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Il primo avvento di Cristo di Rinaldo Diprose 1 1 L’incarnazione: il più grande dei miracoli «Oh, squarciassi tu i cieli, e scendessi!» (Is 64:1) Un testimone oculare della risposta di Dio scrive: «La Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sa gloria, gloria come di unigenito dal Padre … Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere» (Gv 1:14,18). Introduzione L’incarnazione non solo è stata il più grande dei miracoli ma si tratta di un miracolo che durò per circa trentatre anni e produsse benedizioni permanenti per l’umanità. Infatti il primo capitolo del Nuovo Testamento fa sapere che l’incarnazione, oltre a costituire una rivelazione unica di Dio – «Dio con noi» – aveva come scopo primario un’opera di salvezza che soltanto Dio poteva compiere (Mt 1:20-21; Is 43:11; cfr. Sl 130:7-8). Quanto alla maniera in cui questo miracolo avvenne, nel giardino di Eden Dio aveva predetto che il serpente, cioè il diavolo, sarebbe stato schiacciato dalla progenie della donna, un riferimento velato all’incarnazione che esclude che ci sarebbe stato un contributo procreativo da parte di un uomo (Ge 3:15). Le parole dei profeti Simeone e Anna, nonché le numerose persone che «aspettavano la redenzione di Gerusalemme» testimoniano del fatto che quest’evento, nonostante la sua eccezionalità, era atteso dal popolo a cui Dio aveva affidato le sue rivelazioni (Lu 2:25-38; Ro 3:1-2). Intanto è proprio il miracolo dell’incarnazione che rende credibili tutti gli altri miracoli che costellavano la vita di Cristo. 1 Questo scritto riprende materiale pubblicato come parte della dispensa di Panorama di Nuovo Testamento 1, 1 Quattro Vangeli, di Rinaldo Diprose, ultima edizione 2008 (Istituto Biblico Evangelico Italiano, Roma). 1

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Christ's first coming (a study by Dr. DIPROSE)

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Il primo avvento di Cristodi Rinaldo Diprose1

1 L’incarnazione: il più grande dei miracoli

«Oh, squarciassi tu i cieli, e scendessi!» (Is 64:1)

Un testimone oculare della risposta di Dio scrive: «La Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sa gloria, gloria come di unigenito dal Padre … Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere» (Gv 1:14,18).

Introduzione

L’incarnazione non solo è stata il più grande dei miracoli ma si tratta di un miracolo che durò per circa trentatre anni e produsse benedizioni permanenti per l’umanità. Infatti il primo capitolo del Nuovo Testamento fa sapere che l’incarnazione, oltre a costituire una rivelazione unica di Dio – «Dio con noi» – aveva come scopo primario un’opera di salvezza che soltanto Dio poteva compiere (Mt 1:20-21; Is 43:11; cfr. Sl 130:7-8). Quanto alla maniera in cui questo miracolo avvenne, nel giardino di Eden Dio aveva predetto che il serpente, cioè il diavolo, sarebbe stato schiacciato dalla progenie della donna, un riferimento velato all’incarnazione che esclude che ci sarebbe stato un contributo procreativo da parte di un uomo (Ge 3:15). Le parole dei profeti Simeone e Anna, nonché le numerose persone che «aspettavano la redenzione di Gerusalemme» testimoniano del fatto che quest’evento, nonostante la sua eccezionalità, era atteso dal popolo a cui Dio aveva affidato le sue rivelazioni (Lu 2:25-38; Ro 3:1-2). Intanto è proprio il miracolo dell’incarnazione che rende credibili tutti gli altri miracoli che costellavano la vita di Cristo.

Noi, che viviamo lontano nel tempo dalla venuta dell’Emmanuele, siamo benedetti di poter leggere il racconto di Matteo (1:18–2:23) e quello ancora più dettagliato di Luca (1:1–2:40). Quest’ultimo non si è limitato a narrare i fatti che avevano «avuto compimento»; ha fatto in modo che il lettore potesse conoscere la certezza di questi fatti, nonostante la loro eccezionalità. Ha fatto questo, tra l’altro, descrivendo con precisione il contesto storico generale in cui essi sono avvenuti (Lu 1:1-5; 2:1-7; 3:1-3). Così, qualche tempo dopo Paolo poteva contare sul fatto che persone come il re Agrippa erano a conoscenza dei fatti inerenti il compimento della salvezza (At 26:26).

Quando questo miracolo avvenne

1 Questo scritto riprende materiale pubblicato come parte della dispensa di Panorama di Nuovo Testamento 1, 1 Quattro Vangeli, di Rinaldo Diprose, ultima edizione 2008 (Istituto Biblico Evangelico Italiano, Roma).

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Il racconto di Luca parte da un dettaglio che potrebbe sembrare del tutto insignificante ma che, in realtà, ci permette di sapere in quale periodo dell’anno nasceva Gesù. Luca inizia il suo racconto dicendo che toccava a un sacerdote di nome Zaccaria servire nel tempio di Gerusalemme come parte del turno di Abiia (Lu 1:5). Quello di Abiia era l’ottavo turno, ciascuno di quindici giorni (1 Cr 24:1-10), calcolando dall’inizio dell’anno ebraico, il mese di Nisàn, il quale corrisponde al nostro marzo/aprile. In altre parole Zaccaria si trovava nel tempio grosso modo verso la fine di giugno quando l’angelo Gabriele gli apparve e gli disse: «la tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Giovanni» (Lu 1:10,13). In passato Zaccaria aveva pregato perché avessero un figlio ma ormai entrambi erano di età avanzata, per cui lì per lì egli rimase incredulo, nonostante l’angelo gli parlasse di un ministero profetico eccezionale che avrebbe avuto questo figlio. Di conseguenza l’angelo disse a Zaccaria che sarebbe rimasto muto fino alla nascita del bambino destinato a diventare il precursore del Messia (vv. 14-20).

Dopo il ritorno a casa di Zaccaria, sua moglie Elisabetta rimase incinta, dopodiché in concomitanza con il sesto mese della sua gravidanza, «l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea, chiamata Nazaret a una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria» (vv. 26-27). L’angelo Gabriele informò Maria che sarebbe rimasta incinta ad opera dello Spirito Santo, senza che lei conoscesse uomo. Lei rispose: «sia fatto secondo la tua parola», poi quando seppe di essere incinta, «si alzò e andò in fretta nella regione montuosa, in una città di Giuda, ed entrò in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta» (v. 28-39).

Questi dati ci permettono di dire che il concepimento ad opera dello Spirito Santo, ovvero il principio dell’incarnazione, avvenne grosso modo alla fine di dicembre o poco dopo. Infatti la nascita di Gesù avvenne in autunno, quando i pastori potevano stare fuori con le loro pecore di notte (2:8). Quanto all’anno in cui Gesù è nato, Matteo ci informa che «Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all’epoca del re Erode» (Mt 2:1). Seguì la visita «dei magi d’Oriente», che passarono da Erode, che in seguito avrebbe ordinato il triste massacro di bambini nel territorio di Betlemme, motivo per cui ci fu la fuga in Egitto di Giuseppe e Maria con Gesù bambino (2:1b-18). Sappiamo che Erode il grande morì dopo questi eventi, nell’anno che corrisponde al 4 a.C. secondo il nostro calendario, per cui possiamo datare la nascita di Gesù nell’autunno del 5 o 6 a.C., sempre secondo il nostro calendario.2

2 I censimenti ordinati da Cesare Augusto erano legati al suo programma di ingrandimento dell'impero romano e al suo proposito di mantenere l'ordine ovunque arrivasse il potere di Roma. Secondo la Nuova Riveduta il censimento a cui si fa riferimento in Luca 2:1-2 avvenne quando Quirinio aveva un incarico di governatore in Siria. Esiste un dubbio se si tratti di un censimento che ebbe luogo mentre egli ricopriva un incarico militare in Siria durante gli anni 6-4 a.C. o se la parola tradotta «primo» nella Nuova Riveduta non vada, invece, considerata come un avverbio di tempo con il senso di: «prima che Quirinio fosse governatore della Siria» (nel 6-9 d.C.). In ogni modo i dati forniti altrove da Luca, sia nel suo Vangelo (3:1-2, 23) sia nel libro degli Atti (At 5:37), confermano che il censimento che avvenne in concomitanza con la nascita di Gesù è da distinguersi da quello che avvenne negli anni 6-9 d.C. durante il periodo in cui Quirinio era il governatore politico della Siria. Il nostro calendario segue il calcolo errato di Dionigi fatto

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Non è un mito

Nonostante la concretezza della narrazione dei fatti a cui abbiamo attinto sopra, alcuni studiosi moderni definiscono questo racconto della nascita di Gesù una «leggenda personale» a scopo di edificazione.3 Il termine «leggenda» (cfr. il verbo «leggere») in genere definisce uno scritto, mentre il corrispondente racconto orale va sotto il nome di «mito» dal greco mythos, «bocca». Tale ridimensionamento dei racconti dei Vangeli di Matteo e Luca, implica che i dodici apostoli fossero dei creduloni oppure dei sognatori che, ripensando la vita di Gesù, diedero credito a delle leggende prive di fondamento storico.

In realtà i dodici apostoli, cresciuti nella scuola della sinagoga, non erano degli sprovveduti. Infatti furono proprio loro, ben consapevoli della categoria del mito, a escludere con forza che la loro testimonianza a Gesù si basasse su qualcosa del genere. Giovanni parla per tutto il collegio degli apostoli quando scrive: «Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata.) Quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra è comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1 Gv 1:1-3). Da parte sua Pietro insiste che ciò che gli apostoli affermavano lo dicevano in qualità di testimoni oculari. Ecco le sue parole: «Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole [gr. mythois] abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà» (2 P 1:15-16). Pietro cita come esempio della loro testimonianza oculare la presenza di alcuni di loro sul monte della trasfigurazione (vv. 17-18; cfr. Mt 17:1-13)

Secondo gli apostoli Dio e il soprannaturale avevano sostituito la normalità delle cose sul piano storico per produrre eventi oggettivamente veri e assolutamente necessari per la salvezza dell’umanità (si veda 1 Gv 4:10. A questo proposito ci si può chiedere: Quanto valore avrebbe un ponte «mitologico» per chi volesse passare da un lato all'altro di un profondo burrone? Similmente non avrebbe alcun valore un vangelo che promettesse la riconciliazione dei peccatori con Dio se i presunti fatti su cui si basa non fossero oggettivamente veri. Ma non siamo in presenza di «miti», nonostante l’eccezionalità degli eventi descritti. Piuttosto i fatti ci portano a dire con Paolo:

«Senza dubbio, grande è il mistero della pietà: Colui che è stato manifestato in carne, è stato giustificato nello Spirito,

diversi secoli dopo l’evento. 3 Così Bruno Corsani, Introduzione al Nuovo Testamento 1 Vangeli e Atti, Torino, Claudiana,1972, 1:96, 109-110.

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è apparso agli angeli,è stato predicato fra le nazioni, è stato creduto nel mondo, è stato elevato in gloria» (1 Ti 3:16).

Paolo scelse di considerare l’incarnazione il «mistero della pietà» (1 Ti 3:16), ovvero qualcosa che va oltre la nostra capacità di comprendere. Tale definizione mette in guardia da ogni tentativo di dare una spiegazione razionale del miracolo dell'incarnazione e del carattere immacolato della vita di Gesù. Fra i tentativi di spiegare questo mistero c’è la spiegazione fornita dal Catechismo della Chiesa Cattolica dove viene proposto il dogma dell'Immacolata concezione, proclamato da papa Pio IX nel 1854: «La beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale».4 A sostegno di questo dogma spesso viene citato il saluto di Elisabetta a Maria: «Ti saluto, o favorita della grazia [gr. kecharitōmenē]; il Signore è con te» (Lu 1:28). Ma ciò ignora l’inizio del “Cantico di Maria” che esordisce così: «L’anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore» (vv. 46-47). Altrove nella Scrittura viene affermata con grande chiarezza che «Non c’è nessun giusto, neppure uno» (Sl 14:1-3; Ro 3:10) e che «tutti hanno peccato» (Ro 3:23). Inoltre Gesù stesso ebbe a dire: «Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio» (Mr 10:18). Quando queste Scritture vengono lette alla luce di tutto il canone biblico, senza lasciarsi influenzare dalla tradizione ecclesiale, appare chiaro che il miracolo dell'incarnazione e il carattere immacolato di Gesù trovano la loro unica spiegazione nell'opera sovrana dello Spirito Santo.

Dietro le quinte

Nel Vangelo di Matteo Gesù figura non solo come l’Emmanuele ma anche come il figlio adottivo di Giuseppe (1:20-21; 2:14; cfr. Lu 2:48-49). Un attento esame di 2 Samuele 7:12-16 dimostra che, per poter occupare il trono di Davide, Gesù doveva essere un discendente legale di Davide per via di Salomone. La genealogia riportata in Matteo 1:1-17 mette Gesù in questo rapporto con re Davide. Allo stesso tempo Gesù non poteva discendere fisicamente da Salomone, in quanto tale linea fu squalificata al tempo del re Joiachin (Gr 22:24-30; 2 R 24:8-12; 1 Cr 14:4).

4 Catechismo della chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria editrice Vaticana 1992, § 491. Tale dottrina si ispira al racconto del libro (apocrifo) attribuito a Giacomo, fratello del Signore (4:1-3) e il cosiddetto Vangelo sulla Nascita di Maria secondo cui «come essa nascerà miracolosamente da una sterile, così, in una maniera incomparabile, restando vergine genererà il figlio dell'Altissimo, che sarà chiamato Gesù e, secondo l'etimologia del nome, sarà il salvatore di tutte le genti» (Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di Luigi Moraldi, Classici delle regioni, sezione quinta, Torino, U.T.E.T.1971; Ristampa 1986, pp. 92 e 101). Viene ipotizzato uno stato di assoluta purezza nei genitori di Maria, al momento del suo concepimento (ibid. pp. 100-101).

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Infatti la discendenza fisica di Gesù tracciata in Luca 3:23-38 passa per un altro figlio di Davide di nome Natan. L'uso che Matteo e Luca fanno del titolo «figlio di Davide» per indicare Gesù implica pure che il suo operato sarebbe dovuto corrispondere a quanto l'Antico Testamento afferma relativamente alle mansioni del Messia che sarebbe discese da lui.

La seconda designazione, «figlio di Abraamo» (Mt 1:1), oltre a indicare in Gesù la progenie promessa al patriarca, può essere messa anche in relazione con il fatto che l’opera di Gesù avrebbe determinato l’adempimento della promessa di Dio di una benedizione estesa a «tutte le famiglie della terra» (Ge 12:1-3; cfr. Is 49:5-6). A proposito di questa dimensione universale è istruttivo l’arrivo dei magi d’Oriente in occasione della nascita di Gesù. A portarli prima a Gerusalemme e poi alla vicina Betlemme fu un fenomeno cosmico: una stella preparata da Dio, un altro elemento sovrannaturale del racconto che illustra bene la portata dell’evento (Mt 2:1-2).

I riferimenti a Davide e Abraamo e le relative anticipazioni profetiche negli Scritti sacri d’Israele, appartengono all’opera provvidenziale di Dio nella storia. Più in generale le dimensioni umana e divina dell’avvento e come queste dimensioni si sovrapponevano, sono presenti in ogni parte dei racconti riguardanti il concepimento e della nascita di Gesù, a partire dalla reazione di Giuseppe alla notizia che la sua promessa sposa era incinta fino a, successivamente, la sua ubbidienza alle istruzioni ricevute dall’angelo del Signore (Mt 1:18-25).

Oltre ai preparativi immediati alla nascita di Gesù, il Nuovo Testamento sottolinea la sua preesistenza in quanto Figlio di Dio. Mentre era in qualità di uomo perfetto che Gesù sarebbe diventato il sostituto dei peccatori sulla croce (Eb 5:7-9), era a motivo del suo essere Dio Figlio che il suo sacrificio propiziatorio avrebbe avuto una valenza infinita (1 Gv 2:1-2). Gesù stesso avrebbe testimoniato la propria preesistenza nella sua preghiera sacerdotale (Gv 17:5). Anche l'apostolo Paolo, in Galati 4:4-5 e 2 Corinzi 5:19, fa dipendere il valore dell’opera redentrice di Cristo dalla sua preesistenza e divinità.

La verità della preesistenza di Cristo delimita il ruolo di Maria nell'evento dell'incarnazione a ciò che concerne il corpo e la natura umana di Gesù. A questo proposito il noto titolo di «Madre di Dio», coniato al Concilio di Efeso nel 431 d.C. per proteggere la verità della Deità di Cristo, appare inopportuno, in quanto implica un ruolo materno di Maria in relazione con la vita divina del Figlio di Dio prima che lo Spirito Santo generasse nella vergine la natura umana e il corpo di Gesù. La storia successiva e la relativa elevazione di Maria confermano quanto sia stato infelice l’uso del titolo «Madre di Dio» per definire il ruolo di Maria. Per il resto, tanto Maria quanto Giuseppe meritano tutto il nostro rispetto per la loro sottomissione e ubbidienza a Dio.

Infine, a conferma di come Dio realizzò l’incarnazione in conformità con un progetto preordinato, abbiamo la testimonianza della «parola profetica più salda» (2 P 1:19). Ad esempio Michea profetizzò, a proposito della nascita del Messia: «Ma da te, o Betlemme, Efrata, piccola per essere tra le migliaia di Giuda, da te mi uscirà colui che sarà dominatore in Israele, le cui origini risalgono ai tempi antichi, ai giorni

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eterni» (Mi 5:1). Qui Michea testimonia la preesistenza di colui che sarebbe nato a Betlemme. A proposito di questa circostanza, sia Matteo che Luca fanno sapere che Gesù nacque a Betlemme ma fanno sapere pure che questa circostanza non era per niente scontata (Mt 2:1-6; Lu 2:1-10). Infatti, se non fosse stato per il censimento ordinato dall’imperatore Augusto e le relative regole (2:1-6), Maria si sarebbe trovata a Nazaret nel nord d’Israele al momento della nascita di Gesù e non a Betlemme in Giudea! Si vede così che la profezia di Michea si avverò grazie alla divina provvidenza.

Ci sono anche alcune profezie in Isaia riguardanti la nascita del Messia che ne sottolineano la duplice dimensione divina/umana. Al tempo del re Acaz, all’incirca sette secoli a.C., Dio diede questo segno a questo re poco incline a prestare attenzione alla parola di Dio: «Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele» (Is 7:14). Qui la parola «giovane» traduce l’ebraico ‘almah, che gli ebrei stessi tradussero parthenos, ovvero «vergine», nella traduzione greca dell’Antico Testamento, ossia la Septuaginta, come pure nella citazione del brano in Matteo 1:23. Matteo aggiunge la traduzione della parola Emmanuele: «Dio con noi». Sempre Isaia parla del popolo che vede una gran luce che illumina le tenebre, e aggiunge: «Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato, e il dominio riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace, per dare incremento all’impero e una pace senza fine al trono di Davide e al suo regno, per stabilirlo fermamente e sostenerlo mediante il diritto e la giustizia, da ora e per sempre: questo farà lo zelo del Signore degli eserciti» (Is 9:1,5-6). L’angelo Gabriele fece allusione proprio a questa profezia nel fare il suo annuncio a Maria riguardo il figlio che lei avrebbe portato in grembo (Lu 1:32-33). Infine, alla nascita di questo bambino, l’angelo che parlava ai pastori disse: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo, il Signore» (Lu 2:11). Il bambino nella mangiatoia era il Messia promessa, la cui identità, come aveva anticipato Isaia, è quella del Figlio di Dio incarnato.

Dopo la nascita

La circoncisione di Gesù e la sua presentazione nel tempio «quando furono compiuti i giorni della loro purificazione secondo la legge di Mosè» (Lu 2:21-38), illustrano quanto affermato da Paolo, che Gesù è «nato sotto la legge» le cui esigenze egli avrebbe soddisfatto perfettamente (Ga 4:4; Ro 8:3). Inoltre, proprio in occasione della sua presentazione nel tempio lo Spirito Santo spinse Simeone a prenderlo in braccia e dire, fra le altre cose: «Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Lu 2:29-32).

Dopo la visita dei magi e un’ulteriore rivelazione trasmessa a Giuseppe dall’angelo del Signore, ci fu la fuga in Egitto (Mt 2). A determinare questa fuga fu l’agire di Erode, un’agire che dipendeva in

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parte dalla natura illegittima del suo ruolo come re della Giudea, essendo lui un Idumeo e non della casa di Davide. Questa circostanza ci ricorda che al tempo di Gesù la Terra Promessa era sotto il dominio dei Romani a cui Erode doveva la sua nomina come re. Ma vista nel contesto della storia della salvezza, la fuga in Egitto è significativa in quanto portò Gesù a ripercorrere la storia del proprio popolo (v. 15) e in questo modo appariva già come l'Israelita per eccellenza (Mt 1:21; Ga 3:16).

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. Descrivi i ruoli di Giuseppe e Maria secondo Matteo capitoli 1-2 e Luca 1:26–2:24.

2. Quali particolari dei racconti di Matteo e Luca sulla nascita di Gesù mettono in luce la natura dell'evento inteso come Incarnazione?

3. Perché era importante che Gesù nascesse a Betlemme?

4. Descrivi in parole tue le profezie fatte da Simeone in occasione della presentazione di Gesù al tempio (Lu 2:29-35).

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2 Il mondo in cui Gesù è vissuto

Introduzione

Meglio si conosce il contesto politico/religioso/sociale in cui il Figlio di Dio “ha abitato per un tempo fra di noi” manifestando la gloria di Dio (Gv 1:14) meglio si comprende il suo insegnamento. Inoltre una conoscenza del contesto storico e culturale in cui Gesù svolse il suo ministero toglie la terra di sotto i piedi di chi idealizza il mondo in cui lanciò i suoi comandi per giustificare la convinzione che i suoi insegnamenti non sono applicabili nel mondo in cui noi viviamo.5

Cominciamo con una breve descrizione di alcune caratteristiche essenziali del suo mondo per poi approfondire i tre aspetti: politico/religioso/sociale. Nel mondo in cui Gesù portò a compimento il mandato del Padre gran parte della vita ruotava intorno alle attività settimanali della sinagoga dove i Farisei insegnavano la legge mosaica, secondo la tradizione dei padri. Quanto alle feste annuali, le visite al tempio erano soprattutto concentrate nella primavera, nel periodo che andava dalla Pasqua alla Pentecoste e, in autunno, nel periodo delle Feste delle Capanne e di Yom Kippur.

Intanto il paese era occupato dai Romani che, a eccezione di qualche centurione, erano poco sensibili nei confronti degli Ebrei che ubbidivano alla legge. Partecipare alle festività decretate dalla legge poteva costare la vita! (si veda Lu 13:1). Inoltre la presenza romana costituiva una tentazione al compromesso, ad esempio nell’estorcere più denaro del previsto nella raccolta delle tasse imposte dall’imperatore. La dominazione straniera da una parte e l’attesa del regno di Dio dall’altra, determinavano la nascita di raggruppamenti politici e religiosi che andavano dagli Erodiani ai movimenti di protesta quali gli Zeloti, che lottavano contro Roma, e gli Esseni che protestavano contro il modo in cui i capi dei sacerdoti erano in collusione con Roma, ad esempio nella nomina del Sommo Sacerdote.6

Nell’ambito sociale, all'apice c’erano i capi religiosi a Gerusalemme e gli Scribi e Farisei presso le sinagoghe, poi «il popolino» trattato come ignorante e quindi «maledetto» (Gv 7:48-49). Anche le donne e i bambini erano poco presi in considerazioni (si veda Gv 8:1-11; Mr 10:13-16). Era in questo contesto, variegato e per nulla ideale, che Gesù avrebbe esemplificato la giustizia di Dio.

La situazione politica

Per comprendere qualcosa dell’assetto politico della Terra Promessa ai tempi di Gesù, bisogna partire da un fatto che ebbe ripercussioni durante l’intero periodo descritto nei Vangeli e nel libro degli Atti. Nell’anno 48 a.C. Giulio Cesare si trovò assediato ad Alessandria, in

5 Ho sentito questo parere espresso dopo una sessione di insegnamento delle Beatitudini. 6 Cfr. la menzione dei «sommi sacerdoti Anna e Caiafa» in Luca 3:2, di cui il primo era il referente per la nomina di quello in carica.

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Egitto. L'Idumeo Antipatro, padre di Erode detto «il Grande», procurò a Cesare una contingente di 3.000 Giudei e quest’aiuto si rivelò determinante per la sua liberazione. Per riconoscenza Cesare si fece garante dei diritti dei Giudei sia in Giudea sia altrove nell’impero romano. In particolare la religione dei Giudei fu riconosciuta lecita, facendo sì che i Giudei erano esonerati dall'obbligo di partecipare al culto imperiale. Inoltre, i giovani Giudei non erano tenuti a fare il servizio militare. Questa linea politica fu mantenuta anche dopo l’assassinio di Giulio Cesare quattro anni più tardi.

Ci interessa anche il modo in cui Cesare ricompensò Antipatro per l’iniziativa da lui presa. Oltre a concedergli la cittadinanza romana, Cesare lo insediò al vertice del potere politico e permise a suo figlio Erode di studiare a Roma. In seguito questo Erode sarebbe stato nominato “il re della Giudea” e, alcuni decenni più tardi il figlio di quest’ultimo il tetrarca della Galilea (Lu 3:1). Chi legge i Vangeli sa quanto abbia inciso sulla vita dei Giudei, il potere degli Erodi, discesi da Antipatro (Mt 14:1-12; Mr 3:1-6; Lu 8:1-3; 23:6-12).

Nonostante i privilegi conferiti ai Giudei da Giulio Cesare e i benefici che il successivo regno di Augusto apportò a tutta l’area mediterranea, i Giudei continuavano a sentirsi oppressi. Il dominio romano stava loro stretto soprattutto a motivo delle promesse divine fatte ai loro padri. Infatti l'occupazione straniera della Terra Promessa ostacolava la realizzazione del regno messianico predetto dai profeti (cfr. Lu 24:21). Il Vangelo di Luca fornisce un quadro degli incarichi amministrativi assegnati da Roma, al tempo in cui ebbe inizio il ministero pubblico di Giovanni il battista, presto seguito da quello di Gesù: “Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, quando Ponzio Pilato era governatore della Giudea, ed Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caiafa, la parola di Dio fu diretta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lu 3:1-2).

Inoltre Roma, sebbene affidasse gran parte della gestione della giustizia ai Giudei stessi (in particolare al Sinedrio di Gerusalemme, ma anche in qualche misura ai consigli di anziani dei singoli villaggi), era presente con suo esercito, ad esempio nella Fortezza Antonia che sorgeva presso il lato settentrionale del Tempio di Gerusalemme, oltre ad arrogarsi il diritto di nominare il sommo sacerdote. Questa politica da una parte fece crescere il potere politico dei «capi dei sacerdoti» (Mt 16:21; 26:14), dall’altra favorì il fenomeno di gruppi come quello degli Esseni che trovavano insopportabile quest'ingerenza nella vita religiosa del popolo.

L’amministrazione romana produsse anche altri effetti pesanti. Ad esempio, per buona parte del tempo in cui ricopriva l’incarico di procuratore della Giudea, Ponzio Pilato (26-36 d.C.), particolarmente fino alla morte di Seiano il 18 ottobre, 31 d.C., se ne infischiava altamente della sensibilità religiosa dei Giudei. Lo si vede nell’episodio portato alla conoscenza di Gesù di cui Luca ci dà notizia: “In quello stesso tempo vennero alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici” (Lu 13:1). Evidentemente il governatore, non essendo abituato a feste religiose così coinvolgenti quale la Pasqua,

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scambiò l’entusiasmo degli adoratori in un periodo di festa per una sommossa politica.

Un altro effetto negativo dell’occupazione romana era il fenomeno del collaborazionismo. Nel settore economico c'erano i «pubblicani» che riscuotevano le tasse per Roma. Questi uomini non solo erano percepiti come simbolo dell'oppressione romana, erano pure conosciuti per la pratica dell'estorsione. Zaccheo, capo dei pubblicani della propria zona, oltre a essere diventato ricco, era stato anche soprannominato «peccatore» a motivo della pratica dell’estorsione (Lu 19:1-10). Anche uno degli uomini destinato a diventare apostolo, di nome Matteo, era per mestiere un pubblicano (Mt 9:9-13; cfr. Lu 5:12-15; 6:12-16). Dal punto di vista puramente umano, è comprensibile che i Farisei (vedi più avanti) rimasero sbalorditi quando Gesù partecipò, insieme con una folla di pubblicani, a un banchetto organizzato da Matteo.

La situazione appena descritta incoraggiava uno spirito opportunistico anche da parte dei capi religiosi (si veda Gv 11:47-53). Così da una parte c’era un crescente interesse negli scritti apocalittici e la protesta religiosa di gruppi come gli Esseni che consideravano il culto del tempio impuro. Il più famoso dei gruppi era la comunità che studiava la legge a Qumran che si credeva un avamposto del Regno promesso a Israele. Allo stesso tempo sorsero dei gruppi di resistenza a Roma di tipo politico, come quello degli zeloti, nato nel 6 d.C. a opera di Giuda il Galileo (At 5:37). Almeno uno dei dodici discepoli che Gesù volle sempre con sé proveniva dalle fila degli zeloti (Lu 6:15).

La situazione religiosa

Mentre la vita religiosa dei Giudei ruotava principalmente intorno alla sinagoga e al tempio, la produzione letteraria era dominata da scritti pseudonimi, come il libro di Enoc, i cui autori cercavano di prevedere lo svolgersi degli eventi che avrebbero condotto ai tempi della fine. a. La sinagoga era il luogo dove la legge e la tradizione orale «degli antichi» venivano insegnate al popolo. Nata come luogo di istruzione della Torà durante l'esilio babilonese, la sinagoga assolveva a due funzioni principali: quella di provvedere un'istruzione (oltre a quella prevista all'interno della famiglia) per i figli maschi, e quella di essere il luogo di incontro cultuale della comunità nel giorno di sabato. L'ordine di servizio nel giorno di sabato era il seguente: la lettura della Shemá “Ascolta o Israele...” (De 6:4-9), la ripetizione di alcune preghiere, la lettura di alcuni brani della Legge e dei profeti, un commento esortativo da parte di chi ne era capace e, infine, la benedizione. Apprendiamo dai Vangeli che Gesù non solo era stato un frequentatore assiduo della sinagoga, dove svolgere il compito di lettore, ma che insegnava nelle sinagoghe durante il suo ministero pubblico (Lu 4:14-28; Mt 4:23).b. Il tempio. Dal regno di Salomone in poi il tempio era il centro della vita religiosa d’Israele, nonché il simbolo della presenza di Dio fra il popolo. Dopo l’esilio babilonese fu costruito un secondo tempio, anche se

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la sua forma, al tempo di Gesù, era il prodotto di quarantasei anni di lavoro ordinato da Erode (Gv 2:20). Nel Nuovo Testamento i riferimenti alle feste ebraiche celebrate nel tempio si trovano soprattutto nel Vangelo di Giovanni il che potrebbe dipendere dal fatto che Giovanni dà notizia delle attività svolte da Gesù soprattutto nella capitale giudaica.

Il tempio era il luogo d’incontro della comunità giudaica della Diaspora insieme con quella residente a Gerusalemme e altrove nella Terra Promessa. Le feste più importanti erano, in autunno: quella dell'anno nuovo, seguita dal giorno delle Espiazioni (Yom Kippur) e la Festa delle Capanne (Tishri, ottobre); la Dedicazione (Channukah, Kisleu, dicembre) menzionata in Giovanni 10:22, che ricordava la purificazione del tempio nel 165 a.C. In primavera c’erano la Pasqua (14 Nisan, aprile) a cui Cristo attribuì alla Pasqua un valore tipologico relativo all'opera di salvezza che egli era venuto a compiere (Lu 22:16) seguita da quella dei pani azzimi, e infine la Pentecoste che veniva celebrata, come dice il nome stesso, cinquanta giorni dopo gli azzimi, in segno di riconoscenza per la prima mietitura di grano. Il tempio funzionava continuamente con ventiquattro mute di sacerdoti (1 Cr 24:1-18; Lu 1:5-9). Durante le ricorrenze festive principali esso attraeva grandi folle di pellegrini a Gerusalemme, come la legge prevedeva (De 16:16). Mentre nelle sinagoghe si sentiva soprattutto l’influenza degli Scribi, per lo più Farisei, nell’ambito del tempio dominava il partito dei Sadducei.

L’origine dei Farisei è da ricercare nel movimento degli Asidei («uomini pii») che, in nome della legge, avevano sostenuto la rivolta dei Maccabei (167-160 a.C.) contro il tentativo del re Seleucida Antioco Epifane di abolire il culto di JHWH. L’amore per la legge portò gli Asidei a trovarne un’ applicazione per ogni situazione. Ma, purtroppo, con il tempo le soluzioni alle varie questioni discusse dai grandi rabbini acquisirono un valore quasi canonico. A poco a poco questa «casistica» assunse un’importanza uguale, se non addirittura superiore, a quella attribuita alla Torah e agli altri Scritti sacri. Ecco perché i Farisei del tempo di Gesù correvano il grave rischio di annullare la Parola di Dio a motivo della loro tradizione. Da parte sua, nei suoi incontri/scontri con i Farisei e i loro Scribi, Gesù distinse in modo netto fra la Parola di Dio e la loro tradizione (Mt 15:1-9; cfr. 5:21-48). I dottori della legge, in genere provenienti dalle file dei Farisei, erano molto stimati dal popolo. Questo fatto li indusse a prendere «gloria gli uni dagli altri» anziché cercare «la gloria che viene da Dio solo» (Gv 5:44). Gesù accusò gli scribi e farisei di ipocrisia in quanto l’attaccamento esagerato alle tradizione faceva sì che trascuravano gli aspetti essenziali della legge (Mt 23:23). L’ipocrisia dei farisei si vedeva anche nel fatto che erano disposti a allearsi con gli Erodiani, pur di opporsi al ministero di Gesù il cui ministero tendeva a ridurre la loro autorità nell’ambito delle sinagoghe (Mr 3:6; 12:13).

Quanto ai Sadducei, è possibile che il loro nome derivasse in qualche modo da Sadoc, il famoso sacerdote che rimase fedele a re Davide (2 S 15:24-37). Se il loro attaccamento al tempio appare lodevole, lo è di meno il fatto che dessero importanza soltanto al Pentateuco, trascurando

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il resto della rivelazione. Di conseguenza i Sadducei erano di idee ultra conservatrici e non contemplavano alcun tipo di cambiamento, tanto meno la realizzazione del regno messianico di cui avevano parlato i profeti d’Israele. A questo proposito è istruttivo leggere il dibattito fra Gesù e i Sadducei sulla risurrezione (Mt 22:23-33). Nel loro rapporto con la politica, i Sadducei potrebbero essere definiti opportunisti, il che si potrebbe spiegare tenendo conto del fatto che erano fondamentalmente materialisti (si veda At 4:1-2).

È da notare che né Giovanni il battista né Gesù si identificarono con nessuno dei partiti religiosi e neanche con i movimenti di protesta a cui abbiamo fatto cenno. Ciò non vuol dire che non avessero avuto contatto con qualcuno di essi, però il fatto che si siano rivolti a tutta la nazione rispecchia la convinzione che lo status di popolo eletto si estende a tutti i discendenti di Abraamo, Isacco e Giacobbe, e non soltanto a coloro che avevano una fede simile a quella di Abraamo.

La situazione sociale

L’assetto politico e quello religioso descritti sopra facevano sì che società di cui Gesù faceva parte era divisa in vari strati sociali. Gli scribi e i farisei mostravano disprezzo verso la gente comune (Gv 7:48-49). Similmente i membri della Comunità di Qumran si consideravano gli unici “figli della luce”, essendo tutti gli altri “figli delle tenebre” esclusi dal futuro regno di Dio7.Un altro tipo di discriminazione era quella che gli uomini giudaici praticavano nei confronti delle donne. Basti pensare che nel libro di preghiere per la sinagoga8 era previsto che l'uomo dicesse ogni giorno: “Ti ringrazio Signore che non mi hai creato né Gentile né donna!” mentre Giuseppe Flavio afferma che “la donna è peggiore dell'uomo in ogni cosa”9. In caso di adulterio era soprattutto la donna a essere ritenuta colpevole (si veda Gv 8:1-11) mentre i seguaci del fariseo Hillel permettevano agli uomini di divorziare dalle loro mogli per i motivi più banali (cfr. Mt 19:3). Anche i bambini erano considerati di poco conto dai capi religiosi (cfr. Mt 19:13-15).

È possibile che la tendenza a considerare la donna nettamente inferiore all’uomo fosse dovuta in parte alla forte influenza dell’ellenismo, ossia la trasformazione sociale secondo il modello greco, particolarmente agguerrita prima della rivolta dei Maccabei. Infatti, fra i Greci la donna era socialmente inferiore all’uomo. Per non parlare di come i Giudei e i Samaritani si evitavano reciprocamente (Gv 4:7-9; Lu 9:51-55).

Nonostante Gesù vivesse in un mondo caratterizzato da tutte queste discriminazioni, egli le ignorava nei suoi rapporti umani. Inoltre era

7 Si veda il Manuale di Qumran (1QM) e il Rotolo della guerra; cfr. l’uso che Gesù e l’autore del quarto Vangelo hanno fatto del concetto di “figli di luce” (Gv 3:19-21; 12:36).8 La documentazione risale all'epoca post-apostolica, ma l'aria che si respirava al tempo di Gesù non era diversa.9 Contro Apione, 2,25.

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amico di tutte le persone emarginate in sintonia con la legge che esigeva un agire caratterizzato dalla misericordia (Mt 23:23; cfr. Lu 15:1-32; 16:19-31; 17:11-19; 18:9-14; 19:1-10). Anzi, con il suo esempio, Gesù faceva comprendere che è proprio nel superamento delle discriminazioni che si ubbidisce al comandamento di amare il prossimo come se stessi (Lu 10:25-37; Mt 5:44-48).

Conclusione

Forse siamo stati abituati a idealizzare il mondo in cui il Figlio di Dio accettò di abitare per un tempo. In questo caso il pericolo è di considerare gli imperativi che costellano il suo insegnamento poco applicabili al mondo imperfetto in cui ci troviamo a vivere oggi. Ma, come abbiamo visto, Gesù non è vissuto in condizioni ideali. Il Salvatore e Maestro, nato a Betlemme, è vissuto in un mondo pieno di tensioni, contrasti, discriminazioni e ingiustizie. Più riusciremo a calarci nel contesto reale del suo ministero, più saremo inclini a considerare normativi i suoi comandamenti e a seguire il suo esempio (Lu 6:40; Mt 28:20).

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. In che tipo di mondo è vissuto Gesù?

2. Perché gruppi così diversi quali i Farisei e gli Erodiani erano disposti ad allearsi, pur di porre fine al ministero di Gesù?

3. Quali sono le implicazioni di quest’affermazione di Gesù: «Un discepolo non è da più del maestro; ma ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro» (Lu 6:40)?

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3 Una vita umana senza peccato“Egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato”

(Eb 4:15).

“Se, come la scienza insegna, ogni evento richiede una causa adeguata, allora la presenza di un Uomo senza peccato in mezzo a un universo di uomini peccatori implica che Egli abbia un’origine miracolosa”. J. Oswald Sanders.10

Introduzione

Sebbene i quattro vangeli non siano delle vere e proprie biografie sulla vita di Gesù, le informazioni che essi contengono danno una chiara idea di come la sua vita si svolgeva prima che entrasse nel ruolo di Messia. Vedremo che a Nazaret aveva un’identità umana ben precisa e fece un’esperienza di vita analoga a quella dei suoi contemporanei. L’unica parziale eccezione riguarda qualcosa che avvenne quando aveva dodici anni: chiamò il tempio «la casa di mio padre» mentre tutti quelli che lo udivano parlare in quell’occasione «si stupivano del suo senno e delle sue risposte» (Lu 2:47-49). Neanche Giuseppe e Maria «capirono le parole che egli aveva dette loro» (v. 50). Ma a parte questa breve finestra sulla dimensione divina della sua persona, Gesù viveva sottomesso a Maria e Giuseppe, come qualsiasi altro ragazzo (v. 51).

Per entrare nel suo ruolo messianico, quando «aveva circa trent’anni» (3:21-21), Gesù si recò al fiume Giordano, dove Giovanni, suo precursore, stava battezzando. Arrivato lì insistette di essere battezzato anche lui, precisando: «conviene che noi adempiamo in questo modo ogni giustizia» (Mt 3:15). Così iniziò un cammino che l’avrebbe condotto a prendere su di sé i peccati del mondo (cfr. Mt 1:21; Gv 1:29; cfr. Sl 130:7-8; Is 53).

Non è un caso che l’unzione speciale di Gesù avvenne soltanto dopo circa trent’anni di una vita normale in cui era vissuto come parte di una famiglia e aveva anche lavorato con le proprie mani, conferendo dignità alle attività artigianali. Allo stesso tempo la sua è stata una vita esemplare, in quanto senza peccato, quindi ha «condannato il peccato nella carne» (Ro 8:3). È questo risultato che sta dietro la parola di approvazione del Padre: «Questo è il mio diletto Figliuolo, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3:17). Seguì la seconda prova quando fu guidato dallo Spirito nel deserto per dare prova a Satana di non essere vulnerabile ai tentativi di deviarlo dal compimento del suo mandato (4:1-11).

Prima di assumere il suo ruolo messianico

10 J. Oswald Sanders, The Incomprarable Christ, 1952; rev. 1971; ristampa: Chicago, Moody Publishers, 2009, p.38.

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Per il periodo che va dall'infanzia di Gesù all'età di trent'anni, pochi capitoli della Bibbia forniscono delle notizie dirette. Ciò nonostante, nel loro insieme, i Vangeli contengono sufficienti cenni biografici da permettere l’elaborazione di uno schema biografico abbastanza completo (si veda Lu 2:41-52; 4:16-30; Mr 6:3; Gv 7:3-5; 19:26-27).

Dopo la morte di Erode un angelo informò Giuseppe che poteva riportare il bambino e sua madre nel paese d’Israele. Così la famiglia rientrò in Israele (Mt 2.19-20). «Ma, udito che in Giudea regnava Archelao al posto di Erode, suo padre, ebbe paura di andare là; e, avvertito in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e venne ad abitare in una città detta Nazaret, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato Nazareno» (vv. 22-23). Il malgoverno di Archelao fece sì che venisse destituito dal sul incarico nel 6 d.C.. Non essendo Giuseppe e Maria nativi della Galilea, possiamo considerare il ritorno a Nazaret, a prescindere dalla circostanza che ne era la causa, un frutto della provvidenza divina. Infatti il soggiorno prolungato in Galilea avrebbe facilitato il rapporto di Maestro-discepoli che Gesù avrebbe instaurato con alcuni uomini di quella regione.

A Nazaret Gesù aveva una precisa identità umana: era il figlio (adottivo) del falegname del villaggio prima di diventare anche lui falegname. Infatti dalle parole dei suoi concittadini, riportate in Marco 6:3, apprendiamo che, a un certo punto, Gesù aveva sostituito Giuseppe come falegname di Nazaret. A quel punto la gente si sarebbe rivolta a Gesù quando c’era da fare qualche lavoro in legno o pietra per costruire porte, finestre e attrezzi di lavoro. Oltre a essere falegname, Gesù era il fratello maggiore di Giacomo, Iose, Giuda e Simone, nonché di alcune sorelle (Mt 13:53-58; Mr 6:1-4; Gv 6:42).

A Nazaret Gesù partecipava regolarmente all’incontro settimanale della sinagoga (Lu 4:16). Intanto la legge mosaica imponeva a tutti i maschi maturi di presentarsi tre volte all'anno davanti al SIGNORE nel posto che egli aveva scelto (Gerusalemme), in occasione delle feste di Pasqua, di Pentecoste e delle Capanne (De 16:16). La famiglia di Gesù era ubbidiente alla legge (Lu 2:21-24,39), quindi, a partire dall'età di dodici anni, che segnava il passaggio alla fase adulta, anche Gesù avrebbe partecipato con entusiasmo alle grandi feste presso il tempio (vv. 41-49).

L’autenticità della sua vita umana, vissuta nel villaggio di Nazaret, è testimoniata indirettamente dallo sdegno dei suoi familiari e dei concittadini dopo che Gesù iniziò il suo ministero pubblico (Mr 3:20-21; 6:1-3). Secondo loro non c’erano i presupposti per questo perché Gesù non aveva studiato sotto alcun rabbino famoso di Gerusalemme (Gv 7:15). Quindi dal punto di vista umano, non avrebbe potuto insegnare con l’autorità che, invece, manifestava a Capernaum e altrove (Mr 1:21-23). Intanto il loro imbarazzo dà la conferma che Gesù non aveva operato alcun prodigio prima della sua unzione presso

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il fiume Giordano (cfr. Gv 2:11, contrariamente a come vorrebbero far credere certi vangeli apocrifi relativi alla sua infanzia).

Il racconto della visita a Gerusalemme di Gesù dodicenne è illuminante. Innanzitutto perché, mentre viene detto che egli «cresceva» (Lu 2:40, 52), in questa circostanza mostrava di superare in intelligenza e conoscenza sia i dottori della legge sia Maria e Giuseppe (vv. 46-47, 50). Ma ancora di più a motivo della sua domanda, dopo che sua madre si era lamentata di ciò che per lei era un comportamento poco corretto da parte di Gesù. Al che lui chiede a Maria e Giuseppe: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?» (v. 48). Con queste domande Gesù dimostrò che era pienamente consapevole del suo rapporto unico con Dio Padre. Nonostante questa sua consapevolezza, al fine di sperimentare la vita pienamente come un nostro consimile, rimase sottomesso a Maria e Giuseppe (v. 51). Nel testo di Luca segue questo riassunto degli anni successivi: «E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini» (v. 52).

Il battesimo, unzione e prima vittoria di Gesù su Satana

Il ministero di Giovanni il battista

Non si può parlare del ministero di Gesù senza menzionare quello del suo precursore, Giovanni, detto «il battista» perché il Vangelo di Marco presenta il ministero di Giovanni come «il principio del vangelo» (Mr 1:1) mentre Luca fornisce una mappa della situazione storico-politica di Israele in relazione con il suo ministero a cui seguì quello di Gesù (Lu 3:1-6,23; cfr. Ml 3:1-2; 4:1-6; Mt 11:13-14). Il ravvedimento che Giovanni predicava doveva esprimersi sia con i fatti di una vita cambiata sia con l’atto del battesimo per immersione in acqua (Lu 3:7-14). Una forma di quest'ultimo era già impiegata come parte del rituale per i Gentili che volessero diventare proseliti del Giudaismo. Ora Giovanni richiede che i Giudei stessi si battezzino, come segno di ravvedimento.

Nonostante il ministero di Giovanni fosse caratterizzato dal «battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati» (Lu 3:3), al punto che Giovanni viene ricordato come «il battista», il punto di arrivo di tale ministero era un altro. Egli doveva introdurre il popolo d'Israele al loro Messia (Gv 1:29-30; At 19:4). A questo proposito egli disse: «Dopo di me viene colui che è più forte di me; al quale io non sono degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari. Io vi ho battezzati con acqua, ma lui vi battezzerà con lo Spirito Santo» (Mr 1:7-8), mostrando così una profonda conoscenza di ciò che avrebbe caratterizzato i tempi del nuovo patto.

Il battesimo di Gesú (Mt 3:13-15)

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«Colui che non ha conosciuto peccato, egli [Dio Padre] lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui» (2 Co 5:21).

Anche Gesù si presentò a Giovanni per essere battezzato. Evidentemente questo fatto creò per Giovanni un certo disagio perché disse: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?» (v. 14). Anche se l’identità messianica di Gesù non gli era stata rivelato in precedenza (Gv 1:32-34), Giovanni percepiva nel figlio della sua parente, Maria, un grado di santità unica che faceva sembrare la propria vita macchiata di peccato, nonostante fosse stato «pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre» (Lu 1:16). Per convincerlo a procedere con il battesimo, Gesù gli disse: «Sia così ora, poiché conviene che noi adempiamo in questo modo ogni giustizia» (Mt 3:15). Le parole tradotte «sia così ora» (gr. aphes arti) fanno comprendere che la reticenza di Giovanni era giustificata, sennonché stava per avere inizio un periodo nuovo nella vita di Gesù in cui egli avrebbe dovuto agire in qualità di sostituto, addossandosi la responsabilità dei peccati altrui. Questa insistenza di Gesù, insieme a ciò che avvenne appena fu uscito fuori dall’acqua, fecero evidentemente riflettere Giovanni sulla natura del ministero che Gesù avrebbe dovuto svolgere. Frutto di tale riflessione fu il modo di definire Gesù nel momento in cui lo presentò al pubblico: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1:29). Tale annuncio caratterizza Gesù come il messia Servo di cui parla Isaia (49:5-6; 53:1-12)

L’unzione e l’approvazione celeste

«Gesù, appena fu battezzato, salì fuori dall’acqua; ed ecco i cieli si aprirono ed egli [Giovanni] vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dai cieli che disse: “Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto”» (Mt 3:16-17). Gesù aveva concluso in modo perfetto la prima fase della sua vita terrena, qualificandosi per la seconda fase (Gv 1:29; Mr 1:8).

L'unzione di Gesù diede il via all'esecuzione del mandato che Dio Padre aveva affidato al Figlio. L'importanza dell’evento dell’unzione è confermata dall'uso che Gesù stesso farà di Isaia 61:1-2 nella sinagoga di Nazaret (Lu 4:16-21). Intanto la testimonianza che il Padre rese al Figlio in occasione della sua unzione, e il fatto che il Figlio si lasciava condurre dallo Spirito durante tutta la sua vita terrena (Mt 4:1), esemplificano l’agire armonioso delle tre persone della Deità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Inoltre, ci ricordano che Gesù non era soltanto un uomo come noi, bensì l'Unto per eccellenza, venuto dal Padre (Da 9:26; Gv 16:28).

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L’incontro di Gesù con Satana (Mt 4:1-11; Lu 4:1-13)

La ragione per cui lo Spirito condusse Gesù nel deserto è spiegata con un verbo che di solito viene tradotto “essere tentato”. Ma questo verbo, peirasthēnai, che descrive il primo attacco che Satana sferrò contro Cristo, significa pure «essere messo alla prova»,11 traduzione che si addice meglio qui. Gesù, in quanto Figlio di Dio, non poteva peccare (Gm 1:13); del resto le due nature, divina e umana, di Cristo non possono essere separate. In pratica Gesù si comporta, di fronte al tentativo di Satana di sviarlo dall’ubbidienza al Padre, ciò che aveva manifestato la sua vita fino a quel momento: la sua impeccabilità.

Due dei tre modi in cui Satana tentò di deviare Gesù dal cammino stabilito dal Padre (i suggerimenti di trasformare le pietre in pane e lanciarsi dal pinnacolo del tempio) hanno a che fare con il modo in cui Gesù avrebbe dovuto manifestare la sua messianicità e compiere la sua missione. Gesù rifiutò di usare i suoi poteri sovrannaturali per modificare il cammino con cui avrebbe glorificato il Padre. L'altro tentativo di Satana di deviare Gesù dal cammino dell'ubbidienza, invece, riguardava la natura del regno stesso di cui Egli è il centro. Nel rifiutare la proposta del diavolo, Gesù dimostrò che il Regno di Dio non può essere annoverato fra i regni degli uomini. Il Regno che lui avrebbe inaugurato doveva rimpiazzare ogni altro dominio, compreso il potere (circoscritto) dell’antiCristo (si veda Da 7:13-14; 23-27).

La circostanza della tentazione di Gesù ci introduce a un'altra dimensione dell'opera di Cristo, quella della battaglia contro Satana che avrebbe raggiunto il culmine con la sua vittoria sulla morte (Ge 3:15; Eb 2:14-15). Dal modo in cui Luca termina il suo racconto della tentazione nel deserto “[Satana] si partì da lui fino ad altra occasione” (Lu 4:13), si intravedono altri tentativi di Satana e dei suoi demoni di ostacolare l'operato di Cristo, tentativi che non sono mancati (si veda Mt 16:23; Gv 13:27).

Evidentemente Dio riteneva necessario che l'impeccabilità di Gesù andasse dimostrata in modo spettacolare e con ciò anche la sua idoneità come sostituto dell'uomo peccatore. Ciò spiegherebbe perché lo Spirito Santo avesse guidato Gesù all’incontro con Satana, permettendo a quest’ultimo di sferrare il suo attacco dopo che Gesù aveva digiunato per ben quaranta giorni e quaranta notti. Inoltre, la sua vittoria costituiva un avvertimento a Satana non soltanto dell’inevitabilità della sua sconfitta durante il primo avvento di Cristo ma anche «della sua finale e assoluta sconfitta alla consumazione delle epoche».12

Gesù, vero uomo, e noi

11 Max Zerwick e Mary Grosvenor (An Analysis of the Greek New Testament, Roma, Biblical Institute Press, 1981, p. 7) danno “mettere alla prova” come il primo significato qui.12 J. Oswald Sanders, The Incomparable Christ, 1952, nuova ed. 1971; ristampa: Chicago, Moody Press, p. 91.

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Che Gesù fosse vero uomo era importante quanto il suo essere vero Dio incarnato. Soltanto così poteva qualificarsi in una vita di ubbidienza al Padre celeste per poi compiere un atto di ubbidienza straordinario per conto nostro, diventando così «autore di una salvezza eterna» e poi il sommo sacerdote che ci comprende pienamente (Ro 5:19; Eb 5:8; 4:14-16; 7:24-25). Sapere che Gesù ha sperimentato la fame (Mt 4:2), la stanchezza (Gv 4:6), che ha pianto (Gv 11:35), che sentiva il bisogno del sostegno dei suoi amici (Gv 15:15; Mt 26:36-40) e che «è stato in ogni cosa tentato come noi» costituisce un grande incoraggiamento a rispondere all’invito ad accostarci «con piena fiducia al trono della grazie, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Eb 4:15-16).

Per le riflessione personale o lo studio di gruppo

1. In quali sensi si può dire che Gesù è stato un Salvatore perfetto?

2. Quante cose cambiarono nella vita di Cristo dopo l’unzione speciale che ricevette vicino al fiume Giordano?

3. Come sai che Gesù ti può sempre comprendere?

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4 Il Cristo si manifesta con segni

Introduzione

Tutti e quattro i Vangeli canonici dedicano uno spazio al ministero del precursore di Gesù definito in Marco: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio» (Mr 1:1-5). A porre fine al ministero di Giovanni, figlio di Zaccaria ed Elisabetta, fu il suo arresto ordinato da Erode, tetrarca della Galilea, dopo che il profeta l’aveva denunciato a motivo della sua unione illecita con Erodiana. Prima dell’arresto di Giovanni, Gesù andava e veniva dalla Giudea, dove Giovanni l’aveva presentato come «l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Mt 4:12; Mr 1:14; Lu 4:14; Gv 1:29; 3:22–4:3).

Alcuni discepoli di Giovanni decisero di seguire Gesù. Alcuni dei neo-discepoli di Gesù l’accompagnarono a Cana in Galilea dove testimoniarono il suo primo dei suoi segni miracolosi. Poi, dopo il ritorno dalla Galilea, testimoniarono la purificazione del tempio di Gerusalemme e altre opere potenti di Gesù, al tempo della Pasqua.

Appartengono a questo primo periodo due incontri significativi, il primo a Gerusalemme con Nicodemo, il maestro d’Israele che era stato colpito dai segni operati da Gesù (Gv 3:2). Il secondo ebbe luogo durante il suo cammino verso la Galilea, con una donna Samaritana. Gesù si fece conoscere a questa donna come il Messia, manifestandole la sua onniscienza. In seguito i suoi concittadini lo riconobbero come «il Salvatore del mondo».

“Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca” (Gv 3:30)

Dopo aver chiamato i suoi concittadini a ravvedersi e aver battezzato quelli che portavano «frutti degni del ravvedimento», Giovanni giunse al culmine del suo ministero con la presentazione del Messia come «l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1:29, 36). Questo modo di caratterizzare la missione del Messia è da mettere in relazione con un dono profetico straordinario che Giovanni possedeva (Lu 1:15). L’altra sua profezia di portata epocale era quella che riguardava il punto di arrivo del ministero del Messia. Ecco le sue parole: «Io vi ho battezzati con acqua, ma lui vi battezzerà con lo Spirito Santo» (Mr 1:8).

Nonostante Giovanni avesse detto che, in qualità di «Agnello di Dio», il Messia avrebbe preso su di sé «i peccati del mondo», i futuri apostoli avrebbero messo molto tempo prima di afferrare la portata pratica di questa dichiarazione. Come buona parte della loro nazione, speravano «che fosse lui che avrebbe liberato Israele» (Lu 24:23; cfr. Mt 16:16-21). Intanto alcuni discepoli di Giovanni si sentirono immediatamente attratti

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a Gesù. Uno di loro, di nome Andrea, pensò subito di introdurre suo fratello Simone al Signore. Trascorsero delle ore insieme (Gv 1:35-51).

È da notare che Andrea e Simone non diventarono parte di un gruppo fisso di discepoli in questo primo momento. Gesù li avrebbe chiamati alcuni mesi più tardi, in seguito allo spostamento della base del suo ministero in Galilea (Mt 4:12, 18-22). Sarebbe passato ancora altro tempo prima che Gesù creasse un gruppo fisso dei suoi discepoli da tenere con sé in vista del loro futuro ruolo apostolico (Mr 3:13-19; Lu 6:12-16). Ma Gesù agiva già in vista degli sviluppi futuri. Infatti, non appena Andrea gli condusse Simone, Gesù gli rivelò quanto segue: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; tu sarai chiamato Cefa [in greco “Pietro”]» (Gv 1:42).

Il giorno seguente, Gesù trovò Filippo di Betsàida, la stessa città in cui erano cresciuti Andrea e Simone, e l'invitò a seguirlo (v. 43). Filippo, poi, trovò un certo Natanaele, che colse subito il senso del segno concessagli da Gesù, esclamando: «Rabbì, tu se il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (Gv 1:49). È possibile che quest’uomo senza frode sia da identificare con il Bartolomeo che, in seguito, avrebbe fatto parte del gruppo dei Dodici. Quest’ipotesi si basa soprattutto su due considerazioni: il nome Bartolomeo viene posto sempre dopo quello di Filippo nell'elenco dei Dodici (Mt 10:3; Mr 3:18; Lu 6:14), e «Bartolomeo» potrebbe tradursi «figlio [dall'aramaico bar-] di Tolomeo» per cui il nome proprio del discepolo rimarrebbe celato in questi elenchi (cfr. «Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello» (Mt 10:2).13

Dopo aver presentato Gesù alla gente, sulla riva del fiume Giordano, Giovanni continuò il suo ministero per un certo tempo, essendo diventato una figura notoria in tutta la Giudea (Gv 3:22-30; Mt 14:3-4). Però quando era stato interrogato da una delegazione venuta da Gerusalemme, aveva ammesso soltanto di essere «la voce di uno che grida nel deserto» (v. 23, cfr Isaia 40:3) mentre il Cristo, che stava per essere manifestato, era un altro (Gv 1:24-28). Con lo stesso atteggiamento di umiltà, il Battista riconobbe che, avendo identificato pubblicamente il Cristo, il suo ministero doveva diminuire d’importanza (Gv 3:27-30).

Il primo segno miracoloso di Gesù (Gv 2:1-12)

L’occasione delle nozze di Cana è significativa per vari motivi. Innanzitutto ci fa sapere che Gesù non ruppe in maniera brusca i rapporti sociali che avevano caratterizzato la sua vita fino al momento della sua unzione. Infatti il viaggio in Galilea aveva lo scopo di onorare un invito a partecipare alla festa nuziale insieme con altri membri della sua famiglia.

In secondo luogo la festa delle nozze di Cana era significativa perché, nonostante il rispetto che Gesù mostrò in questa circostanza per i legami familiari, quando Maria gli fece notare la mancanza di vino (v.4) egli fece presente che tali rapporti erano in realtà profondamente modificati.

13 D.A. Carson, The Gospel According to John, Grand Rapids, MI, Eerdmans 1991, pp. 158-159.

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Infatti le sue parole, «Che c'è fra me e te, o donna? L'ora mia non è ancora venuta» (Gv 2:4), hanno la forza di un rimprovero. Lei non doveva fare ingerenze sul cammino che egli aveva intrapreso in nome del Padre. Maria reagì al rimprovero del figlio, rivolgendosi ai servitori con questo consiglio: «Fate tutto ciò che vi dirà» (v. 5). Come osserva Bruce, si tratta di un ottimo consiglio per ogni tempo, proprio perché fa riferimento alla Signoria e alla saggezza superiore di Gesù.14

In terzo luogo, nel compiere il miracolo della trasformazione dell'acqua in un ottimo vino, Gesù «manifestò la sua gloria», ossia mise in mostra la vera misura della sua persona, non riducibile a quella di un falegname o di un Giudeo comune. Non c’è da stupirsi che tale «segno» indusse il nascente gruppo dei suoi discepoli a credere in lui (v.11). L'atmosfera familiare, che ricompare alla fine del racconto di questo primo segno miracoloso, aggiunge un tocco di autenticità. Infatti dopo le nozze, durante le quali non tutti si erano resi conto della provenienza del vino migliore, Gesù «scese a Capernaum con sua madre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli; e rimasero là alcuni giorni» (v. 12).

In Giudea e Samaria

La ricorrenza della Pasqua fu l'occasione per Gesù di tornare nella capitale religiosa d'Israele. Seguirono qualcosa come otto mesi di ministero in Giudea.15 L'unico frutto durevole di questo periodo di ministero, per quanto ne sappiamo, fu l'interessamento sincero di Nicodemo, un membro del Sinedrio e la preparazione per la sua successiva accoglienza in Galilea (4:45). Per il resto, come in altri momenti di ministero di Gesù a Gerusalemme, si sviluppò una certa tensione fra lui e i Giudei (si veda Gv capp. 5, 7–10).

Gesù aveva frequentato il tempio regolarmente per una ventina di anni (si veda Lu 2:42; 3:23) e già durante la prima visita aveva sentito una particolare attrazione per quella che definì «la casa del padre mio». Quindi, era logico che volesse purificarlo dagli abusi praticati per fini commerciali. I Giudei della Diaspora avevano bisogno di cambiavalute e del modo di procurarsi degli animali da offrire in sacrificio. Ma queste attività non dovevano svolgersi nel cortile del tempio.

Pur contestando il diritto di Gesù di effettuare questa purificazione, i Giudei di Gerusalemme non potevano dire alcunché in proposito della correttezza dell'azione. Quanto alla domanda riguardante la sua autorità, Gesù rispose con una metafora con la quale alludeva alla propria morte e risurrezione come segno della propria autorità divina. È interessante notare come in nessun momento del suo ministero pubblico Gesù avrebbe concesso risposte spicciole alle domande di persone che gli si mettevano contro in maniera ipocrita. Così soltanto i suoi discepoli avrebbero avuto modo di comprendere la sua risposta a coloro che contestarono la sua azione (Gv 2:13-22).

14 F.F. Bruce, The Gospel of John, Grand Rapids, MI, Eerdmans 1983, p. 70.15 Questo calcolo è reso possibile dal cenno stagionale in Giovanni 4:35, dal quale si può dedurre che il viaggio attraverso la Samaria avvenne nella primavera dell'anno successivo alla celebrazione della Pasqua descritta in 2:13-25.

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Oltre a manifestare la sua autorità nel tempio, nel periodo della Pasqua, Gesù fece anche delle opere potenti (2:23). Tali manifestazioni di potenza suscitarono grande entusiasmo popolare fra gli abitanti di Gerusalemme ma non produssero una fede sincera. A Gesù interessava lo stato del cuore e non le apparenze, per cui non si fece ingannare da tale entusiasmo (vv. 23-25; cfr. Is 11:3-4). Però quando «giunse in Galilea, fu accolto dai Galilei, perché avevano visto le cose che egli aveva fatte in Gerusalemme durante la festa» (4:45). Intanto il significato dei segni operati da Gesù non era sfuggito a un membro importante del Sinedrio di Gerusalemme.

Due incontri significativi

Con Nicodemo (Gv 3:1-21)Nicodemo ebbe il coraggio di incontrare Gesù personalmente,

nonostante fosse una figura scomoda per la categoria di cui lui faceva parte. Le prime parole dette da questo «maestro d'Israele» quando incontrò Gesù mettono in cattiva luce gli altri membri del Sinedrio. Ecco le sue parole: «Rabbì, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio; perché nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui» (v. 2). Nel rispondergli, Gesù si lamentò della non volontà della categoria rappresentata da Nicodemo di dare la giusta importanza a brani profetici come Ezechiele 36:25-27 che prevedevano un rinnovamento a opera dello Spirito Santo.

Poi, con un’allusione significativa alla storia d’Israele (Gv 3:14-15; Nu 21:9), Gesù identificò in sé stesso, innalzato (sulla croce), l'oggetto

necessario della fede, per poter entrare nel Regno di Dio. Dopodiché sia Gesù che l’autore del Vangelo si rivolgono a ogni lettore con le parole memorabili del v. 16: «Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna». Segue un ammonimento solenne (Gv 3:17-21).

La scelta di Giovanni di dedicare uno spazio del suo Vangelo all’incontro di Nicodemo con Gesù non è casuale. Oltre all’importanza fondamentale dell’argomento discusso in tale occasione, questo «maestro d’Israele» compare altre due volte nel Vangelo di Giovanni in modo significato. La prima volta lo troviamo insistere che Gesù venisse sentito di persona prima che il Sinedrio prendesse una decisione sul suo conto (7:50–52). È da notare che Giovanni parla dell’incontro precedente ma non fa menzione del fatto che tale incontro fosse avvenuto di notte, il che suggerisce il bisogno di rivedere l’opinione popolare secondo cui lui fosse un codardo in quanto «venne di notte da Gesù» (3:2). Infatti nel contesto del Sinedrio, che aveva voluto Gesù arrestato, Nicodemo mostrò non poco coraggio al punto che i suoi colleghi l’accusarono di essere dalla parte di Gesù il Galileo. Nella terza occasione lo troviamo ad assistere Giuseppe di Arimatea nella sepoltura di Gesù, una persona che ufficialmente figurava come il peggiore dei criminali in quanto crocifisso (19:39–40). A questo Nicodemo Gesù rivelò in modo velato il valore salvifico della sua morte sulla croce e spiegò che si entra nel regno di

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Dio per fede in lui, a opera dello Spirito Santo. Queste sono delle verità di capitale importanza per tutti i tempi e per tutte le genti.

Con la Samaritana (Gv 4:1-42)Con quest’incontro tocchiamo con mano, per così dire, la

compassione che Cristo manifestava nell’intero corso della sua vita. In particolare scopriamo come, nei suoi rapporti umani, Gesù non si lasciava condizionare dalle convenzioni culturali del tempo. Infatti nel resoconto del suo spostamento dalla Giudea in Galilea, leggiamo che «doveva [gr. edei] passare per la Samaria» (v. 4). Doveva, non per motivi logistici, in quanto era usanza dei Giudei girare intorno la zona abitata dai Samaritani nel viaggiare fra Gerusalemme e la Galilea.16 Doveva, perché questo percorso faceva parte del mandato ricevuto dal Padre suo (v. 34). Il motivo di questa necessità diventa presto evidente: Gesù doveva incontrare una donna Samaritana di Sicar, vicino al pozzo di Giacobbe (v. 7) e non solo.

È istruttivo osservare la maniera in cui Gesù coinvolse la Samaritana in conversazione, arrivando in poco tempo a parlare di cose di fondamentale importanza sia per lei che per il popolo di cui faceva parte. Innanzitutto si rese debitore nei confronti di questa donna, chiedendole di dargli da bere (v. 7). Di conseguenza lei si sentì libera di esprimere la meraviglia che provava per il fatto che un Giudeo chiedesse da bere a lei, una donna e, per di più, samaritana! (v. 9). In secondo luogo, parlando di acqua e del pozzo di Giacobbe, Gesù entrò nel mondo della donna (vv. 10-15). In terzo luogo, anziché accusarla di aver mentito, Gesù riconobbe l'elemento di verità in ciò che la Samaritana disse a proposito del suo stato civile (vv. 16-18). In quarto luogo, usò le domande della donna per confrontarla e, partendo proprio dalle sue domande, le rivelò la propria identità di Messia (vv. 19-26). Il risultato era davvero sorprendente: dopo la testimonianza della donna, i suoi concittadini invitarono Gesù a fare sosta da loro e dopo due giorni i cittadini di Sicar fecero la seguente dichiarazione, la cui importanza di estende a tutti i lettori del Vangelo di Giovanni: «abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo» (v. 42).

È significativo che, nell'incontro con la Samaritana, Gesù si identificò apertamente come il Messia (v.26), cosa che non aveva fatto in modo esplicito nel suo incontro con Nicodemo. Evidentemente l'aspettativa messianica di questi Samaritani era più consona con la missione che il Padre aveva affidato a Gesù, rispetto all’aspettativa dei rabbini (cfr. Lu 24:21). Sempre parlando con la Samaritana, Gesù parlò di un nuovo tipo di rapporto fra l'adoratore sincero e Dio, reso possibile dallo Spirito Santo. Tale rapporto sarebbe stato il frutto dell’entrata in vigore del nuovo patto, sul fondamento del sacrificio di Cristo (Lu 22:20) e della successiva discesa dello Spirito Santo il giorno della Pentecoste. Al posto di commentare il tentativo della donna di spostare la conversazione sulla relativa legittimità del monte Gerizim e Gerusalemme come luoghi di culto, Gesù fece intendere che l'antico dissidio non aveva più ragione d'essere alla luce di questa grande novità (vv. 20-24).

16 Per conoscere l'origine dei Samaritani, si veda 2 Re 17:24-33.

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La piccola banda di discepoli che accompagnava Gesù nella sua traversata della Samaria imparò molte cose dal suo agire: innanzitutto il bisogno di allargare i propri orizzonti: anche in Samaria c'erano anime pronte «da mietere» (vv. 32-38). In secondo luogo la sua precisazione: «Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete» (v. 32), faceva capire che la direzione del suo cammino doveva necessariamente corrispondere al mandato ricevuto dal Padre e non alle aspettative umane. Disse: «Il mio cibo è far la volontà di colui che mi ha mandato, e compiere l'opera sua» (v. 34; cfr. 2:4). Sarebbe passato parecchio tempo prima che tutte le implicazioni di questo fatto venissero comprese dai futuri apostoli (si veda Mt 16:16-23; 17:1-9).

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. In quali termini Gesù si è fatto conoscere a Simone, il fratello di Andrea, e a Natanaele, l’amico di Filippo (Gv 1:40–51)?

2. Perché Gesù ha accettato di partecipare alle nozze di Cana?

3. Quali verità importanti impariamo dall’incontro con Nicodemo e dalle affermazioni che seguono (Gv 3:1-21)?

4. Dal momento che siamo chiamati a «fare discepoli» (Mt 28:18-20) e che «ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro» (Lu 6:40), come possiamo seguire l’esempio che Gesù diede ai suoi discepoli passando per la Samaria e parlando con la Samaritana?

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5 Gesù il Maestro per eccellenza

«Il SIGNORE, il tuo Dio, farà sorgere in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta come me; a lui darete ascolto»! (De 18:15) «Quando Gesù si pronunciò su qualsiasi argomento, non c’era più nulla da aggiungervi». J. Oswald Sanders17

Introduzione

L’incontro di Gesù con la Samaritana illustra come la sua vita manifestava l’amore di Dio, un amore che non discrimina né fra i sessi né fra le diverse razze né pone condizioni prima di manifestarsi. Quest’amore per tutti i discendenti di Adamo portò Gesù alla croce, scopo primario dell’incarnazione (Gv 12:27-32; 1 Gv 4:10). Ma oltre a essere amore, Dio è anche luce. In modo analogo la vita di Cristo è descritta come «piena di grazia e verità» (Gv 1:14). Ora considereremo il secondo di questi aspetti: come Gesù rivelava e insegnava la verità come nessun altro abbia mai fatto. Questo secondo scopo dell’incarnazione indusse l’apostolo Giovanni a chiamare Gesù «la Parola», anche perché insegnava tanto con l’esempio quanto a voce (Gv 1:1-18).

Poco dopo il suo ritorno in Galilea Gesù pronunciò il discorso che, più di qualunque altro, lo ha fatto conoscere come il Maestro per eccellenza. Nel suo «sermone sul monte» (Mt 5–7) a partire dalle «beatitudini», il Figlio di Dio insegna che, ancora di più delle nostre azioni, contano le motivazioni che le stanno dietro. Questo capovolgimento dei valori che dominano nella società umana, illustra bene l’origine divina del suo insegnamento. Un altro aspetto importante del sermone sono gli imperativi, in particolare i comandamenti indirizzati ai discepoli di tutti i tempi (si veda Mt 28:18-20). Un terzo aspetto di fondamentale importanza è costituito dai termini con cui Gesù definisce il suo rapporto con i libri di Mosè e i profeti. Lungi dall’abolirli Gesù afferma la propria intenzione di portare a compimento ciò che essi contengono (Mt 6:17-20), cosa che ha fatto in tre modi: completando la rivelazione speciale (Gv 16:12-15; Eb 1:1-2), vivendo in completa conformità con la volontà di Dio e adempiendo molte delle predizioni che essi contengono (Mt 4:13-17).

Le profezie si adempiono

Fin dai primi tempi il ministero di Gesù riscontrò una risposta positiva nei Galilei. Come già notato, quando andò in Galilea «fu accolto dai Galilei, perché avevano visto le cose che egli aveva fatte in Gerusalemme durante la festa [della Pasqua]» (Gv 4:45; cfr. 2:23). Appena arrivato in Galilea, Gesù si recò nuovamente a Cana, dove aveva operato il suo primo segno miracoloso. Mentre era lì gli venne incontro un ufficiale di Erode, il cui figlio era infermo, a Capernaum. Gesù guarì questo figlio a distanza (Gv 4:46-54). Questo fatto e la fede dell'ufficiale

17 J. Oswald Sanders, The Imparable Christ, p. 165.

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fanno sì che questo secondo segno costituisca un invito alla gente di ogni tempo e luogo a riporre fede in Gesù.

Da Cana Gesù andò a Nazaret ed, entrato nella sinagoga com’era sua abitudine nel giorno di sabato, accettò di leggere un brano dal rotolo di Isaia. Dopo aver riconsegnato il libro all'inserviente, «si mise a sedere, e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui» (Lu 4:20). Avendo guadagnato l'attenzione di tutti, Gesù applicò a sé stesso il programma messianico contenuto in Isaia 61:1-2a. Non è un caso che si fermò con le parole «per proclamare l'anno di grazia del Signore», rimandando al futuro la realizzazione del «giorno di vendetta del nostro Dio» (cfr. Gv 12:47; 5:24-29). Nella continuazione del suo discorso Gesù rievocò alcuni aspetti del ministero di Elia ed Eliseo per comunicare ai suoi concittadini il seguente messaggio: Israele rischia di rimanere a guardare ciò che è «l’anno accettevole del Signore», lasciando che fossero soprattutto i Gentili a sperimentare la salvezza di Dio.

Queste parole produssero un effetto drammatico. Infatti, ciò che era stata la meraviglia dei suoi concittadini si trasformò in rabbia, al punto che cercarono di uccidere il loro concittadino che ora si presentava come il Messia. Da parte sua, Gesù, dopo essere scampato al tentativo di precipitarlo giù dal ciglio del monte sul quale era costruita Nazaret, egli lasciò il villaggio che lo aveva rigettato e, per quanto ne sappiamo, non vi tornò più.

Capernaum (“villaggio di Naum”), dove Gesù era diretto, era una cittadina situata sulla riva del lago di Galilea. Questa cittadina diventò il fulcro del ministero di Gesù per un anno, durante il quale raggiunse l'apice della propria popolarità in Galilea. Matteo commenta questa circostanza come segue: «lasciata Nazaret, [Gesù] venne ad abitare in Capernaum, città sul mare, ai confini di Zabulon e di Neftali, affinché si adempisse quello che era stato detto dal profeta Isaia: “Il paese di Zabulon e il paese di Neftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre, ha veduto una gran luce; su quelli che giacevano nella contrada e nell'ombra della morte, una luce s'è levata”. Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”» (Mt 4:13-17).

Tutti i Vangeli fanno comprendere che la preparazione di un gruppo di uomini destinati a essere «apostoli» di Gesù era una priorità durante gli anni del ministero pubblico di Gesù. A questo proposito, al suo arrivo a Capernaum avvenne la chiamata stabile di quattro pescatori, di cui tre avrebbero costituito il nucleo del gruppo dei Dodici. Almeno due di loro, Andrea e Simon Pietro, avevano avuto un contatto con Gesù precedentemente in Giudea (si veda Gv 1:37-42). Ora però Gesù li chiama, insieme a Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, a un impegno stabile. La promessa legata alla chiamata, «vi farò pescatori d'uomini», fa comprendere che questi quattro uomini avrebbero avuto un ruolo importante nel programma di Gesù. È probabile che la chiamata di almeno un altro dei futuri apostoli, chiamato variamente Levi e Matteo, che si trovava “seduto al banco delle imposte”, avesse avuto luogo a Capernaum (Mt 9:1-13; Luca 5:27-32).

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Gesù, il Maestro (Mt capp. 5- 7; cfr. Mr 1:22)

Dopo un periodo intenso di insegnamento nelle sinagoghe della Galilea, Gesù pronunciò il più famoso dei suoi discorsi, che va sotto il nome di «sermone sul monte» (Mt 4:23–7:29). Dalle parole: «vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui …» (5:1) si deduce che l'intenzione di Gesù era di appartarsi per istruire i suoi discepoli. Infatti la prima parte del sermone è diretta a persone che hanno già deciso di seguire Gesù. D'altronde, soltanto coloro che hanno ubbidito al duplice comandamento di Gesù: «ravvedetevi e credete al vangelo» (Mr 1:14) possono comprendere e fare propria la logica delle beatitudini (5: 3-12). Inoltre soltanto persone che sono autentici discepoli di Gesù possono agire come «il sale della terra» (v. 13) e «la luce del mondo» (vv. 14-16).

Ma Gesù e i discepoli non rimasero soli. A poco a poco la folla li seguì sul monte, un fatto intuibile dal contenuto dell’insegnamento di Gesù e confermato da Matteo (7:28-29). Questo sermone è importante non solo per la ricchezza dei suoi contenuti etici ma anche perché costituisce un campione della metodologia didattica usata da Gesù il Maestro. Ad esempio l’esposizione di alcuni comandamenti (5:21-48) testimonia l'autorità con cui insegnava. Al punto Gesù ha puntualizzato che non intendeva sostituire Mosè bensì andare oltre le rivelazioni ricevute da Israele. Disse: «Non pensare che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento» Intanto tutto ciò che la legge e i profeti prevedevano sarebbe, prima o poi, adempiuto (Mt 5:17-19).

Nel resto del capitolo 5, Gesù corregge l'insegnamento orale degli Scribi. A questo proposito è importante notare che non dice: «Avete letto nella legge, ma io vi dico». Dice invece: «avete udito che fu detto agli antichi [dai dottori della legge] … ma io vi dico» (vv. 21-22, 27-28, 31-32, 33-34, 38-39, 43-44). In altre parole, Gesù non propone un insegnamento in antitesi a quello della legge, piuttosto mette il suo insegnamento in antitesi al modo in cui gli Scribi avevano interpretato la legge. Allo stesso tempo Gesù radicalizzò il senso della legge, mettendo in evidenza le motivazioni che stanno dietro sia l'ubbidienza che la disubbidienza. Gli uditori notarono la differenza fra Gesù e i loro Scribi (7:28-29).

Nella prima parte del capitolo 6 (vv. 1-18) Gesù valuta alcune pratiche giudaiche, compresa la preghiera. I suoi comandamenti inerenti a tali pratiche rimangono fondamentali per ogni tempo, anche se i parametri dell'ubbidienza sono cambiati, essendo entrato in vigore il nuovo patto (Lu 22:20). Invece nella seconda parte del capitolo 6 (vv. 19-34) presenta ciò che può ben dirsi «la filosofia di vita di Gesù». Si tratta di un insegnamento importantissimo per i nostri tempi caratterizzati tanto dal materialismo quanto dall’ansietà. Ciò che rende indimenticabile quest’insegnamento è la moltitudine di immagini e similitudini nonché il modo efficace con cui il Maestro si appella alle emozioni e alla volontà dei suoi uditori. Questi elementi sono presenti anche nell'ultima parte del sermone, indirizzata maggiormente alla folla (cap. 7).

Vale la pena chiedersi perché la gente, quando desiderava parlare con Gesù, si rivolgeva a lui usando l’appellativo «Maestro» o «Rabbí». A

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questo proposito il titolo «Maestro» appare almeno quarantacinque volte nei Vangeli con riferimento a Gesù. Questo modo di considerarlo si doveva in parte al fatto che, come altri rabbini giudaici, insegnava la legge (Mt 5; Mr 12:28-34); insegnava nelle sinagoghe (Mr 1:21-28,39; 3:1-6; 6:1-6), raccoglieva discepoli intorno a sé (Mr 1:16-20; 3:13-19), teneva dibattiti con gli Scribi (Mr 7:5-23; Lu 20; Gv capp. 5 e 7 a 10), veniva interpellato intorno a dispute legali (Mr 12:13-17; Lu 12:13-15; Gv 7:53-8:11), abitualmente si sedeva quando insegnava (Mt 5:1; Mr 4:1; 12:41-43), citava gli Scritti sacri d’Israele (Mr 2:25-26; 10:6-9, 19; 12:26) e usava tecniche poetico-didattiche per facilitare la memorizzazione di ciò che diceva.

Però non mancavano aspetti unici nel modo in cui Gesù svolgeva il suo ministero di Maestro, dimostrando anche di non sentirsi obbligato a seguire le consuetudini rabbiniche del tempo. Ad esempio, a differenza di altri maestri, Gesù coglieva il momento per insegnare cose utili, senza badare neanche al posto in cui si trovava (Mr 4:1; 8:1-4; 14:49; Mt 5:1; Gv 13:12-17). Inoltre parlava con autorità personale: mentre gli Scribi e i Farisei semplicemente trasmettevano un insegnamento tradizionale, Gesù associava il suo insegnamento con la sua persona (Mt 7:28-29; Gv 6:35-63; At 1:8). Inoltre, radicalizzava quanto richiesto da Dio nella legge, senza però contraddirne la sostanza. A questo proposito distingueva fra la parola di Dio e la tradizione degli uomini, il che gli permetteva di prendere le distanze da quest’ultima (Mr 7:1-8; cfr Mt 22:34-40).

Intanto l’unicità di Gesù come Maestro dipendeva in particolare dal contenuto del suo insegnamento con cui aggiornava la rivelazione speciale alla luce dell'imminente entrata in vigore del nuovo patto (si veda ad esempio Gv 4:23-24). Infine ciò che soprattutto faceva arrabbiare i farisei e gli scribi era il fatto che Gesù, mosso dall’amore di Dio, era disposto a essere Maestro anche nei confronti di persone da cui gli altri rabbini si tenevano a distanza: donne, pubblicani, «peccatori» e bambini (Mr 2:14-17; 10:13-16; Mt 11:16-19; Lu 7:39; 15:1-2).

Figure retoriche usate da Gesù

Le capacità didattiche di Gesù erano eccezionali. Robert Stein ha fatto notare che la forza perenne e unica dell'insegnamento di Gesù si deve, oltre che alla sua Persona e al carattere eccezionale di ciò che aveva da comunicare, anche alla metodologia adoperata.18 Consideriamo qui di seguito le figure retoriche principali che illuminano l'insegnamento di Gesù.

Esagerazione Esiste un tipo inopportuno di esagerazione, non di rado caratterizzato

dall'uso di parole come «sempre» e «mai», come nelle seguenti frasi: «Tu arrivi sempre in ritardo», «Tu non mi ascolti mai». Però c'è un altro tipo

18 Robert H. Stein, The Method and Message of Jesus' Teachings, Philadelphia, The Westminster Press 1978.

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di esagerazione, fatto ad arte, per comunicare un concetto in modo indimenticabile. Ad esempio: «Questo paese è un paradiso». Gesù si serviva spesso di questo secondo tipo di esagerazione, ad esempio quando disse: «Chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due» (5:40-41), e ancora: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada» (10:34).

La forma di esagerazione si distingue dal discorso iperbolico in quanto la cosa detta potrebbe essere intesa, erroneamente, in senso letterale (il che, nel caso dell'iperbole, non è possibile). Quindi dove si trova la forma dell'esagerazione nell'insegnamento di Gesù è importante porre la domanda: Che cosa intende insegnare Gesù con quest'espressione? Sarebbe un grave errore comprendere in modo letterale la forma di esagerazione e agire di conseguenza, per esempio quando Gesù dici: «Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te; poiché è meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella geenna» (Mt 5:29-30 e cfr. Luca 14:26 alla luce di Mr 7:11-13; Gv 19:26-27).

IperboleIn questo caso il pericolo di fraintendere il senso dell'insegnamento di

Gesù è minimo. Chi potrebbe avere una trave nell'occhio (Mt 7:3-5) o inghiottire un cammello (23:24)!? Similmente è impossibile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago (Mr 10:23-25; cfr Mt 6:2-4)! Intanto, notate la grande forza dell'insegnamento contenuto in questi brani, proprio perché Gesù si è servito ad arte della figura retorica dell'iperbole.

Giochi di paroleTralasciando i giochi di parole che sicuramente avranno fatto parte

del parlare di Gesù in lingua aramaica (ad esempio: galma «moscerino»/gamla «cammello», Mt 23:24), notiamo alcuni dei casi che mantengono la loro forza anche dopo che il testo greco del Nuovo Testamento è stato tradotto in italiano. In Luca 9:60 Gesù risponde così a chi chiede il permesso di tornare a casa per «seppellire» il proprio padre: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va ad annunziare il regno di Dio»! È chiaro che, in questo caso, la parola «morti» viene usata in due modi diversi nella stessa frase, con grande efficacia. In modo analogo, quando alcuni farisei protestarono che il parlare di Gesù li faceva passare per ciechi, Gesù rispose: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9:41).

Senza dubbio l’esempio più famoso dell'uso fatto da Gesù del gioco di parole è quello che appare in Matteo 16:18. Pietro fece la sua famosa confessione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16) a Cesarea di Filippo, dove si trova una massiccia facciata rocciosa, dalla quale spunta uno dei principali affluenti del fiume Giordano. Gesù replicando gli disse, fra l’altro: «Tu sai Pietro e su questa pietra edificherò la mia

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chiesa». La seconda pietra è evidentemente la verità confessata da Pietro che costituisce il fondamento della chiesa.

Similitudini e paraboleLe similitudini sono abbastanza frequenti nell'insegnamento di Gesù.

I termini che indicano la presenza di una similitudine sono «simile a» e «come». L'uso di similitudini ingaggia l'immaginazione dell’uditore più di qualsiasi altra cosa perché fa riferimento a ciò che fa parte della sua esperienza in vista di comprendere il vero peso di ciò che si vuole comunicare. Basti l'esempio che segue per illustrare questo fatto: Ai Dodici mandati in missione, Gesù disse: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10:16; cfr. 12:40; Lu 13:34; 17:6; Gv 10:1-6; e le similitudini di ragionamento in Mt 6:28-30; 7:9-11; 10:25; Mr 2:23-28; Lu 18:1-8; Gv 13:14).

La parabola è una similitudine portata al punto di avere una vita propria. È stato detto che le parabole di Gesù sono «delle storie terrene con un significato celeste». Con la forma di parabola Gesù comunicava delle verità importanti facendo uso di fatti e situazioni che appartenevano in qualche modo alla vita comune dei suoi ascoltatori. Essendo velato il significato della parabola, Gesù le usava tanto per rivelare quanto per nascondere una verità o, per citare la metàfora di Gesù, per “non gettare le vostre perle davanti ai porci” (Mt 7:6; 13:10-17).

Il meccanismo fondamentale della parabola è l’analogia sottintesa fra l'idea centrale del racconto e la verità o sfida da comunicare. Fra le parabole più famose dell'Antico Testamento vi sono quella che il profeta Natan raccontò a Davide (2 S 12:1-7) e quella della vigna del Signore (Is 5:1-7; cfr il matrimonio di Osea e molte altre azioni simboliche che i profeti d'Israele furono ordinati di fare). La chiave d'interpretazione delle parabole di Gesù in genere di trova nel contesto letterario immediato. Considereremo alcune delle sue parabole nel corso del nostro studio panoramico della vita di Cristo. Intanto va ricordata quella con cui terminò il «sermone sul monte»: quella delle due case di cui una fondata sulla roccia, quale immagine di chi ascolta la sua parola e la mette in pratica, e l’altra sulla sabbia, quale immagine di chi l’ascolta ma non la mette in pratica (Mt 7:24-27). Da questa parabola emerge che l'ubbidienza all'insegnamento contenuto in Matteo capitoli 5-7 non è un optional, bensì essenziale per chi non vuole vedere la rovina della propria vita.

La metàforaLa metàfora è una forma molto dinamica di linguaggio in cui la

comparazione è implicita ma non espressa. Tra i molti esempi dell’uso che Gesù ha fatto dalla metàfora, si possono notare: i modi in cui si presenta, a partire da «Io sono», nel Vangelo di Giovanni, o affermando così la sua deità (Gv 8:58) oppure quando si è definito pane disceso dal cielo (Gv 6:35-40). Similmente i suoi discepoli sono descritti come «sale» e «luce» (Mt 5:13-16). Altri esempio sono la porta «stretta» e la via «angusta» da una parte e la porta «larga» e la via «spaziosa» d’altra

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parte, per simboleggiare il tipo di scelta che portano rispettivamente alla vita e alla perdizione (7:13-14), le metafore della mietitura (Mt 9:37-38; Gv 4:35) e la descrizione di alcune persone (Mt 23:29,33; Lu 13:31-32). Vale la pena far menzione qui anche del modo metaforico in cui il corpo e sangue di Cristo sono rappresentati dai simboli del pane e del vino nella Cena commemorativa istituita da Cristo perché i suoi discepoli si ricordassero di lui e del modo della stipulazione del nuovo patto (Mr 14:22-24; Mt 26:26-30; Lu 22:19-20).

Il proprio esempioGesù, il Maestro per eccellenza, supera qualsiasi altro maestro non

solo per l’efficacia del suo insegnamento ma anche per la coerenza che manifestava fra insegnamento e pratica. Un esempio per tutti è l’abbinamento di esempio e il comandamento «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13:34; cfr. v.1). Si tratta dello spirito di servizio nell’atto di lavare i piedi dei discepoli e le parole dette da Gesù dopo che aveva ripreso il suo posto a tavola: «Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13:13-14). Abbiamo bisogno di imparare dal modo in cui Gesù insegnava. Intanto in una cosa dobbiamo seguire il suo esempio, cioè nel’essere coerenti fra ciò che insegniamo e ciò che facciamo.

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. Qual è stato il contributo di Gesù alla rivelazione speciale? (si veda Eb 1:1-2)

2. Perché il suo insegnamento è senza paragoni?

3. Elenca tutti i comandamenti del Signore contenuti nel Sermone sul monte (Mt 5–7) e dopo ciascuno di essi commenta su come possa essere ubbidito nel contesto della propria vita.

4. Se c’è tempo, svolgi lo stesso esercizio sui capitoli 13-16 del Vangelo di Giovanni.

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6 Una popolarità precaria

Introduzione

Gesù raggiunse il massimo della sua popolarità in Galilea, ma la direzione in cui il suo ministero lo portava non corrispondeva alle speranze del popolo. Intanto il Messia aveva formalizzato un rapporto particolare con dodici uomini destinati a essere i suoi apostoli. La preparazione di questi uomini, mediante il proprio esempio, il suo insegnamento e dei tirocini di servizio, rivestiva sempre più importanza più passava il tempo.

Era inevitabile che prima o poi il periodo di popolarità finisse e che sia i Dodici che gli altri «discepoli» affrontassero delle scelte molto impegnative. La svolta avvenne dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci e il relativo discorso «duro» di Gesù. Nel momento della crisi i Dodici, quasi al completo, vedendo in lui «il Santo di Dio» e l'unico che ha «parole di vita eterna», gli rimasero fedeli. Intanto avrebbero dovuto rivedere la propria concezione di come si sarebbe realizzato il Regno di Dio, che trovava il suo centro in Cristo stesso. Per comprendere questo Gesù ha introdotto il concetto rivoluzionario di due avventi del Messia.

Scontri con le potenze demoniache e la classe religiosa dominante (Mr 1:21–3:12)

È impressionante leggere questo riassunto del ministero di Gesù, dopo il suo arrivo in Galilea: «La sua fama si sparse per tutta la Siria; gli recarono tutti i malati colpiti da varie infermità e da vari dolori, indemoniati, epilettici, paralitici, ed egli li guarì. Grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli [dieci città greche situate a est del cosiddetto “mare della Galilea”], da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano» (Mt 4:25). Non possediamo un resoconto completo del ministero che Gesù svolse in questo periodo. Ciò che troviamo nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) è la descrizione di alcune giornate tipiche che lo videro impegnato su più fronti. Leggendo questi racconti, si rimane colpiti dall'intensità delle attività di Gesù, che guarisce, esorcizza, predica e insegna nelle sinagoghe con franchezza, anche davanti ai suoi avversari.

Un tipico esempio dell’opposizione sperimentata da Gesù fu quando dei farisei e scribi di Gerusalemme vennero a lui per lamentarsi del fatto che i suoi discepoli non digiunavano (Mr 2:18-20). Gesù non si lasciò influenzare da questa protesta; anzi se ne servì per fare un breve discorso metaforico riguardante il pezzo di stoffa e il vino nuovo. Partendo da come bisogna gestire il vino nuovo e un pezzo di stoffa nuova fece intendere che il ministero da lui intrapreso avrebbe portato a qualcosa qualitativamente nuovo rispetto al Giudaismo del suo tempo (vv. 21-22).

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È istruttivo osservare ciò che succedeva quando Gesù scacciava i demoni: i demoni riconoscevano in lui il Santo di Dio (Mr 1:23-28, 39; 3:11-12). Ciò mise in cattiva luce i farisei che, al posto di riconoscerlo per quello che si dimostrava di essere, tramarono con gli Erodiani per farlo morire, pur di non perdere la loro influenza nell’ambito delle sinagoghe. Da parte sua Gesù non fece nulla per guadagnarsi la loro simpatia; anzi, agì in modo che risultava a loro provocatorio: andando a cenare in casa di un ex-pubblicano (2:13-17), guarendo e perdonando i peccati di un paralitico (2:1-12), ma soprattutto insistendo che il sabato è fatto per l'uomo e non viceversa, per cui è lecito fare del bene nel giorno di sabato (2:23–3:6).

A prima vista sembra strano che Gesù non reagisse in alcun modo alla coalizione inedita di forze che tramavano la sua morte (3:6). Il motivo: la consapevolezza che il traguardo del suo cammino terreno era una morte vicaria «per togliere i peccati del mondo» (Gv 1:29). Sapeva pure che i suoi avversari non potevano affrettarne i tempi (si veda Lu 13:31-33; Gv 2:19-22). Intanto, vivendo in modo pericoloso pur di compiere il suo mandato, Gesù modellò il principio del martirio che rese normativo anche per i suoi seguaci (Mr 8:34-38).

Vista dall'esterno, questa fase del ministero di Gesù, in cui lo seguivano grandi folle di persone, aveva tutta l’apparenza di un grande successo. Però quando si legge attentamente il racconto contenuto nei Vangeli diventa evidente che le folle seguivano Gesù con una certa superficialità. Da parte sua, Gesù mostrava molta compassione ma, allo stesso tempo, rifiutava di conformarsi alle aspettative messianiche popolari. Questo è particolarmente evidente nella circostanza che fece precipitare la sua popolarità. Aveva operato uno dei suoi miracoli più spettacolari in quanto coinvolgeva migliaia di persone: la moltiplicazione dei cinque pani e due pesci, per sfamare «cinquemila uomini, oltre alle donne e ai bambini» con «dodici ceste piene» di pezzi avanzati (Mt 14:13-21). L’importanza di questo miracolo può essere misurata dal fatto che viene raccontato in tutti e quattro i Vangeli (cfr. Mr 6:30-44; Lu 9:10-17; Gv 6:6:1-14).

È Giovanni a renderci partecipi di ciò che accadde il giorno dopo: «La gente dunque, avendo visto il segno miracoloso che Gesù aveva fatto, disse: “Questo è certo il profeta che deve venire nel mondo”. Gesù, quindi, sapendo che stavano per venire a rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, da solo» (Gv 6:14-15). Il giorno seguente la gente provò nuovamente a convincere Gesù a lasciarsi prendere per farlo re (v. 22) ma Gesù disse: «In verità, in verità vi dico che voi mi cercate non perché avete visto dei segni miracolosi, ma perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati. Adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà» (vv. 26-27).

Seguì un lungo discorso in cui Gesù si presentò come «il pane della vita … disceso dal cielo» (vv. 35, 38), con il seguente annuncio importante: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna» (v. 48). Ma la gente non era pronta a entrare in un rapporto stretto con la persona di Cristo che, sul piano spirituale, egli rassomigliava a mangiare la sua carne, come si mangia il pane quotidiano. Non cambiò

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opinione neanche dopo che Gesù aveva chiarito che «le parole che vi ho dette sono spirito e vita» (vv. 50-51, 63). Al contrario, «Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui» (v. 66). E Gesù? Non modificò il suo messaggio: era venuto per adempiere la legge e i profeti e per compiere la volontà del Padre, non per soddisfare i desideri e le speculazioni umane.

La scelta e la missione dei Dodici (Mr 3:13-19; 6:7-13, 30; Mt 10:2-42; Lu 6:12-16; 9:1-6; Gv 15:16)

Affinché la salvezza che Gesù era venuto a compiere potesse essere sperimentata da tutte le genti, era fondamentale la scelta e la preparazione di un gruppo ristretto di discepoli. L'importanza che Gesù attribuì alla scelta dei Dodici è deducibile dal fatto che fece tale scelta soltanto dopo un anno circa di ministero pubblico e dopo aver trascorso una notte intera in preghiera (Lu 6:12-13). Da questo punto in avanti Gesù avrebbe trascorso sempre più tempo con questi uomini, ammaestrandoli pazientemente e permettendo che essi lo affiancassero nel proprio ministero (Mt 10; cfr. Lu 10:1-24). Questa scelta avvenne qualche tempo prima degli eventi che fecero precipitare la sua popolarità.

A proposito dei componenti del gruppo dei Dodici, è da notare, innanzitutto, che questo gruppo non comprendeva uomini che avessero già una grande preparazione culturale; evidentemente Gesù preferiva lavorare con uomini disposti a imparare da lui. In secondo luogo alcuni del gruppo erano stati discepoli di Giovanni il battista, quasi sicuramente Simone, detto lo Zelota, era stato un membro attivo del movimento degli Zeloti (anche Gesù aveva bisogno di uomini pronti a rischiare) mentre Matteo era stato un pubblicano che si «sedeva al banco delle imposte» (anche Gesù aveva bisogno di uno scriba (Mt 9:9; cfr. 13:52). Evidentemente la scelta si basava sulla potenzialità che Gesù vedeva in ciascuno di questi uomini e non sulla loro fama. In terzo luogo, probabilmente erano tutti Galilei, quindi persone meno chiuse nei propri schemi sociali e religiosi della gente della Giudea.

Il ruolo che Gesù prevedeva per questi uomini non era semplice. Dovevano stare costantemente con lui, il che significava per Pietro essere separato dalla moglie per lunghi periodi. Inoltre dovevano fare proprio il suo insegnamento e comandamenti non soltanto per vivere di conseguenza ma anche per poter insegnare ai nuovi discepoli a fare altrettanto (Mt 28:20; At 2:42). Infine dovevano compiere il mandato che Cristo avrebbe affidato loro dopo la sua risurrezione per avviare la nuova epoca nella storia della salvezza. Intanto dovevano quasi subito esporsi a dei rischi, andando in giro per dei periodi di tirocinio con delle istruzioni dettagliate e un mandato preciso (10:5-42), «come pecore in mezzo ai lupi» (v. 16).

Quanto alle istruzioni relative alla missione che Gesù diede ai Dodici come tirocinio (Mt 10:5-42), esse vanno comprese con riferimento al contesto (giudaico) del ministero di Cristo. Era ancora in vigore il patto mosaico e Gesù stava ancora manifestando la propria messianicità soltanto a coloro i cui Scritti sacri li mettevano in grado di riconoscerlo. I Dodici dovevano contribuire al completamento di questa campagna. Ne

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consegue che, prima di applicare queste istruzioni all'attuale missione della chiesa, occorre filtrarne quanto aveva attinenza soltanto al tempo prima che entrasse in vigore il nuovo patto. Infatti la missione della chiesa parte dalla vittoria di Cristo e quindi consiste nella proclamazione di una buona notizia. Il «filtro» da applicare alle istruzioni di Matteo 10:5-42 sono le istruzioni di Gesù stesso riportate in Luca 22:35-37 e il contenuto delle varie forme del mandato che diede ai Dodici dopo la sua risurrezione (Mt 28:19-20; Mr 16:15-16; Lu 24:44-47).

Uno sguardo all’insieme del ministero di Gesù nella Galilea

Dalle parole con cui Gesù rispose agli inviati di Giovanni il battista (Mt 11:2-3) possiamo dedurre che lo scopo principale del suo ministero pubblico era quello di permettere alle folle di riconoscerlo come il Messia promesso. Ecco la sua risposta: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi recuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!» (vv.4-6; cfr. Is 61:1-2a; Gv 15:22-24; At 2:22). Dopo la partenza degli inviati di Giovanni, Gesù «prese a rimproverare le città nelle quali era stata fatta la maggior parte delle sue opere potenti perché non si erano ravvedute: “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida! Perché se in Tiro e Sidone fossero state fatte le opere potenti compiute tra di voi, già da molto tempo si sarebbero pentite, con sacco e cenere. Perciò vi dichiaro che nel giorno del giudizio la sorte di Tiro e di Sidone sarà più tollerabile della vostra. E tu, o Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? No, tu scenderai fino all’Ades, perché se in Sodoma fossero state fatte le opere potenti compiute in te, essa sarebbe durata fino ad oggi. Perciò vi dichiaro che nel giorno del giudizio la sorte del paese di Sodoma sarà più tollerabile della tua» (Mt 11:20-24).

Ma la compassione di Gesù rimase inalterata. Così dopo aver ringraziato il Padre di essersi rivelato ai «piccoli», anziché agli «intelligenti» poco inclini all’ascolto, Gesù lanciò il seguente invito: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo per le anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero» (vv.25-30). Quest’invito di Gesù rimane valido ancora oggi (Eb 13:8).

Uno dei temi centrali dell’insegnamento di Gesù era il regno di Dio. A questo proposito disse in un’occasione: «se è per l'aiuto dello Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque pervenuto fino a voi il regno di Dio» (Mt 12:28). Per disconoscere questo fatto bisognava attribuire le sue opere potenti a tentativi di Satana di falsificare i segni messianici. Ma data la potenza manifestata nei prodigi di Gesù, compreso il controllo degli elementi naturali (Mt 14:22-36), la liberazione e trasformazione dell'indemoniato di Gerasa (Mr 5:1-20) e risurrezione di alcuni morti (Mr 4:35-5:43), tale attribuzione era inescusabile, anzi costituiva una «bestemmia contro lo Spirito Santo» (Mt 12:32).

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Purtroppo le folle volevano soltanto alcuni dei benefici periferici del regno di Dio e non il Re, senza la cui salvezza il regno sarebbe stato privo di fondamento (Gv 6:27-71). Così le folle si rivelarono impazienti ed essenzialmente incredule nei confronti di Gesù e di conseguenza lo lasciarono quando avevano capito che egli non intendeva appagare i loro desideri. A coloro che non andarono via – i Dodici – Gesù insegnò delle cose importanti relative alla realizzazione del regno di Dio. Lo fece con una serie di parabole, due delle quali sono seguite da una sua interpretazione. Questo fatto può essere attribuito, almeno in parte, all'eccezionale importanza di queste parabole, per cui non andavano assolutamente fraintese! Ecco la sostanza di queste interpretazioni:

La parabola del seminatore e dei diversi terreni indica in maniera chiara le differenze fra le false professioni di fede e la «buona terra», ossia coloro che fanno parte del regno di Dio. Questi ultimi sono coloro che intendono la Parola e, di conseguenza, portano frutto (vv. 18-23). La parabola delle zizzanie e del buon seme, invece, prospetta una vita disagevole per i figli del regno durante il tempo che intercorre fra il primo e il secondo avvento di Cristo. Inoltre insegna che il regno si realizza in due tempi, in cui esso assume due forme diverse. Nella prima forma, frutto della «semenza» identificata nei «figli del regno», è essenzialmente spirituale e convive con il maligno, mentre la sua seconda manifestazione sarà pubblica ed universale e attende il ritorno in gloria del Figlio dell'uomo (vv. 36-43).

La colpevolezza della gente che non ha dato retta a Gesù, in quanto legata agli schemi e preconcetti del Giudaismo dell'epoca (Gv 15:22-25), appare ancora più evidente quando la si confronta con la fede del centurione romano (Lu 7:1-10) e la testimonianza resa dal Geraseno nella Decapoli (Mr 5:18-20). Si stava avverando la predizione che Gesù aveva fatta, e che suscitò tanto scalpore, nella sinagoga di Nazaret (Lu 4:23-28) e cioè: le benedizioni divine venivano sperimentate sempre di più dagli stranieri, mentre Israele, per la sua incredulità, non le sperimentava.

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. Quali scopi aveva Gesù nello scegliere dodici dei suoi discepoli per «tenerli con sé»?

2. Perché Gesù non accettò di essere fatto re, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci? (si veda Gv 6:15, 24-29)

3. Che cosa devono fare «i figli del regno» per essere «il buon seme» del regno di Dio (si veda Mt 13:36-43)?

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7 Alcune rivelazioni fondamentali

«Se Gesù non è Dio, allora non c’è alcun cristianesimo e noi che lo adoriamo non siamo altro che idolatri». J. Oswald Sanders.19

Introduzione

Tutto ciò che riguarda la vita di Cristo è della massima importanza. Eppure le verità da lui esposte negli episodi che ci accingiamo a studiare hanno un’importanza impareggiabile per la nostra conoscenza di Dio e del suo piano per l’umanità. Se ricordiamo sempre di distinguere fra la Parola di Dio e la tradizione degli uomini, sapremo ciò che è vero, anche se inverosimile dal punto di vista umano, e ciò che va fatto, a prescindere dall’opinione di chi ci sta intorno. Ad esempio il sapere che l’uomo Gesù era anche il Figlio di Dio incarnato rende la fede cristiana assolutamente unica fra i discorsi religiosi che fanno a gara per catturare la nostra attenzione. Abbiamo già visto la sua vera umanità. Ora vediamo, in modo ancora più tangibile, la sua vera deità.

A questo punto della vita di Cristo avviene anche un evento che, per Simon Pietro, sarebbe rimasto emblematico della sua trascendenza. Infatti quando doveva controbattere coloro che mettevano in dubbio «la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo» quest’apostolo confermò la veridicità della sua testimonianza facendo appello a ciò che aveva visto sul monte della trasfigurazione (2 P 1:16-18). In quel momento lui e i suoi compagni avevano ricevuto conferma sia della identità di Gesù come Figlio di Dio sia del fatto che la morte figurava come parte integrante della sua vocazione messianica.

La Parola di Dio e la tradizione degli uomini (Mt 15:1-14)

La dispersione di molti seguaci di Gesù, dopo il suo discorso «duro» (Gv 6:60, 66), segnò una svolta importante nel suo ministero. Pur riconoscendo in Gesù «il profeta che doveva venire nel mondo» (Gv 6:14), avevano frainteso la sua missione e, così facendo, avevano dimostrato di non conoscere neanche il Padre (vv. 45-46). Poco dopo quest’evento alcuni Farisei e Scribi venuti da Gerusalemme pretesero da Gesù una spiegazione per il fatto che i suoi discepoli non rispettavano certe tradizioni degli antichi, in particolare che «non si lavano le mani quando prendono cibo» (Mt 15:1-2). L’accusa non era di mangiare con mani sporche bensì con mani contaminate dal punto di vista cerimoniale perché non praticavano le abluzioni prescritte dalla tradizione dei padri.20

Anziché discutere sui meriti delle abluzioni previste dalla tradizione, Gesù andò subito alla questione di fondo, ossia alla pretesa che i suoi discepoli dovessero rispettare le regole stabilite dalla

19 J. Oswald Sanders, The Incomparable Christ, p. 95.20 Per sapere di più sulla pratica di tali abluzioni, si può consultare il Manuale della comunità di Qumran (1QS 5:13-14).

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tradizione. Tale pretesa trascurava una questione più generale che Gesù articolò nella forma di una domanda: «E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio a motivo della vostra tradizione?» (Mt 15:3). A titolo di esempio Gesù citò il fatto che alcuni di loro erano convinti di essere esonerati dal dare un aiuto economico ai propri genitori, come prevede il quinto comandamento del decalogo (Es 20:12) se davano soldi per sostenere altri aspetti dell’opera di Dio. La conclusione tratta da Gesù è pesante: «Così avete annullato la parola di Dio a motivo della vostra tradizione» (Mt 15:6).

Più tardi, in privato, i discepoli fecero notare che i Farisei erano rimasti scandalizzati dal parlare di Gesù, al che Gesù mostrò rammarico perché i discepoli stessi non avevano compreso le sue parole, per poi approfondire il discorso. In quest’occasione Gesù introdusse un concetto rivoluzionario riguardo a ciò che contamina l'uomo: la vera contaminazione dell'uomo e del suo ambiente è causata da ciò che viene fuori dal cuore. Ciò che entra nella bocca, invece, non lo può contaminare. Il commento riportato nel Vangelo di Marco è significativo: «Così dicendo, dichiarava puri tutti i cibi» (Mr 7:19). Intanto Gesù aveva stabilito un’altra distinzione che deve orientare il pensiero dei suoi discepoli di fronte a qualunque discorso di carattere religioso, che ha pretesa di enunciare delle verità: bisogna sempre distinguere fra la Parola di Dio (ad esempio il libro di Esodo), che è vincolante, e la tradizione degli uomini (ad esempio quelle insegnate dagli Esseni e dai Farisei del tempo di Gesù), che non lo è.

La confessione di Pietro a Cesarea di Filippo

A questo punto del suo ministero Gesù condusse i Dodici in disparte per condividere con loro qualcosa di tanto importante quanto scioccante dal loro punto di vista. Durante il lungo cammino che li portò a Cesarea di Filippo, Gesù compì un secondo miracolo significativo nel territorio della Decapoli, dopo essere passato dalla regione di Tiro e Sidone (Mr 5:1-20; 7:31-35). Al che la gente della Decapoli esclamò con meraviglia: «Egli ha fatto ogni cosa bene; i sordi li fa udire e i muti li fa parlare» (vv. 36-37). Questo risultato dimostrò che i proponimenti di Dio non potevano essere frustrati dall'incredulità di gran parte del popolo ebraico. Dopo il tempo trascorso in questi territori popolati da Gentili, «Gesù se ne andò, con i suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo», situati all'estremo nord della Traconitide (Mr 8:27). Lì, dopo aver pregato in disparte (Lu 9:18), Gesù interrogò i Dodici intorno alle opinioni della gente sul suo conto (Mt 16:13).

Secondo alcuni, compreso Erode, tetrarca della Galilea (Mr 6:14), Gesù era Giovanni il battista redivivo; secondo altri era Elia nel

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senso, evidentemente, in cui Gesù dichiarava che Giovanni era Elia (Mt 11:14). Altri l’identificavano con Geremia o con un altro dei profeti Mt 16:14). È interessante notare che, secondo i Dodici, nessuno ormai considerava Gesù un uomo comune, nonostante i Farisei avessero usato la loro influenza per cercare di dissuadere la gente dal credere in Gesù. Dio, intanto, tralasciando la categoria dei «savi e intelligenti» che prendevano gloria gli uni dagli altri e non cercavano la gloria che viene da Dio solo, aveva continuato la sua opera di rivelazione presso i «piccoli fanciulli» (si veda Mt 11:25; Gv 5:44).

«E voi» chiese Gesù, rivolgendosi ai Dodici «Chi dite che io sia?» (Mt 16:14). In quel momento fu dato a Pietro di rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (vv. 15-16). C'è un enorme differenza fra il dire che Gesù era un profeta che operava miracoli e attribuirgli messianicità e deità. Pietro arrivò a comprendere questa verità grazie a una rivelazione speciale e così confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16).

Le predizioni di Gesù

Gesù approfittò di questo momento di illuminazione per comunicare ai Dodici tre cose importanti. Innanzitutto annunciò il progetto di edificare la sua chiesa: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere» (v. 18). Sarebbe stata questa la nuova realtà visibile, scaturita dalla prima venuta del Messia: una nuova comunità di persone che fanno propria la confessione: Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Gesù introdusse la profezia dell’edificazione della chiesa con il famoso gioco di parole - «tu sei Pietro e su questa pietra [attenzione! non “su di te”] edificherò la mia chiesa» (v. 18). Per apprezzare l'uso che fa del termine «pietra» in quest'occasione vale la pena ricordare che, mentre parlava, poteva avere alle spalle l'alta rupe dalla quale nasce il fiume Giordano.

Al primo incontro con Simone, fratello di Andrea, Gesù aveva profetizzato che egli sarebbe stato chiamato «Cefa» (gr. Pietro), ossia «roccia». Ora identifica nella verità cristologica confessata da Pietro il fondamento su cui avrebbe edificato la nuova comunità messianica. Pietro è legato al fondamento in qualità di chi confessa la verità e in quanto il nome «Pietro» è un termine di paragone nel gioco di parole di cui Gesù si è servito. Ma Pietro non figura come il fondamento stesso.

Talvolta si fa notare che Gesù nominò in modo esplicito la chiesa (lett. «assemblea» gr. ekklēsia) soltanto qui e in Matteo 18:17-18 (ma si veda anche Gv 10:16). In realtà il numero limitato di riferimenti espliciti nulla toglie all’importanza delle cose dette al riguardo. Questa prima menzione della chiesa costituisce una profezia

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sorprendente. Infatti, per i contemporanei di Gesù, sarebbe stato più verosimile, dopo la confessione della sua messianicità e deità, che egli avesse detto: «su questa pietra io ristabilirò il regno a Israele, e tutte le nazioni verranno ad adorare Dio nella città di Davide» (cfr. At 1:6). Invece Cristo colse l'occasione per annunciare l'interposizione di un periodo caratterizzato dallo sviluppo di una comunità distinta composta dalle persone «chiamate fuori» (il senso lett. di ekklēsia, «chiesa») dalla massa della gente. Inoltre, Gesù lasciò intendere che la sua chiesa sarebbe stata oggetto di attacchi satanici ma che si sarebbe rivelata invincibile.

Il secondo annuncio di Gesù, contenente sia una promessa che una predizione, è strettamente legata al primo: «[parlando a Pietro] Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà stato legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà stato sciolto nei cieli» (16:19, corsivo e trad. mia) In Matteo 18:17-18 la medesima autorità viene attribuita a tutti gli apostoli e, implicitamente, alla chiesa riunita nel nome di Cristo. Gesù avrebbe affidato a Pietro e agli altri apostoli un ruolo importante nell'edificazione della chiesa: quello di aprire il regno dei cieli alla gente e di stabilire, volta per volta, i suoi confini per mezzo della predicazione e l'appello alla conversione, nonché per mezzo della disciplina. I verbi che nella Nuova Riveduta sono tradotti: «sarà legato» e «sarà sciolto», sono composti da un futuro semplice seguito dal perfetto passivo. Quindi il loro significato completo è: «sarà stato legato» e «sarà stato sciolto». In altre parole, l'azione anteriore del legare e dello sciogliere avviene in cielo. Gli apostoli avrebbero semplicemente ubbidito a Dio, applicando ciò Dio ha deciso. Di qui l'importanza di una fedele e coraggiosa predicazione del vangelo e la necessità della preghiera prima di prendere qualsiasi decisione nel nome di Cristo (18:19).

Il terzo annuncio di Gesù viene riassunto così: «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte cose da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti, degli scribi, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno» (v. 21). Il contenuto di questa terza predizione doveva sembrare ai Dodici del tutto inverosimile. Basti notare la reazione di Pietro (v. 22). Alla luce della rivelazione che gli era stata concessa (vv. 16-17), doveva sembrargli assurda l’idea che Gesù dovesse andare a Gerusalemme per soffrire alle mani degli anziani del popolo ed essere addirittura ucciso, prima di risuscitare il terzo giorno.

È da notare che Gesù adoperò l'espressione «Figlio dell'uomo» per parlare di sé stesso in relazione con questa prospettiva (Mt 16:13; Mr 8:31). I Giudei del tempo di Gesù, basandosi sulla profezia di Daniele 7:13-14, giustamente associavano il titolo «il Figlio dell'uomo» con una figura gloriosa che avrebbe stabilito il regno di Dio sulla terra. Non c'è dubbio che, nell'applicare questo titolo a sé stesso, Gesù abbia voluto identificarsi con questa figura gloriosa (si veda Mt 16:27; cfr. Mr 14:62). Però insiste pure che, prima dell'evento glorioso del

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regno, il Figlio dell'uomo doveva soffrire in qualità di Servo di JHWH, come previsto in Isaia capitolo 53 e Marco 10:45. Gesù avrebbe dovuto ripetere più volte questa profezia, a motivo della reticenza dei Dodici ad accettare la prospettiva di morte per il loro Maestro (si veda Mr 8:31; 9:31; 10:32-34, 45).

Alla protesta immediata di Pietro: «Dio non voglia, Signore! Questo non ti avverrà mai» (Mt 16:22), Gesù non fece che rincarare la dose, insistendo sulla necessità, anche per coloro che l'avrebbero seguito, di prendere la propria croce e mettere a rischio la propria vita (vv. 24-26). È evidente che i Dodici avevano ancora una concezione lacunosa della vocazione messianica di Gesù. Tale concezione limitata non teneva conto delle esigenze della giustizia rivelate nella legge mosaica, né della presentazione, in Isaia capitolo 53, del Messia come il Servo di JHWH che viene giudicato e sacrificato per la colpa altrui. Inoltre, la loro concezione del ruolo del Messia trascurava la precisazione contenuta nello schema profetico di Daniele 9:20-26, secondo cui l'Unto doveva essere soppresso.

La trasfigurazione (Mt 17:1-13; Mr 9:2-13; Lu 9:28-36)

Possiamo immaginare che il calo di popolarità di Gesù e le sue predizioni relative a sofferenza e morte avrebbero disorientato uomini che, come i Dodici, speravano ancora in un esito trionfale del ministero pubblico di Gesù. Fu in questo contesto che Gesù concesse a tre di loro (Pietro e i due figli di Zebedeo) un'esperienza indimenticabile. La natura di tale esperienza contribuirà a rafforzare la fede dei Dodici che continueranno a seguire Gesù nonostante il divario crescente fra le loro aspettative e il cammino intrapreso da Gesù. L'alto monte (Mt 17:1; Lu 9:28) sul quale Gesù condusse i tre futuri apostoli era verosimilmente il monte Miron, la montagna più alta nel territorio di Israele (ca. 1.100 metri), situata fra Cesarea di Filippo e Capernaum (cfr. Mt 17:24).

Lo scopo di Gesù nello scalare questo monte era duplice: per pregare (Lu 9:28) e per essere trasfigurato in presenza del nucleo del collegio apostolico (Lu 6:14; 8:51; Mr 14:33). La trasfigurazione stessa scaturì da un momento di intensa comunione fra il Figlio incarnato e il Padre, e fu intesa ad illuminare ulteriormente i discepoli intorno alla Persona e all'opera di Gesù il Cristo. Infatti grazie alla sua trasfigurazione, i tre poterono contemplare la gloria che era propria del Figlio prima ancora della creazione del mondo (Gv 1:14; 17:5).

La netta superiorità del Figlio rispetto ai rappresentanti della legge (Mosè) e i profeti (Elia) fu palesata sia dalla scomparsa di questi ultimi sia da quanto detto dalla voce proveniente dal cielo: «Questo è mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo» (Mt 17:5; cfr. Eb 3:1-6). Anche se i tre discepoli non capirono tutto l’accaduto, la trasfigurazione servì a mostrare la compatibilità della gloria divina propria di Cristo, con la sua predizione riguardante la

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sua sofferenza e morte. Infatti mentre Mosè ed Elia conversavano con Gesù, «parlavano della dipartenza» [gr. exodon] di Gesù, che «doveva compiersi a Gerusalemme» (Lu 9:31). Il fatto che la parola exodon [cfr. «esodo»] venga qualificata dal verbo «compiersi» sottolinea il carattere intenzionale della morte in croce e richiama alla mente l'analogia dell'esodo dall'Egitto, quando Dio aveva salvato Israele dalla schiavitù (Es 20:1).

Oltre a inquadrare la morte necessaria di Cristo in un contesto di compimento e di gloria, la trasfigurazione palesò la Deità di Gesù in un modo unico nel periodo antecedente alla sua risurrezione e glorificazione, contribuendo sostanzialmente a dimostrare l'identità fra il Gesù storico e il Cristo della fede (cfr. 2 P 1:16-18).

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. I farisei e gli scribi si lamentarono con Gesù perché i suoi discepoli trasgredivano la tradizione degli antichi (Mt 15:1-2). Come bisogna applicare la risposta di Gesù oggi?

2. Quali cose importanti rivelò Gesù dopo la confessione fatta da Pietro nei pressi di Cesarea di Filippo?

3. In che modo l'evento della trasfigurazione di Gesù confermò sia la verità confessata da Pietro sia la prospettiva che il Cristo doveva morire?

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8 Verso Gerusalemme

Introduzione

Nei pressi di Cesarea di Filippo Cristo aveva parlato della natura della sua missione e del progetto di edificare la sua chiesa, un progetto avente a che fare con «il giorno della salvezza», il periodo storico che ebbe inizio con la conclusione del suo primo e si concludere con il secondo avvento. I Dodici avrebbero avuto un ruolo essenziale nell’avvio di tale periodo storico.

Queste rivelazioni trovarono un’eco nella conversazione che Gesù ebbe con Mosè e Elia sul monte della trasfigurazione, parlando dell’esodo che doveva compiere a Gerusalemme, una conversazione che mise in evidenza il punto a cui era giunto il ministero pubblico di Gesù. D'ora in poi il suo cammino sarebbe stato condizionato dalla prospettiva di morire a Gerusalemme per compiere la salvezza.

Mentre camminava verso Gerusalemme, Gesù preparava i Dodici per ciò che sarebbe successo dopo il suo trionfo. Inoltre mostrava grande compassione verso i ceti trascurati o disprezzati della popolazione. Inoltre insisteva sul prezzo da pagare per essere un suo discepolo. Sempre in questo periodo pronunciò alcune delle sue parabole più famose. Ci soffermeremo su una di esse per poi focalizzare la nostra attenzione sulla maniera in cui la profezia di Zaccaria relativa all’ingresso del re-Salvatore in Gerusalemme ebbe adempimento.

Gesù si mise in cammino risolutamente

È Luca in particolare a mettere in evidenza la direzione che ora prende il ministero di Gesù: il cammino verso Gerusalemme, per compiere la salvezza (Lu 9:51, 53). È come se, dal monte della trasfigurazione (9:31 gr. exodon), Gesù guardasse costantemente avanti, vedendo il monte di calvario, la tomba vuota e l'evento dell'ascensione. Sul piano delle attività quotidiane, tutto si svolge alla luce del traguardo difficile, ma vittorioso, verso il quale il cammino di Gesù lo conduceva.

La frase «Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme» (9:51) non va inteso come un viaggio di sola andata a Gerusalemme. Infatti in Luca 10:38-42 Gesù è visto già nei pressi della capitale mentre molto più avanti nel racconto (17:11) lo troviamo nuovamente sui confini della Samaria e della Galilea. Da ciò deduciamo che, per Gesù, il nome «Gerusalemme» ha un significato simbolico, oltre che geo-politico. Infatti, soltanto quattro delle undici volte che «Gerusalemme» appare nei capitoli 9:51–19:28 di Luca si riferisce in senso stretto a Gerusalemme come luogo. Per gli usi simbolici del termine, si veda 9:51; 9:53; 13:22; 13:33; 17:11; 18:31; 19:28. Di questi, risulta particolarmente significativo il penultimo brano: «Poi, [Gesù] prese con sé i dodici, e disse loro: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e saranno compiute riguardo al Figlio dell'uomo tutte le cose scritte dai profeti"» (18:31; cfr. Mt 16:21).

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Le parabole di Gesù e come interpretarle

Molto del materiale peculiare al Vangelo di Luca si trova nella sezione 9:51–19:28 e illustra la compassione insegnata e praticata da Gesù. Quanto all’insegnamento su questo tema, spicca sia la parabola intitolata «il buon Samaritano» (10:25-37) sia quella del capitolo 15 riguardante le cose e le persone perdute. La prima di queste parabole fu occasionata da una domanda posta da un non meglio definito «dottore della legge». Quest’uomo voleva mettere Gesù alla prova ma la contro-domanda di Gesù lo rimandò alle Scritture, le quali lo misero in grande difficoltà (v. 28). «Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”» (v. 29). Il suo problema, espresso in forma della domanda: «Chi è il mio prossimo» (v. 29), era come potesse legittimamente delimitare il tipo di persone comprese nel concetto di «prossimo» e che era suo dovere amare. Sappiamo da Matteo 5:43 che certi Scribi del tempo di Gesù insegnavano: «Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico», restringendo drasticamente il senso e l'applicazione del secondo grande comandamento.

Gesù rispose alla sua domanda con una parabola che creò terra bruciata intorno al suo tentativo di restringere il senso del secondo comandamento. Chi si è trovato a percorrere l’antica strada tortuosa che scende «da Gerusalemme a Gerico», che attraversa un territorio arido con discese ripide e senza abitante, può comprendere bene il pericolo dei briganti e l’estremo bisogno di intervenire nel caso si dovesse verificare una disgrazia come quella capitata all’uomo della parabola, chiunque egli fosse. Colpisce il ruolo che Gesù attribuì al Samaritano che, a differenza dell’agire egoistico del sacerdote e del Levita, ubbidì al comandamento in questione, offrendo generosamente l’aiuto necessario. Dopo aver ascoltato la parabola, il «dottore della legge», non riuscendo a giustificare l’agire del sacerdote e del Levita, dovette ammettere che era proprio l’agire del Samaritano quello conforme al secondo grande comandamento.

Adesso affrontiamo la questione di come interpretare questa parabola. Chi la tratta come un’allegoria e cerca di trovare un significato in ogni dettaglio della storia rischia di perdere di vista il messaggio che Gesù voleva comunicare con essa. Ora ogni parabola, o parti di una parabola, come nei casi della parabola del seminatore (Mt 13:1-9,18-23) e quella delle cose/persone perdute (Lu 15), contiene soltanto un'idea o lezione principale. Per sapere quale sia quest'idea o lezione, bisogna esaminare sia le circostanze in cui nasce la parabola sia i commenti o le domande posti al suo termine. Qualche volta anche il contesto nel libro biblico in cui la parabola viene riportata può servire a chiarire la lezione della parabola.

Nel caso della parabola del buon Samaritano, essa nasce dal tentativo, da parte di un dottore della legge, di restringere il senso del comandamento: Ama il tuo prossimo come te stesso. La domanda posta da Gesù, dopo aver terminato il suo racconto, indica il messaggio che egli intendeva comunicare. Va notato che, con questa domanda, Gesù

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capovolge la domanda iniziale del dottore della legge, che aveva sollecitato un chiarimento riguardo all'identità del suo prossimo. Nella parabola l'identità di questo prossimo risulta così chiara da non lasciare alcun dubbio. Gesù, invece, ha sollevato la questione della mancata qualifica di vero «prossimo» che caratterizzava le due figure che avrebbero dovuto rappresentare la legge fedelmente e quindi mostrare compassione verso l’uomo che si era imbattuto nei briganti. A sorpresa è un Samaritano, invece, a ubbidire alla legge.

Ecco perché, al termine del racconto, Gesù si rivolse al dottore della legge con questa domanda: «Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s'imbatté nei ladroni?» (v. 36). Il dottore della legge non riuscì ad ammettere che un Samaritano potesse qualificarsi come un vero «prossimo», quindi anziché dire: «il Samaritano» risponde con un giro di parole: «Colui che gli usò misericordia». In ogni modo questa sua risposta e il commento di Gesù: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa» (v. 37), contengono un chiaro messaggio per tutti i tempi, sfidandoci a dimostrarci dei veri prossimi verso i bisognosi che capitano sul nostro cammino.

L’amore di Gesù e dei suoi discepoli

Il racconto di Luca ci informa che Gesù, ancor più del Samaritano, dedicava tempo a persone disprezzate dai capi dei Giudei (si veda 15:1-32 e 19:1-10). È noto che la visita del Maestro in casa di Zaccheo, capo dei pubblicani, fu malvista dalla gente di Gerico che considerava Zaccheo un «peccatore». Ma la visita non era fine a sé stessa; Luca ci fa sapere che questo «peccatore» diede prova di ravvedimento. Non solo, Gesù giustificò la sua decisione di entrare in questa casa con una dichiarazione significativa: «Il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto» (19:10). Le azioni di Gesù erano determinate, oltre che dall'amore per il prossimo, anche dal piano di Dio di portare la salvezza a tutti coloro che sono perduti, lo scopo primario del primo avvento di Cristo (Gv 12:47).

Durante questo periodo Gesù continuò a compiere delle opere potenti mentre i Dodici rimasero nella loro posizione privilegiata, stando con lui ed essendo da lui ammaestrati. Intanto il numero di veri discepoli riprese a crescere, nonostante la radicalizzazione del concetto di discepolato ribadito più volte da Gesù (9:57-62; 14:25-35; cfr. 10:1-20). Evidentemente i discorsi «duri» avevano prodotto buoni frutti. Alla fine del suo ministero pubblico ci sarebbero stati almeno cinquecento veri discepoli che Paolo chiama «fratelli [in fede]» a cui il Cristo risorto apparse in una vola volta (1 Co 15:6; cfr. Lu 19:37; At 1:15).

Per avere un'idea equilibrata di questo periodo del ministero di Gesù, bisogna leggere non solo i relativi brani dei Vangeli sinottici ma anche le discussioni che Gesù ebbe con i Giudei di Gerusalemme in occasione delle ricorrenze festive (si veda Gv 7–10).

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L'ingresso in Gerusalemme

Pochi giorni prima del suo ingresso ufficiale in Gerusalemme, Gesù operò un grande segno, risuscitando Lazzaro che era rimasto morto quattro giorni (Gv 11:17-46). Il miracolo ebbe grande risonanza sia a Betania che a Gerusalemme. Di conseguenza ci fu un notevole aumento nel numero dei seguaci di Gesù nel cuore della Giudea. Intanto il Sinedrio, non sapendo più che cosa fare, deliberò di far morire Gesù (Gv 11:45-53).

Precedentemente all’evento del suo ingresso in Gerusalemme, Gesù aveva spesso vietato alle persone di diffondere notizie sul suo conto (si veda Mr 1:40-44; 5:39-43; 8:22-26; 9:30-31) e, in particolare, aveva rifiutato di lasciarsi prendere per essere stato fatto re (Gv 6:14-15). Per evitare ogni confusione in merito alle sue intenzioni, persino coloro che avevano compreso la sua identità messianica dovevano aspettare la sua risurrezione prima di dirlo ad altri (Mr 8:29; 9:9-10).

In questo clima Gesù voleva che ognuno scoprisse personalmente la sua identità di Messia anziché andare dietro la folla a cui interessava soprattutto il regno concepito in termini politico-nazionalistici. A questo proposito Gesù raccontò una parabola «perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio stesse per manifestarsi immediatamente». Tale parabola fa comprendere che la manifestazione del regno avrebbe seguito una lunga assenza del re, ovvero che sarà manifestato in occasione del suo secondo avvento (Lu 19:11-27). L’idea di un secondo avvento del Messia era nuova per le persone a cui Gesù parlava quindi questa storia di un re che doveva andare lontano per ricevere il suo regno per poi tornare serviva per chiarire le loro idee. A differenza dell’attesa di due Messie, per adempiere tutto ciò che l’Antico Testamento prevede, Gesù fece comprendere che il Messia è uno solo ma che deve venire due volte, una volta per compiere la salvezza e l’altra per giudicare e regnare.

L’arrivo di Gesù a Gerusalemme, pochi giorni prima della Pasqua, costituiva un momento importante nel ministero. Il suo ingresso trionfale in Gerusalemme viene descritto in tutti e quattro i Vangeli (Mt 21:1-11; Mr 11:1-10; Lu 19:29-44; Gv 12:12-19). Dalla maniera in cui furono reperiti l'asina e il suo puledro è evidente che tutto era stato preparato con cura da Gesù. In seguito alla testimonianza della gente venuta da Betania, una folla proveniente da Gerusalemme gli uscì incontro. Oltre a osannarlo, queste persone portarono anche dei rami di palma, il che conferì un carattere nazionalistico all'evento. Infatti, ai tempi della riscossa del piccolo popolo di Giuda sotto la guida dei Maccabei, la palma era diventata un simbolo della nazione stessa. I suoi rami furono portati in alto sia nel giorno in cui i servizi del tempio erano stati ripresi nel 164 a.C. (1 Maccabei 10:7) sia in occasione della celebrazione dell'indipendenza politica nel 141 a.C. (cfr. Gv 10:22). Quindi la decisione popolare di portare tale simbolo in occasione dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme, seduto sul puledro, dimostrò il suo riconoscimento come il re messianico.

È importante notare che Gesù accettò questo riconoscimento. Anzi, quando alcuni farisei lo invitarono a sgridare i suoi discepoli per quanto

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era successo, egli rispose: «Vi dico che se costoro taceranno, grideranno le pietre» (Lu 19:40). In altre parole, era giunta l'ora in cui la sua messianicità regale doveva essere manifestata apertamente. Il testo della profezia che Gesù adempì (Za 9:9) prevedeva non solo che il Messia fosse montato sopra un asino, ma che fosse anche «giusto» e «Salvatore» o «portando salvezza». Israele doveva rendersi conto che questo Gesù, che parlava di dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti (Mr 10:45), era veramente il Messia, Figlio di Davide.

Ma, si potrebbe chiedere, perché si è manifestata in questa maniera all’ombra della croce, ovvero dopo che la sua condanna a morte era stata già deliberata dal sinedrio (Gv 11:53)? Non era certo casuale la giustapposizione della manifestazione di Gesù come il re messianico con la decisione del Sinedrio di condannarlo a morte. C'era uno stretto rapporto fra la croce e l'inaugurazione del regno che Israele aspettava con impazienza. Gesù doveva morire in qualità di «leone della tribù di Davide» (Ap 5:5). Né la fase attuale in cui il regno di Dio coesiste, in forma velata, con quello del maligno (Mt 13:36-43; cfr. 16:18), né la sua futura manifestazione universale, sarebbero state possibili senza il trionfo della croce. La giustizia di Dio doveva essere soddisfatta affinché, dopo l'interruzione dei rapporti dell’uomo con Dio, causata dal peccato di Adamo, Dio potesse riammettere i peccatori come sudditi nel suo regno.

Stava per morire il Re dei Giudei che è anche il Re dei re, non come vittima bensì come vincitore. Infatti non molto tempo prima Gesù aveva detto: «Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore … Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10:11,17-18).

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. Quale significato rivestiva Gerusalemme per Gesù durante l’ultima fase del suo ministero pubblico (Lu 9:51, 53; 13:22, 33; 17:11; 18:31; 19:28)?

2. Qual è la lezione principale della parabola (che comprende tre racconti) di Luca capitolo 15? Prima di rispondere a questa domanda, studia il modello di interpretazione della parabola del buon Samaritano fornita qui sopra. Per scoprire la lezione principale della parabola di Luca 15, procedi come segue: prima leggi i vv. 1-2 per determinare la circostanza e poi valuta i commenti di Gesù al termine di ciascuno dei tre racconti (vv. 7, 10, 31-32). Ora definisci il messaggio principale della parabola, indicando a chi era indirizzato.

3. Perché l'ingresso in Gerusalemme sul puledro figura come uno degli eventi più significativi della vita di Cristo? (Si veda Gv 12:12-19)

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9 A GERUSALEMME, PER COMPIERE LA PASQUAA GERUSALEMME, PER COMPIERE LA PASQUA

IntroduzioneIntroduzione

Dopo il suo ingresso in Gerusalemme sul puledro, osannato dalla gente, Gesù, Figlio di Davide, fece sentire la sua autorità nel tempio. Ormai i capi religiosi della nazione erano schierati ufficialmente contro di lui mentre Gesù non risparmiò parole di dura critica nei loro confronti, a motivo del loro comportamento ipocrita (si veda Mt 23).

La Pasqua quell'anno assunse un significato particolare per Gesù in quanto egli stava per compierla (Lu 22:16). Alla luce di questo fatto, durante la commemorazione della liberazione dall'Egitto, egli istituì una commemorazione di se stesso quale redentore (vv. 19-20). Poi si mise a parlare a lungo con gli Undici (i Dodici, meno Giuda Iscariota) sulla natura del loro futuro rapporto con Lui, dopo l'ascensione (Gv 13–17), prima di condurre il gruppo al giardino di Getsemani dove si lasciò arrestare (Gv 18:1-11). La sua ora era giunta.

L'autorità di Gesù

Leggendo dell'attività di Gesù a Gerusalemme, durante i primi giorni della settimana della sua passione, si rimane colpiti dalla sua singolare autorità e franchezza (Mt 21:12–25:46). Pur sapendo che il Sinedrio aveva deliberato a farlo condannare a morte, Gesù non fece nulla per frustrare tale disegno, anzi, il suo operare rese ancora più duro il cuore dei suoi avversari, anche se le sue risposte alle domande trabocchetto lasciarono tutti stupiti e disarmati (21:12–22:40). Infine è Gesù stesso a fare una serie di domande, chiudendo definitivamente la bocca ai suoi avversari (Mt 22:41-46). Il discorso che ne seguì, in cui Gesù condannò gli scribi e i farisei, accusandoli di ipocrisia, non poteva che acuire la loro ira (cap. 23).

È evidente che Gesù si muoveva sapendo che era giunta «l'ora» per cui era venuto nel mondo. La franchezza con cui parlava e agiva in questi ultimi giorni del suo ministero pubblico, gli permise, durante l'infame processo intentatogli dagli uomini, di svelare ulteriormente la colpa dei capi per non aver prestato attenzione alla sua parola (Gv 18:19–21).

La Pasqua ebraica e il nuovo patto (Lu 22:14-23)

La menzione dei preparativi del luogo in cui Gesù avrebbe celebrato la Pasqua con i suoi futuri apostoli sottolinea l'importanza dell'occasione nella storia della salvezza. La lunga attesa di una liberazione più grande di quella sperimentata da Israele al tempo di Mosè, che trovava nuovo stimolo ogni anno in occasione della ricorrenza della Pasqua, stava per finire. In questo contesto assumono particolare importanza le dichiarazioni fatte da Gesù in occasione dell'istituzione di una

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commemorazione che riguardava la sua persona. Luca ce ne dà il resoconto più completo.

Gesù disse agli Undici: «Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio» (22:15-16). Qui Gesù mette la sua morte imminente in relazione con il compimento della Pasqua nel regno di Dio. Poi, dopo la menzione di alcuni dettagli che riguardano lo svolgersi della Pasqua ebraica, Luca riporta le prime parole dell'istituzione di ciò che Paolo chiamerà «la cena del Signore» (1 Co 11:20). Eccole: «Poi [Gesú] prese del pane, rese grazie e lo ruppe, e diede loro dicendo: "Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me"» (Lu 22:19). Gesù si sarebbe sacrificato in modo vicario, come indicano le parole: «dato per voi». I suoi discepoli non lo dovevano mai dimenticare.

Alle prime parole di istituzione, Gesù fa seguire una spiegazione del nuovo valore che attribuisce al calice. Si tratta di una delle dichiarazioni più importanti di tutto il Nuovo Testamento: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (v. 20). Qui Gesù indica in quale modo ebbe inizio la nuova epoca a cui si riferiva in precedenza dicendo: «io edificherò la mia chiesa» (Mt 16:18). Infatti, spargendo il suo preziosissimo sangue sulla croce, Gesù creò il fondamento del nuovo patto profetizzato da Geremia, con le sue promesse grandissime di perdono eterno e di una nuova relazione con Dio (Gr 31:31-34; cfr. Eb 8:1–9:15). Dopo il compimento di questo sacrificio ebbe inizio il tempo in cui, in piena sintonia con le predizioni dei profeti d’Israele, nel nome di Cristo «si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme» (Lu 24:47).

I discorsi del cenacolo (Gv 13–17)

Giovanni, nel suo Vangelo, non fa menzione dell'istituzione della cena del Signore, già ampiamente documentata nei Vangeli sinottici; piuttosto si sofferma sulle conversazioni che Gesù ebbe con gli undici futuri apostoli seguite dalla preghiera sacerdotale di Gesù, che ebbero luogo nel Cenacolo nelle ore che precedettero la camminata verso il giardino di Getsemani. Queste conversazioni avvennero al termine celebrazione della Pasqua, dopo che Gesù aveva dato ai suoi discepoli una lezione pratica di amore (Gv 13). Visto che «un discepolo non è più grande del maestro; ma ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro» (Lu 6:40), dobbiamo seguire l'esempio di Gesù quando prese il posto del servo e lavò i piedi dei discepoli. Secondo il divino Maestro, soltanto se ci comportiamo così il mondo potrà identificarci come appartenenti alla cerchia dei suoi discepoli (Gv 13:2-17, 34-35).

Dopo aver fatto e commentato questo gesto Gesù, vedendo lo stato di turbamento dei discepoli, passò a parlare di quello che sarebbe stato il loro rapporto con lui dopo la sua ascensione. Vedendo la loro tristezza alla menzione del suo imminente ritorno al Padre (14:1; 16:5-6), insistette che i suoi apostoli mantenessero una fede incrollabile in lui, e parlò del nuovo rapporto che avrebbero avuto con lo Spirito Santo dopo

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l’ascensione. Disse: «Io vi dico la verità: è utile per voi che io me ne vada; perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma se me ne vado, io velo manderò. Quando sarà venuto, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio» (16:7-8).

Lo Spirito Santo avrebbe permesso agli apostoli e a tutti i futuri discepoli di «dimorare in Cristo» e di essere testimoni efficaci di Cristo (14:16-17; 15:26-27; At 1:8). Il rilievo che Cristo diede alla futura opera dello Spirito corrispondeva in modo preciso all’annuncio di Giovanni il battista: «Lui [Cristo] vi battezzerà con lo Spirito Santo» (Mr 1:8). Ciò che Gesù affermò relativamente al nuovo rapporto con lo Spirito Santo conferma che gli eventi culminanti della sua vita avrebbero determinato l'inizio di una nuova epoca nella storia della salvezza (Gl 2:28-32; At 2:4-8, 16-21, 33).

A proposito dell'arresto e del processo

Seguendo le tappe della storia dell'arresto di Gesù e del successivo processo, si può notare una costante: sebbene si trattasse del momento più critico della sua vita, tutti quelli che vengono in contatto con il Cristo, per arrestarlo o interrogarlo, ne rimangono in qualche modo sconvolti e processati, loro, non lui!

Nel giardino di Getsemani (Gv 18:1-12)La mossa notturna (Gv 13:29-30) della coorte romana

(presumibilmente alcuni dei circa seicento soldati che componevano una coorte) e delle guardie mandate dai capi sacerdoti e dai farisei, guidate da Giuda Iscariota, fu determinato dalla decisione di prendere Gesù con inganno (Mt 26:4-5) perché Gesù godeva dell’appoggio del popolo (Lu 22:1-2). Questa triste compagnia sopraggiunse quando Gesù aveva appena terminato di pregare, sudando sangue (v. 44). La sua lotta in preghiera era servita come preparazione all'agonia fisica e all'alienazione dal Padre, pur di compiere il suo mandato di portare su di sé i peccati del mondo. Reduce di questa terribile lotta, fu Lui ad andare incontro a coloro che sono stati mandati per arrestarlo. Egli chiese alla banda chi stessero cercando; essi risposero: «Gesù il Nazareno», al che Gesù rispose: «Io Sono», parole che non solo servirono per identificarlo con Colui che apparve a Mosè nel pruno ardente (Es 3:13-14; cfr. Gv 8:58), ma anche a far sentire la sua autorità personale (Gv 18:6). Infatti all'udire queste parole, i soldati, le guardie sentirono venir meno le forze e caddero a terra. L'episodio dimostrò la verità di quanto Gesù aveva detto: «Nessuno mi toglie la vita, la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10:18). L'uomo, con tutto il suo orgoglio e astuzia, non può nulla davanti alla onnipotenza di Dio.

Davanti ad Anna, il suocero di Caiafa (Gv 18:13–23) Secondo la Mishna, una raccolta di materiale legale e

procedurale dei Rabbini, pubblicato intorno al 200 d.C., un uomo non

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poteva essere condannato a morte prima di ventiquattro ore dopo essere stato processato. Quindi è possibile che l’interrogatorio di Gesù condotta da Anna (un sadduceo molto influente anche se non ufficialmente sommo sacerdotale da una quindicina di anni) serviva per dare un'apparenza di legalità alla procedura. Questa interrogazione avvenne in un'ora avanzata della notte. L'approccio adottato da Anna era ipocrita (vv 20-21). Infatti egli faceva parte di coloro che «amarono la gloria degli uomini più della gloria di Dio» (Gv 12:43). Gesù, insistendo che non c'era più nulla da aggiungere a quanto aveva detto pubblicamente e che molti erano in grado di riferire, mise Anna e tutti i capi del popolo sotto accusa per non aver prestato attenzione alla sua parola (cfr. Gv 15:21-25).

Gesú davanti a Caiafa e il Sinedrio (Gv 18:24; Mt 26:57-68; Mr 14:53-65)

Si noti che Gesù venne condannato in base alla verità che Egli stesso ammise riguardo a se stesso (Mt 26:63-66), dopo che tutte le accuse dei «testimoni» erano risultate menzogne. Il degrado del massimo organo giuridico dello stato giudaico diventa ancora più palese quando si considera la leggerezza con cui l'accusa viene stravolta nella fase successiva del processo, che vedeva Gesù davanti a Pilato. Mentre l'accusa mossa a Gesù nel Sinedrio era di natura religiosa (bestemmia contro Dio), quella (palesemente falsa, Mt 22:15-22), formulata per persuadere i Romani a condannarlo a morte, era di carattere politico (Lu 23:1-2).

Il rinnegamento di Gesù da parte di Pietro (Gv 18:15-18; 25-27)È triste constatare che, pur di salvarsi la pelle, Pietro negò di

conoscere Gesù, nonostante gli indizi contro di lui, compreso il suo accento (Mt 26:73) e l'episodio avvenuto nel giardino (Gv 18:26-27), avessero rimosso ogni ragionevole dubbio riguardo alla sua associazione con Gesù. È istruttivo notare che Pietro aveva insistito su una linea di azione che Gesù aveva già giudicato fallimentare (Lu 22:31-34). Trovandosi fuori della volontà di Dio non poteva fare nulla per la causa di Cristo. Anzi la sconfessò, poi comprese quanto era miserabile, quando «il Signore, voltatosi» lo guardò. Quindi «andato fuori, pianse amaramente» (Lu 22:61-62).

La responsabilità di Pilato e le vere cause della morte di Cristo

Per non trovarsi in dissapore con Cesare, Pilato agì contro la giustizia. I tentativi di svignarsela, prima mandando Gesù da Erode (Lu 23:5-12), poi tentando di liberarlo secondo l'usanza di liberare un carcerato in occasione della festa, infine lavandosene le mani (vv. 13-25), fanno da contorno patetico al colloquio fra Gesù e Pilato riportato in Giovanni 18:28-38. Gesù re e il suo Regno corrispondono alla sfera della verità; per contro, Pilato e il potere che lui rappresentava appartenevano alla sfera di coloro che non vengono alla luce per paura che le loro opere malvagie vengano scoperte (Gv 3:18-21). Infatti Pilato si sentiva a disagio, come tutta l'umanità che egli rappresentava, trovandosi a faccia

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a faccia con la verità personificata in Cristo. Però, pur di non perdere il favore dell’imperatore, decise di non allinearsi con la verità e così, sul piano umano, divenne il primo responsabile della morte di Cristo, insieme con Erode (At 4:27).

Ma sul piano divino, l’analisi delle cause della morte del Messia Servo, fatta dai membri della chiesa di Gerusalemme, appare molto diversa. Parlando a Dio in preghiera, oltre a includere tutti gli uomini nell’elenco dei responsabili umani della sua morte, la chiesa aggiunge: «per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero» (v. 28). La volontà di Dio, che Gesù accettò, era che il suo Figlio, per amore, diventasse il sacrificio propiziatorio, per poterci perdonare dei nostri peccati – la vera causa della morte di Cristo – e così accoglierci nella sua famiglia (1 Gv 4:10; 3:3).

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. Come ha valutato Gesù gli scribi e i farisei del suo tempo? (Si veda Mt cap. 23)

2. Quale importanza aveva la celebrazione della Pasqua descritta in Luca 22:14-20, per Gesù e per i suoi discepoli?

3. Descrivi il rapporto di Gesù con Pilato, nello svolgimento del processo (Gv 18:28-38).

4. Che cosa apprendiamo dal modo in cui Gesù riabilitò Pietro dopo che questi aveva rinnegato il suo Maestro (Gv 21:15-19)?

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10 DALLA MORTE ALL'ASCENSIONEDALLA MORTE ALL'ASCENSIONE

Introduzione

I discepoli di Gesù in cammino sulla Via di Emmaus considerarono la sua morte una tragedia che poneva fine a tutte le loro speranze (Lu 24:13-21), nonostante egli avesse predetto il contrario (Mt 16:18,21). Tanto erano sprofondati, tutti i discepoli, in uno stato di tristezza che rimasero increduli al primo annuncio del suo esito trionfale (Lu 24:22-24). Ma l'annuncio delle donne fu presto confermato da altre apparizioni del Cristo Risorto durante lo stesso giorno (vv. 25-43).

Seguirono quaranta giorni caratterizzati da una serie di incontri del Risorto con i futuri apostoli. Spiegazioni sul significato della sua morte e risurrezione alla luce dell'Antico Testamento si alternavano con la comunicazione di ciò che gli apostoli avrebbero dovuto fare dopo la discesa dello Spirito Santo. Al termine dei quaranta giorni avvenne l'ascensione di Cristo, testimoniata con gioia dai discepoli. Ebbe così inizio il periodo di attesa che dieci giorni dopo terminò con l’evento della Pentecoste.

La morte di Cristo

Ecco il racconto di Luca:

Mentre lo portavano via, presero un certo Simone, di Cirene, che veniva dalla campagna, e gli misero addosso la croce perché la portasse dietro a Gesù. Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che facevano cordoglio e lamento per lui. Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché, ecco, i giorni vengono nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadeteci addosso”; e ai colli: “Copriteli”. Perché se fanno questo al legno verde, che cosa sarà fatto al secco?»

Ora altri due, malfattori, erano condotti per essere messi a morte insieme a lui. Quando furono giunti al luogo detto «il Teschio», vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Poi divisero le sue vesti tirandole a sorte. Il popolo stava a guardare. E anche i magistrati si beffavano di lui, dicendo: «Ha salvato altri, salvi sé stesso, se è il Cristo, l'Eletto di Dio!» Pure i soldati lo schernivano, accostandosi, presentandogli dell'aceto e dicendo: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!» Vi era anche questa iscrizione sopra il suo capo: QUESTO È IL RE DEI GIUDEI.

Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» Ma l'altro lo rimproverava, dicendo: «Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni;

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ma questi non ha fatto nulla di male». E diceva: «Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» Gesù gli disse: «Io ti dico in verità che oggi tu sarai con me in paradiso».

Era circa l'ora sesta, e si fecero tenebre su tutto il paese fino all'ora nona; il sole si oscurò. La cortina del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio». Detto questo, spirò.

Il centurione, veduto ciò che era accaduto, glorificava Dio dicendo: «Veramente, quest'uomo era giusto». E tutta la folla che assisteva a questo spettacolo, vedute le cose che erano accadute, se ne tornava battendosi il petto. Ma tutti i suoi conoscenti e le donne che lo avevano accompagnato dalla Galilea stavano a guardare queste cose da lontano (Lu 23:26-49).

La risurrezione

Nel suo primo discorso pubblico, dopo la discesa dello Spirito Santo, Pietro commenta così la morte e la risurrezione di Gesù: «Quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto» (At 2:23-24, il corsivo è mio). Dopo che Pietro era stato illuminato dallo Spirito Santo, egli comprese che la risurrezione non poteva mancare, essendo il compimento della salvezza, a opera di Cristo, avvenuto per il determinato consiglio e la prescienza di Dio.

Tutti e quattro i Vangeli contengono racconti parziali della mattina memorabile della risurrezione. Per comprendere tutto ciò che è successo quel giorno, bisogna espandere il racconto di ciascun Vangelo a includere tutti i dettagli registrati in questi racconti, anziché cercare di armonizzare i racconti riducendoli all’osso.

Risulta particolarmente immediato il racconto di quella mattina contenuto nel Vangelo secondo Giovanni. Questo non è strano, trattandosi in parte della testimonianza oculare dell'autore (che si presenta come «l’altro discepolo che Gesù amava»). Leggendo ad alta voce tale racconto, pare quasi di rivivere quei momenti drammatici ed entusiasmanti che cambiarono per sempre la vita di coloro che ne erano testimoni, ma anche le nostre vite. Ecco il racconto di Giovanni:

Il primo giorno della settimana, la mattina presto, mentre era ancora buio, Maria Maddalena andò al sepolcro e vide la pietra tolta dal sepolcro. Allora corse verso Simon Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava e disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano messo».

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Pietro e l’altro discepolo uscirono dunque e si avviarono al sepolcro. I due correvano assieme, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse primo al sepolcro; e, chinatosi, vide le fasce per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro, e vide le fasce per terra e il sudario, che sì era stato sul capo di Gesù, non per terra con le fasce, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro, e vide, e credette. Perché non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti. I discepoli dunque se ne tornarono a casa.

Maria, invece, se ne stava fuori vicino al sepolcro a piangere. Mentre piangeva, si chinò a guardare dentro il sepolcro, ed ecco, vide due angeli, vestiti di bianco, seduti uno al capo e l’altro ai piedi, lì dov’era stato il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?» Ella rispose loro: «Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l’abbiano deposto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Gesù le disse: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» Ella, pensando che fosse il giardiniere, gli disse: «Signore, se tu l’hai portato via, dimmi dove l’hai deposto, e io lo prenderò». Gesù le disse: «Maria!» Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che vuol dire: «Maestro!» Gesù le disse: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro». Maria Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che aveva visto il Signore e che egli le aveva detto queste cose (Gv 20:1-18; si veda anche Mt 28:1-15; Mr 16:1-14; Lu 24:1-35).

Il carattere discreto e concreto dei racconti evangelici ci permette di entrare nell'atmosfera di quel giorno in cui la vittoria di Cristo sulla morte scacciò la paura e l'incredulità dei discepoli. È evidente che nelle prime ore della giornata la tomba era al centro dell'attenzione in quanto rimasta misteriosamente vuota. Ci sono, in proposito, soltanto tre possibili spiegazioni.

La prima spiegazione è che il corpo di Gesù fosse stato tolto dai suoi nemici, come temeva Maria Maddalena (Gv 20:11-13). Ma in quel caso sarebbe stato facile mettere a tacere gli apostoli nel giorno della Pentecoste. Fatto sta che i Giudei, pur facendo del tutto per ostacolare la predicazione del Vangelo, non dissero mai di sapere dove si trovasse il corpo di Cristo.

La seconda spiegazione è che i seguaci di Cristo fossero riusciti in qualche modo a sopraffare le guardie romane per poi nascondere il corpo. Infatti questi soldati sarebbero stati pagati affinché mettessero in circolazione una spiegazione del genere (Mt 28:11-15). Ma è inverosimile pensare che alcuni uomini della Galilea, già mostratisi poco coraggiosi, fossero riusciti a sopraffare tutte le guardie o che tutte quante dormissero e continuassero a dormire mentre questi seguaci sfiduciati srotolavano la grande pietra dal sepolcro. La storia successiva mostra l'infondatezza di questa spiegazione. Una menzogna grossolana non

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poteva costituire il fondamento di un movimento che si mostrò subito dinamico, tanto che dopo pochi anni l'intero mondo romano doveva fare i conti con esso. Oltre tutto, tale ipotesi trascura il fatto che, lungi dall'inventare il racconto della risurrezione di Cristo, i discepoli erano stati i primi a non credere alla notizia della sua risurrezione quando le donne gliela annunciarono.

Quindi si è costretti ad avvalorare la terza spiegazione, e cioè: la tomba era vuota perché Gesù era veramente risorto come la Scrittura afferma e come egli stesso aveva predetto. Infatti, il suo corpo terreno non subì la corruzione ma fu trasformato, il terzo giorno, in un corpo glorioso.

I quaranta giorni (At 1:3)

Luca descrive l'intervallo fra la risurrezione di Gesù e la sua assunzione in cielo in questi termini: egli dava «mediante lo Spirito Santo delle istruzioni agli apostoli che aveva scelti. Ai quali anche, dopo che ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi vedere da loro per quaranta giorni, parlando delle cose relative al regno di Dio» (At 1:2-3). Giovanni getta ulteriore luce sulla natura del ministero di Gesù in quei giorni (20:19-21:23). Mettendo insieme le informazioni fornite da Luca e Giovanni, possiamo dire che si trattava di un ministero di riabilitazione, in particolare di Pietro che aveva rinnegato il suo Signore, nonché di aggiornamento e di conferimento di un preciso ruolo apostolico.

A proposito di quest’ultimo aspetto, è importante notare il contenuto del mandato che Gesù affidò agli apostoli e ai futuri discepoli (si veda Mt 28:18-20; Mr 16:15-16; Lu 24:44-49; Gv 20:21; At 1:8; cfr. Mt 16:18). Gli apostoli erano chiamati a essere «testimoni di Cristo» e araldi della notizia più bella riguardante l'opera di salvezza compiuta da Cristo e della conseguente possibilità di perdono per chi ubbidisse all'appello di ravvedersi e credere al vangelo. Nel rendere la loro testimonianza gli apostoli dovevano dipendere totalmente dallo Spirito Santo il quale avrebbe operato il miracolo della nuova nascita negli uditori ubbidienti.

Le manifestazioni miracolose erano dei «segni» (Mr 16:17-20), quindi non facevano parte del mandato stesso e non sarebbero state concesse in modo costante durante periodo apostolico, tanto meno era assicurato che continuassero con la stessa intensità durante tutta la storia della chiesa. Il mandato stesso, a cui bisogna attenersi, si riferisce all'opera già compiuta da Cristo i cui frutti si sarebbero manifestati nella vita cambiata di tutti coloro che avrebbero creduto a questa buona notizia (Gv 3:5-8; 15:26-27; 16:7-15; cfr. Ro 10:14-17).

L'ascensione (Lu 24:50-53; At 1:9-11)

Nella conversazione sul monte della trasfigurazione Mosè ed Elia descrissero ciò che Gesù doveva compiere a Gerusalemme come un esodo (Lu 9:31). In seguito, nel suo cammino verso Gerusalemme, Gesù

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aveva accennato a un periodo di tempo che sarebbe intercorso fra quel momento e il suo ritorno con l’incarico di regnare (Lu 19:11-27). Inoltre il suo ritorno al Padre e le novità che tale evento implicava per i suoi discepoli, erano stati i temi principali delle conversazioni che Gesù aveva avuto con gli undici nel Cenacolo, quando disse, fra le altre cose: «Sono proceduto dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo, e torno al Padre» (Gv 16:28). Inoltre aveva detto che il suo ritorno al Padre era una tappa necessaria affinché lo Spirito Santo potesse essere mandato, con tutti i relativi benefici per l’umanità (Gv 16:7-15; cfr. At 2:33).

L'evento stesso dell'ascensione era qualcosa di molto diversa da una mera cessazione delle apparizioni di Gesù che avevano caratterizzato i quaranta giorni precedenti (At 1:1-3,9-11). Si trattò di un evento veramente unico che ebbe inizio sulla terra per concludersi con l'insediamento del Figlio di Dio alla destra del Padre, in cielo. La natura dell’evento avrà pure delle ripercussioni escatologiche. Infatti «due uomini in vesti bianche si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo» (Ast 1:10-11). Entro pochi giorni gli effetti di questi eventi sarebbero diventati palpabili anche sulla terra, in virtù della discesa dello Spirito Santo il giorno della Pentecoste e della conseguente testimonianza efficace dei Dodici e di coloro che avrebbero creduto per mezzo della loro parola (At 2–28; cfr. Gv 17:20-21).

Il fatto che i discepoli «tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (Lu 24:52) rispecchia il fatto che l'evento appena testimoniato fosse percepito da loro come la conseguenza naturale della risurrezione e come l’inizio di una nuova fase nella storia della salvezza. Non a caso Luca documenta tale avvenimento sia alla fine del suo vangelo (Lu 24:50-53) che all'inizio del suo secondo volume (At 1:9-11). Questa doppia menzione fa comprendere che l'ascensione di Cristo alla destra del Padre figurava tanto come punto di arrivo del primo avvento di Cristo quanto il presupposto necessario dell’epoca della chiesa e del relativo annuncio del Vangelo che deve finire prima del suo secondo avvento.

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

1. In che modo le circostanze della morte di Cristo contribuirono a rivelare la sua identità divina, oltre che umana?

2. Alcuni ritengono che la risurrezione fosse un'invenzione dei discepoli. Quali fatti e altre considerazioni rendono impossibile una simile spiegazione della testimonianza apostolica?

3. Spiega perché l'ascensione non sia da ritenersi semplicemente la cessazione delle apparizioni di Cristo durante i 40 giorni, bensì un vero e proprio evento (si veda Gv 16:5-30; At 1:1-11; 2:32-33).

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4. Perché anche noi dovremmo essere pieni di gioia, pensando alla conclusione gloriosa del tempo in cui il Figlio di Dio ha abitato fra di noi?

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