto buio, intorno a me. Sta succedendo ancora. Lo so, è già successo. Sono qui ancora una volta. E sono rimasto solo… Mi svegliai di soprassalto. L’incubo svanì. La prima cosa che vidi fu il buio. Il cuore prese a martellarmi nel petto rimbombandomi nelle tempie. Il respiro mi si fece affannoso. Ero disteso sotto le coperte, ma mi drizzai velocemente a sedere. Chiusi per un istante gli occhi, ricacciando giù la paura che mi foderava bocca e palato rendendomi la gola amara. Per fortuna, la realtà stava lentamente sostituendo il mondo onirico. Mi alzai dal letto, ben attento a non svegliare Giovanni, che dormiva invece beatamente, e quando i miei piedi toccarono il pavimento freddo e mi procurarono un brivido lungo le gambe, l’incubo svanì completamente e la realtà tornò decisamente ad assumere i suoi contorni marcati. Abbandonai la stanza e mi portai in soggiorno. Accesi la luce. Il frigorifero, la dispensa, il lavandino, il tavolo: ogni cosa era al suo posto, come al solito. Versai dell’acqua fredda in un bicchiere che vuotai senza pensare, dopodichè mi sedetti sulla poltrona reclinabile vicino al camino. Guardai l’orologio a muro appeso appena

sopra lo stipite della porta: erano soltanto le tre e un quarto. Il sonno mi era completamente passato. Adesso avevo una sola priorità: sforzarmi di ricordare cosa avessi sognato, cosa mi avesse costretto a risvegliarmi in maniera tanto brusca. Ci provai, ci provai con tutte le mie forze, ma non ci riuscii. Il mio latino era un po’ arrugginito, ma quella frase aveva preso a frullarmi nel cervello in un vortice impazzito. Giovanni dormiva ancora, com’era normale che fosse a quell’ora della notte. Io, invece, non avrei più preso sonno. Almeno, fino a quando non avessi dato un senso a quella frase. L’unica cosa che ero riuscito a portare con me fuori dall’incubo. Non ricordavo nient’altro. Fuori, un vento sinistro sibilava in via Milazzo rompendo il silenzio della notte e amplificando lo stato d’ansia che iniziava a opprimermi. Sicuro che non avrei più preso sonno, quella notte, mi decisi ad accendere il computer per tradurre quella che mi sembrava una sentenza. In un certo senso, lo era. Su internet, trovai un sito specializzato nelle traduzioni in lingua arcaica. Tradussi a una a una le parole della frase e venne fuori qualcosa del genere. Puoi provare a lasciare il paese, ma il paese non ti lascerà mai. Trascrissi la frase sul block-notes, la rilessi ma non capii. Qualche ora dopo, Giovanni mi svegliò: mi ero appisolato su quella sedia vicino al camino. E sul mio block notes non c’era scritto più nulla.

Prima parte

Ritorno a Montaldo

«Dove non c’è immaginazione, non c’è orrore.»

Sir Arthur Conan Doyle

«Gente persa in una piccola città eterna

piccola città testarda piccola città con gli occhi chiusi a metà

piccola città che cerchi in giro e spesso ciò che cerchi è qua

c’è chi la ama, chi la odia e lei rimane piccola Gente immersa in una piccola città già vista

piccola città che insiste piccola città con gli occhi aperti a metà

piccola città che, sana o no, un’anima però ce l’ha se ripassate fra cent'anni ci trovate sempre qua

Gente sparsa in una piccola città eterna

piccola città testarda piccola città che chi si muove di qua?»

Ligabue - «Piccola città eterna»

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Capitolo 1 Tre vecchi ragazzini

1 «Allora, non ti va proprio di raccontarmelo?» Evidentemente, ancora non aveva capito quello che gli avevo detto. D’accordo che erano ancora le otto del mattino e che la sera precedente avevamo preso sonno alle due, dopo essercela spassata in un pub di Onarco, il paese vicino (dove avevamo quasi rischiato una sbronza). Eppure, mi era sembrato di aver parlato in modo chiaro. «Non ricordo nulla di quanto ho sognato», ripetei allora più lentamente. Forse Giovanni non era più abituato a fare tardi la sera. Eccoli qua, Matteo Parisi e Giovanni Martini, i due grandi amici di un tempo, che stavano perdendo irrimediabilmente la loro giovinezza. Avevamo superato gli enti e c’eravamo addentrati negli enta: Giò era arrivato a trentuno, un anno in più rispetto a me, ma non volevo credere che stessimo invecchiando. Eppure, in alcune cose, era inevitabilmente così. Scacciai all’istante quel pensiero. Che fesseria! Vecchi a trent’anni! Sono passati dodici anni da quando ho lasciato Montaldo e, adesso, so di dover dire grazie a mia madre. Se oggi faccio il lavoro che mi piace, senza privarmi di nulla, lo devo essenzialmente a lei. Forse quando ero più piccolo, e aggiungo anche più stupido, un po’ di rancore nei suoi confronti l’ho provato. Mi sembrava, il suo, un modo per allontanarmi dai miei amici e dai luoghi dove avevo trascorso l’infanzia. Forse chi non è mai stato costretto a mollare tutto e a trasferirsi in un altro posto non può capire di cosa sto parlando. Oltretutto, lasciare un paesino come Montaldo, settecento anime, settecento metri sul livello del mare, tra i più isolati paesi della già fin troppo calma Irpinia, per trasferirsi in una metropoli come Napoli… Per fortuna, però, la mia famiglia mi ha seguito, per cui il distacco da Montaldo non mi è pesato eccessivamente. E poi, soprattutto, lasciare il paesino della mia infanzia

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mi ha fruttato un posto da capocronista in un giornale nazionale, Dimensione Città. Giovanni lo ha capito qualche anno più tardi che doveva andar via da Montaldo e, una volta maturata la considerazione che la sua personalissima età dei sogni fosse finita, si era deciso ad abbandonare l’amata famiglia e il paese in cui era cresciuto cullando sogni e alimentando speranze troppo grandi per la sua mente da adolescente. Certo, ci aveva messo un bel po’ prima di maturare quella scelta, ma che volete farci, ognuno ha i suoi tempi. E pazienza se non diventerà mai un calciatore professionista come desiderava ardentemente da bambino: dopo qualche anno di servizio ad Avellino centro come autista di bus, infatti, è stato trasferito a Ludigo, un ridente paese distante cinquanta di chilometri da Montaldo. Vive proprio lì, oggi, in un bell’appartamento arredato dalla sua compagna, Daniela, una procace e simpatica ragazzona conosciuta ad Avellino. Sono andati a vivere insieme un anno dopo il primo bacio. È scoccata la scintilla anche per lui, nonostante da bambini ci dichiarassimo totalmente invulnerabili alle frecce di Cupido. Per me il momento ancora non è arrivato, anche se qualche amica di tanto in tanto la frequento. Niente di più. Preso come sono dal mio nuovo e importante incarico, è come se non avessi la testa per nient’altro. «Niente di grave, Giò. Solo un incubo, nient’altro. Mi sono risvegliato di botto e poi me ne sono venuto in cucina a bere. Mi sono seduto qua sopra e stop. Ho ripreso sonno.» «Mah», fece lui mentre versava il caffé in due tazze. Sul tavolo c’erano i due cornetti che aveva preso al bar qualche minuto prima. A stomaco pieno si ragiona meglio, mi aveva detto prima di uscire, e così era andato al bar di Guido, poco distante da casa mia, e poi all’edicola di Giorgio a prendere il giornale. Mi alzai dalla poltrona reclinabile e mi avvicinai ai cornetti. Uno era al cioccolato, l’altro, il mio, crema e amarena. Diedi un morso sostanzioso, dopodichè bevvi un sorso di caffé. «Che c’è?» gli chiesi accigliato. «Niente», fece lui. «Te l’avevo detto, ieri, di non esagerare coi condimenti.» Mi venne da ridere. Già, e chi ci aveva pensato? Erano stati forse proprio i funghi la causa di quell’incubo. «Vacci piano, bellezza!», aveva detto Giovanni guardandomi con aria di disgusto. «Non hai più il fisico, per reggere tutta quella roba.»

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In effetti, il panino che era stato la mia cena della sera precedente, grondava di salse e qualche funghetto si era anche smarrito. Quelli che erano caduti nel piatto non erano comunque riusciti a sfuggire alla mia furia. Dopo aver consumato il panino, li avevo raccolti con la forchetta e avevo dato loro l’estremo saluto. Giovanni, al contrario di me, c’era andato più cauto coi condimenti. Da quand’era andato a vivere con Daniela, mangiava con maggior regolarità e anche il suo fisico lo testimoniava. Io, invece, a queste cose non ci badavo proprio. Però, con l’attività fisica che svolgevo regolarmente, non avevo problemi del genere. Già ai tempi del liceo ero costantemente bersagliato dalle mie amiche, puntualmente a dieta, mentre io mangiavo a tutta forza. Qualcuna addirittura mi maledisse: «Ma come diavolo fai a essere così magro nonostante mangi per cinque?» Costituzione, mie care. Questione di costituzione. Ero sempre stato magro e, nonostante ogni tanto un filo di pancetta venisse a farmi visita, puntualmente andava via con un po’ di esercizio. E poi ero un tipo attivo: ogni volta che potevo, preferivo camminare a piedi o in bici. Intanto, però, forse erano davvero stati i funghi il mio problema. «Sai che forse hai ragione?» Giovanni fece sì con la testa. «Ti sei mangiato i cadaveri, ieri. Sfido io che ho ragione!» Solito, vecchio Giovanni. Sapeva sempre come tirarti su. D’altra parte, a cosa servono gli amici? A confortarti nel momento del bisogno… «Scherzi a parte, non parliamone più», conclusi terminando il cornetto. Ottimo. Dovevo ricordarmi di dire a Guido di non cambiare mai fornitore. Quei cornetti mi facevano impazzire. «È stato solo uno stupidissimo incubo. Pensiamo piuttosto a cosa mangiare oggi, che è molto più importante!» «Perché, dopo tutto quello che hai buttato giù ieri, hai ancora fame?» Rieccolo. Ancora a prendere in giro. «Mia cara fogna, non si può dire che lei sia da meno. Se non vado errato, fino a qualche anno fa il trita-rifiuti della situazione mi pare che fosse proprio lei.» Stavolta fu lui a ridere. Touché. Colpito e affondato. «E ora non è che ci prendiamo il lusso di offendere gli altri!» Mi guardò con l’aria da okay, okay, hai vinto. Eppure, si limitò a sorridere. Prese la macchinetta del caffé dal fornelletto e la ripose nel lavandino. Posò anche le tazze e si apprestò a sciacquarle. Lo lasciai alle prese con le stoviglie e, nel frattempo, andai in bagno a farmi una doccia.

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2 Nonostante avessi trascorso parte della notte in bianco, quella mattina del quattro marzo mi sentivo in piena forma. Dormire a Montaldo ti faceva ricaricare le batterie. Avrei potuto dormire anche soltanto due ore: ogni minuto di sonno lì valeva un quarto d’ora di Napoli. La doccia, poi, mi aveva completamente rigenerato. Ne avevo anche approfittato per radermi. Giovanni, nel frattempo, aveva sistemato il letto e si era vestito. Poi, dopo una rapida occhiata nel frigorifero e nella dispensa, aveva stilato anche una piccola lista della spesa. E, nonostante si trattasse di scrivere solo un piccolo elenco di ciò che avremmo dovuto necessariamente acquistare al market, era stato di una precisione maniacale: un giorno mi sarei addirittura aspettato di vederlo scrivere con penna nera e penna rossa insieme. La giornata era limpida e fresca: un bel cielo terso era rischiarato da un sole che non riusciva però a riscaldare l’aria. Per fortuna, non c’erano nuvole a dar fastidio a quel bel quadretto. Facemmo la spesa al market di via Salgari, la parallela della strada di casa. Più che fare compere, diciamo che facemmo razzia: io e Giovanni eravamo delle idrovore e se a pranzo non si fosse cucinato almeno mezzo chilo di pasta in due, lo stomaco avrebbe continuato a brontolare fino a sera inoltrata. Quando eravamo piccoli, il market di via Salgari era il nostro fornitore ufficiale di chewing-gum e vi sto parlando dei tempi in cui i chewing-gum costavano cinquanta lire, mantenevano il sapore di fragola anche per un’ora e ti facevano fare dei palloni grossi quanto mongolfiere. Solitamente, ne compravamo una decina a testa e poi andavamo al vecchio parco giochi a giocare con le figurine. I classici giochi che abbiamo fatto un po’ tutti, da bambini, per sottrarre ai nostri amici i rettangolini adesivi con gli eroi del momento: lo schiaffetto o il mignolino, per intenderci. Il vecchio parco giochi era proprio lì, a due passi dal market, laddove via Salgari sbucava in via Ariani. Era un bello spazio aperto con tre scivoli, due altalene, due dondoli e un’asta con gli anelli. Quelli erano senza dubbio i nostri preferiti. Erano troppo alti da terra e quindi per riuscire ad afferrarli, dovevamo salire sulle spalle di qualcuno, ma una volta aggrappatici era difficile staccarci. Ricordo le mille sfide e i

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campionati che organizzavamo, con gli altri del gruppo. Quante cadute, ma anche quante risate. E poi i mille inseguimenti, i tanti guardie e ladri, le missioni poliziesche. Queste ultime erano una cosa prettamente mia e di Giò, soltanto nostra. Una volta comprammo delle pistole ad aria compressa e ci costruimmo dei veri e propri tesserini dell’Fbi, come quelli dei film americani. Qualche anno dopo, sarebbe arrivata quella serie televisiva americana coi poliziotti in bicicletta. Ma io e Giò eravamo stati i primi. A cavallo delle nostre due fedeli amiche, gironzolavamo per il paese con le pistole ben allacciate al cinturone e il tesserino in tasca, pronti a mostrarlo in caso di perquisizioni, e tenevamo gli occhi bene aperti. Le nostre tante missioni finivano spesso e volentieri al parco giochi, dove potevamo creare mille situazioni. Spesso i nostri erano nemici immaginari, ma con tutto quello che c’era là dentro era facile inventare storie plausibili. Una volta restammo un’ora nascosti dietro lo scivolo perché un bandito non voleva lasciar andare gli ostaggi. Adesso che il market non vendeva più quelle strabilianti chewing-gum, neanche il vecchio parco giochi c’era più. Al suo posto, qualche anno fa, è venuto su il Parco dei Caduti, una piccola struttura composta da tre aiuole ben curate, qualche panchina, la statua di un soldato, un cannone e una lapide di marmo su cui sono stati segnati i nomi di tutti i militari di Montaldo morti in guerra in occasione del primo e secondo conflitto mondiale. Addio parco, addio inseguimenti, addio guardie e ladri, missioni poliziesche, sfide con le figurine, palloncini di chewing-gum a forma di mongolfiere. Addio a uno dei nostri teatri preferiti dove ci esibivamo noi piccoli attori nello spettacolo più bello che avessimo mai potuto interpretare: la nostra infanzia. Il Parco dei Caduti si trovava proprio di fronte al forno di Pietro Rinaldi, un uomo tarchiato, di mezza età, con un’incipiente calvizie. Gestiva il forno da oltre quindici anni, era una vera forza della natura e, soprattutto, aveva spirito da vendere. Nonostante si spaccasse la schiena ogni santo giorno, aveva sempre la battuta pronta. Da ragazzini eravamo soliti tenergli compagnia il sabato, quando il giorno dopo non avevamo la scuola. D’estate, poi, i suoi cornetti erano leggendari, così come leggendarie erano le serate trascorse sulla panchina di fronte al forno, con Pasquale De Stefano a suonare la chitarra, Paolo Ranalli al bonghetto e noi tutti a strepitare improbabili versi inventati al momento. Il pane di Pietro era qualcosa di strabiliante. Lui, però, a quell’ora non c’era. Era a casa a dormire, sostituito dalla moglie: con lei eravamo

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poco in confidenza, così ci limitammo a chiederle una baguette non troppo croccante. Ci sorrise appena, senza esagerare, magari temendo che qualche ruga di troppo le fosse apparsa sul viso, e ci servì. Forse sorridere un po’ di più faceva male… Uscimmo dal forno che Giovanni aveva già la mano nel sacchetto di carta marrone, intento a strappare un pezzo di pane. Lo ammonii di non farlo, poi ne chiesi un pezzetto anch’io. Quel pane aveva un sapore fantastico. Ne mangiammo solo un po’, per non restare senza a pranzo, quindi ci fermammo a bere alla fontana centrale, in piazza Verdi, la piazza principale di Montaldo. In quel momento, il tempo pareva essersi fermato. Erano le undici e dieci del quattro marzo, ma potevano essere le undici e dieci di qualsiasi altro giorno. Ogni volta che uscivamo da scuola, da piccoli, ad Aldura, e tornavamo a Montaldo, il forno era la nostra tappa fissa. Mangiavamo qualche pezzo di pane in piazza e poi ci fermavamo a bere alla fontana. Come allora, anche quel giorno piazza Verdi era quasi del tutto vuota. Di tanto in tanto, qualche uccellino faceva capolino dagli alberi e ci annunciava la sua presenza. Ci sedemmo sulle vasche di pietra del lavatoio. A quell’ora, non c’era nessuno a lavare i panni. Ancora una volta nel giro di due giorni, mi ero trovato a ripensare al mio passato, al nostro passato. Montaldo era una sorta di macchina del tempo, un involucro che ti conservava integralmente e, sebbene il tuo corpo avvertisse i segni del cambiamento, il tuo spirito restava quello della tua adolescenza. In soldoni: non crescevi mai. Potevo rivedere alla perfezione Paolo, Andrea, Giorgio e via via tutti gli altri del nostro numeroso gruppo di amici che arrivavano alla spicciolata, dopo che la campana aveva battuto il terzo rintocco. Ci ritrovavamo sempre lì, prima di iniziare a studiare o giocare a pallone. Era quello il nostro punto d’incontro dopo pranzo, quando era troppo presto per fare qualsiasi altra cosa. Era lì, nella calma piatta di piazza Verdi, che noi tutti ragazzi di Montaldo ci riunivamo. Cascasse il mondo. Vederci in piazza era l’espressione più usata tra noi. Ogni appuntamento veniva fissato proprio lì, come se fosse una sorta di ufficio a cielo aperto. E forse lo era davvero.

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3 L’incubo, però, non era svanito. Non del tutto, almeno. Giovanni mi stava raccontando non so cosa a proposito di Daniela quando qualcosa mi tornò alla mente. Fu un lieve flash, nulla più, ma poi riaffiorarono le parole in latino: Potes conari relinquere patriam, sed patria te numquam relinquet. C’era qualcosa di sbagliato, in tutto quello, e la cosa iniziava a infastidirmi. Feci appena in tempo a scacciare questo pensiero, che colsi al volo la domanda di Giò: «A te come va in questo periodo?» «Tutto sotto controllo», risposi sorridendo, ma era un sorriso distante. «Sto lavorando come un matto, per questo nuovo incarico. Sono contento e soddisfatto, ma può andare ancora meglio. Tu piuttosto, come va? Con Daniela ancora non avete deciso? » Giovanni scosse il capo, sorridendo ancora di più. «Sono ancora molto giovane per diventare padre», si limitò a dire. Poi scoppiò in una fragorosa risata, che spezzò per un momento quel silenzio interrotto di tanto in tanto solo dal canto degli uccelli. «Scherzi a parte», proseguì, «ci stiamo provando». «Giovane?», replicai ridendo a mia volta. «Ma se cadi a pezzi!» Mi mollò un finto pugno sulla spalla destra. Io feci per scansarmi, ma persi l’equilibrio e quasi finii nel lavatoio dei panni. Iniziammo a ridere entrambi come dei matti. Come ai vecchi tempi. E pensare che non c’eravamo neanche dati appuntamento. Erano tre mesi che mancavo da Montaldo. Solitamente, quando il lavoro me lo permette, cerco di venirmene quassù almeno una o due volte al mese. La pace che trovi qui è difficile reperirla in città come Napoli, anche di notte. Sono tornato in paese due mesi fa dopo quasi novanta giorni di assenza. Avevo programmato di starmene una settimana qui, ufficialmente per sistemare delle cose, come dicevo sempre ai miei colleghi. Cose burocratiche, impicci vari. In realtà, volevo godermi una piccola vacanza in santa pace. Arrivai in paese il pomeriggio del tre marzo. Giunto in Piazza Verdi, la piazza principale di Montaldo, quella d’ingresso, fermai l’auto. Era una giornata limpida e molto fredda e c’era un vento tagliente. A ogni respiro, sentivo i polmoni cantare di gioia. Nonostante il gran freddo, ogni boccata d’aria pura mi allungava la vita almeno di un anno. Era come se uno spazzacamino invisibile mi stesse ripulendo le vie

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respiratorie liberandomi del catrame e dello smog accumulato in città. La fontana centrale, quell’enorme basamento di marmo e pietra bianca che campeggiava in piazza, sembrò salutarmi. È il simbolo del paese, la prima cosa che vede la gente una volta arrivata lì. Alla fontana sono collegate un paio di vasche di pietra dove alcune signore anziane del posto usava lavare intere ceste di panni sporchi. Montaldo è uno degli ultimi paesi in cui le vecchie lavano i panni a mano. La tradizione resiste, un po’ perché la tecnologia non è vista molto di buon occhio, un po’ per le buone condizioni di salute delle stesse lavandaie, un po’ perché quelle antiche tradizioni paesane sono dure a morire. Certo, non è più come quando, da piccoli, vedevamo la fontana gremita di donne già dalle primissime ore dell’alba. Gran parte di quelle che ricordo io sono morte e quelle ancora in vita non sono più giovanissime come fino al 1993, data in cui mi allontanai da Montaldo. Mi avvicinai al bocchettone di ferro arrugginito, quello centrale, della fontana e bevvi. L’acqua scorreva abbondante e freddissima, com’era normale dopo le forti nevicate di quell’inverno che avevano alimentato le sorgenti. Piazza Verdi era deserta. Negli ultimi tre o quattro anni il paese si era progressivamente svuotato. Parecchi dei ragazzini avevano fatto la mia stessa scelta, ovvero andare a cercare fortuna in una grande città. Napoli, Foggia, Benevento, Avellino. Dovunque, pur di cercare un lavoro. Non fosse stato per il vento, quel giorno sarei persino riuscito a sentire i miei passi sull’asfalto. Risalii in auto e parcheggiai fuori casa, al civico 72 di via Milazzo. Stavo svuotando il borsone con alcuni vestiti puliti, quando qualcuno bussò alla porta che, come al solito, avevo lasciato aperta. Un altro vantaggio di vivere a Montaldo. «Avanti», invitai dalla stanza da letto, dove stavo sistemando la biancheria pulita. «È permesso?» Quella voce mi fece sobbalzare. Alzai di scatto la testa in direzione del soggiorno: era proprio lui, il mio vecchio amico d’infanzia. Il mio migliore amico mi aveva fatto una sorpresa. Mi aveva detto che il lavoro gli avrebbe impedito di raggiungermi perché era di turno praticamente tutta la settimana e invece eccolo lì, in piena forma, con un paio di jeans scuri, una t-shirt con la scritta “un uomo senza pancia è come un cielo senza stelle” e un berretto nero con visiera bianca. «Che gran figlio di…», ma prima che potessi completare la frase, mi diede una energica pacca sulla spalla. Ridemmo di gusto e ci abbracciammo. Erano ormai tre mesi che non ci vedevamo, praticamente dall’ultima volta che ero stato a Montaldo. Però ci

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sentivamo spesso, almeno una volta ogni due giorni. «Sei diventato più brutto di prima», fece Giovanni. La sua solita, vecchia battuta, sempre pronta, in ogni occasione, come un abito universale molto elegante che si usa indossare ai ricevimenti molto importanti. Da quando eravamo piccoli, quella frase mi perseguitava e quando una volta, soltanto una, dimenticò di recitarmela, lì per lì pensai che lo avessero rapito gli alieni. Giovanni Martini era anche questo, e molto altro ancora. «Perché tu ti senti bello, con questa gran faccia da…» La sua risata mi interruppe. Di certo, il mio complimento era stato meno oxfordiano, ma a noi per ridere bastava veramente poco. D’altra parte, quando dico che non avevamo affatto perso il nostro spirito da bambini, è la pura verità. «Se fossi nato con la tua, di faccia, a casa non potrei avere specchi», replicò quand’ebbe finito di ridere. Se non avessi interrotto il discorso, avremmo tirato avanti fino a sera. «Dormi qui, stasera?», gli domandai, pur conoscendo già in partenza la risposta. Era stata solo una domanda retorica, per chiudere il discorso di prima. «Ovvio che dormo qui», rispose. «Questa ormai è casa mia.» Buon vecchio Giovanni! «Se permetti», cominciò, ma poi si allontanò e uscì di casa, per poi rientrare repentinamente con un borsone verde militare. «Ho portato anche le mie cose. Ma le sistemerò dopo, adesso è arrivata l’ora del caffé.» Ci mancava solo quello, per completare l’opera. Ancora non ero passato a salutare Guido, il proprietario del bar Lorenzi, nostro abituale punto di ritrovo quando eravamo più piccoli. Il bar era ancora chiuso quand’ero arrivato. «…pensando?» Scrollai la testa e guardai Giovanni. Mi ero distratto. Avevo una gran confusione in testa e i pensieri svolazzavano senza un ordine preciso. «Ehi, ci sei? Mi dici a che pensi?», mi domandò per la seconda volta. «Sta tornando a galla», gli dissi con uno sguardo grave. «Quel fottutissimo incubo vorrebbe emergere, ma non ci riesco. Non riesco a ricordare. Le uniche cose che mi sono rimaste impresse sono delle parole in latino…» Proprio in quel momento, un clacson mi interruppe. Un’auto color verde petrolio si era fermata a pochi passi da noi. Non dovetti neanche sforzarmi più di tanto per riconoscere il conducente, che scese repentinamente dall’abitacolo e corse nella nostra direzione.

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«A belli!», salutò festoso. Certo che neanche per Paolo Ranalli sembrava passasse il tempo. La carnagione scura era rimasta praticamente la stessa. Gli occhiali, di corno, li aveva cambiati due volte, ma il modello era simile a quello che portava da ragazzo. «Ehilà, ecco lo zio Tom!», esclamai alzandomi dal lavatoio e andandogli incontro a mia volta. Ci abbracciammo e ci scambiammo un cinque, come facevamo ogni volta che ci incontravamo. Non era cambiato nulla e non eravamo cambiati per nulla. Così, allo stesso modo si salutarono lui e Giovanni. «Ragà, vi trovo in piena forma!», esclamò Paolo col sorriso sulle labbra. Aveva spento l’auto, era andato un attimo a bere e poi si era seduto accanto a noi sotto il lavatoio di pietra della Fontana Centrale. Ed eccolo qua, il mitico terzetto. Matteo Parisi, Giovanni Martini e Paolo Ranalli, 91 anni in tre, che tornavano a guardare il mondo da sotto l’arco del lavatoio della fontana. Il mondo, il nostro mondo, era rappresentato da quel piccolo paese di settecento anime, settecento metri sopra il livello del mare. Lassù, dove non c’era nulla e niente e nessuno potevano disturbare quella fetta di Italia ancora incontaminata. Lassù, dove l’uomo ancora non aveva messo le sue grinfie. Lassù, dove la natura era l’unica ad avere ancora il controllo totale. Era tutto esattamente come l’avevo lasciato tre mesi prima. Il paese che non cambia mai. Un po’ come noi del posto: avremmo potuto evolverci, diventare pezzi grossi, magari ricchi e famosi. Eppure, saremmo stati sempre gli stessi ragazzini che si divertivano a giocare a pallone dalla mattina alla sera.

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4 «Non mi aspettavo di trovarvi qui.» Era stata una visita a sorpresa, ci aveva raccontato Paolo una volta entrati a casa. Giovanni stava preparando il sugo, la sua specialità, e io sistemavo la spesa nella dispensa. Lui si era appollaiato sulla poltrona reclinabile vicino al camino mentre la tv trasmetteva il notiziario sportivo dell'una e mezzo. «Come mai questa improvvisata?», gli chiesi. Si trattava proprio di improvvisata. Era raro che Paolo tornasse a Montaldo, se non nelle feste comandate. Essere direttore marketing di una nota casa di abbigliamento portava via molto tempo. Chi l'avrebbe mai detto? Di certo, da ragazzi, nessuno di noi ci avrebbe scommesso cento lire bucate. Non che non ne fosse capace, questo no. Semplicemente, Paolo aveva altri interessi. La musica su tutti. Ci moriva, per la musica. Da piccolo, suonava addirittura con due gruppi. A Roma, dove se n'era andato a vivere e si era laureato, aveva trovato la sua stabilità con gli Iamalutor. Un nome un po' bizzarro, forse, ma era un quartetto formidabile. Con loro, Paolo era stato premiato come miglior batterista a un concorso dove gareggiavano anche gruppi di un certo rilievo. Niente da dire, lui sulla batteria c'era nato. Ma il lavoro è lavoro e dunque si era ben inserito nel settore marketing. «Faccende burocratiche», rispose d'un fiato e mi guardò. Devo dire che rimasi assai perplesso. Poi iniziò a ridere. Mi accodai e Giò in cucina fece altrettanto. «Che testa di cazzo, che sei!», bisbigliai. «Non vi faccio effetto quando dico faccende burocratiche? “Devo risolvere faccende burocratiche”», iniziò a cantilenare. E noi continuavamo a ridere. Tre idioti. Tre perfetti imbecilli. Ma che volete farci, quando si cresce con qualcuno certe abitudini diventano difficili a morire. E se da piccoli ridevamo per stronzate del genere, da grandi non potevamo fare altrimenti. «Faccende minchiatriche!», starnazzò Giò dalla cucina e questo ci gettò quasi nel panico. Le risate iniziavano a diventare incontrollabili. Paolo si teneva la pancia e io mi ero quasi accasciato per terra. Ora, se qualcuno intende cercare una spiegazione razionale, potrei consigliarvi di chiamare la neuro. Ripeto, tre deficienti matricolati. Erano passati quindici anni da quando le nostre strade da adolescenti si erano divise, ognuna delle quali diretta verso il proprio mondo di adulto. Eppure, anche a trent'anni sembravamo dei bambini troppo cresciuti, con qualche capello tendente al bianco, magari, ma pur sempre bambinoni.

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«Operazione tesoro sepolto», dichiarò Paolo quando ritrovammo un briciolo di normalità. «Devo scavare in soffitta, ho bisogno di alcuni pezzi della batteria. È da un po' che non ci metto mano e troverò i cadaveri. Certe cose sono andate in malora e per fortuna qui ne ho, di pezzi di meccanica.» «Serata in vista?», chiesi. «In realtà, no. Ma stiamo lavorando a un nuovo disco e a casa non posso più suonare. Devo rimettere in sesto il mio arnese.» «Fino a quando ti trattieni?», chiese Giò uscito dalla cucina. Il sugo probabilmente era in fase di bollitura; l'odorino iniziava a propagarsi dentro casa. «Pensavo di restare solo per oggi, ma visto che ci siete voi potrei prendermi qualche giorno...» «Una settimana?», rilanciai. Di solito si dice che se il peccato va fatto, va fatto bene. Guardò Giò, poi tornò a fissare me. Ci pensò un attimo su, poi si alzò di scatto dalla sedia: «Una settimana! Se lo dobbiamo fare, facciamolo come si deve!» Che vi avevo detto? «Devo chiamare Daniela e dirle che sarò vostro ostaggio per un mese?», domandò Giovanni con una faccia da ebete che non gli vedevo fare da almeno quindici anni. Ci strappò una risata fragorosa. «Chiamala, chiamala», lo minacciò Paolo. «E dille che stasera avrai qualche problemino a dormire con me...» «Ahia», commentai portandomi una mano alla fronte. No, quella notte non avremmo dormito come volevamo. Guardai Giovanni andare in camera da letto, dove alzò la cornetta e compose il numero di casa sua. «Sono io, Dani. Sì, sto qua e... indovina chi è venuto? No, non indovinerai mai!» Pausa. «Ma come diavolo fai? Me lo spieghi?» Giovanni rise. Beccato. Mentre lui parlava, io mi ero spostato ai fornelli per girare il sugo. L'acqua nella pentola aveva iniziato a bollire e così calai un chilo di rigatoni. Il sugo era quasi pronto e proprio nel momento in cui Giò rientrò in cucina, io avevo ne intinto un pezzo di pane. «Ottimo», giudicai. «Avevi qualche dubbio?», disse lui spegnendo il fuoco e fissandomi con quell'aria seria da maestrina delle elementari. Qualche istante di silenzio e cominciammo di nuovo a ridere. Il pranzo fu qualcosa di meraviglioso. Il chilo di pasta scivolò via nel migliore dei modi, più di trecento grammi a testa. La cosa più

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divertente fu però la grigliata di salsicce nel camino. Paolo era un maestro, nell'accendere il fuoco. Il caminetto era pulito e la legna era ben sistemata al suo posto, di fianco. Ci mise pochi minuti a metter su una bella fiamma, mentre Giovanni preparava la carne e io disinfettavo la griglia per la brace, visto che erano anni che non veniva tirata fuori. Il fuoco prese all'istante e dopo qualche minuto la casa iniziò a riscaldarsi. Giò aveva disposto tre salsicce per piatto, per un totale di nove. Poi aveva tagliato nove fette di pane, nove, e aveva recuperato ketchup e maionese dal frigo. Leggerini, non c'è che dire! Una braciata del genere, insieme, non la facevamo... da quanto? Un anno? Due? L'ultima volta ricordo che la facemmo al bosco delle querce, ed eravamo un gruppo folto. C'erano quasi tutti, quella volta. Quanti? Una quindicina almeno. Era sera e quando tornammo a casa, non riconoscevamo la destra dalla sinistra. Il vino di Paolo aveva avuto un successo clamoroso. Ricordi d'infanzia nell'età adulta. So a cosa state pensando, lo so. Tre panini con la salsiccia a testa dopo trecento grammi di pasta... Senza considerare il dolce, quella magnifica torta gelato che avevo tanto insistito per prendere. Diciamo che eravamo delle buone forchette, tutto qui. Il panino con la salsiccia davanti al fuoco è un potentissimo stimolatore di ricordi e, ancor di più, di racconti. Si ritorna sempre inevitabilmente indietro nel tempo, in luoghi che la memoria riesce chissà come a custodire per sempre, lasciando più o meno intatta ogni cosa e ogni persona incontrata fino a quel momento. E di ricordi, manco a dirlo, ne avevamo un bagaglio enorme. Tutti legati, ovvio, alla nostra infanzia laggiù a Montaldo, quando eravamo troppo piccoli per capire che fare l'astronauta, un mestiere molto in voga, tra noi, non era poi così facile come credevamo. Avevo questo sogno, da ragazzino, e un po' me ne vergognavo anche. C'era sempre chi diceva che avevo la testa fra le nuvole. Ma era davvero un sogno, per me, e ci credevo. Erano anni facili, quelli. Anni in cui le parole sogno e lavoro potevano andare di pari passo. Anni in cui le risate erano la nostra unica moneta di scambio. Anni in cui, se dicevi qualche menzogna, non era nulla di irreparabile. Il camino ci riportava indietro a quegli anni. Quegli anni caratterizzati da ricordi che erano presenze costanti. Erano il passato che prende forma attorno a noi e non ne vuol sapere di andar via, come il gesso che si solidifica attorno a una gamba o a un braccio. Il gesso però ti infastidisce, mentre quelle erano immagini piacevoli da vedere. Erano il

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film della tua vita che ti si srotolava davanti agli occhi in una sorta di cinema tridimensionale. Erano i nostri anni, passati ma sempre presenti.

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Eppure qui non c'ero mai stato prima. Non ci giurerei, ma di questo posto non ricordo nulla. Mi giro, mi guardo attorno: solo ombre. C'è una grossa lapide, a pochi passi da me, ma l'oscurità ha ingoiato tutto, tutto, persino i miei piedi e non riesco a vedere cosa c'è scritto. Non ci sono lampioni, quassù, e non arriva neanche la luce della luna. È tutto circondato da grossi alberi secolari. È buio e non capisco dove mi trovi. Ma posso camminare. Per fortuna, posso camminare. E mi avvicino. Lentamente, guardandomi intorno e tendendo l'orecchio a ogni rumore. Non ne sento ma non mi fido. Il buio fa paura e fanno paura i posti che non si conoscono e fa paura non sapere perché ci si ritrovi in un posto che non si conosce. Anche le lapidi fanno paura, ma devo guardare cosa c'è scritto. Mi sto muovendo apposta in quella direzione. Pochi passi, pochi, e vedrò cosa c'è scritto. Pochi passi e mi renderò conto di che cosa c'è scritto. Non so perché diavolo voglia guardare, ma sono qui e guarderò. La lapide è nascosta da un groviglio di piante selvatiche, ma riesco comunque a vedere cosa vi è inciso. Potes conari relinquere patriam, sed patria te numquam relinquet. Ci sono scritte altre cose, ma non riesco a leggerle. Ci sono dei nomi, un elenco di nomi, nomi di persona, con delle date scritte di fianco. Date di nascita e di morte. Sembra un elenco funebre. Ma i nomi sono pochi. Non riesco a decifrarli. Mi sforzo, ma non vado oltre. Un fruscio alle mie spalle. Mi volto di scatto, non c'è nessuno. Voglio andar via, mi sento vulnerabile. Lo sono. Avvolto dall'oscurità in un luogo che non conosco senza sapere perché sono qui. Sento che sto per impazzire. Sento una voce. Un sussurro, un sussurro metallico. Ce l'ha con me? «Potes conari relinquere patriam, sed patria te numquam relinquet.» È un sussurro, ma inizia a farsi sempre più insistente. Inizia a entrarmi

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nel cervello. Inizia a farmi male, a trascinarmi via con sé. Inizio a ripeterlo anch'io. È come un uragano: parte in sordina e trascina tutto. Ci sono in mezzo. Non posso scansarmi. Ma sto per impazzire, lo sento. Mi porto le mani alle tempie... BASTA! Voglio andar via da qui. Basta, vi prego...

6 Quando riaprii gli occhi, ancora una volta di soprassalto, la radiosveglia appollaiata sul comodino di fianco al letto mi avvertì che erano le cinque e dieci. Ero solo in casa, perché dopo pranzo Paolo e Giovanni erano andati via, ognuno a casa propria. Le case dov'erano cresciuti con le rispettive famiglie. I genitori di Paolo erano ancora a Montaldo e abitavano a via Salgari, a cinquecento metri dal market. La famiglia di Giò, invece, aveva casa a Corso Roma, dal lato di Piazza Verdi. Ma anche loro, Roberto e Angela, si erano trasferiti a Ludigo, l'anno dopo che Giò si fu sistemato, per cui casa Martini era praticamente disabitata. Erano passate da poco le tre e da poco la campana della chiesa di Sant'Andrea aveva battuto i rintocchi, quando entrambi lasciarono casa mia. Giò aveva sparecchiato la tavola, mentre Paolo si era occupato della brace, pulendola dai residui della carne e risciacquandola a dovere. Io mi ero dedicato ai piatti. Continuammo a raccontarci episodi dell'infanzia, il nostro argomento preferito, e quando casa finalmente iniziò a sembrare decente, i miei due amici si congedarono. Da parte mia, non avevo alcuna voglia di uscire. Volevo starmene un po' a leggere, magari davanti al camino, sulla poltrona. Ma neanche mezz'ora dopo le mie palpebre cominciarono a protestare, così avevo abbandonato il focolare e mi ero spostato sul letto. Erano circa cinque mesi che non mi addormentavo di pomeriggio. Eppure, anche quella volta, qualcosa in sogno mi costrinse a risvegliarmi di soprassalto. Ormai iniziava a stancarmi. Ero a Montaldo da un giorno e mezzo ed era la seconda volta che venivo svegliato di botto. Quella cantilena stava cominciando a darmi sui nervi. Ma c'era dell'altro, stavolta. C'era la lapide, c'erano i nomi. E poi quel posto, quel posto dove non ero mai

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stato prima, avvolto dall'oscurità, dove si ergeva quella lapide con quei nomi... Stavolta c'era stato qualcosa di più, ma più provavo a sforzarmi, meno riuscivo a farmene una ragione. Mi tirai a sedere e mi accorsi che mi si stava accapponando la pelle. C'era qualcosa in più, stavolta. Ma che cos'era quel posto? E chi aveva parlato? Di chi era quella voce? Fu la porta a distrarmi. In quel momento, un leggero venticello soffiava tra le assi della tapparella di legno. Nella penombra della camera, mi ci vollero due minuti buoni per trovare il coraggio e la forza per alzarmi dal letto. Ma qualcuno aveva suonato al campanello, e dovetti alzarmi. Ancora intontito da quel brusco risveglio, mi spostai in soggiorno e andai ad aprire. Era Giò, che mostrò qualche segno di preoccupazione appena mi guardò in faccia. «Che è successo?», mi chiese corrugando la fronte. «Di nuovo», risposi. «Altro giro, altra corsa. Ancora l'incubo.» Giò entrò in casa e si sedette sulla sedia accanto al camino. «Non ricordi nulla?» «Qualcosa sì, stavolta. Un luogo strano, buio. Una lapide tra le erbacce. Dei nomi scritti su, che però non sono riuscito a leggere. Ah, date di nascita e di morte. E una voce, una voce bassa, quasi un sussurro, che poi è cresciuta di intensità. E una frase, una maledettissima frase. Una frase in latino. Ma non ricordo...» Scossi la testa passandomi una mano sulle tempie. Mi pulsavano. Facevano male. Volevo dormire, volevo dormire come dormivo di solito a Montaldo. Giò si alzò di scatto. «Sistemati, che ci andiamo a prendere un caffé da Guido.» Uscimmo di casa e mi guardai intorno, ma via Milazzo era deserta. Il sole stava scomparendo lentamente e il cielo stava passando dall’azzurro al rosa pesca. Il bar di Guido si trovava a cento metri da casa mia, a corso Roma, la parallela di via Milazzo. «Ehilà, ragazzi! Bentornati!» Buon vecchio Guido. Vecchio neanche tanto. Certo, l'età passa per tutti e se quando noi eravamo minorenni, lui era già sulla trentina, adesso si avviava tranquillamente verso i quarantacinque. Ben portati, però: capelli poco brizzolati che si abbinavano molto bene alla carnagione scura, che a sua volta faceva risaltare un sorriso di denti bianchissimi. Fisico robusto, con una prominente pancetta tipica degli uomini adulti e sposati, era alto un metro e ottanta e non aveva perso quello spirito vivace che mi era sempre piaciuto. Da quando eravamo ragazzini a oggi, Guido Lorenzi era rimasto quello di un tempo, senza cambiare di una virgola. Era per quello, forse, che

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avevamo sempre preferito il bar Lorenzi al Camping Bar, l'unico altro che c'era a Montaldo. E forse, in un paese di settecento anime, erano pure troppi. «Ciao Guido», salutai avvicinandomi al bancone. Mi diede un cinque e fece altrettanto con Giovanni. Stranamente, non c'era nessuno a quell'ora, cosicché ne stava approfittando per fare due conti su un quaderno a quadretti. Il bar era in perfetto ordine, come al solito. Su tutto, campeggiava in bella mostra una foto di Montaldo datata 1992, anno della storica nevicata: in quell'occasione, quando sul paese si posarono oltre tre metri di neve, noi ragazzi ne approfittammo per tuffarci dai tetti o divertirci con slittini di fortuna. Erano semplici assi di legno sistemate per l'occasione. Uno degli inverni più belli che io ricordi. «Come mai da queste parti?», mi domandò. «Troppo stress. Ricarichiamo le pile», risposi mentre Giò prendeva dal banco-frigo una birra per lui e per Guido e una coca per me. «Come va col lavoro?» Guido non cambiava mai. La sua non era curiosità, era vero e proprio interesse. «Più che bene, non mi posso lamentare, anche se qualche volta prenderò il coraggio a due mani e verrò a vivere qui, a godermi quest'oasi di pace.» Guido sorrise. Sapeva bene che parlavo sul serio. Certo, dal punto di vista di chi realmente abitava a Montaldo, forse lasciare tutto per rintanarmi lassù, alla mia età, sarebbe sembrato un po' azzardato. Eppure, la vita cittadina mi ha sempre stressato. «E allora, lo facciamo questo brindisi?», domandò Giovanni. Avvicinammo le tre bottiglie (nonostante la mia fosse una Coca, brindavo lo stesso, in barba alla scaramanzia) e le facemmo tintinnare, in ricordo dei vecchi tempi. «Alla cosa più dolce che c'è», intervenne Guido. Risi di gusto. Gli anni passano, i brindisi restano. «E ai bei vecchi tempi mai andati», aggiunsi.

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7 Un quarto d'ora dopo, ripetemmo il brindisi. Ci aveva raggiunto anche Paolo e ci aveva costretto a rifarlo. Altro giro, altra corsa. Era la nostra frase preferita, da piccoli. Uscimmo dal bar che erano le sei e ci immergemmo in quella piacevole arietta fresca. Lassù al Polo Nord, probabilmente, i pinguini stavano prendendo il sole. Se fossero venuti a Montaldo, invece, si sarebbero davvero sentiti a casa. Piazza Verdi a quell’ora leggermente più popolata: due signore di mezza età che lavavano i panni nelle vasche di pietra della fontana centrale e due signori anziani che parlottavano tra loro a voce alta su di una panchina all’interno del Parco dei Caduti. Nessun altro. Ci scambiammo una rapida occhiata e ci incamminammo a passo lento verso Viale Italia, in direzione del bosco delle querce. A quell’ora, doveva essere poco affollato anch’esso. Era una giornata più che limpida, l’aria era tersa e da lì si godeva di un panorama spettacolare, con le ampie vallate che si sostituivano alle pendici delle colline in un susseguirsi di verde dalle diverse tonalità. Vasti campi di grano lasciavano il posto a una fitta boscaglia fatta di grandi alberi secolari. Lì la natura non aveva ancora ceduto il passo alla tecnologia e la mia sensazione era che non sarebbe mai accaduto. L’uomo tende per sua natura a colonizzare ciò che può tornargli veramente utile e, a parte aria pulita, acqua limpida e quella rassicurante sensazione di pace interiore, quei paesi non offrivano praticamente null’altro. A dir la verità, però, a Previto, paese a venticinque chilometri da Montaldo, non più di dieci in linea d’aria, qualcuno aveva già iniziato a metter mano. Si trattava di una grande azienda francese che da due anni a quella parte aveva installato una ventina di pale eoliche. Il paesaggio aveva sicuramente iniziato a risentirne e di lì ad altri due anni le pale sarebbero passate da venti a settanta. Non solo: l’azienda francese si sarebbe aggiudicata anche i terreni demaniali degli altri paesi, Montaldo compreso. Eppure, per quanto brutte esteticamente, quelle pale mi piacevano: pensate, potevano darti energia pulita completamente gratis e senza nemmeno inquinare! In paese, però, si preoccupavano solo del fatto che i paesaggi venissero deturpati. Questione di punti di vista. Arrivammo all'ultima curva prima del bosco, quella del Ponte dei Sospiri. No, non era un vero e proprio ponte, ma una piccola insenatura

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situata proprio sotto la strada. Era chiamato così perché leggenda voleva (di leggende, a Montaldo, ce n’erano a bizzeffe; c’erano più leggende che abitanti!) che nelle notti di luna piena le coppie che passavano di lì udissero i sospiri di una fanciulla, Sofia, barbaramente uccisa dal marito per questioni di gelosia. I sospiri amorosi di Sofia erano una caratteristica di Montaldo conosciuta anche in paesi a cinquanta chilometri di distanza. Pure gli abitanti di Ludigo, dove abitava Giovanni, ne erano a conoscenza. Dall’altro lato della strada, c’era la fontana, anch’essa denominata Dei Sospiri. Dovete sapere che a Montaldo le cose e le persone hanno un soprannome e anche questa è una caratteristica del paese. E a volte, vi garantisco che la fantasia supera la realtà. Passato il Ponte dei Sospiri (ci ero passato anche io, una volta, con una ragazza, per di più in una notte di luna piena, ma non avevo sentito nulla, a parte il mio stomaco brontolare), arrivammo al campo di calcetto, che ancor’oggi ci vede protagonisti di amichevoli e tornei estivi. Da quando avevano messo l’erba sintetica, era stato praticamente preso d’assalto. Per tutti i ragazzi dei paesi limitrofi, infatti, quel campo era un modello, visto che nella zona era diventato il più bello. Guardarlo mi metteva addosso una strana malinconia: quante estati passate a giocare… Alcune foglie ingiallite, cadute dagli alberi che circondavano la struttura, si erano posate sul manto erboso ma i ragazzi del paese, che a quel prato ci tenevano non poco, le avevano ordinatamente ammucchiate negli angoli con due scope che erano ancora lì, pronte a sistemare le eventuali nuove emergenze. Avessimo avuto noi, da ragazzini, quel campo così curato! L'erba sintetica era stata messa da due anni a quella parte, mentre prima c'era solo un terreno duro come la pietra da cui spuntavano erbacce, margherite e piccole piantine fastidiose che ti pungevano all’istante se solo provavi ad allungare una mano nella loro direzione. Oggi, invece, il prato era bell’e pronto. Paolo e Giò guardarono il campo proprio come lo stavo guardando io e, in fondo, avevo capito che il fiume in piena dei ricordi aveva investito all’istante anche loro, con la stessa intensità. Certe cose non si cancellano e, anzi, ti si scagliano addosso con lo stesso affetto di un cane di grossa taglia che rivede il padrone dopo una lunga assenza. Erano passati dodici anni da quando avevamo lasciato Montaldo, eppure il Bosco delle Querce era rimasto praticamente lo stesso. A eccezione degli spogliatoi del campo, allestiti nell’area dove, da ragazzi, i miei amici si nascondevano per fumare, al riparo da occhi

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indiscreti, il tempo aveva custodito gelosamente tutto com’era. C’erano ancora i tavoli in pietra, ritrovo abituale dei nostri leggendari pic-nic, c’era la grande fontana con annessa vasca per i pesci rossi (leggendari anch’essi, visto che non si vedevano più da decenni), c’erano le panche dove raccontavamo i favolosi indovinelli che ancora mi perseguitavano. Tutto com’era, tutto perfettamente conservato. Montaldo era una vera e propria cassaforte della memoria, dove i ricordi erano conservati dall’incuria degli anni che passano. Chiudendo gli occhi, potevo ancora ascoltare la voce di Andrea Melbano e di tutti gli altri: suo fratello Giorgio, Pasquale De Stefano, Roberto Dardone, Giuseppe Silani, Antonio Moresco, Alessia Sacco e Laura Arcaro. In quel momento, erano tutti lì, vicino a me e Paolo e Giovanni. Noi in carne e ossa, loro come fantasmi. Ognuno di loro era andato via da Montaldo, eppure ogni estate ci ritrovavamo lì, più vecchi di un anno ma con lo stesso spirito di quand’eravamo ragazzini. La magia si rinnovava ogni volta, come un rito sacro. E ogni volta ci riunivamo lì, al Bosco delle Querce, per incontrare nuovamente quei bambini che eravamo e che ancor’oggi è possibile ritrovare in fondo a ognuno di noi. Ci sedemmo sulla nostra panchina, nascosta dall’esterno da due grandi alberi: incisi sulla pietra, c’erano ancora i nomi di tutti noi. Era stato Pasquale De Stefano a scriverli, servendosi del coltellino svizzero del padre, rovinandolo di brutto. Quando il padre, lo venne a sapere, non vedemmo più Pasquale per due settimane. Il coltellino, invece, non lo vedemmo proprio più. Esattamente com’era successo guardando il campo, anche lì, e forse ancor di più, i ricordi presero il sopravvento. In quel momento eravamo in silenzio e la cosa mi diede conferma che tutti e tre stavamo pensando esattamente alla stessa cosa: i bei vecchi tempi ormai andati. Ci pensavamo e lo sentivamo, soprattutto. Era l’eco delle voci dei nostri amici, le loro voci da ragazzi. Ed era esattamente quello che volevamo ogni volta. Ripercorrere con mente e parole tutto ciò che avevamo fatto anni prima. Ritrovare quei momenti impolverati come vecchie fotografie ingiallite, eppure sempre vivide nella memoria. Ritrovarsi, perché noi eravamo ancora quei ragazzini che si divertivano con poco e non avevano bisogno di niente. Eravamo un gruppo, e quando si è adolescenti, il gruppo è tutto. Ti aiuta a superare le difficoltà, almeno quelle che ti sembrano tali a quell’età, quando spesso gli amici si sostituiscono alla famiglia. «Ragazzi, guardate qua!», esclamò Paolo. Indicava un punto della panchina dove c’era un’altra incisione. Serial Killer. Io e Giò ci

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scambiammo un’occhiata, poi sorridemmo. Un sorriso malinconico. «Ve li ricordate gli indovinelli terribili di Andrea?» E chi se li dimentica! Il nostro passatempo quando eravamo piccoli, e sto parlando di quindici anni fa, quando i computer e le consolle non avevano invaso le case come oggi, era riunirci intorno al fuoco, di notte, nel bosco, e raccontarci storie dell’orrore o, magari, indovinelli. Solitamente, era in estate che potevamo restare fuori casa oltre mezzanotte, l’ora dei fantasmi. Due di questi indovinelli sono ancora freschi nella mia mente e molti di voi li conosceranno, ma sono quelli che mi hanno più colpito e che, in un certo senso, mi hanno dato una “spinta” verso quella che è poi diventata la mia strada. Il giornalismo, si dice da più parti, è innanzitutto un rimedio alla curiosità, anche se io credo che serva soltanto ad alimentarla, giorno dopo giorno, come benzina sul fuoco. Già, il fuoco. Il fuoco che usavamo per scaldarci, da piccoli, al bosco delle querce. Il fuoco, unica presenza estranea a farci compagnia mentre, a turno, qualcuno di noi parlava. E Andrea, Andrea Melbano, il più grande della comitiva con i suoi sedici anni, era l’esperto degli indovinelli. Due di questi li ricordo ancora come se fosse oggi.

8 «Alcuni poliziotti entrano in una stanza. È tutto chiuso dall’esterno e le porte e le finestre non sono state scassinate. C’è un uomo impiccato proprio al centro della stanza, ma non ci sono sedie. Non c’è nessuno sgabello e nessun tavolo nelle vicinanze. La stanza è completamente vuota. Si è suicidato o è stato ucciso?» Andrea ci guarda tutti, a uno a uno. Nella luce tremolante del piccolo falò che abbiamo acceso per scaldarci, la sua faccia è diventata arancione. Non ci sono altre luci, là intorno. Quaggiù, al calar del sole, il buio ingoia tutto. Il fuoco è la nostra unica salvezza. Anche per il freddo. Fa molto freddo, qui. Il Bosco delle Querce è un posto tetro, scuro e freddo, ma è l’unico posto di Montaldo dove possiamo stare in

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santa pace. Nessuno verrebbe a romperci le scatole, e per raccontare storie c’è bisogno di tranquillità. Concluso l’indovinello, ora tocca a noi. Ognuno di noi deve rivolgere una domanda ad Andrea. Inizia Giovanni: «Può essersi lanciato appoggiando i piedi al bordo di una finestra?» «No», risponde Andrea sorridendo. «La corda è troppo piccola e non ci arriverebbe mai.» «Allora si è arrampicato al muro e poi si è lasciato andare!» Stavolta è Roberto Dardone, a parlare. Roberto e i suoi atteggiamenti aggressivi del cazzo! Non è un ragazzo stupido, però a volte si comporta come se lo fosse. «Tutte le pareti sono troppo lontane.» Fanculo, mi viene da pensare! Non ci posso fare niente, non lo sopporto! La domanda sorprendente la fa Giuseppe, che evidentemente, ragionando, c’è arrivato prima di noialtri: «Non è che per caso c’è dell'acqua per terra?» Roberto scoppia in una fragorosa risata, che risuona nell’aria limpida di quella sera serena. La cosa mi fa ancora più rabbia. Un gufo leva il suo ululato di protesta dal ramo di un grosso albero alle nostre spalle e tutti noi ci giriamo di scatto in quella direzione, colti un po’ di sorpresa. Ma le parole di Andrea ci riportano alla realtà. Lui ha mantenuto la calma: «Esatto, Giù. C'è una bella pozzanghera d’acqua ai piedi del tizio appeso alla corda.» Tutto chiaro, dunque, anche se qualcuno ancora non ci arriva. «E che cazzo c’entra l’acqua?», domanda allora Giovanni. Sorridendo, gli rispondo: «Pensaci bene. Cosa ci fa una pozza d’acqua ai piedi di una persona?» «Appunto, che ci fa?», si mette in mezzo Roberto. «Ti dice niente la parola ghiaccio?», finisce per me Giuseppe, che è sì il più piccolo del gruppo, ma ha un cervello decisamente niente male. Il tizio si è issato su un blocco di ghiaccio, ha messo la testa nel cappio e quando il ghiaccio si è sciolto, ci è rimasto secco. Di una semplicità disarmante. Diabolica. «Andrè, spero che qualcuno te le racconti, ‘ste cose», dice Roberto. «Mica ci pensi la notte?» Ridiamo tutti. Sì, anch’io. Per quanto possa odiarlo, a volte è spassoso. Andrea gli mostra il dito medio e lo zittisce. «Idiota», gli dice, ma lo fa con un sorriso. Roberto gli tira un sassolino e Andrea lo scansa. Il loro modo di divertirsi.

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Ma c’è il secondo enigma e stavolta è decisamente meglio. «Questo è un indovinello che fanno in America per scoprire se un uomo è un potenziale serial killer…» «Allora vince Roberto!», esclama Paolo. Quando ride, i denti sporgenti si vedono ancora meglio. Siamo gli unici due a portare gli occhiali. I suoi hanno una montatura di corno fiammante, usciti pochi giorni fa dal negozio di ottica. A quella battuta, una delle tante che lancia Paolo, ridiamo e Roberto gli molla un pugno ben assestato alla spalla, senza però volergli fare veramente male. Paolo ride a sua volta, reprimendo una smorfia di dolore, ma ormai nessuno di noi sta più nella pelle per via di quel nuovo indovinello promessoci da Andrea, l’indovinello del serial killer. «Allora», riprende Andrea quando le risate si sono calmate. «Siamo al funerale di un uomo e, durante il rito funebre, una delle sue due figlie incontra un bel ragazzo. Non sa chi sia, ma gli piace da morire. Colpo di fulmine! Però la ragazza non riesce a parlargli e, finito il funerale, lo perde di vista. Non sa chi sia, né come cercarlo. Quando torna a casa, la giovane ammazza sua sorella. Perché lo fa?» Effettivamente, tutto mi aspetterei da una ragazza che ha appena perso il padre tranne che innamorarsi di un ragazzo al funerale e tornare a casa ad ammazzare sua sorella! «Perché?», incalza Andrea guardandoci ad uno ad uno da dietro al fuoco, dieci curiosi quindicenni che scuotono il capo guardandosi a loro volta con occhi smarriti. Già, perché mai dovrebbe fare una cosa del genere? «Come vi ho detto, in America fanno questo giochetto ai detenuti, e quelli che danno la risposta esatta sono tutti serial killer.» Serial killer, un nome che mette i brividi solo a pronunciarlo. Stavolta nessuno dice nulla. Passano un paio di minuti ed è ancora una volta Giuseppe a distinguersi, solo che stavolta vedo qualcuno dei miei amici rivolgergli qualche occhiata non proprio rassicurante: «Credo di aver capito!», esclama. «Io con te non ci dormo più!», sbotta Paolo, scatenando l’ilarità generale. La tensione di questo breve periodo provocata dalla parola serial killer e, più in generale, da quell’attimo di silenzio, si scioglie completamente. Rido di gusto a quella battuta. Paolo conosce bene il modo di stemperare il nervosismo. «Hai detto che torna a casa e uccide la sorella, vero?», domanda Giuseppe. «Già», replica Andrea con aria di sfida. «Perché?» «Perché vuole incontrare di nuovo il giovane», risponde Giuseppe

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senza scomporsi. E inizia a guardarci anche lui. «Lei crede che al funerale della sorella quell’uomo, che probabilmente è un amico di famiglia, tornerà e lei può incontrarlo di nuovo.» Allucinante. Non ci sarei mai arrivato e la cosa un po’ mi risolleva. So benissimo che Giuseppe non è un serial killer solo perché ha dato una risposta che danno tutti i serial killer in America, ma mi sento sollevato nel pensare che non avrei mai ragionato in quel modo. Guardo Giovanni e leggo nei suoi occhi la stessa cosa. A quindici anni, basta poco per sentirsi meglio…

9 Quegli indovinelli erano parte integrante della nostra vita, ma se devo essere onesto era da un pezzo che non li rievocavo. Se ne sono stati chiusi nell’armadio della mia memoria per molto tempo, ma qualcosa in quei giorni li riportò a galla. È strano che, dopo tutti gli omicidi a cui ho assistito per lavoro, l’immagine di Andrea che pronunciava le parole serial killer di fronte al fuoco non mi abbia mai perseguitato. Mi è capitato di ripensarci per la prima volta dopo tanto tempo proprio quando sono tornato a Montaldo dopo tre mesi di assenza. Quel tardo pomeriggio di inizio marzo, seduto sulla nostra panchina al Bosco delle Querce insieme ai miei due migliori amici, nonché testimoni del più bel periodo della mia vita, rivedevo il piccolo falò che ci scaldava e illuminava tutt’intorno in una calma e fredda serata d’estate di quindici anni prima, quando eravamo tutti insieme riuniti a raccontarci storie, chiusi nel nostro spazio al riparo dagli adulti. Tra i tanti ricordi che, di tanto in tanto, riaffioravano, ce n'era uno particolarmente terrificante. L'unico che ancor oggi, a distanza di quindici anni, mi fa davvero accapponare la pelle. E venne a galla quando Giò scoprì sulla panchina un’altra scritta, realizzata sempre da Pasquale col suo coltellino, nella sua grafia da adolescente. C’eravamo appena alzati per tornare in paese, quando magicamente ci apparve di fronte agli occhi una parola.

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Una sola parola. Una soltanto. Morgana.

10 È una storia vecchia, ma sentirla ci metterà sicuramente i brividi addosso. Almeno, così ci ha promesso Giò. Fino a qualche minuto fa abbiamo riso e scherzato. Oddio, Giorgio e Pasquale stanno ancora dicendo cretinate. Non ho sentito cos’ha detto Giorgio, ma vedo Pasquale che sorride mostrando inquietanti denti gialli. «Che cazzo mi sorridi?», gli dice allora Giuseppe ridendo a sua volta. «Qua stiamo filosoficamente dibattendo sulla natura estrinseca di una leggenda di Montaldo e tu…» «Ma che volgaVità», risponde l’altro interrompendolo con la voce della professoressa Staminchia e continuando a sorridere. Una risata genuina ci coinvolge tutti. La professoressa Staminchia è il pezzo forte di Pasquale. «Sei pVopVio scuVVile, mio caVo GioVgio. Ti meViti una nota di biasimo!» «Una nota di che? Prof, ora è lei che è volgaVe!», risponde Giorgio. Le risate impazzano. Ci vogliono cinque minuti per riprenderci. Si sente un tuono in lontananza. Giò lo imita con un possente rutto. Giò è il maestro di rutti della combriccola. Altre risate, mentre io mi giro verso di lui con una finta espressione di disgusto: «Fai proprio schifo!» «Quante storie», ribatte. «Ho digerito male.» «Mah, mi sa che non hai proprio digerito». Altre risate. Clima goliardico? No, tanti deficienti tutti insieme. Ma Giò non è solo il maestro di rutti. È anche il professore di leggende. Lo chiamiamo così, quando inizia a raccontare le sue storie. Il professore di leggende. Pasquale una volta lo aveva anche soprannominato sommo water, ma professore di leggende suona decisamente meglio. E il professore proprio stasera ha promesso che ci parlerà di qualcosa che suo nonno gli ha raccontato qualche giorno fa. A me lo ha anticipato ieri, parlandomi di una storia da brividi, ma non ha voluto dirmi di cosa si tratti esattamente. E così anche stasera ci

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ritroviamo qui, al Bosco delle Querce, davanti a questo piccolo ma potente falò, pronti per un’altra storia. Quando finalmente tutti abbiamo ritrovato un minimo di dignità, Giò prende la parola. Ha già detto a tutti che stasera ci stupirà con qualcosa di veramente spaventoso, ma vuole ulteriormente chiedere ai presenti se se la sentono di ascoltare. L’appello è valido soprattutto per le ragazze. Alessia e Laura non sono proprio “cuordileonesse”… Ma nessuna delle due vuol sentire ragioni. Sono curiose, come tutti noi. «E allora, cominciamo questa storia», esordisce Giò. Come di consueto, chi racconta qualcosa sta al di là del fuoco, in modo che la sua faccia risalti ancor di più e crei l’atmosfera giusta. «Una storia che ebbe luogo tanti anni fa, qui a Montaldo.» S’interrompe per un momento, per guardarci tutti, come da copione. «È qualcosa che mi ha raccontato nonno Giovanni, per cui potete metterci lo zampone nel fuoco che, pur essendo una leggenda, conserva molti tratti autentici. Dunque, iniziamo…» Altro tuono in lontananza. Il cielo ora inizia ad annuvolarsi, sebbene quando siamo usciti di casa avessi visto le stelle. Lì al Bosco delle Querce le stelle si vedono perfettamente, perché non ci sono altre luci che disturbano. Altrettanto chiaramente si riesce a capire quando il cielo si sta annuvolando. «Avete mai sentito parlare di Morgana?» Silenzio in sala, anche se non è una sala. Ci guardiamo in faccia a uno a uno. Io non ne ho mai sentito parlare e, a quanto sembra, neanche gli altri. Giovanni lascia passare qualche secondo, per aumentare la suspense del racconto. «Quella di Morgana è una delle storie più tetre di Montaldo e proprio per questo è una delle meno conosciute. Neanche nonno sa bene a quando risalga…» «Un applauso per il congiuntivo!», esclama Pasquale, alzandosi, con un applauso. Tutti lo fissiamo con aria truce. Pasquale si guarda intorno e si risiede. «Dicevo, è difficile datare questa storia. Diciamo che risale a tanto, tanto tempo fa, molto prima di questo secolo. Tutti i vecchi del paese ne hanno sentito parlare almeno una volta, ma se chiedete loro qualcosa, faranno finta di nulla. Non si sa bene perché. Se provate a chiedere in giro di Morgana, nessuno vi darà delle risposte. E questa è una delle cose più terrificanti di questa leggenda. È una leggenda ma c’è un fondo di verità. Proprio come nel film L’esorcista.» Altro tuono in lontananza e stavolta vediamo anche il lampo. Pioverà? Non lo sappiamo, ma per il momento la cosa non c’importa. È strano,

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però. Siamo usciti di casa, neanche un’ora fa, a ciel sereno e ora si sta scatenando il diluvio. Ci penso per qualche istante, poi la faccia di Giovanni dietro al fuoco mi cattura nuovamente. «Morgana è una vecchia signora, vissuta a Montaldo tanto tempo fa. Le poche persone che l’hanno vista, che l’hanno vista veramente, non sono riuscite a raccontarlo in giro. Si dice, però, che il suo aspetto sconvolga chiunque la veda. È bassa, curva, avvolta in uno scialle nero come quello della morte, solo che è tutto sporco di sangue. Non ci si accorge a prima vista che è sangue, perché il sangue sul nero si vede poco. Ma si capisce. E poi ha un bastone e cammina lentamente, zoppicando, e porta un foulard in testa. Ha il viso martoriato, pieno di ferite da cui cola sangue e con due buchi neri al posto degli occhi. Nonno dice che sono pozzi profondi, oscuri, dove si nasconde la morte. Guardare là dentro è come guardare in fondo al proprio destino. E sotto al foulard… vermi!» Vedo Alessia arricciare il naso. Una smorfia di disgusto si disegna sul viso di Laura, come accade anche su quello di Paolo. Anche a me quella visione piace ben poco. Il clima goliardico di poco prima è scomparso. Giò è decisamente bravo a raccontare storie e poi il fatto che quella leggenda abbia un fondo di verità mette ancor di più i brividi. Una volta Giò ci parlò di un altro mito di Montaldo, quelli che lui definì bombonari, una sorta di uomini lupo. Paese che vai, nome che trovi. Ma la storia di Morgana è decisamente meglio, sicuramente più veritiera e, forse… vera? È realmente mai esistita quella donna dalle sembianze terrificanti? «Prima di assumere questo aspetto da incubo, però, Morgana era una donna come tante, di nascita montaldese, con una famiglia montaldese, un marito montaldese e probabilmente dei figli montaldesi. No, non era come le altre donne, era decisamente più bella. Ma la gente del paese, chissà per quale motivo, ce l’aveva con la sua famiglia. Sapete come sono i piccoli paesi. Quando vieni preso di mira, è difficile cancellare certe insinuazioni. Si racconta che le donne di Montaldo l’avessero etichettata come una signora dai facili costumi, per cui fu isolata dalla vita pubblica. Quand’era ancora nel fiore degli anni, si ammalò gravemente, ma proprio perché era stata messa pubblicamente alla gogna, nessuno si premurò di darle assistenza. Addirittura, e qui la leggenda si fa forte, neanche il medico del paese. Morgana morì senza che nessuno l’aiutasse.» Giò si blocca ancora una volta, per guardarci. Il fuoco crepita, l’ansia nell’aria è palpabile ma nessuno di noi parla. Siamo arrivati alla parte

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più tetra del racconto, ce ne siamo resi conto tutti. Guardiamo Giò e pendiamo dalle sue labbra. «Da allora, si dice che l’anima di Morgana non sia riuscita ancora a trovare pace e sia rimasta bloccata qui a Montaldo. Capite? È stata uccisa dalla stessa cattiveria dei suoi compaesani. Da allora, il suo fantasma custodisce le strade del paese e si propone di sistemare le questioni che si vengono a creare quando ci sono episodi di cattiveria. È una sorta di giudice. E la sua pena più severa è… la morte!» Un tuono ci fa sobbalzare tutti. Giò non ha neanche finito di pronunciare quelle ultime parole che inizia a piovere. Il fuoco del falò si spegne sotto le insistenti gocce d’acqua. Ci alziamo tutti di scatto, guardandoci intorno ancora frastornati dal racconto. Adesso siamo completamente al buio. Ovviamente, nessuno di noi ha un ombrello e prima di arrivare in paese rischiamo di inzupparci completamente. Così decidiamo di ripararci sotto la piccola cappelletta votiva dedicata a Sant’Andrea, il patrono di Montaldo. C’è un piccolo altare con due candele accese e tutt’intorno il buio. Abbiamo ancora le parole di Giò appiccicate addosso e noto che tutti gli altri, compresi Andrea e Roberto, i più coraggiosi del gruppo, e persino Giò, che ha raccontato la storia, si guardano intorno. La leggenda di Morgana non ha lasciato indifferente proprio nessuno. In questo momento, condividiamo tutti lo stesso timore: la vecchia è qui tra noi…

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11 I bei vecchi tempi andati hanno il potere di stringerti lo stomaco come una morsa strettissima. Ovviamente, non c’era stata nessuna vecchia tra noi. Quella serata prendemmo tutti un bello spaghetto, devo ammetterlo. Giò ci aveva spaventati parecchio e la paura non aveva risparmiato proprio nessuno. Addirittura, Pasquale dovette mettersi d’impegno, sulla via del ritorno, per far tornare il sorriso alle fanciulle. Il nostro viaggio nel passato era iniziato con quelle incisioni sulla panchina di pietra. Mai però avremmo immaginato di ritrovarcene imprigionati.

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Capitolo 2 Un luogo da non dissacrare

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L’incubo tornò. Per fortuna, stavolta. Erano sei giorni che non capitava, dal 4 marzo precisamente. Accadde tutto come l'ultima volta, o quasi: mi risvegliai nuovamente di soprassalto, con il cuore in subbuglio. Ero sudato, ma stavolta non c’era Giovanni accanto a me. E io non ero a letto. Il confine che separava la realtà dal mondo onirico era meno marcato. E forse era un bene. Come un pescatore che, quando si accorge che un pesce ha appena abboccato alla sua canna, è pronto a tirar su, con decisione ma allo stesso tempo con la massima attenzione per far sì che il pesce non si stacchi dall’amo, mi sforzai di ricordare. Vi è mai capitato di tentare di non cancellare un sogno o un incubo? È come quando si ha una parola sulla punta della lingua e non si riesce a cacciarla fuori. Una sensazione fastidiosissima. Ero in soggiorno, mi ero addormentato sul tavolo, con il computer ancora acceso. Dalla finestra che affacciava in via Milazzo potevo sentire il sibilo del vento. Cercai comunque di non distrarmi e concentrarmi solo sull’incubo, che, per mia fortuna, non era scomparso del tutto. Avevo davanti agli occhi solo immagini e, per giunta, fioche, come quando guardi una radiografia senza contrastarla alla luce. Eppure, qualcosa riuscii a ricordarla: con qualche difficoltà, riuscii a rivedermi mentre passeggiavo nel cortiletto antistante il cimitero di Montaldo. Non era lo stesso incubo che avevo già fatto. Stavolta era diverso. Nel sogno, mi muovevo con una lentezza inspiegabile, come se fossi immerso in una vasca d’acqua. E, cosa inquietante, c’era qualcosa che mi impediva di entrare nel cimitero, per quanto io lo volessi. Ma una voce mi stava chiamando, all’interno. No, non era una voce: ne erano

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due. Erano due voci familiari e mi chiedevano aiuto. Imploravano aiuto. Due voci molto familiari ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a raggiungerle. Ci stavo provando ma, così come quella forza misteriosa mi teneva lontano dal cimitero, allo stesso modo io non riuscivo a spingermi oltre, nel mio sogno. Meglio, nel mio incubo. Volevo ricordare, così come sarei voluto entrare nel cimitero… Ma niente da fare. E ricordavo finalmente le parole, quelle parole in latino. Potes conari... Alzai la testa di scatto e vidi che sul mio block-notes c'era scritto qualcosa. Corrugai la fronte. Troppe cose mi si affollavano nella testa. Giovanni non era ancora rientrato a casa sua. Né lui, né Paolo rispondevano al telefonino. Per quel che ne potevo sapere, neanche quest’ultimo era tornato a Roma. Erano andati via il pomeriggio del giorno prima, entrambi, e fu anche per quello che la telefonata di Daniela, qualche ora dopo la partenza dei due, arrivò inaspettata e mi colpì come un cazzotto alla bocca dello stomaco. «Matteo, ma Giovanni è ancora lì con te?»

2 Stava succedendo qualcosa. L’incubo, quell'altro, quello che per due volte mi aveva svegliato di soprassalto, pareva avesse iniziato a prendere forma: come se qualcuno avesse avuto intenzione di avvisarmi che stava per succedere l’inverosimile. Per andare avanti, però, dovevo sforzarmi. Ricordare per intero cos’avessi sognato. Se quello era un messaggio, probabile allora che contenesse qualche altra informazione utile. Ci avevo ripensato intensamente la sera prima, seduto sul muretto antistante l’ingresso del cimitero, dove mi ero recato dopo la telefonata di Daniela. Ci avevo provato con tutte le mie forze a rievocare le immagini di quel maledetto sogno, da solo, quando ormai il sole stava lasciando spazio alla luna e alle stelle, mentre un vento tagliente fischiava tutt’intorno e una strana sensazione di deja vù, di già visto mi

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stava attanagliando. Il cielo sopra di me si preparava a tingersi di blu scuro. Sarei dovuto tornare su, ma non riuscii a trovarne le forze. Non volevo andar via di là. Non potevo. Pochi minuti ancora e non si sarebbe visto quasi più niente. Pochi minuti ancora e mi sarei trovato da solo, in compagnia di lapidi illuminate dalle luci fioche dei piccoli lumini che le circondavano. Sarei rimasto lì insieme ai morti, al buio. Ma quello che più mi spaventava, quello che davvero mi metteva i brividi addosso e mi gelava il sangue nelle vene, era la scomparsa dei miei due amici. Volatilizzati nel nulla...

3 Siamo scesi al cimitero tutti e tre per lo stesso motivo, non appena Giò e Paolo sono rientrati dalle loro missioni esplorative alle vecchie case di famiglia: salutare nonni e parenti vari. Qualcuno mi chiama. Ho appena finito di tirare a lucido la lapide di marmo su cui brillano i caratteri dorati che compongono il nome di mio nonno paterno. Il cimitero di Montaldo tiene perfettamente fede al suo nome: da quando siamo qui, non abbiamo scorto praticamente anima viva. Eppure, proprio adesso, qualcuno mi chiama. È zio Pasquale, che evidentemente si è accorto che sono arrivato al paese. Non ho ancora avuto modo di salutarlo semplicemente perché non l'ho mai trovato in casa. Zio abita proprio di fianco al bar di Guido. Mi viene incontro salutandomi da lontano e poi mi stringe la mano. «Come stai?», mi chiede sorridendo. Da quando sua moglie Linda, sorella di mio nonno Matteo, è morta qualche anno fa, è rimasto solo. Eppure, ciononostante, si è sempre rimboccato le maniche e adesso è più arzillo di prima. Pur essendo andato in pensione, si tiene attivo grazie al piccolo orticello dietro casa, poco distante dal garage, quello dai mille utensili all’interno del quale mille volte da bambino andavo a riparare la mia storica mountain bike. Ne ho combinati di disastri, con la mia “due ruote”. E zio Pasquale ha sempre provveduto a risolverli di volta in volta.

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Non solo: una volta dovette persino riparare me. Avevo dodici anni e sfortuna volle che un gatto mi attraversasse la strada all’improvviso, mentre il contachilometri segnava quota quaranta chilometri orari. Per fortuna, Viale Italia è sempre stata una strada poco trafficata: nella sfortuna, quando caddi riuscii solo a distorcermi un polso e a graffiarmi un ginocchio. Sarebbe potuta andarmi peggio. «Ciao, zio», lo saluto andandogli incontro a mia volta. «Bene, molto bene. Sono riuscito a prendere qualche giorno di ferie e sono volato qui. Tu che mi dici?» «Solita vita, Matteo. A casa c’era poco da fare e ne ho approfittato per prendere una boccata d’ossigeno. Tra poco vado a fare spese ad Aldura, ma prima ho portato fiori freschi a tua zia Linda.» Zio Pasquale è come me, non sta mai fermo un attimo, anche se negli ultimi tempi una fastidiosissima artrite lo costringe a non alzarsi più così spesso dalla poltrona. La vecchiaia è una carogna. Prima di andar via, lo zio mi aiuta a lucidare la lapide di nonna Gilda e a sistemare i fiori all’interno della cappella votiva. Finiamo tutto in cinque minuti esatti, poi se ne va. L’artite va decisamente meglio, oggi. Qualche volta ho visto zio stare davvero male e zoppicare. Stavolta no. Stavolta il suo passo è deciso. Non ci sono sbavature, nel suo cammino, e la cosa mi allarga il cuore. Posso soltanto immaginare cosa significhi, per uno come zio Pasquale, soffrire per quei dolori. Più che la sofferenza fisica, il problema vero è restare inermi. La costrizione a dover modificare certi comportamenti. Il dover sottostare a una menomazione che ti impone di rivedere i tuoi movimenti. È un po’ come quando vuoi allungare una mano per prendere un oggetto ma il braccio non risponde al tuo comando. Posso immaginare che ci si senta… be’, quantomeno delusi. Ma stamattina non ci sono problemi. Zio Pasquale cammina perfettamente e la sua gita ad Aldura non dovrebbe riservare sorprese sgradevoli. Andato via lui, mi guardo intorno. Non c’è nessuno, nei paraggi. Paolo e Giò sono dai loro nonni e così m’incammino verso la cappella di zio Mario, fratello di nonno Matteo, e di zia Marta, sua moglie. A quest’ora, c’è un silenzio irreale e il freddo ricopre ogni cosa. Il silenzio di tomba è interrotto solo, di tanto in tanto, da qualche lieve folata gelida che mi accarezza la pelle scoperta. Sono quasi arrivato in fondo al vialetto principale, quando qualcosa richiama la mia attenzione. Mi rendo conto che la porta dell’ossario è socchiusa. L’ossario è una piccola stanza buia, che solitamente ospita topi a volontà e puzza di

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decomposizione al punto da farti venire il mal di testa. Una volta, da ragazzi, io e Paolo ci entrammo per scommessa. Non successe niente di che, però la paura ci giocò un brutto scherzo, sotto forma di topo. C'eravamo sempre chiesti se là dentro fossero davvero custoditi quei grandi sacchi neri con le ossa dei defunti e così era partita la scommessa. Io e Paolo eravamo stati sorteggiati e avremmo dovuto portare un osso come prova. Purtroppo, però, oltre a un semi-infarto, non potemmo portare nulla. Appena il topo iniziò a squittire, cominciammo a correre come dei dannati, fregandocene altamente che gli altri ci avrebbero derisi. Pallidi in volto, uscimmo di volata da quell’angusta stanza puzzolente: per fortuna, nessuno dei ragazzi rise di noi. Anche perché, nel caso contrario, li avrei spediti a calci nell’ossario. Adesso, a distanza di quasi quindici anni, quell’episodio mi fa sorridere. I fantasmi dell’adolescenza sono esattamente come la paura. Arrivano all’improvviso, ti mettono le viscere in subbuglio e dopo, per mandarli via, fai una faticaccia immane. Per me, però, questa cosa non ha mai rappresentato un problema. Sono fantasmi piacevoli, che mi tengono compagnia in ogni momento buio della giornata. E poi, ogni volta che torno a Montaldo, è come se li cercassi io e loro rispondessero all’appello. Sempre diviso in due tra passato e presente, mi avvicino alla piccola porta di metallo, dipinta di nero, e per un istante tentenno, indeciso se entrarvi o meno. La apro per metà e chiedo a gran voce se vi sia qualcuno, all’interno. Poi chiudo l’uscio con decisione, facendo scattare il meccanismo della serratura, che riecheggia nell’aria con un forte schiocco. Se anche ci fosse qualcuno… Sento un fruscio, mi volto di scatto ma non c'è nulla. Suggestioni. Questo posto mi mette i brividi. Proseguo per il vialetto, verso la cappella di zio Mario quando stavolta è una voce a catturare la mia attenzione. C'è qualcuno che mi chiama? «Giò», dico meccanicamente. E' stato solo un bisbiglio, il mio. Proprio come quello che ho sentito. Né più né meno che un bisbiglio. Poi vedo Giovanni in lontananza e mi avvicino a lui. No, non è stato Giò a chiamarmi. Mah, me lo sarò immaginato… Qualche istante dopo ci raggiunge Paolo. Siamo pronti a uscire, ma prima c'è la visita obbligata. A pochi passi dall'ingresso c'è la cappella Cantore. Ogni volta che scendiamo al cimitero, restiamo sempre affascinati dal quadro. Già, il quadro. All’interno della cappella c’è infatti il ritratto di Leonardo Cantore, un ingegnere di origini

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montaldesi, nato a Boston l’8 ottobre del 1850 e lì morto il primo dicembre del 1885. Da ragazzi, eravamo praticamente terrorizzati da quel volto severo che pareva fissarci da ogni posizione ci trovassimo. Ricordo benissimo che una volta, sarà stato nel 1990 o giù di lì, Pasquale De Stefano giocò un brutto scherzo ad Alessia Sacco. Entrò nella cappella e poco dopo ne uscì senza che ce ne accorgessimo. Quando Alessia uscì a sua volta, lui l’attese nascosto dietro a un albero, dopodiché le si piazzò avanti con una maschera orrenda. Forse, la sua vera faccia l’avrebbe spaventata ancor di più; tutto sommato, però, Ale divenne sufficientemente bianca da far venire un bello spaghetto anche a lui, che si scusò con lei per tutta la sera e per le due sere successive, arrivando anche a offrirle la cena il sabato seguente. Non dimenticherò mai l’urlo di Alessia. È una di quelle cose che suppongo restino più impresse nella mente di un adolescente. E credo che neanche Pasquale l’abbia più dimenticato. «Ricordi questo libro?» Sono quelle le ultime parole che riesco a sentire. Poi, improvvisa e inaspettata, arriva la telefonata di un collega di redazione. Lo squillo ci fa sobbalzare: lì dentro il silenzio avvolge ogni cosa. Stiamo leggendo un’incisione in latino sulla grande lapide di marmo che campeggia all’interno della cappella Cantore. Disattivo la suoneria del cellulare ed esco fuori a rispondere, lasciando Paolo e Giovanni là dentro. Sono le sette e un quarto e il sole sta lentamente prendendo il suo posto di padrone incontrastato nel cielo, data la totale assenza di nuvole, mentre un vento tagliente fischia tutt’intorno. Fa freddo, parecchio freddo, e il cielo sopra di me è di un bell'azzurro chiaro. A essere sinceri, il cimitero di Montaldo è sufficientemente tetro, collocato alla fine di una stretta e buia strada in discesa, circondata da boschi di cipressi. Non per niente, si chiama proprio Via dei Cipressi: proprio un nome da Monopoli. «Matteo acquista casa in Via dei Cipressi: se passate dal via, ritirate venti euro». Mah. A ogni modo, a dispetto del nome, è una delle strade più lugubri che mi sia mai capitato di percorrere. Completamente isolata, è di fatto una strada senza uscita: si dipana da Piazzetta Pepe, meglio conosciuta come la famigerata piazza del vento, e si srotola per un chilometro e mezzo circondata ai lati da boschi: alla fine, c’è il cimitero comunale di Montaldo. Di fronte a esso, uno spettacolare panorama fa da contraltare: la bellezza immortale della natura, coi suoi paesaggi mozzafiato, opposta alla fugacità della vita.

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Gabriele De Rossi, il mio collega del giornale, mi tiene al telefono quasi dieci minuti. A un certo punto comincio a credere che non finirà più di parlare: lui è fatto così, quando inizia un discorso interromperlo diventa una battaglia persa. Evidentemente stavolta ha qualcosa da fare, per cui considerato che stiamo parlando “soltanto” da dieci minuti mi è andata più che bene. Una volta riagganciato, mi alzo dal muretto di fronte all’ingresso del cimitero e mi appresto a raggiungere Paolo e Giovanni. I miei amici sono ancora all’interno della cappella Cantore e proprio in quel momento, in lontananza, mi accorgo di un lieve bagliore al suo interno. Dura pochissimo. Come un flash, come se uno dei due abbia scattato una foto. Ma non mi pare che né Giovanni né tanto meno Paolo abbiano con sé la macchina fotografica. Non riesco neppure a finire il pensiero, che i miei due amici escono dalla cappella. Come se nulla sia successo. Io, però, chiedo lo stesso spiegazioni. «Cos’era quella luce, poco fa?» Paolo e Giovanni si scambiano un’occhiata interrogativa. «Luce? Che luce, Matté?», chiede di rimando Giovanni. «Ho visto una luce, da là dentro», preciso. «Come il flash di una fotocamera.» Paolo si stringe nelle spalle e corruga la fronte. «Vabbé, lasciamo perdere», taglio corto. «Salutiamo i nostri cari e andiamo via.»

4 Il giorno dopo la nostra visita alla Cappella Cantore, Paolo e Giovanni andarono via appena dopo pranzo, quando la campana della chiesa di Sant’Andrea ancora non aveva battuto i tre rintocchi pomeridiani. Rimasi solo, per cui ne avevo approfittato per mettere un po’ d’ordine in casa e sistemare i bagagli, visto che l’indomani sarei ripartito anche io. Nel tardo pomeriggio, decisi di tornare al cimitero per portare altri fiori freschi a nonno e nonna. Fu quel breve lampo ad attirarmi là dentro.

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Fu il lampo, senza di esso non ci sarei mai entrato là dentro. Non di sera, non da solo. Eppure, quel lieve e fulmineo flash richiamò la mia attenzione proprio com'era successo il giorno prima, quando avevo creduto di essermelo soltanto immaginato. O forse no… È difficile immaginarsi due volte la stessa cosa nello stesso luogo. Di certo mi mise i brividi. Ancora una volta. Era come se una goccia d’acqua gelata si fosse infilata proprio nel colletto del giubbotto e mi stesse accarezzando per intero la schiena. Ero solo, il cimitero era deserto e per giunta stava sopraggiungendo il buio. La situazione ideale per avventurarsi in quella cappella. Non potevo evitarlo. Quel lampo mi stava letteralmente chiamando, ed era già successo. E poi, manco a dirlo, sono curioso per natura, nonostante proverbio voglia che la curiosità uccise il gatto. Cappella Cantore, si leggeva dall’esterno. Era un piccolo edificio poco curato, con pareti che in un passato non troppo recente erano state bianche e una porta a vetri di un nero sbiadito. La porta recava innumerevoli segni di ruggine e la serratura aveva smesso di funzionare almeno un secolo prima. Anche all’interno, comunque, la situazione non era migliore. Le pareti erano messe pure peggio e in tutti gli angoli vi erano ragnatele su ragnatele. Le lapidi, però, erano ben curate. Ce n’erano quattro: una era quella dell’ingegner Cantore, le altre appartenevano a membri della sua famiglia, tra cui Pietro Falco, cugino dell’ingegnere, stroncato a sedici anni, sedici, dalla leucemia. Quante volte, guardando quella lapide, ho pensato e ripensato ai suoi genitori. A quindici anni, quando vidi per la prima volta la foto di Pietro e lessi la sua data di morte, si può essere piccoli per diverse cose, ma non per il dolore. Forse nella vita non c’è niente di peggio che perdere il proprio figlio. In natura sono i genitori che muoiono per primi, o almeno così dovrebbe essere. Anche se non si è mai preparati sufficientemente per la perdita di qualcuno, credo che il dolore più straziante sia proprio quello di veder morire un figlio. Non mi stancherò mai di dirlo: la vita non è mai abbastanza crudele. Riesce sempre a trovare il modo di essere più cattiva. A ogni modo, quelle mie riflessioni furono interrotte da una possente folata di vento, forte a tal punto da spostare leggermente la porta a vetri della cappella. Senza sapere bene perché, anche quello mi parve un invito a entrare. Non potei far altro che spingere ulteriormente la porta e immergermi in quel piccolo edificio dalle pareti sporche.

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Sulle prime non ci vidi nulla di strano. Era tutto perfettamente normale, forse anche troppo. C’erano le lapidi, c’era l’altare, di marmo, con la solita tovaglia di seta bianca (ecco, quella sì che era bianca, non come le pareti!) e una Bibbia posta su un piccolo leggio. C’erano le candele, quattro grosse candele, e c’erano i candelabri, due, sempre sull’altare, a poca distanza dalla Bibbia. E un libro chiuso, un libro con la copertina bordeaux, consumata dal tempo. Un libro bello grosso, uno di quelli che si guadagnano spesso l’appellativo di mattone. Un libro che sulla copertina aveva inciso, a caratteri d’oro, il titolo: Le leggende di Montaldo. Un libro che attirò la mia attenzione. Più che vecchio, era antico. Ma era strano che non l’avessi mai visto in giro. E poi c’era il quadro, alla destra dell’altare, quel quadro enorme che raffigurava Leonardo Cantore, quel quadro che anche allora, in quel preciso momento, a distanza di anni da quando lo vidi per la prima volta, mi metteva addosso una sensazione di inquietudine. Difficile a spiegarsi, non c’era alcuna motivazione logica: semplicemente, ti faceva venire i brividi. Rimasi lì a fissarlo per diversi minuti, immerso nel silenzio del cimitero. C’era però qualcosa che non andava, là dentro. Sulle prime non capii, perché i miei occhi andarono meccanicamente nei punti che mi erano più familiari. Me ne accorsi quando stavo per andare via, e per poco non mi venne un colpo. Sistemate con cura sulla parete alla sinistra della porta d’ingresso della cappella, dunque nascoste alla mia vista quando ero entrato ma perfettamente visibili quando stavo per uscire, c’erano due piccole lapidi in miniatura. Fin lì tutto normale… se non fosse che sul marmo c’erano le seguenti incisioni:

GIOVANNI MARTINI - N. 25-06-1974 * M. 10-04-2005 PAOLO RANALLI - N. 05-10-1975 * M. 10-04-2005

Là sopra vi erano i miei due amici… con tanto di data di nascita e quella di morte! No, non era possibile, non riuscivo a crederci. Era uno scherzo, solo uno scherzo, un fottutissimo, stupidissimo scherzo di cattivo gusto. Uno scherzo che probabilmente era stato architettato e messo in scena da qualcuno che già da ragazzi ci fece prendere uno spavento di quelli

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forti, rinchiudendoci lì dentro e simulando rumori di catene e urla spaventose. Poi, però, ci fu la telefonata di Daniela e le cose cambiarono. La telefonata di Daniela cominciò a dare concretezza a tutta quell'assurdità. «Ciao Matteo», esordì con voce preoccupata. «Ma Giovanni è ancora a Montaldo, con te?» Non era ancora arrivato a Ludigo, ed era partito quattro ore prima. La cosa mi piaceva ancora meno, ma lì per lì tentai di tranquillizzare Daniela. «No, veramente è partito oggi pomeriggio, ma era con Paolo. Sono partiti insieme, probabilmente si sono fermati per strada a combinarne qualcuna delle loro…» «Ha il telefonino staccato, e anche Paolo», tagliò corto lei, interrompendomi La mia ansia si moltiplicò. Lo sguardo ricadde alle due piccole lapidi (erano uguali, in tutto e per tutto, a quelle più grandi). Paolo e Giovanni mi guardavano dai due ovali, da foto in bianco e nero che non avevo mai visto. Ma quello che mi colpì ancora di più furono proprio quelle immagini: erano recenti, molto recenti. E poi c’erano le date di morte: 10 aprile, esattamente un mese dopo la scomparsa. Non riuscivo a spiegarmelo. Superato l’impatto iniziale, adesso cominciavo a interrogarmi. Che diavolo stava succedendo? «Matteo, ci sei o no?» Era Daniela, ancora al telefono. «Scusa, mi ero distratto un momento. Dicevi?» «Mi stavo vestendo. Pensavo di andare dai carabinieri.» «Dani, aspetta. Non saltiamo subito a conclusioni avventate. Può darsi che siano entrambi in una zona senza campo, per i cellulari. E comunque, ora che mi hai avvisato, farò un salto qui intorno e darò un occhio in qualche locale dove potrebbero essersi fermati a mangiare.» Evidentemente, l’avevo detto con un tono alquanto convincente. Daniela mi diede ragione: «Sì, ma lo sai come sono fatta io. Se non mi prende l’ansia non sono me stessa.» Rise e, sebbene fosse una risata nervosa, mi piacque. Meglio una risata nervosa che niente. Io, però, non ero affatto tranquillo. “Due indizi fanno una prova”, si dice in gergo giudiziario. Non potevo nascondere a me stesso che la telefonata di Daniela, subito dopo aver visto quelle lapidi, ebbe lo stesso effetto di un pugno allo stomaco. Poi, però, accadde qualcosa che fu ancora peggio. La porta della cappella era ancora socchiusa ed ero troppo vicino per non rendermene conto: le pagine de Le leggende di Montaldo iniziarono a girare da sole.

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Come se fosse stata una folata di vento a sfogliarle. Ma la porta era accostata e non c’erano finestre e non c’erano altri posti da cui potessero arrivare spifferi di quella portata. La porta era socchiusa e io ero a due passi da essa e da lì non arrivava vento, ma le pagine del mattone iniziarono a muoversi con velocità sempre maggiore, prima da un verso e poi dall’altro. Fu così per diversi secondi, poi tutto finì. Il libro rimase aperto. Sull’altare, la Bibbia e il leggio non si erano mossi di un millimetro e neanche le candele si erano spente. Eppure le pagine di quel volume avevano volteggiato furiosamente. E le fiammelle erano ancora lì, tranquille, a far luce in quel piccolo edificio dalle pareti sporche e dalle lapidi ben curate. Mi avvicinai all’altare, ben curato anch’esso, con quella tovaglia così dannatamente bianca e con le candele che non avevano fatto una piega, e rivolsi il mio sguardo a Le leggende di Montaldo. Le pagine erano ingiallite dal tempo e odoravano di muffa, ma erano perfettamente leggibili. Sembrava che quel libro fosse scritto in latino. No, mi sbagliavo. Qualcosa in latino c'era, ma il resto era in un italiano arcaico. Quel libro era veramente antico. Probabilmente doveva valere pure un bel po’ di soldi. C’era una parte in latino, qualcosa che mi suonava anche familiare... Maledettamente familiare. Potes conari relinquere patriam, sed patria te numquam relinquet Quella cosa l'avevo già sentita! Ma dove? Le rotelle nel mio cervello iniziarono ad accelerare. Quelle parole le avevo sicuramente già immagazzinate, ma non ricordavo altro. Dove le avevo sentite? Che diavolo significavano? Niente, vuoto. Proseguii nella lettura. Qui hic nascitur, hic revertit et hic moritur, aliter sempliciter moritur. Virtus est intelligere cum fas revertere. Iam eius interes, intra es et manebis Nulla. Non riuscivo a decifrarla. Ero in grado, almeno in parte, di riconoscere il costrutto di quella frase, però mi sfuggiva il senso. Da ragazzo avevo fatto il liceo classico, ma le mie reminiscenze erano ferme ai diciott'anni. A Montaldo non avevo un vocabolario di latino, ma avevo a disposizione internet. Quantomeno, avrei capito il senso di quella frase. Non credo alle coincidenze ed erano successe troppe cose strane tutte insieme. Giò e Paolo erano chissà dove, coi telefoni staccati. Niente ancora di cui preoccuparsi, no. Eppure, quelle lapidi...

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Uno scherzo? Ci avevo pensato, sì. Ma adesso, le cose sembravano diverse. E poi c'era la frase. Quella frase che avevo già sentito da qualche parte. Era forse il caso di parlare con qualcuno? E se sì, con chi? La prima cosa che mi venne in mente fu di scattare almeno una foto alle lapidi. In macchina avevo sempre con me la fotocamera digitale, strumento fondamentale per il mio lavoro. Uscii di corsa, recuperai la macchinetta e appena rientrai nella cappella, l'accesi. Regolai il flash, scattai e attesi che l’immagine apparisse sul display. Perfetto. Era fatta. Per sicurezza, scattai qualche foto anche alla pagina del librone, per poter poi tradurre quella strana frase in latino. Poi, finalmente, lasciai il piccolo edificio dalle mura sporche e, assieme ad esso, quel viso inquietante che mi fissava dalla tela, richiudendomi l’uscio alle spalle. Mi avviai alla macchina e, solo quando fui al suo interno, tirai un sospiro di sollievo. Lasciai la fotocamera sul sedile del passeggero, misi in moto e mi avviai in paese. Durante il tragitto, composi prima il numero del telefonino di Giovanni, poi quello di Paolo. Ovviamente, furono solo tentativi vani. D’altra parte, ne ero consapevole già prima di schiacciare il pulsante verde di chiamata. Chiamatelo un tentativo alla disperata. Adesso sì che non sapevo più da che parte cominciare.

6 Tornai a casa. Dovevo tradurre assolutamente quella frase in latino e scaricare le foto sul pc per guardarle meglio. C'era la possibilità che fosse tutto soltanto una bolla di sapone: Paolo e Giovanni avevano lasciato il paese alle tre del pomeriggio e il fatto che non fossero ancora rincasati e avessero i telefonini spenti poteva tranquillamente non significare nulla. Almeno, così avevo fatto credere a Daniela, alla quale avevo anche detto, solo per rassicurarla, che sarei andato a cercarli. Poi, però, c’erano quelle lapidi nella cappella Cantore a cui non sapevo in

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alcun modo dare una spiegazione. Ma può darsi fosse stata solo suggestione, la mia. Già, e le foto? Le foto. Dovevo passarle al pc. Forse, dopo un’attenta analisi, sarei stato in grado di rilevare qualche dettaglio che all’apparenza mi era sembrato insignificante. Mentre il computer terminava il caricamento, presi il cellulare e lo collegai tramite l’apposito cavo. A Montaldo non c'era connessione Adsl, per cui il mio telefonino UMTS mi avrebbe tolto le castagne dal fuoco. Dopo qualche minuto, ero già su Internet a consultare siti specializzati in traduzione e avevo anche inserito la scheda di memoria della fotocamera nell’apposita fessura laterale. Pochi secondi e si aprì una finestra: cliccai su apri cartella e mi ritrovai di fronte le foto che avevo scattato negli ultimi giorni. Quelle al cimitero erano le ultime. Le copiai sul desktop, dopodichè le aprii. E rimasi sbigottito. Sulle prime avevo pensato a un errore di copia, poi però aprii il file direttamente dalla cartella della memory card. Niente. Era proprio così. Se errore c’era stato, non era certo di copia. La foto delle lapidi era praticamente nera. Le lapidi non c’erano, al contrario di quella che avevo scattato al libro Le leggende di Montaldo, con quella frase citata in latino. La cosa mi piaceva ancor meno, perché nella cappella ero sicuro che la foto fosse stata scattata. Sul display, infatti, la parete con le lapidi era apparsa. Il mistero s'infittiva e mi sentivo come quando sei in una palude e più ti muovi, più rischi di restare impantanato. Ma non sono tipo da fermarsi davanti alle prime difficoltà e proprio per questo partii da quello che avevo sotto mano, la frase in latino. La trascrissi sul mio block notes, dopodichè iniziai il lavoro di traduzione. Come un mosaico, il quadro della situazione andava componendosi, facendosi però sempre più macabro. Ed enigmatico. Più andavo avanti, meno riuscivo a capirci. Era davvero un pantano, quello. Già dalla prima frase, mi resi conto che le cose non sarebbero state semplicissime. Potes conari relinquere patriam, sed patria te numquam relinquet A occhio e croce, stava a significare: puoi provare a lasciare il paese, ma è il paese che non ti lascerà mai. L'avevo già sentita, dannazione. Leggerla in italiano confermava ancor di più questa mia sensazione. Ma non ricordavo né dove né quando. Decisi che fosse quello il momento per farmi un caffé. Ero solo in casa, col camino spento. Dedicai un momento di pausa per sbrigare quelle due faccende. Erano le dieci e mezzo e fuori il vento aveva deciso di

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tenermi compagnia con folate rumorose. Avevo aperto per un momento la porta, giusto per far passare un po’ d’aria mentre davo fuoco alle carbonelle nel camino, e il gelo mi era entrato nelle ossa. Tempo altre due ore, e il termometro avrebbe segnato qualche grado al di sotto dello zero. Per fortuna che il mio camino il suo lavoro lo faceva alla grande e che in meno di mezz’ora avrebbe riscaldato tutta la casa. Mentre aspettavo che il caffé fosse pronto, guardai le fiamme divorare i bastoncini di legno che avevo sistemato nella parte esterna del camino e iniziare ad avvolgere i tre grossi tronchi che avevo sistemato all’interno. Il fuoco mi metteva allegria, specie quando faceva così freddo. Puoi provare a lasciare il paese, ma è il paese che non ti lascerà mai. La frase aveva preso a brulicarmi in testa come una trottola impazzita. Il fuoco iniziava a ravvivarsi, la macchinetta era sul punto di espellere il caffé e quella frase, quella dannatissima frase non ne voleva sapere di abbandonare i miei pensieri. È il paese che non ti lascerà mai. Che cosa diavolo stava a significare? E poi, che cavolo stava succedendo? E dove diamine si trovavano Giovanni e Paolo? Fu ancora una volta la macchinetta del caffé a distrarmi, o meglio, a riportarmi alla realtà. Fuori, il vento soffiava all’impazzata. Dentro, il camino iniziava a riscaldarmi, lentamente. Nella mia mente, quella frase non smetteva di tormentarmi. E intanto, il caffé era pronto. Non che ne fossi particolarmente attratto, ma mi avrebbe sicuramente aiutato a concentrarmi.

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7 Puoi provare a lasciare il paese, ma è il paese che non ti lascerà mai. Chi nasce qui, qui torna e qui muore. Altrimenti, semplicemente, muore. La virtù è capire quando tornare. Ma ormai sei parte di esso. Ci sei dentro e ci resterai Leggevo e rileggevo quella frase, trascritta sul block-notes, appena sotto quella in latino, e continuavo a interrogarmi. Cosa diavolo c’entravano Paolo e Giovanni con quella frase? E, soprattutto, cosa diavolo voleva significare? L’avevo tradotta dal latino, eppure era, se possibile, ancor più oscura di prima. Quand’ero ragazzo, ai tempi del liceo, all’esame di maturità mi capitò come seconda prova la versione di greco. Era di un autore che probabilmente nessuno conosce, un tal Epitteto, un filosofo stoicista che riportava il pensiero di un altro filosofo stoico: secondo questi, solo gli esseri razionali hanno una particolare affinità con la divinità, alla quale sono legati per mezzo della ragione. Un brano di 22 righe tratto dalle Diatribe, dal titolo L’uomo cittadino del mondo, che non potrò mai dimenticare. Non solo perché un po’ troppo lungo, come prova d’esame, ma anche e soprattutto perché, a livello strutturale, era costituito da un gran numero di interrogative. Ricordo benissimo il grande aiuto datoci dal professor De Angelis durante lo svolgimento del compito: eppure, nonostante i suoi suggerimenti, anche in italiano quella versione sembrava non significare nulla. Esattamente come quella frase in latino che avevo appena tradotto. In vita mia non avevo mai acceso una sigaretta, ma se mai avessi preso la decisione di iniziare, quello mi sarebbe sembrato il momento più giusto. Erano le due del mattino, fuori si gelava letteralmente (sospettavo che di lì a qualche giorno avrebbe anche iniziato a nevicare) mentre all’interno di casa c’era il bel tepore emanato dal camino, e di Paolo e Giovanni nessuna notizia. Daniela aveva provato a richiamarmi, un'oretta prima. Ma siccome avevo il telefonino impegnato nella connessione internet, non riuscii a ricevere la telefonata. Mi giunse il messaggio di avviso chiamata appena disattivai la connessione. Riprovai a chiamare i ragazzi, ma neanche a dirlo, avevano il cellulare staccato. Stavolta, però, non mi sorpresi.

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Strane idee, strane e inquietanti, cominciavano a farsi largo nella mia testa. Dov’erano Giovanni e Paolo? Cosa significavano quelle lapidi? Cosa significavano, soprattutto, quelle parole in latino? In quel momento ero sulla poltrona di fronte al divano a bere caffé, ma mi rialzai di scatto. Internet avrebbe ancora una volta potuto soccorrermi. Riattivai la connessione e, nel frattempo, recuperai qualche biscotto dalla dispensa. La fame si stava facendo sentire. Non avevo mangiato nulla, a cena, e lo stomaco aveva già iniziato, da un po’ di tempo a quella parte, a mandare i suoi segnali. Forse i soli biscotti non erano sufficienti. Forse avrei davvero dovuto prepararmi da mangiare, ma prima volevo schiarirmi le idee. Mi misi al computer e iniziai quelle che un mio caro amico ama definire ricerche incrociate. Si impostano otto motori di ricerca on-line e si inseriscono le parole chiave, dopodiché si annota tutto su un block-notes e si battono a tappeto gli indirizzi web che vengono fuori con maggiore frequenza. Una sorta di filtro manuale. Cercavo disperatamente informazioni su Le leggende di Montaldo, un libro che non avevo mai visto né sentito nominare. E infatti, spulciando attentamente i motori di ricerca, non riuscii a ricavarne nulla. Avevo controllato il volume ma non c'era il nome dell'autore. Figurarsi, poi, il codice ISBN, il numero che identifica a livello internazionale un titolo o un'edizione di un titolo di un determinato editore. Provai lo stesso a spulciare in alcune biblioteche on line, senza successo. Niente, secondo Internet quel libro non esisteva. Tutt'a un tratto, le palpebre cedettero bruscamente. Quando mi svegliai, mi resi conto che l’incubo era tornato. Per fortuna, stavolta. Il computer era ancora acceso e dalla finestra sentivo il sibilo del vento. Ma mi concentrai solo sull’incubo. Mi rividi mentre mi muovevo con una lentezza inspiegabile, come se fossi immerso in una vasca d’acqua, mentre qualcosa mi impediva di entrare nel cimitero. E una voce mi stava chiamando. No, le voci erano due. E mi imploravano. E le parole, quelle parole in latino, sussurri provenienti da chissà dove. Potes conari… Alzai la testa di scatto e vidi che sul mio block-notes c'era scritto qualcosa. Nonostante tante, troppe cose si affollassero nella mia testa, mi accorsi che quella era proprio la mia scrittura. C'erano scritti dei nomi, sul taccuino, nomi di persona con delle date segnate di fianco, date di nascita e di morte. Sembrava un elenco funebre, simile a quello scolpito sulla lapide dedicata ai caduti posta in

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bella vista nel parco di piazza Verdi, solo un po’ meno corposo. La cosa più curiosa è che si apriva con la seguente riga: “Ing. Leonardo Cantore, nato a Boston l’8 ottobre 1850 e morto a Montaldo il primo novembre 1885”. Dunque, Cantore era il primo dell’elenco. Come mai? La domanda iniziò a frullarmi nella testa, mentre scrutavo attentamente il resto dei nomi, in tutto sette: erano tutte persone decedute a Montaldo. Le date erano disposte in ordine cronologico, dal 1885 in poi, fino ad arrivare al 1982. Fu un nome in particolare ad attirare la mia attenzione: Gabriele Parisi, nato a Montaldo l’11 maggio del 1917 e morto sempre a Montaldo il primo giugno del 1980. Zio Gabriele! Cosa ci faceva lui in mezzo a quell’elenco? E poi, avevo sempre pensato che zio Gabriele fosse morto a Buenos Aires, dove se n’era andato a vivere negli anni cinquanta, gli anni dell’emigrazione. La cosa non mi piaceva: cos’aveva da spartire zio Gabriele con tutti gli altri nomi presenti nella lista? Sospettavo che quella domanda, insieme a tutte le altre che continuavano ormai a frullarmi all'impazzata nel cervello, sarebbe rimaste senza risposta per un po'. Zio Pasquale! Ecco con chi avrei potuto parlare. Chi, se non meglio di lui, avrebbe potuto illuminarmi? Mentre ci pensavo, continuavo a rileggere con attenzione quei nomi, alla ricerca di qualche dettaglio, anche insignificante, che mi avesse messo sulla strada giusta. Sul taccuino avevo scritto solo quello. Ma poi, quando l'avevo fatto? Durante il sonno, era l'unica spiegazione. I tasselli ora iniziavano a venir fuori. La cosa che mi mancava, però, era il giusto ordine in cui sistemarli. Ecco quello che avevo: sette nomi. Sette nomi, il primo dei quali era Leonardo Cantore. Il tizio nel quadro. Il quadro della cappella, da dove era iniziato tutto. Nel mezzo dell'elenco, c'era anche il nome di zio Gabriele. Qualcuna delle persone presenti probabilmente la conoscevo pure, ma a Montaldo nomi e cognomi erano quasi sempre gli stessi. Il primogenito si chiamava come il nonno paterno e così via, nei secoli dei secoli. Anche mio figlio si sarebbe chiamato come mio padre. Qualcuno la considera un’idea bislacca, qualcun altro non la vede di buon occhio. A me piace molto, invece. Insomma, di Matteo Parisi nella storia ce n’erano stati a bizzeffe, per quanto ne sappia. Dunque, anche altri nomi a me familiari appartenevano a parenti, vicini o lontani, delle persone che conoscevo.

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Qualcosa in mano, comunque, adesso l'avevo. Tutto ciò iniziava a somigliare a un’inchiesta giornalistica, con la differenza che c’erano due miei cari amici in gioco. E non sapevo fino a che punto.

8 Mi ero addormentato di nuovo, improvvisamente. Ma fu un sonno molto leggero, stavolta senza sogni. Fui disturbato da due tuoni potenti, che mi svegliarono entrambe le volte: la prima alle sette e venticinque, la seconda e definitiva alle nove meno dieci. Avevo lasciato la finestra del soggiorno aperta e, dalla sedia a sdraio dove mi ero appisolato, notai che quella era una delle giornate più buie che la mia memoria possa ricordare. Poche volte avevo visto un cielo così scuro, realmente tendente al nero. Pioveva, ma era neve sciolta. Tempo mezza giornata e la neve avrebbe anche iniziato a posarsi, poco ma sicuro. In barba a quel qualcuno che una volta ebbe il coraggio di dirmi che col passare del tempo e l’allargarsi del buco nell’ozono, il leggendario freddo di Montaldo era andato scemando. L’aria era carica di umidità e il freddo penetrava nelle ossa. Se in paese commettevi l’errore di lasciare qualche centimetro di pelle esposta al vento, avevi come la sensazione che un centinaio di spilli aguzzi ti perforassero la carne. Mi alzai dalla sedia e andai in bagno a sciacquarmi la faccia: la mia immagine allo specchio mi spaventò. Avevo gli occhi rossi e due grosse borse sotto le palpebre. Ero anche un po’ pallido. Aprii il rubinetto dell’acqua fredda, ghiacciata, e cercai di lavar via le residue tracce di sonno dal mio volto. Poi mi buttai sotto la doccia. Alle nove e trenta ero fuori casa di zio Pasquale, che mi invitò a entrare. «Sei in partenza?», mi chiese invitandomi a entrare in casa. «No, zio. Non ancora. Mi sa che rimando. Sono successi dei casini», risposi mentre mi accomodavo sulla poltrona di fronte a lui, che era vicino alla stufa. Il tepore del fuoco riscaldava buona parte della casa. «Giovanni e Paolo sono scomparsi. Svaniti. Nel nulla.» «Matteo, che diavolo stai dicendo?»

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«Sono partiti da qui ieri alle tre e Giovanni non è ancora tornato a casa. Mi ha avvisato Daniela. Hanno tutti e due il telefonino spento. Non riesco a rintracciarli.» «Sì, ma questo non significa…», iniziò, ma lo interruppi quasi subito. «Aspetta, zio. Non è tutto.» E raccontai di quello che era successo nella cappella Cantore senza tralasciare nulla. Il libro, le lapidi, quegli strani incubi che mi stavano tormentando. E quella lista di nomi che avevo scritto sul mio taccuino... Zio Pasquale mi stupì. Dalla sua faccia, era come se tutto quello che gli stessi dicendo non lo ascoltasse per la prima volta. Finito il mio racconto, scosse il capo. «Non posso crederci», rispose dopo qualche attimo di silenzio. Ci fu un lampo, cui seguì un tuono, l’ennesimo, ma meno potente dei due che mi avevano svegliato. «La storia si ripete.» Non ero sicurissimo di quello che avesse detto, perché sembrava aver parlato più a sé stesso che rivolto a me. Lo guardai con insistenza, ma il suo sguardo si era perso nel vuoto. Era come se si fosse stranito, come se ci fosse solo lui, in quella stanza. Ma poi tornò lì, presente, e qualche istante dopo mi guardò. «In cosa consiste questo elenco di nomi?» «È strano, zio. Ce ne sono sette, con tanto di date e luoghi di nascita e di morte. L’elenco inizia proprio con l’ingegner Cantore. Ma la cosa più spaventosa, che mi ha lasciato di stucco, è che...» «C'è anche Zio Gabriele.» Quelle parole mi agghiacciarono. Rimasi senza dire nulla per qualche secondo. «E tu come fai…» «È una storia vecchia, Matteo. Vecchia. Credevo che fosse morta e sepolta. Ma non è così. Evidentemente, il paese è più vivo che mai. Più vivo e possessivo che mai.»

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Capitolo 3 I conti non tornano

1 Zio Gabriele era morto a Buenos Aires l’1 luglio del 1980 e non a Montaldo l’1 giugno, come invece avevo trovato scritto sul mio block-notes. Fu la prima cosa che zio Pasquale notò leggendo attentamente l’elenco dei nomi. Ma chi mi aveva dato quelle informazioni? E poi, c’era qualcos’altro che non andava, ma me ne sarei reso conto soltanto più tardi, quando sarei sceso di nuovo al cimitero. È una storia vecchia, Matteo. Vecchia. Credevo che fosse morta e sepolta. Ma non è così. Evidentemente, il paese è più vivo che mai. Più vivo e possessivo che mai. Quelle parole mi frullavano nella testa. Che cosa volevano significare? «Ricordo benissimo quando morì zio Gabriele», sussurrò zio Pasquale. «Era tornato a Montaldo dopo dieci anni e neanche un mese dopo ci giunse il telegramma dall’Argentina, che c’informava di un infarto fulminante...» «Aspetta aspetta, zio! Quindi era venuto qui?» «Esatto. Non ricordo precisamente quando, ma era poco prima che morisse. Tuo padre andò a prenderlo all’aeroporto di Roma e poi veniste qui insieme. C’eri pure tu, solo che eri ancora un bambino e forse non lo ricorderai. Tua zia Linda fu felicissima, perché non lo vedeva da vent’anni.» Mi raccontò che la brutta notizia colse tutti di sorpresa perché, quando l’avevano visto, era in gran forma. Aveva passato tre settimane a Montaldo, durante le quali aveva anche praticato delle escursioni e delle lunghe camminate. E poi, diavolo, aveva sessantatré anni! La cosa continuava a non piacermi e anzi, se possibile, mi spaventava ancora di più. Dunque, zio Gabriele era morto del tutto inaspettatamente. È pur vero che spesso la morte preferisce arrivare di punto in bianco, ma in quella circostanza tutte le cose che accadono di

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solito erano da prendere con le molle. Perché quella non era una situazione normale, non lo era affatto. Paolo e Giovanni si trovavano chissà dove e non c’era tempo per le riflessioni, pensai. Bisognava darsi da fare. Cercare di comporre quel puzzle prima possibile. «Zio, che volevi dire prima, quando hai detto “la storia si ripete”?» È una storia vecchia, Matteo! Mi guardò per qualche istante, indeciso sul da farsi. Poi scosse la testa in un gesto sconsolato. «Non posso, Matteo. Non ne posso parlare. Sarebbe un guaio, credimi. Non so cosa potrebbe succedere. Però posso guidarti. Posso darti delle dritte.» Credevo che fosse morta e sepolta… «Che significa che non puoi parlarne? Zio, che cosa sai?» Il mio tono cominciava a farsi più insistente e, forse, sempre meno paziente. Mi sembrava di avere una clessidra nel cervello. Il paese è più vivo che mai. Più vivo e possessivo che mai. «Matteo, capirai. Ti indirizzerò come meglio posso, ma dovrai muoverti da solo. E non c’è molto tempo…» «Non c’è molto tempo per cosa?», insistetti. Dovevo sapere. Più vivo e possessivo che mai. «Lo sai bene per cosa», ribadì alzando leggermente il tono di voce. Il suo sguardo era grave. «C’è una scadenza imminente e siamo al dieci marzo…» Alludeva alle lapidi di Paolo e Giò, questo lo sapevo. Però volevo che mi dicesse qualcosa in più. «Come mi suggerisci di muovermi? Per prima cosa, ho pensato di chiamare Daniela e dirle di venire. Ieri voleva andare alla polizia. Ci andremo insieme.» Zio Pasquale assentì con la testa, lentamente. Sembrava si stesse muovendo su un campo minato. Probabilmente era proprio così. «Prima, però, ho qualcosa per te», sussurrò. Si alzò dalla poltrona e andò alla parete vicino alla porta d’ingresso. Lì c’era la casetta delle chiavi. Si chiamava proprio così. Era una piccola bacheca a forma di casa con tanti piccoli ganci su cui erano sistemati tanti portachiavi di diverso colore. Ne estrasse uno e me lo porse. «Queste sono le chiavi del mio garage. C’è un mucchio di giornali vecchi, vecchi ma ben conservati. Sono due, quelli che possono interessarti. Uno parla proprio di quel libro, Le leggende di Montaldo, mentre l’altro, se non ricordo male, fa il punto della situazione. Ci sono cose molto interessanti, là dentro. Li ho conservati perché temevo che

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prima o poi sarebbero serviti a qualcosa. Quelli che ti interessano sono proprio i primi due.» «Dove sono?» «Nella vetrinetta più grande, quella vicino al vecchio televisore con la crepa nello schermo. Ah, ti suggerisco anche di rintracciare il giornalista che se n’è occupato. Te lo ricordi, Mattè? Ti era così simpatico. E tu stavi simpatico a lui. Era un tizio davvero in gamba.» «Io l’ho conosciuto?» «Eri piccolo», continuò zio. «Avevi sette anni» Scossi la testa. Non ricordavo. Non ne posso parlare. Sarebbe un guaio, credimi. Non so cosa potrebbe succedere. Il paese è più vivo e possessivo che mai. Guardai zio Pasquale cercando di leggergli dentro, ma non ci riuscii. Non poteva parlare: per quale motivo? Perché ogni volta che sembravo aver compiuto un passo in avanti, avevo quella sgradevole sensazione che in realtà ne stessi facendo due indietro? Non riuscii a spiegarmi neanche quello, ma sapevo che dovevo rimettermi in marcia. Salutai lo zio e mi immersi in quella grigia e gelida giornata. Corso Roma era deserto ed era chiuso anche il bar di Guido: il giovedì era il suo giorno di ferie. Mentre mi avviavo al garage di zio Pasquale, telefonai a Daniela. Mi rispose al secondo squillo. Le dissi che non avevo notizie né di Giovanni né di Paolo e quella, già di per sé, era una cattiva notizia. Ma non bisognava farsi prendere dal panico. Le chiesi di raggiungermi in auto a Montaldo, ma mi disse che non poteva. Sarebbe andata da sola alla stazione dei carabinieri di Ludigo. Considerate anche le condizioni meteorologiche, convenni che forse era l’idea migliore. «Teniamoci in contatto», suggerii, «e se ci sono novità, fammi sapere.» «È logico», rispose lei. Mi chiesi come mai non mi avesse chiamato lei per prima, non ancora almeno. Probabilmente aveva provato a farlo, ma il mio telefono non aveva campo. Ci salutammo e riattaccò. Il tempo stringeva, aveva detto zio Pasquale. Bisognava darsi una mossa, così mi affrettai a raggiungere il garage. Ragnatele in quantità industriale, ammassi di riviste automobilistiche e una montagna di roba già pronta per il rigattiere. Era una vita che non ci mettevo il naso, lì dentro, e forse ne sarebbe trascorsa un’altra prima che ci sarei tornato, ma in quel momento mi sarebbe servita una gran

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forza di volontà. Iniziai a farmi largo in mezzo a tutto quel ciarpame e, a fatica, riuscii a spostare il primo ammasso di cianfrusaglie. La vetrinetta era in bella mostra, a poca distanza dal bancone degli attrezzi dove c’era il televisore fuori uso. I giornali erano lì, sistemati con cura e tenuti insieme da uno spago. Presi un taglierino dal mobile degli utensili e recisi il filo. C’erano circa una cinquantina di giornali, uno sull’altro. Come aveva detto zio, erano proprio i primi due quelli di cui avevo bisogno. Il primo era datato 1970. In prima pagina non c’erano riferimenti a Montaldo. È normale, pensai. A chi può interessare un paesino di settecento anime? Iniziai a sfogliarlo e mi bloccai a pagina dieci. L’articolo era lì, nella sezione Cultura, sistemato in pancia, proprio subito sotto il pezzo d’apertura. Il titolo recitava:

MONTALDO, RITROVAMENTO PREZIOSO: PORTATO ALLA LUCE UN LIBRO DEL 1600

Questo il testo: “Ritrovato a Montaldo, piccolo paese dell’entroterra irpino, a pochi passi dalla Puglia, un manuale molto antico. Le leggende di Montaldo, questo il titolo inciso a caratteri d’oro sulla copertina cartonata di color rosso scuro. Un volume massiccio, di oltre duemila pagine, simile a quei vecchi dizionari di latino, rinvenuto per caso dal signor Antonio Ranalli, custode del cimitero del paese. Il signor Ranalli ha dichiarato di aver trovato il manuale all’interno dell’ossario del camposanto e di averlo subito portato al municipio, dove il sindaco, signor Vito De Luca, provvederà a farlo catalogare e inserire nella biblioteca comunale. Il voluminoso manuale, che secondo una prima stima risalirebbe ai primi del Seicento, come da titolo raccoglie diverse leggende del paese, in italiano antico. Non solo: vi sono anche delle righe scritte in latino, ma si tratta di pochi versi.” L’articolo non era firmato. C’era anche una foto del libro, ma ormai avevo imparato a riconoscerlo. Rilessi la data del giornale: 10 luglio 1970. Aprii il block-notes e consultai l’elenco: Antonio Ranalli era il secondo nome in lista. Data di morte, 4 agosto ’70 a Montaldo. Antonio Ranalli, probabilmente qualche antenato di Paolo, aveva ritrovato il Manuale delle leggende di Montaldo e, dopo poco più di un mese, era passato a miglior vita. A cinquantun anni…

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Richiusi con cura quel giornale e passai al secondo. E per poco non mi prese un colpo. Quella prima pagina l’avevo già vista. E ricordavo tutto nei minimi particolari.

2 La prima cosa che mi colpisce è la sua scrittura, così precisa e ordinata. E poi, scrive con una penna stilografica: come diavolo fa a non sporcarsi le mani? E poi, quel block notes coi fogli a righi… Mi piace! Lo voglio anch’io! Lì sì che dev’essere bello fare i temi! Non come quegli odiosi quadernoni che ci fa usare la maestra Anna. Su un blocco come quello sarei capace anche io di scrivere un articolo! «Sono Sandro De Sisti, un giornalista di Avellino Notizie. Posso disturbarla per qualche minuto?», ha detto quando zio Pasquale gli ha aperto la porta. Ha suonato al campanello, si è presentato e zio l’ha fatto entrare. Un giornalista! Non ne ho mai visto uno. Allora vuol dire che zio Pasquale è importante! Ora gli fa una… come si chiama… un’interrogazione! «Si accomodi», dice zio indicandogli la poltrona di fronte alla sua. «Questo è mio nipote Matteo. Ha solo sette anni, ma è già un bambino grande!» «Ciao, Matteo», dice lui sorridendomi. E aspetta la mia risposta. «Ciao, giornalista!», gli dico con un sorriso a trentadue denti. Lui ride. «Chiamami Sandro», risponde. «Ciao Sandro.» Mi dà la mano, come si fa tra uomini, e poi si siede nella poltrona che gli ha indicato zio. Intanto, zia Linda è andata a preparare il caffé. Io voglio il succo di frutta alla pesca. Vado in cucina, apro il frigo, prendo una scatola e ci infilo la cannuccia. Poi torno in soggiorno. Questo giornalista, Sandro, è proprio forte! È un simpatico signore coi capelli bianchi e i baffi grigi. Ha una bella voce chiara, ma quando inizia a parlare, però, la faccia di zio Pasquale cambia un po’. Zio

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diventa più triste… no, forse non è triste. È pensieroso. Ma è normale, il giornalista lo sta interrogando e lui deve rispondere bene. Non può dire le prime cose che gli vengono in testa. Ci deve pensare un po’! E poi, Sandro è bravo a fare le domande, non come la maestra Anna che ti fa quasi spaventare. Parla con calma, ti fa stare tranquillo. Quasi quasi, gli chiedo se l’esame di quinta viene a farmelo lui, a scuola! Per poco non mi viene da ridere, a questa idea, ma per fortuna riesco a trattenermi. Ormai sono grande, non posso disturbarli. Stanno parlando di un quadro, ma non ho capito bene. Zio Pasquale ha tanti quadri, in soggiorno. Ce n’è uno bellissimo dov’è rappresentato Montaldo con la neve. È uno dei miei preferiti. Ma non stanno parlando di quello. «Dove si trova questo ritratto?», chiede il giornalista Sandro. «Al cimitero», dice zio. Al cimitero ci sono i quadri? E che cosa raffigurano, le tombe? Gli scheletri, forse! Sì, gli scheletri! I morti! «E secondo lei, quanto c’è di vero in quello che si racconta?» Il giornalista fa un sacco di domande, ma secondo me non sono difficili. E poi zio è bravo, risponde sempre. Sta facendo un’interrogazione splendida! Non credo che gli metta il voto, ma se glielo metterà sicuramente sarà ottimo! «Ho sentito anche io questa storia, e di certo si tratta di una leggenda. Ma qui in paese le voci…» «Che voci?» Proprio adesso, arriva zia Linda con un vassoietto d’argento con due tazzine e la zuccheriera. Posa il vassoio sul tavolo e torna in cucina. Mi chiede se voglio andare con lei, se magari ho voglia di una merendina. Le dico di no, grazie, voglio restare qui a sentire. È interessante, zia. «Voci di popolo», riprende zio Pasquale. «Sono voci di fantasia. Ma le voci, in certi posti, valgono più di un documento scritto. Per quanto assurde possano sembrare, sono proprio le voci che non solo costruiscono, ma danno concretezza alle storie di paese. Da qualche giorno qui Montaldo sono iniziate a circolare strane voci sul quadro. Si parla di misteriose morti che avrebbero a che fare con esso e con un vecchio libro, Le leggende di Montaldo.» «Le leggende di Montaldo? Di che si tratta?» Intanto, mentre lui scrive e fa domande, io mi avvicino. Voglio guardare come scrive. Sa usare la penna stilografica. E poi ha quel block notes stupendo! Mi guarda un attimo e poi mi fa un po’ di spazio. Non ti do fastidio, promesso.

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«È un librone di oltre duemila pagine», dice zio, «risalente agli inizi del Seicento. Sembra che sia anche molto prezioso. È stato ritrovato dal vecchio custode del cimitero. Antonio Ranalli, si chiamava. Dico ‘si chiamava’ perché è morto di infarto qualche giorno dopo il ritrovamento. Anche questo, ovviamente, ha alimentato le voci. Sa come vanno queste cose nei piccoli paesi… Il libro doveva essere portato al Municipio e catalogato, ma è rimasto al cimitero. Nessuno vuole averci a che fare. A ogni modo, queste voci si sono rafforzate ancor di più dopo la morte di Giorgio Martini. È successo a marzo, il tre, se non ricordo male. Si dice che sia stato nella cappella Cantore e abbia letto il libro Le leggende di Montaldo. Morto a causa del libro. È così che dicono le voci.» «E com’è morto, questo signor… Martini? Infarto anche lui?» «Incidente stradale. I più fantasiosi hanno addirittura pensato si tratti di omicidio: in effetti, qualcosa di strano c’è stato perché, stando alla perizia, i freni della sua auto sono stati manomessi.» A un certo punto, sia il giornalista che zio Pasquale si alzano. Si stringono la mano. Tutti e due sorridono. «Signor De Vita, è stato gentilissimo. Non so come ringraziarla», dice Sandro. Zio Pasquale fa un gesto con la mano e poi risponde: «Ma non si azzardi minimamente a ringraziarmi!», esclama. «È stato un piacere. Anzi, se può servirle, si faccia un giretto anche al cimitero. E al municipio. Può trovare sicuramente qualcosa di interessante. Questa storia è strana, molto strana, ma a volte credere alle voci di paese è solo una perdita di tempo.» Oggi il signor Sandro ha chiamato a casa di zio Pasquale. Zia Linda sta preparando il pranzo, zio è giù in garage e io sto finendo un disegno. Sono in soggiorno e il telefono è proprio dietro di me, sul mobile dove stanno anche i miei fumetti. Squilla due volte e io rispondo. «Pronto, casa De Vita.» «Buongiorno. Sei Matteo?», dice la voce al telefono. «Sì, e tu?» «Ciao Matteo, sono Sandro. Ricordi? Il giornalista.» «Ciao giornalista Sandro! Vuoi zio Pasquale?» Sì, vuole zio Pasquale. Lo chiamo e lui sale di corsa. Parlano un po’, poi zio riattacca il telefono e mi chiede di andare a comprare il giornale. Mi dà mille lire e io esco di casa, ma zio mi richiama. Mi dà

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altre cinquanta lire e mi dice di comprarmi anche un chewing gum. Lo ringrazio. Devo andare al market di via Salgari. C’è un bel sole, stamattina. Corso Roma non è molto affollato ma a piazza Verdi c’è il mercato. C’è ogni settimana, il giovedì mattina. Zia Linda è tornata da poco. È bello, il mercato. C’è sempre gente e ci sono le bancarelle. Peccato che Giovanni non ci sia. È al mare con i genitori. Torna la settimana prossima. Io senza di lui mi scoccio, e quindi non esco. Vado al market, compro il giornale e il chewing gum e poi passo al parco giochi. È quasi vuoto. Ci sono i bambini piccoli che giocano sulle giostre e ci sono anche Pasquale De Stefano e Antonio Moresco che giocano con le figurine. Pasquale ne ha molte di più. Li saluto, loro mi chiedono di fermarmi un po’ ma io rispondo che non posso. «Devo portare il giornale a zio Pasquale», dico. «Ci vediamo oggi pomeriggio in piazza, così giochiamo a guardie e ladri.» Li saluto di nuovo e me ne vado. Quando arrivo a casa di zio, gli do il giornale e lui lo sfoglia. «Zio, ma il giornalista l’ha scritta l’interrogazione?» Lui ride. «Si chiama intervista, Matteo. L’interrogazione la fanno a scuola.» «Ah. Ma quindi il giornalista non sta a scuola?» Zio ride di nuovo. «Ma no! Il giornalista scrive sul giornale. E il giornalista di ieri ha scritto le cose che gli ho detto io. Guarda», mi dice e mi mostra una pagina. «Leggi qui, il titolo grande.» «“La Cappella Cantore e il quadro che cattura”. Ma di che si parla?» «Delle leggende e delle storie di fantasia che si raccontano in questo paese. Ma sono solo cose inventate, Matteo. Non c’è niente di vero.» «Adesso, però», interviene zia Linda, «andate a lavarvi le mani. È pronto.»

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3 LA CAPPELLA CANTORE E IL QUADRO CHE CATTURA di Sandro De Sisti “Questa è la storia di un quadro particolare, la storia di una leggenda che acquista, con gli anni, sempre più credibilità. Siamo a Montaldo, uno dei più piccoli comuni della tranquilla Irpinia. Protagonista è Leonardo Cantore, un ingegnere edile morto nel lontano 1885 a Boston ma montaldese di origini. I suoi resti sono sepolti al cimitero comunale del paese, dov’è collocato anche un suo ritratto, un grande dipinto a olio custodito in una cornice pregiata riparata da un vetro. Il quadro si trova precisamente all’interno della cappella Cantore, a poca distanza dalla lapide. Da qualche giorno a Montaldo cominciano a circolare strane voci su una vecchia leggenda che ha come protagonista proprio il personaggio rappresentato nel quadro. Si parla di strane morti che avrebbero a che fare con il dipinto e, in particolar modo, con un vecchio libro, Le leggende di Montaldo. Il volume, di oltre duemila pagine, sarebbe stato rinvenuto nell’ossario del cimitero dal signor Antonio Ranalli, morto qualche giorno dopo il ritrovamento, in seguito a un infarto. Le credenze della gente si sarebbero rafforzate dopo l’ultima, misteriosa morte avvenuta il tre marzo di quest’anno. Giorgio Mauro Martini, questo il nome dell’ultima persona scomparsa, in ordine di tempo, dopo essere stato nella cappella Cantore e aver preso visione del volume Le leggende di Montaldo. L’uomo è morto in seguito a incidente stradale e qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si sia trattato addirittura di omicidio: i freni della sua auto, infatti, secondo una perizia sarebbero stati manomessi. Eppure, qualche giorno dopo il medico legale ha detto che il suo cuore si era già fermato prima dello schianto. Non solo: secondo fonti non ufficiali, sarebbe l’ultimo di sei persone: a ritroso nel tempo, Gabriele Parisi (1980), Luigi Sacco (1975), Giuseppe Moresco (1973) e Pietro Anselmi (1971). Tutti, strano a dirsi, morti per infarto. Leggende, credenze e coincidenze. Voci di popolo e storie vecchie che il tempo non sembra aver cancellato. Quanto ci sia di vero in tutto questo, nessuno può dirlo. Di certo, la bellezza antica del quadro è tale da indurre chiunque a costruirvi intorno trame oscure e fantasticherie d’ogni genere. Parole. Pensieri che restano nell’immaginario collettivo senza possibilità alcuna di verifica. Leggende, appunto. Come quella

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citate nel voluminoso librone ritrovato dal signor Antonio Ranalli, pace all’anima sua: puoi provare a lasciare il paese, ma è il paese che non lascerà mai te… Come se lasciare Montaldo fosse quasi una maledizione…” L’articolo era datato 22 luglio 1982. Era un assolato giovedì di luglio. Un giovedì in cui c’era il mercato in piazza, a Montaldo, e un bimbetto di sette anni andava a comprare una copia di quel giornale a suo zio. Già, quell’articolo lo ricordavo alla perfezione. Lo leggemmo dopo pranzo. Zio Pasquale aveva avuto appena il tempo di spiegarmi qualcosa a riguardo, quando zia Linda ci aveva detto che era pronto in tavola. In un certo senso, quell’articolo lo avevo visto nascere. Come avevo potuto dimenticare anche quell’episodio? Il 1982 era l’anno che, sull’elenco, segnava il decesso di Giorgio Mauro Martini. Di fatto, l’anno in cui si erano concluse le morti riportate nella lista sul mio taccuino. Di spalla al pezzo, in un trafiletto dal titolo Chi era Leonardo Cantore, vi erano riportate alcune informazioni biografiche dell’ingegnere. “Leonardo Cantore, ingegnere edile, nacque a Boston l’8 ottobre 1850. Di famiglia ricca, ha portato a termine i suoi studi in breve tempo e si è dedicato alla sua passione di sempre, l’ingegneria. Dopo un lungo viaggio in Europa, finalmente nel 1885 riesce a coronare il suo sogno: visitare Montaldo, il piccolo paese irpino che ha dato i natali ai suoi antenati. Eppure, non dev’essere stato un viaggio particolarmente fortunato, per lui. Dopo neanche un mese, tornato a Boston, il suo cuore si è fermato. E aveva solo trentacinque anni.” Annotai sul taccuino il nome di De Sisti e, quando andai via, portai con me i due giornali. Avrei dovuto fotocopiare quei due articoli, per cui li portai a casa ed effettuai quell’operazione con la multifunzione che avevo preso qualche mese prima. Fatto ciò, riportai le due copie al garage e passai nuovamente da zio Pasquale a restituirgli le chiavi. Stranamente, non rispose. Suonai tre volte il campanello, dopodichè tornai a casa. Forse era uscito. Io intanto avevo un compito urgente da portare a termine: rintracciare Sandro De Sisti.

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4 Avrei potuto telefonare subito alla redazione di Avellino Notizie, ma sapevo benissimo che prima di mezzogiorno e mezzo non avrei trovato nessuno in redazione. Così funziona, nei giornali: i redattori si presentano mediamente dopo mezzogiorno e, dopo una rapida rassegna stampa cartacea e sul web e le varie telefonate ai collaboratori, si ritrovano tutti insieme nella riunione di redazione, intorno all’una e mezzo. Dalle tre in poi, pausa pranzo. Si rientra alle quattro e si scelgono i master delle pagine da modificare oppure le si disegnano a mano sul menabò. Il tutto viene poi consegnato ai grafici, che le realizzano e le inseriscono nel sistema computerizzato, su cui poi si può effettivamente lavorare. Solitamente, è così che si procede. Alle undici del mattino, quindi, avrei trovato forse soltanto il segretario di redazione. Avevo ancora un’oretta a disposizione e decisi di scendere giù al cimitero, anche quella volta praticamente deserto. Il cielo scuro e gonfio di pioggia e la pesante umidità conferivano a quel luogo una spettralità ancor maggiore. Senza indugiare, spalancai la porta della cappella e controllai che ci fossero ancora le due lapidi. Erano sparite. Come temevo. Avevo avuto come un presentimento, ma speravo di sbagliarmi. E invece, le lapidi davvero non c’erano più. Mi guardai intorno spaesato, cercando di non perdere neanche il più piccolo dei particolari, là dentro. Le lapidi, però, non c’erano. Svanite nel nulla. La parete di fianco alla porta era uguale alle altre, spoglia e vuota e sporca. Tornai allora a concentrarmi sul quadro: da dietro il vetro di protezione della cornice, Leonardo Cantore mi guardava coi suoi occhi spettrali, quelli con cui riusciva a intimorire noi ragazzi perché sembrava che ti fissassero in qualunque posizione tu ti trovassi. Forse era semplicemente suggestione. Anzi, probabilmente lo era davvero. Eppure, anche quella mattina dell’undici marzo 2005, quella scura e gelida mattina dell’undici marzo, ebbi la medesima sensazione. Cantore mi guardava. E, in un certo senso, era come se si prendesse gioco di me. Non ci riuscirai!, sembrava volesse dirmi. Non mi fermerai! Non li troverai mai! «Vedremo», risposi ricambiando lo sguardo di sfida e ringraziando che non ci fosse nessuno là fuori. Guardandolo con attenzione, devo ammettere che quel quadro era davvero molto bello. Un po’ troppo scuro, forse, cupo, ma davvero ben fatto. Mi domandai chi potesse

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averlo realizzato, dato che era privo di firma. Era un dipinto a olio e raffigurava l'ingegnere in un elegante completo blu scuro con camicia bianca e cravatta. Quando era stato raffigurato, doveva essere all’incirca sulla trentina, coi capelli molto corti e la faccia liscia. Era un uomo molto grosso fisicamente, almeno uno e novanta, con spalle molto larghe. Se non altro, era quello che ricavavo dal ritratto. Spostai poi per un attimo lo sguardo sulla foto incastonata nell’ovale della lapide: la somiglianza era impressionante. Però c’era qualcosa che non tornava. C’era qualcosa che non andava affatto.

ING. LEONARDO CANTORE BOSTON, 08-10-1850 BOSTON, 01-12-1885

Questo vi era scritto sul marmo. Guardai le altre lapidi, su cui non era inciso né il luogo di nascita né quello di morte. La cosa non mi sorprese più di tanto, perché in quel caso era stata la famiglia a volerlo. Sulla lapide di nonno Matteo c’erano solo le date. Eppure, la cosa mi suonava strana, storta. Qualcosa non andava. Avevo portato con me le fotocopie dei due articoli: tra i due, scelsi quello in cui si parlava di Cantore e rilessi il trafiletto. “Dopo neanche un mese, tornato a Boston, il suo cuore si è fermato. E aveva solo trentacinque anni.” La cosa filava: era nato a Boston nel 1850 e lì vi era morto trentacinque anni dopo, esattamente il primo dicembre. Così, ripiegai la pagina fotocopiata e feci per riporla all’interno del mio taccuino. Aprii proprio dove c'era l'elenco dei nomi e… ecco cosa non quadrava! Finalmente c’ero arrivato! Bingo! Ci avevo visto giusto. “Ing. Leonardo Cantore, nato a Boston l’8 ottobre 1850 e morto a Montaldo il primo novembre 1885”. Così era scritto sull’elenco, mentre la lapide raccontava che l’ingegnere era morto a Boston il primo dicembre di quell’anno. Dunque, non erano sbagliati solo la data e il luogo di morte di zio Gabriele. Secondo l’elenco, Montaldo era il luogo di morte di tutti. E poi, in entrambi i casi, la lista anticipava di un mese la data del decesso. Perché? Per quale dannatissimo motivo? Ecco un nuovo interrogativo che andava ad aggiungersi ai tanti altri che avevo collezionato fino a quel momento.

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Il telefono squillò tre volte, prima che una voce mi rispondesse, forte e asciutta: «Avellino Notizie, buongiorno.» Erano le dodici e un quarto e per fortuna avevo trovato qualcuno, in redazione. Spiegai che ero un collega del quotidiano Dimensione Città e che desideravo parlare urgentemente col collega Sandro De Sisti. «Il dottor De Sisti non è più con noi», mi spiegò la voce. Iniziai seriamente a preoccuparmi e a pensare che fosse morto. Per fortuna, la persona all'altro capo del telefono aggiunse: «È andato in pensione.» Tirai un sospiro di sollievo. Che ottimista! Avrei dovuto ricordarmi di consigliare a Sandro De Sisti un bel gesto scaramantico, quando e se fossi riuscito a incontrarlo. «E non c’è modo di contattarlo? È una faccenda di estrema importanza.» «Come ha detto di chiamarsi?» «Sono Matteo Parisi, capo-cronista di Dimensione Città. Può controllare. Il numero della redazione è 081…» «Okay, okay», m’interruppe. «Deve scusarmi. Ma vede, non è che posso dare un numero di telefono così, al primo che telefona. Non volevo essere scortese.» «Si figuri», ribattei. «Capisco perfettamente. È solo che ho letto un articolo del dottor De Sisti, un articolo datato 1982, che racconta di una vecchia storia di Montaldo, il paese di cui sono originario. Si parla di leggende e cose del genere, una storia di cui vorrei discutere con lui.» «Okay», annuì la voce. «Le do il numero di casa.» Lo annotai sul mio block-notes, dopodichè ringraziai la voce e riagganciai. Composi il numero col mio telefonino e dovetti attendere cinque squilli prima che una voce catarrosa rispondesse. Mi presentai fornendo il mio nome e qualificandomi come un collega di Napoli. Subito dopo, oltre a scusarmi per il disturbo, gli spiegai il motivo per cui avevo telefonato. «Dottor De Sisti, sono Matteo Parisi. Forse il nome non le dirà niente, ma sono di Montaldo. Ho letto un suo articolo del 1982 dal titolo La Cappella Cantore e il quadro che cattura. Mi è capitato tra le mani stamattina. Quando lo scrisse, venne a fare visita a mio zio Pasquale...» «Ma certo che ricordo!», m’interruppe. «Hai detto Matteo? Tu sei il piccolo Matteo?»

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Rimasi sconvolto a quelle parole. Dopo vent’anni, Sandro De Sisti si ricordava ancora del piccolo Matteo! Sorrisi. All’inizio, quando zio me ne aveva parlato, non mi era venuto in mente. Ma appena ebbi visto il giornale col titolo dell’articolo, il ricordo di vent’anni prima mi investì in pieno. Travolto come un uragano. Annuii. «Già, sono io. Solo che non sono più tanto piccolo...» «E sei diventato anche tu un giornalista? Questa è una bella notizia! A ogni modo... quella di Montaldo è una storia molto particolare. Non possiamo parlarne qui, a telefono. Assolutamente no. È meglio se ci vediamo, Matteo. Puoi raggiungermi? Verrei io, ma sai, col passare degli anni...» «Ma non lo dica neanche!», esclamai. «Anzi, già non so come ringraziarla per la disponibilità! Mi dica solo dove e quando.» «Oggi stesso, Matteo. Ti aspetto alle tre e mezza, a casa. Abito ad Avellino centro, in via Conte Piromallo 18. Sai dov’è?» «Certo, si figuri. Allora ci vediamo oggi pomeriggio. È molto gentile, da parte sua, dottor De Sisti. Davvero.» «Sarò felicissimo di aiutarti. A più tardi.» Ma certo che ricordo! Matteo? Tu sei il piccolo Matteo? È incredibile come certe cose restino impresse nella memoria...

6 Daniela era rincasata da poco. Aveva cercato di sporgere denuncia alla stazione dei Carabinieri di Ludigo, ma le avevano spiegato che prima delle quarantott’ore di rito non era possibile. Per quanto la cosa l'avesse innervosita, lo sapeva anche lei già prima di metter piede nella caserma. Avevo telefonato già una volta, dieci minuti prima, ma non c’era nessuno. Stavolta rispose al secondo squillo. Mi chiese se avessi novità. «Ho scoperto alcune cose molto interessanti, ma ne parleremo di persona. Prepara i bagagli, vieni a stare qui per qualche notte. Vengo a prenderti verso le tre meno un quarto. Fatti trovare in piazza. Andiamo ad Avellino.»

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«Ma che diavolo sta succedendo, Matteo? Dov'è Giò?» «Dani, non posso parlare per telefono. Ma stà tranquilla, lo troveremo. Ora però vai a prepararti. Ho bisogno anche di te.» «Okay», rispose con voce ancor più nervosa. Meglio di niente. «Mi raccomando, puntuale.» La salutai e andai a sciacquarmi la faccia. Era l’una e avevo fame. Presi tre hamburger dal freezer e li misi nella padella. All’una e mezzo li avevo divorati, ma la fame non era passata. Decisi allora di prepararmi due uova in padella con quattro wurstell ad accompagnare. Alle due il mio stomaco finalmente iniziava a dare segni di stabilità. Prima di uscire di casa, bevvi mezza bottiglietta di caffè freddo e mangiai l’ultima fetta di torta gelato rimasta in freezer. Avevo ancora qualche minuto, così raccolsi tutto il materiale lo sistemai con cura in una cartellina. A Sandro De Sisti avrei affidato il delicato compito di aiutarmi a interpretare quel materiale e mettere ordine in quel caos. CONTINUA...