il paradisoperduto (trad. lazzaro papi)

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JOHN MILTON Traduzione di LAZZARO PAPI IL PARADISO PERDUTO LIBRO PRIMO In questo primo libro si propone in breve il soggetto del poema, cioè la disubbidienza dell’uomo e la perdita del paradiso in cui egli era stato collocato; e si accenna la prima cagione di sua caduta, cioè il serpente, o piuttosto Satáno nascosto entro il serpente, che già ribellandosi a Dio, e traendo alla sua parte molte legioni d’Angeli, fu per divino comando scacciato dal cielo con tutta la sua torma nel gran Profondo. Dopo ciò il poeta entra nel soggetto e rappresenta Satáno e gli angeli suoi in mezzo all’inferno, ch’è posto non già nel centro del mondo (poiché il cielo e la terra ancora non erano), ma in un luogo di tenebre esteriori, più acconciamente chiamato Caos. Là Satáno, giacente sul lago di fuoco co’ suoi Angeli, fulminato e stordito, ripiglia spirito e tien parole con Belzebù, il primo dopo di lui in potenza e dignità. Parlano eglino insieme della loro infelice caduta: Satáno risveglia le sue regioni che si alzano dalle fiamme. Loro numero, ordine di battaglia, e principali Capi sotto i nomi degl’idoli conosciuti di poi in Canaan e nelle vicine contrade. Il principe di Demonj rivolge loro il discorso, gli conforta con la speranza di racquistare il cielo, e loro parla infine d’un nuovo mondo, e d’una nuova creatura che doveva un giorno essere creata secondo un’antica profezia o racconto sparso in cielo, giacchè parecchi antichi Padri credono gli Angeli esser creati molto tempo innanzi a questo mondo visibile. Propone Satáno di esaminare in pieno consiglio il senso

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Page 1: Il ParadisoPerduto (Trad. Lazzaro Papi)

JOHN MILTON

Traduzione diLAZZARO PAPI

IL PARADISO PERDUTO

LIBRO PRIMO

In questo primo libro si propone in breve il soggetto del poema, cioè la disubbidienza dell’uomo e la perdita del paradiso in cui egli era stato collocato; e si accenna la prima cagione di sua caduta, cioè il serpente, o piuttosto Satáno nascosto entro il serpente, che già ribellandosi a Dio, e traendo alla sua parte molte legioni d’Angeli, fu per divino comando scacciato dal cielo con tutta la sua torma nel gran Profondo. Dopo ciò il poeta entra nel soggetto e rappresenta Satáno e gli angeli suoi in mezzo all’inferno, ch’è posto non già nel centro del mondo (poiché il cielo e la terra ancora non erano), ma in un luogo di tenebre esteriori, più acconciamente chiamato Caos. Là Satáno, giacente sul lago di fuoco co’ suoi Angeli, fulminato e stordito, ripiglia spirito e tien parole con Belzebù, il primo dopo di lui in potenza e dignità. Parlano eglino insieme della loro infelice caduta: Satáno risveglia le sue regioni che si alzano dalle fiamme. Loro numero, ordine di battaglia, e principali Capi sotto i nomi degl’idoli conosciuti di poi in Canaan e nelle vicine contrade. Il principe di Demonj rivolge loro il discorso, gli conforta con la speranza di racquistare il cielo, e loro parla infine d’un nuovo mondo, e d’una nuova creatura che doveva un giorno essere creata secondo un’antica profezia o racconto sparso in cielo, giacchè parecchi antichi Padri credono gli Angeli esser creati molto tempo innanzi a questo mondo visibile. Propone Satáno di esaminare in pieno consiglio il senso di quella profezia, e decidere quel che si possa in conseguenza tentare. Il Pandemonio, palagio di Satáno, sorge, fabbricato ad un tratto, fuori dal Profondo. gli spiriti infernali vi si raccolgono per deliberare.

Dell'uom la prima colpa e del vietatoArbor ferale il malgustato frutto,Che l'Eden ci rapì, che fu di morte

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E d'ogni male apportator nel mondo,Finchè un Uomo divin l'alto racquistoFa del seggio beato e a noi lo rende,Canta, o Musa del ciel; tu che del Sinadell'Orebbe in sul romito giogoInspirasti il pastor che primo instrusseLa stirpe eletta come i cieli e comeLa terra in pria fuor del Caosse usciro;se più di Sión t'aggrada il colle,il rio di Siloè che al tempio augustoDi Dio scorrea vicino, indi tua fidaAita imploro all'animoso cantoChe d'innalzarsi a nobil volo aspiraOltre l'Aonio monte, e a dir imprendeCose ancor non tentate in prosa o rima.

E pria tu Divo Spirto, a cui più gratoÈ d'ogni tempo un retto core e puro,Sii, tu che sai, maestro mio: presenteDal principio tu fosti, e con disteseAli robuste, di colomba in guisa,Stesti covante sopra il vasto abisso,E di virtù feconda il sen n'empiesti.Tu quanto è oscuro in me rischiara, e quantoÈ basso e infermo, in alto leva e reggi,Onde sorgendo a par del tema eccelso,Svelare all'uom la Provvidenza eternaIo possa, e scioglier d'ogni dubbio gli altiDi Dio consigli e le ragioni arcane.

Narra tu prima (poichè nulla il cielo,Nulla l'inferno agli occhi tuoi nasconde),Narra qual mai cagion gli antichi nostriPadri, sì cari al cielo e in sì feliceStato locati, a ribellarsi mosseDa lui che gli creò. Mentre signoriEran del mondo, un suo leggier divietoCome romper fur osi? Al turpe eccessoChi sedusse gl'ingrati? Il Serpe reoD'inferno fu. Mastro di frodi e puntoDa livore e vendetta egli l'anticaNostra madre ingannò, quando l'insanoOrgoglio suo dal ciel cacciato l'ebbeCon tutta l'oste de' rubelli Spirti.Su lor coll'armi loro alto a levarsiAmbìa l'iniquo e d'agguagliarsi a DioPensò, se a Dio si fosse opposto. Il follePensier superbo rivolgendo in mente,Incontro al soglio del Monarca eternoMosse empia guerra e a temeraria pugnaVenne, ma invan. L'onnipossente braccioTra incendio immenso e orribile ruinaFuor lo scagliò dalle superne sedi

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Giù capovolto e divampante in nero,Privo di fondo disperato abisso;Ove in catene d'adamante strettoA starsi fu dannato e in fiamme ultriciQual tracotato sfidator di Dio,E già lo spazio che fra noi misuraLa notte e 'l dì, nove fiate scorse,Che con l'orrida ciurma avvolto ei stavaNell'igneo golfo, tutto sbigottitoBenchè immortal. Pur lo serbava ancoraA maggior pena il suo decreto. IntantoL'aspro pensiero del perduto bene,E del futuro interminabil dannoIl cruccia alternamente. Intorno ei giraLe bieche luci una profonda ambasciaSpiranti e un cupo abbattimento mistoD'odio tenace e d'indurato orgoglio:Ed in un punto, quanto lungi il guardoD'un Angelo si stende, ei l'occhio mandaSu quell'atroce, aspro, diserto sito;Carcere orrendo, simile a fiammanteFornace immensa; ma non già da quelleTetre fiamme esce luce; un torbo e neroBaglior tramandan solo, onde si scorgeLa tenebrosa avviluppata massaE feri aspetti e luride ombre e campiD'ambascia e duol, dove non pace mai,Non mai posa si trova, e la speranzaChe per tutto penétra, unqua non scende.Quivi è tormento senza fin, che ognoraIncalza più, quivi si spande eternoUn diluvio di foco, ognor nudritoDa sempre acceso e inconsumabil solfo.

Tal la Giustizia eterna a quei ribelliAveva apparecchiata orrenda chiostraD'esterno tenebror, remota tantoDalla luce del ciel quant'è tre volteLontan dal centro della terra il poloDell'Universo. Oh dalla stanza primaStanza diversa! Egli i compagni quiviDi sua caduta scerne urtati, avvoltiFra i turbinosi vortici, fra i gorghiDel tempestoso foco, ed al suo fiancoVoltolantesi quei che gli era in cieloIn potere e 'n delitto il più vicino,E noto poscia e Belzebù nomatoFu in Palestina. Ad esso il gran Nemico(Satáno è detto in ciel) si volse, e in questeParole audaci il fier silenzio ruppe:

Se quel tu sei... (Ma qual ti miro, e quantoCangiato da colui che ne' beati

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Regni di luce tante schiere e tanteDi Spirti fulgidissimi vinceviTutto vestito di fulgór!). Se quegliTu se' che nell'ardita illustre impresaI conformi pensier, le stesse voglie,Egual speranza ed egual rischio mecoStrinsero in salda lega e che or congiungeUn crudo egual destin, da quale altezzaVedi in qual ruinammo orribil fondo!Tanto la folgor sua colui più forteRese di noi: fatale atroce telo!Chi pria d'allor ne conoscea la possa?Ma non io per quell'arme, e non per quantoL'ira del vincitor su me s'aggravi,Non io mi pento o cangio: invan son ioDi fuor cangiato, il cor lo stesso è sempre;Del mio spregiato merto ivi entro impressaAltamente ho l'ingiuria, hovvi confittoIl fero sdegno che a lottar mi spinseCon quel Possente. E che! Potei pur trarreContr'esso in campo innumerabil'osteDi congiurati valorosi SpirtiChe il regno suo dannavano, che a luiMe preferìan, che di virtù, d'ardireDiero alte prove memorande incontroGli estremi sforzi suoi, che sugl'immensiLassù celesti campi in dubbia lanceTenner vittoria e gli crollaro il trono!Perduto è il campo, e sia: perduto il tuttoDunque sarà? Quell'invincibil, fermoVoler ci resta ancor, quel di vendettaFero desìo, quell'immortal rancoreE quel coraggio che non mai s'abbatte,Che mai non si sommette. E che altro è maiL'essere invitto ed invincibil? QuestoVanto la rabbia sua, la sua possanzaNo, non avrà da me. Ch'io grazia chieda?Ch'io mi prostri al suo piè? che qual mio Nume,Qual mio Signor lui riconosca e onori,Lui che il terror di questo braccio miseTestè del regno in forse? Ah! questa inveroFora viltà, fora ignominia ed ontaPeggior della caduta. Or poichè 'l FatoTai ci formò che il vigor nostro e questaCelestïal sustanza unqua non ponnoVenirci men, poichè la fresca provaDi tanto evento noi peggiori in armePunto non rese, e il preveder ci accrebbe,Con speranza miglior, nuova ostinataGuerra eterna moviamgli, e forza e frodeS'impieghi contro lui ch'ebbro d'orgoglio

Page 5: Il ParadisoPerduto (Trad. Lazzaro Papi)

Ora gioisce ai nostri mali, e soloDa tiranno nel ciel trionfa e regna.Così Satán, nel tormentato fondoDel cor premendo un disperar feroce,Imbaldanziva favellando, e a luiTal diè risposta il suo compagno audace:

Prence di tanti Eroi, sovrano DuceDi tanti Duci, che al tuo cenno intentiDe' Serafini le ordinate squadreCondussero al conflitto, e sempre in ogniPiù duro scontro impavidi e tremendiPoser l'Eterno in rischio, e prova fèroS'ei per forza o per caso o per destinoLassù tenesse il primo seggio, e comeVuoi ch'io non vegga il lacrimabil casoChe il ciel ne ha tolto, e sì grand'oste ha tuttaSpinta in ruina orribile, per quantoPosson perir celesti Essenze e Numi?Ah troppo il veggo, ah troppo il sento! È veroChe sebben spenta sia la gloria nostra,E quel primier felice stato assortoIn eterna miseria, un'alma in noiInvincibil rimane, e al core, e al braccioIl perduto vigor pronto ritorna;Ma che valer ci può, qual pro che il nostroOnnipossente vincitor (m'è forzaOra crederlo tal, chè tal se in veroEgli non fosse, soggiogar tentatoUn poter pari al nostro avrebbe invano),Qual pro che questa forza e questo spirtoCi lasci integri? Non vuol ei capaciCosì farci d'un duol che fin non abbiaPer pascer senza fin quel suo feroceDi vendetta inesplebile talento?Ah! che quai schiavi per ragion di guerraA qualunque pensier gli sorga in menteEgli ci serba; ad opre indegne e dureForse ei qui ci destina in mezzo al foco,O messaggeri suoi pel tenebrosoImo baràtro. Il non scemato adunqueNostro vigor, la nostra essenza eternaAltro fruttar ci può che eterna pena?

Caduto Cherubino (a lui rispondeVivamente Satáno), alma che langue,Nell'oprar, nel soffrir, misera è sempre.Tu certo intanto sii che nostra impresaIl ben non fia mai più. Nel male ognora,Nel mal che opposto è per natura all'altoVoler di quei cui facciam guerra, il sommoDobiam cercar nostro diletto e vanto.Studi egli pur con provvido consiglio

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Volgere in bene il male; ogni nostr'arteQuel suo disegno a distornar si volga,E fuor del seno ancor del bene stessoPer nostre oblique trame il mal germogli.Ciò può spesso avvenirci, e, s'io non erro.Forse ei vedrà dolente i suoi più chiusiPensieri ir lungi dal proposto segno.Ma vedi tu? Quel vincitore iratoAlle porte del cielo i suoi ministriD'inseguimento e di vendetta indietroHa richiamati. Quel sulfureo nembo,Quella rovente impetuosa foltaGrandine ond'ei nel precipizio nostroCi flagellava, dileguossi omai;E 'l tuon dell'ali sue di rabbia e focoScarichi tutti e logri alfin gli straliHa forse, e cessa di mugghiar pel vastoAbisso interminato. Afferriam prontiL'occasion che, sia dispregio o siaSazio furore, or ci abbandona il nostroCrudo nemico. Vedi tu quell'ermoLugubre piano, inospite, covertoDi folta tenebrìa, tranne quel raggioChe spaventoso e lurido vi gettaDi queste vampe il livido barlume?Lungi colà dal tempestar di questeOnde focose indirizziamci, ed iviPosiam, se posa esser vi puote alcuna;E raccogliendo le disperse schiere,Cerchiam qual via ci resti, onde al nemicoPiù grave danno in avvenir s'arrechi;Cerchiam qual sia della sconfitta nostraIl riparo miglior, come sì crudaSciagura superar, qual dalla spemeForza ritrarre, o, in fin, qual dar ci possaLa disperazïon consiglio estremo.

Così al compagno suo dicea SatánoColla testa alta fuor dell'onde, e fuoriDegli occhi folgorando orribil lume:Prono su i flutti e galleggiante il restoDelle immani sue membra un ampio e lungoSpazio di molti iugeri coprìa.Tali in lor mole della terra i figliLa favolosa Grecia a noi dipinseChe osâr Giove assalir, quel BriaréoO quel Tifóne, cui di Tarso anticaIl grand'antro accogliea. Tal è fors'ancoQuel mostro enorme, a cui null'altro eguale,Fra quanti l'ampio mar rompon col nuoto,Creonne Iddio. Sulle Norvegie spume(Se la fama col falso il ver non mesce)

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Ove in lui steso per dormir s'abbattaIl pallido nocchier di picciol legnoIn buia notte a naufragar vicino,Spesso un'isola il crede, in sua scagliosaScorza l'áncora gitta e a lui s'afferra,Finchè la notte il mar ricopre, e tardaLa sospirata aurora. IncatenatoSu quell'ardente pelago giaceaCosì vasto e disteso il gran nemico;Nè alzata mai, nè scossa pur l'alteraCervice avrìa di là, se il ciel che tuttoRegge e governa, non lasciava appienoAi disegni di lui libero il corso;Ond'egli colpe accumulando a colpeE l'altrui mal cercando, anco sul capoDell'ira eterna s'accrescesse il peso,E furibondo al fin non altro fruttoFuor dell'arti sue prave uscir vedesseChe infinita bontà, grazia, mercedeSull'uom da lui sedotto, e piover doppioScorno sopra di sè, furor, vendetta.

Repente egli erge dal bollente gorgoSua vasta mole; d'ambo i lati spinteTorcon le fiamme le appuntate cimeE raggirate in grosse onde nel mezzoLascian orrida valle. Alto egli spandeL'ali e dirizza il vol per l'aria foscaChe stride al peso inusitato, e sovraL'arida terra approda alfin, se terraQuella pur è che di massiccio focoTutt'arde ognor, siccome il lago ardeaDi foco alliquidito; e tal rassembraQual di rabbiosi sotterranei fiatiPer la gran forza da Peloro sveltoE via scagliato alpestre masso; o qualeDi Mongibello il fracassato fianco,Quando le gorgoglianti ime fornaciDi solfo pregne e d'irritati ventiFuore sbocca tonando e al guardo scopreTutte di fumo e di fetor ravvolteLe arroventate orribili caverne.Sopra sì fatto suol, dal suo compagnoSeguìto ognor, le maledette pianteSatáno arresta, e baldanzosi entrambiVantansi dalla Stigia accesa lamaPer la lor propria ricovrata forza,Quai Dei, scampati, e che il gran Re del TuttoCosì permise, immaginar non sanno.

Quest'è la regïon, la terra è questa,Disse Satáno allor, quest'è la sedeChe abitar ci convien del cielo invece?

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Questo lugubre orror per quella vivaSerena luce? Or sia; poichè coluiCh'adesso è Re, così dispone e assestaIl retto e 'l giusto al suo piacer sovrano.Sì, miglior sempre il più lontano albergoSarà da quegli, cui Ragione agli altriAgguaglia, e Forza sopra gli altri innalza.Addio, felici campi; addio, soggiornoD'eterna gioia. Salve, o Mondo inferno,Salvete, Orrori; e tu, profondo Abisso,Il tuo novello possessore accogli;Accogli quei che in petto un'alma serraPer loco o tempo non mutabil mai.L'alma in se stessa alberga, e in sè trasformaNel ciel l'inferno e nell'inferno il cielo:Che importa ov'io mi sia, se ognor lo stesso,E qual deggio, son io? se tutto io sono,Fuorchè minor di lui che il fulmin soloFe' più grande di me? Liberi almeno,Qui liberi sarem: questo soggiornoEgli non fece onde lo invidii, e quindiSbandirci non vorrà: regnar sicuriQui noi possiamo, e, al parer mio, quaggiusoAnco è bello il regnar; sì, miglior sempreChe in ciel servaggio, è nell'inferno un regno.Ma perchè i nostri sventurati e fidiCompagni e amici, istupiditi, avvoltiLasciam colà sul fero lago, e a parteNon gl'invitiam con noi di nostra sorte?Sì, consultiam, veggiam ciò che, raccolteNostr'armi, in cielo racquistar si possa,O se a perder quaggiuso altro ci resta.

Così Satán parlava, e in questi accentiRispose Belzebù: Duce di quelleRaggianti schiere, cui sconfigger soloPotea chi tutto può, se ancora il suonoDi tua voce elle udran, di quella voceChe, quando più ostinata, incerta, orrendaLa pugna inferocía, di loro spemeFu il pegno animator, fu in ogni assaltoIl più sicuro ed ubbidito segno,Se ancor la udran, nuovo coraggio in esseVedrai rinascer tosto e nuova vita.Or se, qual noi testè, sull'igneo lagoTrambasciate si stan, stordite, inerti,Meraviglia non è dopo cotantoSpaventevol caduta. Aveva appenaDi dir cessato Belzebù che l'altroVèr la spiaggia movea. Dietro le spalleEi si gittò lo scudo, eterea tempra,Ponderoso, massiccio, ampio, rotondo:

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Il largo cerchio a tergo gli pendeaSimile a luna, quando a sera il grandeToscan Maestro con suoi vetri industriDal Fiesolano colle o di ValdarnoLa sta mirando a discoprir novelleTerre e nuove montagne e nuovi fiumiNel maculato globo. All'asta suaSe il più gran pin delle Norvegie selveTroncato a farne smisurata antennaDi regal nave, agguagli, è verga lieveNella sua man: con essa ei regge e fermaSulla rovente sabbia i passi, oh quantoDa quei diversi che sul piano azzurroDell'Empireo movea! La torrid'aura,Che sul suo capo l'ignea volta manda,Forte anco il fiede e abbronza; ei nulla curaPer tanto ed oltre va, finchè sul margoDi quel mare infiammato il piede arresta.Alza il grido colà verso le sueProstese innumerabili falangiChe ammucchiate giacean qual sotto gli altiArchi de' boschi opachi in VallombrosaS'ammassano e ricoprono i suggettiRivi in autunno le cadute foglie:E forse è folta men l'alga ondeggianteQuando Orión di feri venti armatoTutto dall'imo fondo alza e sconvolgeQuel mar famoso, entro i cui flutti videIl perseguìto Ebreo dal salvo lidoBusiri andar con l'oste sua sommerso,E galleggiar tra rotti carri i mortiCavalli e cavalieri e fanti avvolti.Così densa coprìa quel vasto gorgoLa perduta oste rea, che più se stessaPer lo stupor del cangiamento stranoNon conosceva: alto ei chiamolla, e tuttiRintronàr dell'inferno i cupi seniA quella voce: O Potentati, o Prenci,Guerrieri che del ciel l'onor già foste,Del ciel già vostro, ed ora, oimè! perduto,Se un letargo simìl voi, Spirti eterni,Puote ingombrar così: questa dimoraSceglieste forse a ristorar la stancaVostra virtù dopo la pugna? è questo,Come lassù del ciel le amene valli,Il loco adatto ai vostri sonni? o in talePostura abietta d'adorar giurasteIl vincitor? Ch'ei dal suo trono or miriLe vostre insegne, le vostr'armi sparte,E voi medesimi in questo mar convolti,Nulla curate? Ma che parlo? Forse

Page 10: Il ParadisoPerduto (Trad. Lazzaro Papi)

State attendendo che, il vantaggio scorto,Quel suo veloce inseguitor drappelloDalle soglie del ciel scenda a calcarciGiù col piede le languide cervici,O co' fulminei catenati straliDi questo golfo ci conficchi al fondo?Scuotetevi, sorgete, o eternamenteSiate perduti. Eglino udir, vergognaGli punse, e l'ali dibattendo, a un trattoTutti s'alzaro. Quasi talor sull'armiDal capitan temuto a dormir colteLe sentinelle, non ben deste ancoraRizzansi e mostra fan d'ardite e franche,Tai sembravan coloro. Il crudo statoSenton ben essi e le lor pene acerbe:Ma pur del Duce al grido in un istanteObbedisce ciascun; tutto all'intornoSi scuote, tutto freme e tutto ondeggia.Così al brandir della possente vergaDel figliuol d'Amràm vide l'EgittoInorridito in quel feral suo giorno,Curva sull'Euro comparir repenteCaliginosa mormorante nubeDi voraci locuste, e, come notte,Dell'empio Faraòn pender sul regnoE coprirlo di tenebre. Tal eraL'innumerabil numero di quelleMalvagie squadre che laggiù d'infernoSotto la vôlta, tra le basse ed alteE d'ogni lato circolanti vampe,Stavan sospese sugli aperti vanni;Finchè, qual segno, l'aggirata in altoAsta del magno Imperador diresseIl corso lor. Sulle librate penneA quella vôlta giù tosto si calanoSovra quel fermo solfo e 'l vasto pianoIngombran tutto; immensa torma, a cuiUna simil non mai versò da' suoiGhiacciati fianchi il popoloso Norte,Quando, varcata la Danoia e 'l Reno,Come un diluvio, i barbari suoi figliCadder sull'Austro e passâr Calpe, e tutteLe Libiche inondaro aduste sabbie.

Repente fuor d'ogni squadrone uscendoI condottier colà s'affrettan doveStava il gran Duce lor; divine, eccelseSembianze e forme, ogni beltà terrenaSuperanti d'assai; Principi e RegiCh'eran nel ciel poc'anzi assisi in trono.Ogni memoria de' lor nomi spentaOr è lassuso, cancellati e rasi

Page 11: Il ParadisoPerduto (Trad. Lazzaro Papi)

Per la lor fellonía da' libri eterniDi vita eternamente, e nuovi nomiD'Eva tra i figli non aveano ancora.Iddio provar l'uom volle e lor permiseD'ir la terra scorrendo, e sì poteroLa più gran parte dell'uman lignaggioTogliere al culto del verace DioCon lor menzogne e loro inganni, ond'essaLui glorioso, onnipossente, eterno,Non comprensibil, non visibil, spessoColl'insensata imagine d'un brutoTutta di pompe e d'ôr cinta e copertaScambiò miseramente, e, come Numi,I Démoni adorò. Diversi alloraEbber costoro in terra idoli e nomi.

Di', Musa, dunque i nomi lor; chi primaSurse, chi poi da quel bollente letto,Da quel letargo, e, dietro a sè lasciandoDe' minori guerrier la turba immensa,Solo avvïossi ove il gran Duce alzavaSu quella spiaggia orribile e desertaLa rampognante imperïosa voce.

Capi eran quei che dal profondo abisso,Lungo tempo dipoi, di preda in tracciaAll'aure usciti, di locar vicineAlla sede di Dio lor sedi osaroE l'are lor presso alla sua; che gli empiVoti usurpar de' popoli e gl'incensi.Di Iéova stesso in trono assiso e cintoDa' Cherubini suoi lo sguardo e 'l braccioFulminator non spaventolli, e spessoDentro Sionne ancor, dentro il medesmoSantuario di lui gli abbominandiLor simulacri spinsero, le augustePompe e i riti ineffabili e tremendiProfanar s'attentaro, e l'empie loroTenebre opporre all'immortal sua luce.

Primo è Molocco, orrido Re, che bebbeL'umano sangue ed i materni piantiSugli altari crudeli, ove le stridaDelle vittime sue tra 'l foco avvolteSoffocava un frastuono alto, incessanteDi tamburi e taballi. A lui prostrossiL'Ammoníta entro Rabba; e nelle suePianure acquose ed in Basanne e ArgobbeFin dell'Arnonne alle rimote sponde:Nè pago ancora di cotanto audaceSua vicinanza, il saggio cor sedusseDi Salomone fabbricargli un tempioIn faccia al divin tempio, in cima a quellaMontagna obbrobriosa, e suo boschetto

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Fece d'Innòm la dilettosa valleCh'ebbe indi il nome di Toféto e d'atraGéenna, dell'inferno orrida imago.

L'altro è Chemosse, di Moabbo a' figliSpavento osceno da Aroarre a NeboFin d'Abarimme alle remote australiErme contrade. In Esebòna ancoraStese l'impero e in Oronài, reameDi Seòne, e di Sibma oltre la valleDi liete vigne e fior tutta ridente,E corse audace in Eleal perfinoAll'Asfaltico stagno. Ei di PeorreIl nome ancor portò, quando Israello,Mentre fuggìa dalle Niliache sponde,Colà in Sittimme ai suoi lascivi ritiFu sedotto da lui, riti che furoDi tanti mali la fatal sorgente.Ei distese di là sovra quel colleD'infamia eterna, che sorgea vicinoDel fier Molocco alla cruenta selva,L'orgie impudiche, e mescolò col sangueLe libidini sue, finchè d'entrambiA terra il buon Giosía gli altari sparseE nell'inferno gli rispinse. AppressoA questi due venìan quei Spirti impuriChe dalle sponde del vicino EufrateAl rio che dall'Egitto Assiria parte,Di Baalimmi e di Astarotte i nomiComuni avean tra numeroso stuolo;Dei quelli, e Dive queste. A lor talentoOr l'uno or l'altro sesso ed ambi insiemePrendon gli Spirti ancor: pieghevol tantoÈ lor pura sustanza, e lieve e molle;Tanto ella vince la mortal strutturaChe di polpe e di nervi e d'ossa insiemeÈ contesta ed ingombra. In ogni formaOscura o luminosa, o densa o rara,Qual più lor giova, or d'odio, ora d'amorePossono i rei disegni in opra porre.Per essi i figli d'Israello infidi,Al sommo Dio, lor viva forza, spessoVolsero il tergo, e infrequentata e mutaLasciando l'ara sua, curvâr le frontiDianzi a brutali Numi, onde quell'empieCervici lor di tanta colpa carchePoscia in campo mietè vil ferro imbelle.Venìa con lor quell'Astaréte in schiera,Che da' Fenici poi fu detta Astarte,Del ciel notturna regnatrice, ornataDelle crescenti luminose corna.Alla corrusca imagin sua fur use

Page 13: Il ParadisoPerduto (Trad. Lazzaro Papi)

Per l'aer bruno offrir lor voti ed inniLe Sidonie donzelle, e culto ed araIn Sionne ebbe ancor sull'empio monteFondata da quel Re che il saggio coreTra femminili amor corruppe, e spintoDa sue belle idolatre, idoli immondiPur cadde ad incensar. Venìa TammuzoPoi, la cui piaga riaperta ogn'annoOgn'anno ancor rinnovellava il duoloDelle Siriache vergini che in tristeNote d'amore al Libano d'intornoTutto un estivo dì stavan piangendoL'acerbo fato suo, mentre vermiglieAdoni al mar volgea le placid'ondeDalla natía sua rupe, e a lor pareaMostrar in esse di Tammuzo il sangue.Di pari ardor quell'amorosa folaInfettò di Sionne ancor le figlie;E ben le turpi lor fiamme lasciveFin dentro i sacri portici scopríoEzechïel quando girò sull'empieIdolatrie del ribellato GiudaL'occhio ripien della virtù superna.

Quegli poscia venìa che vivo duoloSentì nel cor quando la propria imagoEntro il suo tempio stesso a un tratto moncaFarsi dall'arca prigioniera ei vide,E via le tronche mani e la spiccataTesta balzarne rotolando al suolo,De' suoi scornati adoratori al piede.Dagón fu il nome suo, marino mostro,Uom sopra e pesce in basso: alto sorgeaIl suo tempio in Azóto e i lidi tuttiDi Palestina ed Ascalona e GataFin d'Accarón ai termini e di GazaTemean suo scettro. Lo seguìa RimmoneCh'ebbe nel bel Damasco ameno seggioD'Abbana e di Farfarre in sulle vagheFertili rive. Egli pur erse incontroAlla magion di Dio l'audace fronte,E se un lebbroso Duce ei vide un giornoAbbandonar suo culto, un Re pur videPrestargli omaggio: Aazo ei fu, quel folleSuo vincitor, che del verace DioSpregiò, rimosse l'ara, e un'altra a guisaDelle Assirie n'eresse, ov'empi incensiArse agli Dei già da lui vinti e domi.

Folta appo questi una gran torma apparveChe sotto i nomi celebrati antichiD'Isi e d'Osiri e d'Oro, e de' tanti altriSeguaci lor, con mostruose forme

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E con vani prestigi il cieco EgittoSì schernir seppe e i sacerdoti suoi,Che andaro ognor sotto ferino aspetto,Anzichè umano, or qua or là cercandoI lor vaganti Dei. Da quella pesteNon fu immune Israél quando in OrebbeL'oro accattato ei del vitello fuseNell'immago adorata. Empiezza egualeVider bentosto Bettelemme e DanaDoppiarsi da quel Re che osò ribelleParagonare a bue che l'erba pasce,Iéova che lo creò, Iéova che quandoDall'Egitto ei fuggìa, con un sol colpo,In una sola notte, ogni fanciulloPrimonato percosse, e a terra steseOgni muggente Nume. Ultimo venneQuel Belial, di cui più laido SpirtoDal ciel non cadde e più del vizio in predaSol per amor del vizio: a lui non tempioSorgea, nè altar fumava; eppur qual altroSoggiornò più di lui fra templi ed are?Ei là sovente d'ogni Dio l'ideaNei sacerdoti cancellò, qual d'EliNe' figli avvenne, che di Dio la casaDi vïolenza e di lascivie empiero.Ei pur le Corti e i gran palagi alberga,E le ricche città passeggia altero,Ove il fragor della licenza oscena,Degli oltraggi e dell'onte, oltre le cimeDelle più eccelse torri ascende e suona;E quando della notte il fosco veloLe strade abbuia, allor vagando intornoEscon di Belialle i sozzi figliEbbri di vino e oltracotanza. TroppoDi Sodoma le vie sepperlo un giorno,E Gabaa il seppe in quella notte impuraChe, a distornare un peggior ratto, aprissiL'ospital soglia e una matrona espose.

In ordine e possanza eran costoroPrimi fra gli altri, di cui troppo foraLungo il ridir, benchè lontana suoniLa fama lor; di Iávana la stirpe,Gli Dei di Ionia che pur Dei tenutiFur, sebben dopo Cielo e dopo TerraVantati padri lor, venuti al mondo;Quel Titano di Ciel primiera proleColl'enorme sua schiatta, al qual fur toltiDal più giovin Saturno e dritti e regno,E questi che a vicenda egual destinoProvò dal figlio che di Rea gli nacqueE che di forza il vinse. Ebbesi Giove

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Usurpator così l'impero. In CretaDa prima e in Ida essi fur noti, e quindiDel freddo Olimpo sul nevoso giogo,Dell'aere medio, lor più alto cielo,Ebber governo, o soggiornar di DelfoSulla rupe, o in Dodona e pe' confiniDel Dorico terren. Sovr'Adria gli altriColl'antico Saturno il vol drizzaroAi campi Esperj e Celtici, e per tutteLe remote vagaro isole estreme.

Tutti costoro ed altri molti innanziS'affollaro a Satán, con occhi pregniDi pianto e chini al suol; ma pur di gioiaIn essi un fosco raggio insiem traspare,Mentre non anco di speranza uscitoVeggono il Duce loro, e sè medesmiNon affatto perduti in mezzo a tantaSpaventevol ruina: a lui non menoUn incerto color rapidamentePassò sul volto, ma l'usato orgoglioTosto ei riprende, e con parole altere,Pompose sì, ma vane, a poco a pocoRavviva in essi gli abbattuti spirtiE le speranze lor scuote e raccende.

Quindi impon tosto che al guerriero suonoDi trombe e d'oricalchi il gran vessilloS'innalzi: n'ebbe il glorïoso incarcoPer suo dritto Azazél, d'alte e superbeSembianze un Cherubin: dalla raggianteAsta egli tosto disviluppa e stendeL'insegna imperïal ch'alto nell'auraTremolando, qual lucida rifulseMeteora in fosco ciel: splendeanvi in mezzoD'oro e di gemme riccamente intesteL'arme e i trofei Serafici. I sonoriMetalli intanto un marzïal clangoreLunge spandeano, a cui sì forte un gridoTutta l'oste mandò che dell'infernoScosse la vôlta e del Caosse e dellaVetusta Notte spaventò l'impero.In un momento diecimila alzarsiBandiere fur per quell'orror vedute,E nell'aura ondeggiar pinte de' viviColor del sol nascente: insiem levossiDi lancie ampia foresta, e d'elmi e scudiConserta e folta un'ordinanza apparveProfonda, immensurabile. S'avanzaIn maestoso e fiero aspetto il campoDi tibie e flauti al Dorico concento;Dolce e grave armonia che degli antichiEroi presti a pugnar gli animi ergea

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A somma altezza, e non furor, ma fermoValor deliberato in lor spiravaChe temea, più che morte, esser rispinto;Alta armonia che con sublimi noteDalle mortali ed immortali mentiDubbio, paura, angoscia e affanno sgombraO molce almeno. Tacita, securaIn sua virtude, in sua congiunta possaCosì movea quell'oste al dolce suonoChe del bruciante suol l'ardor tempravaSotto i suoi passi dolorosi. In mostraEcco a un punto s'arresta; orrida fronteDi terribil lunghezza e d'abbagliantiArmi, ai prischi guerrier simile in parteCon aste e scudi in ordinanza, e attentaStassi ad udir quale al possente DuceComando piaccia imporre. Egli l'espertoSguardo dardeggia per le file, e tuttaDa un punto all'altro la falange immensaNe trascorre veloce; il ben dispostoOrdine, i volti e le stature eccelse,Solo proprie di Numi, osserva e squadra,E alfin somma il lor numero. D'orgoglioOr più gonfia il suo core e più s'indura;Poichè dal giorno, in cui fu l'uomo creato,Non mai si ragunò tal'oste e tantaChe, di questa al paraggio, assai simileNon fosse a stormo di pimmei pugnantiDi strepitose gru contro uno stuolo.Taccia Flegra i giganti, ed Ilio e TebeQuella stirpe d'Eroi che d'ambo i latiPugnò frammista ai parteggianti Numi;Nè favola o romanzo il prode ArturoDa' suoi Britanni o Armorici campioniIntorno cinto osi membrar (chè troppoSpregevol fora il paragon), nè quantiIn Aspramonte o Montalban giostraro,In Damasco, in Marocco o in TrebisondaCristiani o Saracini invitti Eroi,Nè quei che dalle Maure aduste areneMandò fra noi Biserta allorchè il MagnoCarlo con tutti i Paladini suiIn Fontarabia cadde. Incontro a questiDel ciel rivali uman valor è nulla.Pur se ne stanno riverenti al loroTemuto Duce. Alteramente eccelsoEi di persona, e portamento sopraTutti gli altri torreggia; ancor perdutoNon ha tutto il natìo fulgor celeste,E conquiso com'è, pur sempre in luiUn Arcangel si vede, un offuscato

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Di gloria eccesso. Tale il sol nascenteTimidi getta e pallidi pel graveAere nebbioso i raggi, e tal ei sparge,Se Cintia il vela coll'opposto dosso,Sovra mezza la terra un torbo e mestoLume che pel timor d'aspre vicendeTien palpitante de' tiranni il core.Oscurato così, tanto splendeaSopr'ogn'altro Satáno: ancor dell'alteCicatrici del folgore roventeSolcata avea la faccia, ancor gli stavaLa cura e 'l duol sulla scaduta guancia;Ma sotto il ciglio l'indomabil coreE 'l ponderato orgoglio intento tuttoAlla vendetta trasparìa; feroceArdeva l'occhio suo, pur di rimorsoSegni gettava e di cordoglio: ei miraSpiriti innumerabili, già vistiIn sì diversa sorte, ora dal cieloE da sua luce eterna eternamentePer sua cagion sbanditi e in quegli abissiSpinti e dannati; e suoi compagni furo,Anzi seguaci suoi! pur fidi ancoraQuanto gli sono e nella lor sventuraQual mostran fermo generoso core!Così qualor la rovinosa fiammaDel ciel piombò sulla foresta e gli altiPini e le querce noderose antichePercosse, diramò, pur coll'arsicciaSfrondata cima stan gli alteri tronchiSul divampato suol fissi ed immoti.Egli a parlar s'accinge, onde si curvaVèr lui del campo il destro corno e 'l manco,E in semicerchio co' più degni DuciRaccolto viene: ciascheduno è mutoPer desìo d'ascoltar: ei per tre volteTentò parlare e per tre volte, ad ontaDel proprio scorno, in lagrime proruppe,Ma quali Angel le sparge; alfin mescendoCo' sospir le parole, ei così disse:

O d'immortali Spirti immense schiere,O Forti, o comparabili soltantoCon lui che tutto può, certo d'onorePriva non fu l'alta contesa nostra,Benchè seguìta da un evento atroceSiccome questo loco, ahi! troppo attesta,E quest'orribil cangiamento, ond'ioParlar non oso. Ma qual mai presagaMente sublime e dagli eventi instruttaTemer potea che tal di Numi unitoEsercito, che forze a queste eguali,

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Sì intrepide, sì ferme, esser disfattePotesser mai? Chi crederà che ancoraAbbattuto, com'è, stuol sì gagliardo,Di cui l'esilio ha fatto vòto il cielo,Col suo valor là risalir non debbaE i suoi riposseder perduti seggi?Tutta l'oste del ciel ne chiamo in prova;Se discordanza di consigli o rischioDa me schivato le speranze nostreHa rovesciate. Ma colui ch'or regnaLassù Monarca, infino allor sedeaSul trono suo qual chi securo appienoPer vecchia stima, uso o consenso il tiene,E piena pompa del suo regio statoFacendo, intanto il suo poter celava.Questo a tentar c'indusse, e cagion questoFu di nostra ruina. Ormai sua possaNoi conosciamo e nostra possa a un tempo,Onde nè provocar guerra novella,Nè provocati paventarla. Il meglioCi resta ancor: dove il poter non giunse,L'arte vi giunga e 'l ben oprato inganno;E apprenda ei pur da noi che sol da forzaVinto nemico è per metà sol vinto.Dello spazio nel grembo ermo ed immensoNovelli mondi sorger ponno, e in cieloFama correa ch'egli in pensier volgesseCrearne un altro in breve, ed una stirpeLocare in esso a lui gradita e caraQuanto del cielo i più diletti figli.Ivi a spïar, se non ad altro, in primaUscirem noi, là forse o altrove ancora:Chè in servitù no ritener non debbeChiusi quaggiù questa infernal voragoSpirti celesti e l'Erebo coprirliDelle tenebre sue. Ma in pien consiglioQuesti pensier matureransi: or fermoStia che vana è di pace ogni speranzaPer chi servir, sottomettersi non voglia;E chi vorrallo? Aperta guerra dunqueO ascosa si risolva, e guerra eterna.

Disse, e quei detti ad approvar, dal fiancoDe' forti Cherubini ecco ad un puntoPiù milïon di sguainati brandiL'aria fendèro e mandàr fiamme e lampiOnde lontan rifulse il bujo regnoPer ogni intorno. Di furor, di rabbiaTutti contro l'Eterno han gonfio il core,E con bestemmie e grida verso il cieloLor disfide lanciando, i risonantiScudi percuoton colle spade e un cupo

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Destan di guerra assordator fracasso.Sorgea di là non lunge un piccol monte

Che dalla cima squallida eruttavaRote di fumo e fiamme, e in tutto il restoD'una lucente gromma era coverto:Non dubbio segno che celato in grembo,Per opera del zolfo, un ricco ei serbaMetallico tesoro. Ivi ad un trattoDi loro un folto stuol distese il volo,Quale d'asce e di marre armata schieraDi guastatori intrepidi precorre,Ad iscavar trinciera, a innalzar vallo,Un esercito regio. Era lor DuceMammon, di cui Spirto più vil non caddeCon lor dal cielo: anco lassuso ei sempreTenea gli sguardi ed i pensier confittiSul ricco pavimento, e più quell'oroDa lor calcato gli rapiva il coreD'ogni bëante visïon celeste.Ei fu che all'uom da pria spirò l'avaraSete delle ricchezze, esso gli appreseA squarciare e predar con empia manoDella terra le viscere, ed in luceQuei tesori a recar che meglio statiForan là dentro eternamente ascosi.Tosto la torma sua larga feritaAprì nel monte, e d'ôr fulgidi braniNe trasse fuor. Niun meraviglia prendaChe quel metallo nell'inferno abbondi;A qual altro terren meglio conviensiIl prezïoso tosco? Or qui chi vantaMortali cose, e di Babelle e MenfiMeravigliando le grand'opre estolle,Vegga quanto sia lieve ad empi SpirtiSolo in un'ora superar quegli altiPer arte umana o per umana forzaMonumenti famosi, eretti appenaIn lunghe età da innumerabil bracciaE da sudor perenne. Ivi d'appressoSul piano, in molte preparate celleChe sotto avean di liquefatte fiammeRivi sgorganti dal bollente lago,Una seconda affaccendata schieraCon stupendo lavor distempra e scevraLa metallica massa, e ne dischiumaTutta l'impura feccia. Un terzo stuoloColla prestezza stessa entro il terrenoVarie forme compose e per arcaniCanali empiè delle bollenti celleLe varie cavità. D'un'aura il soffioNell'organo così per molte file

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Di canne scorre, e vario suon respira.A guisa di vapor che in alto saglia,

Ecco repente dal terreno alzarsi,Di tempio in forma, un edificio immenso,Al suono di soavi sinfonieE dolci canti. Doriche colonne,D'aureo architrave sotto il peso, intornoSplendono in ordin lungo: ornati i fregiE le cornici con mirabil'arteSon di sculture e di rilievi; è il tettoSolid'oro intagliato. Unqua non videMagnificenza egual l'Eufrate e il Nilo,Quando de' Regi loro e de' lor NumiI palagi ed i templi ergeano a garaPiù eccelsi e vasti, e di ricchezza e lussoContendevan tra lor. Compiuta alfineSovra le salde basi immobil sorgeLa maestosa mole; e l'énee porteRepente spalancandosi, le interneSplendide sale immense e il liscio e tersoPavimento il sorpreso occhio discopre.Dal curvo tetto per sottile incantoPendean stellati mille lampe e mille,In cui Nafta ed Asfalto una sì vivaLuce nudrìan che un ciel pareva l'inferno.

Meravigliando entra la folla, e questiLoda il lavor, quei l'architetto in cieloEgli era illustre già per molte eccelseEdificate moli, ove soggiornoScettrati Angeli fean che il Re supremoAl governo esaltò degli ordin variDi sue celesti rifulgenti squadre.Nè senza nome o senza onor diviniAndò per Grecia e per Ausonia, doveVulcan fu detto: ivi che Giove iratoVia lo scagliò dai cristallini merliFavoleggiossi: dal nascente soleAlla metà del dì, da questa infinoAlla rorida sera, un lungo estivoGiorno durò precipitando, e alloraChe il sol cadea nell'onde, in Lenno, anticaIsola dell'Egeo, piombò simileA divelta dal ciel corrusca stella.Favole e sogni! Ei da gran tempo innanziCon questa cadde insiem ribelle turba,Nè punto gli giovâr le alte nel cieloCostrutte torri, nè sottile ingegno;Chè capovolto con sua ciurma industreGiù negli abissi a fabbricar fu spinto.

Al suon di trombe e con gran pompa intantoPer comando sovran gli alati Araldi

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Vanno per tutta l'oste alto gridandoChe in Pandemonio, la superba ReggiaDel gran Satáno e de' suoi Pari, in breveSolenne s'aprirà Consesso augusto;E colà tosto da ciascuna schiera,Da ciascuna falange i più distintiPer dignitade o per sovrana sceltaSono appellati. Là traggon repenteTutti costor da nobile seguìtiCorteggio innumerabile. Ogni via,Ogni atrio capacissimo, ogni portaGran calca ingombra e stringe, e l'ampia salaTutta n'ondeggia e bolle, ancor che pariA quei recinti ella in grandezza fosse,Ove arditi campioni in sella armatiPresentarsi eran usi, e innanzi al seggioDel Soldano appellare il fior de' prodiPagani Cavalieri a mortal zuffaO a correr lancia. Della gente infernaCoverto è il suol, l'aria n'è ingombra, e tuttaStride divisa dai fischianti vanni.Soglion così le pecchie, allor che il soleRiede col Tauro, all'alveare intornoVersar lor folta giovinetta proleIn densi gruppi, che su i freschi fioriE le novelle erbette rugiadoseVan poi volando e rivolando, o sovraLiscia e testè di lor ceroso viscoSpalmata panca che fuor sporge e quasiDel paglieresco lor castello è il borgo,S'aggiran premurose e l'alte cureConferiscono del regno. Era simileQuivi di tanti Spirti il popol densoA cui mancava il loco, allor che diessiUn cotal segno, ed (oh stupor!) coloroChe in lor mole testè vincean la vastaTerrestre prole gigantéa, li vediDe' più piccoli Nani a un tratto farsiPiù piccioletti ancora, e breve stanzaChiuder stormo infinito. A lor somigliaQuell'umil stirpe di Pimmei (se narraLa fama il vero), che dell'Indie estremeVive oltra i monti, o quei Folletti SpirtiChe in notturni tripudi o vede o sognaVedere appresso una foresta o un fonteIl tardo peregrin, mentre sul capoDritto gli pende della luna il raggioChe più vicino a noi ruota il bicornePallido carro: a lor carole e festeStan quelli intenti: a lui molce l'orecchiaDolce concento, e fra timore e gioia

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Gli balza il cor. Così quei Spirti inferniStrinser le membra immani in brevi forme,E benchè tanti, in quella regia salaTutti capean, ma lunge a dentro i PrenciDe' Cherubini e Serafini, in guisaDi mille Semidei, tuttor serbandoL'alte fattezze prime, in chiusa elettaParte e in frequente e pien Senato, assisiSovr'aurei seggi luminosi stanno.Si fe' breve silenzio, e letto in priaL'invito, aprissi il gran Concilio orrendo.

LIBRO SECONDO

Cominciatasi la consulta, Satáno discute se un’altra battaglia abbia a tentarsi per ricuperare il cielo. Alcuni sono di questo avviso, altri vi si oppongono. Si conchiude di seguire il pensiero di Satáno e ricercare la verità di quella profezia o tradizione che correva in cielo intorno ad un altro mondo e ad un’altra specie di creature poco inferiori agli Angeli, e che doveano essere create all’incirca in quel tempo. Dubbj sopra chi dovrà mandarsi alla difficile scoperta. Satáno, loro Capo, intraprende solo il viaggio, e ne riceve onori ed applausi. Sciolta l’adunanza, gli Spiriti si dividono in varie schiere, e per recare qualche sollievo ai loro mali, si danno a vari esercizj secondo le diverse loro inclinazioni, aspettando il ritorno di Satáno. Egli arriva alle porte dell’Inferno che trova chiuse e guardate da due mostri. Gli vengono finalmente aperte. Scopre il gran golfo fra l’inferno e il cielo. Con quanta difficoltà attraversa l’abisso. Il Caos, Sovrano di quel luogo, gl’indica il cammino verso il nuovo mondo, di cui va in traccia.

In trono eccelso che più ricco assaiSplende d'Ormus, dell'Indo e del pomposoOrïente colà dove più spandeSu i barbarici Re l'oro e le gemme,Siede Satáno, a quell'altezza reaPortato da' suoi merti, e dallo stessoDisperar sollevato oltre ogni spemePiù alto aspira ognor: la vana e stoltaGuerra col cielo a proseguir lo spingeUna superba irrequïeta brama,E dagli eventi non istrutto ancoraCosì dispiega i suoi disegni alteri:

O Principi, o Possanze, o Dei del cielo,Poichè abisso non v'ha ch'entro i suoi golfiRattener possa un immortal vigore,Benchè scaduto, e oppresso, il ciel non stimoPerduto io già. Spirti superni e divi,Dal lor cader sorgendo, assai più chiariMostreransi e tremendi, e contro un nuovoFato staranno in sè sicuri. Un giustoDritto e del ciel le fisse leggi in prima,

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Quindi la vostra appien libera sceltaE quanto oprai col senno e colla manoNon indegno di pregio, a me governoSopra di voi già diero; e in fin di questaPerdita stessa i danni in parte almenoGià da me riparati, oltre ogni tema,Oltre ogn'invidia stabilito m'hannoSu questo soglio, a cui concorde e interoIl vostro assenso mi chiamò da pria.Alto grado lassù nel bel soggiornoPuote ai men alti esser d'invidia oggetto;Ma qui chi un seggio agognerà che il rendaAi colpi del Tonante il primo segno,Lo schermo vostro, e a maggior parte il danniDi dolor senza fine? Ov'è sbanditoIl ben, non entra ambizïosa gara.Saravvi alcun che a maggioranza aspiriIn questo diro abisso? A chi sì scarsaPena toccò ch'altra cercar ne voglia,Più alto onor bramando? In ferma legaCongiunti dunque, in stabil pace e fedePiù che nel cielo esser mai possa, il nostroA vendicar giusto retaggio anticoOr noi torniamo, e di felici eventiPiù certi siam che se propizia ognoraCi fosse stata la Fortuna. Or qualeSia miglior mezzo, aperta guerra, o frode,Cercar si dee: chi a dar consiglio basta,Apra, chè appien gli lice, il suo pensiero.

Disse; e Molocco alzossi, inclito Rege,Il più feroce Spirito, il più forteChe nel cielo pugnasse, ed or più feroFatto dal disperar. Ei coll'EternoAver sperava d'egual possa il vanto,E nulla sì, di lui minor non maiEsser volea: con tal pensiero, tuttiI suoi timor perdeo; di Dio, d'infernoO peggio ei nulla cura, e sì favella.

Aperta guerra è il voto mio; di frodi,Men ch'altri in esse esperto, io non mi vanto:Chi n'ha d'uopo, le ordisca, e quando è d'uopo:Non ora. E che! Mentre qui lenti adunqueVan costoro macchinando arti ed inganni,Dovrà un popolo intier coll'armi in pugnoIl segno sospirar di sua vendettaE del suo scampo, e qui languendo starsiDal ciel sbandito, fuggitivo, in questaObbrobrïosa fossa, in questo neroCarcer di quel tiranno, il qual per nostroIndugio or regna sol? No, no: piuttostoDi queste fiamme e di nostr'ire armati,

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Scegliam di viva forza e tutti a un tempoDel ciel sull'alte torri aprirci il varco.Contro il tormentator canginsi questiNostri tormenti in orrid'armi: egli odaL'infernal tuono rimugghiare incontroL'onnipossente ordigno suo; rimiriDi questo foco i sanguinosi lampiCon egual furia sfolgorar sul voltoA sue schiere atterrite, e queste fiamme,Quest'atre fiamme strane e questo zolfoTartareo, ond'ei medesmo è stato il fabro,Tutto allagargli e avviluppargli il trono.Ardua par forse e malagevol viaCon ali erette il sollevarsi incontroSovrastante nemico. E chi pensarloPuò, se non quei che istupiditi ancoraStan dal sorso sonnifero di quellaObblivïosa lama? Invér la sedeNostra nativa ci trasporta il nostroMoto natìo: scender, cader, contrastaA nostra essenza. E chi pur dianzi, alloraChe noi sconfitti perseguiva a tergoGiù per l'immenso báratro il feroceNostro nemico con oltraggi e scherni,Chi nol provò? Chi non sentì con quantoDuro sforzo, con qual lena affannataProfondammo quaggiù? L'ascender dunqueÈ agevole per noi. - Ma incerto è moltoQuel che avvenir ne può: se il più possenteOsiam di nuovo provocar, sua rabbiaPiù fere guise di tormenti a nostroDanno inventar saprà. - Ma che di peggioPuò in inferno temersi? Ov'è di questaPiù cruda stanza? D'ogni ben noi privi,Scacciati di lassù, dannati in questoAbborrito Profondo a estremi guai,Ove ci dee d'inestinguibil focoLo strazio eterno esercitar, noi tristoBersaglio all'ira di colui, dal suoFischiante inesorabile flagelloE dalla tormentosa ora chiamatiA nuove pene ognor, che altro di peggioTemer dobbiam? L'annientamento è quantoAspettarci potremmo. E perciò dunqueTemerem noi tutta affrontar quant'iraEi serra in cor? Stolto timore! O noiSaremo allora annichilati e spentiDalla sua rabbia, e fia per noi miglioreChe in eterno dolor viver eterni;O se divino è l'esser nostro e maiCessar non può, nulla perciò s'innaspra

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La nostra somma inaccrescibil pena;E per prova sentiam che forza è in noiBastante a disturbar quelle celestiSedi e infestargli con perenni assalti,Ancor che inaccessibile, quel suoTrono fatal. Se non è vincer questo,Vendetta è almen. - Cessa, e da' torvi lumiTal di vendetta e guerra un foco avventa,Che non ne sosterrìa l'atroce vistaChiunque è men che Nume. In gentil attoDall'altro canto Belïalle alzossi.Angel più vago da' celesti seggiDi lui non ruinò: splendongli in voltoGrazia e decoro, ad alte imprese adattoEi par, ma tutto è in lui fallace e vano.Mele sua lingua stilla, ottima sembraSulle sue labbra la ragion peggiore,E i più saggi consigli involve e atterra:Son bassi i suoi pensier, nel vizio è scaltro,Ma all'opre illustri timoroso e lento;Pur col dolce suo dir le orecchie incanta,E sì comincia: Esser dovrei pur io,Campioni illustri, per l'aperta guerra,Io che, in odio, ad altrui punto non cedo;Se la ragion, cui sovr'ogni altra estolleChi guerra senza indugio a noi consiglia,Me più che ogni altra dall'audace avvisoNon ritraesse e sull'intero eventoNon gettasse un fatal presagio tristo.Dunque chi più degli altri in armi vale,Mal nell'armi fidando e male in quantoEi pur consiglia, il suo coraggio fondaSul disperar? Dunque all'estremo nostroDisfacimento, al nostro fin son tutteVôlte le mire sue, purchè si compiaQualche fiera vendetta? Ahi! qual vendetta?Son le torri del ciel d'armate scolteRipiene, e chiusa n'è ogni via: soventeIn sulle rive del vicino abissoLor legïoni accampano, e sull'aliTacite e brune van con larghi giriQua e là scorrendo il regno della notte,E di sorprese ridonsi. E se a vivaForza potessim'anco aprirci il varco,E dietro noi l'intero inferno a un tempoSorgesse inferocito a scagliar questaCaligin tutta entro a quell'alma luce,Pur sull'eterno incorruttibil tronoIl nostro gran nemico appien securoE intatto sederìa. L'eterea tempraMacchia temer non può di basso foco;

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Chè tosto il vince e sperde, e come in pria,D'un fulgòre purissimo sfavilla.In questo crudo stato, estrema nostraSperanza è il disperar: dobbiam, si dice,L'onnipossente vincitore a tantoSdegno irritar, che la sua rabbia tuttaSu noi riversi, e ci consumi alfine:Questo esser dee nostro disegno e cura;Non esser più. Tristo disegno e cura!E chi vorrà, benchè d'affanni colma,Questa che intende e vuol, sublime essenza,Questi d'eternità nel giro immensoSpazïanti pensier lasciar per sempre,E giuso d'ogni moto e senso privoPiombar perduto, inabissato dentroAll'ampio sen dell'increata notte?E sia pur questo un ben, chi sa se possaDarloci il fier nemico, o il voglia mai?Che il possa, è dubbio; ch'ei non voglia, è certo.Ei saggio tanto, al suo furore il frenoTutto sciorrà ad un tempo e vorrà, quasiMal avveduto, e mal di sè signore,Far de' nemici suoi paghe le brameE consumar nella sua rabbia quelliChe la sua rabbia stessa ad infinitoGastigo serbar vuol? - Perchè si cessa(Dice chi vuol la guerra)? a noi che giovaLo star timidi e lenti? A duolo eternoDecretati, serbati, additti omaiNoi siam: checchè si faccia, altro possiamoSoffrir di più, soffrir di peggio? - AdunqueCosì seder, così tener consiglio,Così lo starsi in armi è adunque il peggio?E allor che fu, quando incalzati, quandoDa quell'atroce folgore percossiFuggivam ruinosi, e questo abissoA ricovrarci imploravamo? AlloraContro quelle ferite un dolce asiloQui ci parve trovare. E quando stemmoLà catenati su quel lago ardente,Peggio non era? E che sarìa se il soffioChe quelle fiamme spaventose accese,Destosi ancor, settemplice furoreVi spirasse per entro e ad esse in fondoC'immergesse dipoi? Se l'intermessaVendetta colassù quella roventeSua destra armasse ancor? Se quanto ei serbaRiposto, sprigionasse, e questa vôlta,Questa vôlta infernal che tien sospesoSul nostro capo un igneo mar, crollandoS'aprisse un giorno, e gl'infocati fiumi

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Per le tremende cateratte infranteSu noi si rovesciassero? che fora,Se mentre stiamo glorïosa guerraDisegnando o esortando, orribil turboDi foco ognun di noi rotasse, e in cimaD'acuto scoglio lo lasciasse infitto,In trastullo e balía d'atre bufére?Oppur ricinto di catene e sottoA quel bollente Oceano eternamenteStar dovesse sommerso in pianti e strida,Senza pietà, riposo, o tregua maiAl disperato interminabil duolo?Questo inver fora il peggio! Aperta guerraQuind'io sconsiglio al pari e guerra ascosa.Che può forza con lui, che può l'ingannoCon chi tutte le cose a un punto vede?Nostri vani disegni egli dall'altoDel ciel mira e deride; ei non men forteContro il poter che incontro a frode accorto.Ma che? vivremo in tal viltade e tantaNoi dunque? Noi stirpe celeste e divaCosì sbanditi, calpestati e carchiQui sarem di catene e di tormenti?Poichè il voler del vincitor, decretoOnnipossente, inevitabil fatoSì ne soggioga, assai miglior io stimoQuesto soffrir che incontrar peggio. All'opre,Come alle pene, è nostra forza eguale:Che val lagnarsi? Non ingiusta è quellaLegge che così vuol: così fu fisso,Se noi saggi eravam, quando a contesaContro sì gran nemico in pria venimmo,E così incerti dell'evento. Io rido,Quando veggo taluni audaci e baldiAll'impugnar dell'asta, e quando poiEssa lor falla, raggricchiar di temaA quel che inevitabile pur sanno,A esiglio, a infamia, a lacci, a pena, a quantoDannarli goda il vincitor superbo.Tal'è per or la nostra sorte: un giorno,Se soffrirla saprem, può forse il nostroAlto nemico assai calmar suo sdegno;Forse avverrà che assai contento alfineDella presa vendetta, a noi sì lungiDa lui nè più offensori, ei più non pensi;E se nol desta il soffio suo, s'allentiQuesto rabido foco. Allor la nostraPiù pura essenza su quest'atre vampeFia che s'innalzi o non le senta, avvezza;O alfin cangiata, e contemprata al locoRiceverà quasi suo proprio, e scevro

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Di pena, il fero ardor: per noi giocondoQuest'orror diverrà, splendide e belleQueste tenebre stesse. Infin, qual spemeDar non ci dee l'interminabil corsoDei dì futuri, il vario caso e qualcheD'un prudente indugiar degna vicenda?Felice dunque, ancor che dura, questaSorte apparir ci dee, che, sia pur dura,La peggior non è già, se addosso trarciPiù gravi danni non cerchiam noi stessi.

Sì con parole ch'han di ver sembianza,Pace infingarda, ozio e torpor, non paceBelìal consigliava; e appresso luiCosì parlò Mammon: O a tor di soglioIl regnator del ciel tende la nostraGuerra, se guerra è il meglio, o i nostri drittiPerduti a racquistare. Allor balzarloDal trono sol potrem sperar che al sempreVolubil Caso il sempiterno FatoCeda, e il Caosse la contesa sciolga.Vano è il primo sperar, vano il secondoQuindi è pur anco: entro i confin del cieloQual sede aver possiam, se vinto in priaIl Sovrano del ciel per noi non cade?Pongasi pur che il suo furor ei calmiE a tutti noi, sulla promessa nostraDi vassallaggio nuovo, egli promulghiGrazia e perdon, deh! con qual fronte mai,Dite, potremo in sua presenza starciAd ogni cenno suo sommessi, umìli?Al suo Nume innalzar forzate lodi?Gorgheggiar inni a gloria sua, mentr'egliOggetto a noi d'amara invidia in soglioCon ogni pompa signoril s'assideRe nostro, e l'ara sua d'ambrosii odori,D'ambrosii fior, nostre servili offerte,Soave spira? Ecco qual fora in cieloNostro diletto sempre e nostra cura.Rendere a chi si abborre eterni omaggi,Qual trista eternità! Non cerchiam dunqueQuel che per forza cercheremmo invano,E che in grazia ottenuto, ancor che in cielo,Accettabil non fora, il vile statoDi splendido servaggio: in noi medesmiCerchisi il nostro bene e sia nostr'opra:Sì, viviamo a noi stessi, entro quest'ampiaRemota sede indipendenti e sciolti,E dura libertade al facil giogoDi servil pompa anteponghiam. Più chiaraRisplenderà nostra grandezza alloraChe da picciole cose uscir le grandi,

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Il vantaggio dal danno, e dagli avversi.Per noi vedransi i fortunati eventi;E alfin, qualunque il nostro albergo sia,Alla grave miseria, al duro stentoLa costanza, il sudor, lo sforzo opporsiVittorïosi, e trionfar del Fato.Questo in cupo buior ravvolto mondoPaventiam noi? Ma, quanto spesso ei pureL'alto del cielo regnator non sceglieSua sede in mezzo a folte oscure nubiSenza che di sua gloria un raggio scemi?Di maestoso tenebror non cingeEgli il suo trono tutt'intorno, dondePoscia profondo in suon di rabbia muggeIl tuon sì che un inferno il ciel rassembra?Com'ei le nostre tenebre, ancor noiImitar non possiam, quando ci aggrada,La luce sua? Questo diserto suoloSplendidi in sè vasti tesori ascondeDi gemme e d'oro; e di scïenza e d'arteNoi non siam scarsi onde innalzar eccelseMoli di Numi degne, emule al cielo.Cangiar questi tormenti anco può il tempoIn elementi nostri, e queste fiammeQuant'or son crude e penetranti, allora(Fatta la nostra alla lor tempra eguale)Allenirsi dovranno, ed ogni sensoSpegnersi del dolor. Tutto c'invitaA consigli di pace, e a fermi starciNell'ordine presente, onde possiamoCercare in sicurtade ai nostri maliIl sollievo miglior, quai siam mirandoE dove siamo, ed ogni van pensieroLungi cacciando di rischiosa guerra.Ecco il consiglio mio. - Finito appenaEgli avea di parlar che tutto intornoPer quel consesso un mormorìo si sparse,Come allor quando il suon de' feri ventiChe volser tutta notte il mar sossopra,In cave rocce romoreggia ancora;E i marinai ch'entro petroso seno,Calmato il nembo, s'ancoraro a casoDa lunga veglia e da fatica oppressiCol rauco borbottar al sonno invita.Tal fu l'applauso, il bisbigliar fu taleQuand'ei finì: piacque il suo voto a tuttiDi pace consiglier; chè un'altra pugnaTemean più dell'inferno; a lor nel senoTanto tuttor del folgore, e del brandoDi Michele potea l'alto spavento,E la brama non men di por laggiuso

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Le basi a impero tal che poscia un giorno,Da forti leggi sostenuto, sorgaSì che n'abbia anco il cielo invidia e tema!Tosto che Belzebù quei plausi udìo,Belzebù, di cui niun (tranne Satáno)Più sublime sedea, con grave aspettoSurse, e di stato una colonna parve.Pubblica cura, alti pensier maturiHa in fronte impressi, gli risplende in volto,Nella ruina maestoso ancora,Regal consiglio, e a sostener la moleDei più possenti imperi atto si mostraSu gli omeri atlantèi. Qual cheta notte,O l'aere immoto di meriggio estivo,Profondamente taciti ed attentiTutti pendean dal labbro suo, quand'egliCosì comincia: O degli eterei seggiPrenci, Possanze, Re, Figli del cielo,Di questi eccelsi titoli il rifiutoDobbiam far dunque, e invece esser nomatiPrenci d'Abisso? A questo invero inchinaIl voto popolar: qui ferma sedeStabilir vuolsi, qui fondare un vastoCrescente impero: o cieche menti! o sogniTorbidi e vani! E che? sicuro asiloDalla sua man fulminatrice è questoCarcere adunque, a cui quel Dio possenteCi condannò? Solo ei quaggiù ne spinsePerchè viviam dall'alta sua ragioneLiberi e sciolti, e in nova lega unitiCi rivolgiam contro il suo trono? AdunqueVero non è che in duro aspro servaggioDobbiam qui sempre starci, e benchè tantoLungi da lui, col freno in bocca ognora,Folla di schiavi a' cenni suoi serbata?Ah! ch'ei primiero, egli ultimo, nell'alteSedi e nelle profonde, a me credete,Esser vuol solo regnator, nè maiPerder del regno suo minima partePel nostro ribellar. Ei sull'inferno,Sopra di noi stender suo ferreo scettroVuol, come l'aureo suo lassuso in cieloSopra i Celesti. A che seggiam qui dunquePace e guerra librando? Il nostro fatoGià la guerra fermò, già ci percosseD'irreparabil danno: e patto alcunoNon fu di pace ancor concesso o cerco:Poichè qual pace o patto aver possiamoDal duro vincitor noi schiavi omai,Fuorchè catene e stretta guardia ed aspriFlagelli e quali imporre e quante pene

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Ad esso piaccia? E ch'altro aver da noiIn cambio ei può fuorchè ostinato, feroAbborrimento e sempre accesa bramaD'una qualche vendetta, ancor che tarda,Pur sempre intenta ad iscemargli il fruttoDi sue vittorie e quella gioia crudaCh'ei sente in aggravar le nostre pene?Tempo più adatto a nostre mire, e un qualcheDestro non mancherà; nè mover l'armiDovrem con tanto rischio incontro al cieloDi cui l'eccelse mura assalto, agguatoO assedio di quaggiù temer non ponno.Che! qualch'altra per noi men dura impresaDunque non vi sarà? Sì; se l'anticaE profetica in ciel fama non erra,Un loco v'è, v'è un altro mondo, in cuiAvrà felice sede un'altra nuovaStirpe ch'Uomo dirassi. Ella creataIntorno a questo tempo esser dovea,Simile a noi, di noi però minoreIn nobiltate e in possa, e pur a luiChe lassù regna, più gradita e cara.Tale il decreto fu che in mezzo ai NumiEi proferì, ch'ei confermò coll'altoSuo giuramento, a cui del ciel l'immensoGirò crollò. Là si rivolgan tuttiI pensier nostri, ivi s'apprenda qualeSchiatta v'abbia soggiorno, e di qual tempra,Di qual natura; quai sue doti, e qualeSia la sua possa, da qual parte meglioAssalir si potrà, se forza o ingannoPiù con lei vaglia. Benchè il ciel sia chiusoE quel supremo Re segga sicuroIn sua possanza, tuttavia quel sito,Confine estremo del suo regno, forseAperto stassi, e di chi 'l tien, lasciatoAlla difesa: qualche illustre provaCompier colà con improvviso assaltoForse potrem, quanto creovvi appienoCon queste fiamme esterminare o il tuttoFar nostro, e come noi cacciati fummo,Indi que' fiacchi abitatori e imbelliMetter in bando, o a nostra parte trarliSì che il medesmo lor Fattor si cangiIn lor nimico, e con pentita manoIl suo proprio lavor cancelli e strugga.Non sarìa questa, no, vulgar vendetta,Se di turbargli quel piacer ch'ei prendeNel nostro scorno ci avvenisse: e qualeFia nostra gioia in rimirar sua rabbia,Quand'ei, quaggiù fra noi scagliati i cari

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Suoi figli, udralli maledir la fraleOrigin loro, il lor svanito bene,E svanito sì tosto! Or voi librateSe di noi degna è tale impresa, o meglioSia qui sedersi in quest'orror, sognandoE fabbricando imperj. - In cotal guisaEspose Belzebù quel da SatánoGià divisato e già proposto in parteInfernale consiglio: e donde, fuoriChe dal solo Satán, dal sole autoreDi tutti i mali, sì profonda e neraNequizia uscir potea? d'infettar tuttaL'umana stirpe in sua radice e ad ontaDel Creator sovrano, inferno e terraMescer insiem? Ma far più bella soloLa gloria dell'Eterno, altro non puoteIl suo dispetto. Quel disegno audacePiacque altamente all'infernal Consesso;Gioia scintilla ne' lor occhi e a pieniVoti l'assenso è dato. Allor ripigliaCosì a dir Belzebù: Saggio decreto,Dopo lunga contesa, è il vostro alfine,O Concilio di Numi, e di voi degneRisolveste gran cose: in onta al FatoDal più cupo Profondo anco una voltaAppresso al nostro almo soggiorno anticoNoi leveremci ed alla vista forseDi quei confini luminosi, donde,Tempo cogliendo alle sorprese adattoColle propinque nostre forze, in cieloRïentrar potrem forse, o albergo e stanzaTrovar sicuri in qualche ameno sitoOve del ciel si stenda il dolce lume,Ed a quel puro sfavillante raggioTerger da noi questa caligin atra.Quella delizïosa aura soave,Col soffio suo balsamico, le crudeDi questo foco e ancor non chiuse piagheTemprerà, salderà. Ma dite in prima:A ricercar questo novello mondoChi di noi spedirem? Con piè rammingoIl negro, immenso e senza fondo abissoChi tenterà? chi l'aspra, ignota viaPer quella troverà palpabil notte,Ed il sublime sterminato voloFia che con ala infaticabil sopraAl discosceso baratro distendaPria ch'alla fortunata isola arrive?Qual sarà mai da tanto o forza od arteChe salvo il meni per le caute scolte,Pe' fitti posti d'Angeli veglianti

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Per tutt'intorno? Egli avrà là ben d'uopoD'ogni accortezza, e minor uopo or noiNon ne abbiam nello scerlo: il peso in luiDi tutto è posto e la final speranza.

Ciò detto, ei siede, e con sospesi sguardiRivolti in giro, se alcun sorga, attende,Per oppugnar la perigliosa prova,Per secondarla o imprenderla; ma tuttiSi stetter muti con pensier profondoLibrando il rischio, e l'un dell'altro in faccia,La propria tema attonito leggea.Niun fu tra quei della celeste guerraPrimi e scelti campioni audace tantoChe a quel vïaggio spaventoso osasseOffrirsi od accettarlo. Alfin SatánoChe il proprio merto sente e va superboDe' primi onori, con reale orgoglioSurse intrepido, e disse: O empirei Troni,O progenie del ciel, ben a ragione,Ancorchè in noi l'usato ardir non manchi,Profondamente taciti e sospesiStemmo finor: lungo è il cammino e duroDall'Erebo alla luce, e saldo inveroÈ questo nostro carcere: di focoOrribil vallo nove volte intornoN'accerchia e serra, e contro noi sbarrateRoventi porte d'adamante stanno.Varcate queste, se alcun mai le varca,Ecco spalanca sue tremende goleIl golfo della Notte, il Vôto immenso,Muto regno del nulla, il qual minacciaSpegnerlo e tranghiottirlo entro la suaSempiterna caligine profonda;E se indi salvo in altro mondo o spiaggiaIgnota egli esce, nuovi rischi ignotiGli restan sempre, e non men arduo scampo.Ma ben sarei di questo trono indegnoE di questo sovrano eccelso gradoCinto di gloria e di possanza armato,Se cosa qui proposta e al comun beneUtile giudicata, unqua potesseSotto aspetto di rischio o di faticaMe dalla prova spaventar. Se questeReali insegne io vesto e non ricusoDi qui regnare, tanta parte ai rischiQuanta agli onori io ricusar potrei?L'una e l'altra a chi regna è al par dovuta;E il periglio maggior dritto è che s'abbiaQuei che sugli altri più onorato siede.Itene dunque, incliti Eroi, terroreDel cielo ancor nella ruina vostra,

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Itene, e quanto più soffribil possaRender l'inferno, infin che nostro albergoEsser pur dee questa città dolente,Volgetevi a cercar; tentate il modoOnde si disacerbi o inganni almenoLa nostra angoscia; vigilate attentiContro vigil nemico, infin ch'io fuoriTutte le buie piagge andrò spïandoDella distruzïone e a tutti noiProcacciando uno scampo. Addio: con mecoNiuno esser dee di questa impresa a parte.

Così dicendo, egli levossi, e ogni altroDal più parlar cauto prevenne. Ei temeCh'altri or commossi dall'esempio arditoE certi d'un rifiuto, all'alto onoreS'offran d'un rischio sì temuto in pria,E, quali emuli suoi, la gloria e 'l vanto,Onde a sì gran cimento egli s'espone,S'usurpin di leggier. Ma quei non menoIl periglio temean che di sua voceIl severo divieto, e in un s'alzaro.

Il rumor del lor sorgere pareaTuon che da lungi s'oda. Umili ad essoE riverenti inchinansi; qual NumeAl sommo Nume egual l'esaltan tutti;E 'l suo gran cor ch'ave la propria a vilePer la comun salute, ognun estolle,Ognun ammira: chè l'idea pur ancoFra que' malvagi di virtù si serba;Onde sue gesta glorïose apprendaL'uomo superbo a vantar men, che figlie,Sotto manto di zel, sono soventeDi vana ambizïon, di cieco orgoglio.

Così quella dubbiosa atra consultaRecaro a fine, baldanzosi e lietiPel forte loro incomparabil Duce.Sì qualor dorme in sue spelonche Borea,E da' gioghi de' monti atre sollevansiNubi che tutta la ridente facciaDel ciel coprendo folta pioggia e grandineSovra la terra intenebrata spandono,Se con un dolce addio stende il suo raggioIl sol cadente, i campi si ravvivano,Ai dolci canti gli augelletti tornano,E coi belati la lor gioja mostrano,Le mandre, ond'alto e monti e valli echeggiano.

O vitupèro de' mortali! InsiemeQuei Spirti rei mutua concordia annoda;L'uom solo è all'uom nemico, ed osa poiDel celeste favor nudrir la speme.Dio la pace alto grida, e guerra e morte

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Gridan di rabbia e di vendetta ciechiI feroci mortali, e del lor sangueSpargon la trista desolata terra;Come se quell'inferna oste che intentaSta dì e notte a' lor danni, e l'ire folliCompor dovrebbe in alma pace, assaiDe' mali lor non aggravasse il peso.

Così fu sciolto il parlamento, e fuoriDel superbo edificio i Grandi tuttiIn bell'ordine usciro. Ad essi in mezzo,Con pompa augusta che del cielo in parteLa maestade imita, il Sir possenteViene, e non men che imperador temutoDe' tenebrosi regni, ei solo appareGran rivale del Cielo: intorno il cingeCon raggianti bandiere ed orrid'armiD'ardenti Serafini un folto stuolo.Quindi, che il fin di quel consesso e 'l grandeEvento si promulghi al regal suonoDi trombe, ordin fu dato: ai quattro ventiQuattro leggieri Cherubini a un punto,Gli squillanti oricalchi a bocca posti,Ne diero il segno, a cui seguì la voceDegli Araldi solenne: il cavo abissoTutto rimbomba, e tutta l'oste infernaCon alto plauso intronator risponde.Quindi men triste in core, e da superbaFallace speme sollevate alquanto,Disbandansi le schiere, e ognun, siccomeProprio talento o trista scelta il guida,Là volge i passi erranti ove più speraIngannar l'ore dolorose e qualcheTregua trovar alle inquïete cure,Finchè rieda il gran Duce. Altri sul piano,Altri per l'aere in sulle forti penneGareggiano fra loro al corso, al volo,Qual già soleano degli Olimpj ludiO de' Pizi i campioni. Ignei corsieriFrenan taluni o schivano la metaColle rapide rote: altri disponeSchiere e falangi ad ordinata pugna;Come allor quando nei turbati campiDell'etra, ad ammonir città superbe,Appar di guerra portentoso appresto,E fra le nubi l'un dell'altro a fronteDue minaccianti eserciti si stanno,Vansi prima ad urtar con lancie in restaGli aerei cavalieri; indi s'avventaL'un'oste all'altra in folta mischia e tuttoD'orrendi scontri, dall'un polo all'altro,Il firmamento romoreggia e avvampa.

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Con gigantéo furor altri più felliSquarcian rupi e montagne, e van su i nembiQuell'aër nero trascorrendo: tantoFragore appena il vasto abisso cape.Così d'Ecalia vincitor tornandoErcol sentì del feral manto il tosco,E da rabbioso duol spinto divelseDell'Eta i pini e nell'Euboico mareLica scagliò dall'alta vetta. AlcuniCh'han men fero talento, aman raccoltiEntro riposta valle, in man di nuovoPrender le cetre, e con divini accentiLe lor proprie cantare eroiche gesta,La gran battaglia e l'infelice evento;E accusano il Destin che al giogo indegnoDella Fortuna e della Forza avvincaIl coraggio e 'l valor. Eran lor versiSuperbi e vani, ma le dive note(Tanta è la possa del celeste canto!)Calman l'inferno, e l'affollata turbaTengon assorta in estasi profonda.Altri, d'un ermo colle in vetta assisi,In sublimi colloquj assai più dolciD'ogni armonìa (chè questa i sensi alletta,Quelli scendono nel cor) consuman l'ore;E con alto pensar le arcane vieCercan scoprir di Dio, l'ordine eterno,La prescïenza sua, l'immobil fato,Il libero voler: per ciechi errandoLaberinti così, tentano invanoDi sempre nuovi dubbj il groppo sciorre.Di lungo argomentar scabro subiettoLor porgon quindi la cagione oscuraDel ben, del mal, la misera, e beataEternità, dell'alma i ciechi moti,La piena requie lor, la gloria, e l'onta;Inutile saper, fumosa e vanaFilosofia delle superbe menti!Pur tessere a lor pene un dolce ingannoCosì potean, o in sen destar fallaceSpeme, o di dura sofferenza armarloQual di triplice smalto. In grosse schierePel disperato mondo altri sen vannoA spïar lunge intrepidi se qualcheMen duro clima e men dolente stanzaPonno trovar. Per quattro vie diverseDrizzano il corso lor lungo le ripeDe' quattro fiumi che nell'igneo lagoSgorgan acque angosciose; il crudo StigeCh'odio esala; Acheronte atro e profondoChe gonfi di dolore i flutti volve;

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Cocito che di mezzo a' gorghi suoiManda gemiti e strida ond'ebbe il nome;E Flegetonte che fremendo aggiraDi fiamma e foco rapidissim'ondeRabbia spiranti. Il lento e cheto LeteLungi da questi in tortuosi giriMove il torpido umor, del qual chi bee,Ogni memoria de' trascorsi tempiE di se stesso e gioie e affanni obblìa.Diserto, oscuro un agghiacciato mondoGiace al di là, da turbini sonantiE da sassosa grandine percossoEternamente: sulla salda terraNon si scioglie essa mai, ma in rupi ed alpiS'alza ed ammonta che d'antiche moliRassembran le ruine: il resto è tuttoDi gelo e neve altissimo baràtro,Simile a quello che fra 'l Casio anticoS'apre e Damiata, e che fu già d'intereOsti la tomba. Ivi l'acuto ed asproAere brucia agghiacciando, e il gel del focoHa un effetto medesmo: ivi, ad un certoRivolger d'anni, strascinata tuttaDa Furie ch'han d'arpie gli unghiuti piediÈ dei dannati l'empia folla, ed iviDei feri Estremi la vicenda crudaChe più feri gli fa, soffre sommersa.Colà dai letti di rabbioso focoVanno a languir nello stridente ghiado,Finchè ogni stilla di calor sia spenta,Irti, confitti, assiderati, immoti;E risospinti nelle vive fiammeIndi son poi. Sulla Letéa palude,Per maggior cruccio lor, tornano e vanno,E si struggon, si sforzano passandoGiugner l'acqua bramata, e con un leveSorso ogni pena lor spegner repente;Ansanti già sporgonvi il labbro; invano:S'oppone il Fato, co' terrori suoiGorgone truculenta il guado cinge,E d'esser tocca da vivente labbroDisdegna, e fugge per se stessa l'ondaCome favoleggiâr profane MuseChe da' Tantalei labbri un dì fuggisse.

Così rinfuse, in via smarrite, incerteVan quelle torme errando, e di spaventoTremanti, smorte, con travolte luciOr per la prima volta appien l'orroreVeggono di lor sorte: in parte alcunaNon trovano riposo, e duol per tutto.Per molte buie spaventose valli,

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Per molti atroci regni elle passaro,Per molte alpi gelate e molte ardenti,E per rocce, antri, laghi e gorghi e taneE ferali ombre; per un mondo interoDi ruina e di morte, odio di DioChe sì reo lo creò con sua tremendaParola imprecatrice, adatta sedeDel mal soltanto, ove ogni vita moreE sol vive la morte, ove di quantoColà produce la natura stessaInorridisce: i mostri ivi son tutti,Tutti i prodigi abbominandi, a cuiFra di noi manca il nome, assai più orrendiDi quante mai la favella o 'l terroreAnguicrinite imaginò Gorgóni,Settemplici Idre, e triplici Chimere.

Fervido il cor, pieno la mente intantoDe' suoi disegni audaci il gran nemicoDegli uomini e di Dio, Satán dispiegaSulle rapide penne il vol solingoVêr le porte d'Inferno. Egli or la mancaScorre or la destra costa, or colle teseAli rade il Profondo, ora sublimeAll'ignea vôlta s'erge. In simil guisa,Là dove il sol le notti ai giorni agguagliaE riconduce i regolari venti,Ampio navilio, a cui gravò BengalaO Ternate e Tidore il sen di riccheMerci odorose, da lontan sul vastoEtïopico mare invér l'estremoAfrico Capo veleggiar si scopre,E par che dentro i gonfi immensi fluttiOr tutto s'innabissi, or d'essi in cimaVada a toccar le nubi. Avea da lungeCotal sembianza il volator Nemico.Alfine alzate dal profondo abissoFino all'orrida vôlta, ecco d'infernoAppaiono le mura e le tre volteTriplicate sue porte: eran di bronzoTre, tre di ferro e tre d'adamantinoImpenetrabil masso, e il foco eternoLe fascia, le arroventa e nulla rode.Stan due mostri terribili davantiA ciascun lato delle porte: un d'essiInfino al cinto vaga donna appare;Ma poi con molte spire in vasto, immondoA finir va scaglioso atro serpenteDi letal punta armato: al sen di leiIntorno, intorno un ululo, un fracassoFan con cerberee spalancate goleInferni cani, alto, incessante; e dove

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Sia quel gridar turbato, a voglia loroLe s'acquattan nel ventre, ov'hanno il covo;E là non visti i lor latrati ed urliSeguon pur sempre. Erano assai men feriQue' truci cani che di Scilla un giornoFeron scempio in quel mar che dal sonanteTrinacrio lido la Calabria parte;Nè più deformi mostri e più nefandiSeguon giammai notturna Maga alloraChe in segreto chiamata e lunge il sangueFiutando de' fanciulli, in groppa assisaDegli aerei cavalli a danzar volaFra le Lappone streghe, e a' loro incantiLa Luna intanto in ciel langue e s'oscura.Quell'altra forma, se tal nome darsiPur puote a ciò che non ha forma alcunaDistinta in membro od in giuntura, un ciecoTorbo Fantasma che sustanza ed ombraA un tempo stesso rassomiglia, stavaNera qual densa notte, a par di dieciFurie crudel, come l'inferno orrenda,E un fier dardo brandía: quel ch'esser fronteIn lei pareva, di regal coronaAvea sopra un'imago. Ad essa innanziGià sta Satán: quel mostro allor repenteDal suo seggio vèr lui s'alza e si slanciaCon lunghi passi spaventosi: tuttoTremò a que' passi l'Erebo. SatánoIntrepido ammirò quel che ciò fosse,Ammirò, non temè, Satán, cui nulla(Tranne l'Eterno) è a spaventar bastante,Ma a scherno prende ogni creata cosa;E a lui con torvo lampeggiante sguardoSì prese a dir: Chi sei? Che vuoi? tremendoSpettro ma non a me. Chi sei che innanziOsi a me farti e attraversarmi il passoDi quelle porte? Io di varcarle intendo,E a tuo dispetto varcherolle. Arrétrati,Scostati, o questo braccio appien mostrartiSaprà la tua follìa: vedrai per provaFiglio d'inferno, se tu dèi con SpirtiDel cielo contrastar. E tu, di', chi sei?(Feroce quello spettro a lui risponde).Quell'Angelo fellon non se' tu forseChe pace e fede invïolate in priaRuppe primo lassù? Quegli non seiChe de' figli del ciel la terza parteCinta di ribellanti armi superbeTeco traesti dall'Eterno a fronte,Ond'ei te poscia e la tua torma reaDall'Empireo sbalzando, in questi abissi

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Eterni giorni di miseria e duoloA consumar dannovvi? e tu t'ascriviFra gli Spirti del ciel, tu qui proscritto,Traditor empio? tu minacce ed onteRespiri ov'io do leggi, e dove io sonoPer tua rabbia maggior, tuo Rege e donno?Va, disertor mendace, al tuo gastigoRitorna, ed ali alla tua fuga aggiungi,O con flagello di aggroppati scorpi,Se indugi ancor, t'incalzo, e strano orroreTi fo provar con questo dardo e ambasceNon pria sentite. Così disse il truceIrritato Fantasma, e sì parlandoE minacciando, dieci volte fessiPiù spaventoso e squallido. SatánoImperterrito stette e d'alto sdegnoTutto avvampò: per l'iperboreo cieloArde men tetra un feral cometaChe il vasto Ofiuco in sua lunghezza infiamma,E dal sanguigno crin su gli atterritiMortali scuote pestilenza e guerra.Ciascun di lor la fatal mira prendeDell'altro al capo, e d'un secondo colpoNon fan pensier: ne' tenebrosi e biechiSguardi rassembran due di lampi e tuoniGravide nubi che sul Caspio mareS'avanzan negre, romorose e a frontePendon l'una dell'altra infin che i venti.Dien lor col soffio di cozzarsi il segnoA mezzo l'aere. A que' sembianti arcigniCrebbe la notte dell'abisso: egualeÈ il paragon, nè alcun di lor sì grandeNemico incontra è per aver più mai,Fuorchè sol uno, onde fien domi entrambi.Già i lor gran colpi rintronato tuttoL'inferno avrìan, quando l'anguinea MagaChe alla porta infernal sedeasi accantoE custodíane la gran chiave, a un trattoSurse, e fra lor con alto urlo lanciossi;E, Padre, ella gridò, che tenti incontroQuest'unica tua prole, e te, che germeSe' d'ambo noi, qual furor cieco assale,E quel dardo feral contro il paternoCapo ti spinge ad avventar? Ah! sai,Sai tu almeno per chi? Per lui che rideLassù nel cielo a' vostri sdegni intanto,E destinato esecutore e servoT'ha di quell'ira ch'ei giustizia appella,Dell'ira sua per cui distrutti entrambiSarete un giorno. Ella sì disse, e 'l colpoL'infernal peste a quel parlar rattenne.

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Satán replica allor: Qual strano gridoE quai più strani detti or furo i tuoi?Chi sei? rispondi (il mio furor sospendo),Chi se' tu, strana doppia forma? E comeLa prima volta ch'io t'incontro in questaValle d'abisso, me tuo padre appelli?E com'è prole mia quella deformeLarva? Io te non conosco, e d'ambo voiNon vidi mai più abbominosi oggetti.Dunque scordato m'hai così, soggiunseAllor l'inferna Usciera, e agli occhi tuoiTanto deforme or sembro, io che sì bellaComparvi in ciel? Recati a mente quandoLassù nel mezzo alle falangi tutteChe incontro a quel Sovrano in lega audaceS'unir con te, da fiero duol repenteFosti assalito; in tenebre nuotaroI foschi lumi tuoi, t'uscir di fronteDense e rapide fiamme, al manco latoQuindi il tuo capo largamente aprissi,E a te simil nel rifulgente aspetto,Alma beltà celeste, armata Diva,Io fuori ne balzai. Tutti stupiro,Inorridiro a quella vista e indietroSi trassero da pria, m'ebbero tuttiQual portentoso segno, e tutti il nomeMi dier di Colpa: a riguardarmi quindiS'adusaron bentosto, e i vezzi mieiFèr de' più schivi cor dolce rapina.Più che ad altri, a te piacqui: e tu mirandoSovente in me la tua medesma imago,D'amor ardesti, e tal piacer di furtoPrendesti meco, che un crescente pondoIl mio sen concepì. La guerra intantoIn ciel s'accese e si pugnò: restonne(E ch'altro esser potea?) vittoria pienaAl nostro gran nemico e in fiera rottaTutti andarono i nostri, in questo fondoDal sommo ciel precipitati, e insiemeIo pur caddi cogli altri. In mano alloraQuesta data mi fu possente chiave,E di sempre tener guardate e chiuseQueste porte fatali ebbi l'incarco,Chè, s'io non le disserro, alcun non passa.Pensosa e sola io qui sedea, nè lungoTempo sedei che il mio per te pregnanteGrembo in ampio volume omai cresciutoDentro sentissi portentosi motiE acerbe doglie. Questa trista proleChe vedi or qui, questo tuo germe, alfineS'aperse il passo fuor per le squarciate

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Viscere mie che duolo e orror distorseSì, che, qual miri, sfigurata tuttaNe fu mia forma inferïor; ma questoInnato mio nemico, uscito appena,Lo struggitor brandì fatal suo dardo.Spaventata io fuggii gridando, Morte!Tremò tutto l'Inferno al nome orrendo,E da tutte mandò le sue caverneGemiti ed ululati, e morte! morte!Ripetè l'eco in ogni lato. Io fuggo,Egli m'insegue, e di lascivia ardentePar più che di furor: di me più rattoM'aggiugne alfine e di sforzati amplessiE laidi me sua sbigottita madreCirconda e stringe: indi son nati questiUrlanti mostri che mi stanno intorno,Come or vedesti, con perpetuo grido,Ognor concetti e riprodotti ognoraCon mio duolo infinito: entro quel senoOnd'ebber vita, a grado lor di nuovoTornano, addoppian gli urli e pasto fannoDelle viscere mie: riscoppian quindiE con fredde paure e strazj alterniNon cessano infierir sì, che un istantePosa o tregua non ho. Quest'altro in facciaMostro arcigno mi sta, nemico a un tempoE figlio mio, che me gli adizza incontro,E per difetto d'altra preda, ad oraAd ora in me medesma anco la cupaSua fame volgería, ma sa che unitoÈ il mio destino al suo, che amaro pasto,Se ciò tentasse, e suo veleno io fora,E che del Fato è tal l'immobil legge.Ma tu quel feral telo evita, o Padre,(Io te n'avverto) e di codeste cinto,Benchè temprate in cielo, armi lucenti,Non sperarti securo: a' colpi suoi,Tranne chi lassù regna, alcun non regge.

Scaltro Satán quel che di far gli è d'uopoHa scorto già, già l'ira ha spenta e dolceCosì risponde: Poichè me tuo padre,O cara figlia, riconosci, e questaMia prole a me presenti, amato pegnoDi que' diletti che già teco io presiNel ciel, sì dolci allora, or tanto acerbiA ricordarsi in quest'orribil nostroCangiamento impensato, io, qual nemico,Sappi che qui non vengo. A trar da questoFero albergo d'angosce entrambi voiE tutte insiem quelle celesti squadreChe sursero coll'armi alla difesa

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De' nostri giusti dritti e in questi abissiFur con noi spinte, io vengo. Io sol per loroCalco quest'aspra via, solo per tuttiSpiando vo l'interminato abisso,E per l'immenso Vôto un luogo io cercoChe già predetto fu, che già creatoEsser dovrìa (se i concorrenti segniNon son fallaci), fortunato albergoNon lontano dal ciel, rotondo e vasto,Ove di nuovi abitator locataUna stirpe esser dee che forse un giornoI nostri occuperà vacanti seggi.Quel Dio che la creò, lungi per oraLa vuol da sè, forse temendo in cieloNovelle trame, ov'ei lassù raccolgaPopol soverchio. Or questo siasi, od altroPiù ascoso, il suo consiglio, io là m'affrettoA scoprir meglio il tutto, indi qui riedo,Ed ambo là vi scorgo ov'ampio e lietoSoggiorno avrete e sulle tacit'aliQuel puro scorrerete aere soaveDi grati odor sempre olezzante: appienoLe vostre brame ivi fien sazie e tuttoVostra preda sarà. Satán sì disse,E udendo Morte che satolla foraSua lunga fame, con orribil ghignoDigrignò le mascelle, e col rabbiosoSuo ventre s'allegrò serbato a tantaVentura alfin. Non men gioì la reaSua genitrice ed a Satán rispose:Per dritto io serbo e per sovran comandoDel Re de' cieli onnipossente questaChiave infernale: è legge sua ch'io maiQueste non schiuda adamantine porte,E contro ogni poter sta Morte in prontoQuel suo dardo a frappor che nulla temeE tutta abbatte quanta forza vive.Ma che mi stringe mai gli ordin superniDi lui che m'odia ad eseguir, di luiChe in questo mi gittò tartareo fondo,Che a me del cielo abitatrice e nataIn ciel commise l'abborrito incarcoDi qui seder fra eterno duol, qui sempreCinta dagli urli e dai terror di questaMia prole stessa che di me si pasce?Mio genitor tu sei, questa mia vitaEll'è tuo dono: e chi obbedir, chi deggioSeguire altri che te? Dietro i tuoi passiSarò lassù bentosto, in quel di luceE di felicità novello mondo,Fra que' beati Numi, ed ivi, come

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Conviensi a tua diletta unica figlia,Regnerò alla tua destra, e i giorni mieiTrapasserò d'eterna gioia in grembo.

In così dir, da lato ella si tolseLa fatal chiave, orribile strumentoD'ogni nostra sciagura, e vèr la porta,L'atra divincolando anguinea coda,Si strascinò. Senza niun sforzo ell'alzaLa gran saracinesca, a tutte insiemeLe stigie braccia immobil pondo; spingeQuindi e raggira la dentata chiavePer gl'intricati ingegni, e le massicceSbarre di solidissimo adamanteSquassa e rimove: con discorde scroscioFurïose balzâr le porte addietroSpalancate, e scoppiò, ruggì sì forteDai cardini sonanti un tuon che tuttoScosse il tartareo fondo. Ella le aperse,Ma il riserrarle ogni sua forza eccede;E spalancate si restaro. Un vastoesercito per esse avrìa potutoPassar di fronte con spiegate corna,Cavalli e carri; e come dalla boccaD'avvampante fornace, entro il gran VanoSgorgaro a un tratto vortici e torrentiDi fumo e fiamme rosseggianti. ApertiOr del Profondo antico ecco i segretiAlla lor vista. Un Oceán si stende,Per ogni parte, tenebroso, informeCh'ogni confine, ogni misura inghiotte,Dove profondità, lunghezza, ampiezzaE tempo e loco s'inabissa e perde.Ivi il Caosse e la vetusta Notte,Della Natura antecessori, eternaMantengon la discordia, e d'incessantiGuerre tra l'urto e lo scompiglio è postoIl lor poter. Quattro Campion feroci,L'Umido, il Secco, il Caldo, il Freddo insiemeLà contendon d'impero, ed alla pugnaTraggon gli atomi loro informi, erranti.In varie torme a' lor vessilli intornoS'aggiran questi, lisci, acuti, lievi,Gravi, lenti, veloci, e in densi nembiS'incalzano, si serrano, più spessiDi quelle arene che per l'arse spiaggeDi Barca o di Cirene alzano i ventiIn turbinose nuvole nemiche,Onde librar lor troppo lievi penne,Quando ad urtarsi vanno. Il Duce, a cuiFolla maggior d'atomi accorre, imperaIn quel regno mutabile un istante;

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Giudice il Caos siede e 'l gran contrastoPer qual ei regna, co' decreti suoiRaddoppia ognor. Tutto poi guida il Caso,Grand'arbitro appo lui. Tal era il tetroSconvolto abisso, onde Natura emerseE dove un dì fors'anco avrà la tomba.Ivi terra non è, non mar, non foco,Non aere, ma confusi insieme e mistiIn lor pregnanti cause i germi oscuriCombatton sempre, e fie la guerra eterna,Se la Man creatrice un dì non svolgeLa massa informe e nuovi mondi ordisce.

Colà sull'orlo dell'inferno alquantoSatán ristassi, e gira intorno il guardo,Ponderando il cammin; chè ancor non breveVarco gli resta a superar. Un altoSpaventoso fragor le orecchie a un trattoGli scuote e introna, a quel simil (se liceA grandi assomigliar picciole cose)Allor che Marte tempestoso tutteLe fulminanti macchine rivolgeA crollare, a spiantar le mura e i tettiDi superba città. Se il ciel medesmoInfranto giù precipitasse e sveltaDall'asse suo la stabil terra in polvePer gli elementi ribellati andasse,Fora men grande il suono. Alfine ei stendeL'ampie vele dell'ali, il suol percuoteCol piede, e dentro il gonfio ondante fumoSi slancia e s'alza, e intrepido per lungoTratto poggiando va quasi portatoSopra cocchio di nugoli, quand'eccoQuel seggio gli vien meno, e un Vôto immensoIncontra inaspettato: allor repenteIn giù ben dieci e dieci mila braccia,Precipitoso cadde come piombo,L'ali invan dibattendo, e ancor cadrebbe,Se per rea sorte l'improvvisa vampaDi procellosa nube il sen ripienaDi nitro e foco, un egual spazio in altoNon l'avesse respinto. Alfin smorzossiTanta tempesta in paludosa sirteChe non è mar nè fermo suol: con lenaAffannata, su i piè, sull'ali a un tempo.Qual naviglio che remi e vele adopra,Per quell'infida instabil lama innanziEi pur sempre si spinge. In quella guisaChe il cupido grifone, a cui di furtoRapito ha l'oro l'Arimaspio astuto,Per aspre rocce, erme boscaglie e cupeValli con forti infaticabil'ali

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Insegue il predator, così per milleDiverse vie quel rovinoso SpirtoIl suo cammin precipita a traversoStagni, rupi, erte balze e strette gole,In aere or grave, ora leggier, coll'ali,Co' piè, col capo, colle braccia, e or nuotaOr guada, ora s'attuffa, or striscia, or vola.

Universale altissimo fracassoAlfin di strida e d'ululi tonantiChe uscía dal vôto orror, con gran tempestaGli assal le orecchie. Ei là si volge audaceA rintracciar qual dell'estremo abissoPoter, qual Spirto in quel rumor soggiorni,Da cui ritrar dove del Buio giacciaLa costa ch'alla luce è più vicina.A un tratto il soglio del Caosse innanziGli s'appresenta ed ampiamente stesoSulla vorago solitaria il neroSuo padiglione. Atro-vestita in tronoDelle cose antichissima la NotteSiede a parte con lui del regno immenso;Stan l'Orco e l'Ade a lor dappresso e 'l truceDemogorgóne, paventoso nome;Indi il Rumore e 'l Caso ed il TumultoE la Confusïon, tutti in un gruppo,E la Discordia con sue mille urlantiDiverse bocche. Intrepido SatánoA lor si volge e dice: O Voi, di questoUltimo abisso Regnatori e Dei,Formidabil Caosse, antica Notte,Del vostro impero io qui, de' vostri arcaniNo, spïatore o sturbator non vengo.Stretto a vagar per queste piagge oscureIn cerca di quel calle, onde per gli ampiVostri domíni alla superna luceUscir si può privo di scorta, solo,Quasi smarrito, io di saper sol bramoIl più breve sentier che là mi guidiOve co' vostri tenebrosi regniIl ciel confina; o se l'etereo RegeQualch'altra parte ha di recente invasoDi vostre regioni, io là son vôlto.Deh! voi drizzate i passi miei; non lieveDel beneficio ricompensa avrete:Se al primo orror, se al vostro scettro quelleTolte provincie ricondur, se tuttiGl'iniqui usurpator balzarne fuoraA me fia dato, e ripiantar le vostreNere insegne colà, sì, vostro appienoIl frutto ne sarà, mia la vendetta.

Così parlò Satáno, e a lui con viso

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Scomposto e rotti ed affoltati accentiIl Signor del Disordine rispose:Ti conosco, Stranier: tu quel possenteAngelo sei che al Re del ciel pur dianziOsò far fronte, ancor che invano. Io vidiAbbastanza ed udii: nè giù per questoBaratro spaventato oste sì grandeFuggir poteva inosservato: in tantoViluppo traboccavano ravvolteLe schiere sulle schiere, e le falangiSulle falangi, e sull'orror l'orrore;E popol tanto le celesti porteVersavan fuor che vincitor feroceA tergo v'incalzava! Io qui soggiornoFo su questo confin, del regno mioA conservar, se pur potrò, gli avanzi;Chè troppo omai per vostre interne litiÈ questo impero dell'antica NotteInvaso e scemo: ampio, profondo sitoSotto me si stendea che in carcer vostro,In inferno cangiò quel Re supremo;Ed or sovra il mio regno un altro mondo,Cielo e terra, ei creò che là sospesiStan da catena d'ôr ver quella parte,Donde tue schiere caddero. Se moviColà, lontano non ne sei, ma il riscoÈ tanto più vicino. Or va felice,Disfà, depreda, semina ruine;Quest'è 'l guadagno mio. Disse, e SatánoNon fe' risposta, ma contento e lietoChe omai di tanto mar s'appressi al lido,Con nuovo ardor, con nuova forza s'erge,Qual di foco piramide, pel vastoSpazio deserto, ed apresi a traversoAl fero urtar degli elementi in guerraChe ovunque intorno romba, un varco alfine.Con minor rischio e tra minori stretteColà per mezzo al Bosforo sconvoltoE a' suoi cozzanti scogli, Argo trascorse;E minacciato meno il destro UlisseSchivò Cariddi e rasentò l'urlanteScilla vorace. Il duro, arduo tragittoSatán così s'aprìa fra rischi e pene;Arduo e duro per lui, ma dopo il falloDell'uom bentosto, ahi cangiamento strano!Con sforzo audace la satanic'ormaColpa e Morte seguendo un ampio calleE agevole costrussero (fu taleIl celeste voler) sul negro abisso;E il fiero golfo tempestoso un ponteDi stupenda lunghezza a portar ebbe,

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Che dall'inferno stendesi di questoMisero mondo in fino all'orbe estremo.Per esso a lor grand'agio or van scorrendoSu e giù gl'iniqui Spirti e quei mortaliA sedurre o punir vengon che schermoNon han di singolar grazia superna.

Ma il sacro influsso della luce alfineEcco apparir, che in sen del golfo orroreDalle rimote empiree torri scoccaUn tremolante albór. Quivi NaturaHa del suo regno il più lontan confine,E qual vinto nemico dagli estremiRipari suoi, cede e si volge addietroIl Caosse, e le furie e 'l minacciosoFragore accheta. Con minore affanno,E omai senza fatica, al fioco raggioTra l'onde or men crucciose oltre s'avanzaLieto Satán, qual da feroci ventiPercossa nave che, sebben con rotteAntenne e sarte, alfin il porto afferra.

Là di quel Vano tra i vapor men densiChe d'aere hanno sembianza, egli si libraSulle robuste ali distese e 'l vastoGiro de' cieli di lontan rimiraA suo grand'agio; ma confusa, incertaLa lor figura e nell'ampiezza assortaSfugge gli sguardi suoi: l'eccelse roccheD'Opalo fulgidissimo e di vivoZaffiro ornati gli alti merli ei vede,Già sua natìa dimora, e non più grandeDi stella piccolissima, dappressoA lei che della notte il vel dirada,Dalla catena d'ôr che al ciel lo legaPender questo Universo. Ivi spiranteVendetta e rabbia, in maledetto puntoAffretta quel maligno i passi e 'l volo.

LIBRO TERZO

Dio dall’alto del suo trono vede Satáno che vola verso questo mondo allora novellamente creato. Lo addita al Figlio assiso alla sua destra: predice che Satáno riuscirà nel pervertire l’uomo, e dimostra che, avendo egli creato libero e capace di resistere al Tentatore, la sua divina giustizia e sapienza non possono in verun modo accusarsi. Dichiara che questa sua divina giustizia e sapienza non possono in alcun modo accusarsi. Dichiara che questa giustizia divina vuole una soddisfazione, e che l’uomo dee morire con tutta la sua posterità, se qualcun atto ad espiare la offesa di lui non si sottomette alla pena che gli è dovuta. Il Figlio di Dio si offerisce volontario, il Padre accetta, consente alla sua incarnazione, comanda a tutti gli Angeli di adorarlo, e tutti i Cori, unendo le voci loro al suono delle arpe, celebrano la gloria del Padre e del Figlio. Satáno intanto scende sull’erma convessità del più estremo orbe di questo universo; di là fa passaggio nel sole, ove egli trova Uriele reggitore di quella sfera; ma prima si trasforma in un Angelo dell’ordine minore, e col pretesto che uno zelo ardente l’ha spinto a intraprendere quel viaggio per

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contemplare le cose novellamente create e l’uomo principalmente, si informa del luogo ove questi dimora. Saputo ciò, si parte e cala sul monte Nifate.

Salve, o del cielo primigenia figlia,O dell'Eterno coeterno raggio,Se tal nomarti senza biasmo io posso,O sacra luce. E nol potrò se Iddio,Iddio medesmo è luce, ed altro albergo,Fin dall'eternitade egli non ebbeChe il tuo fiammante inaccessibil grembo,O d'increata rifulgente essenzaFulgido effondimento? O se piuttostoAmi esser detta un puro etereo rivo,La tua sorgente chi dirà? Tu priaFosti del sol, tu pria de' cieli, e all'altaVoce di Dio, come d'un manto, il mondoDi te stessa avvolgesti allor che, toltoAll'infinito informe Vôto, ei fuoraDalle negre sorgeva acque profonde.Or con ali più ardite a te ritornoDa' laghi Stigi alfin scampato, ov'ioTante or medie or estreme a varcar ebbiTenebre nel mio volo, e ad altro suonoChe quel soave della Tracia lira,Della Notte e del Cao gli orror cantai.Dalla celeste Musa a entrar nell'imaBuia discesa instrutto e ver le stelleA risalir per via solinga e dura,Salvo a te riedo, o bella Luce, e sentoL'alma tua lampa che di vita è fonte;Ma tu questi occhi a visitar non torniPerò, che in cerca del tuo raggio invanoRotansi, e albór non trovano: tal densoVel li ricopre, o lor pupille ha spenteMaligno umor! Ma non per questo io cessoD'ir là vagando ov'ha più spesso in usoDi far sua stanza delle Muse il coro,Lungo un limpido fonte, o in colle aprico,O in ombroso boschetto: un così forteAmor de' sacri carmi il sen m'infiamma.Ma te, Sionne, in prima, e i tuoi fioritiSoavemente mormoranti riviChe il sacro piè ti bagnano, notturnoA visitar io vengo, e spesso in menteMi tornano que' duo ch'ebber con mecoEgual destino (egual così foss'ioA loro in fama almen!), Tamiri il ciecoE 'l cieco Omero, e di que' Vati antichi,

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Tiresia e Fíneo, mi sovvien pur anco.Allor mi vo di que' pensier nudrendoOnde sgorgano poi spontanei e prontiArmonïosi versi, e a quel somiglioVigile augel che sott'ombrosa chiostraNascoso intuona il suo notturno canto.

Le stagioni così riedon coll'anno,Ma il giorno a me non riede: io più non veggoNè i dolci raggi del mattin che spunta,Nè quei del sol che cade; io più non veggoDi primavera i fior, nè rosa estiva,Non più scherzosi armenti, non più mandre,E non più volto d'uom, divina imago:Ma folta nube invece e buio eternoMi cinge intorno e dai piacer che dolceFanno la vita, mi divide: invanoDel bel saper, delle grand'opre sueApre natura il libro; è per me tuttoOscuro, vôto, cancellato, e chiusaM'è a Sapïenza una gran via per sempre.Tanto più vivi dunque, o tu, celesteLuce, i tuoi rai nella mia mente infondiE ne illustra ogni parte, occhi miglioriTu m'apri in essa e ne disgombra e tergiOgni bassa caligine terrena,Onde scorgere io possa e altrui far conteNegate a mortal guardo arcane cose.

Dal luminoso empireo, ov'egli siedeIn alto soglio ch'ogni altezza avanza,L'onnipossente Padre, in giù rivolseGli occhi a mirar le sue grand'opre e l'opreChe uscivano da lor. Più che le stelleGli stanno innumerabili d'intornoGli eccelsi Cori che ineffabil gioiaTraggon della sua vista, ed ave a destraDella sua gloria la raggiante imago,L'unico Figlio: sulla terra i nostriDue padri antichi, i soli due tuttoraDell'umana progenie, ei mira in prima,Che dell'almo giardin nella romitaSede coglieano gl'immortali fruttiDi gioia e amor, di non turbata gioia,D'amor senza rivali; indi l'infernoE 'l golfo immenso che dal ciel lo parte,Egli risguarda, e là Satán che il valloDel ciel costeggia ov'ha confin la notte,Satán che in alto per quell'aer foscoCon ali stanche e con bramoso piedePiegava omai vèr l'erma esterna facciaDi questo mondo che pareagli saldaTerra priva di cielo, e incerto egli era

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Se aere o vasto Oceáno in sen l'abbracci.Con quello sguardo, innanzi a cui s'adunaOgni passata, ogni presente ed ogniFutura cosa, Iddio dall'alto il mira;E 'l tutto antiveggendo, in questi accentiRivolto al figlio: Unico figlio, ei dice,Vedi tu là d'atroce rabbia accesoIl nostro fier nemico, a cui prescrittiSono confini invan, cui non le sbarre,Non le catene dell'inferno tutteE non l'interminabile frappostoOceano ponno rattener? Vendetta,Disperata vendetta ei sol respiraChe più pesante sull'altera testaPur gli dee ricader. Da tutti i suoiRitegni disfrenato, ei della luceEntro i recinti, non lontan dal cieloOr batte l'ali ed al testè creatoMondo s'indrizza, onde tentar se possaD'aperta forza incontro all'uom far uso,O con danno maggior, gl'inganni oprando,Dal dritto calle travïarlo, e fiaCh'ei lo travolga. A sue lusinghe orecchioDarà l'incauto e a sue menzogne, e il soloDivieto mio, quel pegno sol ch'io volliD'ubbidïenza ei romperà: ribelleA me farassi, egli e sua stirpe infida.Colpa di chi, se non di lui? L'ingratoQuanto aver mai potea, da me tutt'ebbe:Giusto e retto io lo fei, vigor bastanteA reggersi gli diedi, ancor che insiemeLibertade al cader. Tali io creaiTutti gli eterei Spiriti diversi,Quei che fedeli a me restaro e quelliChe mi volsero il tergo. Ognun che stette,Libero stette, e libero pur caddeOgnun che cadde: e qual sincera provaDi vera lealtà, di fè, d'amoreDarmi potean, da libertà divisi?Quello così ch'eran d'oprar costrettiSol fora apparso, e il lor voler non mai.Se volontade, se ragion (chè questaPur nella scelta sta) senz'uso e vane,Alla necessitade ivan soggette,Qual dal loro ubbidir merito e lodePotean essi raccorre, io qual diletto?Come convenne, io li creai, nè ponnoLa man che li formò, la loro essenzaGiustamente accusar, qual se catenaAlla lor volontà fosse un destinoIn decreto immutabile e nell'alto

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Mio preveder già fisso. Essi, non io,Decretaro il lor fallo; e s'io 'l previdi,La previdenza mia qual ebbe parteNella lor colpa? Se imprevista ell'era,Sarìa stata men certa? In guisa alcunaIl Fato dunque e l'antiscorger mioNon li sforzò, non mosse; e fu lor opraIl giudizio, la scelta e la ruina.Liberi fur color, libero al pariÈ l'uomo, e tal sarà, finchè nei turpiLacci per sè medesmo ei non s'avvolga.Se no, cangiar la sua natura e quelloEterno, irrevocabile, decretoDovrei per esso cancellare, ond'ioD'intera libertà gli feci il dono,E per cui vuol cader ciascun che cade.Figlia d'orgoglio reo, di scusa indegnaLa colpa fu di que' celesti SpirtiChe depravâr, sedussero se stessi;Ma gioco è l'uom di lor maligna frode;Quindi ei trovi mercè, mercè non maiTrovin color. Così la gloria miaPer giustizia e pietà fia che risplendaIn terra e in ciel, ma di più vivo raggioPrima ed estrema la pietà rifulga.

Mentre Dio sì parlò, d'ambrosia un'almaFragranza il cielo tutto intorno empieo,E de' beati eletti Spirti in senoNovello gaudio inenarrabil sparse.Di gloria incomparabile fu vistoSplendere il divin Figlio; e tutto in luiMostrarsi espresso il sommo Padre: in voltoPietà celeste, immenso amore, immensaGrazia gli riluceano, e, Padre, ei disse,Oh quanto dolce ne' tuoi detti estremiFu la parola che il perdon prometteAll'uom caduto, onde tue laudi il CieloFarà sonare altissime e la terraCon inni senza fine, e fia tuo nomeBenedetto in eterno! Alfin perdutoL'uom dunque andría per sempre, ei ch'è l'estremaOpra delle tue mani e la più cara,Egli che cade, è ver, ma tratto e spintoDa iniqua frode al precipizio? Ah! Padre,Sia da te lunge un tal rigor, sia lungeDa te che sei d'ogni creata cosaIl giustissimo giudice. VorrestiL'empio disegno del nemico nostroFar dunque lieto e vano il tuo? Fia pagaLa sua malizia e tua bontà distrutta?Dunque agli abissi suoi, benchè dannato

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A maggior pena, ei tornería superboDella presa vendetta, e seco insiemeNell'eterno dolor trarría l'interaDa lui corrotta umana stirpe? AdunqueTu l'opre tue strugger vorresti, e quelloPer lui disfar che per tua gloria festi?Ah! che la tua bontà, la tua grandezzaAltro chieggon da te. Figlio, risposeL'onnipossente Padre, o Figlio, in cuiLa sua gioia maggior trova quest'alma,Figlio di questo sen, che sei mio VerboE Sapïenza ed efficace Possa,A' miei pensieri, a' miei decreti eterniOgni tuo detto appien consuona. Ogni uomoPerduto non andrà; chi vuol, fia salvo;Non già pel solo suo voler, ma rettoDa quella grazia ond'io farogli donoLiberamente: io le languenti forzeIn lui ravviverò ch'a impure e guasteVoglie il peccar sommesse; anco una voltaCol mio sostegno il suo mortal nemicoAffronti in pari agon, ma vegga insiemeQuant'ei sia fral senza il sostegno mio,E senta che il suo scampo a me si debbe,A me sol, non ad altri. Io già fra tuttiMi elessi alcuni e di mia grazia i doni(Fu tale il mio voler) versai sovr'essi.Gli altri sonarsi in core udran soventeLa voce mia che dalle torte vieRichiameralli del fallir, l'offesoMio Nume ad implorar, finchè sia tempoDi grazia e di perdon. Dai ciechi sensi,Quanto lor basti, io la caligin densaDisgombrerò: que' duri cori a' preghi,Al pentimento, all'obbedir sarannoAmmolliti e piegati; e a' preghi loro,Al pentimento, all'obbedir, se schietteSaran lor brame e lor pensier, non sordaAvrò l'orecchia mai, non chiusi i lumi.Dentro il lor sen la Coscïenza, il mioIncorruttibil giudice e sicuraGuida io porrò, cui se daranno ascolto,Luce maggior da non spregiata luceOtterran sempre, e, in lor proposto immoti,Usciran salvi di lor corso a riva.Ma chi di mia pietà disprezza i giorniE 'l mio lungo soffrir, pietà non speri:Alle tenebre sue tenebre aggiunteSaran, durezza alla durezza, inciampoA inciampo, e al suo cader cadute e morte.Solo a costor la mia pietade è chiusa.

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Ma tutto ancor questo non è: slealeL'uom, col disubbidir, rompe ogni omaggioEd al suo Dio tenta agguagliarsi; ei tuttoPerde così, nè via gli resta alcunaAd espïar suo tradimento. A morteCon tutti i figli suoi devoto e sacroEgli è perciò; morir ei debbe, o debbeMia giustizia perir, se altra non s'offraVittima degna e volontaria il duroA compier sacrificio, e morte accettiPer l'altrui morte. Or dove fia che tantoAmor si trovi? Chi di voi, celestiAlte Possanze, esser vorrà mortaleA salvar l'uom dal suo mortal delitto?Qual giusto andrà per un ingiusto a morte?V'ha in tutto il ciel chi nudra un così belloE sì sublime affetto? Ei disse, e niunoDegli Spirti celesti il labbro mosse;Alto silenzio in ciel si fe': dell'uomoNiun difensore o intercessor comparve,E meno ancor chi la mortale ammendaE 'l gran riscatto di recare osasseSul proprio capo. Or la final sentenzaD'eterno danno sull'umana stirpeGià si compieva; e già tenean lor predaMorte ed inferno; ma il divino Figlio,Che del divino amor tutti rinchiudeGli ampi tesori in seno, ecco interponsi,E sì favella: È proferita, o Padre,La tua parola: sì, grazia e perdonoL'uom troverà. La grazia tua che tutteS'apre le vie, che de' tuoi messi alatiÈ la più ratta, e le dimande, i preghi,Le brame anco previen, dal corso usatoOr rimarrassi? Ah! che sarìa dell'uomo,Se tal'ella non fosse? Ei nelle colpeMorto e perduto, unqua cercar non puoteIl soccorso di lei, nè alcun restauroA far per sè gli resta o degna offerta,Di tutto debitor, di tutto privo.Eccomi dunque, io per lui m'offro, io vitaPer vita do, sulla mia testa cadaLo sdegno tuo, m'abbi qual uom, per luiIl sen paterno io lasciar vo', partirmiDalla tua destra glorïosa, e pagoSon per lui di morire: in me rivolgaMorte sua rabbia e tutta in me la sfoghi.Non rimarrò sotto il suo buio imperoA lungo io già; tu posseder mi destiIn me medesmo sempiterna vita:Sì, per te vivo, ancor ch'io ceda a morte,

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E quanto in me potrà perir, sia tuttoDi sua piena ragion; ma poichè resoQuel tributo le avrò, tu me sua predaNon lascerai, nè dell'immonda tombaEntro gli orrori soffrirai che sempreL'alma mia pura ed immortal soggiorni.Sì, vincitore indi alzerommi, a MorteTorrò sue spoglie, ed il suo dardo stessoIn lei torcendo, sotto i piè porrommiL'altera vincitrice oppressa e vinta.Del debellato e invan fremente infernoIo le negre Possanze alto pe' vastiCampi dell'etra al trïonfal mio carroTrarrò in catene, e tu, contento, o Padre,A me sorriderai dal soglio eternoPer la mia man del tuo vigor ripienaVeggendo spento ogni nemico, e MorteDel suo scheletro stesso alfin la tombaEmpiere e disfamar. Così dal largoStuol de' redenti miei seguìto e cintoFarò ritomo a queste sedi alfine,E innanzi, o Padre, a te, sul cui sembiante,Non più si mostrerà nube di sdegno,Ma pien perdono, inalterabil paceE amor e gioia splenderanno eterni.

Tacque, ciò detto, ma tuttor parlavaAnco tacendo il suo soave aspettoTutto spirante un immortale amoreVèr l'uom mortale, amor che vinto in luiDall'alto ossequio filïal sol era.Lieto di gire al sacrifizio, i cenniSol del gran Padre attende. Alto stuporeTenea sospeso il ciel che i detti arcaniNon comprendea; ma senza indugio il sommoPadre così soggiunse: O tu, che seiMio sol diletto, o tu, che in cielo e 'n terraResti al genere uman caduto in iraUnica pace, unico asil, tu saiQuanto a me l'opre mie tutte sian care;E se l'uom, benchè estrema, ancor mi siaCaro d'ogn'altra al par, mentr'io consentoChe tu dalla mia destra e dal mio senoT'allontani per esso, onde un tal pocoIo te perdendo, la perduta interaSua stirpe salvi. A tua natura dunqueQuella di lor congiungi, i quai tu soloRedimer puoi. Sovra la terra scendi,Sii fra gli uomin laggiuso uomo tu stesso,Con portentoso nascimento umanaCarne vestendo entro virgineo grembo,Quando fia tempo; e dell'uman lignaggio

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Capo e padre sii tu, d'Adamo invece,Benchè figlio d'Adam. Com'essi a morteVan tutti in lui, sì richiamati a vita,Qual da nuova radice, in te sarannoTutti color che otterran scampo, e niunoL'otterrà senza te. Nel suo delitto,D'infetto tronco infetti rami, involtiSon tutti i figli suoi; tuo merto quindiRiparator sopra ciascun si stendaChe l'opre ingiuste sue per te rifiuti,Per te le giuste ancora; egli riceva,Rigermogliando in te, vita novella,Quasi in novello suol trasposta pianta.Così ciò che l'uom dee, l'uom fia che paghi:(Giusta ragion il vuole) a sua sentenzaEi soggiaccia così, mora, risorga,E, risorgendo, i suoi fratei che a prezzoDi sua vita scampò, seco pur levi.Sarà in tal guisa dal celeste amoreL'infernal odio vinto, ancor che troppoNobile e prezïosa ostia ripariQuanto l'inferno per sì facil viaDistrusse e ancor distrugge in lor che sordiStan della Grazia all'amoroso invito.Nè mentre tu dell'uom l'umil naturaIn te rivesti, la tua propria e divaAbbasserai perciò. Se lasci il trono,Su cui tu siedi eguale a me, se lasciQuesta celeste gloria e questa eternaPerfetta gioia, dagli estremi danniCosì tu salvi il condannato mondo;E così, figlio mio, per proprio mertoAssai di più che per natío dirittoTi mostrerai: la tua bontà sublime,Più che la tua grandezza, al grado eccelsoEgual t'attesterà: maggior l'amoreFu che la gloria in te; quindi fia teco,Mercè tanta umiltà, la stessa ancoraUmanitade tua quassuso alzata,Ed incarnato sederai su questoSoglio medesmo, Uom Dio, prole divinaE umana insiem, Re universal dell'almoLicore asperso della sacra oliva.Ogni poter ti do, tuoi merti assumi,Eterno impera, a te soggetti sono,Come a supremo Sir, Principi e Troni,Possanze e Regni. Quanto in cielo e 'n terraE nel profondo tartaro soggiorna,A te dinanzi incurverassi umìle;E un giorno alfin verrà che intorno cintoDi queste empiree squadre, in mezzo al cielo

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Apparirai; di là tuoi messi alatiDell'apprestato tribunal tremendoAndran l'avviso ad arrecar: repenteI vivi tutti e tutti insiem gli estintiD'ogni trascorsa età (tal suon dal lungoSonno fia che li scuota!) al tuo cospettoLa sovrana ad udir sentenza estremaS'affretteran da tutti i punti a un tempoDel costernato mondo. In mezzo all'ampioStuolo de' Santi tuoi gli Angeli reiE i rei mortali il gran giudizio udrannoChe lanceralli entro l'abisso: alloraSazio sarà l'inferno e le sue porteChiuse per sempre. Immense fiamme intantoLa terra, gli astri, ogni creata cosaAlla tua voce struggeran, ma tostoDalle ceneri lor novella terra,Novello cielo sorgeran più belli.Ivi gli Eletti tuoi faran dimora,E, dopo i lunghi tollerati affanni,Aurei giorni vedran d'auree fecondiGiustissim'opre e trïonfar tra loroAmor e gioia e veritade e pace.Tu allor porrai da canto il regio scettro;Chè più non n'avrai d'uopo, e tutto in tuttiIddio sarà. Voi, divi Spirti, intantoInnanzi a lui che ad eseguir la grandeImpresa muor, prostratevi, ed onoreEguale al genitor riceva il figlio.

Così dicea l'Onnipossente, e tuttiGli Angeli allor d'un alto e dolce plauso,Qual vien da immenso stuolo e da soaviBeate voci, empiero il cielo, e lungiEcheggiar fe' l'eterne sedi un lietoOsanna glorïoso. Ai troni augustiProfondamente ognun s'inchina e al suoloRiverente ed umìl la sua deponeAurea corona d'amaranto intesta,D'amaranto immortal purpureo fioreChe all'arbor della vita in ParadisoGià cominciava a germogliar vicino;Ma pel fallo dell'uom trasposto venneIn ciel ben presto ov'esso nacque in prima.Ivi or cresce e s'infiora e della vitaAlto adombra la fonte e i campi, dovePer mezzo al cielo il fiume della gioiaPiù dell'elettro limpide e fragrantiL'onde sue placidissimo rivolge.Di quei sempre vivaci eletti fioriSi fan corona alle splendenti chiomeI divi Spirti, e ricoperto allora

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Di tanti sparsi serti il suol celeste,Simile a un mar di fulgido diaspro,Ridea vermiglio e fiammeggiante intornoDi quelle porporine eteree rose.In fronte quindi si ripongon tuttiLe lor ghirlande, e l'arpe d'ôr lucentiChe pendon loro quai faretre a lato,Recansi in mano, arpe accordate ognora,E discorrendo con maestre ditaLe corde in pria, preceder fanno al cantoSoave sinfonìa ch'erge a sublimeEstasi l'alme: indi dell'arpa al suonoCiascun la voce accoppia, e non è voceChe discordi lassù dove supremaIn tutto regna consonanza eterna.

Te in pria cantaro, onnipossente Padre,Infinito, immutabile, immortale,Eterno Re, te creator del tuttoChe se' fonte di luce e nell'immensaLuce medesma che t'avvolge il soglioEccelso, inaccessibile, t'ascondiImpenetrabilmente, e quando ancoraCon nube stesa intorno intorno, quasiTabernacol fiammante, adombri il pienoFulgór de' raggi tuoi, da' lembi estremiScintilli sì che tutto abbagli il cielo,Nè da vicin può Serafino alcunoIl lampo sostener che fuor ne sgorga,Ma fa con ambe l'ali agli occhi un velo.

Indi a te, divin Figlio, a te, divinaRassomiglianza, fu rivolto il canto,A te che pria d'ogni creata cosaGenito fosti, a te nel cui sembianteVisibil fatto, senza nube splendeIl sommo Padre, in cui non può per altraGuisa affisarsi occhio creato alcuno.Dalla sua gloria in te l'ardente lumeImpresso sta, trasfuso in te riposaL'ampio suo Spirto: egli de' cieli il cielo,Egli per te le angeliche PossanzeTutte creò, per te lo stolto orgoglioDelle perverse ammutinate squadreTraboccò negli abissi; in quel gran giornoDi sue tremende folgori ministroFu il possente tuo braccio, e tu le viveDel fero carro sfavillanti roteChe l'eterna scuoteano empirea mole,Sulle cervici a' rovesciati SpirtiTerribile aggirasti. Al tuo ritornoPiene di gioia le fedeli schiereAlto levár solenne plauso, e figlio

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Te celebràr della paterna possa,Te su i paterni perfidi nemiciAspro vendicator; ma tal sull'uomoNo, non sarai. Di scellerato ingannoVittima cade questi, onde tu, sommoPadre di grazia e di mercè, temprastiColl'infelice il tuo rigor severoE pendesti al perdon: ti scorse in voltoDi giustizia e pietà la gran contesaL'unico tuo diletto Figlio e prontoA finirla s'accinse. Ei dall'eternaGloria del ciel discende, ei s'offre a mortePer l'umano fallir. Oh amor sublime!Oh amore incomparabile, che soloNel sen d'un Dio può ritrovarsi! Salve,O gran Figlio di Dio, salve, del guastoGenere uman riparator possente;De' nostri canti ampio suggetto ognoraSarà tuo nome, ognor sull'arpe nostreSuoneranno tue laudi, e mai da quelleDel Padre tuo non suoneran disgiunte.

Così ne' regni di eterna luceEssi spendeano in gioia e in dolci cantiL'ore beate. Sulla salda intantoDel rotondo Universo opaca vôltaCh'ogni altra inferïor lucente sferaIn sè rinchiude e del Caosse affrenaE delle antiche Tenebre gli assalti,Satán scende e passeggia. Un picciol globoA lui parea da lunge, or terra immensaGli sembra, oscura, desolata ed erma;Severo ciel che sotto il torvo aspettoDi notte senza stelle ognor si giace,E del Caosse che d'intorno fremeSempre esposto al furor. Solo in quel latoChe del ciel guarda le lontane mura,Per l'aere da' furenti orridi nembiMeno percosso, un fioco lume ondeggia.Quivi l'iniquo Spirto in largo campoSpazia a grand'agio, ed avoltoio sembraChe là cresciuto ove il nevoso ImaoL'argine oppon degli ammontati ghiacciAl vago Scita, dalla trista terraScarsa di preda sloggia e via sen volaDi pingui agnelli e di capretti in cercaSu per li colli ove le greggie han pasco,Ver le fonti del Gange o dell'IdaspeDirizzando il cammin, ma scende intanto,Stanco dal lungo vol, sugli arenosiCampi di Sericana, ove sì destroGuida il Cinese i suoi di canna intesti

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Leggieri carri con le vele e 'l vento,Che scorrer sembra il mar. Così Satáno,Sovra quel suol simíle a mar ventoso,Tutto anelante alla sua preda e soloSu e giù cammina. Tutto solo egli era;Chè là vivente o inanimata cosaNon si trovava ancor, ma poscia alloraChe l'opre de' mortali ebbe la ColpaPiene di vanità, lassù volaro,Come aerei vapori, in larga copiaLe cose di quaggiù fugaci e vane.Quest'orbe tenebroso in suo passaggioIl reo Spirto rinvenne e a lungo errandoPer esso andò, ma un fil di dubbia luceTremolando improvviso a sè gli stanchiSuoi passi in fretta volse. Ei lungi scopreSuperba mole che alle mura ascendeDel ciel per gradi splendidi e infiniti:Ad essa in cima qual di regio tettoUn'ampia porta appar, ma ricca e vagaOltr'ogni paragon, con fronte adornaD'oro e diamanti: folgorava tuttoD'orïentali folte gemme intestoIl grand'arco che in terra ingegno alcunoNè in rilevate, nè in dipinte formeSolo adombrar non mai potrìa. SimíliEran le scale rilucenti a quelle,Per cui, fuggendo la fraterna rabbia,Sotto il notturno aperto ciel distesoLà nel campo di Luza il buon GiacobbeDiscendere e salir fulgidi stuoliD'Angeli vide in sogno e nel destarsi,Quest'è, gridò, quest'è del ciel la porta.In ogni grado alto divin misteroSi nascondea, nè stettero là sempreImmoti già, ma tratti in ciel taloraFur da invisibil mano. Un luminosoMar di liquide perle o di diasproAl di sotto scorrea, su cui gli ElettiChe varcâr poi di terra ai seggi eterni,Fêro in braccio degli Angioli tragitto,O fur rapiti da corsier di focoOltre quell'onde in su volante carro.Giù la gran scala era calata allora,O perchè dall'agevole salitaLo Spirto reo fosse tentato, o a fargliSentir più crudo il sempiterno esiglioDalle beate porte. Incontro ad esseAprivasi di sotto in ver la terraUn ampio varco che al felice appuntoSito dell'Eden rispondea, più largo

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Varco di quello assai che sul SionneE la promessa terra a Dio sì caraFu schiuso poscia, e per lo qual soventeGli spediti quaggiù celesti messiA visitar quelle tribù feliciVenir soleano e ritornare, e DioDi là dove il Giordan l'origin prendeFin dell'Arabia e dell'Egitto ai lidi.L'amoroso stendea vigile sguardo.Sì largo era quel varco, ove fur fissiI confini alle tenebre, siccomeDel mare all'onde. Ivi Satán s'arresta,E dal grado più basso, onde alla sogliaDel ciel conduce l'aurea scala, il guardoIn giù volgendo, ad un sol punto scopreL'intero mondo, e all'improvvisa vistaAttonito riman. Così guerrieroEsplorator che per deserte e buieVie tutta notte andò fra rischi errando,Sul ciglio alfin d'un erto monte ascesoAllo spuntar del mattutino albôreS'arresta e guata, e di repente ameneStraniere terre in lontananza scorgeNon prima viste, ampia città famosa,E splendenti palagi e torri eccelseChe del sorgente sole il raggio indora.Con tal stupor, sebbene al cielo avvezzo,Va contemplando quel maligno SpirtoQuest'Universo; ma più forte il punseInvidia ancor quando sì bello il vide.Tutto per ogni banda egli lo spia(E bene il può di là dove sublimeSovrasta al fosco spazïoso mantoChe la notte distende in vasto giro)Dal punto Oriental di Libra infinoAl velloso Monton che lungi portaOltre orizzonte per le atlantich'ondeAndromeda lucente. Indi col guardoL'ampiezza tutta dall'un polo all'altroEi ne misura, e vêr le prime piagge,D'indugio impazïente, in giù si lanciaCon vol precipitoso. Obliquo ei torcePel candid'aere puro il facil corsoFra globi innumerabili che stellePaion da lunge e davvicin son mondi,Vasti mondi, o felici isole ameneSimili a quegli Esperidi giardiniSì rinomati un dì, beati campi,Lieti boschetti, dilettose valliDi fior vestite, e ben tre volte e quattroIsole fortunate. Ei via trascorre,

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E quai ne sien gli abitator feliciNon s'arresta a cercar; ma l'aureo sole,Che più del ciel l'immensa luce imita,Sovra ad ogn'altra stella a sè richiamaLo sguardo suo: colà rivolge il corsoPel firmamento placido (se in alto,Ovvero in basso, o presso il centro, o lungi,Chi 'l potría dir?) dove la nobil lampaLungi dal folto popolo degli astriChe in convenevol lontananza stannoDall'occhio suo sovran, loro dispensaIl tesor de' suoi rai. Con ordin vario,Ma immutabile ognor ne' varj moti,Al suo rallegrator lume d'intornoLa mestosa lor veloce danzaMenano quelli, e i giorni, i mesi, gli anniMisuran seco; e forse in giro mossiSon de' suoi rai dall'attraente forzaChe dolce scalda l'Universo e dolceOgni lontana e più riposta partePenetra e scuote coll'arcano ed almoFoco sottil: sito ammirabil tantoFu fisso all'orbe animator del mondo!Colà Satáno approda, e macchia pariA quella ond'egli il lucid'astro adombra,Sguardo mortal d'ottici ingegni armatoForse giammai non vi scoperse: il locoEgli trovò sopra ogni dir lucente,E molto più che non rifulge in terraTerso metallo o gemma. Ogni sua parteNon è simìl, ma sfolgorante e piena,Come di foco è pien rovente ferro,D'egual lume è ciascuna. Oro là sembra,Qua purissimo argento: ivi il fulgóreDel crisolito imíta, o del rubino,O del topazio, o del carbonchio; o quelloDei dodici gioielli, onde d'AronneIl sacro petto fiammeggiava adorno;Nè il nostro immaginar pinge sì bellaQuella mirabil pietra, a cui rivoltoFu de' creduli Sofi invan tuttoraLo studio ed il sudor, sebben in ceppiIl fuggevole Erméte a por sia giuntaLa lor arte possente, e su traendoDal marin fondo il vecchio Proteo scioltoIn varie guise ognor, stringerlo sappiaA ripigliar per vitrea angusta docciaLa sua forma natìa. Mirabil cosaA chi dunque sarà, che spirin quiviPuro elisir le regïoni e i campi,E volgan aurei flutti i fonti e i fiumi,

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Quando col tocco del sovrano raggioChe nel terrestre umor s'infonda e mesca,Il sol da noi sì lunge, in queste basseTenebre può produr tante e sì rareCose ammirande, e trasformar l'impuroLoto in raggianti prezïose gemme?

Nulla abbagliato da cotanta luce,Quivi d'alto stupor spettacol novoTrova il maligno Démone, e col guardoCh'ombra od intoppo non incontra, tuttiSignoreggia dell'aere i campi immensi.Come dal sommo vertice del cielo,Colà dove la notte al dì s'adegua,In sul meriggio a noi diritti vibraQuel pianeta i suoi rai, dritti lassusoCosì li manda ognor per vie disgombreD'ogni opaco ritegno, e l'eter puro,Qual non è altrove, di Satán gli sguardiAguzza e guida ai più lontani oggetti.Un Angel glorïoso a un tratto ei scorge,Quell'Angelo medesmo ivi dipoiDa Giovanni veduto: egli a SatánoVolgea le spalle, ma il celeste lumeNon cela già che lo riveste; intornoGli sfavilla alla fronte aurea tïaraIntesta de' più puri eletti raggi,E mollemente sull'alate spalleGli ondeggia sparso il folgorante crine.Fisso in pensier profondo, ad alto incarcoIntento egli parea. S'allegra alloraLo Spirto reo che ritrovato alfineSpera d'aver chi all'Eden drizzi il suoErrante volo, alla felice sedeDell'uom, che al lungo suo viaggio è meta,E principio sarà de' nostri affanni.

Ma per fuggire indugio o rischio, in priaCangiar la propria in altra forma ei pensa;E tosto un Cherubin leggiadro e vago,Ma non dei primi, ei si dimostra: in voltoFresca gli ride gioventù celeste,E concorde si sparge in ogni membroGrazia e decoro. Il menzogner sembianteNulla smentisce in lui; vezzoso sertoGli orna le tempie, ed alle gote intornoGli scherzano ravvolti in vaghe anellaI biondetti capelli; ali ha sul tergoDi sparse d'oro variopinte penne;Succinto e lieve è il suo vestir, e innanziA' composti suoi passi argentea vergaEi stringe in man. Pria d'appressarsi, uditoDall'Angel fu che il luminoso volto

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Tosto a lui volse e manifesto apparveL'Arcangelo Urïele, un di que' setteChe, più vicini al solio dell'Eterno,Stanno pronti a' suoi cenni, ed occhi suoiSon quasi, che de' cieli e della terraLe vaste piagge rapidi scorrendo,Van sul suolo a portare, o van sull'ondaI suoi decreti. A lui Satán s'appressaE così gli favella: O tu che seiUno, Urïele, di que' sette SpirtiChe vestiti di gloria innanzi al tronoStan dell'Onnipossente, e per l'eccelseSfere interpetre sei, sei messaggieroDi quell'alto voler che i figli suoiUmili aspettan dal tuo labbro, e forsePer supremo decreto egual onoreOr godi qui d'ir visitando attornoQueste nuove da lui create cose,A te ricorro. Ardente brama il pettoDi veder, di conoscere m'infiammaQuest'opre sue stupende, e, più ch'ogni altra,L'uomo, dell'amor suo, del suo favoreOggetto singolar, l'uomo, per cuiIn sì mirabil ordine ei disposeQuest'Universo. Un tal desìo mi trasseCosì soletto a errar lungi dal coroDegli altri Cherubini; ah! tu m'insegna,Inclito Serafino, in qual di questiSplendidi mondi stabilita all'uomoSia la dimora, o se dimora alcunaFissa ei non abbia ed in ciascuno scerreLa possa a grado suo. Fa ch'io trovarloEd in segreto o apertamente io possaDi lui goder la vista, a cui sì largoFu il sommo Creator di grazie tanteE liberale donator di mondi.Così potrem nell'uom, come in ogn'altraCosa, esaltar quel Facitor sovranoChe al fondo dell'inferno i suoi ribelliSpinse a ragione, e a ripararne il dannoQuesta nuova creò felice stirpeChe più fedel gli fia. Sagge son tutteL'opre e i disegni suoi. - Così quel falsoAngel parlò, nè il ben celato ingannoUrïel discoprì; chè dato ad uomoO ad Angelo non è scorger la chiusaIntenebrata Ipocrisia, quel soloMal che nascoso ad ogni sguardo, e chiaroSoltanto a quel di Dio che andar lasciollo,Della terra e del ciel le vie trascorre.Così sovente la Prudenza ancora

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Sta vigilante invan, spesso il SospettoSulle soglie di lei s'acqueta e dorme,E 'l proprio posto inavveduto cedeAlla semplicità che al mal non pensaDove niun male appar. Da sua bontadeCosì il rettor del sol, quell'UrïeleCh'ha sovr'ogn'altro Spirito del cieloAcuto il guardo, nell'inganno è tratto;E del suo schietto cor seguendo i moti,Al frodolento infignitor malignoCotal risposta diede: Angel vezzoso,Questa tua brama che a conoscer l'opreÈ rivolta di Dio perchè s'esaltiOgnor più la sua gloria, anzi che biasmo,Lode ben merta; e più di pregio è degnoQuanto più vivo è quello zel che spintoT'ha sì lontan dal tuo celeste seggioIn questi lochi e così sol, co' tuoiOcchi medesmi ad ammirar quel ch'altriForse d'udir per fama in ciel s'appaga.Ah! degne inver d'altissimo stupore,Degne che in lor sempre il pensier s'affissi,Son l'opre di sua mano e viva fonteDi puro soavissimo diletto.Ma qual creata mente abbracciar puoteL'infinito lor numero o 'l profondoSapere investigar che fuor le traggeDal nulla e le alte lor cagioni asconde?Presente io fui quando la massa informeDella rude materia in groppo unitaApparve; umile il Cao sua voce intese,S'acchetò dell'abisso il fier muggito,E Immensitade ebbe confini: il labbroEgli di nuovo aperse e di repenteFuggissi il buio, sfolgorò la luce,E dal disordin fuor l'ordine surse.L'acqua, la terra, l'aere, il foco alloraCh'eran fra sè ravviluppati e misti,Ai varj posti lor corser veloci;E l'eterea del ciel sustanza pura,Di varie forme impressa, in su volandoIn giri si ravvolse, e gli astri, questoD'ardenti faci innumerabil coro,Venne a compor, qual vedi; e ognun suo loco,Ognun suo corso ebbe prescritto. Il restoIn cerchio immenso la gran vôlta e 'l muroFormò dell'Universo. Or gli occhi abbassaA quel globo laggiù che a noi rimandaParte del lume che di qui gli pioveSul lato incontro a noi; la terra è quella,Dell'uom la sede, e quella luce è il giorno

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Che la rischiara. Ora la notte abbuiaL'altro emisfero suo, ma la propinquaLuna (così quell'altra stella ha nome)Coll'improntato suo fulgor le prestaOpportuno soccorso, ed alternandoIl mensual suo giro, ora di luceEmpie ed or vôta il suo triforme aspetto;E così della notte il fosco imperoSopra la terra scema. Or gli occhi porgiA quella macchia che colà t'addito:Il soggiorno d'Adam, l'Eden è quello,E quell'alte ombre il suo ritiro. Vanne;Il tuo cammino errar non puoi: conviensiA me seguire il mio. Ciò detto, altroveL'Angelo si rivolse. A lui SatánoProfondamente s'inchinò, qual suoleSpirto minore a maggior Spirto in cielo,Ove dovuta riverenza e onore.Niun mai trascura: indi affrettato e spintoDalla sua speme, in molte aeree ruoteIn vêr la costa della bassa terraPrecipita il suo volo, e del NifateIn sull'alpestre vetta alfin si cala.

LIBRO QUARTOSatáno, alla vista dell’Eden e del luogo ove si propone di eseguire l’audace suo disegno

contro Dio e contro l’uomo è agitato da molti dubbj e da molte passioni, dal timore, dall’invidia, dalla disperazione; ma alfine si conferma nel male e si avanza verso il paradiso, del quale si descrive l’esterno prospetto e il sito. Egli supera tutti gli ostacoli e si posa in forma di smergo sull’albero della vita, il più alto di tutti per ispiare all’intorno. Descrizione del giardino. Satáno vede per la prima volta Adamo ed Eva; riman preso da maraviglia alla nobiltà delle loro sembianze ed alla felicità del loro stato, ma persiste nella risoluzione di procurare la ruina loro; sta ad ascoltare i lor discorsi, ne raccoglie ch’era loro vietato sotto pena di morte il mangiare del frutto dell’albero della Scienza, e disegna di fondare sopra un tale divieto la sua tentazione e sedurli alla disubbidienza. Differisce il suo proponimento al fine di informarsi meglio del loro stato per qualche altro mezzo. Intanto Uriele, scendendo sopra un raggio del sole, avverte Gabriello, a cui era affidata la guardia delle porte del paradiso, che qualche malvagio Spirito erasi fuggito dall’abisso, ch’egli era passato verso l’ora del mezzodì per la sua sfera sotto le forme d’un Angelo beato; che di là era disceso verso il paradiso, e che i suoi gesti furiosi sul monte lo avevano scoperto. Gabriello promette di trovarlo prima del nuovo giorno. Adamo ed Eva trattengonsi parlando insieme, e alla fine del dì si ritirano a riposo nel loro albergo. Descrizione di questo, e loro preghiera della sera. Gabriello ordina di far la ronda agli Spiriti ch’eran di guardia, e invia due Angeli verso l’albergo di Adamo per timor che il maligno Spirito non tenti qualcosa contro i nostri primi padri mentre dormono. È trovato all’orecchia d’Eva occupato a tentarla in un sogno, ed è condotto a Gabriello. Risponde con orgoglio e ferocia e si prepara al combattimento, ma intimorito da un segno che appare in cielo, se ne fugge dal paradiso.

Dove ah! dov'è quella pietosa e fera

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Voce che l'Inspirato udìo di PatmoDal profondo del ciel tonare un giorno«Guai della terra agli abitanti» alloraChe, di nuovo sconfitto, a far scendeaFuribondo il Dragon le sue vendetteSopra l'umana stirpe? Oh! perchè avviso,Finchè n'è tempo ancora, ella non porgeAi nostri primi sventurati padriDel lor vicin nemico, onde i mortaliSchivar agguati suoi potesser forse?Di rabbia acceso ecco Satán discende,Pria tentator e accusator dipoi,La prima volta in terra, e 'l suo furorePer la perduta pugna e per l'orrendaCaduta sua vien a sfogar sul fraleUomo innocente; ei vien, ma benchè tantoIntrepido da lunge, or non ritrovaPei vinti rischi e pel suo presto arrivoD'allegrarsi ragion. L'atro disegno,Presso a scoppiar, nello sconvolto pettoGli si raggira e bolle e 'l proprio fabbroSi ritorce a colpir, come guerrieraMacchina fulminante indietro balza,Mentre dal seno il tuon scaglia e la morte.Dubbio, terror tutti confonde e mesceI suoi pensier: d'inferno uscito invanoEgli è, l'inferno ha in cor, l'inferno intornoPertutto egli ha, nè per cangiar di locoAl circondante orror più che a sè stessoPuò un sol passo involarsi. Il già sopitoSuo disperar di coscïenza al feroGrido or si sveglia, e la mordace ideaDi quel ch'ei fu, di quel ch'egli è, di quelloChe in avvenir sarà, delle più graviPene che sempre a maggior colpe aggiugneLa giustizia infallibile del cielo,L'ange e spaventa. I dolorosi sguardiAll'Eden che fiorito e fresco e vagoGli s'appresenta, or ei rivolge, ed oraAl cielo, e al sol che in cima arde e lampeggiaDell'alta sua meridiana torre;Quindi così del cor l'ambascia cupaEsalò sospirando: O tu, che cintoDi tanta gloria, spazïando vaiSolo Signor lassù, che sembri NumeDi questo nuovo mondo, e in faccia a cuiLa scema fronte ogn'altra stella asconde,Mi volgo a te, ma non con voce amicaIo già mi volgo, ed il tuo nome aggiungo,O sol, per dirti in qual dispetto io m'abbiaI raggi tuoi che mi rammentan quale

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Fosse il grado ond'io caddi, e la tua speraQuant'io di gloria e di splendor vincessi.Oimè! da quale stato un cieco orgoglioPrecipitommi! Io contro il re del cielo,Io contro lui che paragon non ave,Osai levar lassù la fronte e l'armi?E perchè mai? No, tal ricambio inveroEi non mertò da me, da me che a tantaAltezza avea creato, ei che i suoi doniNon mai rimproverò, che lievi e dolciServigi sol chiedeva, animo gratoE sacre laudi. E qual men grave omaggioE qual più giusto? Eppur maligno toscoFuro al mio core i benefici suoi,E sol dier di nequizia orrido frutto.Innalzato cotanto, a sdegno io presiLo star suggetto; un sol varcato passoCredei che fatto a lui m'avrebbe eguale,E il pondo insofferibile di miaRiconoscenza per le grazie, ond'egliOgnor mi ricolmava, a un tratto scossoAvrei così da me; nè seppi alloraChe un grato cor, mentre confessa il dono,Più debitor non è. Qual era dunqueIl mio gravoso incarco? Ah! se locatoEgli m'avesse in men sublime seggio,Felice ancor sarei, nè spinte avrebbeUna sfrenata ambizïosa spemeSì lungi le mie brame. E se qualch'altroAl par di me possente Angelo osavaTentar la stessa impresa e me con secoA sua parte traea? Ma che! son forseCadute altre Possanze a me simili,E ferme e fide non si serban controOgn'inganno, ogni assalto? Al par di quelleLibera volontà fors'io non ebbiEd ugual forza? Ah! sì. Di che mi lagnoDunque? Chi dunque accuserò? Quel DioChe fu d'eguale amor, di doni egualiLargo con tutti? Maledetto dunqueQuell'amor e quei doni, a me, del pariChe il feroce odio suo, cagion fataleD'interminabil duolo; anzi in eternoMaledetto io medesmo, il cui volere,Contro il voler di lui, libero scelseQuesta ch'or merto e provo acerba sorte.Dove, misero me! dove sottrarmiAll'immensa ira sua? Dove allo stessoMio furor disperato? Ovunque io fugga,Trovo l'inferno, anzi del core in fondoMeco lo porto: ivi un più cupo abisso

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Di quell'abisso atroce in cui m'ha spintoIl mio delitto, si spalanca, e tantoLo supera in orror che bello e dolceL'inferno stesso è al paragone. Ah! cedi,Cedi, Satáno, alfin. Che! loco alcunoAl pentimento ed al perdon non resta?No, se sommesso in pria, se umìl... Che dico?Umil, sommesso io mai? Qual onta! Ah! furo,Fra quei Spirti laggiù da me sedotti,Ben altro fur le mie promesse e i vanti.Io che l'Eterno a rovesciar dal solioBastante m'affermai, potrei fra loroServo e di servitù nunzio tornarmi?Oimè! ch'essi non san quanto una vanaMi costi ombra di gloria! essi non sannoFra quali angosce internamente io gema,Mentre da lor sull'infernal mio solioAdorato m'assido! A me che giovaScettro e corona, se più ch'altri appuntoIo ruino perciò nel cupo centroDi tutte le miserie e son supremoSol negli affanni? O ambizïon, son questeLe gioie tue? Ma se a pentirmi ancoraScender potessi, e col perdono il mioRacquistar primo stato, i sensi alteriIn me rigermogliar quella grandezzaNon faría tosto, e tutto aver a sdegnoQuanto giurò mendace ossequio? I votiChe duolo e forza mi svellea dal labbro,Quai nulli e vani la cangiata sorteTutti terrebbe. No, rinascer veraAmistade in quel cor non può giammai,In cui d'odio mortal fur sì profondeFerite impresse. A più fatal cadutaIo sol risorgerei, la breve treguaA prezzo d'addoppiati aspri tormentiSolo comprata avrei. Ben sallo il mioSagace punitor che a darmi paceTanto avverso è perciò quant'io mi recoA dispetto il cercarla! Or ecco, inveceDi noi cacciati in crudo esiglio indegno,Ecco creato l'uom, tenero oggettoDelle sue cure; ecco d'un mondo intero,Liberal largitor, gli ha fatto il dono.Fuggi dunque, o speranza, e tu con essaFuggi, o timor, da questo sen; fuggite,Vani rimorsi miei; per me in eternoÈ perduto ogni ben: tu solo, o male,Sii mio sol bene omai; per te divisoCol re del cielo almen tengo l'impero,E più che la metà saprò fors'anco

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Occuparne per te. Vedrai bentosto,Uomo odïato, e tu, novello mondo,La possa di Satán. - Mentr'ei sì parla,Fera procella gli dibatte il core,E un lurido pallor d'invidia e rabbiaE disperazïon gl'infosca il voltoA vicenda tre volte. Ad ogni sguardoLe scompigliate sue mentite formeLo avrìen scoperto: chè sereni e sgombriDa sì sconce tempeste il cor, la fronteHanno i Celesti ognor. Lo avvisa ei tosto,E, artefice di fraude, appiana e copreD'esterna calma ogni tumulto interno.Egli il primiero fu che l'alma fellaD'aspra vendetta covatrice ascoseSotto dolci sembianze. Esperto tantoNon è però che ad Urïele accortoFar possa inganno. In suo cammin coll'occhioEgli seguillo, e sull'Assirio monte,Più ch'a beato Spirto avvenga mai,Disfigurato il vide. I gesti feriDi lui che allora inosservato e soloColà credeasi, il torbid'occhio ardenteE 'l portamento furibondo e folleL'Angel scôrse e notò. Così SatánoSuo cammin segue e a' fortunati campiDell'Eden s'avvicina. Un verde giroD'argine rustical cinge la vastaPianura stesa in cima ad erto monte,Che di pungenti vepri e d'alti e densiRovi tra lor confusamente attortiIspidi ha i lati e d'ogni parte il varcoImpenetrabil fa. Gli abeti, i pini,L'eccelso cedro e la ramosa palmaTorreggian sopra, e sull'agreste scenaStendon lunghissim'ombra; e quanto il collePiù si solleva, alte ognor più spargendoL'ombre sull'ombre, un boschereccio, alteroMaestoso teatro offrono al guardo.Ma più ancor di lor cime il verdeggianteMuro del Paradiso in alto sorge,E al nostro primo padre ampio prospettoDei sottoposti spazïosi regniPresenta d'ogn'intorno. Oltre quel muroDisposti in giro ergono al ciel le sempreChiomanti braccia i più fecondi e belliArbori carchi de' più dolci frutti.Sul ramo stesso ivi matura e spuntaInsieme il frutto e 'l fior, ambi d'un vivoAureo colore, a cui del par lucentiSi mescono mill'altri; e il sol più lieto

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Co' ripercossi rai vi splende e scherzaChe in vaga nube a sera, o nell'acquosaIride bella quando ha sparsa IddioLa pioggia sulla terra. Amabil tantoÈ quel beato suol! Ride pertuttoSoave primavera, ognor più puroSpira quell'aere a chi s'appressa, e taleUn almo infonde avvivator confortoChe può dal cor, se non uscì di speme,Ogni affanno sgombrar. Gentili auretteLe leggiere scotendo ali fragrantiSpandon pertutto i loro profumi, e sembra,Che voglian dir coi lor susurri il locoDonde involâr quelle odorose prede.Come al Nocchier ch'oltre gli estremi CafriVeleggia, e Mozambico ha già varcato,Il vento aquilonar dalle feliciArabe spiagge odor Sabei tramanda,Ond'egli preso da diletto allentaIl suo cammino, e 'l vecchio Oceano stessoPer ampio tratto si rallegra e ride:Così allettato era il malvagio SpirtoDa quell'alme dolcezze, ei che venìaDel suo veleno ad infettarle. A tardiPassi e pensoso, di quell'erto colleGiunto all'aspra salita egli era omai,Quando per varcar oltre alcun sentieroPiù non appar; di così folti ed irtiCespugli e dumi un'aggroppata selvaImpenetrabil s'opponea. RestavaSola una porta dall'opposto latoVêr l'Orïente: videla il fellone,Ma la sdegnò superbamente, e rattoOltre la ripid'erta e l'alto muroSpiccò d'un salto e sovra i piè leggieriNel bel loco balzò. Qual lupo spintoDa cupa fame a ricercar di predaNovelle tracce, erra qua e là spiandoOve i pastor nelle di vinchi intesteLor chiuse a sera di raccor son usiIl sazio gregge, e con agevol lancioSopra la fratta, furibondo, ingordoNel recinto si scaglia; o qual notturnoLadro che all'arca per molt'oro graveD'un ricco cittadin le insidie ha volte,Poichè assalto non temono le fortiSoglie e le ferree sbarre, ei s'apre il passoPer le finestre, o sopra l'arduo tettoArrischievol s'arrampica; tal questoPrimo atroce ladrone entrò nel santoOvil di Dio. Quindi a vol s'erge e sopra

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L'arbor di Vita, che l'altera cimaNel mezzo al bel giardin sugli altri innalza,Si posa in forma di rapace smergo:Ivi della vital salubre piantaL'alta virtude a meditar l'iniquoNon stette già, ma sol tramò la morteA color che vivean. Di quel sublimeLoco che a lui, se provvido era e saggio,Stato saria d'immortal vita pegno,Ei sol si fe' vedetta a stender lungiL'indagator di preda avido sguardo.Sì poco ognun (tranne sol Dio) conosceDel bene il prezzo, ma strumento il rendeSpesso del male, o in usi indegni il torce.

Or con nuovo stupor mira SatánoSotto di sè, dentro non largo giro,L'ampie ricchezze di natura accolteA far pago dell'uomo ogni desìo;Anzi gli par di rivedere il cieloSopra la terra. Quel felice suoloD'Eden Iddio medesmo aveva eletto,E sugli Eoi confini il bel giardinoEi stesso vi piantò. Verso l'auroraL'Eden si distendea da Auran fin doveI greci Re dipoi le rocche altereDi Seleucia innalzaro, o dove surseTalata e dove in pria d'Eden i figliEbber soggiorno. In sì ridente terraPiù assai ridente il suo giardino adornoAvea disposto Iddio. Gli arbori tuttiPiù vaghi, più fragranti e più soaviCresceanvi rigogliosi, e ad essi in mezzoSublime, eccelso e germinante ognoraDi vegetabil oro ambrosie fruttaL'arbor sorgeva della Vita, e pressoAlla vita sorgea la nostra morte,L'arbor della Scienza, arbor funestoChe, il ben mostrando, al mal la strada aperse.

Per l'Eden verso l'austro un ampio fiumeScorre, e d'un monte nel boscoso fianco,Senza torcer suo corso, entra e s'ingolfaPer sotterranee vie. Là posta aveaDi propria man quella montagna Iddio,Qual sponda al suo giardino, alta sovressoLa rapida corrente: indi bevutaDalle segrete sitibonde veneDel poroso terren sorgea gran parteDi quell'acque in un chiaro, immenso fonteChe dipartito in cento rivi e centoIrrigava il giardin; quindi per l'ertaBalza, unito di nuovo, in giù cadea

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La vasta piena a rincontrar che uscitaAlfin dal cupo varco al dì risale,E con vario cammin, divisa in quattroMaggiori fiumi, per lontane terreStende suo corso e per famosi regni.Or qual arte giammai, qual alto e dolceStile ridir potrìa come da quellaSorgente di zaffir scendon fuggendoSovr'aurea sabbia e orïentali perleI ruscelletti garruli da lieviAure increspati? e come in mille e milleGiri sorto le fresche ombre pendentiVolgono il puro néttare dell'ondeA visitare ed a nudrir le pianteE i fiori tutti, di quel loco degniAnzi del cielo? In brevi aiuole e gruppiNon ordina colà difficil arteQuelle piante e que' fior, ma in colle, in valle,In pian con mano liberal gli spandeL'alma natura, e dove il sol percuoteCo' novelli suoi rai gli aperti campi,E dove imbruna impenetrabil ombraIn sull'ore più calde i bei recessi.Tal era e varia e maestosa e schiettaDel loco la beltà! Colà distillaGomme odorose e balsami il boschetto;Qui aurate poma pendono ripieneDi celeste sapor. Gli Esperid'ortiFavoleggiati poi, qui veri in prima,Qui fur soltanto. Là ridenti prati,Qua piagge amene, ove pascendo vannoLe tener'erbe i fortunati armenti;Qui coperto di palme un colle sorge,Ed ivi s'apre il vario pinto gremboD'irrigua valle, ove pomposa mostraFan tutti i fior più vaghi, e porporeggiaSenza spine la rosa. In altro latoVedi freschi ritiri, ombrose grotte,Su cui lieta s'inerpica e distendeLussureggiante le ritorte bracciaGravi di biondi grappoli la vite.Con grato mormorìo discendon l'acqueDai colli aprici e van divise errando,O uniscono i lor rivi in chiaro lagoCh'offre il suo specchio cristallino al margoCoronato di mirti. Odesi intornoAlmo d'augei concento, a cui le molliAurette carche di fragranti spoglieDi campi e boschi accordano il susurroDelle tremule fronde. Avria credutoForse la Grecia favolosa quivi

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Veder danzanti Pan, le Grazie e l'OreE insiem guidar la primavera eterna.Eran men belle assai l'Etnée campagne,Dove involata fu dal fosco Dite,De' fior ch'ella cogliea più vago fiore,Proserpina gentil, per cui l'afflittaMadre corse e cercò la terra intera.Non quel di Dafne dilettoso boscoPresso l'Oronte, di sì lieto suoloVenga al confronto; non l'Aonie piaggeCui l'onda sacra e inspiratrice irriga;Non quella dal Triton bagnata e cintaIsoletta Niséa, dove l'anticoCam, che Libico Giove e Ammon nomatoFu dai Gentili, il pargoletto BaccoEd Amaltea celava al vigil guardoDella matrigna Rea; non l'erto monteD'Amara, là del Nil presso alle fonti,Che, di splendenti rocce intorno chiuso,De' monarchi Abissini i bruni figliSerba nel grembo, e i salitori stancaPer un intero dì, montagna amena,È ver, ma da talun creduta a tortoDel Paradiso la verace sede.

Volge Satán l'occhio geloso attorno,E senza alcun diletto ogni dilettoDel bel giardino e l'infinita schieraDelle viventi creature osserva;Meraviglioso a lui spettacol novo.D'assai più nobil forma, alte ed erette,Erette in guisa di celesti Spirti,Due là vestite di natìa bellezzaNella lor nuda maestà, del TuttoSembran tenere, ed a ragion, l'impero.Nei lor sembianti la divina imagoDel lor Fattore, verità, consiglio,Pura ed austera santità risplende,Austera sì, ma in filïal ripostaLibero ossequio, onde più bella e grandeAppar dell'uom la dignità sovrana.Come diverso è il sesso lor, diversiSon pur i pregi e diseguali: agli altiPensieri ed al valor formato è l'uno,L'altra alle grazie e a' molli vezzi: è quegliA Dio solo soggetto, a Dio soggettaEd allo sposo ell'è. Sovran signoreAllo sguardo sublime, all'ampia fronteEi si palesa: in crespe e folte cioccheI giacintini suoi capei dall'altoCadon divisi in sulle larghe spalle,Ma non più giù. Neglettamente sparse

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Le trecce d'ôr fino allo snello fiancoScendono a lei qual velo, e in vaghe anellaRassomiglianti ai tenerelli germiOnde s'aggrappa la pieghevol viteAl vicin olmo, ondeggiano, e son quasiDi quell'appoggio, ond'ella ha d'uopo, il segno.Gentil impero ei prende, ella gliel cedeIn ritrosetto amabile sembiante,E quel modesto orgoglio e quelle molliRipulse e quegl'indugi assai più dolceFanno il suo consentir. Nè delle membraVeruna parte allor geloso ammantoCopriva ancor, nè la vergogna reaNè questo infame onor ne' petti umaniEra entrato per anco. Onor! Pudore!Figli di Colpa, di virtude infinitaVane ombre e larve ingannatrici, ahi comeTutto avete quaggiù turbato e guasto!Come sbandiste dall'umana vitaQuant'ella avea di più vitale ed almo,Schietto candore ed innocenza pura!

Nuda così le belle membra e senzaTemer lo sguardo d'Angelo o di Dio,Tenendosi per man, tra l'erbe e i fioriSen giva errando quella coppia, in cuiReo pensiero non cade; amabil coppia,Fra quante in dolci maritali amplessiDipoi ne strinse amor, la più gentile;Egli il più bel di tutti i figli suoi,Di tutte le sue figlie ella più vaga.

Sotto un ombroso susurrante gruppoDi arbori, in mezzo al verde smalto, e pressoD'un fresco fonte essi adagiârsi, e tantoSol d'opra speso al bel giardino intornoQuanto più grate le aleggianti aurette,Più soave il riposo a far bastasseE de' cibi e del ber più vivo il senso,Della lor cena a saporar si dieroL'ambrosie frutta che i curvati rami,Lungo il molle sedil tutto vestitoDi tener'erba e di fioretti sparso,Offrir pareano in volontario omaggio.Ne spremean essi la soave polpa,E nella cava scorza il colmo rioQuindi attingean; nè lusinghier sorrisoFra lor mancava o parolette accorte,O cari vezzi, o giovanili scherzi,Qual si conviene a bella coppia in dolceConiugal nodo avvinta e sola. IntornoFestosamente givanle ruzzandoQuanti animai, dipoi feroci e crudi,

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Fuggiro ad abitar erme foresteE boschi e tane. In carezzevol attoFra le sue branche dondola il lioneIl tenero capretto; ed orsi e tigriE linci e pardi insiem giulivi e mansiSaltabellano intorno. Il lento e graveElefante fra loro ogni sua provaA sollazzarli tenta, e attorce e snodaIn cento guise la volubil tromba.L'astuto serpe in tortuose spireCheto e leggier s'avvolge, e di sue frodiDà inosservato segno. Altri sull'erbaAccovacciati stannosi, e satolliGuatan con occhio immoto; altri a sdraiarsiLenti, lenti s'inviano e il preso ciboVan ruminando. Ver l'occaso intantoBassato il sol precipitava il corso,E messaggiere della sera omaiNella lance del ciel sorgean le stelle,Quando Satán tuttor, qual prima, immotoPer lo stupor, ricoverando alfineLa smarrita favella, in questi accentiAngoscioso proruppe: Oh inferno! Oh rabbia!E fia ver quel ch'io miro? Appresso tantoInnalzati a quel ben ch'era già nostroCostor son dunque, di novella tempraStrano lavor che della terra forseUscio? costor non Spirti al certo, eppureAi rifulgenti Spiriti del cieloSomiglianti così? Quant'io dappressoPiù li vo riguardando, in me maggioreSorge la meraviglia, e a mio dispettoAmarli anco potrei: tanta risplendeIn lor celeste somiglianza, e tantaGrazia e beltà nei lor sembianti ha sparsoLa man che li creò! Coppia gentile,Ah tu non sai quanto a cangiarsi è pressoLa sorte tua! come dispersi andrannoBentosto i tuoi diletti, e del doloreTant'aspro e amaro più, quant'or più dolceÈ questo tuo gioir, preda sarai!Tu sei felice, è ver, ma saldo schermoTu non avresti, onde durar felice:No, qual doveasi, quest'eccelso ed almoSoggiorno tuo non fu munito e cintoDa ripari bastanti a tener lungiTal nemico ch'entrovvi. In te non tuttoVôlto è l'odio però che il sen m'attosca,E ancor pietà di te meschina avreiBench'io pietà non trovi. A stringer vengoScambievole amistà, scambievol lega

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Forte così che in avvenir tu debbaViver meco in eterno od io con teco.Gradito al par di questo bel giardinoForse a te non sarà quel mio soggiorno;Ma pur, qualunque siasi, in esso accogliL'opra del tuo Fattore: egli a me diella,Io volentier te l'offro. A voi davanteL'ampie sue porte schiuderà l'inferno,E con gran festa manderavvi incontroTutti i suoi re. Non somigliante a questiBrevi confini, ma capace e vastoSarà quel loco, a ricettar bastanteIl grande stuol de' vostri figli tutti;E se miglior non è la stanza, a luiGrado n'abbiate che su voi mi sforzaImmeritata ad eseguir vendettaDi quell'ingiurie, onde sol egli è reo.Pietà mi desta l'innocenza vostra,Ma la pubblica causa, i torti atrociCh'io deggio vendicar, di questo nuovoMondo la omai vicina ampia conquista,L'onor, la gloria, mio malgrado ancora,Spingonmi a quello, ond'io, sebben laggiusoDannato eternamente, orrore avrei.

Così parlava quel maligno, e i suoiInfernali disegni iva scusandoColla necessità, discolpa usataSul labbro de' tiranni. Indi dall'altaCima ov'egli posava, a vol si gittaFra lo stuol sollazzevole di tantiQuadrupedi animali, ed or dell'uno,Ora dell'altro, qual conviensi meglioAl suo proposto, le sembianze prende.Più da vicino rimirar sua predaEi può così, così spïarne i dettiE gli atti inosservato, e aver contezzaDi lei più certa. Or con fiammanti luci,Fatto leone, le passeggia intorno,Ed or qual tigre che scherzar sul pratoHa scorto a' caso due cervetti e correAd acquattarsi presso lor, poi s'alzaE sceglie il suo terren, cangia gli agguati,Onde con slancio più securo entrambiNell'una e l'altra branca insiem gli afferri.

Con Eva intanto Adam favella, e quegliTutto vér loro si protende, e sembraChe drizzi mille orecchie al suon novello.

O sola, Adam diceva, o sola in tantiPiacer compagna mia, tu che più caraMi sei di tutti, ah! quel sovran SignoreChe noi fece e per noi quest'ampio mondo,

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Infinità bontà certo congiungeAd infinita possa, e de' suoi doniÈ liberal come infinito. Ei fuoraDella polve ci trasse, in questo amenoDi gioia albergo egli ci pose; e qualiFur seco i merti nostri, o che possiamoIn cambio offrirgli ond'uopo egli abbia? È soloPer tante grazie sue tal ci richiedeProva di servitù che in ver più lieveEsser non può per noi. Fra tanti e tantiDi dolcissime frutta arbori carchi,L'arbor della Scïenza ei sol ci vieta;Quel solo ei vieta che vicino sorgeAll'arbor della Vita: appresso tantoSta la vita alla morte! E checchè siaLa morte, al certo spaventevol cosaElla esser dee; chè Dio, tu ben lo sai,Dio minacciolla a chi gustare il fruttoDi quell'arbore osasse, unico pegnoDi nostra ubbidïenza in mezzo a tantiImpressi in noi di signoria, d'imperoSplendidi segni sovra quante il suoloE l'onda e l'aere creature alberga.Un sì leggier divieto, Eva diletta,Potrìa duro sembrarci allor che tantoAmpia ed intera libertà concessaN'è sovra ogni altra cosa, e di sì variDiletti abbiam la scelta? Ah! no: s'esaltiDunque da noi con sempiterne lodiQuell'infinita sua bontade, e il caroLavor che ci affidò, seguasi intantoDi crescer questi fiori e tôrre il troppoRigoglio a queste piante. È dolce l'opra,Ma se grave anco fosse, ognor mi foraGioconda e bella al fianco tuo. Sì disseAdamo; ed Eva: O tu, per cui, rispose,E di cui mi formò la man superna,O mia guida e signor, carne primieraDi questa carne mia, tu, senza cuiUn'opra vana e di disegno privaFora stato il crearmi, ah! sì, ben giustoE verace è il tuo dir: a Dio dobbiamoEterne lodi, eterne grazie, ed ioPrincipalmente, io che il destin più belloGodo in goder di te che tanto seiDi me maggior, mentre compagna egualeTu a te medesmo ritrovar non puoi.Spesso quel giorno mi ritorna a mente,In ch'io riscossa da profondo sonnoLa prima volta, in grembo ai fior distesaMi trovai sotto l'ombra, e dov'io fossi

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E chi mi fossi e da qual loco e comeIvi recata, attonita men givaRicercando fra me. Di là non lungeUn mormorío da cava rupe uscìaD'acque sgorganti che più giuso in chiaroLiquido pian si distendeano, e immoteStavano e pure come un ciel sereno.Con pensiero inesperto io là m'invio,Seggo sul verde margo, e al liscio e tersoLago m'affaccio che pareami un altroLucido firmamento. I lumi appenaIo chino a riguardar che incontro appuntoNell'acquoso chiarore ecco una formaM'appar che inchina mi riguarda. IndietroIo balzo, indietro ella pur balza: io lietaTosto colà ritorno, e lieta anch'essaTosto ritorna e a' guardi miei rispondeCon guardi vicendevoli, spirantiPari amor, pari brame. Ivi tuttoraTerrei fisi quest'occhi e in van desìoMi struggerei, se un'amorosa voceCosì non m'avvertìa: quel ch'ivi scorgi,Creatura gentil, quel ch'ivi ammiri,È il tuo sembiante stesso; ei teco viene,Teco sen va. Ma seguimi, e tua scortaSarò là dove il tuo venir e i tuoiTeneri amplessi non attende un'ombra,Ma tal, di cui tu se' l'imago. In dolceInseparabil nodo a lui congiuntaVivrai beata, un'infinita stirpeUscirà dal tuo fianco, e sarai dettaDell'uman gener madre. Io tosto (e ch'altroPotev'io far?) quell'invisibil guida,Ove m'invita, seguo, e te discoproSotto l'ombra d'un platano, te belloE maestoso in ver, ma pur men vago,Vezzoso men, men lusinghiero e dolceDi quell'ondosa imago. Indietro io torcoAlla tua vista il passo, il passo affrettiTu allor vér me gridando: ah! perchè fuggi?Ritorna, Eva gentil, t'arresta, o cara;Ah! da me fuggi, e mia tu sei; tu seiMia carne ed ossa: io dal mio lato fuori,Dal lato al cor più presso, a darti vitaIo la sostanza porsi, onde tu posciaIl mio conforto e 'l mio diletto fossi,Dal mio fianco indivisa: io te ricerco,Parte dell'alma mia, te chiedo e voglioQual altra mia metà. Con gentil attoNella tua la mia man prendesti allora,Ed io m'arresi, e da quel punto intendo

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Quanto sia vinta femminil beltadeDa viril grazia e da saggezza, in cuiSol sta vera beltà. Così dicendo,La nostra madre universal, con occhiRaggianti un puro ardor, tenera e dolceSopra del nostro genitor primiero,Per metade abbracciandolo, appoggiossi;E con metà del colmo ignudo seno,Sol adombrato dalle sciolte trecceSotto l'oro ondeggiante, a incontrar venneIl sen di lui. Da quelle grazie umíliE da tanta bellezza Adam rapito,Con amorosa maestà sorrideAlla sua sposa, e con soavi baciPreme le caste labbra. In tale aspettoSorridente a Giunon dipinto è Giove,Quand'ei le nubi che di maggio i fioriSpargon sul suol, feconda. Il guardo altroveIl rio Demon punto d'invidia torse;Pur con gelosa rabbia indi tornolliA sogguardar traverso, e il suo doloreEsalò in questi detti: Oh tormentosaVista! Oh vista abborrita! In braccio dunqueL'un dell'altro costor, di gioia in gioiaPassan l'ore felici, ed io dannatoSon per sempre laggiù, donde i piaceriE amore han bando eterno, e dove un crudoNon appagato mai desìo bollenteFra tanti altri martír ne cruccia e strugge?Ma non s'obblii quel che dal loro incautoLabbro raccolsi. In lor arbitrio il tuttoQui non è dunque; un arbore fataleVietato è lor, che del Saper si noma.Che! vietato il saper? Iniqua leggeChe gelosia dettò! Quel lor SignorePerchè tal pregio ad essi invidia? E fiaColpa il saper? pena la morte? soloIgnoranza li regge e in essa è postaLa lor felicità? quest'è di loroUbbidïenza e di lor fè la prova?Oh! quale scorgo agli artifizi mieiEd alla lor ruina aperto campo!Fervida del saper dunque s'accendaIn lor la brama, e gl'invidi comandiTraggansi a disprezzar che il sol disegnoDi tener ligi quei che al par de' NumiLa scïenza ergerebbe, ha lor prescritto.Spinti da tal desìo gustino il fruttoE con esso la morte. Esser diversoL'evento ne potrìa? Ma tutto intornoQuesto giardin prima s'indaghi, e niuna

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Più chiusa parte inosservata resti.Forse condur colà potrammi il casoOve in qualche celeste errante SpirtoChe presso un fonte o all'ombra delle pianteStia soletto, io m'avvenga e da lui traggaQualche miglior contezza. Or vivi, intantoChe il puoi, felice coppia; in fin ch'io torni,Affrettati a goder; di lunghi guaiGià s'avvicina inevitabil corso.

Disse, ed il piè di là sdegnoso, alteroTorse, ma gli occhi rivolgendo intornoSagaci, intenti, e selve e colli e valliA cercar diessi. Per l'estreme vieLà dove il ciel coll'oceán confina,Lento scendeva intanto il sol cadente,E co' suoi vespertini opposti raggiDel Paradiso saettava appuntoLa porta orïental. Fino alle nubiUn'ardua rupe d'alabastro ell'eraChe fea di sè lontana mostra, e soloAvea da terra un accessibil varcoChe salìa tortuoso all'erta cima.Era il restante aspra, scoscesa balzaD'impossibil salita, e qual pria surse,Spaventosa pendea. Del masso apertoFra i gran pilastri Gabrïello, il DuceDelle angeliche guardie, assiso stavaAspettando la notte. A eroici ludiS'esercitava intorno a lui l'inermeGioventude del ciel, ma pronti all'uopoPendean là presso per gran gemme ed oroRaggianti, eterei scudi e usberghi ed elmiEd aste e spade. Ivi Urïel, scorrendoSovra un raggio del sol per l'aria fattaGià mezzo bruna, rapido discese;Come in autunno, quando è carco il cieloD'ignei vapori, spiccasi taloraE con lucido solco il sen dell'ombreFende una stella che al nocchiero, intentoSovra l'indica pietra, il punto insegnaOnde più l'ira ei dee temer de' venti.Sollecito Urïel così rivolgeA Gabrïello i detti: In sorte avesti,O generoso Gabrïel, l'incarcoDi star di queste mura a guardia ed ogniInsidia allontanarne. Or odi: un SpirtoSul pien meriggio alla mia sfera è giuntoIn questo dì, che di conoscer meglioL'opere uscite dall'eterna manoStudïoso mostrossi e sovra ogni altraL'uom che è di Dio la più recente imago.

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Tutt'ansio egli era di partir, lo instrussiDel suo cammino, per l'aereo voloRiguardando lo stetti, e là sul monteChe quinci a Borea giace e dove in primaEgli calossi, il suo sembiante io vidiFuor d'ogni uso celeste, in modi straniScomporsi e ottenebrarsi. Io d'inseguirloColl'occhio non cessai, ma sotto l'ombreEi mi disparve alfin. Qualcuno, io temo,Della sbandita ciurma, a tentar nuoveTrame, sbucò quassù dal cieco fondo.Il rintracciarlo a te s'aspetta. Ei disse,E l'altro a lui: Se dal raggiante cerchioDell'astro, ov'hai tua stanza, Angel sublime,Sì lungi ed ampiamente il guardo stendi,Stupor non è. Per questo varco poiNiun passa inosservato, e niun che appienoQui non sia noto e che dal ciel non venga;Nè alcun dopo il meriggio indi qui scese.Ma se maligno insidïoso SpirtoOltre slanciossi a queste mura, il sai,A incorporea sostanza è fral ritegnoArgin corporeo. Se però nel giroDi questo loco, in qualsivoglia formaColui s'appiatta, onde favelli, al nuovoAlbóre io lo saprò. Tanto ei promise,Ed all'ufficio suo tornò UrïeleSul raggio stesso, onde l'alzata puntaObliquamente per declive calleLo riportò nel sol caduto omaiSotto le Azorre; o sia che là nel suoDiurno giro oltra ogni creder rattoFosse trascorso quel grand'orbe, o siaChe con più breve rota invêr l'auroraQuesta terra volgendosi, il lasciasseLà sul suo trono occidentale, ond'egliTutta de' suoi color sgorga la piena,E di porpore e d'ôr pinge ed ammantaLe circondanti officïose nubi.

Già la sera innoltrava, e 'l grigio incertoSuo lume rivestìa tutte le coseD'un languido colore: a lei d'appressoIl silenzio venìa; chè augelli e belve,Quelli a' lor nidi e queste al letto erboso,Eransi tutti ricovrati. Il soloVigile rossignuol la notte interaAl bosco, all'aura intorno i suoi d'amore,Onde le taciturne ombre molcea,Ripetè soavissimi lamenti.Già di vivi zaffir tutta del cieloArde la volta, ed Espero guidante

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L'esercito stellato, in luminosaPompa s'avanza, quando alfin degli astriLa notturna reina alto levandoIn nubilosa maestà la fronte,La sua discopre incomparabil luceE dispiega sull'ombre il vel d'argento.

Ad Eva allor sì parla Adam: Quest'oraNotturna, o cara mia compagna, e questaComune requie delle cose, a noiUn simile riposo ancor consiglia.Per decreto divin fatica e giorno,Notte e riposo con vicenda alternaSuccedere si denno; e già del sonnoVien la rugiada ad aggravar con dolcePeso le nostre ciglia. Il giorno interoVan tutte l'altre creature errandoSenza incarco o pensiero, e minor uopoHan di posa perciò; ma il suo lavoroDi membra o d'intelletto all'uom prescrittoÈ giornalmente, del suo grado eccelsoNon dubbia prova e del vegliante ognoraSovra tutti i suoi passi occhio del cielo.Pria che diman la fresca alba novellaRosseggi in orïente, all'opre nostreSorger dobbiamo, all'opre usate e care.Qui questi archi fioriti e là que' verdiVïali ombrosi, ove a diporto andiamoIn sul caldo meriggio, hann'uopo assaiDi nostre cure. I rami lor cresciutiSon omai di soverchio e 'l troppo scarsoNostro lavor deludono: più bracciaSi converriano a diradare il foltoRigoglio lor. Quei gran rampolli ancoraE quelle gomme che, stillando al suolo,Fan scabro mucchio ed alla vista ingrato,Convien pure sgombrar, se tor vogliamoAl piè gl'inciampi. A riposare intantoCi fa la notte e la natura invito.

Disse, ed a lui d'ogni bellezza adornaEva rispose: O di mia vita fonte,Amato arbitro mio, dal tuo bel labbroSempre dipenderò: Dio così vuole;Tua legge è Dio, la mia tu sei. Di donnaIl più bel vanto ed il saper miglioreÈ il non saper di più. Se teco io parlo,Mi fuggon l'ore; ogni stagione ed ogniVicenda lor mi scordo, e tutto al paroTeco m'aggrada. È del mattin soaveL'auretta; è dolce il rimirar l'auroraChe sorge al canto de' già desti augelli;È bello il sol nascente allor che inaura

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Questo ameno giardin co' raggi primi,L'erbe, le piante, i frutti e i fior lucentiDi tremolanti rugiadose stille;Fragrante è il suolo appo una molle pioggia,È dilettoso di tranquilla seraIl languido imbrunir, grata la notteCo' suoi silenzj e 'l tenero gorgheggioDi questo augel melodïoso; è vagaL'argentea luna e queste fiammeggiantiGemme del cielo che le fan corona.Ma nè l'auretta del mattin, nè il cantoDe' lieti augelli, nè il nascente sole,Nè l'erbe, i tronchi, i frutti, i fior cospersiDi tremolanti rugiadose stille,Nè grato odor che dopo molle pioggiaEsali dal terren, nè della seraIl languido imbrunir, nè della notteLe tacit'ombre e il tenero concentoDi questo augel, nè della luna al raggioLenti passeggi, o scintillar di stelle,Nulla, ben mio, senza di te m'è caro.Ma perchè, dimmi, tutta notte splendeDi questi astri la luce? e per chi fattoÈ spettacol sì bello allor che il sonnoD'ogni vivente ha chiusi i lumi? O cara,Di Dio figlia e dell'uom, bellissim'Eva,Le rispondeva il comun padre, intornoA questa terra essi il prescritto corsoDall'uno all'altro sol compiendo vanno,E portano così di piaggia in piaggiaL'apparecchiata per le varie gentiAncor non nate, necessaria luce.Senz'essi sovra il negro intero mondoRipiglierebbe il suo dominio anticoLa notte universale, e fora estintaLa vita in ogni cosa. Il lor benignoFoco sottil per la natura tutta,Come il lor lume, spandesi, ne' variCorpi con vario influsso egli s'internaE fomenta e riscalda e tempra e nudreE abbella il mondo, e quanto in terra crescePrepara a sentir meglio i rai più fortiDel sol che tutto poi matura e affina.Benchè null'occhio li rimiri, invanoNon splendon gli astri dunque, e, senza noi,Non creder già che spettatori al cieloMancassero ed omaggi ed inni a Dio.Mentre dormiam, mentre siam desti, errandoSpiriti innumerabili sen vannoPer ogni dove, al nostro sguardo ascosi,E notte e dì con incessanti lodi

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Contemplan l'opre sue. Quanto soventeDal folto de' boschetti o dalle cimeDegli echeggianti colli, in mezzo all'altoSilenzio angusto di tranquille notti,Non abbiam noi celesti voci udite,O sole o alterne, al Creator supremoCantar inni devoti? e quanto spessoIntere squadre di quei Spirti, o mentreStanno a lor guardie o van scorrendo in ronda,Alle soavi note in pieno coroUnendo il suon di lor celesti lireSi dividon la notte, e dolcementeLevan di terra al ciel nostro intelletto!

Così parlando, se ne gían soletti,Tenendosi per man, verso il feliceAlbergo lor che Dio medesmo aveaScelto e piantato allor che in prima all'usoE al diletto dell'uom tutto dispose.Strettamente intrecciati allori e mirtiE qual più cresce altr'arbore di salde,Ampie e fragranti foglie il denso ombrosoTetto ne feano; e il flessuoso acantoCon ogni arbusto più odoroso e foltoNe tessean quinci e quindi i verdi muri.L'iri, la rosa, il gelsomino ed ogniPiù vago fiore ergean le fresche e lieteCime e pingeano le pareti intornoDe' più leggiadri fregi: il suol smaltavaLa violetta, il croco ed il giacintoDe' più vivaci e gai color che al guardoOffrisse mai per ingegnosa manoDi varie e vaghe pietre insiem contestoSplendido pavimento. In sì bel locoPenetrar non osava augello o belvaO insetto alcun: tal riverenza alloraTutti aveano per l'uom! Non mai più sacroSolingo, dilettevole boschettoPane o Silvano o Fauno o Ninfa accolseIn favolosi canti. Eva, novellaSposa, di molli ed odorose erbette,Di fiori e di ghirlande ornò la primaIl nuzïal suo letto, e dalle sfereIntuonâr l'imeneo celesti CoriNel fortunato dì che al primo padreGuidolla il pronub'Angelo più adornaIn sua nuda beltade e più vezzosaDi quella un dì favoleggiata e colmaDe' doni degli Dei fatal Pandora(Troppo ad Eva simíl nel tristo evento)Quando da Erméte al malaccorto figlioDi Giapéto condotta, ella i mortali

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Allacciò co' suoi vezzi e fe' vendettaDell'involato al ciel foco primiero.

Giunti all'ombrosa chiostra, ambo fermârsi,Ambo dier volta, e sotto aperto cieloAdoraron quel Dio che il ciel, la terraE l'aere e 'l firmamento e della lunaIl lucid'orbe e le stellanti roteTrasse dal nulla. E tu la notte ancoraFesti, o supremo Fabro, e festi il dieCh'or nell'opra commessa abbiam fornito,Nell'aïta scambievole felici,Felici appieno in questo mutuo amore,Che tu medesmo c'imponesti e tuttiI tuoi favor corona. A te pur ancoQuesta dobbiam delizïosa sedeTroppo ampia per noi soli, e dove i doniIn sì gran copia da te sparsi hann'uopoDi chi nosco li goda e al suolo intantoCaggion non colti; ma dal nostro dolceNodo, tu il promettesti, immensa debbeUscir progenie a popolar la terraChe il tuo poter, la tua bontade esaltiInsiem con noi quando il nascente soleAll'opre ci richiami, e quando al sonno,Soave dono tuo, facciano invito,Com'ora, le cadenti ombre notturne.

Così dicean concordi, ed altro ritoNon seguitando che i devoti e puriSensi del core, a Dio più ch'altri accetti,Ambo per mano, al bel segreto albergoSi miser dentro, e dall'impaccio scevriDi questi nostri abbigliamenti, a latoL'un dell'altro si giacquero, nè volseLe spalle Adamo alla gentil sua sposa,Se ben m'avviso, nè gli arcani ritiEva sdegnò del coniugale amore.

Salve, almo nodo coniugal, divinaMistica legge, salve, o nobil fonteDell'umana progenie e solo beneChe proprio fosti in paradiso e in mezzoAll'altre cose tutte in pria comuni.Dagli uomini per te fra i bruti errandoIl cieco andò libidinoso ardore;Strette per te, per te in ragion fondateLe care parentele in prima furo,E di padre e di figlio e di fratelloUditi i dolci affettuosi nomi.Sempre il mio labbro e la mia penna sempreTue lodi innalzeran, viva sorgenteDi sincere domestiche dolcezzeE santa e pura anco fra noi, qual fosti

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Ne' prischi dì fra i Patriarchi e i Santi,Salve, almo nodo coniugal; tu seiSegno agli aurei d'amor più scelti strali;Ei sol per te la sua durevol faceAccende, ei sopra te lieto s'aggiraSulle purpuree penne; ei teco regna,Teco gioisce; non di Taidi e FriniNel compro riso e nei bugiardi vezzi,Non fra l'orgie e le maschere procaci,Non fra 'l tumulto di notturne danze,Non nelle infette Corti o nei dolentiVersi che della luna al freddo raggioL'assiderato amante all'aura spargePer la bella tiranna, assai più degnaD'abbandono e di scherno. - Al dolce cantoDe' rossignuoli, l'un dell'altro in braccioS'addormentâr gli sposi, e sulle ignudeLor membra intanto dal fiorito tettoUna pioggia scendea di molli roseChe rinnovò l'alba vegnente. Oh! dormi,Dormi, coppia beata, appien felice,Se più felice esser non cerchi, e apprendiA non saper di più! Ma già la notteDella celeste vôlta ascesa al mezzo,L'ombre spargea dall'alto, e fuori uscitiPer le notturne guardie all'ora usataI Cherubini sull'eburnea portaIn bell'ordin guerrier stavano armati,Quando a lui ch'appo sè là tien l'impero,Gabrïel così disse: Esci, Uzzïello,Colla metà di questi, e attento e destroCosteggia l'austro: l'aquilon percorraL'altra metade, e all'occidente entrambeSi raffrontino poi. Ratta qual fiamma,Si divide la schiera, altri allo scudo,Altri all'asta girando. Indi a due prodiSagaci Spirti che gli stanno appresso,Ei sì comoda: Iturïel, Zefóne,Le preste ali spiegate, e niuna sfuggaDi questo loco più segreta parteAlle ricerche vostre; e là più ancoraSpïate attenti ov'or del sonno in braccioQuelle due vaghe creature stannoSciolte d'ogni timor. Celeste messo,Qui giunto a sera, d'aver visto narraUn de' rei Spirti che le sbarre infranteChi 'l crederia? d'inferno, a questa voltaCon qualche a lui commesso empio disegnoSe ne venía: costui cercate e presoQui lo traete. Disse, e le raggiantiSquadre che oscuran col fulgór dell'armi

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Il fulgór della luna, ei mosse. AndaroDritti al boschetto i due campioni, ed iviDi lurido in sembianza immondo rospoAcquattato trovaro il fier nemicoD'Eva all'orecchio. Con diabolic'arteEi della mobil fantasia procacciaGli organi penetrarle, e a suo talentoDestarvi immagin strane e larve e sogni,O con alito infetto i tenuti spirtiChe, qual da chiaro rio sottili aurette,Sorgon dal puro sangue, irle spargendoD'atro veneno, e generar scontentiEgri pensier così, speranze vane,Vani disegni e stemperate brameD'un cieco superbir tumide e calde.Lui tutto intento all'opra rea coll'astaIturïello leggiermente punse;E, poichè al tocco di celeste tempraSparisce ogn'arte ed ogni inganno, e riedeTosto ogni cosa al suo verace aspetto,In sua forma infernal s'alza repenteSovrappreso Satán. Così se volaSul negro acervo di sulfurea polveChe pronta sta per minacciata guerra,Una lieve scintilla, in aere a un trattoScoppia converso in vasta orribil fiamma.

Da stupor côlti all'improvvisa vistaDel truce Re balzâr gli Angeli addietro;Ma il serran tosto intrepidi, e: Chi seiTu di quegli empi nell'abisso spinti?(Lo richiedon crucciosi), e come osastiSottrarti al carcer tuo? Che fai? Che tentiQui trasformato e vigile all'orecchioDi chi tranquillo dorme? A voi son io,Satán ripiglia dispettoso, a voiDunque ignoto son io? Lo credo: innanziA me che tanto sopra voi sedea,Mai non aveste d'apparir l'onore.Il non mi ravvisar secura provaÈ che di quello stuol voi ciurma siete.Ma se lassù del Signor vostro in CorteVoi mi vedeste un giorno, a che la vanaDimanda vostra? A lui Zefón con schernoRibattendo lo scherno: E che! risponde,Le stesse ancor le tue sembianze credi,Spirto ribelle? E quel fulgór che in cieloTe puro e fido circondava, ancoraTi pensi aver? No: quella gloria insiemePerì colla tua fè; del tuo delittoE del carcere tuo l'orrore in fronteOr soltanto ti sta. Ma vieni, a lui,

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Che invïolati di serbar c'imposeQuesti bei lochi e questa coppia illesa,Debita renderai ragion severa,

Disse, e in quel suo rimproverar feroceIl vago scintillò giovin sembianteDi grazia insuperabile. SmarrissiSatáno, e quanto la bontà tremendaE augusta sia, sentì; vide in sua formaQuanto è amabil virtù; videlo, e tristoDi sua perdita fu, ma più l'afflisseIl ritrovarsi agli occhi altrui sì scemoDell'antico splendore. Audace e baldoPur tuttavia si mostra, e: Teco, dice,Eccomi pronto; al Duce tuo si vada.Se qui pugnar si dee, con lui che manda,Col messaggier non già, col Duce io DuceDeggio affrontarmi, o con voi tutti insieme:Così più gloria acquisterò vincendo,O men ne perderò, se vinto io sono.Il tuo timor, Zefón replica ardito,Or qui vieta il provar quanto di noiAnco un minimo e solo, a fronte possaDi te malvagio, e debil quindi. InvasoD'alta rabbia Satán più non risponde,Ma qual fero corsier che il duro morsoRode, superbo s'incammina: ei stimaIl fuggire o 'l pugnar vano del pari:Tale un terror superno agghiaccia e domaQuel cor ch'altro non teme. Omai son pressoAl punto occidental dove, trascorsoIl mezzo giro lor, giungeano appuntoI due drappelli, e in densa squadra unitiAttendean nuovi cenni. Ad essi gridaGabrïello da fronte: Ascolto, amici,Vêr noi di piede un calpestìo frequente,E già Zefóne e Iturïel discernoPel dubbio lume fra quell'ombre. Un terzoCon lor s'avanza di real presenza,Ma di scemo splendor, che agli atti, al truceSembiante par d'inferno il Prence: altroveEi non vorrà di qui torcere il passoSenza contesa, e torve e arcigne io scorgoSue ciglia già: voi saldi state. AppenaEgli finì che i due colà fur giunti,E in brevi detti chi traeano, e dove,In qual opra, in qual atto, in qual sembianteDa lor fu colto, raccontaro. A luiCon fero sguardo Gabrïel sì disse:Perchè il confine al tuo fallir prescritto,Satán, rompesti, e qui nel loro incarcoVieni quelli a turbar che fidi stanno

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Contro il tuo fello esempio? A noi s'aspettaAver di tanta audacia or qui ragione,E delle insidie che tramando staviA quella coppia in dolce sonno immersa,E che in questo felice almo soggiornoLocata ha Dio. Con dispettoso ciglioRisponde a lui Satán: Di saggio in cieloTu stima avevi, o Gabrïello, e taleIo già ti tenni pur, ma quel ch'or chiedi,Dubitar me ne fa. Dov'è coluiCh'ami le pene sue? Chi non vorrebbe,Trovandone la via, scampar d'Averno,Ancorchè là dannato? E tu, tu stessoRomper non cercheresti i lacci tuoiE audacemente avventurarti ovunqueFossi più lungi dalla pena, e doveDi scambiar col riposo i tuoi tormenti,E col gioir più pronto il duol passatoRicompensar sperassi? Ecco quel ch'ioQui ricercai. Ma forse a te che soloConosci il ben nè mai provasti il male,Or parlo invan: la volontade in fineDi quei che là ci confinò, m'opponi:Ebben; munisca di più salde sbarre,Se in quell'atra prigion guardarci intende,Le sue porte di ferro. A tue dimande,Ecco le mie risposte: il resto è vero;Ov'essi han detto, mi trovâr; ma quindiVorresti tu di vïolenza o trameDunque accusarmi? Con amaro schernoEi sì parlava, e l'Angelo guerrieroSdegnosamente sorridendo: Oh! disse,Qual danno in ciel, dacchè Satán ne cadde,Satán, l'esperto estimator di saggi,Eppur di là per sua follia sbalzato!Ei dal suo carcer fugge, e in dubbio stassiOr gravemente se sia saggio o folleChi dell'audacia sua ragion gli chiedeE degl'infranti suoi limiti inferni!Cotanto savia cosa ei stima al suoDolor sottrarsi, al suo gastigo! e poiD'accrescerli non cura! Or resta, iniquoSpirto superbo, in tuo pensier fintantoChe di fiamma settemplice avvampandoL'ira superna, alla tua fuga in mezzoNon ti raggiunga, e negli abissi al suonoDel suo flagel terribil non ripingaQuest'alto senno tuo, che ancor non seppeCome pena non avvi che all'accesoD'un infinito Dio furor s'adegui.Ma perchè qui tu sol? perchè non venne

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Tutto con te lo scatenato inferno?Men aspro è il duol pe' tuoi compagni, o menoAtto al soffrir se' tu? Valente DucePrimo a fuggir dal duol, se alle tue schiereCotal ragion di fuga avessi addotta,Qui senza fallo il disertor tu soloOr non saresti. - Con un torvo sguardoGli risponde Satáno: Al par d'ogni altroIo soffrir so, nè sbigottisco al duolo,Angelo insultatore, e ben per provaSai se fero lassù m'avesti incontra,Allorchè in tuo favor la ruïnosaFolgore velocissima discese,E all'imbelle asta tua soccorse all'uopo.Ma i tuoi pur sempre vaneggianti dettiMóstranti ignaro assai di ciò ch'a espertoE fido capitan dopo le durePassate prove e disastrosi eventiFar si convenga, onde a perigli ignotiLa somma delle cose ei non esponga.Quindi d'abisso a valicar gl'immensiDeserti io solo, io sol m'accinsi e questoNuovo mondo a spïar, di cui non taceAnco laggiù la fama. Io dar qui speroMiglior albergo in terra o in aere a' mieiInfelici compagni, ancor ch'io deggiaIn tal conquisto far novella provaDi ciò che tu, di ciò che ardiscan queste,Incontro a me, tue leggiadrette schiere;Di cui più facil fora e degno incarcoServir lassuso al lor Signor, cantargliInni devoti intorno al trono, e starsiFra prescritte distanze umili e inchiniChe trattar l'asta e 'l brando. - A lui rispondeTosto l'Angel guerrier: Dire e disdirsi,Saggio vantarsi sfuggitor di pene,Quindi un abbietto esplorator, conviensi,A Duce, dimmi, o di menzogne e frodiAd un maligno artefice? E di fedeTu favellar potesti? O sacro nomeDi fede profanato. E a cui tu fido?A quella iniqua abbominevol, vileTua ciurma di ribelli, adatto corpoDi capo tale? Oh! rara fede è quellaFra voi giurata appunto allor che al vostroSupremo re da voi rompeasi fede,Ed apparir di libertà campione,Mostro d'ipocrisia, vorresti adessoTu che sì basso il guardo, umil la fronte,Più che alcun altro, alla presenza augustaDel Re del ciel portavi? E perchè, dimmi,

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Se non per torgli il trono e por te stessoIn vece sua? Ma quel ch'io dico, or notaVa, là rifuggi onde fuggisti; se osiPiù in questi comparir sacri confini,Con mille giri di catene avvintoGiù ti strascino al tuo baràtro, ed iviTi conficco così che a scherno posciaNon avrai più di quelle porte maiLe troppo lievi sbarre. - Ei sì minaccia;Ma di minacce il fier Satán non cura,E di più rabbia acceso. - Allor, soggiunge,O gran custode di confini e porteAltero Cherubin, parla di ceppiQuand'io sia tuo prigion. Benchè sì spessoCodeste alate spalle tue cavalchiIl Re del cielo, e 'l trionfal suo carroCogli altri tuoi compagni al giogo avvezzi,Per quelle vie d'astri smaltate, in giroTu strascini lassù, ben altro pesoDa questo braccio poderoso adessoAspettati a sentir. - Mentr'ei dicea,Il rifulgente angelico squadronePiù che fiamma si fe' corrusco e rosso,Ed in sembianza di crescente lunaAguzzate le corna, intorno il prendeAd accerchiar coll'aste in resta. In riccoCampo folta così torce la messeL'irte crestute cime ove le spingeGagliardo vento, e 'l buon bifolco intantoRiguarda e teme che sol triste paglieLascin sull'aia poi le vôte spiche.

Nel gran rischio Satán, tutta raccoltaL'estrema possa sua, grande ed immotoSta qual Atlante o Teneriffe; agli astriGiunge sua mole, e in sulle nere penneDel gran cimiero lo spavento ondeggia;Nè di lancia la man, di scudo il braccioSforniti son. Terribile conflittoGià fra lor cominciava, e all'urto orrendoL'Eden non sol, ma la siderea vôltaForse del ciel crollato avrebbe, o tuttiDi questo mondo gli elementi almeno,Naufraghi e sciolti, nel disordin primoSaríen tornati, se repente in cieloNon sospendea l'onnipossente destraQuell'aurea lance ch'ivi ancor fiammeggiaFra lo Scorpio ed Astrea. L'Eterno in essaLibrò da prima ogni creata cosaE le sfere e la terra e l'aria e 'l mare,E in essa libra ancor battaglie e regniEd ogni evento di quaggiù. Due pondi

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Or su v'impose, un di battaglia segno,L'altro di fuga e a Gabrïel n'ascrisseL'uno, l'altro a Satán: rapido alzossiQuesto e l'asta toccò. Ciò mira e diceL'Angelo all'empio Spirto: Io la tua possa,Satán, conosco, e tu la mia, non nostre,Ma sol di lui che le ci diè; che giovaL'armi tentar, se quanto sol permetteIl ciel, vale il tuo braccio e vale il mio,In cui dall'alto ora cotal s'infondeDoppio vigor ch'io sotto i piè qual fangoCalpestarti potrei? Solleva in provaColassù gli occhi a quel celeste segno,E vedi quanto debole e leggieroTu sei, se a me resister osi. - Il guardoLeva Satáno e vede alto balzataLa lance sua; nè più, ma via sen volaRabbiosamente mormorando, e secoSi dileguano insiem l'ombre notturne.

LIBRO QUINTO

Allo spuntar del giorno Eva racconta ad Adamo un sogno che l’ha turbata nella scorsa notte. Egli, benché lo ascolti con dispiacere, pur la consola; e quindi escono ambedue a prender cura del giardino. Loro cantico mattutino sulla soglia dell’albergo. Dio per tôrre all’uomo ogni scusa, manda Rafaello ad ammonirlo di non partirsi dall’ubbidienza, di far buon uso della sua libertà e di stare in guardia contro il suo nimico; a scoprirgli in fine quanto può essergli utile di sapere. Rafaelo scende nel paradiso. Sua comparsa. Adamo lo scorge di lontano, gli va incontro e lo conduce alla sua dimora, ove lo invita al suo pranzo. Rafaelo eseguisce gli ordini avuti, avverte Adamo del suo stato e del suo nemico e gli espone chi questi sia: gli narra il principio e la cagione della guerra avvenuta in cielo e come Satáno strascinò seco le sue regioni verso la parte Aquilonare e le spinse a ribellarsi, eccettuato il solo Abdiello, zelante Serafino che disputa contro di lui e lo abbandona.

I rosei passi per le piagge EoeInoltrava l'Aurora, e 'l verde gremboAlla terra spargea d'indiche perleQuando col giorno uso a levarsi AdamoSi risvegliò. Dell'aere al par leggieroEra il suo sonno, da temprati e puriCibi nudrito, e sol bastava a sciorloDe' fumanti ruscelli il mormorìo,Il tremolar degli arboscelli scossiDall'aura mattutina e 'l garrir lietoDe' vispi augei che d'ogni ramo uscìa.Non desta ancor con maraviglia ei miraEva, scomposta il crin, le gote accesa,Argomento di torbido riposo;

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E appoggiato sul cubito, con guardiD'amore ardenti sovra lei pendeaFiso in quella beltà che, vegli o dorma,Spira ognor nuove grazie. Indi la manoMollemente prendendole, con voceSoave, qual di Zefiro è il susurro,Sul sen di Flora, bisbigliolle: Sorgi,Sposa, amor mio, mio bene, ultimo donoE 'l più caro del ciel; svegliati, o sempreNuovo diletto mio: splende il mattino,C'invita il fresco campo, e l'ora destraNoi perdiam d'osservar come le pianteDa noi culte germoglino, e s'ingemmiQuel boschetto vaghissimo de' cedri;Come la mirra e 'l balsamo distilli,Di quai color la terra e 'l ciel si pinga,E come l'ape su pe' fior novelliSi posi e sugga il liquido tesoro.

A que' bisbigli ella destossi, e vôltiIn Adam gli occhi paurosi, al senoLo strinse e disse: O solo in cui riposoTrovano i miei pensier, mia gloria e miaFelicità, con qual piacer riveggoIl tuo sembiante e la risorta aurora!Chè questa notte (ah! simil notte unquancoNon trascorsi finor) sognai, se pureUn sogno fu, non già, qual spesso io soglio,Di te, dell'opre del passato giorno,O di quelle che andiam pel nuovo soleDivisando fra noi, ma un torbo e tetroSogno fu il mio, qual non s'offerse primaAl mio spirto giammai. Presso l'orecchioUna voce gentil (la tua mi parve)Fuori a diporto m'invitò: Tu dormi,Eva? diceami quella voce; ah! vieni:Piacevol, fresca, taciturna è l'ora,Se non che il vigil gorgheggiante augelloRompe il silenzio della notte e spargePiù dolci all'aure i suoi sospir d'amore.Più chiaro il lume suo versa dal pienoOrbe la luna e vagamente ombreggiaLa faccia delle cose. A che sì bellaVista, se alcun non la riguarda? Il cieloCon tutti gli occhi suoi perchè si vegliaSe non per mirar te, che l'amor seiDella natura tutta, e ovunque volgiL'almo degli occhi tuoi fulgór sereno,Desìo, diletto e maraviglia inspiri?Ratta io mi levo a quella voce, comeFosse la tua, ma te non trovo, e i passiVolgendo a ricercarti, mi parea

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Soletta e dubitosa andar per vieChe d'improvviso guidanmi alla piantaDel vietato Saper; bella apparivaAll'avvinto pensier, più bella assaiChe non m'appar nel dì: mentre mirandoLa sto meravigliata, ecco mi sembraVeder a lei vicino un che all'aspettoColor somiglia ed alle gemin'aliChe noi veggiam dal ciel venir qui spesso.D'ambrosia le sue chiome eran stillanti,E su quell'arbor fise anch'ei tenendoLe desïose luci: O vaga pianta,Dicea, di frutti sovraccarca, or comeD'alleggerirti il peso alcun non degna,Non Dio, non uomo, e l'alma tua dolcezzaAssaporar? Così spregiato e vileDunqu'è il Saper? qual mai divieto è questoSe non quel dell'invidia? Eh, lo divietiChiunque vuolsi; il sommo ben che m'offri,Arbor gentile, alcun non fia che a lungoPiù mi ritardi. E perchè qui locatoSaresti tu? Ciò detto, ei non ristassi,Stende l'ardita mano, il frutto spicca,L'ammira, il gusta. A quel parlar audaceCui l'atto reo succede, un freddo orroreTutte mi ricercò le vene e l'ossa;Ma quei gioioso ed esultante: Oh! disse,Frutto divin, per te medesmo dolce,Ma così colto ancor più dolce e soloVietato, come appar, perchè di NumiSe' proprio cibo, e perchè insiem possenteGli uomini in Numi a trasmutar tu sei!E perchè dato agli uomini non foraDivenir Dei? Quant'è più sparso il bene,Tant'ei più cresce e più d'onor n'acquista,Senz'alcun danno, l'amor suo. Deh! vieni,Eva leggiadra, angelica Eva, a parteVienne tu pur: la tua felice sortePiù felice esser può, benchè più degnaEsser tu non ne possa; il frutto gustaE sii fra' Dei Diva tu ancor: la terra,No, tuo confin non sia: qual dato è a noi,Per gli eterei sentier tu pur ti leva,Ascendi al ciel, com'è tuo merto, e vediQual vita colassù vivon gli Dei,E quella vivi. In così dir, dappressoEi mi si fece e presentommi parteDel frutto ch'avea côlto; infino al labbroEi me lo sporse: quell'odor soaveDi tal vivo desìo tutta m'acceseChe del gustarlo (mi parea) non seppi

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Più rattenermi. Sulle nubi a voloSeco allor m'alzo immantenente, e stesaVeggo sotto di me l'immensa terra,Spettacol grande e vario! Io di sì stranoMio cangiamento, di cotant'altezzaOve mi trovo, attonita, confusaRimango; a un tratto la mia guida perdo,E giù traboccar sembrami, ed in braccioCado del sonno. Or ch'io son desta, oh quantaÈ la mia gioia in ritrovar che tuttoFu vano sogno! - Eva sì disse, e mestoAdam le rispondeva: - O di me stessoImmagine miglior, metà più cara,Tal sogno agitator del tuo riposoNon minor turbamento in me pur desta;Strano m'appar, non può piacermi, e temoChe sia figlio del mal. Ma no: che dissi?E d'onde il male? in te creata puraNiun male albergar può. M'ascolta: in noiMolte minori facoltà che serveSono della Ragion quasi reina,Il Creatore ha posto, ed è primieraLa Fantasia fra queste: ella di quantoNei cinque si ritrae vigili sensi,Imagini raccoglie, aeree formeChe la Ragion dipoi congiunge o scevra,Onde quanto da noi s'afferma o niega,Quanto si crede o sa, l'origin prende.Quando posa natura, in sua privataCella ricovra la Ragione, e alloraL'imitatrice Fantasia soventeA contraffarla destasi, ma insiemeLe antiche e nuove idee mal accoppiando,Vane chimere crea, prodigi e mostri.Di quanto noi nella trascorsa seraInsiem parlammo, in questo sogno parmiLe simiglianze rintracciar, ma inveroMolto di strano evvi commisto ancora.Non t'attristar però: chè i rei pensieriPossono per le umane e dive mentiRiprovati passar, nè macchia o biasmoLasciarsi dietro: quel che tu dormendoAbborristi sognar, non mai, lo spero,Non mai tu desta acconsentir vorraiDi porre in opra. Dal tuo sen sbandisciQuindi ogni tema, ed ogni nube sgombraDa que' begli occhi che sereni e lietiEsser solean più del mattin che spunta,Ed alla terra e al ciel sorride. Or vieni;Torniamo all'opra, fra i boschetti, i fontiE i freschi fior che dall'aperto seno

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Or t'offrono i più rari eletti odori,Di cui fer serbo nella notte. - AdamoCosì conforta la leggiadra sposaChe si rincora, è ver, ma due vezzoseLagrimette cader lascia dagli occhiTacitamente e le rasciuga tostoCo' bei capelli: altre due care stilleChe tremolanti le pendean dal ciglio,A suggere co' baci ei tosto corse,Quai d'un cor puro grazïosi segni,Di bel rimorso e pio terror sublime,

Così rasserenati il core e 'l voltoS'inviano entrambi al prato, e dell'ombrosoArboreo tetto sulla soglia in priaL'aurora e 'l sole ammirano che sopraLa fiammante quadriga, ancor a mezzoNell'onde immersa i rugiadosi raiVibrava a fior della terrestre faccia,E tutta l'ampia orïental pianuraDi quel terren felice in vaga mostraPresentava allo sguardo. Indi, sul suoloGenuflessi ed umìli, al gran FattoreL'usato lor di mattutine preciE laudi offron tributo in vario stile;Stil, che senz'arte, immeditato e caldoSol de' voti del cor, pronto discorreDalle lor labbra, or in faconda prosa,Or in sonanti armonïosi carmi,E non ha d'uopo di leùto o d'arpaChe gli accresca dolcezza. O grande, o eccelso,O fonte d'ogni bene, eterno Padre,(Eglino incominciaro) opre son questeTutte della tua destra, è tuo lavoroQuesta dell'universo immensa moleMirabilmente bella. Oh! quanto dunquePiù mirabil di lei sarai tu stesso,Tu sommo, tu ineffabile che siediTant'oltre a quelle sfere ove non giungeIl nostro infermo sguardo, e solo in questeOpre tue di quaggiù, quasi per nebbia,Trasparir lasci testimone un raggioDella suprema tua possa e bontadeCh'ogni confine, ogni pensier sorpassa!

Di lui parlate, o voi figlie di luce,Voi, che meglio il potete, alate schiereD'eterei Spirti, a cui mirarlo è dato,Voi che lassù nel sempiterno giornoGli alzate attorno al solio in lieto coroInni di gioia e cantici d'amore.

Unitevi, del cielo e della terra,Voi, creature tutte, e lui cantate

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D'ogni cosa principio e centro e fine.E tu dell'altre più lucente e vaga

Stella che chiudi l'aureo stuol di tanteNotturne faci e alla ridente auroraDi luminoso cerchio il crin coroni,Esaltalo in tua sfera or che rinasceQuesto lieto del dì tenero albòre.

O sol, che l'alma insieme e l'occhio seiDi questo vasto mondo, umile adoraLui che i raggi ti diede, e lui confessaTuo Fattor, tuo Signor: di sua grandezzaQuella ch'ei t'assegnò carriera eternaSuoni ovunque le glorie e quando spunti,E quando in mezzo al ciel t'ergi sublime,E quando in seno all'océan t'ascondi.

Luna, che incontro al sol nascente or vai,Ed or ten scosti colle fisse stelle,Fisse nel lor veloce orbe rotante;E voi, cinque altri erranti astri sereni,Che non senz'armonia movete intornoMistica danza, risonar le lodiFate di lui che l'aurea luce fuoriChiamò dal sen della profonda notte.

Aria, elementi, voi che prima proleFoste della natura, e nel perenneVostro giro moltiplice mesceteTutto e nudrite, a lui gli omaggi ancoraNel cangiar vostro rinnovate sempre.

E voi, nebbie e vapor, che grigi e foschiDai monti uscite e dai fumanti laghiFinchè i villosi margini dipintiNon v'ha con l'oro de' suoi raggi il sole,Voi pur rendete al sommo Fabro onore;E mentre il ciel di multiformi nubiV'alzate ad abbellir, mentre, discioltiIn fresche piogge, gli assetati campiScendete ad irrigare a lui porgeteNel sorger, nel cader le vostre lodi.

Voi, venti, a cui dell'aere il vasto imperoEgli divise, or ne' soavi fiati,Or nei gagliardi, il santo nome sempreRisonate di lui. D'ossequio in segnoPiegate le ondeggianti altere cime,O cedri, o pini: e voi, fontane, e voi,Limpidi mormorevoli ruscelli,Nel vostro dolce gorgogliar perenneRipetete sue glorie. O tutte voi,Alme viventi, a celebrarlo uniteLe vostre voci; e voi, canori augelli,Che il vol stendete alle celesti porte,Sulle vostr'ali e ne' cocenti vostri

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Per ogni spiaggia ite a portarne il nome,Voi che guizzate in mar, voi che la terra

Strisciate umíli o passeggiate alteri,Fatemi fè se nel mattin, se a seraD'iterar le sue lodi io cesso maiAi monti ed alle valli, ai boschi e all'acqueChe ripeterle meco omai pur sanno.

Salve, o Signor del tutto. A noi deh! sempreSii largo de' tuoi beni: e se la notteCelato avesse e intorno a noi raccoltoAlcun danno, alcun mal, com'or dileguaL'ombre il sorgente dì, tu lo disperdi.

Così pregâr quegl'innocenti, e in coreTosto rinacque lor l'usata calma:Al campestre lavoro s'affrettan quindiFra dolci rugiadette e freschi fiori,E dove piene di soverchio umoreStendon le piante e gli arboscelli i troppoVaganti rami ad infecondi amplessi,Volgon la mano emendatrice, o all'olmoSposan la vite che lo cinge intornoColle nubili braccia ed i soaviBiondi grappoli suoi gli reca in dote,Ond'ei s'adorna le frondose chiome.

In tai cure occupati, il Re del cieloCon pietà li riguarda; indi a sè chiamaRafaello, gentile, affabil Spirto,Quel desso ch'a Tobia si fe' compagnoE con securo nodo unillo a Sara,Vergine insieme e vedova di setteNel dì delle lor nozze estinti sposi.- Già udisti, Rafael (l'Eterno disse),Che, fuggito d'Averno, il fier SatánoPel tenebroso golfo in sulla terraAlfin è giunto, e in questa notte stessaNel mezzo al Paradiso insidie e danniContro quella tramò coppia innocente;E sai che in lei l'umana stirpe tuttaPerder a un tempo il perfido disegna.Va dunque, e con Adam, qual suole amicoCon altro amico, in compagnia trapassaDi questo giorno la metà là doveFuggendo del meriggio i caldi raiEgli ricovra al rezzo, e si ristoraCol cibo o col riposo. A lui favellaDel ben che gode; i ricevuti doniTu gli rammenta, e che riposta è in lui,Nel suo voler la sua felice sorte;Che il suo voler libero è appieno, e quindiAnco esposto a cangiarsi; ond'ei, fidandoTroppo in se stesso, dal diritto calle

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L'orme non torca. Il suo periglio infineNon gli tacer, nè chi lo trama; digliQual inimico, che testè dal cieloCacciato fu, va macchinando comeAltri con seco in simile ruinaDa un lieto stato simile pur tragga,Per forza no (chè fia da me respinta),Ma per menzogna e inganno. Ei questo sappiaOnde, se poscia volontario egli erra,In sua discolpa d'arrecar non pensi,Che fu sorpreso e inavvertito cadde. -

Sì Dio parlò, sì di giustizia tutteCompiè le parti. Le ordinate coseUdite appena il messaggier, dal locoDov'ei tra mille ardor celesti e milleVelato stava di stellanti vanni,Ratto e leggier spiccasi a vol: per tuttoRipartite le angeliche falangi.L'empirea via gli disgombraro: ei giugneAlla porta del ciel, che per sè stessaSovra i cardini d'ôr rapida giraE innanzi a lui spalancasi; con tantoMagistero formolla il Fabro eterno!

Colà non astro si frappone o nubeAlla sua vista, ed il terrestre globo,Per quanto picciol sia, discerne a tantiLucenti globi non disforme, e in essoCoronato di cedri alto levarsiIl bel giardin di Dio sovra ogni monte.

Del gran Tosco così gl'industri vetriMostran, ma certe men, le terre e i mariNell'orbe della luna; e tal su i pianiLiquidi dell'Egéo scorge il nocchieroDelo o Samo apparir qual nebulosaLontana macchia. Indi all'ingiù si lanciaL'Angel con volo rapido le vasteOnde äeree fendendo, e mondi e mondiLasciasi addietro. Or colle ferme penneStriscia librato su i polari venti,Or del cedevol etra i campi sferzaCol veloce remeggio. Alfin là giuntoDove sulle robuste ali s'innalzaL'aquila altera, alle pennute tormeSembrar potea quel rinascente e soloArabo augel, quando a locar nel tempioLuminoso del sol gli avanzi suoiVola all'egizia Tebe. In sulla balzaOrïental del paradiso calasiL'Angelo, ed in sua forma ivi si mostra.Vela ed ammanta le celesti membraTriplice coppia d'ali: esce la prima

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Dall'ampie spalle e gli ricopre il pettoCon regal fregio d'ostro e d'oro: a' fianchiGli forma l'altra una stellata fasciaDi molle aurea lanugine che splendeDi superni color: sporge la terzaD'ambo i talloni, e d'un'eterea azzurraGrana dipinta con piumosa magliaI piè gli adombra. Al favoloso figlioDi Maia ei stette somigliante, e scosseLe penne ch'esalaro un'ampia intornoCelestïal fragranza. Ogni drappelloDegli Angeli che a guardia eran là posti,Tosto lo riconobbe, e al grado, all'altoMessaggio suo (chè apportator lo avvisaDi qualche alto messaggio) in piè si levaDi riverenza in segno. Egli trapassaLe fulgide lor tende e 'l piede inoltraNel suol felice fra selvette ameneUn odor soavissimo spirantiDi balsamo, di nardo e cassia e mirra;Larga, profusa ridondanza d'ogniDon della terra: chè ripiena e caldaDi vigoría, di spirti ivi NaturaLibere e sciolte d'ogni legge e modoSue giovinette fantasie dispiega,Ed è nel suo disordine più bella.Venir per l'odorifera forestaDa lunge il vide Adam, che stava assisoSulla soglia del suo fresco boschetto,Mentre a scaldare il più riposto gremboDella terra già il sole alto vibravaDritti i suoi raggi, e più gagliardi e viviChe Adam non avea d'uopo. Eva nel fondoPel loro pranzo saporose fruttaApprestando sen gìa sull'ora usata,A sano gusto ed a verace vogliaSoavi frutta che non fan men dolciLe nettaree bevande a lor frammisteDi grappoli, di bacche e latteo rivo.Adam la chiama e dice: - Eva, t'affretta,Vieni, vedi colà vêr l'OrïenteQual degno de' tuoi sguardi illustre oggettoFra quelle piante inverso noi s'avanza.Ei sembra un'altra scintillante auroraChe sul meriggio sorga: un qualche GrandeCi arreca, s'io non erro, ordin del cielo,E forse in questo dì vuol farci degniD'esser ospite nostro. Or vanne tosto,Arreca fuor quanto riposto serbiEd abbondanza spargi, onde s'onoriIl sublime stranier. Noi ben possiamo

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Lor doni ai donator rendere in parte,E largamente dar quel che concessoN'è così largamente. Il suo fecondoSen qui schiude Natura, e quanto i suoiTesor più spande, vie più ricca e bellaMostrasi, e largità così c'insegna.

O Adamo (Eva risponde), o eletta parteDi sacra terra, in cui spirò l'EternoIl soffio animatore, aver non giovaQui molto in serbo, u' di mature fruttaSempre da' rami sì gran copia pende.Io sol quelle riposi, a cui più grataE ferma polpa aggiugne il tempo e toglieIl soperchio d'umor. Ma ratta or vadoE da ogni pianta ed arbuscello io voglioTal'eletta raccor d'ogni più vago,Più saporoso e succulento pomoCh'oggi in mirar tanta ricchezza il grandeNostr'ospite confessi aver IddioSparse qui sulla terra al par che in cieloLe grazie sue. - Così dicendo, il guardoVolge intorno sollecito e sen parte;E tutta intenta alle ospitali cure,Va fra sè divisando a qual s'appigliScelta ed ordin migliore onde non sienoMal misti e mal graditi i sapor varj,Ma più soave e dilicato all'unoL'altro succeda. Diligente scorrePer mezzo a tante piante, e ciò che l'almaTerra, feconda madre, entro le riveD'ambe l'Indie produce, o là nel Ponto,O sul punico lido, o dove un giornoAlcinöo regnò, tutto crescenteIn quel ricco giardin, ella raduna,Frutta d'ogni maniera, in liscia e molle,In scabra e dura scorza, e tutto quindiCon larga mano in sulla mensa ammonta.Uve odorate spreme e bacche elette,E bevande ne tempera e preparaDi soave sapore; un almo latteDalle mandorle elice, e pure tazzeNon le mancano all'uopo; indi la terraSparge di rose e di squisiti odoriTolti a' freschi arboscelli. Intanto il nostroPrimo gran padre ad incontrar se n'esceL'ospite suo divin, nè d'altro è cintoChe de' sommi suoi pregi: in lui medesmoLa sua grandezza è tutta, assai diversaDal vano fasto che circonda i regi,Quando di palafreni e servil turbaIl gran corteggio oro-listato abbaglia

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Lo stolto vulgo e a bocca aperta il tiene.Senza timore alcun, ma pieno a un tempo

Di riverenza, all'Angelo s'appressaIl primo padre, e, qual si debbe ad alma,Superïor natura, a lui s'inchinaProfondamente in dolce aspetto e dice:- Celeste abitator (chè sol dal cieloPonno venir sì nobili sembianze),Poichè lasciar quelle beate sediTi sei degnato e onorar queste, i tuoiFavori ah! compi ancor; con noi che soliQui siamo e in don dal Creatore avemmoQuesto largo terren, piacciati, assisoDi quel boschetto alla fresc'ombra lieta,Prender riposo e insiem gustar di quantoPiù scelto a noi questo giardin comparte,Finchè dechini il sole e non sì viviSpanda i suoi rai. - Sì, qui perciò ne venni(Amorevole e dolce a lui rispondeL'Angelo allora), e tal creato, Adamo,Non fosti tu, nè tal soggiorno è questoChe possano i Celesti avere a sdegnoDi visitarvi spesso. Or sotto l'ombreDel tuo boschetto andiamne pur, chè finoAll'imbrunir del dì teco mi liceE giova dimorar. - Così dicendo,Nella silvestre loggia entrâr che tutta,Qual di Pomona pingesi l'albergo,Ridea vestita d'olezzanti fiori.Ignuda e sol di sè medesma adorna,Amabilmente grazïosa e vagaPiù che silvestre ninfa e più di quellaFavoleggiata Dea che in Ida vinseLe altre due di beltade e 'l pomo ottenne,Eva ad accôr l'ospite suo celesteIn piè tosto levossi; uopo di veloNon ha; virtù la copre, e le sue gotePensier non è che di rossore asperga.- Ave (le disse Rafael, divinoSaluto ch'assai dopo udì pur ancoMaria, riparatrice Eva seconda),Ave, o gran madre dell'uman lignaggio,Del cui fecondo grembo uscir dee prolePiù numerosa mille volte e milleDelle soavi frutta onde sì carcaHan questa mensa gli arbori di Dio. -

Sorgea d'erbose zolle il largo descoCinto all'intorno di muscosi seggi,E sovr'esso raccolta era d'autunnoOgni dovizia, ancor che là perenniIl ricco autunno e la stagion de' fiori

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Si tengano per man. Parlando in priaSi stetter essi alquanto, e 'l primo nostroPadre sì cominciò: - Stranier celeste,Deh! questi doni di gustar ti piaccia.Quegli da cui discende ogni perfetto,Ogn'infinito ben, fuor della terraPer alimento e per diletto nostroSorger li fe': delle celesti essenzeSon forse cibo insipido; ma questoSoltanto io so che comun padre a tuttiÈ quei che li dispensa. Ingrato cibo(L'Angelo a lui risponde) esser non puoteA puro Spirto quel ch'all'uomo, in parteIncorporeo pur anche, ei diede in dono,Ei le cui lodi sien cantate sempre.Il tuo corpo ebbe un'alma, e i nostri spirtiFur di sensi dotati; e se l'uom pensaEd intende e ragiona e tanto s'ergeSull'incarco terren, l'Angelo ancoraScende a nudirsi. Ei vista e udito e tattoE gusto ha pur, siccome l'altro, e volgeIn sua propria sustanza il preso cibo,Quel ch'è corporeo in incorporeo: e sappiChe quanto fu creato ha d'uopo ancoraDi sostegno e riparo. Il guardo giraSugli elementi: dal men puro sempreIl più puro è nudrito; il mar riceveL'onde sue dalla terra, e terra e mareNudriscon l'aere, e l'äer nutre quindiGli eterei fuochi, di cui splende il cielo,E pria la bassa luna, ond'è che impressiQuei foschi segni nel suo volto stanno,Non purgati vapori e non ancoraConversi in sua sostanza. In simil guisaDall'umido suo grembo anco la lunaAgli alti globi il nodrimento invia,E 'l sol che luce all'Universo imparte,Riceve anch'esso d'umorosi esaliDa tutte l'altre sfere ampia mercedeE a lunghi sorsi l'oceán si bee.Ambrosie frutta a noi gli arbor di vitaMinistrano lassuso e néttar puroL'uve celesti: d'ogni ramo e fronda,Allor che sorge a noi la nostra aurora,Stillan melliflui sughi, e il suol si copreDi rugiada e di manna ignote in terra:Pur qui sì varïati i doni suoiHa l'alto Creator che a quei superniNon disconviensi il compararli, ed ioNon sarò schivo dal gustarne. A mensaIn così dir s'assise, e insiem con loro

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Entrò del pranzo a parte. Eva leggiadraD'almi liquori coronava intantoI ridondanti calici odorosiE ministrava ignuda. Oh del bel locoDegna innocenza! Ah! se terreno oggettoDestar potesse nei celesti pettiFoco amoroso, di perdono alloraFatti gli avrìa tanta bellezza degni;Ma un purissimo amor dei divi SpirtiSol è la fiamma; ed era all'uomo ignotaGelosa cura allor, che poi divenneDe' tristi amanti un infernal martiro.

Avean co' cibi soddisfatta omai,Non gravata natura, allor che in seno(Così destro veggendo il tempo e il loco)Surse ad Adamo di saper desìoLe oltramondane cose e aver contezzaDi lor che il cielo han per soggiorno, e tantoIn grado e 'n possa egli innalzati vedeSopra di sè, di lor cui tanta parteFe' di sua luce Iddio. Quindi la voceAll'empireo ministro ei così volgeAccorta e rispettosa: - Oh! qual bontade,Tu che col gran Fattore insieme alberghi,Oggi hai mostro ver me! D'entrar ti piacqueSotto quest'umil tetto e gradir queste,Benchè indegne di te, terrestri frutta,Al par di que' celesti almi conviti:Pur qual fra loro è paragone! - Un solo(L'Angel rispose) onnipossente NumeE, fu, fia sempre, da cui scende il tutto,E, se vizio nol guasta, a lui ritorna.Tutte perfette uscîr da lui le cose,Ed una in pria fu la materia tuttaChe tante poscia e sì diverse formeEbbe e sì varj di sostanza gradi,Varj gradi di vita in ciò che vive.Ma più affinata e spiritale e pura,Quanto a Dio più s'accosta o a Dio più tende,È ciascheduna cosa entro quel giroChe assegnato le fu. Per ordin lungoE ad ogni specie misurato aspiraA farsi spirto il corpo. Esce più lieveCosì da sua radice il verde stelo;Indi più tenui spuntano le frondi,Su cui più dilicato il fior s'innestaE dolci olezzi spande, e i frutti poscia,Fatti cibo dell'uomo, a gradi a gradiDella vita, dell'alma e della menteServono e di ragion gli uffici vari;Doppia ragion che, argomentando, il vero

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Lenta rintraccia, o con un sol veloceLucido sguardo lo contempla e scerne.Propria è dell'uom la prima, a noi concessaPiù spesso è la seconda, e vario è il gradoLor, non la specie. Non stupirti adunqueSe quel che Dio per voi buono discerseIo non rifiuto, ma, qual voi, lo volgoIn mia propria sustanza. Un giorno forseSimili a noi voi pur sarete, e i nostriPiù lievi cibi a vostra essenza alloraNon si disconverran. Cangiati in spirtiCol rivolger degli anni anco sarannoI vostri corpi forse, e allor, qual noi,Sovr'ali snelle per l'eteree piaggeAggirarvi potrete, e a grado vostroQui far soggiorno o negli empirei campi.Di meritar quella più lieta sorteOr sia vostro pensier, sommessi, fidi,Nell'amore immutabili del sommoVostro padre e signore; e tutto intantoIl ben godete del presente stato,Non capaci di più. Cortese Spirto(A lui risponde Adamo), ospite amico,Di qual puro splendor le nostre mentiIrradii col tuo dir! Come dal centroAlla circonferenza hai tutto mostroL'ordine di natura, onde per gradi,In contemplando le create cose,S'ascende al Creator! Ma perchè maiQue' ricordi d'amarlo e quegli avvisiD'obbedirlo aggiungesti? Ah! dimmi, e comeMancar giammai d'ubbidïenza e amorePotremmo verso lui che fuor del limoCi trasse e qui nel maggior colmo poseDi ciò che uman desìo può chieder mai?- Figlio del cielo e della terra (a luiL'Angel rispose), ascolta: a Dio tu deviLa tua felicità: da te dipendeIl serbarla però. Fisso nell'almaL'alto suo cenno ognor ti stia: ripostaÈ in ciò tua sorte, e a ciò mirò l'avvisoChe or or ti diedi. Ei ti creò perfetto,Immutabil non già; buono ei ti fece,Ma durar tale, in tua balìa lasciollo.Libero per natura è il tuo volereNè di necessità sente o di fatoFreno o giogo veruno: Iddio richiedeSpontanei, non costretti i nostri omaggi,Nè grati in altra guisa esser gli ponno.E come un cor da fatal forza spintoDar prova indubitabile potrìa

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D'obbedïenza e amor, se a lui non restaDel contrario la scelta? Io stesso e mecoTutta insiem l'oste angelica esultantePresso al trono di Dio, quel ben supremoPer merto sol d'obbedïenza e fedeSerbammo già, siccome il vostro a voiSol per tal mezzo or di serbare è dato.D'amarlo e di servirlo un dì noi pureO di lasciarlo appien liberi fummo,E l'esser buoni o rei fu nostra scelta.Quindi di noi gran parte a lui ribelle,Non ha molto, si fece e fu dal cieloSpinta nell'imo inferno. Ahi! da qual sommaFelicitade in qual orrendo abissoDi sempiterna pena! - I detti tuoi,Mio divino maestro (Adam risponde),Di diletto maggior l'orecchie e 'l coreM'empion che nella notte i dolci cantiDe' Cherubini a questi colli intorno.Io ben sapea che il voler nostro e l'opreFece libere Iddio, ma pur in menteSempre mi stette e sta fermo il pensieroChe del nostro Fattor scordar l'amore,Scordar la nostra obbedïenza mai,No, non potremo, e quel sì giusto e soloComando ch'ei ci fe'. Ma quanto in cieloPur or dicesti che addivenne, un qualcheDubbio in me desta e maggior brama ancoraD'udirne raccontar l'istoria tutta,Ove a te non incresca. Ella esser deeAl certo strana e di profonda e sacraAttenzïon ben degna. Ancor gran parteRiman del dì: chè una metà pur oraDi suo viaggio ha il sol fornita, e l'altraNel gran cerchio del ciel comincia appunto. -

Egli sì prega; Rafael consenteA sua dimanda, e dopo breve posaCosì comincia: - Luttuosa, acerba,Difficil storia a raccontar m'inviti,O degli uomini padre. Ai sensi umaniCome possibil fia pinger le gestaD'Angeli guerreggianti, e senz'affannoDi tanti spirti glorïosi un tempoNarrar la miserabile ruina?D'un altro mondo disvelar gli arcaniConcesso mi sarà? Ma sì: per tuoFrutto ciò lice. Or tu la mente innalza,Ch'io quel che i sensi tuoi troppo sorpassa,Come fia meglio, cercherò ritrartiSotto corporee forme. Ombra ed imagoÈ la terra del cielo, e più di quello

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Che forse credi, all'un l'altra somiglia.Dalle tenebre antiche emerso ancora

Questo mondo non era, e dove or ruotaIl ciel stellante, ove la terra posaSul proprio centro equilibrata, il torboCaosse infigurabile regnava,Quand'un giorno (chè il tempo in grembo ancoraA eternità, d'ogni durabil cosa,Se il moto insiem supponi, è la misura),Un giorno, qual lassù lo adduce il grandeAnno celeste, dai confini estremiDi tutto il ciel, l'angelic'oste tuttaPer cenno dell'Eterno innanzi al tronoSi raccolse di lui: fulgide schiereSenza fin, senza numero. Ben centoE cento mila luminose insegneOndeggiando per l'aere, i varj gradiSegnan, gli ordini varj e i varj duci;O riccamente nel lor grembo intestePortan di santo amor, d'ardente zeloAlte memorie. Allor che tutti in milleE mille giri d'un'ampiezza immensa,Cerchio entro cerchio, stettero, l'eternoPadre, al cui fianco d'egual gioia in senoSedeva il Figlio, in mezzo a lor, dal monteChe fiamme esala e 'l vertice sublimeTra fulgóre ineffabile nasconde,Così parlò: - Figli di luce, o Troni,Principati, Virtù, Scettri, Possanze.Angeli tutti, il mio decreto udite,Il mio decreto irrevocabil. OggiIo generai Quei che dichiaro il mioUnico Figlio; oggi il sacrai su questaSanta montagna, e alla mia destra assisoOra il mirate: io lo destino vostroDuce, e giurato ho pel mio nume stessoChe ogni ginocchio in cielo a lui s'inchini,Ch'egli tenga mie veci, e il riconoscaSuo signore ciascun. Tutti congiuntiIn pace eterna ed in eterna gioiaSotto una stessa indivisibil leggeVoi tutti siete. Me medesmo oltraggiaChi lui disubbidisce, e lunge spintoDalla beante visïon divinaNel buio esterïor quel giorno ei fia,Nei golfi delle tenebre più cupi,A gemer senza fine e senza speme,Della giusta ira mia vittima eterna. -

Così parlò l'Onnipossente, e i suoiDetti con lieto plauso ognun accolse,Ma ognun non fu ne' plausi suoi sincero.

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Tutto si spese al sacro monte intornoQuel memorabil dì, qual è costumeSpender i più solenni, in canti e in danze,Mistiche danze ai regolati erroriRassomiglianti dell'eteree sfereMosse con ordin certo e stabil legge,Che in lor diverse ed intrecciate e semprePur medesime rote un sì soaveDestan concento che l'orecchia stessaDi Dio n'ascolta con diletto il suono.Già la sera appressava (abbiam noi pureSera e mattino a far più vario e vagoDel ciel l'aspetto), e tutti insiem dai lietiBalli a solenne splendido convitoCi rivolgemmo: ad ogni cerchio intornoFur le mense imbandite e colme a un trattoDelle angeliche dapi; in coppe d'oroDi perla e d'adamante il néttar scorreDelizïoso in liquidi rubini,Singolar frutto del celeste suolo.Coronati di fior, su i fior distesiBeviam vita immortal, gioia ed amoreIn dolce fratellanza. Eccesso alcunoEsser non può lassù, ma sol la pienaMisura del piacere; e a larga manoVersando le sue grazie il Re del cieloGode al nostro goder. Già dal divinoMonte, onde alterna esce la luce e l'ombra,S'alza la notte in vaporoso velo,Che con dolce imbrunir tempra soltantoQuell'immenso splendor, nè mai più scuraElla sorge lassù. Già tutti i lumi(Tranne quelli di Dio che veglian sempre),Una rosea rugiada, alma, soave,Al sonno invita. Sopra il largo piano,Più largo assai che non saria di questoTerrestre globo l'appianata massa(Tai son gli atrj di Dio!), lunghesso i viviRuscei che irrigan gli arbori di vita,Si distendon le angeliche falangiIn varj campi, in ordin vago: sorgeDi padiglioni e tende immensa filaIn un momento, ove del sonno in braccioAl molle susurrar di fresche auretteS'abbandona ciascun: veglian soltantoQuei che in loro vicenda intorno al soglioAlternano di Dio la intera notteInni melodïosi. Era pur desto,Ma non così, Satán (con questo nomeOr tu l'appella, chè il suo primo in cieloPerdè per sempre). Tra i più grandi Spirti

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Onorato lassù, se non il primo,Ei sedeva in favore, in grado e 'n possa:Pur gonfio il cor d'un cieco invido orgoglioContro il Figlio di Dio, quando dal sommoSuo padre il vide a tanta gloria alzato.Credè scema sua luce, e quella vistaTollerar non potéo. Covando in senoQuindi il dispetto e i suoi disegni iniqui,A mezzo il corso della notte, alloraCh'è più del sonno e del silenzio amica,Indi sloggiar con le sue schiere tutteEgli dispose, e dell'Eterno il tronoPrivo lasciar di riverenza e onore.Il primier dopo sè dal sonno ei scuoteE sì gli parla con sommessa voce:- Dolce compagno, ah, dormi tu? Qual sonnoTi può chiuder le ciglia? E non rimembriQuel decreto che ier da' labbri uscìoDi chi può tutto in cielo? I tuoi pensieriTu aprire a me solevi e aprirti i mieiTutti soleva io pure: un'alma solaNoi vegliando eravamo, e sì diversiOr siam? Tranquillo tu riposi, ed ioVeglio nel duol! Quai nuove leggi a noiImposte sien, tu 'l vedi; e nuove leggiPonno in chi serve ancor nuovi pensieriE nuovi suscitar consigli e inchiesteSull'incerto avvenire. In questo locoPiù dir non è sicuro. I primi CapiDi nostre immense schiere or tu raduna,E annunzia lor che per divin comando.Pria che la notte il nubiloso veloAbbia raccolto, io con spediti vanniAl nativo Aquilon deggio affrettarmiCon ogni mio drappel: di' lor ch'io debboApparecchiar colà gli onor dovutiAl gran Messìa, nostro Sovran novello,E ricever suoi cenni, e ch'egli a tutteLe legïoni in trionfante aspettoTosto mostrarsi e dettar leggi intende.

Così parlò l'iniquo e 'l suo velenoNell'improvvido petto all'altro infuse,Che incontanente e molti insieme appellaO ad un ad uno i varj Capi, e intíma,Come Satán l'ammaestrò, che il grandeGerarchico stendardo indi esser mossoDee per sovrano impero anzi che splendaIl nuovo dì; la suggerita causaSoggiunge, ambigui motti ad arte spargeE semi di livore, onde lor fedeQuanta sia scorga, o la corrompa. Alcuno

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Non osò dubitar; tutti fur prontiIl segno usato e l'ordine supremoDel lor duce a seguir; sì grande in cieloEra il suo nome e 'l grado, e tanto imperoAvea su lor quel suo raggiante aspettoSimile all'astro del mattin che guidaDell'altre stelle il coro! Ei così trasseLa terza parte dell'empiree squadreSull'orme sue. Ma l'occhio eterno intantoDal sacro monte suo, di mezzo al giro,Dell'auree lampe a lui d'intorno ardenti,Senza lo cui splendore il tutto vedeE nel più cupo de' pensier s'interna,Scoppiar la rea sedizïosa fiammaAvea già scorto e che tra i figli stesaS'era già del mattino, e quali e quanteTurbe sorgeano al suo voler rubelli:E all'unico suo Figlio in dolce aspettoCosì favella: - O Figlio, eterno eredeDi tutto il mio poter, Figlio in cui pienaTutta la luce di mia gloria splende,Or ogni dubbio dileguar si deeDi nostra onnipotenza, e quai sien l'armiChe illesi qui terran per sempre i nostriD'impero e deità diritti eterni,Mostrare a tutto il ciel. Tu 'l vedi, un empioNemico è insorto che per tutto il vastoAquilonar paese alzar disegnaSuo trono al nostro egual; nè di ciò pago,Qual sia nostra ragione e nostra possaVuol pugnando provar. Contro l'audaceOr noi volgiam quanti ci restan fidi,E senza indugio il santuario nostro,La gloria, i dritti e questo monte sacroSi difenda e assecuri. - Ei tacque, e 'l FiglioCon placido sembiante, onde partìaUn vivo inesplicabile fulgóre,Così rispose: - I tuoi nemici a scherno,Lor vane trame e lor consigli stoltiBen a ragion tu prendi, eccelso Padre;Ma l'odio lor più luminosa e bellaFarà mia gloria e quel regale imperoChe tu mi desti, ond'io confonda e atterriUn così folle orgoglio; e ben l'eventoProverallo a quegli empj. - Ei disse. IntantoMolto lontano in sulle rapid'aliIl perfido Satáno era trascorsoColle sue schiere; innumerabil oste,Quai gli astri della notte o quai dell'albaLe rugiadose stille rilucentiA' rai del sol sopr'ogni fronda e fiore.

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Vaste provincie, regïoni immenseChe Serafini, e Podestadi e TroniIn lor triplici gradi hanno in governo,Quell'iniquo varcò; contrade, a cuiSe paragoni questa terra intera,È assai minore, o Adam, che il tuo giardinoAppo la terra stessa e 'l mare, in vastoE lungo pian dal globo lor distesi.D'Aquilon ne' confini ei giunge alfineEd al suo regio albergo. In arduo giogo,Simile a monte sovrapposto a monte,Folgoreggiava coll'eccelse moliDi torri e di piramidi che tratteFuron da rocce d'adamante e d'oro,Il gran palagio di Satán (con questoNome soltanto in tuo linguaggio io possoChiamar quella struttura). Ei, che l'EternoIn tutto ambiva d'emular, quel loco,Del monte a guisa ove del cielo in facciaFu Messia coronato il divin Figlio,Volle nomar dell'Adunanza il monte,Dacchè colà tutti raccolti i suoiEbbe con sue menzogne. Ivi s'arrestaIl traditore e avviluppando il veroCosì lor parla: - O Prenci, o Regi, o Troni,O Possanze, o Virtù (se omai non sonoUn vôto suon questi pomposi nomi),Per supremo decreto un signor nuovo,Ch'è a voi già noto, ed unto re s'appella,In sè riduce ogni potere e troppoLa nostra gloria oscura in ver. Per luiOr qui, solo per lui, con ratti passiV'ho tratti in questa notte e insiem raccolti,E qui d'udire il vostro avviso io chieggoCon quali onor fia meglio e con qual pompaNovella ancor quest'altro Sir che vieneLe nostre a rimirar ginocchia inchineOr per la prima volta... Omaggio indegno!Vil bassamento! Assai non era ed anziTroppo non era il tributarlo ad uno,Ch'ora a due lo dovremo, a lui dovremloEd all'imagin sua? soffrir cotantoCome si può? Ma se miglior consiglioLe nostre menti ergesse, e questo giogoScuoter, spezzar alfin... Voi dunque il colloCurvar scegliete? le ginocchia a terraRiverenti piegar? No, s'io m'affidoDi conoscervi bene, o se appien voiConoscete voi stessi: in ciel nascemmoFigli del ciel che innanzi a noi niun tenneIn suo dominio, e se non tutti eguali

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Siam qui, siam non perciò liberi tutti,E liberi del par; chè ordini e gradiNon pugnan già con libertà, ma insiemeBen si confan. Con qual ragione alzarsiAltri può dunque in assoluto SireSopra color che a lui son pari in drittoE pari in libertà, sebbene in possaE in altezza di grado a lui minori?Perchè impor leggi a chi, da leggi sciolto,Pur mai non lascia il retto calle? E il Figlio,Il Figlio ancor, l'imagin sua, da noiOr culto avrà, fia Signor nostro, ad ontaDi quegli eccelsi titoli che segnoD'impero son, non di servaggio, e i nostriCi rammentan pur sempre alti destini?

Così parlava quel superbo, e mutiTutti l'udîr fin qui, quando levossiDal suo seggio Abdïel, di cui null'altroPiù venerava dell'Eterno i cenniE n'era pronto esecutore. Ei tuttoDi zelo avvampa, e con severo aspettoCosì di quel furor l'impeto affronta:- Oh falsi, audaci, scellerati detti!Oh bestemmie che in cielo orecchia alcunaNon mai s'attese d'ascoltar! E menoDa te, ingrato, da te che tanto fostiSopra i tuoi pari sollevato! E l'empioTuo labbro quel giustissimo decretoOsò biasmar di Dio che regio scettroHa dato al Figlio, e vuol che a lui s'inchini,Come a sovran legittimo signoreOgni ginocchio in ciel? Tu chiami ingiustoChe un egual su gli eguali abbia l'impero,E dritti alleghi e libertà discuti:Ma chi se' tu ch'osi impor leggi a Dio,A quel Dio che ti fe' quello che sei,A quel Dio che creò tutte del cielo,Come a lui piacque, le Possanze, e certiConfini a lor prescrisse? A noi per provaPalese è pur quanto benigno, e quantoDel nostro ben, del nostro onor gelosoSempre egli sia, quanto a scemarli avverso.Ed or che sotto un capo insieme strettiCi vuol egli vie più, forse non miraIl nostro ad innalzar felice stato?Ma ingiusto siasi pur che un egual regniSopra gli eguali suoi, vorresti adunqueTu te medesmo, ancor che illustre e grande,O tutto ancora de' celesti SpirtiL'unito merto a quell'eccelso FiglioAgguagliar dunque? al Figlio suo, per cui,

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Come per Verbo, egli creò le coseTutte e te stesso e queste immense schiereDi tanta luce incoronate, Troni,Principati, Virtù, Scettri e Possanze?No, questo nuovo regno un raggio soloNon toglie a noi dell'alta gloria nostra,Ch'anzi più chiara splende or ch'Ei diviene,Benchè Signor, del nostro numer uno.Son nostre leggi le sue leggi, e tuttoL'onor ch'a lui si rende, a noi ritorna.Cessa dall'empio tuo furor; rimantiDal tentar gli altri, e l'adirato PadreA placar vola e l'adirato Figlio,Finchè concesso d'ottener perdonoT'è forse il tempo. - Fervido parlavaAbdïello così, ma niun secondaIl zelo suo, che intempestivo e stranoA tutti sembra. Di ciò lieto alloraE altero più che mai, Satán soggiunge:- Creati adunque fummo, e 'l Padre al FiglioDiè di crearci incarco? Oh nuova inveroPellegrina scoverta! e dond'hai questaDottrina, di', questi segreti appreso?Chi mai dal nulla escir le cose vide?Rammenti tu quell'ora, in cui da primaIl tuo Fattor vita ti diè? RammentiIl tempo in cui non eri, o allor chi fosse?Per propria forza animatrice noi,Quando un corso fatal tutto compiutoEbbe 'l suo giro, per noi stessi al lumeDella vita sorgemmo eterei figliDi questo natìo ciel parto maturo.Da noi ci vien la nostra possa, e tostoSaprà mostrare il nostro braccio a provaChi sia qui Signor nostro o nostro eguale.Vedrai, vedrai se supplici d'intornoPer impetrar mercè verremo al soglioDi quel tiranno o a rovesciarlo: arrecaAll'unto re tai nuove, e fuggi primaChe al tuo fuggir la via si tronchi. - Ei disse,E per quell'oste immensa un rauco e sordoMormorar, pari al suon d'acque profonde,D'applausi echeggia a' detti suoi: non menoImpavido perciò l'eroe celeste,Ancor che cinto di nemici e solo,Fiero risponde: - Oh Spirto a Dio ribelle,Oh da Dio maledetto, oh d'ogni beneOrbo rimaso Spirto! Omai securaLa tua ruina io scorgo, e questa, avvoltaNella tua fraude, sventurata ciurma,Come del nero tuo misfatto, a parte

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Entrar vegg'io di tua terribil pena.Non affannarti, no, come tu possaDi Dio sottrarti al giogo: omai sì dolciLeggi non son per te: per te ben altroÈ uscito irrevocabile decretoDal labbro suo: quell'aureo scettro, a cuiRicusasti obbedire, in ferrea vergaA sfracellar la tua cervice alteraConverso è già: bene avvertisti; io lascio,Ma non pel tuo consiglio o per le vaneMinacce tue, quest'empie tende omaiAll'esterminio condannare: io fuggoPerchè la provocata ira supernaQui non divampi in subitana fiammaE m'avvolga con voi. Sì, già sul capoDella tremenda folgore ti veggoScoppiar il foco vorator: bentostoSaprai qual man ti fe' nel sentir quellaChe ti distrugge. - L'inclito AbdïelloCosì parlò, solo fedel fra tanteInfide innumerabili caterve.Non atterrito, non sedotto, immotoLa prima lealtà, l'amor, lo zeloEi sol mantenne, e dal verace calleNè l'esempio, nè 'l numero un sol passoStorlo, potè. Di que' ribelli in mezzoPer lunga strada egli trapassa, e tutteLor grida ed onte con tranquillo e fermoVolto sostien: sol col dispregio a tantaFuria risponde, e a quelle torri altere,Già vicine a sentir l'orrendo pesoDel divino furor, volge le spalle.

LIBRO SESTO

Rafaelo prosegue a narrare come Michele e Gabriello furono spediti contro Satáno e gli Angeli seguaci di lui. Satáno col suo esercito si ritira nella notte: raduna un Consiglio: è inventore di macchine infernali che nella battaglia successiva mettono in qualche disordine l’esercito di Michele; ma finalmente gli Angeli fedeli, sotto le montagne da essi svelte e lanciate, opprimono le macchine di Satáno. Sempre più cresce il tumulto; onde l’Eterno spedisce nel terzo giorno il Figlio, a cui l’onore della vittoria era riserbato. Questi si reca sul campo di battaglia rivestito della paterna possanza, e vietando alle sue regioni di fare verun movimento, col suo occhio e col suo fulmine in mano si avventa in mezzo a’ nemici che sono di repente rovesciati, e gl’insegue fino al muro del cielo che da per sé si spalanca. I ribelli sono precipitati nel fondo dell’abisso dalla divina giustizia a loro preparato. Il Messia trionfante ritorna la Padre.

Tutta notte del ciel gl'immensi campi,Senza che alcun l'insegna, a vol trascorre

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L'intrepido Abdïello infin che l'alba,Desta dall'ore circolanti, schiudeCon rosea mano all'almo dì le porte.Nel divin monte e al divin soglio appresso,S'apre con doppio varco un vasto speco,D'onde con un perpetuo alterno giroLa luce o l'ombra uscendo, or con notturnaOr con dïurna imagine più vagoRendono il cielo. Esce d'un lato il lume,E tosto obbdïente entra per l'altroL'oscurità fin che il momento arriviDi stendere il suo velo; onde la notteSi fa lassù che a tramontante giornoSarìa quaggiù simíle: e già, qual suole,Nel più eccelso del ciel sorgea l'AuroraD'oro empireo vestita, e a lei davanteSi dileguava da' novelli raggiSaettata la notte, allor che tuttoD'ordinati squadron, d'armi, di carriE di celesti ignei corsier s'offerseDell'Angelo agli sguardi il vasto pianoGremito, ricoverto, e fiamme e lampiLungi riverberante. Ei guerra vede,Guerra imminente, e noto già quant'egliCredea recar per nuova: all'oste amicaLieto si mesce che fra sè con lungoEd alto plauso universal lo accoglie,Come quell'un che non perduto riedeD'infra tanti perduti. Al sacro monteIl guidan tosto e al sommo seggio innanzi,Ove dal sen d'un'aurea nube questaVoce soave risonò: - Ben festi,Servo di Dio; della più dura provaTrionfatore uscisti, incontro a tantoPopol ribelle sostenendo invittoTu sol del Vero la ragion, tu soloPiù ch'esso in armi, ne' tuoi detti forteTu d'un'immensa moltitudin reaL'onte e gli scherni a tollerar più duriChe la forza medesima non fora,Magnanimo affrontasti, e fu tua solaCura agli occhi di Dio serbarti integro.Più agevole vittoria or ti rimane;Da queste circondato amiche schiereLà, con più gloria che non fu lo scornoNel partirne, ritorna, e chi per leggeAver non volle la ragione, i mieiGiusti decreti e per sovrano il FiglioCh'ebbe per dritto de' suoi merti il regno,Sia con la forza domo. O de' miei prodiPrence, Michele, e tu ch'a lui sì presso

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Stai per valore, o Gabrïel, di questiMiei figli le invincibili coortiAlla pugna guidate, incontro all'empieTurbe un numero egual de' miei s'affrontiAngeli innumerevoli: col ferroE con le fiamme intrepidi assaliteL'iniqua ciurma, e fin del ciel sull'orloNon cessate inseguirla: in bando eternoLungi da me nel Tartaro sia spinta,Che a divorarla già l'avide goleSpalanca e gli affocati immensi abissi.

Così parlò quell'alta voce, e il monteCominciò tutto d'improvvise nubiAd oscurarsi e tra fumose ruoteD'ora in ora a mandar vampe e baleni,Di svegliato furor tremendo segno.Nè spaventosi men dall'alta cimaI feri accenti dell'eterea trombaRintonaron repente. In quadra, densa,Irresistibil, taciturna massaTosto s'avanzan le falangi al suonoDi bellica armonìa che loro in pettoSparge un eroico ardor, sotto i raggiantiLor duci che di numi hanno sembianza,Di numi armati a sostener del numeLa causa e del Messìa. Non monte opposto,Non stretta valle o bosco o fiume arrestaIl corso lor, nulla scompone il saldoIndissolubil ordine; che i vastiFendeano empirei campi alto dal suolo,E le lor sosteneva orme leggiereL'aere soggetto. In ordinate fileDinanzi a te le aligere caterveQui s'affrettâr così, quando lor destiI varj nomi. Spazïosi regni,Smisurate provincie, onde sol foraQuest'umil terra un breve tratto, indietroIl campo si lasciò. Verso AquiloneSull'orizzonte più remoto alfineVasta pianura ecco apparir che sembraIn aspetto guerrier da un margo all'altroUna continua fiamma, e più d'appressoPresenta al guardo un folto orrido boscoDi dardi e d'aste; innumerabili elmi,E scudi innumerabili, dipintiDi pompose divise. Era SatánoE gli empj suoi che furïosi all'armiEran già corsi, ed occupar di DioCredean per forza o per sorpresa il monteQuel giorno stesso, e sul supremo soglioQuell'invido locar fellon superbo.

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Vani, stolti disegni, a mezzo il corsoFrastornati, dispersi! A quell'aspettoDubbio pensier da pria ci scosse. - Ah! dunqueIl cielo incontro al cielo, Angeli incontroAngeli affronteransi? Essi che, figliD'un sol gran padre, tante volte e tanteFuron compagni alle medesme festeD'amor, di gioia, ed intuonaro insiemeInni all'Eterno? - Entro il suo cor ciascunoDi noi così dicea, quando di guerraIl ruinoso suon troncò repenteOgni dolce pensiero. Alto nel mezzo,Su cocchio rifulgente a par del sole,Il disertor del ciel, bugiarda imagoDi contraffata maestà divina,Satán da lungi apparve intorno cintoDi fiammeggianti Cherubin che schermoD'aurei scudi gli fean: dal soglio eccelsoEi balza quindi al suol: chè breve omaiE tremendo intervallo una dall'altraDe' campi dividea l'orride fronti(Sterminata ordinanza!), e a lunghi passi,Superbamente torreggiando, innanziAlle prime sue schiere ecco s'inoltra,Tutto coperto d'adamante e d'oro,Sull'orlo della pugna. A quell'aspettoFreme Abdïello di magnanim'ira,Abdïel che infiammato a illustri impreseTra i più prodi guerrier là stava, e secoCosì ragiona: - Oh cielo! e tanta ancoraRiman divina imago ove più fedeE lealtà non è? Perchè la possaColla virtù non manca, e 'l più superboNon diviene il più fiacco? In vista ei sembraInvincibile, è ver; pur io, fidandoNel tuo soccorso, onnipossente Dio,Affronterollo, e d'atterrarlo ho spemeAl par di sue ragion fallaci e vane.Sì, giusto è ben che vincitor nell'armiAnco sia quei che insuperabil stetteCampion del Vero; e se vil guerra infameMove la forza alla ragion, ben drittoÈ che forza maggior la forza abbatta.

Sì parlando fra sè, fuor dell'armatoSuo stuol si slancia e 'l fier nemico, accesoDi maggior rabbia a tal baldanza, affrontaE 'l rampogna così: - Scontrato alfineTu sei, fellon superbo? Era tua spemeGiugner senza contrasto all'alta metaDe' tuoi disegni rei? trovar pensastiPel terror di tua possa o per la forza

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Di tua lingua deserto il divin soglio,Il soglio di quel Dio ch'osti infiniteTrae con un cenno dalla polve fuora,Di lui che stende il solitario braccioDi là d'ogni confino, e con un lieveSuo tocco, ei sol, te annichilar con quanteSchiere hai d'intorno, e giù nel buio eternoSommergere ti può? Ciascuno, il vedi,Non seguì tuoi drappelli; ha Dio tuttoraPer sè qualche fedel: cieco a te ciecoIo parvi allor che a te, che a tanti iniquiOppormi osai: solo or non sono, e chiaroScorgi, ma tardi, che talor sol unoSegue il dritto sentier, mentr'erran mille.

- Mal per te (disdegnoso a lui rispondeE torvo il gran nemico) il primo giungi,Primo ti cerca la vendetta mia,E primo avrai la tua mercè. CotantaAudacia tua che nel Senato augusto,Ove raccolta stavasi la terzaParte de' numi, ad innalzar ti spinseSedizïose voci, il braccio mioPrimiera sentirà. Niuno è fra questiChe, mentre in cor l'eterea fiamma e 'l divoValor si sente, riconoscer vogliaOnnipotente alcuno. Alto desìoDi gloria inver, ma periglioso troppo,Ti spinge innanzi agli altri, e grato assaiFiami il mostrar in te qual sia la sorteChe lor sovrasta. Un qualche istante io soloSospenderolla, onde non sia tuo vantoIl mio tacere. Odimi dunque: a SpirtiCelesti io mi pensai che fosse il cieloE libertade una medesma cosa;Ma veggo or ben che di torpore ingombroIl numero maggior, tra feste e cantiSol uso, ama il servir. Tai son le viliTue torme di cantori, imbelli schiavi,Ch'osan servaggio a libertade opporre,E tai quest'oggi il paragon dell'armiLi mostrerà. - D'uno in un altro errore(Torvo Abdïel soggiunge) ognor t'avvolgi,Ribelle spirto, e poichè 'l dritto calleAbbandonasti, anco avvolgendo sempreT'andrai vie più. Dov'è il servaggio alloraChe quanto vuol natura e Dio s'adempie,E sì sublime è di chi regna il merto?Qual paragon fra noi, fra Dio? Chi saggio,Chi buon, chi degno, chi possente al paroEsser puote di lui? Ben quegli è schiavoChe uno stolto signore a te simile

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Scêrsi potè, che di servir sofferseUn ribelle, un fellon: così codesteTorme servono a te, così lo schiavoDi te stesso tu sei, tu ch'osi audaceIl glorïoso ministero nostroRinfacciarci empiamente: a te dovutoRegno è l'inferno, e là tra ferri aspettaIl guiderdon di tua perfidia: in cieloEternamente io servirò l'Eterno,Fedele e pronto osservator de' suoiGiustissimi comandi. Abbiti intantoQuell'omaggio che merti. - Ei dice, e sopraIl superbo cimier ratto gli avventaCon gran tempesta un colpo. Occhio o pensieroPrevenir non potea, non che lo scudoTanta ruina. Barcollando indietroBen dieci lunghi passi andò Satáno,Piegò i ginocchi alfin, ma si sostenneSulla sua lancia smisurata. Un monteCosì talor la ringorgata possaD'acque o gl'irati sotterranei ventiDal suo sito trabalzano e con tuttiI pini suoi l'affondan mezzo. Un altoStupor assalse le ribelli squadreE rabbia anco maggior, veggendo a un trattoIl lor più prode a terra: un lieto gridoCon fausto augurio alzano i nostri, e un feroDi battaglia desìo gl'infiamma. AlloraMichele impon che della mischia il segnoDia la gran tuba. Ne rimbomba tuttaDel ciel l'ampiezza, ed il celeste OsannaLe fide schiere intuonano. Non stetteL'oste nemica a bada, e al fero scontroNon men fera scagliossi. Or procellosaFuria s'innalza e non più udito in cieloFragore immenso, universal: le urtateArmi rendon discorde orribil suono,E metton fiamme e folgori le ruoteDegli enei carri; d'infocati dardiFischia per l'aere un così denso nemboChe quasi sotto ad ignea vôlta copreL'un'oste e l'altra; di terribil mugghioLungi rintrona il cielo, e se allor v'eraLa terra, tutta si sarìa la terraScossa dall'imo centro. In te stuporeNon desteran miei detti, o Adam, se pensiChe d'ambo i lati milïoni insiemeD'Angeli s'affrontaro, onde sol unoE 'l minimo di lor, brandito avrebbeQuesti elementi ed agguagliato tuttaLa forza di lor masse. Or qual dovea

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Dei due campi infiniti esser la possaE l'urto immensurabile, bastanteTutto a crollar dalle sue sedi il cielo,Se quei che tutto può, certi confiniAlle lor forze non ponea? Là sembraUn numeroso esercito ogni schiera,E ad una schiera rassomiglia in forzaCiascuna destra. A valoroso duceÈ pari ogni guerrier, ciascun sa quandoAvanzarsi o star dee, quando lo sforzoDella pugna girar, quando le file,Fieri solchi di guerra, a chiuder s'hanno,Quando ad aprir: niun di ritratta o fugaPensier, niun atto ignobile: ciascunoFida in se stesso, e nel suo braccio soloPar che riposta la vittoria estimi.Degne d'eterna fama illustri impreseEd infinite han loco; ampia si spargeLa zuffa e varia; or sullo stabil suoloFermano il piede, or sul vigor dell'aliErgonsi l'aria a tempestar che sembraTutta di foco un procelloso campo.Dubbia per lungo tempo in lance egualeLa battaglia pendè, quando SatánoChe valor portentoso avea dimostroTutto quel giorno e niuno a sè nell'armiTrovato egual, colà s'avviene alfineOve dei Serafin più densa e feraArde la mischia, e di Michel la spadaScorge che intere squadre a un colpo miete.Alto brandito ad ambe man con lenaImmensa discendea l'orribil ferroSterminator. Ratto colà SatánoS'affretta ad impedir tanta ruina,E 'l suo scudo di decuplo adamanteV'oppon, rotonda, vasta, alpestre mole.Al suo venir l'Arcangelo possenteRattiene il braccio distruttore: ei speraChe, sottomesso e strascinato in ceppiIl duce de' ribelli, avrà pur fineQuell'intestina guerra, e torvo il ciglio,Acceso il volto, a dirgli prende: - IniquoAutor del male, del mal che nome ignotoFu sempre in cielo e v'infierisce or tantoCon quest'acerba abbominevol lutta,Di cui pur debbe alfine a te sul capoEd a' seguaci tuoi cadere il danno,Ah! com'hai tu di quest'eterna paceIl bel seren turbato ed a naturaGittati in sen col tuo delitto i primiGermi d'ogni miseria! ahi come in tanti

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Già puri e fidi, or traditori e felliStillasti il tuo velen? Ma non pensartiDi turbar qui l'almo riposo: il cielo,Che di letizia è sede, opre non soffreDi vïolenza e guerra, e in bando eternoDa sè ti scaccia: vanne, e teco menaIl male, empia tua prole; entro i suoi golfiTe colla ciurma tua l'inferno attende.Il tuo furor laggiuso e le tue trameTraggi con te, laggiù t'affretta innanziChe questa spada ad eseguire imprendaLa tua condanna, o pria che l'ali impenniL'ira divina e colaggiù t'avventiCon pena assai maggior. - Tu pensi (biecoGli risponde Satán) col vano fiatoDi tue minacce atterrir lui che ancoraNon potesti coll'opre? Il men gagliardoHai tu de' miei per anco in fuga spinto,O abbattuto così che tosto invittoNon risorgesse? E or me più agevol stimiPiegar co' detti imperïosi e quinciScacciarmi colla voce? Ah folle! questaChe tu di fellonia chiamare ardisci,E noi chiamiam di gloria alta contesa,Così non finirà. Coll'armi in pugnoO qui trionferemo, o queste sediNoi cangeremo in quel medesmo inferno,Di che tu cianci, liberi pur sempreSe regnar non possiam. Tue forze estremeOr tu raduna, e quelle insiem di luiChe chiami onnipossente, anco v'aggiungi;Non fuggo io, no, chè da lung'ora in cercaDi te mi raggirai. - Dissero, e prontiEccoli al gran cimento. Or qual potrebbeLingua, benchè celeste, i fatti eccelsiDe' due campioni raccontare? e qualePoss'io quaggiù fra le terrene coseParagon ritrovar che a tanta altezzaDi divino valor sollevi ed ergaL'umano imaginar? chè ben di numiHanno sembianza alla statura, all'armi,Se movono, se stanno, atti del cieloA decider l'impero. Or l'ignee spadeRuotano e in fulminosi orrendi cerchiSquarciano l'aere: due gran soli oppostiSembran gli ardenti scudi. Orror, stuporeLe schiere ingombra, che repente indietroSi fan, lasciando ai due guerrier sovrani,La 've più folta era la mischia, un largoCampo nel mezzo. Anco è periglio l'aura,Che fischia e rugge ai colpi lor. Men grande

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Fora l'urto e 'l fragor, se, di naturaL'ordin sconvolto e fra i celesti globiInsorta guerra, furïosi incontroL'uno dell'altro si scagliasser dueAstri nemici in mezzo al cielo e insiemeConfondesser le sfere. Ecco ad un puntoCiascun di loro il poderoso braccioChe sol dal divin braccio è vinto in forza,Alza e tal colpo libra, onde per sempreLa gran contesa alfin decisa resti,Era egual la destrezza, egual la possa;Ma il brando che a Michel lo stesso DioDiè di sua mano, e dalla rocca aveaDell'armi sue già tolto, è di tal tempraChe al suo terribil filo acuta o saldacosa non regge. Di Satán la spadaChe d'alto scende ruïnosa, a mezzoL'aer esso incontra e ratto in due la parte;Nè s'arresta Michel, ma con veloceGiro al nemico d'un rovescio fendeProfondamente il destro lato. AlloraSatán da pria sentì 'l dolore, e tuttoSi contorse e fremè: sì fero e crudoGli aprì le membra quel superno acciaro!Ma la sostanza eterea, a lungo maiNon divisibil, con stupendo e prontoRicorrimento ammarginossi. Un rioDi nettareo sgorgò sangue celesteDalla gran piaga fuor, qual dai superniSpirti uscir puote, e il già sì terso arneseTutto gli tinse. D'ogni lato a un trattoIn suo soccorso e in sua difesa moltiVolâr de' suoi più forti, e su gli scudiAltri al suo carro il riportaro intantoFuor della pugna. Ivi il posâr ringhianteD'atroce rabbia, di dolor e d'onta,Chè scorge aver chi lo pareggia, e domaSente cotanto quell'audace spemeD'agguagliarsi all'Eterno. Ei riede tostoSano però qual pria: chè all'uom simìliNon son gli spirti già, ma vigor pariHanno di vita in ogni parte, e soloDistrutti appien, ponno morir. SomigliaLa lor testura al fluido aere leggieroChe scisso appena, è riunito: in essiTutto spira, ode, vede e sente e pensa,E a grado loro or dense forme or rarePrendon, vario color, vario sembiante,Varia statura. Non men degne intantoD'eterna fama luminose impreseHan loco in altro lato ove il possente

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Gabrïele combatte, e 'l denso stuoloDel feroce Molocco urta e rovesciaInnanzi a' suoi stendardi. In suon d'orgoglioVantava questi strascinar avvintoDel suo carro alle ruote il pio guerriero,E contro il Santo Unico in ciel dal negroLabbro scagliava empie bestemmie, alloraChe d'un subito colpo infino al cintoRimase fesso, e con squarciato usbergoE fieri urli fuggì. Sull'una e l'altraAla Urïele e Rafaello in fugaSpinsero i lor nemici AdrameleccoEd Asmodéo, benchè membruti ed altiE armati d'uno scoglio d'adamante,Due Troni potentissimi e superbiCh'esser da men che numi aveano a sdegno;Ma da ferite orribili squarciatiPer entro a piastra e maglia appreser tostoMeno audaci pensier. Nè lento è altroveA travagliar le ribellanti tormeIl valente Abdïel, chè stende al suoloCon raddoppiati spaventosi colpiArïele, Arïocco, e quell'orrendoTurbine Ramïel, da fero focoInceso ed arso. Or qui di mille e milleNarrar le gesta ed eternare i nomiSulla terra potrei; ma quegli elettiSpirti, contenti di lor fama in cielo,D'umane lodi non si prendon cura;E de' nemici lor, sebbene in possaMeravigliosi ed in guerriere prove,E di fama bramosi, il ciel per sempreOgni memoria cancellò da' suoiSacri volumi; onde nel nero obblìoSi lascin senza nome. Allor che forzaÈ da giustizia e verità divisa,Sol merta onta e disprezzo, ancor che aspiriA gloria e cerchi coll'infamia fama:Copra quegli empj alto silenzio eterno!

Dell'oste avversa i più famosi e fortiGià vinti e domi, ad ondeggiar cominciaL'intero campo loro, in molte partiPercosso e rotto. Entra pertutto ciecaConfusïon, scompiglio; è sparto il suoloDi fracassati arnesi; ignei spumantiCorsieri e carri e condottieri insiemeGiaccion sossopra in spaventevol monteChi abbattuto non è, stanco s'arretra,Spossato, trafelante; omai da freddoSpavento presa e da languore oppressaLa maggior parte de' nemici, inetta

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È alla difesa; in vergognosa fugaTutti già vanno. Del lor fallo in pena,La tema ed il dolore, a cui suggettiNon eran per l'innanzi, essi la primaVolta or provaro. Tal non fu la sorteDelle sciolte da colpa elette schiere:In cubica falange intera e saldaElleno s'avanzâr: delle lor armiEgregia, impenetrabile è la tempraInstancabile il braccio, e benchè smossePer la forza talor d'urto possenteSien dal lor posto, pur sicure e immuniSon da ferite e duol: grazia sovranaChe alla lor fedeltade Iddio concede.

Alfin la notte ripigliando il corsoPel fosco ciel, tregua e silenzio imponeAl fero suon dell'armi, ed ambo accoglieSotto al suo manto il vincitore e 'l vinto.Sul conteso terren co' prodi suoiAccampossi Michele, e a guardia intornoFolgoreggianti Cherubin dispose:Ma d'altra parte sotto l'ombre intantoSparve Satán co' suoi ribelli, e lungeAd attendarsi andò. Di rabbia pieno,Di riposo incapace, ei là ragunaA notturno consiglio i suoi più grandi,E impavido fra lor così favella:- Or sì conosco il valor vostro a prova,Compagni amati, e la passata pugnaNon solo insuperabili, non soloDegni di libertà, troppo per noiUmile oggetto, ma d'onor, d'impero,Di gloria e fama degni appien mostrovvi.Voi quanto il re del cielo aveva intornoAl trono suo di più possente, in questoDì sostenuto avete, e se il potesteIntero un dì, voi nol potrete ancoraEterni giorni? Egli credea bastantiQuelle sue forze a soggiogarci; eppureNol furon esse. Ad ingannarsi è dunqueColui soggetto che infallibil sempreNoi stimammo finor. D'armi men saldeCoperti, è ver, provato abbiam pugnandoQualche svantaggio, e il non sentito in priaDolor sofferto, ma sprezzarlo ancoraTosto sapemmo. Or sì veggiam per provaChe a mortal danno soggiacer non puoteLa nostra empirea forma, e le diviseMembra innata virtù tosto risalda.D'un così lieve male anco fia lieveIl riparo trovare: armi più ferme,

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Dardi più violenti, in novo scontroO ci daran vittoria, o in lance eguale,(Giacchè eguali in valor ci fe' natura)Terran sospeso della guerra il fato.S'altra ascosa cagion rese miglioreL'ostil fortuna, mentre ancor serbiamoTutto il vigor di nostre menti illeso,Or qui s'indaghi, ed il comun consiglioLà ci discopra. - Ei siede, e in piè NisrocoTosto si leva, fra que' Prenci il primo.Egli, dal crudo agon scampato appena,Smagliata, infranta ha l'armatura, e tuttoRabbuffato, affannato e fosco in vistaCosì risponde: - O de' diritti nostriSostenitor magnanimo, o possenteNostro liberator, sì, troppo è duraAnco per numi e diseguale impresaPugnar con armi diseguali, e controChi non ligio al dolor scaglia il doloreInsiem coi colpi, ed ogni danno quindi,Ogni nostra ruina uopo è che nasca.Che mai giova il valor, che mai la possa,Ancorchè senza pari, incontro ai crudiAssalti di quell'aspro orribil sensoCh'ogni più forte braccio abbatte e snerva?Star privi del piacer ben si può forseE la vita passar contenta e quetaIn calma placidissima profonda;Ma de' mali il peggior, miseria estremaÈ il cruccio del dolor, che, giunto al colmo,Rovescia ogni costanza. Or se avvi alcunoChe inventar sappia con qual forza ed arteAgl'inimici nostri intatti ancoraPossiam recare offesa o armarci almenoDi schermo egual, nostra salvezza e quantoGli si convien per sì gran merto a dritto,Noi gli dovrem. - Con grave ciglio a luiSatáno allor: - Quel che all'impresa estimiTu di tanto momento, io qui l'arrecoGià divisato. Al rilucente aspettoDi questo spazïoso etereo suoloTutto così di vaghe piante adorno,D'ambrosj fiori e frutti e gemme ed oro,Chi di noi volge un guardo e insiem non scorgeChe di quanto quassuso appar di fuoreEi serbar dee gli occulti semi in grembo?Sì, nell'ime sue viscere covandoDi spiritosa ignea natura stannoScure e crude materie in fin che toccheDa' rai celesti e sviluppate e scosseRompan l'alta prigione e varie e vaghe

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S'aprano al chiaro dì. Queste dall'alteLatebre lor d'infernal fiamma pregne,Trarransi fuora; in fondo a vôti ordigni,Lunghi, rotondi in pria compresse, e quindiCon igneo tocco ad un spiraglio angustoRepente accese, con tonante scoppioAvventeran contro lo stuol nemicoTai di ruina orribili strumentiChe quanto opponsi, fracassato, sparso,Sterminato saranne, e sbigottitaCrederà l'oste quel fulmineo teloAl Tonante di man strappato alfine.Breve fia l'opra, e innanzi al dì l'eventoCompierà nostre brame. Ogni timoreSgombrate intanto e dell'usato ardireArmate il cor. Quando consiglio e forzaCongiunti son, non che mancar di speme,Piana stimar dovete ogn'ardua impresa.

Con questi detti i lor languenti spirtiE la cadente speme egli ravviva.La gran scoperta ognuno ammira, ognunoRapita a sè la crede: agevol tantoSuol apparir quel che, mentr'era ignoto,E scuro ed arduo ed impossibil parve!Forse avverrà nelle future etadi,O Adam, se fia che il mal prevalga e inondiQuesta or sì bella e fortunata terra,Forse avverrà che alcun de' figli tuoi,Agli altrui danni inteso, o dall'infernoInspirato ed instrutto, anco una voltaQue' feri ordegni e la satanic'arteDalle tenebre tragga, un don fataleAl guasto per le colpe uman lignaggio,Oimè! ne faccia, e delle mutue stragiMoltiplichi le vie! Repente all'opraVolò ciascun, nè in argomenti e dubbiQuel consesso trattenne; a un tratto pronteFur mani innumerabili, ad un trattoUn ampio giro del celeste suoloVolser sossopra, e in lor recessi oscuriGli alti primordj e le segrete fontiMiraron di natura: ivi del focoGli alimenti trovaro, informi masseDi nitro e zolfo che mischiate in pria,Poi con arte sottil disposte e seccheIn negri sceverâr minuti graniE ne feron conserva. Altri le veneDelle pietre cercaro e de' metalli(Nè dissimili viscere ha la terra),E ne formaro i cavi ordigni e i globiFulminei rovinosi: altri i ministri

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Di ratta fiamma calami provvide,E così pria del rinascente albòre,Sotto la sola consapevol notte,Cheti, guardinghi, inosservati il tuttoApprestaro e compiero. Or quando in cieloIl bel mattin sorgea, sursero anch'essiGli Angeli vincitori: il suon di guerraSparse la tromba, e di lor armi d'oroDa capo a piè coverte, in un istanteTutte ordinârsi le raggianti schiere;E tosto alcuni lievemente armatiDagli albeggianti colli andaro intornoOgni piaggia spiando, ove il nemicoSiasi accampato, se alla pugna riede,Che fa, se move o stassi. Ecco ad un trattoIndi non lungi le ondeggianti insegneNe scorgon essi; ei s'avanzava in lenta,Ma forte e salda massa. Indietro alloraSovr'ali rapidissime di focoRivola, Zofïel, fra tutti i messiQuei ch'ha più ratta e infaticabil penna,E in mezzo l'aere alto sì grida: - All'armi,Guerrieri, all'armi; ecco il nemico, in fugaMal lo credemmo, ed inseguirlo in questoDì non dovrem: non paventate amici,Ch'oggi ci sfugga; ei vien qual densa nube,E un risoluto disperato ardireHa in volto: ognun l'adamantino usbergoS'adatti bene, ognun l'elmo si calchiIn testa, e forte il tondo scudo imbracci;E questo il dì, s'io ben raccolgo i segni,Che lieve pioggia no, ma ruïnosaCadrà tempesta di fiammanti strali.

Ei così parla alle già pronte squadre,Ch'alla battaglia d'ogn'impaccio sciolteMosser repente, nè di là lontanoIl nemico scoprîr che denso e vastoS'inoltrava con gravi alteri passiIn cubica falange, e ad essa in mezzoDai profondi squadron coperte e ascoseLe infernali sue macchine traea.Fermârsi alquanto uno dell'altro a fronteI due campi nemici allor che fuoriDelle sue schiere si lanciò Satáno,Ed alto gridò loro: - A destra e a mancaS'apran le file, e veggan tutti omaiQuei che ci odian così, che accordo e paceDa noi sol vuolsi, e con aperte bracciaPronti siamo ad accôrli, ov'essi il tergoA noi non volgan disdegnosi e crudi:Di ciò sto in forse: testimone il cielo

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Ne sia però che quanto a noi s'aspettaTutto compiemmo: or voi ch'io già de' mieiDisegni instrussi, le proposte nostreFate udir loro in brevi accenti e forti.

Queste ambigue parole ei disse appena,Ch'a destra e a manca aprendosi veloceDi sue schiere la fronte ripiegossiSull'uno e l'altro fianco, e agli occhi nostri,Spettacol novo e strano! a un tratto offerseDi cavi bronzi triplicata fila,Che su ruote girevoli distesiE di quercia o d'abete a grossi tronchiAbbattuti e rimondi in monte o in selva,O a gran pilastri simili, vêr noiSporgean le minaccianti orride bocche.Dietro ognun d'essi un Serafin si stavaChe un calamo scotea d'accesa punta,E mentre noi ne' pensier nostri assortiStiamo e sospesi, ecco di lor ciascunoA un picciol foro la sua canna appressaCon lieve tocco. D'improvvisa vampaTutto arse il ciel, di vortici fumosiTutto ingombrossi; un fiero tuon muggìoDalle profonde vomitanti goleDi quegli ordigni, che dell'aere tutteLe viscere squarciò: di ferrei globi,D'incatenate folgori ad un puntoContro noi rapidissima s'avventaGrandinosa tempesta: in piè restarsiNiun potè a tanta furia, ancor che saldoStesse qual rupe; ma rinfusi a milleE a mille i guerrier nostri uno sull'altroPrecipitaro in un momento, e l'armiA quel disastro ebber gran parte. Ah! senzaIl grave ingombro loro, in spazio breve,Come a natura spiritale è dato,Ristringendosi a un tratto, o con obbliquoVeloce slancio avríen schivar potutoTanta ruina. Or tra le fide schiereTutto è scompiglio, e attonito ciascunoPiù che farsi non sa; chè s'elle incontroA' nemici si scagliano, già in attoSta d'avventar l'irresistibil nemboDe' fulmini secondi un'altra filaDi Serafini. Inutile il coraggio,Inutile il valor veggono i nostri,Ma pur la fuga hanno in orror. SatánoTrïonfator già credesi, già pariAl Tonante, all'Eterno, e in detti amariLi rampogna e deride. In ira accesiEglino di colà si tolgon ratti,

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Gittano l'armi ed a' vicini monti(Chè il cielo ancora offre di monti e valliIl vario ameno aspetto, e a quell'imagoL'ebbe poi questo suol) corron veloci,Volan quai lampi. Or qui l'estrema possaChe negli Angeli suoi pose l'Eterno,Ammira, o Adam! quelle montagne stesseAfferran, scrollan, svellono dall'imeRadici coi lor rivi e scogli e boschi;Per l'irte cime abbrancanle ed in altoLe brandiscon travolte. Assalse tuttaL'oste nemica uno stupore, un gelo,Quando venirsi spaventoso incontroVide de' monti il rovesciato fondo,E sotto il peso lor sepolti, oppresseRestar gli ordigni suoi, le sue speranze;Indi se stessa dalle masse enormiAnco investita che piombavan d'altoPer l'aria intenebrata, e mille a un tempoRicoprian di lor mole armate squadre.Crebbero il danno le armature infrante,Schiacciate e infitte in lor sostanza, ond'asproDuolo insoffribil nacque, un gemer cupoSotto quel carcer ponderoso, un lungoDivincolarsi, uno strisciar di quegliSpirti che prima alla più pura luceEran simíli, e di più grosse formeOr il fallo vestì. L'esempio nostroSeguono gli altri, e de' vicini colliSquarciati e svelti s'armano; con feroUrto e riurto a mezzo l'aere i montiCozzan coi monti, ed in terribil ombra,Quasi sotterra, arde la pugna. È tantoIl furore e 'l fragor, ch'ogn'altra guerraParebbe un gioco al paragon. Si mesceSullo scompiglio orribile scompiglio,E tutto sparso di ruine il cieloIn ultimo conquasso ito sarebbe;Ma il Padre onnipossente dal celestePenetrale, dov'ei securo siedeE la gran somma delle cose libra,Previsto ben tanto tumulto aveaEd il tutto permesso onde far pienoL'alto proposto di mostrare al cieloDell'unto Figlio suo la gloria, e tuttaPalesar la sua possa in lui traslataE vendicarlo appien. Quindi rivoltoVêr lui che a lato gli sedea, sì disse:- O fulgor di mia gloria, amato Figlio,Nel cui sembiante l'invisibil miaDivinità visibile si rende,

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Esecutor de' miei decreti eterni,Onnipotenza egual, passati omaiDue giorni son, quai li contiamo in cielo,Che condusse Michel le mie falangiA domar que' perversi. Atroce e duraFu la battaglia, qual dovea, fra taliNemici in lor balìa da me lasciatiE che uguali io creai. Degli uni il falloTra loro, è ver, un disagguaglio ha posto,Ma lento si parrìa, mentr'io sospendoLa gran condanna che sugli empj deeCadere un giorno, e troppo lunga foraCosì quest'aspra lutta. Omai tutt'ebbeIl suo corso la guerra, e d'armi invece,A' monti stessi ancor dato ha di piglioLo sfrenato furor che il ciel minacciaDisfare omai. Due dì passaro, il terzoÈ tuo, per te l'ho fisso, e fin qui tuttoSoffrii perchè sol tua la gloria fosseDi trarre a fin guerra sì grande, e soloIl potrai tu. Tanta virtude e tantaGrazia io trasfusi in te che cielo e infernoConosceranno il tuo poter maggiore,Siccome il mio; d'ogni confronto, e spentaQuesta rabida fiamma, unico e degnoTu d'ogni cosa apparirai, qual merti,Per la sacra unzïone, erede e rege.Vanne perciò, nella paterna possaOnnipotente, sul mio carro ascendi,Guida le rote rapide crollantiL'empirea mole, l'apparecchio tuttoTraggi di guerra fuor, trai l'arco e i tuoni,Rivesti l'armi onnipossenti, il brandoAl fortissimo fianco appendi, incalzaQue' figli delle tenebre, da tuttiI confini del ciel nel più profondoBaratro li sommergi, e a voglia loroLaggiù il mio Nume e l'unto Re MessiaImparino a sprezzar. - Disse, e sul FiglioTutta versò de' raggi suoi la piena,E questi in volto tutto il Padre espressoMostrò ineffabilmente e a lui rispose:- Padre e Signore de' celesti troni,Primiero, Ottimo, Massimo, Santissimo,Sempre esaltar mia gloria è per te dolce,Per me la tua, qual debbo. È mio dilettoE vanto e gloria mia che tu dichiari,Pago di me, tua volontade empiuta,Di che beato io son. Scettro e possanza,Tuoi doni, io lieto assumo, e ancor più lietoLi deporrò, quando alla fine in tutti

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Tu sarai tutto, io sarò in te per sempre,E in me stesso del par tutti sarannoI diletti da te. Ma quei che abborri,Abborro io pur non meno, e vestir posso,Come la tua clemenza, il tuo terrore,In tutto imagin tua. Cinto del sommoTuo potere io bentosto avrò dal cieloQuegl'iniqui sbanditi e al fondo spintiDel preparato a lor tetro soggiorno,Alle catene tenebrose, al sempreImmortal verme del pensier che osaroAl giusto impero tuo, viva sorgenteD'ogni felicità, farsi ribelli.Allora i Santi tuoi, lunge divisiDa quegl'impuri, risonar farannoDi sublimi alleluia il sacro monte,Ed io primo fra lor. - Disse, inchinossiSopra il suo scettro, e dalla destra surse,Dalla destra di gloria ov'ei sedea.

A rosseggiar la terza aurora in cieloGià cominciava, ed ecco, in suon d'orrendoTurbo, fuor balza rovinoso il carroDella paterna Deità tra un foltoScagliar di fiamme. Si raggiran mosseDa interno spirto animator le ruoteL'une entro l'altre, ma ne reggon quattroForme di Cherubini il corso, e quattroHa ciaschedun meravigliose facce.D'occhi, quasi di stelle, erano sparsiLor corpi ed ali; non men d'occhi pieneLe rote di berillo, e nel lor corsoVia via foco avventavano. S'incurvaSopra il lor capo cristallina vôlta,E di zaffiro un rilucente solioSorge sovr'essa, ove al più puro elettroI varj suoi color l'iride mesce.Coverto di tutt'armi il Figlio appare,Ed il mistico arnese, opra celesteIn cui lampeggia manifesto il VeroPer infusa virtù, si cinge al pettoE 'l carro ascende. La Vittoria a destraGli sta con aquilini agili vanni;Pendongli l'arco e la faretra pienaDelle trisulche folgori sul fianco,E di fumo, di vampe e di favilleGli ruota e stride intorno orribil nembo.In mezzo a innumerabili migliaiaDi Santi ei s'avanzò. Splendea da lungiIl suo venir. Ben ventimila carri(Già il numero io ne intesi) a destra e a mancaSchierati l'accompagnano; sublime

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Su trono di zaffiro e sulle penneDe' Cherubini assiso, ei vien fendendoCon immenso fulgóre i cristalliniCelesti campi. Scerserlo da primaI suoi, che pieni d'esultanza e gioiaA un tratto fur, quando il gran segno in cielo,Il suo drappel dagli Angeli portato,Per l'aere balenò. Pronto MicheleTutte riduce allor le sparse squadreSott'esso in un sol corpo. A sè davanteIl divino poter sgombra la via;Torna ciascuno de' divelti montiAlla sua sede; udîr sua voce, e tostoMossero obbedïenti: il ciel ripigliaL'usato aspetto, e di novelli fioriRide sparsa ogni valle, ogni collina.

La sciagurata oste ribelle il vide,Ma vie più s'ostinò; per nova pugna,Stolta! raccolse le sue forze e spemePrese dal disperar. Ah! rabbia tantaIn Spiriti celesti ebbe ricetto?Ma quali meraviglie e quai prodigiQuei pertinaci cor, quel cieco orgoglioPotean piegar? La lor protervia a quantoPiù frangerla potea, si fe' più dura.La vista di sua gloria in essi innaspraIl dolore, il livor, e a tanta altezzaPur agognando, a ricompor più feriSi dan le squadre lor, per forza o frodeFermi d'aver di Dio vittoria alfine,O nell'estrema universal ruinaCader ravvolti: di ritratta o fugaOgni pensier quindi han sbandito. IntantoAlle fide coorti a destra e a mancaIl gran Figlio di Dio così favella:- Statevi pur, d'Angeli e Santi o voiRifulgenti ordinanze, oggi dall'armiVi rimanete, de' suoi fidi accetteFuro all'Eterno le guerriere prove,E il valore invincibile ch'ei dievvi,Mostraste appien; ma ad altra man s'aspettaSu quella ciurma rea scagliar la pena;Egli medesmo il debbe, o il braccio soloCh'ei destinò vindice suo. Di questoGiorno l'impresa, no, d'armate maniCopia non chiede. Statevi, e mirateCome di Dio per me sovra quest'empjSi versi l'ira. Io fui, non voi, l'oggettoDe' lor dispregi, anzi del lor livore,E tutta contro me lor rabbia han volta,Perocchè il Padre, a cui del ciel la somma

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Gloria appartiensi, la possanza e 'l regno,A suo grado onorommi. Il lor gastigoEi quindi a me rimise, ei vuol che a provaVengan, com'è lor brama, e chi più forteDi noi pugnando sia, scorgano alfine,Od essi insieme, o contro loro io solo.Tutto è per lor la forza; ogn'altro pregioE chi in quello gli avanza, hanno in non cale;Fuorchè di forza dunque altra contesaCon essi aver non vo'. - Disse, e il sembianteDi tal terror vestì, che alcun la vistaNon potè sostenerne, e furïosoSu i nemici si spinse. A un punto i quattroCherubini spiegâr l'ampie stellateAli che fean congiunte orribil'ombra;E col fragor di ruinoso fiumeO d'oste innumerabile, si mosseIl fero carro. Contro gli empj, foscoQual notte, egli s'avventa; il fisso empiroTutto crollò sotto l'ardenti ruote,Fuorchè il trono di Dio; già loro è sopra,Già dieci mila folgori nel pugnoStringe, innanzi gli manda, e, tra le folteSchiere balzando, atroci spasmi infiggeNell'alme scellerate. Ecco ciascunoDi quegli audaci ogni coraggio e forzaPerduto ha già, lor cadono di manoLe inutili armi: sopra scudi ed elmiE d'elmo invan coperte teste ei passaDi stramazzati Serafin possentiE Troni che, qual schermo al suo furore,Le divelte montagne allor bramaroAver pur anco addosso. In ogni parteFioccan non meno tempestosi i dardiDalla faccia quadruplice dei quattroTremendi occhiuti e dalle vive ruoteD'occhi infiniti anch'esse sparse. TuttiGli regge un solo spirto; ogni occhio spandeSu i maladetti orrido lume, e taleScocca foco feral che infermi, emuntiTutti li lascia del vigor primiero,Sbigottiti, sfiniti, oppressi e domi.

Pur la metà del suo poter non volleMostrare il vincitor, ma a mezzo il corsoL'empito di sue folgori rattenne;Chè struggerli non già, ma sol dal cieloSterminarli disegna. Egli dal suoloGli abbattuti rïalza, e a sè davanti,Qual affollata paurosa mandra,Con furie e con terror gl'incalza e spingeAgli estremi confini, al cristallino

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Muro del ciel, ch'ampio si fende, indentro,Si ripiega, s'attorce, e vêr gli abissiVasta disserra spaventevol gola.

A quella vista mostruosa indietroTrassersi con orror, ma li rìpinseLo spavento maggior che aveano a tergo:Dall'altezza del ciel giù capovoltiGittansi, ed han l'ardente, eterno sdegnoSempre alle spalle per l'immensa via.

L'insoffribil fragore udì l'inferno,E vide il ciel precipitar dal cielo;Tremonne tutto e ne fuggìa, se menoAlto gittate il Fato avea le nereSue basi e meno saldamente avvinte.Cadder per nove dì: mugghiò storditoIl Caosse, e del suo sconvolto regnoBen dieci volte s'addoppiò l'orrore,Tal l'ingombrò ruina! Alfin sue fauci,Quant'eran larghe, spalancò l'inferno,Tutti ingoiolli e sovra lor si chiuse;L'inferno degna di quegli empj stanza,D'inestinguibil foco atra vorago,D'ogni dolor, d'ogni miseria albergo.

Scarco di lor s'allegra il cielo, e tostoRichiude il muro suo, che al loco tornaDonde ravvolto s'era. Il trionfanteSuo carro indietro il vincitor ritorce:Tutti gli Angeli suoi che muti in primaStavan sue gesta ad ammirar, con altiPlausi gli vanno incontro, e in man ramosePalme tenendo, ogni ordine lucenteLui di vittoria Re cantando esalta,Lui, figlio, erede e donno, a cui fu datoScettro, e 'l più degno è di regnar. Per mezzoAl cielo in pompa trionfale ei passaAlla sublime reggia, al tempio santoDel Padre suo, che in trono eccelso assisoNella sua gloria lo raccoglie, ov'oraGli siede a destra nel gioire eterno.

Così agli oggetti di quaggiù le coseCelesti assomigliando, a farti meglioPer quel ch'avvenne accorto, io ti svelai,Come bramasti, ciò che forse all'uomoFora stato altrimenti ognor nascoso;Qual s'accese nel ciel discordia e guerraFra le angeliche squadre, e quanto acerbaFu la sorte di lor che ribellantiCon Satáno aspirar tropp'alto osaro.Pel tuo felice stato or ei si struggeD'amara invidia e macchinando stassiCome sedur, come nel fallo stesso

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Trar con seco ti possa, e di sua pena,Dell'eterno suo duol vederti a parte.Questo un sollievo, una vendetta foraDolce per lui che a far dispetto agognaAl Re del ciel così. Chiudi l'orecchioAl tentator nemico, avverti e reggiLei ch'è di te men forte, e quale il fruttoSia del disubbidir, dalla tremendaNarrata istoria aver ti giovi appreso.Potean star saldi e caddero: rimembraIl fero caso e di fallir paventa.

LIBRO SETTIMO

Rafaelo, pregato da Adamo, narra come e perché questo mondo fu creato che dio, dopo aver cacciato dal cielo Satáno ed i ribelli suoi Angeli, dichiarò il suo piacere di creare un altro mondo e altre creature che lo abitassero. L’Onnipotente manda il Figlio con uno splendido corteggio di Angeli a compiere l’opera della creazione in sei giorni. Gli Spiriti celesti la celebrano con inni e cantici e risalgono al cielo col Creatore.

Scendi, Urania, dal ciel, scendi, se questoNome a te si convien, la cui divinaVoce soave accompagnando, io m'ergoSopra l'Olimpio monte ed oltre il voloDelle Pegásee favolose penne.Un vôto nome io non invoco, ed unaDi quelle nove imaginate suoreNon sei per me, nè dell'Olimpo in vettaLa tua dimora è già: tu quella seiChe nata in ciel pria che sorgesser colliE scorressero fonti, insiem parlandoColla germana Sapïenza eternaE scherzando ti stavi innanzi al sommoPadre e Signor, che de' tuoi dolci cantiPrendea diletto. Abitator terrenoIo, guidato da te, d'alzarmi osaiFino all'empiree sedi e spirar l'almoPurissim'aere che lassù tu spiri.Tu salvo mi scorgesti; or salvo al pariIn grembo al mio natal basso elementoTu mi riduci, onde, portato a voloDal mio sfrenato corridor, qual cadde,Ma da altezza minor, su i campi AléiBellerofonte un dì, non caggia anch'io,E vada errando abbandonato e solo.Del canto la metà tuttor m'avanza;Ma in più brevi confini e dentro il giroDel sole or fia rinchiuso: io fermo il piede

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In sulla terra alfine, ed oltre il poloNon più rapito, con maggior baldanzaSpiego la voce che non muta o rocaDivenne ancor, sebbene in tempi rei,In tempi rei sebbene e 'n triste lingue,Sonmi avvenuto, e benchè buio intornoE rischio e solitudine mi cinga.Ma no, solo io non son, mentre tu vieniNel notturno silenzio i sonni mieiA visitar, celeste Musa, o quandoL'aurora innostra l'Orïente. Or seguiA reggere il mio canto; un scelto e degnoD'ascoltatori, ancor che piccol stuolo,Tu gli procura, e 'l barbaro fragoreLungi tienne di Bacco e dell'insanaSeguace turba sua, turba discesaDalla schiatta crudel che mise in braniIl Treïcio cantor, mentre al divinoSuo carme ebbon orecchie e rupi e selve,Finchè il feroce urlar coperse e spenseL'arpa e la voce, e non poteo la MusaSalvar il figlio suo; ma tu, che il puoi,Soccorri a chi t'implora, o Dèa verace,E non, qual essa, un vôto nome, un sogno.

Or di' che fu poichè col fero esempioDi ciò ch'avvenne ai ribellanti SpirtiEbbe l'Angel cortese instrutto Adamo.Del destino che a lui sovrasta ancoraE a tutti i figli suoi, se in mezzo a tantaCopia di frutti onde il bel loco abbonda,Un sol vietato frutto, un sol comandoSì lieve e dolce, ei non rispetta e serba.Con Eva al fianco, in gran pensiero assorto,Tacito, attento, di stupor ripienoEgli ascoltato avea sì strane ed alteIncomprensibil cose; odio nel cielo,Guerra sì presso al Dio di pace, e in senoAlla felicità scompiglio tanto:Ma quando udì che il mal, qual verso il fonteOnda rispinta, sopra lor ricaddeDa cui l'origin ebbe, il mal che starsiLà non potea dove ogni ben soggiorna,Tutti del cor gl'insorti dubbj appienoEi disgombrò. Novella brama intanto,Innocente tuttora, in lui si destaDi saper nuove cose e al suo destinoCongiunte più, come principio avesseQuesta dell'universo opra ammiranda,Quando, perchè, come creata, e quantoDentro l'Eden o fuor, prima ch'ei fosse,Era avvenuto; onde, qual è chi spenta

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Non ha sua sete appieno e il rio pur guataChe mormorando ancor a ber l'invoglia,L'ospite suo celeste in questi accentiEi segue a dimandar. - Sublimi cose,Meravigliose ad intelletto umanoE da queste terrene assai diverseN'hai rivelate, o interpetre divino,Per sovrano favor dall'alte sediQuaggiù mandato a farci a tempo instruttiDi quel che tanto il pensier nostro eccede,E che ignorato esser cagion poteaDella nostra ruina. Eterne quindiGrazie rendiamo a quell'immenso Bene,E col fermo, immutabile propostoD'ognor far nostro il voler suo supremo,A che fummo creati, i suoi benigniAvvisi riceviam. Ma poichè tantoCortese tu ci fosti, e, come piacqueAll'alta Sapïenza, a noi palesiCosì riposti alti misteri hai fatto,Scender più basso alquanto or non t'incresca,E quello raccontar che util non menoForse a saper ci fia; dinne com'ebbePrincipio questo ciel che sì sublimeE sì da noi lontan cotanti aggiraSul nostro capo fiammeggianti lumi,E quest'aere scorrevole che tuttiEmpie gli spazj e mollemente abbracciaL'alma, ridente terra intorno intorno.Di' qual mosse cagion l'alto FattoreDal sempiterno suo sacro riposoQuesta gran mole a fabbricar sì tardiNel vôto grembo del Caosse, e in quantoTempo ebbe fin la cominciata impresa.Sì, s'ei nol vieta, di svelar ti piacciaQuel che non già per esplorar gli arcaniDell'alto impero suo, ma sol per meglioL'opere celebrarne e 'l santo nome,Noi cerchiamo saper. Molto rimaneAl grand'astro del dì, benchè dechini,Di suo corso tuttor. Della tua voce,Dell'amabil tua voce al suon possentePar che sospeso in ciel s'arresti e bramiEi pure udir dalle tue labbra il grandeSuo nascimento, e come in pria naturaSurse dall'invisibile Profondo:E se al par desïoso il suo camminoColla compagna luna Espero affretti,Starà la notte ossequïosa, attentaA' detti tuoi, sospenderà sue leggiIl sonno anch'esso, o il terrem lungi infino

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Che il bel canto tu compia, e verso il cieloPria del novello albór riprenda il volo.

Sì prega Adamo, e dolcemente a luiL'Angel risponde: - E questo ancora ottengaIl tuo modesto addimandar. Ma quale,Qual è di Serafin lingua che possaL'opre narrar del braccio onnipossente,O mente d'uom comprenderle? Pur quelloChe intender puoi, quel che la gloria gioviAd esaltar del gran Fattore e meglioA farti insiem del ben che godi accorto,Negato non ti fia; tal ordin ebbiIo colassù di satisfar la bramaCh'hai di saper, se temperata e saggiaElla sarà. Ma da tropp'alte inchiesteRimanti, Adam; nè lusinghiera spemeTi mova a rintracciar le arcane coseChe alla terra ed al cielo in densa notteQuel re sommo, invisibile, del TuttoSolo conoscitor, cela e ravvolge.Altro abbastanza a investigar rimane,Altro a saper; ma la scïenza è qualeCorporeo nudrimento, e legge e modoFrenarla dee sì che la mente abbracciSol quanto accoglier puote: ingordo eccesso,Come le membra, anco lo spirto aggrava,E 'l soverchio saper follìa diviene.

Odimi dunque, Adam: poichè dal cieloCon le avvampanti legïoni in fondoAi disperati abissi, al suo gastigoPrecipitò Lucifero (tal nomeEbbe l'Arcangel tenebroso alloraChe fra l'angelic'oste ei più splendeaDella vaga del dì foriera stellaAlle altre stelle in mezzo), e poichè indietroRitornò trïonfante il divin FiglioCo' Santi suoi, l'immenso stuol mironneDal solio suo l'onnipossente Padre,E disse a lui rivolto: - Ecco distruttaDell'invido nemico appien la speme,Che tutte al par di sè pensò ribelliTrovar le mie falangi e signor farsiDi questa eterna, inaccessibil roccaCon le lor forze e noi sbalzarne. Ei moltiTrasse in sua frode che per sempre han vôtiI seggi lor, ma il numero maggioreSerba tuttora i suoi: popol bastanteI vasti a posseder celesti regniMeco è rimaso, e de' solenni ritiE del dovuto ministero il santoTempio mancar non può. Ma perchè altero

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Del già commesso mal l'empio non vadaEntro il suo core, e d'aver scemo il cieloCon danno mio non pensi, apprenda il folleQuanto m'è lieve il riparar quel danno,Se alcun ve n'ha nel rimaner disgombroDa que' perversi. Un altro mondo a un cennoFia creato da me: là fuor d'un uomo,D'un uomo solo, un'infinita stirpeD'altr'uomini trarrò ch'ivi soggiorni,Finchè per proprio merto e dopo lungheDi fede e di pietà sincere proveS'apra quassù la strada, in terra il cieloCangisi, in ciel la terra, e solo un regnoEntrambi sien d'eterna gioia e pace.Tutte son vostre queste sedi intanto,O Possanze del cielo, e tu, mio Verbo,Unico Figlio, va, per te mi piaceL'opra eseguir, parla e sia fatta: io spandoL'adombrante mio spirito e la possaEntro il tuo sen: fra termini prescrittiTu impon che terra e ciel sorgano in mezzoDel Profondo infinito e pieno soloDi me medesmo che gli spazj tuttiOccupo dell'Immenso, ancor che dentroMe stesso incircoscritto io mi raccolga,Nè di mia Deità sempre dispieghiFuor la bontade: ell'è d'oprare o starsiLibero appieno e sempre: a me non caso,A me necessità non mai s'appressa,E son lo stesso il mio Volere e 'l Fato.

Così parlò l'Onnipossente appenaChe il Verbo, il Figlio suo, quelle paroleAd effetto recò. Men ratti assaiDell'eseguir di Dio son tempo e moto;Ma per le orecchie nelle umane mentiCon succedevol ordine sol ponnoTrapassarne le idee. Gran gioia e festaSi sparse in tutto il ciel quando l'eternaMente s'udì. - Gloria al Sovran del Tutto(Lassù cantossi), agli uomini venturiSanto volere e in lor soggiorno pace.Sia gloria a Dio, cui la giust'ira ultriceSbalzò dal suo cospetto e dall'albergoDe' giusti gli empj; a lui sia gloria e lodeChe il male stesso in suo saper profondoFa sorgente di ben; che i vôti seggiA rïempir de' rovesciati Spirti,Crea nuova e miglior stirpe, e sovra mondiE secoli infiniti ampio diffondeDi sue grazie il tesor. - Così cantâroTutte le gerarchie. La grande intanto

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Opra a compir, d'onnipotenza cinto,E di raggiante maestà divinaIncoronato, il Figlio apparve. ImmensoAmore e Sapïenza e tutto il PadreIn lui splendeva. Al cocchio suo d'intornoInnumerabil numero s'affoltaDi Cherubini e Serafini e TroniE Possanze e Virtudi; alati SpirtiE alati carri che a migliaia stanno,Fin dall'eternità di Dio fra l'armi,Pei celesti guerrier ne' dì solenniApparecchiati sempre, in mezzo a dueMonti di bronzo; ed or spontanei e presti(Chè vivo Spirto gli anima e governa)Accorrono di là. Spalanca il cielo,Sovra i cardini d'ôr l'eterne porteCon suono armonïoso innanzi a' passiDel Re di gloria che venìa, possenteIn sua parola e spirito, novelliMondi a crear. Sul margine celesteIl divin Figlio, i folti carri e i CoriFermârsi, e, qual da lido, indi miraroIl vasto immensurabile baràtroTorbido, nero, altomugghiante, orrendo,Qual mar ch'abbian dal fondo irati ventiSossopra vôlto e degli ondosi montiSpinte le cime ad assalir le stelleE a confonder col centro il polo. AlloraIl Verbo creator: - Tacete, disse,O tempestosi flutti, e tu, Profondo,Plácati; i furor vostri abbian qui fine. -Nè s'arrestò, ma sulle penne alzatoDe' Cherubini, e di fulgór paternoTutto fiammante, nel Caosse addentro,Nel Caosse che umìl sua voce intese,Si spinse e nell'ancor non nato mondo.In lunga schiera luminosa tuttiGli venìan dietro i Santi suoi, bramosiDi rimirar le maraviglie eccelseDella sua possa e l'apparir primieroDelle cose novelle. Arrestò quindiLe ardenti ruote e l'aurea Sesta preseChe custodita nel tesoro eternoDi Dio si stava a circonscriver questoAmpio universo e quanto in lui si serra.D'un piè fe' centro, e per la vasta oscuraProfondità l'altro aggirando, disse:- Fin qui ti stendi; ecco i confini tuoi,La tua circonferenza è questa, o Mondo. -Così 'l ciel cominciò, così la terra,Materia informe e vôta. Un denso orrore

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L'abisso ricoprìa, ma sull'ondosaCalma le fecondanti ali disteseLo Spirito di Dio; vital virtude,Vital calore entro la fluida massaPer tutto infuse, e in giù le fredde e nereFecce, nemiche della vita, spinseE sceverò. Le varie cose quindiEgli fuse e temprò; colle simìliAggroppò le simìli, e in varj sitiIl resto compartì; l'aere leggieroFra gli spazj ei diffuse, e in sè librataStette la terra al proprio centro appesa.

- Sia la luce, - Iddio disse, e fu la luce,La prima delle cose, etereo spirto,Vivido, puro, che dall'imo fondoEmerse e per lo folto aëreo buioDal nativo Orïente il cammin preseConglomerata in radïante nube;Chè il sole ancor non era, ed ella intantoQuel nuvoloso tabernacol ebbePer sua dimora. Rimirò la luceL'Eterno e sen compiacque: ei la diviseDalle tenebre quindi, e giorno lei,Notte queste appellò. Così compiutoFu il primo dì, sera e mattin; nè il foltoCeleste coro senza onor lasciollo,Quando mirò dal cupo abisso fuora,A guisa di vapor, spiccarsi il grandeLuminoso tesoro, e splender lietoDella terra e del cielo il dì natale.Suonò di plausi e di letizia tuttoDell'universo il cavo immenso giro,E al concento divin dell'arpe d'oroFu celebrato il Creator sovranoDel mattin primo e della prima sera.

Disse di nuovo Iddio: - Fra mezzo all'ondeStendasi il firmamento, il qual dividaL'acque dall'acque: - E 'l firmamento ei feo,Liquido, spanto, trasparente e puroEtere elementar, diffuso in giroFin del grand'orbe all'ultimo convesso,Argin saldo e sicuro, onde partiteDalle soggette son l'acque superne.Così al par della terra, il mondo ei poseTra circonfuse acque tranquille in ampioMar cristallino, e lungi del CaosseIl rovinoso furïar sospinse;Perchè all'intera mole oltraggio e dannoLe contigue pugnanti estreme partiNon potesser recare: e il firmamentoEi nomò ciel. Così del dì secondo

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Cantâr l'alba e la sera i sommi Cori.Era la terra, ma de' flutti in seno,

Qual immaturo parto, ancor ravvoltaNon apparìa. Sulla sua faccia interaOndeggiava un vastissimo oceáno,E non invan; chè penetrando tuttoDella gran madre ed ammollendo il gremboCon caldo, genïal, fecondo umore,A mover la virtù de' germi ascosaAtta rendeala, allor che disse Iddio:- Acque che siete sotto il cielo, andateA congregarvi entro un ricetto solo,E fuor l'Arida appaia. - Ed ecco i vastiCorpi sorger de' monti, infra le nubiLe larghe sollevar sassose tergaE alteramente al cielo erger le fronti.Quant'essi alto levârsi, in giù pur tantoS'avvallò, s'adimò concavo e largo,Capace letto all'acque, un alto fondo,Ove repente s'affrettâr con lietaRapida fuga, raggruppate comeGlobose gocce in sulla secca polve;E parte ancor di cristalline muraO di ripide balze ebber sembianzaNel veloce cadere: impeto tantoImpresse lor l'alto comando! e qualiIo già ti pinsi della tromba al primoSquillo serrarsi le celesti schiereA' lor vessilli, tal l'ondosa piena,Flutto su flutto, ove trovò la via,S'affollò, s'ammontò: dall'erte cimeColà sonante e rovinosa cadde;Qua per lo piano tacita si mosseCon lento passo. Non montagna o rupeNe arresta il corso; ivi segreto varcoElla s'apre sotterra, e qui vagandoIn tortuosi serpentini giriTrapassa ogni ritegno. In sen del molleCedevol limo con profondi solchiFassi agevole strada; asciutto è il resto,E sol fra quelle sponde i fiumi vannoL'ondoso rivolgendo altero corno.

Diede all'Arida Iddio di terra il nome,E mar chiamò dell'acque il gran ricetto:Indi, pago dell'opra: - Or sorgan, disse,Verdi erbe e piante dalla terra, e fuoriConformi alla lor specie e frutta e semiGermoglino da loro, onde novelleErbe e piante dipoi. - Disse, e l'ignudaTerra, sparuta, squallida, deforme,Manda ad un tratto fuor minute e fresche

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Erbe e d'un gajo verdeggiante ammantoTutta si veste e adorna; indi, virgultiSpuntano e piante d'ogni fronda e fiore,Onde il suo sen d'odori e color milleOlezza e ride. Florida serpeggiaLa racemosa vite, e l'ampio ventrePosato al suol, striscia la zucca; in campoS'alzan schierate le nodose canne,Sorge l'umile arbusto e l'irto cespoCon intrecciate chiome; ergonsi alfine,Siccome agile stuol che sorge a danza,I maestosi tronchi, e gli ampj ramiDistendon gravi di mature pomaO ingemmati di fior: d'alte boscaglieS'incoronano i colli, ornan le valliE cingono de' fiumi e delle fontiLe amene ripe frondeggianti gruppi,Dilettosi boschetti. Imago alfineParve del ciel la terra e degna sede,Ove a diporto andar vagando ancoraPotessero i Celesti o far soggiornoAll'ombre sacre. Dalle nubi scesaLa fecondante pioggia ancor non era,Nè avea la terra alcun cultor, ma fuoriUn rorido vapor le uscìa dal gremboChe largamente ad irrigar cadeaOgn'erba e pianta dall'Autor sovranoIvi creata, pria ch'a uscir dal germePer sè medesma e sopra il verde steloA crescer cominciasse. Iddio con gioiaMirò del terzo dì l'opre novelle,E disse quindi: - Nel disteso giroDel cielo, a dipartir dal dì la notte,Splendan raggianti lumi; e sien de' giorni,Delle stagioni e de' girevoli anniI certi segni, e, come lor prescrivoNella celeste ampiezza il ministero,Versino luce in sulla terra. - Ei disse,E così fu. Per le sublimi vieDel firmamento, a pro dell'uom, due grandiAstri splendero in maestevol pompa:Al giorno il primo ed il maggior diè legge,Alla notte il minor. Le stelle a un tempoEgli pur fe' ch'a illuminar la terraEd a segnar con lor vicende alterneI confini del giorno e della notteSospese nei celesti immensi campi:Indi sull'opra sua volgendo il guardoBuona ei la scôrse. Questo re degli astri,Vasto fiammante orbe del sol, la tondaArgentea luna e le sideree faci

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Che sì varie di mole e così folteFur seminate negli eterei piani,Prive di luce eran da pria, ma tostoElla sgorgò dal nubiloso albergoE corse, qual torrente, in seno al grandeAstro del dì che insiem poroso e saldoL'assorbì, la ritenne e fu di leiSfavillante palagio. Al suo fulgòreLe corna indora il mattutin pianeta;A lui, come a lor fonte, han l'altre stelleTutte ricorso; e le lor urne d'oroEmpion di luce, quante stelle, sparseNe' più remoti spazj, al vostro sguardoMostransi appena e di minuti puntiHanno sembianza. Glorïoso, augustoDel giorno reggitore in orïenteEgli da pria comparve, e lieto, alteroDi gire a misurar l'eterea via,Co' vivi raggi l'orizzonte intornoFolgorò tutto. Innanzi a lui, spargendoDolci influssi, le Pleiadi e l'AuroraCarolavano liete, e ad esso oppostaNell'occaso lontan dal pieno voltoSpandeva il mite pallidetto lumeLa luna, ch'è suo specchio e bee da luiQuanto di luce ha d'uopo. Il sol s'inoltra,Ella s'invola, e in orïente quindi,Sull'ampio roteando asse del cielo,Ritorna ad apparir da mille cintaE mille astri minor che seco il regnoDividon della notte, e d'auree gemmeSpargono al firmamento il fosco velo.Così dell'alme faci, onde rifulgeAlternamente il cielo, adorne e lieteFuron del quarto dì l'alba e la sera.

Disse di nuovo Iddio: - Generin l'acqueSquamee, feconde, nuotatrici torme,E per l'aperto liquid'aere a voloS'alzin gli augei sugli spiegati vanni.Così le gran balene e quanto guizzaPer l'ampio mar, di tante specie e tante,E quanto sulle penne il ciel trascorre,Egli creò; buono lo scôrse e il tuttoBenedisse così: - Di larga proleSiate feraci, o pesci, e fiumi e laghiE mari empiete, e sulla terra voiMultiplicate, o augelli. - E tosto i mariBrulican tutti, i golfi, i stretti e i seniDi multiforme popolo che l'ondeCerulee solca con lucenti squame,E in dense truppe unito, ingombra spesso,

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Di sirti a guisa, i vasti equorei gorghi.Di tanto marin gregge altri soletti,Ed altri in compagnia pascendo vannoI giunchi e l'alghe: questi in gai trastulliSaltan, corron, s'aggirano fra i boschiDe' ramosi coralli e a' rai del soleSpiegan co' vivi guizzi i varj e vaghiColor de' rifulgenti aurati dossi;Quelli in perlate conche attendon quetiIl lor guazzoso pasto; altri covertiDi ben connesso arnese, ascosi e intentiSotto gli scogli ad aspettar si stannoLa solit'esca. In sull'ondosa calmaTrescando van l'enormi foche e i curviDelfini in frotta. La lor mole immaneAltri ravvoltolando in larghe roteTempestan l'Oceán. Colà si stendeLa balena vastissima simìleA un monte in sulle liquide campagne,O se si move, un'isola natanteTu la diresti: entro sue fauci un mareTragge ed ingorga, e per la cava trombaAlto riversa un mar. Le ripe intanto,I tiepid'antri, le paludi, i boschiNumerosa non men covan la proleDelle famiglie aligere che, uscendoDello scoppiato guscio ignude in priaE tenerelle, si coprîr bentostoDi varia e folta piuma, e valid'alStendendo al tergo, per le vie de' ventiSlanciârsi a volo e in ondeggiante, oscuraNube distese, la soggetta terraSprezzâr con lieto risonante grido.In cima agli alti cedri e all'erte rupiI loro nidi a fabbricar volaroL'aquila e la cicogna. Altri solettiFendon gli äerei piani; altri, più saggi,E di stagioni esperti, in densa, acutaOrdinanza schierati apronsi il calle,E col concorde remigar dell'aliTravarcan terre e mari e nubi e nembi.Drizzan così le accorte gru su i ventiL'annuo vïaggio loro: ondeggia e rombaDalle gagliarde innumerabil penneL'aere sferzato e rotto. I pinti vanniDi ramo in ramo dispiegaron lietiGli augei minori, e rallegrâr col cantoInfino a sera le tacenti selve;Nè allor cessò da' suoi gorgheggi usatiIl tenero usignuol, ma in dolci noteIterò tutta notte il suo lamento.

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Altri de' fiumi e degli argentei laghiGodon bagnar nelle chiare onde il mollePiumoso petto: tale il collo inarcaFra le distese candid'ali il cigno,E sul piè vogator veleggia altero.Pur spesso ancor dal basso letto ondosoStendon robusto il volo e van sublimiPel cielo in giro. Altri col piè la terraAman meglio calcar; così passeggia,Vigile nunzio delle tacit'ore,Il gallo altocrestuto, e chiama e sgridaL'alba che indugia, con sonora voce:Tal è il pavone ancor che di sè stessoFastoso ammirator dispiega e ruotaD'ogni color dell'iride splendenteL'occhiuta coda. Popolate l'ondeFuron così d'abitator squamosi,E fu pien l'aere di pennute schiereTra 'l sorgere e 'l cader del quinto giorno.

Spuntava il sesto al suon dell'arpe, il sestoChe del crear fu meta, e disse Iddio:- Produci, o terra, anime vive, armenti,Rettili e belve d'ogni specie. - InteseLa terra il suo comando e 'l fertil gremboA un tratto aprendo, innumerabil copiaDi vive creature a un parto schiude,Perfette e appien cresciute: escon dal suolo,Qual da covile, le selvagge belveNe' lochi ov'usan, fra cespugli, in tane,In selve ed in foreste: a paio a paioSbucaron fra le piante, e qua, là tostoMossero i passi, mentre a' campi in mezzoE a' verdeggianti prati uscìan gli armenti.Rare andâr quelle e solitarie, in branchiQuesti, e insiem pascolanti. Appar figlianteOgni gleba, ogni cespo: infino al mezzoSorge il fulvo lione, e l'altre membraA sprigionar, colla graffiante brancaFende il terren; vinto ogn'impaccio alfine,Su balza e scuote la vaiata chioma.Così la lince, il leopardo, il tigreSopra di sè lo screpolato suolo,Di talpa a guisa, alzano in monti, e all'almoRaggio del sol emergono. ProtendeL'arboree corna al ciel l'agile cervo,E la pesante sua mole sollevaA grande stento l'elefante, il figlioDella terra più vasto. Escon belandoPer colli e valli, numerose e folte,Quai cespi in bosco, le lanose gregge;Esce il marin cavallo, esce squamoso

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Fuor dell'arena il cocodrillo, incertiSe deggiano abitar la terra o l'onda.Di quanto striscia il suol, d'insetti e vermiFuor sprigionossi l'infinito a un trattoPopol minuto; le lievissim'aliNell'aer susurrante agitan quelli,E le sì brevi e leggiadrette membraMostrano adorne di lucenti sprazziAurati, porporini, azzurri e verdi,E di quanti più vivi e gai coloriHa Primavera: a tenue fil simìliSi strascinano questi e oblique tracceStampan sul molle suol. Tutti non furoSì minimi però, ma in larghe spire,Meravigliosi di lunghezza e mole,Si raggrupparo i draghi, e in aere anch'essiS'alzâr sull'ali. In bruni stuoli unite,Parche, operose, del futuro accorte,Chiudenti in picciol corpo un alto coreSe n'uscîr le formiche, un giorno forseA popoli e cittadi esempio illustreDi giusto eguale popolar governo.Apparver quindi aggrumolate in densiSciami le pecchie che il nettareo succoRaccoglier san nell'ingegnose celle,Onde i pigri mariti involan posciaDelizïoso e non mertato pasto.Che giova il resto rammentar? Tu destiAd essi i vari nomi, e a te ben notiSono i lor genii e i lor costumi. Il serpe,D'ogni altra belva più sagace, ancoraTu ben conosci: egli, talora immaneIn sua grandezza, occhi bronzini aggiraE squassa la villosa orrida chioma;Ma, come ogn'altra fera, ode sommessoE riverente di tua voce il suono,E ognor l'udrà, se a Dio fedel ti serbi.

Già in tutta la sua gloria il ciel splendeaRotando i giri suoi come direttiGli avea del primo gran Motor la mano,E nella pompa di sue ricche spoglieAmabilmente sorridea la terra:Già trascorreano il suolo e l'aere e l'ondaBelve, augei, pesci in ampie torme, e parteRestava ancor del sesto dì: la primaTuttor mancava e la più nobil opra,D'ogni già fatta cosa il fin prefisso,La creatura che non curva al suolo,Siccome l'altre, ma il sublime e santoLume della ragione in sè portando,Alto levasse la serena fronte

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Vêr gli stellanti giri, e sovr'ogni altraDominio avesse; che, de' proprj eccelsiPregi a sè conscia, a corrisponder attaSi stimasse col ciel, ma grata a un tempoD'ogni suo ben lo confessasse il fonte,Gli occhi, la voce, il cor sempre volgendoDivotamente a venerar l'augustoArtefice sovran che lei fe' capoDi tutte l'opre sue. Quindi s'udìoCosì l'eterno, onnipresente PadreAl Figlio favellar: - A imagin nostraOr l'uom facciamo, e sugli augei, sui pesci,Sulle belve del campo egli abbia imperoE su tutta la terra e sovra quantoIn sulla terra striscia. - E sì dicendo,Te, Adamo, egli formò, te limo e polveDi quella terra stessa, ed in tue nariSoffiò spirto di vita; in te s'impresseLa sua medesma effigie, in te rifulseDi Dio la sacra somiglianza, e vivaAnima divenisti. Eri tu soloDel maschio sesso, e di femmineo tostoUna dolce compagna egli ti diede,Onde da voi progenie uscisse, e tuttoBenedicendo in voi l'umano germe:- Moltiplicate, egli vi disse, empiete,Dominate la terra, e quanto in mareIn aria e sopra il suol si move e spira,Voi riconosca suoi signor. - Dal locoPoscia ov'ei ti creò, qual che si fosse(Chè nome ancor non hanno i lochi), in questoDilettoso boschetto egli t'addusse,Tu rimembrar lo devi, in questo amenoGiardin ch'ei stesso popolò di tantiSì dolci al gusto, a rimirar sì vaghiArbori e frutti, e libera la sceltaInfra lor ti lasciò. Quanto la terraTramanda ovunque dal fecondo seno,Qui raccolto è per te: sol di quel fruttoChe del bene e del mal contezza arrecaA chi lo gusta, t'è il gustar vietato:Morte è l'imposta pena, e 'l dì che il gusti,Giorno è per te d'inevitabil morte.Reggi tue voglie, di fallir paventa,E morte che al fallir sarà compagna.

Ei qui diè fine, e quanto fe' mirando,Buono lo scorse appien. Così dall'albaE dalla sera il sesto dì fu chiuso.Cessò dall'opra, e non già stanco, allora,E al ciel de' cieli, alla superna sedeRitorno fe', di contemplar bramoso

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Dall'alto del suo trono il giovin mondoPur or aggiunto al vasto impero, e comeE buono e vago indi apparisse e al grandeSuo disegno conforme. In mezzo ai canti,Ai plausi e al suono rapitor di dieciMila angeliche cetre egli levossi:L'äer tutto echeggiò, tutta la terra,Alla dolce armonia (tu lo rimembri,Poichè l'udisti) risonâr le sfere,Rispose il cielo, e s'arrestaro intentiI pianeti ad udir, mentre ascendeaLa festeggiante luminosa pompa.

- Apriti, o ciel (cantavasi), v'aprite,Viventi, eterne porte: ecco ritornaIl Creator di nuova gloria cintoDall'opra sua mirabile, dall'opraDi sei dì, l'universo. Ei vien: v'apriteOra, e sovente in avvenir; chè spessoEi prenderà di visitar dilettoLe dimore de' giusti, e i nunzj alatiLor spedirà del suo favor ministriCon amica frequenza. - Il glorïosoCoro in salir così cantava, ed egliAttraversando il ciel, che le raggiantiPorte gli spalancò, verso l'eternaMagion del sommo Padre il piè rivolsePer ampia via che di folti astri e d'oroHa il pavimento, somigliante a quellaChe tutta sparsa di minute stelleSopra il tuo capo biancheggiar tu vediNel seren della notte, e, quasi fascia,Per mezzo al firmamento si distende.

Già del settimo giorno il sol cadea,E tremolando fuor dall'orïente,Foriero della notte, in sulla terraFosco barlume usciva, allor che al sacroMonte, di cui l'inaccessibil vettaLo eternamente immobile sostieneDivino trono, il Figlio giunse. A cantoDel suo gran Genitor egli s'assise,Del Genitor che là sedea, ma insiemeInvisibil venuto era col Figlio(Tal è di Dio l'onnipresenza!), e datoOrdine all'opra aveva egli del TuttoAutore e fine. Riposando alloraL'alto Fattor dalla fornita impresa,Sacrò il settimo dì, qual termin postoAlle grandi opre sue; ma non già muteStettero l'arpe: animator empieoMusico soffio ed oricalchi e trombe,Organi e flauti, ed ineffabil suono

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Dall'auree disgorgò tremule cordeChe delle or sole ed or alterne vociAccompagnò la melodia divina.Da' turiboli d'ôr salìano intantoNubi d'incenso, e d'odoroso veloCoprìano intorno il monte, e de' sei giorni,Si celebrò così l'alto lavoro:

- Quanto, o Signor, son l'opre tue sublimi!Quanta è tua possa! Qual pensiero arrivaA misurarti, e qual può lingua sciorreDi te degne parole? Assai più grandeOr tu riedi fra noi che quando armatoDelle tremende folgori i gigantiAngeli iniqui sterminasti: alloraDistruggevi, or tu crei. Chi teco a prova,Signor, chi può venir? Chi por confiniAl regno tuo? Delle ribelli squadreChe lo splendor della tua gloria e i tuoiAdoratori di scemar tentaro,Che valser mai le scellerate trame?Quanto agevol ti fu quel cieco orgoglio,Quei stolti sforzi rovesciar? Chi guerraMoverti ardisce, ei sol più grande e chiaraFa la tua possa. Di quel mal tu saggioConosci l'uso, e in maggior bene il volgi.Ecco un novello mondo, un altro cielo,Da questo ciel non lungi, in sul lucenteMar cristallino, al tuo comando è surto,Di quasi immensa ampiezza: ecco infinitiAstri gli fanno splendida corona,E ciascun d'essi è forse un mondo, ov'altriAbitator saran locati un giorno;Ma il quando è a te sol noto. Ecco fra tantiGlobi la terra dal profondo intornoSuo proprio mar cerchiata, ameno e lietoDell'uom soggiorno. Oh ben tre volte e quattroFelice l'uomo e i figli suoi che a tantiFavori Iddio sortì! La propria imagoEi con mano amorosa in loro impresse,Ei di quel vago albergo a lor fe' dono,E sovra ogni opra sua diede l'imperoIn terra, in aere, in mar, nè ad essi imposeChe di cantar sue lodi il dolce incarco,E d'accrescergli ognor di giusti e santiAdoratori una novella stirpe.Oh lor felici appien, se scorger sannoLa lor felicitade, e fermi e fidiLa dritta via calcar! - Così cantaroGli empirei Cori, e d'alleluia lietiTutto il ciel risonò; così fu il primoSabbato celebrato. Or paga io fei

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La tua richiesta di saper qual fosseDi questo mondo e delle cose tutteL'origin prima e 'l primo aspetto, e quantoPria del tuo tempo avvenne, onde contezzaN'abbian da te quei che verran. Se bramiAltro saper che di saper negatoAll'uom non sia, la tua dimanda esponi.

LIBRO OTTAVO

Adamo fa varie domande intorno a’ movimenti celesti, alle quali riceve dubbie risposte, e viene esortato a cercare di istruirsi piuttosto di ciò che gli può veramente esser utile. Egli si conforma a questo consiglio, e per trattenere Raffaelo, gli riferisce le sue prime idee dopo che fu creato; gli narra come fu trasportato nel Paradiso terrestre; come parlò con Dio intorno alla solitudine e alla società; come ottenne una compagna, e quanto grande fu la sua gioia al primo vederla. L’Angelo gli dà sopra ciò alcuni utili insegnamenti, e dopo aver ripetute le sue ammonizioni fa ritorno al cielo.

Qui l'Angel tacque, e di sua voce il suonoNell'orecchia d'Adam restò sì dolceChe ancor d'udirla egli credeasi e intentoPendea dal muto labbro. Alfin riscossoCon grato cor così rispose: - Oh! come,Istorico divin, render giammaiGrazie o mercè bastanti a te poss'io?Tu la mia di sapere ardente bramaLargamente appagasti, e arcane coseE per me imperscrutabili degnatoTi se' svelar che di stupor, di gioiaM'empiono insieme e di devoto affettoVêr l'alto Creator. Ma pur sospesaTien la mia mente un qualche dubbio ancora,Che tu sol puoi discior. Quand'io rimiroQuesto del cielo e della terra immenso,Nobil teatro, e le diverse moliNe paragono insiem, null'altro io veggoEsser la terra che una macchia, un soloPunto, un atomo sol fra tanti e tantiAstri ch'ardon lassuso. Eppur scorrendoDïurna immensa via questi sen vanno,Se a lor distanza e al rapido ritornoSi rivolga il pensier; ed altro intantoMinistero non han, tranne sol quelloD'impartir luce a questa opaca terraLa notte e 'l giorno, a questo punto? E come(Spesso meravigliando in cor favello)Natura, in tutto così parca e saggia,Qui non serbò misura, e a questo solo

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Uso sì vaste e senza posa maiRotanti masse ha destinato, mentreQuesta picciola terra, atta con moltoPiù breve a raggirarsi e facil moto,Ferma e ozïosa in mezzo a lor si giace;Ed esse, fatte di reïne ancelle,Per via sì lunga e con rattezza tantaChe nel notarla il numero vien meno,Di luce e di calor le invian tributo?

Così diceva Adamo, ed al sembianteVolgere in mente alti pensier mostrava.Eva, allora dal loco ove in disparteSedeasi alquanto, chè di ciò s'accorse,Alzossi e 'l piè di là rivolse altroveSì umìl, sì maestosa e sì gentileChe a chi mirolla il suo partir increbbeI frutti e i fior, sua dilettosa cura,Vassen'ella a veder, se freschi e belliSpuntavano e crescean. Dell'amorosaLor nudrice all'arrivo ornarsi tuttiParvero di più lucidi coloriE tocchi da sua man sorger più lieti.Nè già, perch'ella un tal parlar non curi,O mal atta a gustar l'alte dottrineSia la sua mente, di colà si toglie;Ma sol perchè il diletto a sè riserbaD'udirle poscia, ascoltatrice sola,Dal labbro del consorte; e lui, più caroNarrator dell'Arcangelo, s'eleggeD'interrogar, che a' detti suoi (ben sallo)Dolci interrompimenti avrìa frammisti,E le sublimi dispute disciolteFra maritali vezzi: ella non bramaDalla bocca d'Adam sole parole.Ah! dove coppia tal con sì bel nodoD'amor, di mutua stima unita e stretta,Dov'or si trova? In dolce atto celesteE non senza corteggio ella partissi;Chè di lei qual reina ivan sull'ormeLe Grazie a mille, ed amorosi straliScoccavan sì che desïosa intornoOgni cosa parea di sua dimora.

D'Adamo ai dubbj Rafaello intantoCosì risponde affabile e gentile:- Di ricercar, d'intendere il desìoIn te non biasmo, Adamo: il cielo è quasiDi Dio volume a te dinanzi aperto,Ove legger di lui l'opre ammirandeTu possa e l'ore e i giorni e i mesi e gli anni;Ma che il cielo si mova oppur la terra,Nulla importa per ciò, se dritto estimi.

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All'Angel come all'uom nascose il restoL'alto Architetto in suo saper, nè volleDisvelar suoi segreti a lor, cui meglioChe investigare, l'ammirar conviensi.Ma se argomenti e conghietture vaneAmeranno i tuoi figli, un vasto campoA lor tenzoni egli lasciò nel cielo,Onde poi forse de' lor dotti sogniRida fra sè quando imitar vorrannoCo' lor ordigni que' superni giriE misurar le stelle. In quante guiseRavvolgeran la vasta mole! Oh quantoFabbricheranno e struggeranno a provaCon incessante infruttuosa briga!Di quanti cerchj avviluppato intornoQuel lor mondo sarà! Fra l'uno e l'altroPolo qual riporran confuso ingombroD'orbite e zone, une entro l'altre! Io veggo,Sì, veggo già dal tuo parlar che troppoSaran tuoi figli a cotai studj intesi.Strano ti sembra che a minori e foschiCorpi servano sol quelle sì vasteLucenti masse, e che s'aggiri il cielo,Per sì lungo cammin, mentre la terraIn tanto moto immobile sedendo,Delle fatiche altrui tutto ella solaRaccoglie il frutto. Or tu pon mente in pria,Che delle cose misurare il prezzoSulla lor mole o sul fulgor non déssi;E questa terra, a paragon del cieloPiccola sì nè lucida, ben puoteChiudere in sè maggior virtù del sole,Che per sè steril splende e solo in essaFertil vigore infonde. A lei nel senoQuella virtù che inoperosa fora,Dispiegano i suoi rai; nè già le stelleVersano a pro della terrestre moleLa luce lor; tutto è per te quel dono,O della terra abitator. Sì vastaDe' cieli ampiezza poi ti mostri e dicaQual sia del gran Fattor la possa e l'altaMagnificenza che sì lungi steseLa creatrice man. Conosci, Adamo,Che non è sol quaggiù la tua dimora;Ma l'occhio volgi a quegli spazj immensi,Al cui paraggio altro non sei che un puntoTu con la terra insiem. Venera il restoFatto per usi arcani e noti soloA quel supremo Autor. Di tante sfereNel rotar rapidissimo perenneScorger tu puoi quel braccio onnipossente

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Ch'alla materia stessa imprimer seppeCelerità quasi di spirto; e lentoNon stimerai tu me che al nascer primoDel dì lasciate le celesti sedi,Pur giunsi qui pria del meriggio, e taleSpazio varcai che in numeri segnatoEsser non puote. A disgombrar tuoi dubbjSe possa o no rotar l'eterea vôlta,Così m'udisti argomentar, nè intendoAsseverar perciò che il ciel si mova,Qual sembra a te che fai quaggiù soggiorno.Da questo basso suol locò sì lungeI cieli e dagli umani infermi sensiQuel gran Fattor, perchè, se umano sguardoGir presume lassù, niun frutto colga,E si pasca d'error. Non potrìa forseCentro dell'universo essere il sole,E l'altre stelle da sua forza attratteE dalla propria loro in un sospinteMoversi a lui d'intorno in varj giri?Tu vedi sei di lor ch'or alto or bassoEd or innanzi ed or indietro vanno,Or s'arrestano, or celansi; e la terra,Benchè immota ti sembri all'aere in seno,Settima unirsi non potrìa con esse,E con moto tergemino diverso,Nascosto a' sensi tuoi, rotarsi anch'ella?Forza allor non sarìa che a tante sfereIn parti opposte obbliquamente spinteTu quei giri ascrivessi: ecco del soleCessato allora il faticoso corso,E del primo invisibile grand'orbeChe al di sopra d'ogn'astro, il moto imprimeA tutto il firmamento e sì la ruotaDella notte e del dì perpetuo gira,Più non hai d'uopo: ecco sì lunghe vieFinger non dèi, se vêr le piagge EoeA ricercar per sè medesma il giornoSi volge allor sollecita la terra,E mentre una sua parte al sole oppostaVia via coperta è dal notturno velo,L'altro emisfero suo del pari incontroVa del grand'astro ai raggi. E forse ancoraPel limpid'aere non potrìa la terraDiffonder luce alla propinqua luna,E a lei render nel dì quel che da leiRiceve in notte, con vicenda alternaEd opportuna, se abitanti e campiSon pur lassù? Le macchie sue tu vediSimili a nubi; or ponno in pioggia sciorsiLe nubi, e lieto far di piante e frutti

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La pioggia può quell'ammollito suoloChe adatto cibo a que' viventi appresti.Forse altri soli ed altre lune un giornoSi scopriranno ancor, di maschia luceRaggianti quelli e di femminea queste(Gemino sesso animator di tuttoIl magno corpo di natura), e forseAvran chi pur in essi e viva e spiri;Poichè sì vaste regïoni immense,Vôte d'abitator, solinghe, muteE solo fatte a scintillar d'un raggioChe sì sottil, sì languidetto scendeQuaggiuso e indietro anco più debil torna,No, creder non convien. Ma sia qual vuolsiL'ordin dell'universo: in ciel s'aggiriRegolator sopra la terra il sole,O questa intorno a lui; dall'orïenteLa fiammante carriera esso cominci,O dall'occaso con leggiero e chetoEquabil passo ella vêr lui s'inoltri,E mollemente sul volubil asseTe con le tacit'aure insiem trasporti,In tali arcani travagliar tua menteAh! non voler, Adamo; a Dio li lascia,Lui servi e temi, e l'ordine ei disponga,A grado suo, delle create cose:Tu i doni suoi, questo felice suoloE la bell'Eva tua contento godi.Per le ricerche tue tropp'alto è il cielo,Umilmente sii saggio, a quel che pressoTi sta volgi tue cure, i sogni vaniE d'altri mondi e di chi là soggiorni,Da te disgombra, e che svelato io t'abbiaDella terra e del ciel quanto mi lice,Pago rimanti. - Non più incerto alloraAdam soggiunge: - Oh come, eccelsa e pura,Celeste Intelligenza, appien la seteDel saper tu mi calmi! Il nodo hai troncoTu de' miei dubbj, e 'l più tranquillo e pianoCammino io scorgo omai, lungi dall'aspreCure che attoscan della vita il dolce.Sì, que' pensieri infesti Iddio, lo veggo,Allontanò dall'uom, se lungi ei stessoCon errante desìo, con studio vanoA cercarli non va: ma spingersi amaFuor di sentier l'irrequïeta menteSenza alcun freno e senza meta alcuna,Finchè ragione e la maestra provaNon la richiama a quel verace e primoSaper che di sottili astruse coseIn traccia non si volge e d'uso vôte,

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Ma quelle sol che gli stan presso e dondeRaccor può frutto, a investigar s'adopra.Un delirio orgoglioso, un fumo, un vento,Null'altro è il resto, ed inesperti e tardiCi rende a quel che più ne importa, e soloDi più oltre indagar cupidi sempre.Ah! sì, da tant'altezza il vol s'abbassi,E più vicine utili cose il temaSian de' nostri colloqui, onde a me sorgaAlcun suggetto d'opportuna inchiesta,Se di tua sofferenza e dell'usatoFavor vorrai degnarmi. Udii con gioiaDi quel che innanzi a mia memoria avvenneL'istoria dal tuo labbro; ora la miaPoss'io sperar che tu d'udir non sdegni?Tu forse ancor la ignori, e parte ancoraRiman del dì. Quant'io m'ingegni or vediPer trattenerti meco. A tanto ardireSieno discolpa la mia speme e 'l vivoDesìo di tue risposte. Io teco assisoCredo sedermi in cielo; e assai più dolciSono all'orecchio mio gli accenti tuoiChe al rïarso e famelico palato,Dopo il lavoro, i frutti della palmaSull'ora calda che al ristoro invita.Sazian bentosto quei, benchè soavi,Ma non così le tue parole asperseDella superna grazia. - E la tua lingua(Con celeste dolcezza a lui soggiungeL'Angelo allora) e le tue labbra, o Adamo,Di venustade e d'eloquenza priveNon sono già; chè largamente Iddio,Come in sua bella imagine, diffuseNell'alma tua del par che nel sembianteI doni suoi. Sia che tu parli o taccia,Ogni gentile e nobil grazia è tecoE ogn'atto ne compone ed ogni accento.Noi celeste famiglia in minor pregioTe non abbiamo abitator terrenoChe di nostro conservo al sommo, eternoSignor del Tutto, e le sue vie coll'uomoGioiosi investighiam, quant'ei t'onori,O Adam, veggendo, e come al par che in noiIl suo tenero amore ha in te riposto.Or narra pur: lungi, ben lungi avvenneChe per immensa ed aspra via speditoVêr le infernali tenebrose riveFoss'io quel dì che tu spirasti in primaL'aure di vita. In quadra e densa schiera(Tal fu il comando) ad osservar ne andammoSe dal carcer fuggirsi od altro ancora

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Il nemico tentasse, onde nel mezzoAll'opra sua la creatrice manoConvertir non dovesse irato IddioIn man sterminatrice. È ver che indarnoFora ogni sforzo di quegli empj uscito,Non permettente lui; ma quel supremoRe messaggi talor così ne invìaA gloria del suo regno e a prova insiemeDi nostra pronta obbedïenza. ChiuseCon stanghe e sbarre immobili trovammoLe nere porte, e assai da lunge in primaBen altro suon che di celesti cetreE liete danze entro v'udimmo; un tuonoDi grida lamentevoli n'uscìa,Di disperata rabbia e d'urli orrendi.Quindi contenti alle serene piagge,Anzi 'l compier del sabbato, tornammo,Com'era a noi prescritto. Or narra; attentoTascolterò; chè se il mio dir t'è grato,Io pur provo in udirti egual diletto.

Così parlò l'alta Possanza, e Adamo:- Arduo per l'uom, riprese, è il dir com'ebbeLa sua vita principio. E chi se stessoNascendo ravvisò? Ma pur la bramaDi prolungar qui meco il tuo soggiornoM'indusse a favellar. Da un alto sonnoQuasi riscosso, io mi trovai distesoTra l'erbe e i fiori mollemente e sparsoD'un ambrosio sudor che il sol bentostoCoi caldi rai terse e lambì. Vêr l'etraGli occhi attoniti volgo, e l'ampia, azzurraVôlta col guardo trascorrendo intornoAlquanto vo: da interna forza spintoQuindi, com'io slanciarmi al ciel volessi,Sovra i piè balzo e sto. Valli, collineMi rimiro all'intorno, ombrosi boschi,Piagge e campagne apriche e fonti e laghiE serpeggianti garruli ruscelli,E sulle verdi rive un vario motoD'animanti diversi. Altri la terraPreme col piè, rapido il vol dispiegaAltri per l'aere, oppur di ramo in ramoLieto saltella e bei concenti alterna.Tutto ride all'intorno, alme fragranzeTutto spira e di gioja il cor m'inonda.Me stesso indi contemplo e ad una ad unaOgni mia parte osservo; i passi movoCon snodate giunture or lenti or presti,Qual più m'aggrada, vigorosi e fermi:Ma chi mi fossi o come fossi o dove,Io non sapea. Tento parlar, già parlo,

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E ubbidïente a quanto veggo il nomeDà la mia lingua. O sole, o dolce lampa,Allora io dissi, o tu sì fresca e gaiaTerra inondata di serena luce,O monti, o valli, o piani, o fiumi, o selve,E voi che vita e movimento avete,O vaghe creature, ah! voi mi dite,Ditemi voi, se noto v'è, dond'ioTraggo l'origin mia, come qui sono.Non già da me medesmo. Io l'opra dunqueSì, l'opra io son di qualche eccelsa manoSomma in poter, somma in bontade. Ah! voiCom'io possa conoscerla mi dite,Com'io possa adorar chi moto e vitaMi diede, e più che non comprendo io stesso,Mi fe' beato. Invan risposta io givaCosì chiedendo, e m'aggirava incertoLungi dal loco ove spirai da primaQuest'aure e gli occhi all'alma luce apersi,Quando alfin sotto l'ombre, in seno a verdeFiorita sponda, m'adagiai pensoso.Là per la prima volta un molle e chetoSonno mi prese ed un languor soaveMi sparse per le membra; ad esso in braccioIo mi diedi tranquillo, ancor che dentroAl mio stato insensibile primieroDi tornar mi sembrasse e a poco a pocoNel nulla ricader. Leggiero un sognoSul capo allor mi stette, e i sensi interniPiacevole movendo, a me, ch'io vivoE son tuttor, fa fede. Innanzi agli occhiUna forma divina aver mi parve,Che: - Sorgi, uomo primier, sorgi, mi disse,O tu che dèi dell'infinita umanaFamiglia essere il padre; il tuo soggiornoT'attende, Adam: da te pregato io vengo,Ed al giardino di delizie, stanzaPreparata per te, sarotti guida. -In così dir per man mi prende e m'alza,E lieve lieve per campagne ed acque,Quasi per l'aere, senza imprimer orma,Strisciando, alfine d'un selvoso, altero,Monte m'adduce in vetta. Ivi si stendeEntro un ampio recinto ampia campagnaDegli arbori più eletti adorna, e lietaD'andari e di boschetti. A par di questa,Quant'io nell'altra terra avea già visto,Tutto scemò di pregio. A me d'intornoCarca ogni pianta di mature e freschePoma odorose distendeva i ramiE allettava i miei sguardi e m'accendea

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Di viva brama de' suoi doni: a un puntoSi scioglie il sonno, e oh meraviglia! quantoLa visïon m'avea sì ben ritratto,Tutto verace a me dinanzi io veggo:E già di nuovo errando ito sarei,Se fra l'ombre degli arbori improvvisaNon m'appariva in manifesto lumeLa scorta mia, Dio, Dio medesmo. Un dolceFremito allora di timor, di gioiaTutto mi scorse, a piè gli caddi umíleE l'adorai: la mano egli mi steseE sollevommi, e: - Quei che cerchi io sono,Dolcemente mi disse, autor di quantoSopra o sotto o d'intorno a te rimiri.Di questo loco io ti fo don, tu l'abbiQual tuo, prendine cura, e quanto mandaLa terra fuor del suo ferace grembo,Côgli liberamente e lieto godi,E inopia non temer. Quell'arbor soloChe del bene e del male a lui che il gustaLa conoscenza infonde, arbor che in pegnoDella tua fede e ubbidïenza io posiNel mezzo del giardin (miralo appressoAll'arbor della vita, e quanto or dicoBene in tua mente accogli e fisso il serba),Guardati dal gustar: quel frutto è mortePer te nel dì che tu ne mangi, e questoMio sol comando a trasgredir t'attenti.Sì, morte inevitabile t'aspettaDopo quel dì; da queste amene sediSarai sbandito, e fra pianto ed angoscePer inospiti lidi errando andrai. -

Questo divieto ei proferì con tantoSevera voce che tuttor mi tuonaTerribil nell'orecchio, ancor che appienoDi non cadere e d'evitar la penaLibera scelta io m'abbia. Egli ripreseQuindi il sereno aspetto e mi soggiunsePlacido e dolce: - Questi bei confiniA te non solo ed a' tuoi figli io dono,Ma tutta ancor la terra: ampio stendeteSovr'essa il regno, e quanto il suolo e l'aereE 'l mare in sè contien, sia vostro il tutto,Augelli, belve, pesci: ed ecco, in prova,Che ogni belva, ogni augello al tuo cospetto,Giusta la specie loro, io chiamo innanzi,Onde suo nome ognun da te riceva,E omaggio umìl ti renda. Il sol natantePopol squamoso abitator dell'onde,Non atto a respirar quest'aure lievi,Qui non verrà, benchè degli altri al paro

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Io 'l sottoponga a te. - Mentr'ei dicea,Torme d'augelli e belve, a paio a paio,Veggo appressarsi; mi s'inchinan queste,Riverenti atterrando l'occhio e 'l muso,In carezzevol atto, e quei sull'alePendono umìli al lor signor davanti.In lor passaggio, a ciasceduno io diedi,Qual conveniasi a sua natura, il nome:Tanto m'avea d'un chiaro lume a un trattoPiena la mente Iddio! Ma in mezzo a tantiFavor del cielo un'indistinta bramaDi cosa, onde pareami aver difetto,Io mi sentiva, e al mio celeste DuceMover tai detti osai: - Deh! con qual nomeIo te chiamar potrò che tanto a questeOpere tutte, all'uomo e a quanto puoteEsser di lui più nobile sovrasti?Come adorarti io potrò mai, gran PadreDell'universo, altissima Possanza,Fonte del ben, che sopra me con largaBenigna mano hai tante grazie sparso?Ma che, Signor! Non fia che meco a parteNe venga alcun? Qual può felice vitaUom romito goder? Qual gioia piena,Se tutto ancor quanto è di ben possegga,Gustar potrà senza un compagno a lato? -Di così dire ebbi ardimento. AlloraLa luminosa imagine più bellaLampeggiò in un sorriso, e: - Dunque, disse,D'esser solo ti lagni? Or non son pieniL'aere e la terra di sì varie e tanteViventi creature? A' cenni tuoiPronte non corron esse e i lor trastulliNon esercitan liete a te dinanzi?Tu sai lor lingua e lor costumi, e un raggioHan di ragione elleno ancor; con esseTu lor re ti sollazza: ampio è 'l tuo regno. -

Così dicea l'alto Signor del Tutto,E comandar parea. Licenza imploroIo di pur favellargli, e in un umil attoCosì soggiungo: - Ah! non ti spiaccia, o sommaPossanza, o mio Fattor, ch'io parli ancora,E benigno m'ascolta. A far tue veciNon m'hai tu qui locato, e non son ioDi que' viventi il re? Come star ponnoDiseguaglianza ed amistà? Qual dolceTenera compagnia, se non la stringeVicendevol piacer che al par si prendaE al par si dia? Diletto egual non avviFra i diseguali, ardor nell'un, freddezzaRegna nell'altro, e mutua noia tosto

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Ogni amichevol vincolo dissolve.Tale amistà, tal nodo io cerco e bramoChe i piaceri del core e della mentePonga in gioconda comunanza e cara;Ond'è che i bruti esser dell'uom compagniNon mai potranno. Ognun di lor s'allegraColla specie sua propria, e a coppie insiemePerciò tu ben li hai giunti: il lion amaLa lionessa, e 'l suo simìl cercandoOgni simil sen va; ma non coi pesciSi mescono gli augei, nè van gli augelliCoi quadrupedi insieme, e non col toroS'accompagna la scimmia. Or l'uom più moltoChe non essi fra lor, da lor diverso,Di consorzio miglior non fia provvisto?

Allor con volto placido e serenoMi replicò l'Onnipossente: - A sceltaFelicità gentil veggo che aspiriIn compagnevol vita, e non t'appaga,Se nol dividi, ogni piacer più caro.Ma che dêi tu di me pensare adunque?Ti sembra o no, che assai felice io sia,Io che fui solo eternamente e soloSempre sarò, che simile o secondoE molto meno egual giammai non ebbi?Altri compagni ove trovar poss'ioFuorchè quei ch'io creai, per gradi immensiInferïori a me più che non sonoA te quest'altre creature? - Ei tacque,Ed io risposi umìl: - Stendersi invanoTenta all'altezza ed ai profondi abissiDell'eterne tue vie l'uman pensiero,O supremo Signor. Perfetto seiTu in te medesmo e a te medesmo basti:Tal non è l'uomo e al suo simìl d'unirsiPer aìta o conforto ei quindi brama.Perchè infinito sei, tu sol d'alcunoUopo non hai, ma in suoi confini angustiRistretto è quegli, in unità si senteManchevol troppo e a propagare anelaSe stesso in altri, ond'ei n'ottenga quasiMoltiplice così vita novella.Tu, benchè solo, in tuoi recessi arcaniPer compagno hai te stesso, erger tu puoiDella tua vicinanza a' divi onoriLe creature, ove così t'aggradi;Ma non può già di questi muti armentiTra i disformi costumi aver dilettoQuella ragion, di cui mi festi il dono,E che sovra di lor tanto m'innalza;Nè i curvi petti lor poss'io dal suolo

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Pur sollevare. - A così dir mi feoLa concessa licenza ardito e baldo.Trovâr grazia i miei detti, e questa ottenniAmorosa risposta: - Io fin qui volliProvarti, Adam: quegli animai non solo,A cui già desti il convenevol nome,Conosci tu, ma te medesmo ancoraE tua nobil natura. Appien tu sentiQuel ch'io trasfusi in te sublime spirto,Di me medesmo luminosa imagoA' bruti non concessa, e quindi il fartiCompagno lor liberamente a sdegnoAvesti con ragion: stabil rimantiIn tuo pensier: no, non piaceami, ancoraPrima del tuo parlar, lasciarti solo;E neppur tai compagni io darti intesiQuai finor li mirasti: a te dinanziIo sol li addussi onde provar se quantoConviensi o no, tu discernevi appieno.Quel ch'or vedrai, stanne sicuro, Adamo,Ti fia gradito; dolce imagin tua.Tua metà, tuo sostegno, altro te stesso,E a' voti del tuo core appien conforme. -

Qui tacque, o del suo dir null'altro intesi;Chè quel fulgór, quella sovrana voceAtti a più sostenere i miei terreniFrali sensi non fur, già spinti al sommoDella lor forza, e illanguiditi e vintiCercâr ristoro in grembo al sonno; ei venneTosto in aìta di natura, e gli occhiDel suo vel mi coprì; gli occhi coprìo,Ma della fantasia l'interna vistaLasciò libera e aperta, e quello stessoLoco dov'io giaceva, e quella imagoFulgida, glorïosa, a cui dinanziVegliando io stava, a me nel sonno immersoE quasi tratto in estasi, di nuovoPresenta in sogno. Quel divino aspetto,Sopra di me curvandosi, m'aprivaIl manco lato, e ne traea grondanteDi vivo sangue e di vitali spirtiCalida costa. Grande era la piaga,Ma di novella carne a un tratto empiessi,Si risaldò, disparve. Egli la parteChe da me dispiccò, tratta e figuraFra le artefici dita, ed ella tostoCrescendo vien, prende altra forma, e n'esceA me simìl, ma differente in sesso,Leggiadra creatura. Oh quale incantoDi grazia e di beltà! Quant'io già vistoAvea di più vezzoso, innanzi a lei

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O più tal non mi parve, o tutto accolto,Tutto era in lei ristretto. I guardi suoiUna dolcezza non sentita in priaDa quel momento mi versaro in seno,E dal suo bel sembiante si diffuseUno spirto d'amore ed un sorrisoPer tutta la natura. Ella disparve,E tenebre e dolor lasciommi in core.Mi scossi allor dal sonno e i presti passiVolsi in traccia di lei, fermo in pensieroDi ritrovarla, o consumarmi in pianto,In pianto inconsolabile, e per sempreDa me sbandire ogn'altra gioia, alloraChe, fuor d'ogni mia speme, ecco la scorgoNon lontana da me, qual io già vistaL'avea nel sogno, tutt'adorna e bellaDi quanti a farla amabile poteaSparger doni su lei la terra e 'l cielo.Il celeste Fattor per man la guida,Benchè non visto, e con la voce i passiNe drizza verso me; de' maritaliArcani riti e delle sante leggiEll'era instrutta già. Le grazie vannoSull'orme sue, celeste raggio ha in viso,E ogni atto spira dignitate e amore.Ebro di gioia allor sclamai: Gran Dio,Oh come adempi tue promesse! oh comeLa passata tristezza or mi compensi,Benigno padre mio! Sì, d'ogni beneSei liberale donator, ma questo,Questo è 'l più bello de' tuoi doni, e alcunaInvidia non men porti! Or sì, ch'io veggoL'ossa dell'ossa mie, della mia carneLa carne, e me medesmo a me davante.Tratta dal fianco mio la mia compagnaQuest'è; quest'è colei per cui gli stessiDiletti genitori e 'l dolce albergoL'uom lascerà; quest'è colei che secoDiverrà, stretta in insolubil nodo,Una carne medesma, un core, un'alma. -

Eva i miei detti intese, e, benchè DioSua guida fosse, il verginal candore,La modestia, il decoro, e il conscio mertoE quella ritrosìa che amore e vezziPria d'arrendersi vuol, che offrirsi sdegna,Benchè brami esser vinta, e dolcementeAccrescendo i desir, la gioia accresce,Natura stessa infin, benchè sì pura,Le fean ritegno; alla mia vista indietroRivolse i passi, io la seguii, fu vintaDall'amor mio, dal suo dovere, e cesse

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Con umil maestade ai dritti miei.Al nuzïal boschetto io la condussiFresca come l'aurora e al par vermiglia.Arrise il cielo, scintillâr le stelleDi più bei raggi, ed i più scelti influssiScosser sull'ora fortunata; segnoDierono d'esultanza i piani e i colli;Ne gioiron gli augelli: a' boschi intornoI dolci zefiretti e le fresch'aureSusurrando lo dissero; e dell'aliScherzando fra di lor gittavan roseE gittavan fragranze ai ridolentiArboscelli involate. Intanto sciolseAl canto maritale i lieti versiIl notturno amoroso augel, chiamandoAd accender sua face in vetta al colleLa vespertina consapevol stella.

Tutta così la sorte mia t'esposi,E quale e quanto siasi il ben ch'io godo,Ti strinsi in brevi detti. A me son cariTutti questi del ciel nobili doni,Io lo confesso, ma niun d'essi imperoHa sulla mente mia, niun mi destaVivo desìo nel core. Ogni dilettoChe con varia dolcezza i sensi molce,Questi bei campi, l'erbe, i fior, le pomaE degli augei la melodia soavePoco sarìan per me senz'Eva mia.Ma presso lei ben altri affetti io provo:Rapir mi sento s'io la miro; s'ioStendo su lei la man, rapir mi sento;Per lei da prima un non compreso e stranoMoto mi scosse, in pria per lei conobbiChe cosa è amor: fermo e tranquillo io stommiIn ogni altro piacer, ma contro il guardoDella beltade e la sua forza arcanaQui sol debole io son: manchevol forseFu in me natura e a tanti vezzi incontroVigor bastante ella non diemmi, o troppoTolto mi fu dall'impiagato fianco.Almen cert'è che con più larga manoSparse di grazia e leggiadrìa l'esterneSue forme il gran Fattor; sebben, lo veggo,Della mente e del cor nei più sublimiInterni pregi ella a me cede e menoDi me pur anco nel suo volto esprimeDel Creator l'imago e i segni augustiDi quell'impero ch'ei ci diè su tuttiGli altri animai quaggiù. Pur quando a leiM'accosto, sì perfetta in tutto apparmi,Sì ben conscia di quanto a lei s'aspetta,

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Ch'ogni suo detto, ogni opra sua m'è avvisoDi saggezza e prudenza essere il fiore,Di virtù, di bontade. A lei dinanziDel più alto saper vien meno il lume,E prende il senno di follia sembianza.Autorità, ragion (quasi foss'ellaNella divina idea disegno primo,Non già secondo), ovunque il passo volga,Con seco vanno: gentilezza infineE magnanimi sensi in mezzo a tanteAmabili sue doti han posto il seggio,Sì che una sacra riverenza intorno,Quasi una guardia angelica, la cinge.- Non accusar natura (austero il ciglioAllor riprese il Messaggier celeste);Ella compiè sue parti, a te s'aspettaCompier le tue. No, non temer che maiLa ragion t'abbandoni, ove tu stessoNel bisogno maggior non sfugga e spregiLa sua scorta fedel, nè troppo esaltiIn tuo pensier ciò che di te men vale,Come tu stesso scorgi. Alfin che tantoAmmiri in lei? Che sì t'accende e move?Quell'esterne sembianze? Elle, i' nol niego,Leggiadre son, dell'onor tuo son degneE degli affetti tuoi, non già d'impero.Libra con lei te stesso, e 'l valor quindiConosci d'ambedue. Nulla soventePiù giova all'uom che in pregio aver se stesso,In pregio, a cui modestia e dritto e veroSian debito sostegno. Esperto e saggioQuanto in ciò più sarai, più agevol fiaCh'ella signor ti riconosca e onori,E sottoponga i suoi vistosi pregiAi più solidi tuoi. Così vezzosaPer tuo piacer maggiore Iddio formolla,E tanta de' suoi doni augusta luceIn lei versò perchè tu farla oggettoDell'amor tuo senza rossor potessi:Ma se men saggio sei, con vigil occhioBen ella il noterà. Se poi sì vivoDi quel diletto, onde l'umana stirpeDee propagarsi, a te rassembra il sensoE d'ogn'altro maggior, pensa che i brutiSon del medesmo a parte ancor, nè fattoSarìa comune ed abbassato ad essi,Se degno fosse d'occupar l'eccelsaMente dell'uomo e d'agitarne il core.Quanto in lei di sublime e di gentileRisplender vedi ed a ragion conforme,Ad amar segui: amore io già non biasmo,

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Ma sol quel cieco e furïoso affettoChe dissimil n'è assai. Verace amoreLa mente affina, accresce l'alma, ha il seggioNella ragione e nel consiglio, e scalaFassi all'amor del Creator superno,Se da' bassi piacer si spicca e s'erge.Quindi niun degno si trovò fra i brutiD'essere a te compagno. - Allor, non senzaQualche rossor, così rispose Adamo:- No, non è già quella beltade esterna,O quel piacer, di cui con l'uomo a parteSon gli animanti ancor (bench'io con altaMisterïosa riverenza onoriDel letto marital le leggi sante)Ciò che a lei più m'allaccia: assai maggioreHan forza in me que' lusinghieri vezziE quelle tante grazie, ond'ella ogni atto,Ogni moto accompagna ed ogni accento;E facile e soave i nodi stringeDi quel tenero amor che un'alma solaFa di nostr'alme; peregino accordoPiù dolce a rimirarsi in coppia amanteChe gentil soavissimo concentoAll'orecchio non è. Pur ligio il coreNon ho perciò (gl'interni sensi appienoIo ti disvelo), e nella varia schieraDe' multiformi imaginosi obbiettiChe per l'alma mi van, libera sempreLa mente mia discerne il vero, il meglioApprova e a quei s'appiglia. In me l'amoreGià non biasmi tu stesso; al ciel, dicesti,Ei ci solleva e n'è la strada e 'l duce.Ma perdonami or tu, se troppo audaceNon è la mia richiesta: amano in cieloQuegli Spirti beati? E per qual modoEsprimono l'amor? Con mutui sguardiSolo, o mescendo di lor pura luceInsieme i raggi? Unisconsi da lungeL'anime loro, oppur con stretti amplessi? -

L'Angel con un sorriso in cui rifulseDelle rose del cielo il bel vermiglioOnde Amor si colora: - A te, risponde,Basti saper che siam lassù felici,E ch'esser gioia senza amor non puote.D'ogni puro diletto onde tu godiSotto corporeo vel (chè puro e mondoTe ancor creò quella superna mano)Noi godiam colassù la scelta e 'l fiore;Nè di membra o giunture a noi frapponsiRitegno alcun. Più agevolmente ch'auraCon aura non si mesce, onda con onda,

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Bramosi d'accoppiar la lor purezzaPienamente si mescono gli SpirtiIn amplessi ineffabili, soavi;Nè di quel modo hann'uopo onde le membraS'uniscono alle membra e l'alme all'alme,Mentre incarco terren le cinge e aggrava.Ma più indugiar non posso: il sol trascorsoOltre le verdeggianti esperie piaggeÈ segno al mio partir. Sérbati forte,o caro Adam, vivi felice ed ama;Ma Lui sovr'ogni cosa, il cui volereSegue chi l'ama, e i suoi comandi adempie.Non lasciar che giammai travolga e spingaImpeto cieco la tua mente a quelloChe un libero voler riprova e fugge.La tua felicità, la tua sciaguraCon quella insiem di tutti i figli tuoiRiposta è in te; di tua costanza mecoTutto il ciel gioirà: da te dipendeIl cadere o lo star; di proprie forzeFornito appien, non ricercar d'altrondeChe da te stesso aita, e ad ogni assaltoTieni di ree lusinghe immoto il petto.

Così dicendo egli levossi, e gratoSeguitandolo Adamo: - Addio, rispose,Addio; va pur, se partir dèi, celesteAmico, ospite mio, da quell'eccelsaBontà che adoro, a me quaggiù mandato.Ogni mia brama affabile e benignoTu assecondasti, ed io nel cor la dolceMemoria ognor ne serberò: ti serbaTu ognor così propizio e spesso riedi. -Così mossero entrambi, in vêr le stelleIl divin Messo, e al suo boschetto Adamo.

LIBRO NONO

Satáno, avendo percorsa la terra con meditato inganno, ritorna di notte in forma di nebbia nel Paradiso, e s’insinua nel serpente che dorme. Adamo ed Eva al sorgere dell’aurora escono alle usate loro occupazioni. Eva propone al consorte di dividerle fra loro e che ciascuno lavori da sè a parte. Adamo vi si oppone, adducendo il suo timore che il nemico, del quale sono stati avvertiti, non venga a tentarla mentr’ella sarà sola. Eva, sdegnandosi perché egli non la crede né assai circospetta né assai ferma, persiste nel suo primo pensiero e vuol far prova di sua virtù. Adamo finalmente s’arrende. Il serpente la trova sola, le si accosta con destrezza, la rimira con meraviglia, le parla lusinghevolmente, innalzandola con le lodi sopra tutte le altre creature. Eva meravigliata nell’udirlo parlare, gli dimanda com’egli abbia acquistata la voce e la ragione umana che non ebbe fin allora. Il serpente le risponde aver ottenuto questi vantaggi pel frutto d’un certo albero ch’è nel giardino. Eva il prega di condurla a quell’albero, e trova ch’esso è quello della Scienza, a lei e ad Adamo vietato. Il serpente con molte astuzie e argomenti la induce alfine a mangiar delle frutta di quello: essa le trova squisite, e delibera per qualche tempo, se ne farà parte al suo sposo o no: finalmente gli porta un ramo carico di quei pomi. Adamo rimane attonito e costernato, ma per eccesso d’amore, risolve di perir secolei, e cercando estenuar la colpa, mangia anch’egli del frutto.

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Effetti di esso in ambedue. Eglino cercano di coprir la loro nudità: la discordia entra tra loro, e si accusano e rimproverano scambievolmente.

Non più di Dio che sulla terra scendaFacil, benigno all'uom, non più m'è datoD'Angelo favellar che al desco stessoColl'uom s'assida, ospite, amico, e in dolce,Amorevol colloquio i ricchi doniCon lui divida della terra. Or dennoDi triste note risonare i carmi,E raccontar la rotta fè, la turpeDiffidenza dell'uom, le calpestateCelesti leggi, dell'offeso NumeIl giusto sdegno, e la feral sentenzaChe il mondo empiêr di guai. La colpa or viene,Vien seco indivisibile la morte,E forieri di morte angoscia e pianto:Dolente sì, ma più sublime temaDi quel furor che per tre volte intornoSpinse ai muri di Troia il fero AchilleSul fuggente nemico; assai più grandeDello sdegno di Turno allor che toltaGli fu la sposa, e più che gli odj acerbiDi Nettuno e Giunone, ond'ebber tantoAffanno i Greci e di Ciprigna il figlio.Sì, ben più grande è l'argomento mio,Se la Musa del ciel che mi protegge,Darammi stil conforme, ella che suole,Nel notturno silenzio a me scendendo,Dettare od inspirare i pronti versiNon implorata, fin dal dì che primaDopo lungo indugiare io scelsi alfineL'alto subietto al canto. Armi e guerrieri,Ch'altri stimò finor d'eroica tubaDegna materia sol, l'ingegno mioDestar non sanno, e per natura io sdegnoDi finti cavalieri in finte pugneNojosamente raccontar le stragi,Mentre miglior fortezza in faccia agli empj,Crudi tiranni di tormenti e morteSprezzatrice magnanima e costanteCelebrator non ha. Corse ed arringhiCantin pur gli altri, effigïati scudi,Ricche divise, e per gran fregi e bardeD'argento e d'oro sfolgoranti intornoCavalieri e cavalli; indi le vasteAdorne sale, i nobili convitiE 'l pronto stuol di siniscalchi e paggi;

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Vulgare e bassa impresa, ignobil arte,Non qual di vate o di poema a drittoPuò la fama eternare. A me, che ignaroSon di tai studj e non li curo, innanziAltro argomento sta per sè bastanteAd innalzare il nome mio, se il pesoDegli anni e 'l freddo sangue e 'l freddo climaAl disegnato vol deboli e mancheNon mi fan l'ali, e ben potrianlo, ov'ioFossi dell'opra il solo autor, non quellaChe a notte nell'orecchio a me l'arreca.

Già s'era il sol nell'ocean nascoso,Già diffondeva un fioco e dubbio lumeEspero sulla terra, e dal confineD'un emispero all'altro il fosco ammantoLa notte distendea, quando SatánoChe al minacciar di Gabrïello s'eraD'Eden fuggito, or fatto ancor più scaltroIn suoi disegni iniqui, e infellonitoOgnora più dell'uomo alla ruina,Sprezzando ogni più grave e certo dannoChe a lui sovrasti, impavido ritentaLa prima via. Fuggì di notte, e, scorsaTutta la terra, della notte al mezzoTornò, la luce ognor cauto schivandoPer tema d'Urïel che già nel primoEntrar suo lo scoperse e dienne avvisoAi Cherubin custodi. Indi cacciato,Pien di angoscia e di rabbia egli per setteContinue notti andò vagando; il cerchioDell'equinozio trapassò tre volte,E quattro volte il carro della notteDa un polo all'altro. Nell'ottava alfineEi fe' ritorno, e per un varco oppostoDe' Cherubini alle veglianti ascolteTrovò furtiva, e non sospetta via.

Eravi un loco, onde più traccia alcunaOr non riman (benchè il peccato oprasseTal cangiamento e non il tempo), doveDel Paradiso alle radici il TigriS'ingolfava sotterra, e quindi appressoL'arbor di Vita in larga fonte all'auraUscìa di nuovo in parte. Ivi col fiumeS'incavernò Satáno, e su con essoFra 'l nebbioso vapor poscia risalse,E investigò dove celarsi. Ei tuttaAvea cerca la terra e tutto il mareOltre il Ponto salendo, oltre le pigreMeotich'onde ed oltre l'Obio estremo,E giù dell'Austro agli ultimi confiniScendendo poscia: inver l'Esperie piagge

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Ei quindi scorse di Panáma al seno,E quindi al suol che l'Indo e 'l Gange inonda.L'Orbe intero così spïando ei venneCon sollecita cura e a parte a parteLe creature tutte, in sè librandoQual d'esse meglio alle sue trame adattaEsser potesse, e alfin più scaltro il serpeDi tutte giudicò. Fra tutte quindi,Dopo un lungo ondeggiar fra i suoi pensieri,Lui di sue fraudi atto strumento elesse,E in lui d'entrare e al più sagace sguardoDi celar s'avvisò le perfid'arti:Chè ogni scaltrezza in chi sì astuto nacque,Stata sarebbe di sospetto scevra,Ma in altre belve, d'infernal possanza,Che in loro oprasse oltre il brutal costume,Dare indizio poteva. Ei sì risolse,Ma prima lo scoppiante interno duoloPrese a sfogar così: - Quanto se' vaga,O terra, e al ciel simil, se anzi nol vinciIn tua beltà, degno di numi albergoPiù che dell'uomo, opra seconda, in cuiForse il Fattor le prime idee corresse(Poichè qual Dio crear vorrebbe il peggioDopo il miglior?), terrestre ciel che intornoHai nobil danza di rotanti cieliChe sol per te, lume aggiungendo a lume,Le ufizïose loro eteree fiamme,Siccome appare, accendono, e nel senoTi vibran tutta de' lor raggi a provaL'alma virtù! Qual d'ogni cosa è centroQuel Nume in cielo e tutto a sè rivolge,Tal sei tu pur di queste sfere il centro,Chè tutte in sè non già, ma in te fan mostraDi quell'igneo poter che informa e nudreL'erbe e le piante, e agli animali imparteDiversi gradi di più nobil vita,Moto, senso, ragion, che tutti accoltiSon poi nell'uomo. Oh con qual gioia scorsaTutt'intorno io t'avrei, se gioia alcunaEntrare potesse in me! Qual vario sempreGiocondo aspetto! or monti or valli or fiumiOr selve or piani or terra or mare or litiIncoronati di foreste, rupi,Antri, spelonche! Ma rifugio o posaIn loco alcun non io già trovo, e quantePiù delizie ho d'intorno, in cor più sento,Come in sola d'affanno amara fonte,Addoppiarsi i tormenti. In me velenoFassi ogni gioia, e in cielo, in cielo ancoraSarìa peggior la sorte mia. No, starmi

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Nè qui desìo nè colassù, se domoPria non giungo a veder quel re superbo.Nè già scemar la mia miseria ho spemePer quel ch'io cerco; al par di me dolenteSol di far altri io spero, e peggio ancoraSeguane poi per me. Sparger ruineDi questo cor feroce è il sol conforto;E se per forza o fraude io traggo alfineNel precipizio quei, per cui createFur queste cose tutte, il tutto ancoraChe nel bene e nel mal con lui s'unisce,In un pari destino andrà ravvolto.Cada egli dunque, e furïoso scorraPer ogni dove l'esterminio. Il vantoIo solo avrò fra le possanze inferneD'aver disfatto in un sol dì quel ch'opraFu di sei giorni e di sei notti interePer lui ch'è detto Onnipossente; e forseGran tempo innanzi ei meditolla ancora,O l'ebbe almen da quella notte in mente,In cui scior seppi da servaggio indegnoLa metà quasi dell'angelic'oste,E assai men folta colassù ridussiLa turba adoratrice. Egli, vendettaBramando, e il danno riparar sofferto,Sia che a crear nuovi Angeli l'anticaSua scemata virtude inabil fosse(Seppur questi da lui l'origin hanno),Sia per maggior nostr'onta, empier le nostreSedi risolse d'un terrestre fango,E l'uom da tanta sua viltade ergendo,De' bei doni del ciel, di nostre spoglieAdornarlo, arricchirlo. Il suo decretoAd effetto recò, l'uom fe', per luiQuest'Universo splendido costrusse,Gli diè la terra per sua sede, in essaDichiarollo signore, ed, oh vergogna!L'ale avvilì degli Angeli pur ancoAl suo servigio, e posegli d'intornoDi fulgidi ministri ascolte e ronde.A ingannar di costor la vigil curaForza mi fu penetrar qui fra i ciechiVapor notturni ascoso, e qui mi fiaOra gran sorte il ritrovar fra questeMacchie e cespugli addormentato il serpe,Fra le cui torte spire io celi e copraMe stesso e le mie frodi. Oh turpe, oh stranoAvvilimento! Io che pugnai co' NumiPer ergermi sovr'essi, or son costrettoDentro il loto a ravvolgermi e la bavaD'un bruto e questa mia divina essenza

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Che già del cielo i primi onori ambìa,Ad incarnare, ad imbestiar! Ma dove,Di vendetta il desìo dove non mena?A che non scende ambizïon? Quant'altaÈ più la meta ov'ella aspira, è forzaChe tanto più s'abbassi e, prima o poi,Soggiaccia ad ogni cosa indegna e vile.E tu, vendetta, ancor che dolce in pria,Come presto ti cangi, e il tosco amaroIn te stessa rivolgi! Ebben, nol curo;Purchè a ferire ed atterrar tu giunga,Se non giungesti a più sublime scopo,Questo del mio livor secondo oggetto,Quest'uom sì caro al ciel, questo novelloFiglio del suo dispetto, opra di fangoChe tal formata fu solo per nostroScherno maggiore. E non sarà ch'io rendaOdio all'odio, onta ad onta, oltraggio a oltraggio?

Così dicendo, come nebbia oscuraChe terra terra striscia, ogni palude,Ogni boschetto andò spiando, e il serpeA trovar non tardò che al sonno in predaGiaceasi avvolto in raddoppiati giri,E in mezzo ad essi riposava il capoD'astuzie pieno. Egli innocente ancoraNon sotto l'orrid'ombre e in cupe tane,Ma in grembo all'erba tenera dormìaSenza timore e non temuto. EntrógliPer le fauci Satán, tacito e leveDel cerebro e del cor le intime vieGli penetrò, gli scorse, e aggiunse il lumeD'intelletto e ragione al brutal senso;Ma non turbógli il sonno, e il nuovo albòreStette là chiuso ad aspettare. Or quandoIn Eden cominciò la sacra luceA scintillar sugli umidetti fioriEsalanti l'incenso mattutino,Mentre quanto germoglia e quanto spiraDalla grand'ara della terra innalzaMute laudi al gran Fabro e odor soavi,Fuor se n'uscì l'umana coppia, e il suoVocal, divoto ossequio al muto CoroUnì dell'altre creature. I freschiOlezzi del mattino e l'aure molliVa poi godendo insieme e divisandoCome possa in quel giorno affrettar l'opraChe troppo per due soli in quel sì largoTerren cresceva, e al suo consorte in priaEva sì prese a dir: - Ben possiam noiQuesto giardin rassettar sempre, o caro,Sempre le piante e l'erbe e i fior disporne,

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Nostro sì dolce incarco: in fin ch'aìtaNon ci recan più mani, invan repressoSotto il nostro lavor, più sorge ognoraIl gran rigoglio lor. Quanto nel giornoS'opra da noi, questi arboscei spogliandoDi troppi rami e ambizïose frondeOd acconcio sostegno a lor giugnendo,Tutto è perduto, e, nello spazio breveD'una o due notti, la natura prendeCol suo vigor l'opere nostre a scherno;Tutto a imboschir ritorna. Il tuo consiglioProponi dunque, o ciò che in mente or vienmiNon ti spiaccia d'udir. Fra noi divisiSieno i lavori: ove il desìo ti guidaO il bisogno è maggior, tu vanne, e a questoBoschetto intorno il caprifoglio avvolgi,O là dirigi l'edera seguaceOve meglio s'arrampichi e s'infrondi.Io colà fra quei mirti e quelle roseFino al meriggio le mie cure intantoImpiegherò; chè, mentre uniti all'opraPassiam così l'un presso all'altro i giorni,Qual meraviglia se in sorrisi e sguardiSi perdon l'ore, e nuovi obietti sempreA nuovo ragionar materia danno,Talchè langue il lavor, sebbene impresoDi buon mattino, e della cena intanto,Che non abbiam mertata, il tempo arriva?

- O amata e sola mia compagna - a leiDolcemente così risponde Adamo -O fra quanto creò l'eterna manoOltr'ogni paragone a me più cara,Al tuo provvido avviso, a questa curaD'affrettare il lavor che Dio c'impone,Come negar potrei debite lodi?Quale in donna esser può studio più belloChe il domestico bene, e all'opre onesteIl consorte eccitar? Pur sì severa,No, Dio non fe' del faticar la legge,Che necessario od opportun ristoroA noi si vieti, o di colloquio, dolceNudrimento dell'anima, o di sguardiE di sorrisi l'alternar soave,Di teneri sorrisi, onde naturaNegò il bel dono a' bruti ed ornò soloIl sembiante dell'uomo, esca gentileOnde si pasce quell'amor che il nostroPiù basso fin non è. Creonne IddioAl travaglio non già penoso e duro,Ma al piacer ci creò, piacer che giuntoSia con ragione. A questi andari, a queste

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Frondose volte, non temer, per quantoAd agïato passeggio uopo ci fia,Torran le nostre mani agevolmenteOgni selvaggio ingombro, ed altre nuoveIn nostr'aìta giovinette bracciaVerran bentosto. Se però discaroT'è il conversar soverchio, oppormi a breveLontananza fra noi non vo': chè soloStarsi, è talor la compagnia migliore;E a più dolce ritorno ci sospingeUn picciolo ritiro. Io sol paventoChe tu da me divisa un qualche dannoPossa incontrar: qual ci fu dato avvisoDal ciel, tu il sai; tu sai qual vegli astutoNemico che il suo ben perdeo per sempre,E or invido del nostro, a noi con scaltroAssalto va tramando onta e ruina.Certo in agguato ei sta non lunge, e 'l tempoDel suo vantaggio e il loco, avido aspetta,Quando disgiunti noi sarem, stimandoVane le prove sue mentre l'un l'altroSoccorrerci possiamo. O sia ch'ei tentiA quel sommo Signor renderci infidi,O il nostro disturbar tenero amore,Che forse in lui maggior invidia destaD'ogni altro nostro ben, sia questo, o ancoraPeggiore il suo disegno, ah! tu, mia cara,Quel fido lato ah! non lasciar che vitaTi diè da prima e ch'or ti guarda e copre.Là dove onta o periglio ascosi stanno,Il posto più dicevole e sicuroÈ per la donna del suo sposo al fianco;Ch'ei veglia a sua difesa o corre insiemeOgni peggior destino. - A questi detti,Qual chi amor pari all'amor suo non trova,Dolce ed austera insiem, con tutta in voltoLa maestà dell'innocenza accolta,Eva così risponde: - O Adamo, o figlioDella terra e del cielo, e re non menoDell'ampia terra tutta, il so che a trarciDentro i suoi lacci un fier nemico aspira:Tu me n'avverti, e già l'udii pur ancoDall'Angel che partìa, mentre sull'oraChe i fior chiudon le foglie, indietro alquantoTra questi arbor frondosi il piè rattenni.Ma che sorgerti in cor dubbio potesseDi mia costante fè vêr te, vêr DioPerchè un nemico può tentarla, ah! questoD'udir non m'attendea. L'aperta forza,Incapaci, quai siam, di morte e pena,È vana contro noi: dunque gl'inganni

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Tu temi del nemico e temi a un tempoChe l'amor mio, che la mia salda fedePossan sedursi o vacillare. Ah! comeQuesti pensieri, Adam, per lei che tantoT'è cara, nel tuo sen trovan ricetto?

Con questi dolci allor teneri accentiProcura Adam racconsolarla: - O vagaDel ciel figlia e dell'uomo, Eva immortale,Chè tal ti rende l'innocenza e 'l primoInvïolato tuo candor, non io,Perchè di te diffidi, ognor vicinaTi bramo al fianco mio, ma perchè ancoraGli assalti stessi del nemico nostroVorrei che tu schivassi. Anco sedurtiTentando sol, di turpe nota ei spargeLa tua virtù che corruttibil credeNè contro l'arti sue secura appieno.Un'onta è questa, ancor che vana, e sdegnoTu medesma ne avresti. Or non ti spiacciaSe da te sola io distornar procuroOltraggio tal, che l'inimico a un tempo,Per quanto audace sia, contr'ambi noiNon avrà forse di tentar baldanza,O vôlti in me primier ne fian gli assalti.Nè la malizia e le coperte vieTu dispregiar di lui: chi que' superniSpirti sedur potè, sottile e destroBen esser dee. No, non stimar soverchiaL'aìta altrui: dai sguardi tuoi maggioreFassi ogni mia virtude: a te dinanziE più saggio e più vigile e più forteMi sento, ov'uopo il richiedesse, e l'ontaD'esser sugli occhi tuoi vinto o deluso,Doppia virtù m'accenderebbe in petto.E come tu del pari al fianco mioNon sentiresti maggior forza al core,E di venir coll'inimico a provaAnzi non sceglieresti allor ch'hai pressoDi tua virtude il testimon migliore?

Le domestiche sue vigili cureE 'l coniugal tenero affetto esprimeAd Eva Adam così; pur ella assaiApprezzata da lui sua fè non crede,E dolce gli risponde: - In breve giroSe rattenerci ognor così ristrettiDebbe un nemico o vïolento o scaltro,E se niuno di noi per sè non bastaA stargli all'uopo incontra, e come in questaPerpetua tema ci direm felici?Ma che! niun mal, se nol precede il falloPuote avvenirci alfin: ci oltraggia il nostro

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Nemico, è ver, con la sua turpe stimaDi poterci sedur, ma quella turpeSperanza sua verun disnore in fronteNon c'imprime però, che tutto tornaSovr'esso a ricader. Perchè temerlo,Perchè evitarlo dunque? Un doppio onoreDallo schernito suo stolto disegnoAnzi noi ritrarrem, l'interna pace,E dal ciel testimon di nostra fedeGrazia sempre maggior. La fè, l'amore,La virtù che son mai, se all'uopo soliE senz'aìta altrui secura provaDi sè non danno? Ah! non crediam che scemaNostra felice sorte abbia lasciataQuel saggio Creator sì che del pariVivere in sicurtade uniti o soliNoi non possiam. Troppo sarebbe incertoIn cotal guisa il nostro bene, e a tantoPeriglio sottoposta, indegna foraDel titol suo questa beata sede.

- Non lagnarti del cielo (allor soggiungeFervidamente Adam); tutte le coseOttime uscîr di man del Fabro eterno:Nulla quell'alta, onnipossente manoLasciò imperfetto: e l'uomo avrìa lasciato?No, quanto sicurar da esterna offesaPuò 'l suo stato felice, appien tutt'ebbe.Suo rischio in lui sta sol, sebben la possaStavvi ancor d'evitarlo, e mai non fiaChe contro il suo voler danno riceva.Ma franco è il suo voler; chè franco è quelloChe obbedisce a ragione; e retta IddioFe' la ragione, ma le impose ancoraDi sempre star tra le maligne e falseImagini del ben guardinga e attenta,Onde contro gli espressi alti divietiLa male istrutta volontà non torca.Diffidenza non già, ma caldo amoreMi move dunque ad iterar sì spessoGli avvisi miei con te; tu pur soventePorgimi, o cara, i tuoi. Fermi or noi stiamo,Ma vacillar potremmo. Ah! sì, potrebbeQualche fallace, lusinghiera imago,Qualche nemico, insidïoso laccioAvviluppar ragion non così destaCom'ella esser dovrìa. Non gir cercandoDunque una pugna ch'evitar è il meglio,E più agevole ancor, se tu non lasciIl fianco mio. Non ricercato ancoraIl periglio verrà. Di tua fermezzaBrami dar prova? Ah! dammi quella in pria

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Di tua docilità. Se lunge sei,Testimon di tua fè, di tua costanzaCome sarò? Pur tuttavia se stimiChe non cercato rischio a coglier abbiaEntrambi noi più sprovveduti e lentiDi quel che tu, così avvertita, or sembri,Va pur; chè, qui malvolentier restando,Più lontana da me saresti ancora.Va nel nativo tuo candor, riposaIn tua virtù, tutta la sveglia, IddioLe sue parti ha compiute, a te s'aspettaCompier le tue. - Così diceale il nostroAntico sire: ella però non lasciaIl suo proposto, ed ultima soggiunge,Ma sommessa ed umìl: - Tu mel consenti,E negli ultimi detti anco tu stessoPensi che un rischio inopinato entrambiAssalir ci potrà men cauti forseE men provvisti. Io più guardinga quindiE più lieta men vo, nè già m'attendoCh'alla più debol parte in pria si volgaUn nemico sì altier, ma pur, se taleÈ il suo disegno, con maggior vergognaRispinto ei partirà. - Così dicendo,Dolcemente la mano ella ritiraDalla man dello sposo, e qual fu pintaDa' greci vati boschereccia ninfaOreade o Driade o del Latonio coro,Leggiadra e snella avviasi; e Delia stessaAl divin portamento, a' bei sembiantiVinto avrebbe d'assai, benchè non d'arco,Siccome quella, e di feretra armata,Ma sol d'arnesi rustici quai l'arteDal foco intatta e rozza ancor, formolli,O qualche Angel recati aveali in terra.Pale o Pomona rassembrar piuttostoElla poteva o Cerere, in lor primoVezzoso fior di verginal beltade.Con occhi accesi di desìo la segueAdamo, e con la man vêr lei distesaDi ritenerla agogna ancor; più volteDi rieder tosto ei l'ammonì; più volteVerso il meriggio ella tornar promise,E nell'ordin miglior tutto disporreQuanto alla mensa è d'uopo, e a gustar quindiGrato riposo allor che il sol più ferve.Eva infelice! Oh qual inganno è il tuo!Qual ritorno ti fingi! Ahi fero evento!No, dolce pasto e placida quïeteDa quell'ora fatale in paradisoNon gusterai tu più. Tra i fiori e l'ombre

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Sta nascoso infernal, invido agguato,Che di fè, d'innocenza e d'ogni beneIgnuda ti rimanda! Infin dal primoSpuntar dell'alba, di verace serpeSotto le forme, iva spïando attentoIl fier nemico ove la prima e solaCoppia ritrovi e faccia in lei di tuttaL'inchiusa stirpe un'ampia preda opima.Cercò boschetti e campi, ove alcun gruppoSorgea più vago d'arbuscelli, e i segniApparìan di cultrice, industre mano,O d'uman piè qualche vestigio impresso,Or sul margin d'un fonte, ora d'un rioDi liete ombre coperto. Ei tutto intornoCol guardo interrogando, ambi ricerca,Ma incontrar sopra tutto Eva in disparteEgli desìa; desìa, sebben non speraCiò che sì rado avviene. Ai voti suoiLa sorte alfin oltre ogni speme arride,E soletta la scorge. Un nuvolettoD'alme fragranze le ondeggiava intorno,E folti cespi di vermiglie roseL'ascondean per metade: il molle steloElla s'inchina a raddrizzar de' fioriChe le incarnate, porporine, azzurreO di bei spruzzi d'ôr dipinte testeLascian cadere a terra languidette,E con tralci di mirto al lor sostegnoGentilmente le annoda. Ah! ch'ella intantoFra tutti il più bel fior, se stessa, obblìa,Chè lontano l'appoggio e sì vicinaHa la procella! Spazïose vie,Su cui dall'alto il cedro, il pin, la palma,Diffondon ombra maestosa, alloraRavvolgendosi audace in lunghe spireTra i folti arbusti e fior che quinci e quindiFan per mano di lei serto alle sponde,Or nascosto, or visibile ei traversa,Ed a lei si avvicina. Ameni e vaghiTanto non fur del redivivo AdoneImaginati un dì gli orti famosi,O quei d'Alcinoo, albergator corteseDel figlio di Laerte, o quei non finti,Ove con la leggiadra Egizia sposaIva a diporto il saggio Re. SatánoMolto il loco ammirò, ma più la bellaAbitatrice. Qual chi chiuso a lungoIn città popolosa, ove le folteCase e latrine attristan l'aere, uscendoIn bel mattino alla stagione estivaPer ville amene a respirar le pure,

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Campestri aurette, insolito dilettoProva da quanto incontra, or dalle fresche,Ora dalle recise erbe fragranti,Ora dalle cascine, or dagli armenti,Da ciascun suono e da ciascuna imago;Ma se vezzosa forosetta intantoPassa a Ninfa simìl, quanto gli piacqueOr per lei gli divien più vago e caro;Più che in altro però, sovr'essa il guardoTorna a fissar, nel cui leggiadro aspettoStima ogni gioia, ogni beltà raccolta:Tal dolcezza nel cor scender sentissiSatán, mirando il florido recessoOve così di buon mattino e solaEva giungea. Le angeliche sembianzeDi femminil, dolce mollezza sparse,Le sue grazie innocenti, ogni più lieveSuo moto ed atto la malizia in luiGiungono ad affrenare, e con soaveRapina a svergli dall'atroce pettoIl disegno feral. Stettesi alquantoDi sua malvagità, di sua fierezzaSpogliato il crudo in stupida bontade,Ed invidia, rancor, frodi, vendettaVinto obbliò. Ma quel che in sen gli bolle,E in mezzo al ciel lo seguirebbe ancora,Rovente inferno ripigliò bentostoNovella forza, e l'ammiranda vistaDi tante gioie a lui negate accrebbeTutti i tormenti suoi. L'odio e la rabbiaQuindi ei raccoglie, se n'allegra e 'n questiAccenti infiamma la feroce mente:

- A che venimmo, o miei pensieri? E qualeDolce delirio immemori vi rendeDi ciò che qui ci trasse? Odio fu quello,Amor non già, nè di cambiare in questeGioie gli affanni miei speranza alcuna.Solo il piacer che dal distrugger nasceOgni piacere, a me s'aspetta; ogni altroPerduto è omai. L'occasïon m'arride,Trapassar non si lasci: ecco solettaAd ogni assalto mio s'offre la donna;Lungi n'è Adam, per quant'io scorgo: è troppoColui sagace, vigoroso, altero;Benchè fatto di creta, ei tal non sembraNelle sue forme eccelse, e forse ancoraNon spregevol nemico esser potrebbe.Ah! sì, dal duol, dalle ferite immuneEgli è, tal non son io: così cangiato,Avvilito così da qual ch'io m'era,M'han le mie pene! È bella inver costei,

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Divinamente bella e degno oggettoDell'amor degli Dei! Terror non spira,Benchè terrore anco in amor si troviEd in beltà, se lor non fassi incontroOdio più forte; e l'odio è allor più feroChe sotto il vel di finto amor si cela;E così trarla a sua ruina intendo. -

Così fra sè dicea chiuso nel serpeIl gran nemico dell'umana gente,E ad Eva intanto s'avviò, non pronoCon ondeggianti, sinuose piegheSul suol, com'indi in poi, ma di sua codaSu circolar sostegno ei dritto s'ergeIn moltiplici rote, una sull'altra,Di torreggianti spire. Alto sormontaIl crestato suo capo, e quai carbonchi,Gli fiammeggiano gli occhi; il liscio colloArde d'un oro verdeggiante in mezzoAi pieghevoli giri, onde gli estremiVolumi a fluttuar scendon sull'erba.Dilettevole, amabile in sembianzaEgli si mostra, e serpe alcun più vagoNon fu visto giammai; non quelli, in cuiCadmo ed Ermione e d'Epidauro il NumeCangiati fur, siccom'è fama, o quelliIn cui si tenne che l'Ammonio GioveEd il Capitolino un dì s'ascose,Per Olimpiade l'un, l'altro per leiChe in Scipio partorì di Roma il vanto.

Obbliquamente in pria, qual chi pur bramaD'appressarsi ad alcun, ma insiem paventaGiugnere inopportuno, a lei di costaSatán si tragge: o qual nocchiero espertoPresso una foce o capo, ove più varjSoffiano i venti, a questa parte e a quella,A seconda di lor, cangia governo,E torce obbliquo delle vele il grembo;Tal egli ancor varia i suoi moti, e 'n centoScherzosi avvolgimenti a vista d'EvaIl flessuoso strascico raggiraOnde allettarne i guardi. Ella ben odeDi fronde uno stormir, ma ad altro intentaNon si volge però; chè avvezza è spessoVeder davanti a sè scherzar pe' campiLe belve alla sua voce ubbidïentiPiù che non fu da greci vati pintoSommesso a Circe il trasformato gregge.Più audace quindi le s'appressa in attoDi meraviglia e di stupore, a leiL'altera cresta e lo smaltato colloPiù volte inchina lusinghiero, e lambe

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Il terren tocco dal leggiadro piede.Quel muto favellar, que' guizzi alfineRichiamâr d'Eva il guardo; egli n'esulta,E la lingua del serpe a nuovi umaniAccenti disciogliendo, ovver spirandoNell'aere un vocal suono, alle sue trameDiè principio così: - Sovrana eccelsa,Non istupir, seppur a te che chiudiTutte le meraviglie, oggetto alcunoMirabil esser può, nè gli occhi tuoi,In cui tanta del ciel parte risplende,Di sdegno armar, s'io così solo ardiscoDi farmiti d'appresso e pascer quella,Ch'ho d'ammirarti, insazïabil brama;Nè paventai l'augusta fronte e 'l ciglioChe maggior maestà spirano ancoraFra questi ermi recessi. In te, perfettaDel grande Autore imagine sublime,Tien fiso il guardo ogni vivente cosaCh'è a te per don del Creator soggetta,E la celeste tua beltade adora,Quella beltà che di più vasto degnaAltro teatro fora e d'altri onori.Entro questo recinto, in mezzo a questeBelve, insensate spettatrici, e inetteA discerner perfin de' pregi tuoiUna piccola parte, or chi ti mira,Tranne un sol uomo? Ed un sol uomo ch'è mai,Mentre locata fra gli Dei tu DeaE da perpetuo d'Angeli corteggioAdorata e servita esser dovresti? -

Così la voce lusinghiera sciolseIl tentator serpente, e d'Eva in coreSi fer strada quei detti. Al nuovo suonoElla attonita resta, e: - Qual portentoFia questo? alfin risponde - uman linguaggioNella bocca d'un bruto, e sensi umani!Alle belve finor negato il primoStimai dal ciel che sol le fe' capaciDi rozzi accenti e mormorio confuso.Se luce di pensiero in esse splenda,In dubbio io stonne; chè a' sembianti, agli attiMolta ragione in lor sovente appare.D'ogni altra belva più sottile e scaltroTe, serpe, io conosca, ma voci umaneAtto a formar non ti credei. RinnovaOr questa meraviglia, e narra comeA te già muto ora il parlar s'è aggiunto,E come sì piacevole ed amicoPiù di tanti animai che al mio cospettoStan tutto il dì, mi ti dimostri. Parla;

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Chè ben d'ascolto un tal prodigio è degno.- Bellissim'Eva, il tentatore astuto

Subito replicò, degna ReinaDi quanto in sè questo bel mondo serra,A te l'imporre, a me s'aspetta i tuoiCenni obbedir, nè il soddisfarti adessoDifficile mi fia. Qual l'altre belveChe van pascendo le calcate erbette,Io pur m'era da prima, e abbietti e viliEran, come il mio cibo, i miei pensieri.Il cibo e 'l sesso io discernea soltanto,Ma nulla di sublime e di gentile;Finchè, per questi campi un dì vagando,A scorger venni una superba piantaChe tutta carca rifulgea da lungeD'aurate insieme e porporine poma.M'appresso a vagheggiarla, e tal si spandeDa lei soave peregrino odoreChe più i sensi m'alletta e mi lusingaDe' finocchietti teneri, fragranti,E delle mamme che stillanti e colmeRecan di latte le pasciute greggeIn sulla sera e non succhiate ancoraDai giovin figli alle lor tresche intenti.Di gustare i bei frutti ardente bramaTosto mi nacque, e d'appagarla tostoIo pur presi consiglio, e fame e sete,Due stimoli possenti, in me da quellaDolce fragranza anco innaspriti, a un trattoMi spinser sulla pianta. Agli alti rami,Che a gran fatica il tuo disteso braccioPuò giugnere a toccare o quel d'Adamo,Avviticchiato pel muscoso troncoSu, su m'alzai. D'un invido desireOgn'altra belva che a mirarmi stava,Struggeasi a piè dell'arbore, agognandoNè potendo salir. Giunto là dovePendeami intorno allettatrice e foltaDi que' pomi la copia, avidamenteIo mi diedi a spiccarli, e farne appienoSazie le voglie mie chè in pasco o fonteNon mai trovato avean dolcezza tanta.Satollo alfine, in me subito farsiSento mirabil cangiamento: un raggioDi viva luce a rischiararmi scese,Aura superna ricercommi il petto,Nè il parlar mi mancò, bench'io serbassi,Come tuttor, le prime forme. A grandiSublimi studj da quel punto io tuttiI miei pensier rivolsi e quanto il cielo,L'aere e la terra abbraccia e quanto in essi

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È di vago e di buon, colla capaceMente tutto indagai, tutto discersi.Ma guanto altrove di più bel si trovaE di miglior, nel tuo divino aspettoUnito io vidi e nel celeste lumeDi tua bellezza. No, bellezza egualeO simile alla tua certo non evvi.Ciò mi spinse a venir, benchè importunoForse, per ammirarti, e omaggio e cultoRender a lei che, a gran ragion, d'ogni altraCreatura e del mondo ebbe l'impero. -

Così ripien dell'infernal possanzaDicea l'accorto serpe, e incauta e presaDa maggior maraviglia Eva soggiunge:- Le somme lodi, o serpe, onde cotantoTu di quel frutto la virtude estolliDa te provata sol, sospeso, incertoTengono il creder mio. Ma di', tal piantaDove e quanto di qui cresce lontana?Molte e diverse, a noi tuttora ignote,Qui sorgon piante, e tal dovizia a noiS'offre pertutto di squisite pomaChe non tocca di lor la più gran parteDai curvi rami incorruttibil pende;Finchè a tante ricchezze un giorno sorgaNovella gente e sgravino altre maniAlla natura l'ubertoso grembo.

- Breve, o Reina, e facile è la via,Lieto risponde a lei l'astuto serpe:Per la pianura, oltre un filar di mirti,Appresso un fonte e dopo un bel boschettoDi balsamo e di mirra. Ivi bentostoSarai, se accetti la mia scorta. - Andiamo,Eva soggiunge: e al mal oprar veloceEgli a vicenda or si raggruppa or scioglieRatto e lieve così che dritto sembraIn suoi viluppi camminar. La spemeAlto gli leva il collo, e per la gioiaD'una luce maggior gli arde la cresta.Come pingue vapor, da gel notturnoCinto e stretto talor, s'erge nei campi,Indi agitato si converte in chiara,Tremula vampa, a cui maligne larveSpesso, siccom'è fama, unite vanno,E col suo lume ingannator traviaSovente il peregrin che dentro a ciechiBurroni e stagni alfin s'affonda e perdePrivo d'aìta; tal risplende il serpe,E la credula nostra antica madreConduce con sue fraudi alla radiceD'ogni mal nostro, all'arbore fatale.

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Quand'ella il vede, al guidator rivolta,- Ben potevám di qui lontani, o serpe,Rimanerci, gli dice; ancor che tantaCopia di frutte da quest'arbor penda,La lor virtude, i lor stupendi effettiMostrinsi pur in te: toccar perfinoA noi non lice questa pianta: IddioCosì c'impose, e di sua voce figlioA noi lasciò questo divieto solo.In nostro arbitrio è il resto, ed è soltantoLa ragion ch'ei ci diè la nostra legge.

- E fia ciò vero? - insidïoso a leiReplica il tentator - non tutte dunqueGustar potete queste frutta? e DioCosì vi disse allor che tutto in terraE nell'aer sommise al vostro impero?

- De' frutti d'ogni pianta, Eva soggiungeInnocente tuttor, gustar ci lice;Ma del frutto che dà quest'arbor vagoPosto in mezzo al giardino, Iddio medesmo:Non ne gustate e nol toccate, o morteAvrete inevitabile, ci disse.

I brevi detti ella chiudeva appena,Che, fatto quel maligno anco più baldo,Amor per l'uom fingendo e zelo e sdegnoPer l'oltraggio ch'ei soffre, un nuovo aspettoRiveste, e par che fra magnanim'iraIncerto ondeggi; maestoso e graveQuindi si leva, e a dir sublimi cosePronto si mostra. Nell'antica etadeTal in Atene o Roma, ove fiorìa,Muto dipoi, libero dir facondo,Celebrato orator quando al sostegnoDi gran causa accingeasi, in sè raccoltoTutto si stava, e pria che l'aurea pienaSgorgasse dalle labbra, il volto, il ciglio,Ogni gesto, ogni moto in lui parlavaEd ascolto chiedea; talor rapitoDallo zelo del dritto e impazïenteD'esordj e indugi, all'argomento in mezzoFervido si slanciava. In simil guisaS'atteggiò quell'iniquo, erto levossiE all'arbor vôlto, impetuosamenteCosì proruppe: - O sacra, o eccelsa pianta,Di Saper madre e largitrice, or chiaraSento in me la tua possa, or che discernoDelle cose non sol le fonti e i semi,Ma di que' sommi Artefici, per quantoSaggi stimati sieno, ancor gli arcani.No, Reina del mondo, a tai minacceDi morte ah! non dar fè: voi non morrete:

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Morir! perchè? pel frutto? Ei più sublimeVita v'arreca sol. Morte paventiDa chi la minacciò? Me, me riguardaChe toccai, che gustai quell'almo cibo;Eppur vivo non sol, ma vita n'ebbiDi quella assai più luminosa ed altaChe assegnommi il destin, calcato e vintoDal mio felice ardire. All'uom si negaCiò ch'è libero a' bruti? E così lieveTrascorso accenderà d'un Dio lo sdegno?Nè fia piuttosto ch'ei medesmo ammiriQuell'audacia magnanima che, a vileLa morte avendo (checchè sia la morte)E le minacce sue, più nobil gradoCercò di vita, e 'l bene e 'l mal del paroConoscer volle? Aver del ben contezzaTroppo conviensi; e il mal (seppure un vôtoNome ei non è) perchè celar si debbe?Meglio l'evita chi 'l conosce. IddioNuocervi ed esser giusto insiem non puote:S'ei non è giusto, ei non è Dio; nè vuolsiPiù obbedire o temer. Così la stessaVostra tema di morte ardir v'insegna.Qual esser può d'un tal divieto il fine?Non vuol ei col timor tenervi ognoraSuoi ciechi, umìli, adoratori abietti?Dal giorno, egli il sa ben, dal giorno in cuiGustiate queste frutta, al vostro sguardoCh'or sì chiaro vi sembra, eppure è fosco,Si squarcerà, si purgherà la nube;Pari sarete a Numi, e al par vi fiaDel ben, del mal l'alta scïenza aperta.S'io d'uom le interne facultadi ottenni,Ben è ragion che somiglianti a DeiVoi divenghiate. La brutale essenzaIo cangiai nell'umana, e voi l'umanaCangerete in divina. Ecco la morteForse che vi s'intima, il depor questaVostra natura e rivestir quell'altraAlma e celeste. Oh bel morire! oh folliMinacce! oh lieto e desïabil danno!E che son mai gli Dei talchè l'uom farsiNon possa a loro egual, se eguale il pascaDivino cibo? Essi fur primi, e quindi,Che tutte cose di lor man fur opra,Presso a chi venne poscia, acquistan fede.Dubbio ciò parmi assai; dal sen di questaVaga terra che il sol scalda e feconda,Tutto uscire io rimiro, e nulla maiDa quei sterili Dei. S'eglino autoriDel Tutto son, chi la scïenza dunque

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Del ben, del male in questa pianta ha chiusaSì che, malgrado lor, saggio ad un trattoDell'alme frutta il gustator diviene?E in che gli offende l'uom, s'egli all'acquistoAspira del saper? qual danno a DioDal saper vostro? E come mai, se tuttoSuggetto è a lui, contro sua voglia ancoraI doni suoi quest'arbore dispensa?Forse ad un tal divieto invidia il mosse?E nel seno d'un Nume invidia alberga?Queste, sì queste ed altre assai ch'io taccio,Ragioni appieno vi convincon quantoUopo del frutto abbiate. Umana Dea,La man vi stendi e senza tema il gusta.

Tacque, e di lei nel cor facil la viaRitrovaron que' detti. Il guardo affisaElla sul frutto, la cui vista solaEra sì tentatrice, e 'l suon di quellePersuadevoli voci, in cui le sembraScorger espressa la ragione e 'l vero,Le si raggira entro l'orecchie ancora.A mezzo omai del suo celeste corsoS'avvicinava il sole, e già la fameChe il saporoso odor de' vaghi pomiIrritava ancor più, s'era in lei desta,E di côrne e gustarne al cupid'occhioFea possente lusinga. Alquanto in primaPerò s'arresta incerta, e in sè rivolgeQuesti pensieri: Alte, ammirande sonoInver le tue virtudi, o d'ogni fruttoFrutto miglior, benchè per l'uom non sieno.Gustato appena, tu snodasti al brutoLa rozza lingua al favellare inetta,E gl'insegnasti a celebrar tue lodi:Nè le tue lodi quei medesmo tacqueChe a noi ti divietò, quand'egli il nomeD'arbore del Saper ti diè, del grandeSaper che il bene e 'l mal libra e distingue.E a noi poscia negotti! Ah! quel divietoLe tue virtù più scopre, e quanto avrebbeUopo de' doni tuoi la nostra sorte.Com'esser può che d'un ignoto beneCi procacciam l'acquisto? E un bene ignoto.Mentr'anco il possediam, fors'è diversoDa quello onde siam privi? Or s'egli dunqueIl saper c'interdice, un ben ci vieta,Ci vieta l'esser saggi. Un tal comandoObbligarci non può. Ma se dipoiNelle catene sue Morte ci serra,Dai sublimi pensier, da questa nostraLibertade qual pro? Nel dì che al frutto

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Il labbro accosterete (è tal la legge),Preda siete di morte. Or come il serpeMorto non giace? Ei n'ha gustato e vive,Vive e parla e ragiona e appien discerneEi ch'era privo di ragion. La mortePer noi soli inventossi? e questo ciboChe di superna luce empie la mente,A belve si riserba e a noi si niega?Sì, par ch'ai bruti ei si riserbi: eppureQuei che primo fra lor ne fe' la prova,Invidia non ne mostra, anzi con gioiaDel ben che gli toccò c'invita a parte,Consiglier non sospetto, all'uomo amico,Non ingannevol, non maligno. AdunqueChe mai pavento? anzi, conosco io forseCiò ch'io debba temer, se cieca, ignaraVivo così del ben, del mal, di Dio,Di morte e legge e pena? In questo divoFrutto che il guardo appaga e 'l gusto alletta,Qui il rimedio si sta: questo mi puoteSparger l'alma di luce e saggia farmi.Che dunque mi ritien? perchè nol colgo,E corpo e mente io non ne pasco insieme?

Mentre così dicea, l'audace mano(Ahi terribil momento!) al frutto stese,Lo spiccò, lo gustò. D'orror la terraTutta fremè; dalle riposte sediProfondamente sospirò NaturaE per ogni opra sua segni di duoloDiede e dell'alta universal ruina.Ratto s'invola dentro al bosco intantoIl serpe reo, nè già vi bada tuttaAl novello sapor la donna intesa.Piacer sì dolce in alcun frutto maiDi trovar non le parve, o così fosseVeracemente, o l'agitata ideaDalla speranza del Sapere accesaE già sognante i divi eccelsi onori,Inganno le facesse. AvidamenteSenza ritegno alcuno ella il divora,Nè sa che morte inghiotte. Alfin satolla,Di vinoso licor quasi ebra e calda,Così esulta in suo core: - Arbor sovranoChe tanto ogni altra pianta in pregio avanzi,O di felicità, d'almo sapereDispensator possente, e tu finoraNegletto rimanesti e senza onore?E quasi di natura un germe vanoLe belle poma tue pendêro intatte?Ah! più non fia così. Mia prima curaTu sarai quind'innanzi: io le dovute

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Lodi al tornar d'ogni novella auroraQui tornerò a cantarti, e i rami carchiDi sì ricco tesoro a tutti apertoDisgraverò, finchè, di te nudrita,In sapienza io cresca e ugual divengaA' Dei che tutto sanno, e invidian posciaAltrui quel ben ch'essi largir non ponno,Chè tanto qui, se dono lor tu fossi,Cresciuto non saresti. A te dipoi,O Sperïenza, incomparabil guida,Quanto degg'io! Senza di te sugli occhiAvrei tuttor dell'ignoranza il velo:Tu mi sgombrasti del saper la viaE a que' misteri ebbi per te l'accessoIn cui s'asconde: e forse anch'io del cieloOr m'ascondo agli sguardi. Alte e rimoteTroppo son quelle sedi onde si possaOgni cosa quaggiù scorger distinta.Forse altre cure han disviato ancoraIl vigil occhio di quel sommo nostroDivietator che appien si fida in tantiEsploratori suoi. Ma come in facciaComparirò d'Adam? Degg'io svelargliQual io divenni, ed invitarlo a parteDi mia felicitade, o meglio fiaCh'io per me sola il gran vantaggio serbiCh'or m'acquistai? Quel ch'al mio sesso or manca,Gli aggiugnerò così, così d'AdamoAccrescerò l'amor, miei pregi egualiSaranno a' suoi, forse maggiori ancora!Chi sa? nè scopo de' miei voti indegnoQuesto sarìa. Libero forse è maiQuei ch'è minor? Sì, questo il meglio fora;Ma se di ciò che feci Iddio s'accorse,E morte me ne segue? Adam congiuntoAd un'altr'Eva allor, godrà feliceCon lei la vita; ed io?... Mortal pensiero!Son risoluta: Adam con me dividaLe mie gioie, i miei mali; ei m'è sì caroChe andrei con seco a mille morti, e, privaDi lui, la vita a me vita non fora.

Così dicendo, all'ospital possanza,Che albergar nella pianta ella si crede,Ed informar del néttare divino,Del succo irraggiator le belle poma,Umil s'inchina e di là torce il passo.

Desïoso aspettando il suo ritornoAdamo intanto, ad adornarle il crineE coronare il suo rural lavoroAvea di scelti fior tessuto un serto,Qual delle messi alla regina usati

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Son d'offerire i mietitor sovente.Qual contento, qual gioia in mente ei volgeAl ritorno di lei! Come del lungoIndugio ei spera compensar l'affanno!Ma pure il cor con interrotto e spessoPalpitar gli porgea presagio tristoDi qualche danno. Ad incontrarla alfine,Per quella via ch'ella partendo tenne,Verso la pianta del Sapere il piedeEgli rivolge, e in lei che riede appunto,Colà presso s'avviene. In mano un ramoElla tenea di quelle vaghe fruttaChe côlte pur allor, ridean di molleLanugine cosperse, e ambrosio odoreSpargeano intorno. Ella ver lui s'affretta,E già troppo sollecita nel volto,Prima ch'ella parlasse, avea la scusa,Che in queste a voglia sua dolci paroleProsegue poi: - Non dell'indugio mioStupisti, Adam? Di tua presenza priva,Oh quanto fur penose e a scorrer lenteL'ore per me! Qual non sentito innanziStruggimento amoroso a provar ebbi!Ma fu la prima volta e fia l'estrema;No, non più mai questo crudele affannoChe inesperta cercai, soffrir vogl'io,Di star lungi da te. Ma qual venturaO qual prodigio mi ritenne, ascolta.Qual ci fu detto, periglioso ciboQuest'arbore non dà, nè schiude il varcoA ignoto mal, ma stenebra le luciPer divina virtude, e cangia in NumeChi le frutta ne gusta. Il saggio serpe,O non soggetto alla severa leggeChe a noi lo vieta, o dispregiarla osando,Ne fe' la prova, e non già morte ei n'ebbe,Siccome a noi si minacciò, ma voceUmana e umani sensi e di ragioneMeraviglioso lume. Ei sì mi strinseCo' detti suoi che ne gustai pur io,E alle promesse corrisponder tostoSentii gli effetti; lucido lo sguardoDi fosco ch'era in pria, più grande il core,Più sublime lo spirto e caldo e pienoGià di virtù divina. Io l'alto acquistoPer te bramai, senza di te lo sdegno:Chè sol teco m'è dolce ogni mia gioia,E con te non divisa, amara tostoE grave mi divien. Tu pure il fruttoPrendi dunque e l'assaggia, onde per sempre,Come un eguale amor ci unisce e lega,

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Egual gaudio ci unisca e sorte eguale;Nè il tuo rifiuto sia cagion fra noiD'ordin vario di vita, e tardi io vogliaLasciar per te la diva essenza alloraChe più non mel consenta immobil fato.

Festante, sollazzevole diceaEva così, ma le accendea le goteUn colpevole insolito rossore.Il fatale misfatto udito appena,Stupido, immoto, pallido si feoAdamo, e tutte un freddo gel gli corseLe vene e l'ossa, e le giunture sciolse.Di man gli cade l'apprestato serto,E le già fresche, or appassite roseVan sparte al suol; la voce e le paroleGli toglie un alto orror; nel cor gementeCosì tacito poi seco favella:- O del mondo ornamento, o dell'EternoUltim'opra e migliore, in cui quant'altroD'amabil, di gentil, d'almo e divinoPuò scorger occhio o imaginar pensiero,Tutto splendea, come perduta sei!Come a un tratto perduta! ed ogni vantoDell'onor tuo, di tua beltà disparve!Oh vittima di morte! Al sacro fruttoCome la mano rea stender potestiE 'l gran divieto vïolare? Ahi qualeNemica ti deluse ignota frodeE trascinotti al precipizio ov'io,Io pur trabocco; chè con te già fermoSon d'incontrar la morte! E come privoDi te viver poss'io? come lasciareTua dolce compagnia? come dal pettoSvellermi il forte amor che a te m'annoda,E per questi ermi boschi errar solingoUn'altra volta? Ah! se un'altr'Eva ancoraD'un'altra costa mi formasse Iddio,Ah! mai del cor la tua diletta imagoNon m'uscirebbe, mai. No, no, lo sento,Infrangibil catena a te mi stringeDella natura: di mia carne seiTu carne, ossa dell'ossa, e 'l tuo destino,Felice o tristo, il mio destin fia sempre.

Disse, e qual è chi d'angoscioso e feroSbigottimento in sè ritorna, e, vintoIl tumulto del cor, sommesso cedeA irreparabil sorte, ad Eva questiDetti volge tranquillo: - Ah quale ardire,Eva, fu il tuo! Qual perigliosa provaFar su quel pomo al digiun sacro osasti,Mentre lungi non sol la mano e il labro

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Star ne dovea, ma il cupid'occhio ancora!Ma chi può rivocar le andate coseE 'l già fatto disfar? Non Dio medesmo,Non il Destin. Nè tu morrai, lo spero,Nè cotanto odïoso è forse il fallo,Da che nudrissi di quel frutto il SerpeE il dissagrò col suo profano denteE comun cibo il rese. A lui mortaleEsso non fu, tu lo dicesti, ei viveE più sublime ancor grado di vitaOttenne, all'uom fatto simìl: del pariDunque fia pur che noi sorgiamo a quelloD'Angeli e Semidei. Credere inoltreNo, non poss'io che quel sì saggio e grandeDel Tutto creator, benchè sì graviFusser le sue minacce, al nulla primoVoglia noi ritornar, noi che sull'altreOpre sue tutte ei sollevò cotanto,Di tanti doni ornò. Per noi creatoFu il resto e a noi soggetto, e nosco insiemeCadrebbe pur nella ruina stessa.Dunque crear, distruggere, delusoRimaner, perder l'opra Iddio potrebbe?Chi può pensarlo? A trar dal nulla un nuovoMondo il solo voler, lo so, gli basta;Ma non perciò men ripugnante ei fiaSempre al disfarci, onde il nemico alteroCon scherno a dir non abbia: Ecco la sorteDi lor, cui Dio più favoreggia! a lungoChi puot'essergli caro? Io fui la primaVittima sua, l'uomo è seconda, or qualiE quante poi fien l'altre? A tai dileggiDar argomento ei non vorrà. Ma siaQuel ch'esser puote, al tuo destin congiuntoIl mio fia sempre, e la sentenza pariSovr'ambedue: se morte a te m'unisce,Mi fia cara la morte; un laccio io sento,Un saldissimo laccio in questo senoChe all'altra mia metà un'avvince e tira.È mio ciò che tu sei, sola una carneNoi siamo, un esser solo, e s'io ti perdo,Perdo me stesso. - Oh glorïosa provaD'un amor senza pari! (allor rispondeEva) sublime esempio che m'infiammaAd emularti! ma, inegual cotanto,Come il poss'io? Fuor del tuo caro latoÈ gloria mia l'esser uscita, e tuttoUna soave gioia il sen m'inonda,Quando del nostro amor, d'un cor, d'un'almaIn ambi noi t'odo parlare; e certaProva men reca questo giorno. Innanzi

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Che morte, od altro più di morte orrendo,Il nostro dolce nodo a romper venga,Tu fermo sei d'entrar con meco a parteDella mia colpa, se gustar è colpa,Questo bel frutto che un sì caro pegno(Forz'è ch'ognor dal bene il ben germogli)Della tua tenerezza oggi mi porge:La cui sublime tempra appien, com'ora,Senz'esso, intesa io non avrei giammai.Ah! s'io credessi che seguire al mioArdir dovesse l'intimata morte,Ogni peggior destin soffrire io solaCerto vorrei, sola morir piuttostoChe farmi a te consigliatrice maiD'alcun tuo danno, ed assai meno or quandoL'incomparabil tuo verace amoreConosco a certi e manifesti segni.Ma ben diversi i fortunati effettiIn me ne provo, e, non che morte, io sentoFatta maggior la vita, acuto il guardo,Nuove speranze, nuove gioie, e sparsoIl labbro mio di sì divin sapore,Che quanto di più dolce in pria gustai,Insulso od aspro or sembrami. T'affidaAlla mia prova, Adam; gustane, e 'l vanoDella morte timor consegna ai venti.

Così dicendo, ella abbracciollo e pianseD'una tenera gioia, a tant'altezzaSpinto veggendo in cor di lui l'amoreChe per lei scelga d'affrontar la morteE lo sdegno del cielo. In premio quindi(Premio ch'è ben dovuto a quella reaCondiscendenza) dal divelto ramoA lui con mano liberal presentaLe frutta allettatrici. Egli sospesoPunto non sta, ma, benchè scorga il meglio,Da troppo amore e da que' vezzi vintoLe prende e le divora. Al nuovo eccessoChe la gran colpa original compiea,Dall'intime sue viscere la terra,Come tra fiere ambasce, un'altra voltaTutta tremò, mise natura un nuovoCupo lamento, rinfoscossi il cielo,E al mormorar del tuono alcune stilleGittò, quasi di pianto. Adam non prendeDi ciò pensiero, a satollarsi inteso;Nè il primo fallo rinnovar paventaSeco la donna e con l'esempio il molce.Alfin, siccome dal fumoso esáloDi fresco vin possente ambo compresi,Nuotano nella gioia, e lor rassembra

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Virtù divina entro sentir che il tergoLor cominci ad armar d'eterei vanni,Onde fra poco aver la terra a scherno.Ben altro in essi opra però da primaQuel frutto ingannator, sfrenate, impureVoglie destando: egli lascivo il guardoVolge sopr'Eva, ed Eva al par lascivoLo rivolge su lui; fra lor divampaUn cieco ardore, e con tai detti AdamoPrimo la invita: - Il fior, ben veggo, o cara,Di squisitezza e d'eleganza intendi;E le mie lodi in questo dì ben mertiChe vivanda apprestare eletta e raraHai saputo così. Quanto diletto,Fuggendo i doni di sì nobil pianta,Perduto abbiam finor! Quanto di vereSaporose delizie ignari fummo!Se i vietati piaceri han tal dolcezza,Perchè vietato fu quest'arbor solo?Ristorati così, dopo sì gratoPasto, ad altri diletti amor ci chiama:Vieni: dal dì ch'io ti mirai da primaDi tanti pregi adorna e mia ti fei,Non mai sì vivo ardor m'accese il petto,Nè sì bella com'or, mercè di questoArbor possente, mi sembrasti mai.

Con questi detti ei mesce e sguardi e vezziDa lei compresi appien, da lei che vibraPer le pupille tenere, languentiDolce contagio d'amorosa fiamma.Per mano egli la prende, e sovra lietaSponda, a cui feano un verde tetto i foltiRami intrecciati non restìa la guida.D'asfodilli e giacinti e violetteUn letto morbidissimo la terraLor ivi offerse, ed alle accese bramePieno sfogo ivi dier, pegno e confortoDel lor fallo comun, finchè le stancheLor membra il sonno ad irrigar discese.Ma poichè spersa del fallace fruttoFu quella forza vaporosa e dolceChe, fervida scherzando al core intornoEd agli spirti, avea lor menti illuse;E poichè si disciolse il grave sonno,D'ebbrezza figlio, che turbato e scossoAvean frequenti, minacciose larve,Da quel riposo, anzi da quell'affannoS'alzaron lassi, attoniti, l'un l'altroSi riguardaro, e ben s'avvider tostoCome schiusi avean gli occhi, e come cinteLe menti di buior. L'alma innocenza

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Che coperti li avea quasi di un velo,E insino allor del mal la turpe facciaLor nascondea, fuggì: fuggì la bellaMutua fidanza, la bontà, lo schiettoCandor primiero ed a colpevol'ontaFuron nudi lasciati. Invan coprirlaEssi vorrian, chè più palese ancoraLa fan così. Qual dal lascivo gremboDella druda infedel Sansone il forteRaso s'alzò del suo vigor primiero,Tal d'ogni onor di lor virtù spogliatiSi trovan essi. Uno appo l'altro assisiStetter gran tempo, sbigottiti, muti,Cogli occhi al suolo affissi. Alfin, quantunqueNon men d'Eva confuso, Adam con penaQuesti flebili accenti al labro trasse:

- In qual punto fatale, oimè! l'orecchioA quel bugiardo verme, Eva, porgesti,Chiunque fosse che l'uman linguaggioContraffar gl'insegnò! Ben altra sorteVeritier ci annunziò, ma, troppo falso,Una sorte miglior: son gli occhi nostriOr aperti pur troppo, appien pur troppoVeggiamo il bene e 'l mal; perduto beneEd acquistato male. Oh! frutto reoDel Saper, se Saper questo s'appella,Che d'innocenza, di purezza e fedeOrbi ci lascia e d'ogni pregio antico;E nel volto c'imprime i chiari segniD'un turpe ardor, fonte di mali, e l'ontaAlfin che tutti gli accompagna e chiudeLa trista schiera! Ah! come innanzi a Dio,Come agli Angeli suoi, che pria sì spessoScender a noi con tanta gioia vidi,Più mostrarmi io potrò? Queste or mortaliPupille inferme a sostener capaciNon saran più quello splendor superno.Oh! potess'io trar qui selvaggia vitaIn qualche burron cupo, ove del soleE delle stelle a' rai mi ricoprisseBoscaglia impenetrabile con ombraAmpio stesa di folta eterna notte!Vostri rami addensate, o cedri, o pini,Copritemi, ascondetemi sì ch'ioIl ciel non vegga più. Ma intanto in questoMisero stato nostro almen si cerchiCome celar l'uno dell'altro al guardoQuel ch'ora in noi sembra arrecare oltraggioAl decoro, al pudor. Di qualche piantaLe molli ed ampie foglie insiem congiunteCingano i lombi nostri, onde l'infesta

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Onta che a perseguirci ha testè preso,Sovra noi non si posi e ci rimprocciNostra bruttura. - Ei sì consiglia, ed amboNel più folto del bosco insieme entraro,E tosto il fico elessero, non quelloChe da' suoi dolci frutti ha nome e loda,Ma quel ben noto anch'oggi agl'Indi adustiNel Malabar e nel Decan, che vasteE lunghe stende le ramose braccia,Da cui pendenti al suol nuovi rampolliMetton nuove radici, ed ampia intornoCresce la prole alla materna piantaIn largo giro di colonne e d'archiFrondosi, alteri, e d'echeggianti vie.Ivi l'Indo pastor dal raggio ardenteSpesso ricovra, e per gli aperti spazjSta rimirando, alla fresc'ombra assiso,Gli sparsi armenti pascolar sul piano.Di quell'arbor le foglie eguali ad ampioScudo amazonio essi spiccaro, e comeSeppero il meglio, insiem le uniro e un cintoSe ne formaro. Ahi vane cure! il turpeLor fallo e la temuta onta seguaceNon celan già! Quanto dal primo onoreD'ignuda purità, quanto è diversoQuel tristo ammanto! In guisa tal fasciatiDi penne i fianchi e le altre membra ignudiTrovò Colombo, non ha guari, errantiIr per foreste e per boscosi lidiGli abitator del discoperto mondo.Così credero i nostri padri, almenoIn parte, aver la lor vergogna ascosa;Nè men perciò tristi e dogliosi, in terraA lagrimar s'assisero, nè soloLarga versâr dagli occhi amara vena,Ma di sconvolti impetuosi affettiNelle lor alme ad innalzarsi un nemboIncominciò. Disdegno, odio, sospetto,Diffidenza, discordia agita e scuoteLe misere lor menti, albergo in priaDi calma e pace, or di tumulto e guerra.Sulla ribelle volontà governoNon ha più l'intelletto, ambi son fattiDe' sensi schiavi, e di ragion l'imperoUsurpan cieche, disfrenate voglie.Alfine Adam, da quel ch'egli era un tempoNon meno che nel cor, tutto cangiatoNel volto e nella voce, il suo ripigliaInterrotto parlare: - Ah! se l'orecchio,Eva, tu davi al mio pregar, se quandoQuest'infausto mattin quella sì strana

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Voglia d'errar, come non so, ti prese,Se tu con me fossi rimasta, ancoraNoi saremmo felici, e privi adessoEccoci d'ogni ben, d'onta coperti,Nudi, meschini! Ah! più non sia chi cerchiDar di sua fè non bisognevol prova:Chi darla avido anela e vuol perigliTemerario incontrar, sull'orlo ei pendeGià della sua ruina. - E quai, soggiungeEva punta a quel biasmo, e quai dal labbroT'usciro, Adamo, acerbi detti? A miaColpa o voglia d'errar, qual tu la chiami,Imputi ciò che presso a te non menoAvvenirmi potea? ciò che a te stessoForse poteva anco avvenir? Se statoTu fossi allor presente, alcuno inganno,Io ne son certa, in quel parlar del serpe,No, scorto non avresti: entr'esso e noiCagion di nimistà non era alcuna;Odiarmi ei non potea: perchè di danniDunque temerlo apportator? Non maiDunque io dovea dal fianco tuo staccarmi,E, al par di prima, inanimata costaSempre ivi affissa rimaner? Se mioCapo e signor tu sei, se tanto rischioMi vedevi incontrar, perchè divietoAl mio partir con assoluto imperoNon festi tu? Facil pur troppo alloraMolto non ripugnasti, anzi l'assensoE 'l commiato mi desti. Ah! se costanteE fermo stavi in tuo rifiuto, ancoraIo sarei, tu saresti anco innocente.

- È questo dunque l'amor tuo? ripigliaIrato allor la prima volta Adamo;E di mia tenerezza il premio è questo?Eri tu già perduta, ed io per ancoViver potea, potea goder eterno,Felice stato; eppur con teco, ingrata!Perdermi scelsi! e rinfacciarmi or sentoLa cagion del tuo fallo? Assai severoNon ti sembrai nel mio divieto! E ch'altroFar io potea? Del tuo periglio accortaNon ti fec'io? non tel predissi? ForseNon ripetei che insidïosi lacciUn fier nemico ci tendea? RestavaSol forza usar con te; ma qui la forzaUn libero voler stringer non debbe.Vana fidanza di te stessa alloraTi trasportò, chè non trovar periglioTi promettevi, o rivolgesti soloLa vittoria e 'l trionfo in tuo pensiero.

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Io forse ancora errai, tant'alta e puraCredendo tua virtù che nulla maiDi malvagio assalirla osato avrebbe;Quest'è l'error ch'io piango, e che m'ha spintoA quel misfatto, onde tu stessa or seiL'accusatrice! E tal la sorte ognoraFia di ciascun che, in femminil virtudePosta soverchia fè, di donna in manoAbbandoni il governo: altera, audaceNon soffrirà ritegno, e, a sè lasciata,Del mal che avviene incolperà primieraLa debolezza e l'indulgenza altrui.

In amare così querele alterneEssi l'ore spendean, ma niun se stessoMai dannava però, nè alcun di quelleVane contese lor fine apparìa.

LIBRO DECIMO

Gli angeli che stavano a guardia del Paradiso, conosciuta la disubbidienza dell’uomo, abbandonano i loro posti e risalgono al cielo per giustificare la vigilanza loro. Il figlio di Dio, mandato a giudicare i nostri progenitori colpevoli, scende e pronunzia la loro sentenza; indi, tocco dalla pietà. li riveste ambedue e risale al cielo. La Colpa e la Morte che fino allora stavano alle porte dell’inferno, avvedutesi per una meravigliosa simpatia del buon successo di Satáno nel nuovo mondo, e del delitto ivi commesso dall’uomo, risolvono di non trattenersi più a lungo nell’abisso, ma di portarsi verso la dimora dell’uomo sulla traccia di Satáno. A render più facile il tragitto dall’inferno a questo mondo, fabbricano uno stupendo ponte a traverso del Caos. Mentre sono per discendere sulla terra incontrano Satáno che ritorna all’inferno, superbo del suo buon successo. Loro scambievoli rallegramenti; Satáno arriva al Pandemonio; racconta con orgoglio in piena assemblea la vittoria da lui riportata sull’uomo; e invece degli aspettati applausi ascolta un sibilo generale degli uditori suoi trasformati improvvisamente con essoseco in serpenti, secondo la sentenza data nel paradiso. Un bosco di alberi somiglianti all’albero vietato della Scienza sorge presso di loro, vi salgono su avidamente per averne le frutta, ma solo masticano polvere e ceneri amare. La Colpa e la Morte infettano la natura. Dio predice la finale vittoria del suo Figlio sopra di loro e il rinnovamento di tutte le cose; e intanto comanda agli angeli di far diverse mutazioni nel cielo e negli elementi. Adamo, scorgendo sempre più decaduto il suo stato, piange amaramente, e respinge da sé Eva che cerca di confortarlo. Ella persiste e finalmente lo calma; quindi per distornare la maledizione che doveva cadere sopra i loro figli, propone ad Adamo violenti mezzi, che da lui non sono approvati. Egli concepisce migliori speranze, le rammenta la promessa a loro ultimamente fatta, che la stirpe di lei prenderà vendetta del serpe, e la esorta a unirsi seco per placare col pentimento e colle preghiere l’offesa Divinità.

Di Satán l'opra dispettosa e nera,Com'egli ascoso entro l'anguinea scorza

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Sedotto avea la nostra madre antica,E questa indi il consorte, a côrre il pomoDell'arbore fatal, palese intantoEra nel cielo. E chi di Dio lo sguardoEvitar può che sovra il tutto è steso?Chi sua mente ingannar, cui tutto è chiaro?Ei giusto e saggio non vietò che all'uomoSatán movesse assalto, all'uomo armatoD'integre forze e libero volere,E tutte d'un nemico aperto o ascosoAtto a scoprire, atto a rispinger l'arti.Di non gustare il mortal frutto a quellaCoppia Dio stesso impose, e fisso ognoraElla serbar l'alto comando in mente,Qualunque fosse il tentator, dovea:Pur trasgredillo, e quindi a dritto incorseLa pena inevitabile d'un falloChe tenea tanti falli in sè raccolti.

Mesti per la cangiata umana sorteCh'è lor già nota, e taciturni al cieloRapidamente gli angeli saliro,Meravigliando assai com'entro il vagoGiardin furtivo penetrar potesseIl perfido nemico. Appena giuntaLa fatal nuova alle celesti porte,A ognun increbbe, e dolorosa nubeVelò quel giorno le beate fronti,Sebben quel duol, misto a pietà, l'eternaGioia non violò. Trasse dintornoAl testè giunto angelico drappelloL'eterea gente, per udir del tristoCaso l'istoria, ma veloce questoAl divin s'affrettò supremo soglioDel ben compiuto uffizio a render piena,Agevole ragion, quando la voceDalla segreta nube, in cui si cela,Il sommo eterno Padre, in mezzo al tuonoCosì disciolse: - Angeli accolti, e voiCh'or ritornate dall'infausto incarco,Cagion di turbamento o di doloreQuello che in terra avvenne, a voi non sia.Tutte le vostre cure opposte invanoSariensi a ciò: ben lo predissi, quandoL'infernal golfo valicò da primaQuel fello insidiator, che giunto ei foraAd ottener de' rei disegni il fine;Che l'uom sarìa sedotto, e, all'esca presoDi fallaci lusinghe, avida orecchiaPrestato avrebbe a menzogneri dettiContra 'l suo Creatore. Alcun de' mieiDecreti al suo cader parte non ebbe,

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Nè del più lieve tocco io mossi il pienoLibero suo volere, in equa lanceA se stesso lasciato. Or ch'altro resta,Poichè caduto egli è, se non che scendaSul fallo suo la meritata pena,La morte che intimai? Già vana ei speraQuella minaccia mia perchè veloceNon la compiè, qual si credea, l'effetto;Ma ben vedrà, pria che si chiuda il giorno,Ch'altro è l'indugio, altro il perdon; nè fiaChe, qual la mia bontà, schernita torniLa mia giustizia. A giudicarli or dunqueChi spedirò se te non mando, o Figlio,Che in cielo, in terra e nel profondo abissoA sostener mie veci eletto fosti?Chiaro nella tua scelta è il mio disegnoD'unir pietade alla giustizia: io mandoIn te dell'uom l'intercessor, l'amico,Il volontario redentore e 'l prezzoDel suo riscatto insiem, te mando alfineUomo promesso, a giudicar l'uom reo. -

Sì disse il Padre, e l'ampio fiume a destraSpandendo de' suoi rai, tutto il suo numeFe' senza velo lampeggiar nel FiglioChe manifeste in sè medesmo espresseLe paterne sembianze, e con divinaVoce soave. - A te conviensi, o Padre,Il decretar, rispose, a me la tuaSuprema volontade in cielo e 'n terraSta l'eseguire, onde tu pago ognoraIn me riposi tuo diletto figlio.Que' delinquenti a giudicare io scendo;Ma sopra me dee ricader, lo sai,Qual ch'ella sia, la lor condanna un giornoAl compiersi de' tempi. A ciò m'offersiNel tuo cospetto, e, non pentito, adessoIo quella pena d'addolcire ottengoChe poi su me si stenderà. Pur fiaLa giustizia così da me temprataColla pietà che satisfatte entrambeRisplenderan più belle, e appien placatoIl tuo sdegno sarà. Di stuol seguaceVerun uopo io non ho; soli i due reiFiano presenti al mio giudicio: il terzoDal suo fuggir convinto e già ribelleAd ogni legge, condannato assenteMeglio sarà: convincimento al serpeNon è dovuto alcun. - Ciò detto, alzossiDal folgorante soglio ov'ei sedeaDel padre in compagnia. Virtù, dominj,Ministre podestà, principi e troni

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Lo seguîr fino alle celesti soglie,Donde l'Eden si scopre e tutte intornoSue belle piagge. In un sol punto scesoÈ sulla terra; chè sebben sull'aleDe' più ratti momenti il tempo vola,Non già di Dio la rapidezza adegua.

Già dal meriggio invêr l'occaso il soleS'era abbassato, e le gentili aurette,Foriere della sera, all'ora usataScotean lor vanni a rinfrescar la terra,Quando in suo sdegno mansueto e dolceEgli venne dal ciel, giudice e insiemeIntercessore, a profferir sull'uomoIl suo giudicio. La colpevol coppiaUdì la voce da leggiero ventoAl su' orecchio portata, udì la voceDi Dio che i passi pel giardin movea,E dalla sua presenza entro il più foltoSi celò delle piante. Allor più pressoIddio si fece, ed appellò con altaVoce Adamo così: - Mi fuggi, Adamo?Dove se' tu che con tal gioia e festa,Scorgendomi da lunge, in pria soleviVenirmi incontro? Io non ti trovo, e intornoSol trista solitudine mi veggoQui dove già, non ricercato ancora,Tanto mi dimostravi affetto e zelo.Qual io solea, non son? qual mai vicenda,Qual caso or t'allontana o ti ritarda?Vieni, ti mostra. - Ei viene, Eva lo segue;Ma tanto or più restìa, quanto più prontaAl fallo già; confusi entrambi in volto,Tremanti in cor. Ne' loro sguardi amoreNè vêr Dio, nè fra lor più non appare;Ma sol colpa, terror, sdegno, vergogna,Rancor protervia e frode. Incerto AdamoTenta, nè può parlare; in brevi accentiAlfin così risponde: - Io nel giardinoLa tua voce ascoltai, ma tema n'ebbiPerch'ero nudo e mi nascosi. - A luiPlacido allora il Giudice soggiungeSenza rampogna: - La mia voce spessoSenza timore udisti, anzi con gioia;E come sì terribile or divenneElla per te? Che tu se' nudo, or dondeSapestil tu? Di quella pianta il frutto,Ch'io toccar ti vietai, gustato hai forse? -- Oimè! che fo? doglioso Adam soggiunge,In dura stretta invero oggi dinanziAl mio Giudice sto: tutta m'è forzaIn me recar la colpa, ovver la dolce

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Mia compagna accusar, della mia vitaL'altra metà. Di lei che fida semprePur mi riman, non io celar l'erroreAnzi dovrei che a biasmo ed onta esporlaCon le querele mie? Pur mi vi stringeMia dura sorte e ineluttabil fato,Onde tutta su me l'orrida moleDel fallo e del gastigo insiem non piombi.E s'io tacessi ancor, qual cosa maiFugge, o Signore, il guardo tuo? La donnaChe ti piacque formar per mio sostegnoE ricevei come il miglior tuo dono,Egregio dono, convenevol, caroE divino così ch'io mai sospettoD'alcun male non n'ebbi, ella che in tutteL'opere sue, come di grazia, ancoraDi saggezza e virtù splender parea,Ella il frutto mi porse ed io 'l gustai. -- Fors'ella era il tuo Dio? (riprese alloraLa manifesta maestà del cielo)Che la voce ascoltar di lei piuttostoDovessi tu che la mia voce? ForseArbitra e guida di tua vita ell'era,O t'era almeno egual che l'alto e degnoViril tuo stato in sua balìa ponessi,Quel nobil grado, in cui locato IddioT'avea sovr'essa che di te formataE per te fu soltanto, e da te vintaIn ogni pregio più sublime e vero?Beltade e vezzi per piacerti ell'ebbe,Non già per farti servo. A chi soggiace,Non a chi regge eran que' doni adattiOnd'io la ornai. L'autorità, l'imperoA te si convenìa, se ben te stessoRiconoscer sapevi. - Indi rivoltoAd Eva disse: - E tu che festi, o donna? -

Allor coperta di vergogna e mesta,All'augusto suo giudice davantiTutta tremante e cogli sguardi a terra,Breve ella disse: - M'ha ingannata il serpe,Ed il frutto gustai. - Ciò udito, IddioLa sua condanna a profferir si volseSenza indugio sul serpe. Ancor ch'ei soloDell'altrui fellonìa fusse strumento,Nè la colpa recar sul reo potesse,Pur, come infetto e dal primier natioSuo fin contaminato in opra iniqua,Egli fu maledetto. Utile all'uomo,Del resto ignaro, il più saper non era,Nè gli scemava il fallo. In voci arcaneAvvolger tuttavia piacque all'Eterno

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Sul reo Satáno la sentenza, e in taliDetti il serpe esecrò: - Perchè ciò festi,Fra gli animali e fra le belve tutteSei maledetto: andrai carpon la terraSul tuo petto strisciando e fia tuo ciboPer tutti i giorni tuoi del suol la polve.Fra la femmina e te perpetua guerraE fra 'l suo seme e 'l tuo porrò: tu sempreInsidierai le sua calcagna, e 'l capoEsso t'infrangerà. - Così predisseL'oracol santo, e fu compiuto poi,Quando Gesù dell'alma Vergin figlio,Della nostra più pura Eva seconda,Mirò Satán, prence dell'aria, in guisaDi rovinosa folgore, dal cieloPrecipitare; e dalla tomba quindiSorgendo, vinti principati e scettri,In pompa trionfal lungi splendenteDietro si trasse i vincitor superbiIncatenati per gli aerei campiChe lungo tempo, qual suo regno, aveaOccupati Satán, Satán che sottoA' nostri piè conquiso e infranto alfinePer lui sarà che gliel predisse allora.

Ad Eva quindi si rivolse, e in questiDetti il giudicio profferì: - Tue peneCo' tuoi concepimenti insieme, o donna,Io multiplicherò; con duolo i figliAl dì darai; sarà soggetto a quelloDel tuo consorte il tuo volere, e imperoEgli avrà sopra te. Così dipoiAdamo ei condannò: Perchè l'orecchioDesti alla voce di tua donna e 'l frutto,Ch'io ti vietai, gustasti, è pel tuo falloMaledetta la terra, onde con stentoPer tutti i giorni di tua vita il ciboNe ritrarrai: di triboli e di spineFerace ella sarà; l'erbe del campoTi daranno alimento, e pane avraiSol nel sudor della tua fronte infinoChe tu rieda alla terra, onde se' tolto,All'origine tua: chè polve fostiE polve tornerai. - Cotal decreto,Giudice e salvator, sull'uomo ei reseE allontanò dell'intimata morteIl sovrastante colpo. Indi pietosoDi lor che così nudi avea davantiE all'aer esposti che cangiarsi or dee,Infin d'allora non sdegnò di servoPrender sembianze, e, come poscia i piediLavò de' suoi discepoli, qual padre

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Or questi figli suoi miseri e nudiCon le pelli ammantò d'estinte belve,O con le spoglie che lor tolse, e, comeIn angue, rinnovò; nè sol le membraDe' suoi nemici rivestir degnossiMa quella ancor molto più turpe internaLor nudità, del sommo padre al guardoDi sua giustizia ricoprì col manto.

Rapido al ciel quindi risale, e in tuttoIl beante splendor del sen paternoEgli rientra: al Genitor placatoPiena ragion del suo messaggio rende,Benchè quei nulla ignori, e per l'uom reoGrazia e mercede d'implorar non cessa.

Prima del fallo e del giudicio intantoSulla terra avvenuti, entro le soglieDel carcere infernale a fronte a fronteColpa e Morte sedean, mentre lontanoDentro il buio Caosse ignei torrentiVomitavan le porte spalancate,Da che la Colpa aperte e il fier nemicoL'ebbe varcate. Ella rivolta a Morte:- O prole mia, perchè sediam qui, disse,A riguardarci in faccia in ozio indegno,Mentre il nostro gran padre in altri mondiInoltra i passi glorïosi, e a noi,Suoi cari figli, miglior sede appresta?Propizia sorte lo accompagna al certo:Ov'altro fosse, dal furor rispintoDi que' nemici suoi, fatto ritornoAvrebbe omai quaggiù; chè adatto locoAl suo gastigo ed alla lor vendettaPiù di questo non v'ha. Sentir già parmiVigor novello in seno, ali mi sembraSentir crescere a tergo, e ch'io già spieghiVerso ampio regno a me concesso il voloFuori di questo orror; sì mi trasportaNon so qual forza impetuosa, arcana,Che le disgiunte ancor per tratto immensoConformi cose in amistà segretaCongiunger può con ammirabil nodo.Tu meco ne verrai, tu ch'ombra mia,E dal mio fianco indivisibil sei;E perchè questo interminabil, cupoBáratro il ritornar di lui non tardi,Tentiamo in prima un'opra audace e dura,Ma di noi degna e al tuo potere e al mioNon disegual. Sul vasto oceano orrendoS'erga un sentier che dall'inferno arriviFino a quel nuovo mondo, ov'or SatánoÈ vincitore. Il monumento illustre

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Dal grato infernal popolo con gioiaSempre ammirato fia; chè facil varcoAvran sovr'esso e quei ch'a far soggiornoLà chiamerà la sorte, e quei che d'amboLe parti andranno e torneran messaggi.Nè già smarrir poss'io la via: tal nuovoImpulso guidator colà mi traggeE infallibile istinto. - A ciò rispondeLo scarno spettro: - Ove ti guida il FatoE 'l tuo possente genio, or vanne: addietroIo non mi rimarrò, nè il dritto calle,Te duce, errar poss'io. D'immensa strageGià respiro la preda, e quanto ha vitaIn sulla terra, mi tramanda un gratoSapor di morte. Al fianco tuo m'avraiNell'opra disegnata, e teco a provaMie forze impiegherò. - Così dicendo,Del feral tôsco, ond'or la terra è infettaFiuta il vapor con gioia, e qual da lungiUn grande stormo di voraci augelliLà stende il volo ove s'accampan duePronte a battaglia pel venturo giornoOsti nemiche, e già presente l'ampioDi que' vivi cadaveri macello,Vittima della morte al nuovo soleE grato pasto suo: così la torvaSquallida imago da distanza tanta,Le aperte nari invêr la terra alzando,Per la caliginosa aria l'odoreAttrae della sua preda. Ambo escon quindiDalle tartaree soglie, e sul frementeVasto regno del Caos, umido e nero,Per diverso sentier slanciansi a volo:Poi con robusta infaticabil lenaSu quell'acque librandosi, quant'iviO solido o viscoso a lor s'affaccia,Come in irato mar su e giù travolto,In ampj mucchi ragunando vanno,E d'ogni lato il cacciano d'AvernoIn vêr la bocca. Tai due venti uscitiDa poli opposti, sovra il cronio mareInfurïando, smisurati montiAccozzano di ghiaccio e chiudon oltrePetzora il passo ai ricchi liti eoiDel felice Cataio. Il vasto ammasso,Con la pari a tridente, adusta e freddaClava che un gelo impietrator tramanda,Morte percosse e l'assodò, qual fissaUn giorno fu la già natante Delo;Poi col gorgoneo sguardo il tutto reseRigido, immoto. Già dalle profonde

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Radici dell'averno, insiem compattaD'asfaltico bitume e larga al pariDella soglia infernal, s'innalza e cresceLa ben fondata sponda: ecco s'incurvaSullo spumante abisso in arco immensoLa vasta mole, un portentoso ponteChe altissimo, lunghissimo distendesiFin dentro al muro immobile di questoMondo or aperto e dato a Morte in preda.Ampio e agevol cammin di là conduceGiù nell'inferno. Tal (se lice a grandiPicciole cose assomigliar) bramosoDi por la greca libertade in ceppiSerse dall'alta sua mennonia reggiaAl mar sen venne, e 'l gran cammino impostoSull'Ellesponto, Asia ed Europa uníoE flagellò con replicati colpiL'onde sdegnose. Con mirabil arteCosì compiuto avean que' fabbri inferniL'alto lavoro e de' pendenti massiL'enorme vôlta audacemente spintaSullo sconvolto báratro, lunghessoLa traccia di Satán fin dove appuntoEi l'ali stanche ripiegò da primaFuor del Caosse, e posò salvo il piedeDel nuovo mondo in sull'esterna faccia.Stanghe e catene d'adamante alfineTutta assodano l'opra, e troppo, ahi! troppoStabil la fanno. Or là son giunti i mostriOve tre vie fan capo: inverso il cieloL'una conduce, a questo mondo l'altra;E lunghissima a manca invêr l'avernoS'apre la terza. Già movean le dueFurie alla terra e al Paradiso, quandoFra lo Scorpio e 'l Centauro ecco SatánoIn forma di celeste angel lucenteLor si presenta, che sublime il volo,Allor che entrava in Arïéte il sole,Da questo suolo avea spiegato. Il padre,Benchè in forme non sue, da' cari figliRavvisato è bentosto. Ei, già sedottaEva, nel vicin bosco erasi ascoso,E là sott'altro aspetto, intento a quelloChe poscia ne avverrìa, tratto nel falloVide da lei, benchè di frode ignara,Adamo ancor; la lor vergogna videCercare inutil vel: ma quando il FiglioScender di Dio per giudicarli ei scorse,Spaventato fuggì, così sperandoScampo non già, ma del divin presenteFuror sottrarsi, a súbita tempesta.

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A notte poscia ei fe' ritorno, e doveL'afflitta coppia ragionando insiemeE piangendo sedea, vôlto l'orecchio,La sua propria sentenza indi raccolse,E ch'or non già, ma in avvenir doveaSu lui caderne il colpo. Ei lieto quindiDe' suoi trionfi, apportator tornavaD'alte nuove all'inferno, e là sul margoEstremo del Caosse, appiè del nuovoProdigioso lavor, ne' due s'avvenneChe incontro gli venian, diletti figliInaspettati. Gran letizia e festaFu quinci e quindi, e di Satán s'accrebbeAnco la gioia alla stupenda vistaDel fabbricato ponte. A lungo ei stetteMeravigliato a riguardarlo, quandoLa colpa alfin, sua lusinghiera figlia,Ruppe il silenzio e disse: - Ammira, o padre,Della tua gloria un monumento illustreIn quest'alta struttura; a te dovutaEll'è, se tu nol sai; tu primo autoreE artefice ne sei. Tal dolce e strettoLegame di natura unisce e moveCon armonia segreta i nostri cori,Che delle tue vittorie, ond'or mi fannoCerta gli sguardi tuoi, fin di laggiusoEbbi fausto presagio, e mi sentii,Benchè divisa per frapposti mondi,Spinta vêr te da irresistibil forzaCon questo germe tuo; cotal per sempreNoi tre congiunge ordin fatale! OmaiPiù ritenerci non potè l'averno,Nè quest'oscuro, innavigabil golfoNell'aperto da te nobil sentieroCi contese il seguirti. A noi, finoraChiusi in quel tetro carcere, tu pienaLibertà procacciasti, il nostro regnoLe ben munite sue frontiere ha stesoPer te tant'oltre, e per te frena e domaQuesto ponte sublime il nero abisso.Or questo mondo è tuo: quel ch'altri ha fattoA te diè il tuo valor; più che dell'armiNon ti tolse il destin, ricovrar seppeL'alta tua mente e vendicare appienoI danni in ciel sofferti. Ampio qui regno,Che aver lassù non ti fu dato, avrai.Lascia che in ciel (così decise il Fato)Quel vincitor sia donno, or ch'egli stessoVolontario ti lascia in abbandonoQuesto novello mondo: egli di tutteCose divise dagli empirei fini

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Teco parta l'impero: il quadro cieloEi s'abbia, e tu la mondïale spera;O in te risurto un più che mai feroceNemico ei vegga e pel suo soglio tremi. -- Mia vaga figlia, e tu mio doppio germe(Delle tenebre il re lieto risponde),.Un'alta prova oggi mi deste inveroD'esser voi stirpe di Satán (superboDi questo nome or vo che me rivaleDel re de' cieli onnipossente esprime),E ampiamente di me, dell'oste infernaMertato avete, che fin qui, sì pressoDelle celesti porte, a' miei trionfiCon quest'eccelsa, glorïosa moleUniste i vostri, e con sì stabil varcoFêste di questo mondo e dell'infernoUn solo regno ed una patria stessa.Or mentr'io dunque per lo buio a quelleSozie possanze colaggiù discendoSul da voi fabbricato agevol calleA dar contezza de' successi mieiE divider con lor le gioie nostre,Voi per quest'altra via, fra mezzo a queste,Or tutte vostre, numerose sfereDritto all'Eden scendete: ivi feliciSoggiornate e regnate; indi si stendaSulla terra e sull'aere il vostro impero,E più sull'uom che dichiarato soloSovrano fu del tutto; egli sia vostroSchiavo primiero, e alfin tuo pasto, o Morte.Io vi mando in mia vece, e 'n vostre maniLa piena, incomparabile mia possaTutta rimetto: in voi, ne' vostri unitiSforzi di questo mio novello regnoSta il securo possesso e delle inferneCose la gloria. Ite felici e forti. -

A questi detti, tra le folte stellePrecipitan color rapido il corsoE di velen spargono il calle. Ogn'astroAduggiato scolorasi, dell'atraTartarea peste alla maligna forzaS'ecclissa e langue ogni pianeta. IntantoPer l'altra e nuova via Satán scendeaAlle porte d'inferno. Alto mugghiandoIl diviso Caosse a destra e a mancaAssal con rovinose onde sonantiLa sovrapposta fabbrica che a schernoPrende il vano furor. Varca SatánoLe aperte soglie, da color lasciateChe al nuov'orbe volaro, e tutto intornoTrova deserto. Ritirata addentro

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S'era l'oste infernale intorno a' muriDel Pandemonio ch'è cittade e reggiaDell'eccelso Lucifero (tal nomeEbbe Satáno un dì dal fulgid'astroCui fu rassomigliato). In armi stavaIl campo tutto, e in general consessoSedeano i grandi della sorte incertiDel sommo duce ch'eseguiti appienoGli ordini or trova al suo partir lasciati.Come inseguìto dal nemico RussoLà d'Astracan per li nevosi campiRitirasi lo Scita, o qual sen fuggeIl battrïan sofì verso i ripariDi Tauri o di Casbìn, pieno di temaAll'apparir dell'ottomana luna,E 'l regno d'Aladúl dietro si lassaFatto un deserto, tal quell'oste infernaDal ciel sbandita i neri suoi confiniAbbandonò per lungo spazio, e intornoAlla suprema e più munita roccaCon stretta guardia si ridusse, e quiviChe l'audace suo re dall'alta impresaDi gir cercando nuovi esterni mondi,Faccia ritorno, d'ora in ora attende.Egli, in sembianza di comun guerrieroDell'ordine minore, inosservatoPassò fra lor; varcata indi la portaDella sala real, sul trono eccelsoChe nel fondo sorgea con regia pompaD'auro e di gemme riccamente intesto,Invisibile ascende; ivi un tal pocoEgli s'assise, e il tutto a sè dintornoVide non visto: alfin come da nubeLa sua fulgida fronte ecco si mostra,E la forma qual astro ampio raggiante;Anzi ancor più raggiante un falso lumeSpande, o gli avanzi della gloria primaChe a Dio piacque lasciargli. All'improvvisoFolgoreggiar, quelle tartaree turbeVolgon gli sguardi, e 'l sospirato duceVeggon fra lor tornato. Alto risuonaIl plauso universale, ed ogni grandeDi quel nero consesso a un tratto s'alza,E pien di gioia verso lui s'affrettaE 'l circonda e 'l festeggia. Egli con manoSilenzio impone, e rispettoso, attentoStassi ciascuno: - O principati, o troni,Podestadi, virtù, dominj, ei dice,Non sol pe' dritti vostri a voi si dennoTai nomi ormai, ma pel possesso ancoraDegli espressi poteri or ch'io ritorno,

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Oltr'ogni speme fortunato, a trarviDa quest'inferno, abbominevol antroDi miseria e d'orror, da questo crudoCarcer di quel tiranno. Un nuovo, un vastoMondo or vi chiamo a posseder che pocoAl nostro ciel natìo di pregio cede,E ch'io fra mille rischj e mille affanniVi suggettai. Lungo il ridir sarebbeQuello ch'io fei, quant'io soffersi, e comeI vôti, immensi, tempestosi guadiDel feroce Disordine io trascorsi.Quel varco, ov'or largo cammin costruttoHan Colpa e Morte, ed appianato al vostroGlorïoso tragitto, apersi io primoFra duri stenti: io mi slanciai, m'immersiNel tetro grembo del Caosse informeE della notte ingenita che al mioViaggio audace s'opponean, gelosiDe' loro arcani, con orrenda rabbia;E con fragor, con urli i gran decretiAllegavan del fato. Al nuovo mondoChe già predetto in ciel gran tempo innanziAvea la fama, vincitore alfineIo giunsi; egregia fabbrica, perfetta,Meravigliosa. Ivi in giardin feliceEra locato l'uom che al nostro esiglioDovea sua bella sorte. Al suo FattoreCon l'arti mie lo fei ribelle, e un pomoA lui vietato, il crederete? un pomoA ciò bastommi. Per tal fatto (or voiRidete) acceso d'ira il re supremoL'uom suo diletto e tutto il mondo insiemeAlla Colpa ed a Morte ha dati in preda,E quindi a noi, senz'alcun rischio nostroO pena o tema, a noi che là potremoSoggiornar, spazïar, regnar sull'uomo,Com'ei sul tutto in pria regnar dovea.È ver (nol celo) che su me pur ancoEi profferir la sua sentenza volle,O piuttosto sul serpe, onde le formeIo presi a sedur l'uom. Quel che mi spetta,È mortal odio ch'ei fra me vuol porreEd il genere umano. Io deggio al piedeTendergli insidie, ed il suo seme un giornoCalpesterammi il capo; il quando poiNon sepp'ei dir. Forse tropp'alto è il prezzoDel conquisto d'un mondo? Eccovi espostiI miei successi. Or ch'altro resta, o numi,Se non andar di quei beati regniAl pien possesso? - Egli, ciò detto, alquantoFermossi ad aspettar le liete grida

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E 'l plauso universal; ma d'ogni latoOde, all'opposto, d'infinite lingueUn orribile sibilo improvviso,Suon di ludibrio general. Stupito,Ma pochi istanti, ei ne riman; chè tostoMaggior stupore ha di se stesso: ei senteChe gli si stira e affila il volto, a' latiGli si affiggon le braccia, insiem le gambeS'accoppian, s'attortigliano e bocconi,Riluttante, ma invan, sul ventre cadeMostruoso serpente a terra steso.Or maggior della sua lo investe e domaUna superna forza, e, come vuoleLa sua condanna, in quella forma stessa,In cui peccò, porta la pena. Ei tentaParlar, ma sol con la trisulca linguaSibili rende a' sibili dell'altreTrisulche lingue; chè conversi i reiComplici del suo fallo al par con luiSon tutti in serpi. Un fero suon riempieLa vasta sala che d'attorte codeE spaventose teste ondeggia tuttaIn orridi viluppi, e tutta ferveDi que' rabbiosi mostri; aspi, cornuteCeraste, anfesibène, idri, scorpioni,Dipsadi, ellopj. Moltitudin tantaGià non fu vista da quel suolo uscirneOve l'atro stillò gorgoneo sangue,E non d'Ofiusa. In mezzo a lor grandeggiaSatán, dragone smisurato assaiPiù di quel che dal fango il sol produssePitone immane, e sovrastare agli altriSembra, come di forma, ancor di possa,Seguillo ognun verso l'aperto campoOve l'intero esercito ribelleSchierato stava cupido e superboAd aspettar che il glorïoso duceSi mostri in pompa trionfal, quand'ecco,Oh vista ben diversa! un stuolo appareDi deformi serpenti. Un freddo orroreAssal tutta quell'oste e la percoteIl colpo stesso. In ciò che miran, tostoSenton cangiarsi; cadono repenteL'aste e gli scudi al suolo, e cade a un tempoOgni guerrier: rinnovasi per tuttoL'orribil fischio, e quell'orribil formaÈ di colpa comun comun gastigo.Così fur vôlti in sibili di scornoI loro applausi ed il trionfo in ontaDalle proprie lor lingue. A far più graveLa pena loro, ivi dappresso un bosco

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(Così piacque all'Eterno) a un tratto surseTutto carco di poma appien simìliA quelle che a Satán fur l'esca ond'egliNel paradiso Eva ingannò. Gli sguardiSopra il novo stranissimo portentoEssi a lungo fissâr, da tema presiChe, per un arbor solo, ivi cresciutaD'arbor vietati sì gran copia fosseA raddoppiar la lor vergogna e 'l danno.Ma cruda fame e intollerabil seteD'alto mandata sì gli assale e struggeChe non san rattenersi: a torme, a mucchiTutti colà s'avvoltolaro, e sovraLe piante inerpicandosi, dai ramiCosì pendero attorcigliati e foltiChe fu men folto di Megera il crine.Avidamente a dispiccar le fruttaTosto si dier, vaghe e lucenti al guardoNon men di quelle che un dì crebber poiAppo il sulfureo lago, ove del cieloCadde la fiamma e Sodoma fe' polve.Ma non al tatto solo, al gusto ancoraFean queste inganno: essi calmar pensandoCon dolci poma la rabbiosa fame,Amarissime ceneri mordaciSolo col dente stringono, che tostoSono con ira e sibilante scroscioCostretti a rigettar: tornan più volteSpinti da fame e sete all'aspro assaggio,Ed altrettante il sozzo, orrido pastoDi ceneri e fuliggine distorceLoro e bocca e mascelle. A quell'ingannoSì fur spesso dannati essi che alteriIvan testè d'un sol trionfo e vanoSovra l'uomo caduto, e tormentolliQuello stridulo fischio e quell'atroceRabida fame infin che lor concessoFu ripigliar le prime forme. Ogni annoPerò, siccom'è voce, in fissi giorniQuella pena e quell'onta in lor ricadeAd abbassarne l'esultante orgoglioPer l'uom sedotto. Incerta aura di famaPur del vantato lor trofeo si sparseFra le idolatre genti, onde cantaroChe il serpe a cui d'Ofione il nome diessi,Prima dell'alto Olimpo il regno tenneCon Eurinome insieme (in lei fors'EvaChe usurpò ambizïosa i dritti altrui,Intesero nomare), e furo entrambiIndi scacciati da Saturno ed OpiPria che al lume del dì sul ditteo giogo

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Uscisse Giove. A' nostri danni intantoAhi! troppo ratta in paradiso è giuntaL'infernal coppia. Il sol poter stendeaIvi la Colpa in prima, or ella stessaEvvi in persona, e stabil sede averviGià fa disegno. Ne ricalca l'ormeMorte dappresso che non anco il tergoPremea del suo corsier squallido e smunto,Quando colei sì prese a dir: - O Morte,O di Satán secondo illustre germeDi tutto domator, di', che ti sembraDi questo nostro impero? Ancor che duroCammin ci costi, assai miglior per noiNon pensi tu che senza possa e nomeLo starci a guardia colaggiù di quelleAtre soglie infernali, ove per lungoDigiun tu pur languivi? - A cui quel mostroCosì tosto rispose: - A me ch'eternaFame tormenta, paradiso, inferno,O ciel che importa? Ov'è maggiore il pasto,Ivi mia stanza anco è miglior; nè speroBench'io qui larga preda abbia davanti,Empiermi il ventre già, nè stender maiIntorno all'ossa mie la vôta pelle. -- Intanto di quest'erbe e frutta e fiori,Soggiunge allor l'incestuosa madre,Pasciti in prima, indi d'augelli e pesciE d'ogni belva, non spregevol cibo,E quanto il tempo coll'adunca falceMiete, col dente vorator tu struggi;Finch'io sovra l'intera umana stirpeFermi mia sede e del mio tosco infettiI suoi pensier, sguardi, parole ed opre,E tua lo renda alfin più dolce preda. -

Ambo, ciò detto, per diverso calleVolsero il piè, di spargere anelandoIn ogni cosa di lor peste i semi,E tosto o tardi, quanto vive, tuttoMaturare all'eccidio. Allor dal sommoSoglio mirando ciò l'Eterno Padre,Ai circostanti luminosi coriCosì parlò. - Mirate là que' sozziMostri d'inferno con qual rabbia vannoLa terra a disertar ch'io non men vagaCreai che buona, e tal serbata avreiSe il folle error dell'uomo a quelle reeStruggenti furie non ne aprìa l'ingresso.Pur quel prence d'averno e gli empj suoi,Perchè a' nemici miei facil consentoD'entrare in sì bel regno e avervi impero,D'improvvidenza osan tacciarmi, e oggetto

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A' lor dileggi io son, qual se da ciecoDisdegno preso, in lor balìa lasciatoIo tutto avessi e al lor furore in preda:Nè san ch'io stesso que' mastini inferniDi laggiù spinsi in sulla terra ond'essiQuanto d'immondo e turpe il fallo umanoSparse colà sovra le pure coseDeggian tutto lambire e pascer sempre;Finchè di quella sanie e quel sozzoreSatolli e gonfj, a un colpo sol del tuoVittorïoso braccio, o amato Figlio,Con l'atra preda loro un'altra voltaScagliati sien giù pel Caosse alfineDentro l'abisso, cui le ingorde fauciFian con suggello eterno allor serrate.Più santi e puri allora il ciel, la terraDi beltà nuova splenderan, nè maiSoggetti a macchia più. Ma d'uopo è intantoChe si purghi il misfatto e 'l mio s'adempiaSovran giudicio. - Egli qui tacque, ed alto,Come il fremer de' mari, in tutto 'l cieloDell'infinito angelico consessoRisonâr gli alleluja: - È giusta e rettaOgni tua via, Signor: giusti son tuttiIn tutte l'opre i tuoi decreti eterni:Chi fia che adombri la tua gloria? Al FiglioDella perduta umana stirpe elettoRistorator quindi sia gloria e lode,Per cui novello ciel, terra novellaSorger vedranno le future etadiO scender dall'empiro a' cenni suoi. -Tai furon gl'inni, e 'l Creator frattantoA sè chiamando i suoi ministri a nome,Diverso incarco a ciascun diè, com'oraL'ordin volea delle cangiate cose.Di torcer la sua via così fu primaAl sole imposto e tal vibrar sua luceChe gelo e ardore intollerabil quasiLa terra alternamente ne sentisse,Or dal rigore aquilonar percossa,Or dalle infeste soffocanti vampeChe il solstizio le avventa. Il proprio fueMinistero alla luna indi fermato,Ed agli altri pianeti i varj moti,I varj siti, i varj spazj, ond'oraGuardansi opposti con sinistre fronti,Or s'uniscon maligni. Appreser quandoI loro influssi rei versar le fisseStelle dovean; qual d'esse a par col soleSorgendo o tramontando orridi nembiAvesse a sollevar: fu il loco a' venti

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Prescritto, e quando furïosi insiemeDovrian mescere il mare e l'aria e i liti.E quando il tuon le buie eteree volteCrollerìa spaventoso. È fama ancoraCh'a' suoi ministri comandò l'EternoPer venti gradi e più dal solar asseSvolgere i poli della terra, e quelliNon senza sforzo l'ampia e stabil moleSpinsero e travoltâr. Per egual tratto,Com'altri vuol, del suo Signore al cennoScostossi il sole dal cammino usato,Pel Tauro, per le atlantidi sorelleE i gemelli spartani infino al segnoAscendendo del Cancro, e quindi in giusoPel Leon, per la Vergine e la LibraCalando al Capricorno. I varj climiEbber così varia stagion: che in altraGuisa un'eterna primavera in terraSarïasi vista e fresche erbette e fiori,Con notti eguali a' giorni: ai poli il solePer compensarli di sua scarsa e troppoLontana luce, compartito avrebbePerpetuo dì, visibile girandoSenz'orto e senza occaso intorno intornoAll'orizzonte, nè d'eterni ghiacciForano state rigide le piaggeD'Estotilanda e i magellani liti.Dall'empio assaggio del vietato frutto,Qual dall'infando tïestèo convito,Rivolse quel grand'astro i guardi e 'l corso:Chè se, qual fu dipoi, tal fosse statoSuo calle in pria, come il terrestre globoSchivato avrìa, benchè di colpa scevro,Gli acerbi freddi ed i cocenti ardori?Cotai vicende in ciel trasserne in terraE in mar, benchè più lente, altre simíli;Splendero infausti gli astri; ignei vapori,Caliginose nebbie ed atre pestiL'aria infettâr: da Norumbéga estremaE dai confin de' Samoiedi algenti,Le lor di bronzo carceri squarciandoBorea ad Argeste e Cecia e Trascia armatiDi neve e gelo e turbini e procelleS'avventano a schiantar le selve intereE por sossopra i mari. Ad essi incontroSi slanciano ruggendo Africo e NotoCinti di negre, fulminanti nubiDalla Serralïona e dalle porteDel mezzodì. Di fianco in giostra vieneCon furia egual Zefiro ed Euro, e pressoHan Scirocco e Libeccio altomugghianti.

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Tal fra le cose inanimate in priaTrambusto surse, e della Colpa figliaLa Discordia bentosto il suo furoreSoffiò negli animali, e fu di morteFra lor ministra: cogli augei gli augelli,Coi pesci i pesci ed ogni belva insiemeCominciaron la guerra: i frutti e l'erbeObblìan feroci, e l'arrabbiato denteVolgon l'une sull'altre; all'uomo alcunaPiù non serba rispetto, e il fugge o biechiTorce sovr'esso nel passar gli sguardi.Cotai furo i crescenti esterni maliChe dalle folte e nere ombre del bosco,U' s'era ascoso e abbandonato al duolo,Già scorse in parte Adam, ma ben più feriNel seno altri ne prova, e 'n gran tempestaAgitato d'affetti, il grave affannoCercò sfogar così: - Misero Adamo,Tanto felice in pria! Di questo nuovoSplendido mondo adunque il fine è questo?A questo fin venn'io che dianzi n'eraL'ornamento più bello? Io che del cieloEra testè l'amor, l'odio or ne sono?E la vista di Dio, già di mie gioieSuprema gioia, or di terror m'ingombra?Ma de' miei mali almen qui fosse il fine!Io li ho mertati e soffrireili in pace.Ma che! quanto prolunga il fil di questaMisera vita mia, la vita in altriDa me diffusa, altro sarà che tristaPropaggin di miserie? Oh voce, oh voceCon tanta gioja udita un dì! - Crescete,Moltiplicate: - Oh voce or, più che morte,Amara a ricordarsi! E ch'altro maiPoss'io moltiplicar se non le altruiFere bestemmie sovra il capo mio?Chi ne' venturi secoli, fra i tantiMali ch'io tratti avrò su lui, chi fiaChe non mi maledica? - Ecco il retaggioD'Adamo, si dirà; mal s'abbia il reoNostro progenitor! - Così l'immensoCarco dei danni, onde saranno oppressiI miei più tardi sventurati figli,Tutto sull'alma mia, quasi in suo centroRicaderà, s'aggraverà. Quai lunghiAffanni, oimè, succederanno ai breviPiacer del Paradiso! Ah! t'ho fors'ioRichiesto, o Creator, di trarmi fuoraDalle tenebre mie? Ti pregai forseDa quel mio fango d'innalzarmi a questaForma vitale, e qui locarmi? A quello

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Che festi, il mio voler parte non ebbe:Giusto non fora il ritornarmi dunqueNella mia polve? Io volontier vi torno,Tutto quant'ebbi volentieri io rendo,Io non atto a serbar quell'ardue leggiPer cui quel bene ritener doveaChe non ti chiesi. Io l'ho perduto, e basta;Perchè tu dunque d'infiniti maliV'aggiugni il peso? Inesplicabil sembraLa tua giustizia: pur tardi, il confesso,Sì, troppo tardi, ora m'oppongo: alloraChe offerti furo, io ricusar dovea,Quai che fossero, i patti. Il dono, Adamo,Tu ricevesti, ne gioisti, ed oraContro la legge del goderlo, or moviI tuoi vani argomenti? Iddio creottiSenza il consenso tuo: ma che? se un reoFiglio, mentre il riprendi, a te dicesse:- Perchè mi generasti? Io non tel chiesi: -L'oltraggiosa accettar discolpa audaceVorresti tu? Pur non tua scelta diede,Ma di natura necessaria leggeA lui la vita; e Dio crearti scelse,E perchè grato il suo voler seguissi,Trasfuse in te di sè medesmo un raggio.Era suo dono il premio; a dritto or dunqueSta in suo voler la pena: io mi sommetto;Giusto è il giudicio suo: fui polve, e polveIo tornerò. Deh ne giungesse il punto!Ma perchè tarda la sua man quel colpoCh'oggi scagliar fermò? Perchè ancor vivo?E son gioco di morte, e senza morteMi si prolunga il duolo? Oh come lietoAlla data sentenza incontro andreiDi ricadere in insensibil terra!Quanto lieto a giacer porreimi in essa,Come in grembo a mia madre! Ivi tranquilloAvrei riposo, avrei sicuro sonno;Non più di Dio la spaventevol voceMi tuonerebbe nelle orecchie allora;Non più per me, pe' figli miei la temaMi cruceria con rinascenti peneDi peggior sorte. Un dubbio aspro la mentePerò mi punge, che non tutto forseIo morirò; che forse in un con questaCorporea creta mia non verrà menoQuell'aura pura che spirovvi Iddio:E allor chi sa ch'io nella tomba o in qualcheAltro fero soggiorno ognor non proviSenza morir la morte? Oh se ciò fosse!Qual orrido pensier! Ma che! lo spirto

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Di vita, ei sol, peccò; dannato a morteÈ ciò che ha vita e colpa, e questo incarcoTerreno mio dell'una e l'altra è scevro.Tutto dunque io morrò. Tacciano alfineI dubbj miei: chè andar non sa più lungiL'umana mente. Ah! se il Signor del tuttoÈ infinito, infinito anco il suo sdegnoFia dunque? Sia; tal non è l'uom, che a morteOra è dannato. È come eterna l'iraDio sull'uom stenderebbe, a cui di vitaFisso è un confin? Fare immortal la morteEgli forse potria? Pugnanti coseEi stesso unir non può; chè fora questoDi debolezza e non di possa un segno.L'insazïabil sua vendetta dunqueAndrebbe oltre la polve, oltre le leggiDella natura, onde ogni causa soloOpra quanto il subietto in sè sostiene,Non già quant'ella in sè medesma puote?Pur se la morte un colpo sol non fosse,Com'io supposi, che ogni senso spenga;Ma serie interminabile di pene,Che in me medesmo e fuor di me già sentoIncominciata, e se durar dovesseCosì per tempo eterno... Oimè! ritornaSull'ignudo mio capo il mio timoreA tuonar spaventoso. Io dunque e morteCon sempiterno indissolubil nodoSarem congiunti? E non sol io, ma tuttiAndranno meco i miei più tardi figli,Tutti perduti? Oh bel retaggio ch'ioVi lascio, o figli! Consumarlo tuttoIo sol potessi almeno, e parte alcunaA voi non ne lasciar! Quanto il mio nomeBenedireste allor, che un suon d'orroreCosì saravvi! E d'un sol uom pel falloDunque dannato fia, benchè non reo,Tutto il genere uman? Non reo! Che dico?Ah! di mia colpa l'orrido fermentoEntro la massa di mia stirpe interaSerpeggia e la corrompe: i figli mieiSaran d'infetta fonte infetti rivi:Le lor menti, i pensier, le voglie e l'opreTutto fia pravo, e del suo sdegno IddioA dritto graveragli. Ah! sì, costrettoA confessar la sua giustizia io sono,E per le buie, tortuose vieDe' miei vani argomenti io cerco indarnoUna fuga, uno scampo; ogni ragioneAl mio convincimento alfin mi guida.Ultimo e primo io solo, io sol radice

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Son d'ogni labe, e in me solo ricadeLa colpa tutta. Oh ricadesse ancoraTutta l'ira del ciel!... Che dissi? Ahi ciecoDesire! un peso io sostener potreiPiù della terra, più del mondo interoGrave, orrendo a portar, sebben con quellaTrista donna diviso? E quanto bramoE quanto temo, ogni speranza dunqueDistrugge di salute! O qual esempioInsuperabil di miseria io sono!Solo Satán, come in delitto, ancoraM'agguaglia in pena. O coscïenza, in qualeAbisso di terror m'immergi, ond'ioSe tento uscire, altro cammin non trovoChe non mi tragga in un più cupo abisso! -

Questi mettea dal seno alti lamentiPer la tacita notte afflitto Adamo,Notte non più salubre e fresca e dolce,Quale innanzi al peccar, ma ingombra e cintaD'umide, spaventose, alte tenébreChe all'atterrito cor presentan milleIn ogni oggetto orridi mostri e larve.Sul suol, sul freddo, ignudo suol distesoEi spesso l'ora maledice, in cuiCreato fu, spesso la morte accusaChe il suo colpo scagliar nel dì del falloDoveva, e ancor lo indugia. - Oh! perchè mai,Perchè non vieni, o morte? egli pur tornaA replicar, perchè t'imploro invano?Manca a' suoi detti un Dio? Perchè sì tardaÈ la giustizia sua? Ma sorda è morteA' voti miei, nè per preghiere e piantiLa divina giustizia affretta il passo.Ben altre, o boschi, o fonti, o colli, o valli,Ben altre note già dall'ombre vostreRipeter v'insegnai, ben altro canto. -

Quando sì vinto dal dolor lo videEva dal loco ove piangendo stava,Accorse, e quel furor con molli dettiDisacerbar tentò; ma: - Fuggi, fuggi,Esecrabil serpente (egli le gridaCon severo sembiante), a te conviensiBen questo nome, a te che seco in legaT'unisti, al par fallace e degna al pariD'abborrimento. Oh perchè ancor non haiTu quelle forme stesse, onde altri avvisoDi tua nequizia interna avesse almeno,Nè quel tuo lusinghier, celeste aspettoD'infernal fraude occultator, nei lacciStrascinasse così! Felice ancoraIo sarei senza te, senza quel vano

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Orgoglio tuo che i miei consigli a vileEbbe nel maggior uopo, e 'l mio rispinseAh! troppo giusto diffidar. DinanziAllo stesso Satán, di tua beltadeDesïasti far pompa, e 'l folle ardireDi superarlo anco nudrivi! IntantoAl primo incontro, nel tessuto ingannoEcco schernita cadi; indi con tecoNel precipizio me, perfida! traggi.Ahi cieco me! me forsennato alloraChe saggia e ferma ed invincibil controAd ogni assalto io ti credei, nè scorsiChe verace virtude in te non era,Ma vana mostra solo! Ah! perchè in terraUn solo sesso ed il miglior non regna,Siccome in ciel? Perchè quel grande e saggioSupremo Facitor formò sì nuovaCreatura quaggiù, questo sì vagoDi natura difetto, ed altra viaL'umano seme a propagar non scelse?Quest'orribile dì surto non foraAllor per me, nè le venture etadiSariano esposte a mali tanti e graviCh'io già preveggo. Una compagna adattaOr l'uom non troverà, ma tale avrallaQual trista sorte o inganno a lui la mena:Or quella ch'ei più brama, a' voti suoiStarà proterva e dura, e poscia in braccioDarassi d'un indegno; or, se d'egualeAmor ell'arda, s'opporran severiI genitori: or quando alfin potrebbeOgni suo bel desìo far pago appieno,Con laccio indissolubile già strettoEi troverassi a donna iniqua e reaChe sarà l'odio suo, la sua vergogna.Così sconvolta e travagliata sempreFia la pace domestica e la vita. -

Disse e 'l tergo le volse: Eva per questoNon si sconforta, ma con largo piantoE discomposte trecce, umile ai piediGli si getta, li abbraccia e perdon chiedeE così geme e prega: - Ah! non lasciarmi,Adam, così: m'è testimone il cieloQual io nel seno riverenza e amoreSenta per te: fu involontario il fallo,E d'un funesto inganno io caddi preda.Supplice adesso il tuo perdono imploroE tue ginocchia stringo. Ah! non mi tôrreQuegli sguardi soavi, ond'io sol vivo,E i tuoi consigli e 'l tuo soccorso in questaEstrema mia sciagura, o sol conforto,

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Solo sostegno mio. Se m'abbandoni,A chi ricorro? ove mi volgo? Ah! sia,Almen finchè viviam (forse una breveOra soltanto), ah! fra noi due sia pace.Entrambi offesi fummo, entrambi unitiContr'un nemico espressamente a noiDecretato dal ciel, tutto volgiamoL'odio nostro e 'l poter, contro quel crudoSerpe: deh! pon giù l'ira: assai meschina,Meschina troppo, e più di te son io.Peccammo entrambi; contro il ciel tu solo,Io contro il cielo e te. Sì, vo' tornarmiA quel loco medesmo ove l'EternoCi condannò. Là con preghiere e piantiLo stancherò ch'ei dal tuo capo svolgaLa sua sentenza e la ritorca tuttaSovra me sola d'ogni mal cagione,Sovra me sola del suo sdegno interoBen giusto oggetto. - Ella finì spargendoUn rio di pianto. In rimirarla umíle,Inginocchiata, immobile, dal duoloOppressa e dai rimorsi, Adam sentissiTocco dalla pietà: gli parla il corePer lei ch'era testè sua gioia sola,Anzi sua vita, ed or prostrata, immersaIn disperato affanno ai piè si mira;Per cotanta beltà che grazia chiedeE pietade e consiglio e aìta a luiCh'ella oltraggiò. Tutto il suo sdegno ei perde,L'alza da terra, e placido le parlaIn questi accenti: - Oh sconsigliata e troppo,Siccome pria, nelle tue brame cieca!Tutto sopra di te vorresti dunqueRicevere il gastigo? Ah! prima apprendiLa tua metade a tollerar: non saiL'ira soffrir del tuo consorte, ed attaTi credi a sostener l'orrenda pienaDell'ira eterna, onde non provi ancoraFuorchè minima parte? Oh! se co' preghiSi potesser cangiar gli alti decreti,Precederti a quel loco io ben vorreiCon ratti passi, e con più forte voceChieder che sul mio capo il ciel versasseTutto il suo sdegno, e appien ne fosse immuneUn sesso frale a me fidato e ch'ioMal seppi custodir. Ma sorgi, e omaiDa ogni alterno rimprovero si cessi;D'altronde assai ne abbiam. Sol si contendaIn ufficj d'amore e in far più lieveDe' nostri guai scambievolmente il peso,Giacchè la morte un súbito ritorno

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Non fia nel nulla, s'io ben scorgo il vero,Ma un lento mal che cogl'indugi suoiCi diverrà piu grave e fia trasmessoNei figli nostri. Ahi sventurati figli! -

Eva, ripreso cor, risponde allora:- Troppo conosco, Adam, per trista provaChe i miei consigli, del commesso erroreE di tanta sciagura a noi cagione,Nulla mertar, fuorchè disprezzo, ponno:Pur, giacchè 'l tuo favore, ancor che indegnaIo ne sia, tu mi rendi e insiem la spemeDi racquistarmi il tuo primiero affetto,Che, vivendo o morendo, il mio confortoSempre sarà, non vo' celarti qualiPensier mi van per l'agitata mente,Onde ristoro o fine abbia l'estremaSciagura nostra; aspro compenso e duro,Ma di quella men duro, e tal che puoteBen anteporsi. Se il pensier ci affannaDe' figli nostri ch'a infallibil duoloNascer dovran, che preda alfin di morteTutti saranno (e miserabil certoÈ il tramandar dal proprio sangue in questaDannata terra un'infelice stirpeChe dopo tanti guai sia pasto alfineDi quell'orrido mostro), in te scamparliSta dal crudo destin. Figli non hai,Figli non acquistar: così delusaMorte sarà, così l'ingordo ventreDi noi due soli ad appagar costretta.Ma se fra i vezzi usati e i dolci sguardiE 'l dolce conversare, arduo tu stimiFrenar l'ardor degli amorosi amplessi,De' nuzïali riti, e di desìoSenza speme languir dinanzi al caroOggetto d'egual brama anch'ei languente(Tormento forse non minor di quantiNoi ne temiamo), a liberar noi stessiD'ogni terrore e i nostri figli a un tempo,Cerchiam spedita via, cerchiam la morte;O compian nostre mani, ov'ella indugi,L'ufficio suo. Fra tremiti ed angoscePerchè stiam noi, s'ella è di tutte il fine,E tante strade a lei ci sono aperte?Scelgasi la più breve, e si consumiColl'esterminio l'esterminio. - PoseEva qui fine, o de' suoi detti il restoTroncò l'insana, disperata doglia;E l'imagin di morte ond'ella ingombraTutta l'anima avea, le sparse il voltoD'un esangue pallor. Ma, nulla mosso

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Da tai consigli, Adamo alzò la mentePiù attenta e grande a miglior speme, e disse:- Il tuo sprezzar la vita, Eva, discopreIn te qualcosa più sublime e degnaDi ciò che sprezzi; ma il cercar la morteNon è dispregio della vita, è duoloDi perderla piuttosto e perder secoQue' diletti, a cui troppo il cor s'appiglia.Chè se qual fin delle miserie estremoBrami la morte, e la prescritta penaPensi evitar così, lascia la vanaSperanza, o certa sii che Dio più saggioLa vindice ira sua così non armaCh'altri stornarla possa: anzi tem'ioChe se le mani vïolente e crudeContro noi volgeremo, a noi s'accrescaLa decretata pena, e più crucciatoL'alto Fattore alla protervia nostra,Eterni in noi la morte stessa. Ad altroDunque ci rivolgiam miglior consiglio,Che parmi ritrovar, se attento io pesoParte di quel decreto: «Infranto il capoAl serpe fia dal seme tuo.» Qual foraMeschina ammenda questa, ove non sienoVôlti quei detti al nostro gran nemico,A Satán, com'io penso, il qual ci ordìoSotto imagin del serpe il fero inganno?Schiacciar l'empio suo capo alta vendettaSarebbe invero, e procacciando morte,O senza prole i nostri dì passando,Ella fora perduta. Il suo gastigoEi così fuggirebbe, e doppio in noiCadrebbe il nostro. Ogni pensier stia lungeDunque da noi di volontaria morte,E di sterilità che tutte troncaNostre speranze, e sol dimostra orgoglioE rancore e dispetto incontro a DioE 'l giusto giogo suo. Rammenta comeBenigno ei ci ascoltò, come senz'iraCi giudicò, senza rampogne. NoiSúbita morte aspettavàmo, ed eccoSolo del partorire a te predettiSono i dolori che bentosto in gioiaSi cangeran de' figli al dolce aspetto.Cadde, strisciando sul mio capo appena,La mia sentenza al suolo: io debbo il paneCol sudor procacciarmi: ebben, peggioreL'ozio stato sarìa. La mia faticaMi sosterrà: contro l'ardore e 'l geloGià la provvida sua mano paternaSpontaneamente ci vestì non degni,

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E, al par che giusto, ei si mostrò pietoso.Or quanto più, se il pregherem divoti,Facil sarà ch'apra l'orecchia e 'l coreAlla pietà? Delle stagion l'acerboRigor come si schivi, o scemi o tempriEgli c'insegnerà. Già vedi comePer lo sconvolto ciel nembose nubiAggirando si van; di nevi e ghiacciGià di questa montagna aspra è la cima,E con acuto, umido soffio i ventiSperdon di queste maestose pianteLe belle chiome. Ciò ne avverte, o sposa,Un ricovro a cercar, dove le nostreAbbrividate membra abbian confortoDi maggior caldo; e pria ch'all'aspra, algenteNotte ci lasci la diurna lampa,A tentar di raccor sovr'arid'escaGli addensati suoi raggi e trarvi il foco;O di due corpi al rapid'urto e spessoDall'aer trito sprigionar la fiamma,In quella guisa che testè dal cozzoDelle aggruppate nubi in giostra spinteScender la tôrta folgore vedemmoE incendere del pino e dell'abeteLa gommosa corteccia e spander lungiUn sì dolce calor che può del soleAl difetto supplir. L'uso di questoFoco e di quanto esser sollievo ai maliPotrà che il nostro fallo in terra ha tratti,Iddio ci mostrerà, se a lui devotiRicorso avrem. Sì, trapassar la vita,Sostenuti da lui, potremo ancoraAssai contenta e lieta, infin che resiAlla polve sarem, primiero nostroNativo nido e nostra requie estrema.Ch'altro di meglio a far ci resta intantoSe non colà 've giudicati fummoAmbo tornar, prostesi e riverentiCadergli innanzi, confessare il falloE implorarne il perdon, bagnando il suoloDi pianto e l'aere di sospiri empiendoTratti da cor compunto, in certa provaDi vero duolo e d'umiltà sincera?Certo a pietade egli fia mosso e l'iraDistornerà. Nel suo sereno sguardo,Quand'ei più irato e più severo apparve,Favor non rilucea grazia e mercede? -

Sì disse il nostro penitente padre,Nè fu minor d'Eva il rimorso. Al locoDi lor condanna s'affrettaro entrambiIvi prostesi e riverenti, a Dio

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Caddero innanzi, confessaro il falloE imploraro il perdon, bagnando il suoloDi pianto e l'aere di sospiri empiendoTratti da cor compunto, in certa provaDi vero duolo e d'umiltà sincera.

LIBRO UNDECIMO

Il Figlio di Dio presenta al Padre le preci dei nostri primi genitori pentiti e intercede per loro. Dio le accetta, ma dichiara che essi non debbono più a lungo rimanersi nel paradiso. Manda Michele con una schiera di cherubini a scacciarli da quel felice soggiorno, ma gli ordina al tempo stesso di rivelare prima ad Adamo le cose future. Discesa di Michele. Adamo addita ad Eva certi segni funesti, scorge Michele che si avvicina e va ad incontrarlo. L’angelo intima loro di partire. Lamenti di Eva. Adamo cerca di ottener grazia, ma finalmente si sottomette. L’angelo il conduce sopra un alto monte del paradiso e gli presenta in visione ciò che avverrà fino al Diluvio.

Supplice, umìle, nel dolor, nel piantoStava la coppia; chè dal sommo seggioDella pietà, ne' petti lor discesaEra la grazia, de' lor cori aveaFranto lo smalto e molle carne inveceRigenerato in essi, onde profondiUscìan sospiri dallo spirto mossiDella preghiera e con più rapid'ala,Ch'alto e facondo stile unqua non sciolse,Volanti al ciel. Non sì devoti e augustiFur nei sembianti e nel pregar sì caldiQue' duo famosi nell'etade antica(Meno però di quella ond'io favello),Deucalïon e Pirra, allor che, innanziAl sacro altar di Temide prostrati,Stavan della sommersa umana genteImplorando il restauro. Al ciel s'alzaroDe' nostri primi genitor le preci,Nè dal loro cammin torcerle il soffioO sperderle poteo d'invidi venti,Ma, da niun spazio rattenute, i santiAditi penetraro. Ivi dal sacro,Che l'ara d'oro eternamente esala,Incenso rivestite, il divin Figlio,Supremo sacerdote, innanzi al tronoLe appresentò del Padre e s'interposePronto e lieto così: - Rimira, o Padre,Quai della grazia tua nell'uom trasfusaSon sulla terra i bei rampolli primi,

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Questi voti e sospir che al tuo cospettoIn quest'aureo turibolo fragranteTuo sacerdote io reco: essi dell'auraDivina tua dentro il suo cor spirataI frutti sono e più soavi e gratiDi quei che offrirti la cultrice e ancoraInnocente sua man potea da tuttiGli arbor di Paradiso. Ai preghi suoiPorgi dunque l'orecchio, e questi ascolta,Benchè muti, sospiri. Ei, com'è d'uopo,Supplicarti non sa; lascia ch'io dunqueIntercessore, interprete per luiE vittima votiva alfine io sia.O buone o ree sopra di me tu recaTutte l'opere sue: perfette quelleDiverran per mio merto, e 'l sangue mioPurgherà queste. Accettami, e per l'uomoQuesta di pace alma fragranza accogliDalle mie mani. In grazia tua tornato,De' suoi prescritti dì, benchè dogliosi,Il numero egli compia infin che morte(Io d'addolcir non di stornar di pregoLa sua sentenza) a miglior vita il renda,In cui dal sangue mio tutte ricompreMeco alberghin le genti in gioia eterna,Unite a me, com'io con te son uno. -- Quanto per l'uom richiedi, amato Figlio,(A lui risponde con serena fronteL'eterno Genitor) tutto è concessoEd ogni tua dimanda è mio decreto.Ma il far più lunga in quel giardin dimora,Per quelle leggi che a natura io diedi,Vietato è all'uom. Di quell'ameno locoI puri, incorruttibili elementiD'ogni discorde mescolanza scevriLui, qual contaminata e avversa cosaRispingono da sè nel grosso e immondoAer e a cibo mortal che a gradi il traggaAl suo disfacimento, opra del falloChe di venen le pure cose ha sparso.Un doppio eletto don, quando il creai,Ebbe l'uomo da me; la pura gioiaE la vita immortal. Poichè la primaFollemente ei perdè, sol potea questaFar eterni i suoi mali, ov'io di morteNon l'avessi provvisto; ultimo dunquePer lui rimedio è morte, ed essa alfineDopo una vita in duri affanni scorsa,Dopo costanti luminose proveDella sua fede, alla seconda vitaPe' giusti decretata, a nuovo cielo,

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A nuova terra gli aprirà la via.Ma da tutti del ciel gli ampj confiniDe' beati il concilio omai s'aduni,Onde i giudizj miei sull'uomo intenda,Come testè sulle ribelli turmeLi vide e in sua virtù si fe' più forte. -

Ei così detto appena avea che il FiglioAl vigilante, fulgido ministroFe' segno, e questi incontanente il fiatoA quella tromba diè che forse poiS'udì in Orebbe allor che Dio vi scese,E nel gran dì de' premj e delle peneS'udrà fors'anco. L'alto suono empieoTutte del ciel le regïoni, e tostoDa' bei boschetti d'amaranto ombrosi,Dalle fonti e da' rii d'acque vitali,Sulle cui sponde in compagnia di gioiaSedeano i figli della luce, all'altoOrdine udito, accorrono velociAlle lor sedi. Il suo voler sovranoAllor così l'Onnipotente esposeDal sommo trono: - A noi simìle, o figli,Del ben, del mal nella scïenza volleL'uom divenir col divietato assaggioDi quel frutto fatal: misero! oh quanto,Anzichè aver dell'acquistato maleE del perduto ben l'infausto lume,Miglior per lui, stata sarìa la solaConoscenza del ben, null'altro! Or geme,Tocco da me, si pente e piange e prega;Ma in sua balìa lasciato, appien conoscoQuant'è il suo cor mutabile e leggiero.Perch'egli dunque ora la man non stendaFatta più audace all'arbore di vita,Ond'eterno egli viva o il sogni almeno,Fuori di quel giardin mandarlo ho fissoAd abitare e coltivar quel suoloOnd'egli già fu tratto, e dove stanzaAvrà qual meglio a lui conviensi adesso.È tuo, Michele, un tale incarco: scegliDi fiammeggianti cherubini un stuoloE in Eden teco il guida, onde non mova(O in aìta dell'uom per onta mia,O d'occupar bramoso il nuovo albergo)Nuovi tumulti il rio Satán. T'affretta,E, fermo nel tuo cor, dal terren sacroScaccia il profano abitatore, intímaAlla coppia colpevole ed a quantiDa lei discenderanno, eterno esiglioDal fortunato suol. Ma, perchè troppoSu que' teneri cori, omai dal duolo

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Oppressi e dai rimorsi, acerbo e graveDella sentenza mia non cada il colpo,Non t'armar di terror. Se al tuo comandoDocili ubbidiran, senza confortoNon partano da te: d'Adamo al guardoSvela l'istoria de' venturi tempi,Com'io medesmo inspirerotti, e il pattoNon obblïar che col femineo semeIo rinnovai. Mesti così, ma in paceDi là tu li congeda. Al lato poiOrïental del paradiso, ov'asproÈ men l'accesso dal soggetto piano,Loca un drappel di cherubini, e fiammaLungi ondeggiante di fulmineo brandoSpaventi ognun ch'osi appressarsi, e 'l passoChiuda all'arbor di vita, onde ricovroIl bel giardin non sia d'immondi spirtiCh'ogn'arbor mio depredino e novelliTendano all'uom con quelle frutta inganni. -

Tacque, e 'l possente arcangelo s'apprestaAlla discesa. Fulgida coorteDi vigilanti cherubini è seco:Qual doppio Giano, ha quattro facce ognuno,E d'occhi folgoreggia in ogni parteLa forma lor, più numerosi e destiChe quei del favoloso Argo non furo,Nè a ceder presti, come quelli, al toccoDella cillenia verga o al molle suonoDell'avena sonnifera. SorgeaL'aurora intanto a salutar di nuovoCol sacro raggio il mondo, e di sue frescheMolli rugiade a ristorar la terra,Quando, già fine alle sue preci impostoL'umana coppia, da vigor novelloSceso dall'alto e da novella spemeE gioia ancor, benchè a timor congiunta,Sentì riconfortarsi; e Adam rivolseQueste dolci parole ad Eva intanto:

- Eva, che quanto ben per noi si gode,A noi scenda dal ciel, difficil cosaIl discoprir non è; ma che da noiPossa lassù nulla salir che vagliaL'alta a toccar di Dio beata menteEd a piegare il suo voler supremo,Duro a credersi sembra; eppur cotantoPuò la preghiera, e dall'umano pettoUn sol breve sospir che infino al soglioS'alza di Dio. Poichè 'l suo nume offesoCon umil core e con ginocchia inchineMi rivolsi a placar, benigno e dolceParvemi di vederlo a' preghi miei

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Porgere orecchia; all'affannato coreTornò la pace, e la promessa in mentePur mi tornò che dal tuo seme il nostroNemico alfin sarà conquiso. AlloraNel mio sbigottimento appien quel dettoIo non ricolsi: or certo son per essoCh'è l'amarezza del morir passataE che vivrem. Salve tu, dunque, o sposa,Tu del genere umano a ragion dettaMadre e di tutte le viventi cose,Poichè il sarai dell'uom, per cui quaggiusoTutte le cose han vita. - Umile e mestaEva rispose allora: - Un sì bel nomeAh! troppo male ad una rea conviensiChe, fatta a darti aìta, oimè! si feoLa tua ruina: diffidenza invece,Rampogne e tutti i biasmi a me si denno.Ma ben è del mio giudice infinitaVerso me la pietà; chè, mentre io fuiDi morte a tutti apportatrice, ei vuolmiPur di vita sorgente; e tu benignoNe seguisti l'esempio e del gran nomeDegnasti lei che ben diversa il merta.Ma il campo alla fatica omai ci chiama,Alla fatica or con sudore imposta,Benchè senza riposo abbiam trascorsaL'intera notte. Ah! vedi? i nostri affanniNulla curando ecco spuntar ridenteL'aurora e incominciar la rosea via.Vadasi, Adam. Dal fianco tuo partirmiNo, non vogl'io più mai, dovunque il nostroLavor diurno che al cader del soleOr prolungar ne converrà, ci chiami.Ma che! mentre ci lice in questo amenoSoggiorno rimaner, qual cosa maiIncrescer ne potrebbe? Ah! sì, contentiSebben tanto scaduta è nostra sorte,Trapassiam qui la vita. - Erano questiDell'umil Eva addolorata i voti,Ma il ciel non approvolli, e varj segniSugli augei, sulle belve, in aere 'n terra.Ne diè natura. In orïente appenaL'aurora rosseggiò ch'a un tratto l'etraDi ferrigna caligine infoscossi;Dalle sublimi aeree vie calandoAlla lor vista un'aquila, su dueDelle più vaghe piume adorni augelliScagliossi infesta e gl'inseguì tremanti;E 'l re de' boschi, predatore or fatto,Giù da un colle cacciossi un cervo innanziCon la compagna sua, coppia gentile

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Della foresta onor, che vêr la portaOrïental del Paradiso in rattaFuga si diero. Li seguì cogli occhiAdam, nè senza turbamento ad Eva:- O sposa, disse, altre vicende e nuoviSovrastano destini: assai con questiMuti portenti suoi lo svela il cielo,Nunzj del suo proposto: a noi sicuriTroppo del suo perdon, sol perchè mortaSospesa è qualche giorno, essi son forseUn minaccioso avviso. In buia notteCelato sta quanto ci resti ancoraDi vita e quale ella sarà: sol chiaroÈ che siam polve e torneremo in polve,Nè più sarem. Perchè s'offerse maiAgli occhi nostri una cotal di fugaSulla terra ed in ciel doppia comparsa,In vêr la stessa parte e al tempo stesso?Perchè s'oscura in orïente il giornoAnco pria del meriggio? e perchè splendeSu quella nube occidentale un lume,Quasi d'aurora che un candor raggiantePer lo ceruleo firmamento pinge;E lento scende ed arrecar dimostraNon so che di superno? - Imagin vanaNon l'ingannò, chè la celeste schieraPer le tinte d'un liquido dïasproAure giù scese, e del vicino colleS'arrestò sulla vetta: alte, divineSembianze a rimirar, se Adam quel giornoDa turbamento e da terror gli sguardiNon avea tenebrati. Al pio GiacobbeNon si mostrâr di Manaìm sul pianoPiù luminose le attendate squadreDegli angeli guerrieri, e più fiammanteNon apparì la dotanéa montagnaTutta d'un igneo campo ricopertaContro quel siro re che trarre un soloUom ne' suoi lacci e in sua balìa bramando,Qual assassino, apparecchiato aveaNon proclamata, insidïosa guerra.All'eteree coorti il sommo duceDi circondar con le lor armi imponeIl bel soggiorno, e tutto sol s'inviaAl ritiro d'Adam. Questi, da lungeScorgendolo venir, sì parla ad Eva:- Ecco gran nuove, o sposa, ecco il decretoForse di nostra sorte, od altre leggiChe si recano a noi. Da quella nubeColà che cuopre fiammeggiando il colle,Veggo qualcuno dell'empireo stuolo

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A questa volta incamminarsi, e certoA quella maestà che agli atti spiraE al portamento eccelso, alcun de' primiPrincipi e regi del superno coroSi manifesta. Minaccevol, feroEgli non è sì che terror m'infonda,Nè, come Rafael, benigno e dolceSì ch'io molto confidi. Augusto e grave,Vedi? s'inoltra; ad incontrarlo è d'uopoCh'io vada riverente e tu ti scosti. -

Disse, e l'arcangel s'appressò. LasciatoEgli ha il celeste e preso uman sembianteInnanzi all'uomo: sopra le lucid'armiUn militar fulgido manto ondeggiaD'ostro sì ardente che non mai l'egualeSi tinse in Sarra o Melibea, d'antichiRegi ed eroi bell'ornamento in pace.Colorate ne avea l'ordite filaL'iride stessa: la visiera alzataDello stellato elmetto al vigor primoDella virilità nel vago voltoMisto scoprìa di giovinezza il fiore;Stringe un'asta la mano, e dal bel cinto,Qual da zodiaco scintillante, pende,Spavento di Satán, la fera spada.Umile Adamo a lui si prostra: ei serbaSenza inchinarsi dignità regale,E perchè venne, in questi detti espone:- Gli alti di Dio comandi uopo non hanno,Adam, di lunghe, inutili parole:Ti basti che i tuoi preghi accolti furo,E morte, per sentenza a te dovutaQuando peccasti, lascerà sua predaAncor per molti dì che il ciel ti donaOnde appien tu ti penta, e l'atto reoCon molte giuste e degne opre cancelli.Allora il tuo Signor ben anco puoteScamparti appieno dal rapace drittoChe Morte ha sopra te; ma in questo locoPiù rimaner non ti permette. Io venniA rimuoverti quindi, e quella terraCondurti a coltivar, da cui già trattoFosti, e che meglio a te conviensi adesso. -

Più non diss'ei; chè un'agghiacciata manoStrinse d'Adamo il core, e intenso affannoOgni senso gli chiuse. Eva che il tuttoNon vista udì, con lamentevol suonoL'ombroso loco ove teneasi ascosaCosì scoperse: - Oh inaspettato colpoPeggior che quel di morte! Io così dunqueLasciarti deggio, o Paradiso? Io deggio

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Così lasciarti o natìo suol, di numiDegno soggiorno? e voi lasciar, feliciOmbre, ameni passeggi? Invan speraiQui dunque, se non lieta, almen tranquillaPassar la vita mia fino a quel giornoChe ad ambi fia mortal! Fiori che altroveNon potrete allignar, voi sull'auroraMia prima cura ed ultima la sera,Voi ch'io con man sollecita dal primoVostro spuntar nudrii, cui posi il nome,Chi ergerà i vostri steli a' rai del sole,Chi disporrà vostre famiglie, e l'onda,Ad irrigarvi, dall'ambrosio fonte,V'arrecherà? Come da te, boschettoMio marital, che d'ogni arbusto e fioreOrnai più vago e più fragrante, ah! comeDa te dividerommi? Ove in quel bassoMondo, in confronto a questo, oscuro ed ermoIl piede io volgerò? Come quel densoAere spirar potremo? avvezzi a questiFrutti immortai... - Cessa i lamenti, o donna(Dolcemente così l'Angelo alloraNel suo dolore la interruppe) e quelloChe perdesti a ragion, rassegna in pace,Nè locar troppo in non tue cose il core.Sola non vai, vien teco Adam, tu dêiSeguirlo, e ovunque il suo soggiomo fia,Stimar che là sia la tua patria ancora. -

Dall'improvviso freddo orror riscossoAdamo intanto e ricovrati i sensi,Volse a Michele queste umili parole:- Celeste abitatore, o fra i superniCori tu segga o sii fra lor primiero,Chè a cotanto splendor prence di prenciBen ti dimostri, dolcemente inveroIl severo messaggio a noi recastiChe in altra guisa di tropp'aspro e forseMortal dolor ci avrìa percossa l'alma.Ma quanto tollerar la debil nostraNatura può di tormentoso e fero,Dall'annunzio feral che tu ci rechiNoi tutto lo proviam. Conforto estremoFra le miserie nostre eraci questoFelice asil, questi recessi ameni,A cui son usi i nostri sguardi: ogni altroLoco, deserto, inospite, stranieroPer noi sarà, qual noi sarem per esso.Oh! se co' preghi io di cangiar sperassiL'alto voler di lui che tutto puote,Con supplici incessabili lamentiIo stancarlo vorrei: ma contro i suoi

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Assoluti decreti ah! non val priego;Nulla più val che lieve soffio incontroAll'urto d'Aquilon ch'entro le labbraCon furia il ripercuote onde fu spinto.Quindi la fronte riverente io piegoAl comando sovran. Quel che più m'ange,È che, lunge di qui, rimarrò privoDi suo beante aspetto. Ad uno ad unoIo qui divotamente avrei potutoTornar quei lochi a visitar soventeCh'egli degnò di sua presenza, e un giornoRidire a' figli miei: là su quel monteIddio, m'apparve, qui visibil stetteSotto di questa pianta, udii sua voceFra questi pini, e qui con lui parlaiPresso questa fontana: eretto avreiD'erbose zolle ricordevol araIn ciascun di que' lochi, avrei raccolteTutte del rio le più lucenti pietreE innalzato con esse ai dì venturiDivoti monumenti, e offerto intantoSovra di lor dolce-olezzanti gommeE frutta e fior. Ma colaggiù nel bassoMondo, ove dato mi sarà di nuovoMirar l'alma sembianza? ove le tracceDe' piedi suoi? Chè s'io fuggii dinanziAl suo disdegno, or nondimen che il corsoProlungò de' miei giorni e mi promisePosteritade, io di sua gloria almenoGli ultimi raggi contemplar vorreiE l'orme sante venerar da lungi.

- Adam, tu ben lo sai (risponde alloraA lui Michele con benigno sguardo),Non questa rupe sol, ma il cielo è suo,Suo l'universo; terra ed aere e mare,Tutto è ripien di sua presenza, e quantoRespira e vive, da sua possa immensaHa calor, spirto e vita. Egli a te diedeA possedere e dominar la terra,Non picciol don. Del Paradiso adunque,Ovver dell'Eden tra i confini angustiPerchè ristretta or sua presenza credi?Questa del regno tuo precipua sedeForse stata sarìa; quindi le umaneSchiatte sariensi sparse, e tutte un giornoDai confin della terra avrien qui vôltoPeregrinando il lor cammin le gentiAd onorarti e celebrarti primoPadre loro comun. Ma l'alto onoreE un sì bello avvenire or hai perduto,E un suolo stesso co' tuoi figli scendi

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Ad abitar. Pur dubbio in te non sorgaChe in piano e 'n valle, al par che qui, presenteL'Eterno a te non sia. Di sua bontade,Del paterno amor suo chiari dovunqueMolti segni vedrai che del suo voltoTi ritrarran la manifesta imagoE de' suoi piedi le divine tracce.Ma perchè fede ai detti miei s'accresca,E in te scemi il timor pria che da questoLoco tu mova, di lassù mandatoSappi ch'io sono a disvelarti qualeDestino a te si serba e a' figli tuoiNe' dì futuri. Or buone cose or reeT'appresta ad ascoltar; fra la supernaGrazia e l'umana pravitade un spessoOstinato contrasto; e quindi ai maliVerace sofferenza oppor saprai;Quindi con pia tristezza e santa temaTemprar la folle gioia, e con lo stessoSereno, imperturbabile sembianteMirar l'irata e la ridente sorte.Più sicuro così trarrai la vita,E, giunto alfine al tuo mortal passaggio,Saprai varcarlo apparecchiato e fermo.Vieni, poggiam su questo monte, ed EvaA cui legai con grave sonno i sensi,Qual tu dormivi allor che vita ell'ebbe,Qui dormirà, mentre con me lassusoTu leggerai nell'avvenire. - Ascendi,Grato risponde Adam, con teco io sonoOve mi guidi, o mia sicura scorta,Ed al braccio del ciel, sia pur severo,Mi sottopongo: incontro a' mali il pettoOffro spontaneo, col soffrir m'apprestoA superarli ed a raccorre alfine,Se così lice, da' sudori mieiRiposo e pace. - Ambo saliron quindiAlle divine visïoni. Un monteAltissimo sorgea nel Paradiso,Dalla cui cima in chiaro, ampio prospetto,Tutto quant'è per ogni parte stesoApparìa della terra un emispero.Più sublime non fu nè offrìa più largaVista là nel deserto il giogo alpestro,Dove il maligno artefice d'inganniGià trasportò con altro fine il nostroAdam secondo, e sotto a' piè mostrogliIn lor superba pompa i varj regniE la terra promise al Re del tutto.Ampiamente di là potea lo sguardoSignoreggiar gli spazj ove famose

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Surser dipoi cittadi antiche o noveE seggio fur de' più possenti imperi.Da Cambalù che del gran Can fu reggia,Da Samarcanda in riva all'Osso ov'ebbeRegno Timùr, fino a Pechin, soggiornoDe' cinesi monarchi; ad Agra quindiEd a Laòr, del gran Mogol la sede,Fin giuso all'aurea Chersoneso, e doveIn Ecbatán o in Ispaán il tronoSurse poscia di Persia, e dove il CzarreRegge de' Russi il freno, e dove impugnaFerreo scettro in Bisanzio il fier Sultano,Adam scorgea; di là non men l'imperoDegli Abissini infino al porto estremoD'Ercóco, e quei minori al mar viciniDi Quiloa, di Mombáza e di MelindaE di Sofála ch'altri Ofír credero,Fino al Congo e ad Angóla; indi le riveDel Negro e 'l monte Atlante, e d'Almansorre,Di Sus, di Fessa, di Marocco e AlgeriE Tremiséne i regni; indi d'EuropaE dove Roma al vinto mondo un giornoDovea dar leggi. In spirito fors'ancoEi vide il ricco Messico, dimoraDi Montezuma, e Cusco ancor più riccoLà nel Perù, d'Atabalípa sede,E la Guiána non predata allora,Alla cui gran cittade i figli posciaDi Gerïon diêr di Dorádo il nome.Ma dagli occhi d'Adamo, onde a più grandiCose a veder sien atti, il fosco veloMichel rimove, il fosco vel che stesoQuel frutto su v'avea; di miglior vistaPromettitor fallace; indi il visivoNervo ei ne purga con eufrasia e ruta,E del fonte di vita entro vi stillaDipoi tre gocce. Penetrâr cotantoQueste del mental guardo al seggio internoChe chiuse gli occhi Adamo e cadde in terraTratto de' sensi fuor; ma l'Angel tostoLo rileva con mano e in lui ridestaCosì gli spirti: - Apri le luci, Adamo,E di tua colpa original gli effettiPrima osserva in talun che da te scende,Che non distese al divietato pomoLa man, nè col serpente unissi in lega,Nè fu reo del tuo fallo; eppur da questaSorgente infetta un rio veleno ei traggeCh'è d'orribili eccessi orribil seme. -

Schiuse Adam gli occhi, e una campagna videParte arabile e culta, ove ammucchiate

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Eran testè recise messi, e parteOffrìa pasture, ovili e mandre; e in mezzo,Qual confine, sorgea rustico altareD'erbose glebe. Ivi a recar sen givaSudante mietitor le prime fruttaDel suo lavor, la verde e gialla spica,Affastellate e quali il caso in manoGliel'avea poste. Mansueto e dolceUn pastorello appresso ne venivaCoi primi parti del suo gregge elettiInfra i migliori; e il sacrificio offrendo,Le pingui loro viscere spruzzateD'incenso distendea su i tronchi ramiE ogni rito compiea. Propizia fiammaScesa dal ciel con rapido balenoArse tosto i suoi doni, onde si sparseGrata fraganza intorno, e lasciò intattaDel mietitor la non sincera offerta.Gonfiossi a questi il cor di rabbia, e mentreCon l'altro parla, in mezzo al petto un sassoGli avventa; al suol quegli stramazza, e tintoDi mortale pallor l'anima versaInfra i singulti e lo sgorgante sangue.

Inorridito a quella vista AdamoE con subito grido all'Angel vôlto:- Maestro, disse, ahi che vegg'io! che avvenneA quel sì placid'uomo, a lui che offerseCon tanto affetto i doni suoi? Di puroCulto e pietà la ricompensa è questa? -

- Duo germani son quei, Michel commossoAnch'egli replicò, che dal tuo sangue,Adamo, nasceran. L'ingiusto al giustoLa morte dà, d'invida rabbia presoPer la fraterna offerta al ciel gradita.Ma inulto non andrà l'orrido fatto,Nè senza pieno guiderdon la fedeAndrà dell'altro, ancorchè qui tra 'l sangueSpirar tu il miri e tra la polve involto. -

E 'l nostro antico sire: - Ah! qual delitto!E qual cagione! Ma veduta adessoDunque ho la morte? Ed il cammino è quelloPer cui tornar nella mia polve io deggio?Oh terribile vista! oh morte, atroceAllo sguardo, al pensier! or quanto, ahi quantoPiù orribile a provare! - Allor soggiungeA lui così Michel: - Morte in sua primaImago or vista hai tu, ma son di leiMolte le forme, e per sentier diversi,Spaventevoli tutti, all'atra suaVoragine si va, sebben l'ingressoN'è orribil più che il cupo seno. Alcuni

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Periran sotto a vïolento colpo,Come testè vedesti, altri per foco,Diluvj e fame; un numero maggioreD'intemperanza vittime cadranno.D'atroci morbi mostruosa turbaSopra la terra essa trarrà che innanziOra t'appariran perchè tu scorgaDi quanti danni l'ingordigia d'EvaSopra il genere uman sarà cagione. -

Disse, e repente un vasto loco agli occhiS'offre d'Adam, lurido, tristo, fosco,Qual d'egra infetta gente ampio ricetto.D'ogni malor la spaventevol formaIvi raccolta stavasi. Là sonoCrudeli spasmi, orribili torture,Ambasce, sfinimenti, atra coorteDi varie febbri, epilessìe, catarri,Fere tempeste di convulsi nervi,Laceratrici interne pietre, sozzeUlceri divoranti, smanïoseColiche doglie, frenesìe, delìri,E rabbia e tetra stupida tristezza.Evvi la tabe estenuata e smuntaE l'asma soffocante, e 'l reuma, acerboStrazio delle giunture; evvi la scialbaTumida idropisìa, v'è la feroceSterminatrice peste. Irrequïeto,È delle membra l'agitar, profondoIl gemer dappertutto. Era di lettoIn letto affaccendata intorno agli egriLa Disperazïone, e il fatal dardoMorte sovr'essi trïonfando scuote,Ma spesso il colpo ne trattiene alloraChe invocata è da lor qual sommo beneEd ultima speranza. A ciglio asciuttoQual uom di scoglio sostenere a lungoPotea sì cruda vista? Adam nol puote;E benchè nato egli non sia di donna,In lacrime disciogliesi. Dell'uomoLa miglior parte da pietà fu vinta,Ed alcun tempo abbandonossi al pianto,Finchè pensier più fermi in lui frenaroDel duol l'eccesso e ricovrando a stentoIl favellar, così proruppe: - Ahi tristoGenere umano, in qual abisso cadi!A qual serbato sei misera sorte!Oh! perchè nelle tenebre del nullaNon resti tu? Dunque del pari a forzaCi fia data la vita e a forza toltaFra tanti orrori? Ah! se conoscer primaCiò che la vita sia, l'uomo potesse,

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O dell'offerto don farìa rifiuto,O bramerìa tosto deporlo e indietroTornarsi in pace. E può di Dio l'imagoImpressa in lui che tanto illustre e grandeCreato fu, benchè colpevol poi,Esser depressa a sì deformi strazj,A così fiere, mostruose pene?Que' sacri avanzi ch'ei pur serba ancoraDella divina somiglianza primaA ciò sottrar non lo dovrìan? - L'imagoDel gran Fattor, l'Arcangelo risponde,Gli uomini allor lasciò che diêr se stessiVilmente in preda a cieche, avide brame,Qual prima in Eva avvenne, e rivestiroIn sè del vizio, lor brutal tiranno,La vergognosa forma. Abbietto tantoÈ quindi il lor gastigo: esso di DioNon disfigura già l'effigie santa,Ma sol la nuova lor cangiata e guasta,Mentre, poste in non cal le savie normeDella schietta natura, a sozzi morbiIn balìa dansi ed han condegna penaD'aver sprezzata in sè di Dio l'imago. -- Tutto è giusto, il confesso, Adam soggiunge,E mi sommetto al ciel; ma via non evvi,Fuor di queste sì crude, onde l'uom possaAndar a morte e alla natìa sua polveRimescolarsi? - Evvi, Michel risponde,Se del NON TROPPO la gran legge osservi;Se nel cibo e nel ber tu cerchi soloDebito nudrimento e non l'ingordoFalso piacer: così molti anni e moltiSul tuo capo rivolgersi vedrai,Finchè qual cade al suol maturo fruttoO di leggier cede alla man che il coglie,Cadrai tu pur della gran madre in seno,Nè sarai dalla vita a forza svelto.Vecchiezza è questa; ma convienti alloraVeder da te la gioventù, la forza,La beltà dipartirsi e a gradi a gradiFiacchezza sottentrar, canizie e rughe.Non più potrà gl'istupiditi sensiPenetrare il piacer, non più la gioiaTi sentirai, nè la speranza in core;Ma un torpido languor le sceme e freddeVene t'occuperà, depressi e tristiFieno gli spirti, e 'l succo almo vitaleInaridito alfin. - La morte omai,Replica Adam, più di fuggir non curo,Nè prolungar di troppo i giorni miei.Unico mio pensier sarà piuttosto

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Come portar fino al prescritto giornoIo meglio possa questo grave incarcoE come meglio allor deporlo. - VuolsiNè amar la vita nè abborrirla (a luiL'arcangel replicò), tu, finchè vivi,Di ben viver ti studia, e del suo lungoO breve corso al ciel lascia la cura:E a nuova vista t'apparecchia intanto. -

Ei mira, e vede in largo pian disteseTende di color varj: all'une intornoPasceano armenti, uscìa dall'altre un dolceD'organi o d'arpe armonico concento,E dell'esperto musico la manoScorgeasi pur che rapida scorrendoOr alto or basso le vibranti corde,Con le dotte moltiplici misureIn mille guise varïar sapeaLa discorde concordia. In altra parteSudar vedeasi affaccendato fabroDi rame e ferro a due gran masse intorno,O là trovate dove a caso il foco,Struggendo i boschi, entro le accese veneDel suol le aveva liquefatte e spinteDi qualch'antro alla bocca, o dove all'auraLasciolle esposte rovinoso fiume.Trascorre in preparate acconce formeL'alliquidita massa: ei ne componeIn pria dell'arte gl'istrumenti varj,E quindi ogni metallico lavoroScolpito o fuso. In altro lato un'altraDissimil gente dalle alpestri cimeDe' patrj monti discendeva al piano:Parean giusti al sembiante e aver rivoltoLo studio tutto ad onorar con pioCulto l'Eterno, a meditar l'eccelseDella sua mano meraviglie e quantoPuò stabilir la libertà, la paceFra le umane adunanze. Eran non moltoPer la pianura andati allor che fuoreEcco uscir delle tende un stuol di vagheDonne di gemme e ricche vesti ornateLascivamente. Della cetra al suonoAccordan molli, tenere canzoni,E s'accostan movendo in lieti balliIl piè leggiero. Senza fren lasciaroGli uomini, ancor che gravi, errar gli sguardi,Onde ben tosto all'amoroso laccioOgnuno è colto, e ognun colei si sceglieCh'è la sua fiamma: ognun d'amor ragiona,Finchè nunzia d'amore in cielo appareLa vespertina stella. Allor bramosi

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La teda nuzïale accendon tuttiE gridan tutti che s'invochi Imene,Imen che allor ne' maritali ritiFu invocato da pria: suona ogni tendaDi concenti e di feste. Il dolce aspettoDelle liete adunanze ove d'amoreE della gioventù coglieasi il frutto,I molli scherzi, i giochi, i fiori, i serti,Le sinfonìe mosser d'Adamo il pettoChe del piacere al natural talentoNon fu tardo ad aprirsi, ond'ei rivoltoA Michel, così disse: - Angel sovrano,O verace apritor degli occhi miei,Assai miglior questo spettacol sembraChe i due già visti, e di tranquilli giorniPorge più lieta speme: odio soltanto,Morte e dolor più che la morte crudoAppresentavan quei, ma fatta pagaIn tutti i fini suoi qui par natura. -- Da quando i sensi più lusinga e molce,Benchè conforme alla natura appaia,Non giudicar, risponde a lui Michele,Di ciò che meglio sia, tu che creatoFosti a più nobil fin, tu puro e santo,Tu imagine di Dio. Le tende, or visteFestevoli così, sono le tendeD'iniquitade, e albergheran la schiattaDi lui che sparse del germano il sangue.Opra saran delle sue mani industriL'arti ch'ornan la vita, e illustre famaAvrà di trovator sagace ingegno;Ma quel sommo Fattore, onde le venneOgni sapere, in empio ingrato obblìoPorrà superba e i ricevuti doni.Pur vaga stirpe n'uscirà; già vistoDi quelle donne hai tu lo stuol leggiadroRassomiglianti a dee, sì vivo e gaioE lusinghier; ma d'ogni dote priveElle saranno, in cui di donna è postoIl domestico onor, la prima lode;E nell'arti lascive instrutte soloDell'adornarsi, del danzar, del canto,Di lezj e ciance e di procaci occhiate,La savia stirpe di color che furoPer la pietà figli di Dio nomati,Di questa femminil profana turbaAll'insidie, ai sorrisi ignobilmenteImmolerà la sua virtù primiera,E la sua gloria. Ebbri di gioia insanaOr esultan costor, ma immenso pianto,Vedrai, tosto gli attende e scempio orrendo. -

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Svanito allor suo breve gaudio, AdamoEsclama: - Ahi scorno, ahi duol! che chi di vitaEntrò con tanto ardor nel dritto calle,Per torte vie poi volga il piede, o manchiIn mezzo del cammin. Ma veggo, ah! veggoChe sempre avran quaggiù le colpe e i guaiNel più debole sesso origin prima. -

- Anzi dell'uom nella mollezza rea,L'Arcangel replicò, dell'uom che i drittiDi sua maggiore dignità si scorda,E quei ch'ebbe dal ciel doni migliori.Ma volgi adesso ad altra scena il guardo. -

Adam rimira, e a sè dinanzi scorgeAmpio paese, culti campi e villeE di cittadi popolose e vasteSuperbe porte e torreggianti moli:Quindi un correr all'armi, orride facceGuerra spiranti, e d'ossa e membra immaniBaldanzosi giganti; impugna e scuoteAltri le lucid'armi, ed altri affrenaGli spumanti corsier; solo o schierato,O fante o cavalier, niuno là stassiIn ozïosa mostra. Ecco da un latoScelto drappel che dal foraggio riedeE seco trae dai grassi, erbosi pratiDi pingui buoi, di belle vacche un brancoPer la pianura, e pecore ed agnelliBelanti dietro alle rapite madri.Scampano appena col fuggir la vitaI pallidi pastori, ad alte gridaChiaman soccorso, e già feroce pugnaÈ incominciata. Con orribil urtoEcco s'affrontan gli squadroni, e doveTestè pascean le gregge, or tutto è d'armiSparso e d'estinti, sfigurati corpiL'insanguinato solitario campo.Ben munita città d'assedio strettaHann'altri intorno; con iscale e mineE batterìe movonle assalto: un nemboScagliano i difensor dall'alte muraDi dardi e pietre e di sulfureo foco;Cruda è la strage, e spaventose e fereDi qua e di là le gigantesche prove.

In altro lato da scettrati araldiUn consiglio s'intima appo le porteDella città: gravi e canuti padriMisti ai guerrier s'adunano: diverseOdonsi arringhe, e insorgono ben tostoDiscordie e parti. Uom saggio alfin si levaD'anni maturo, maestoso e graveNel portamento, e sull'ingiusto e 'l giusto,

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Sulla religïon, la fè, la paceE i giudicj del ciel molto favella.Ma di scorno e di riso il fan subiettoDel par giovani e vecchi, e già le maniRabbiose in lui stendean, se ratto scesaUna nube dal ciel non lo toglieaInvisibil di là. Per ogni latoScorre allora il furor, la forza e l'empioDiritto della spada, e fuga o scampoNon havvi alcun. Si scioglie in pianto Adamo,E pien d'angoscia, alla sua guida: - Oh! dice,E chi son mai costor? Certo di morteMinistri son, non uomini, che in milleE mille doppj l'orrido misfattoPonno così moltiplicar di luiChe del germano si bruttò nel sangue.E non è questo ancor sangue fraternoCh'essi a torrenti spandono? Dell'uomoNon è l'altr'uom fratel? Ma chi quel giustoFu che, senza del ciel la pronta aita,Periva in sua giustizia? I tristi frutti(L'Angelo gli risponde) eccoti, Adamo,Di quelle diseguali infauste nozzeCh'or or vedesti, in cui pietà s'unìoAll'empietà con discordevol nodo,Ond'escon poscia mostruosi partiE di mente e di corpo, e tai sarannoQuesti giganti, onde sonar la famaPer la terra s'udrà: chè sol la forza,D'alto eroico valor sotto il bel nome,Avrà ne' giorni loro il pregio e 'l vanto.Vincer battaglie, ruinar cittadi,Popoli soggiogar, sparger torrentiD'umano sangue e di rapite spoglieTornar ricco ed onusto, ecco qual fiaLa somma gloria. Trionfali onoriQuindi otterrà conquistator, eroe,De' dritti umani protettore eccelso,Figlio di numi ed egli stesso un nume,Tal nomato sarà che fia soltantoDegli uomini flagel, peste del mondo.Per simil via s'otterrà fama in terra,E ciò che più la merta, in muto obblioSepolto resterà. Ma quei che soloDel giusto amico in un perverso mondoTu vedesti testè, della tua stirpeIl settimo sarà. D'aspri nemiciAll'odio ed al furor diverrà segnoPerchè seguir giustizia ei solo ardisceE dire il ver, che a giudicarli IddioVerrebbe un dì vendicator severo

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Con tutti i santi suoi. Corsieri alati,Come vedesti, in odorosa nubeAlla lor rabbia il sottrarranno, e immuneDa morte, seco ne' superni regniDi pace e gaudio il raccorrà l'Eterno.Della bontade hai visto il premio; or miraDe' malvagi la pena. Adam riguarda,E un novello di cose aspetto vede:Non più rugge di guerra il rauco squillo,E in giuochi, in scherzi, in pompa, in feste, in danzeTutto è converso: maritaggi o stupri,Adultéri o rapine ovunque han loco,Siccome vuol la passeggiera insanaVoglia, e ben tosto alle spumanti tazzeSeguon civili risse. Alfine in mezzoAlla sfrenata, nequitosa genteUn veglio venerabile s'avanza,Ed altamente con severa voceI turpi eccessi lor condanna e sgrida.Ei di lor feste e tresche i lochi spessoFrequenta, e d'esortarli unqua non cessaLor colpe ad espìar quai rei fra ceppi,A cui sovrasta la fatal sentenza;Ma tutto è van. Quando ciò vede, ei lasciaL'inutile contrasto e le sue tendeLungi trasporta. Indi sul monte atterraMolte e gran travi, e a fabbricare un vastoNavile imprende, in alto, in largo, in lungoMisurato per cubiti, e di peceLo spalma intorno. In mezzo all'un de' latiFabbrica adatta porta, e dentro allogaPer uomini e per belve in copia il vitto;Quando, oh portento! d'animai, d'augelliE di minuti insetti a paio a paioO a sette a sette ogni maniera venne,E per se stessi nella sacra naveIn bell'ordine entraro. Ultimo il veglioSeguì coi tre suoi figli e con le quattroLor mogli, e Dio di fuor la porta chiuse.Allor Noto si leva, e l'ampie, negre,Pendenti ali battendo, aduna e addensaQuante son nubi sotto il cielo; i montiTramandan su quanti han vapori e nebbieIl fosco ammasso ad ingrossar: già l'etraVasta vôlta di tenebre rassembra;Già impetuosa a gran rovesci piombaLa pioggia e mai non cessa, e tutta alfineSparisce al guardo la sommersa terra.S'alza il naviglio galleggiante, l'ondeCavalca altero, e con rostrata proraNe insulta e rompe lo spumante orgoglio.

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Ne' suoi profondi gorghi il flutto immensoOgni altro albergo e le sue pompe aggira;Da un mar che non ha lido, è il mar coverto,E nei palagi, ove testè splendeaRicchezza e lusso, or han la tana e 'l nidoMarini mostri. Di cotanta genteCh'empiea la terra, in breve legno ondeggiaTutto l'avanzo. Oh qual dolor fu il tuo,Adam, veggendo di tua prole tuttaSì tristo fin, tanta ruina! Un altroDi lagrime diluvio e di doloreTe pur sommerse e oppresse in fin che alzatoDall'angelica man, reggerti in piedePotesti pur, ma inconsolabil sempre,Qual genitor che tutti a un colpo spentiI cari figli suoi si vede innanzi,E questi detti sospirosi a stentoArticolasti: - Ahi visioni orrende!Oh stato fosse a me chiuso per sempreUn sì fero avvenir! Così la parteSol de' miei mali ch'ogni dì mi toccaE m'è bastevol carco, avrei sofferta;E tutto or sopra me s'ammassa e aggrevaAnco il peso di quei che fien divisiSu molte etadi e pria del tempo han vitaPer lo mio preveder che un dì saranno.Ah! più non sia chi di saper s'affanniLa sorte propria o de' suoi figli: a' mali,Poichè denno avvenir, riparo alcunoL'antiveder non reca, e sol presentiE doppie fa le ancor lontane pene.Ma invano or parlo: uomo non v'è che m'oda,E i pochi che ancor vivi erran pel vastoDeserto ondoso, alfin rabbiosa fameE angoscia struggerà. Sperai, cessataLa vïolenza e 'l bellico furore,Lieto il mondo veder, veder la paceIncoronar l'umana stirpe alfineCon lunga serie di felici giorni;Ma quanto m'ingannai! La pace ancora,Or veggo, è all'uomo infesta, e un reo diffondeVeneno tal che le ruine stessePareggia della guerra. Onde ciò nasca,Deh! tu mi spiega, o mia celeste guida,E se tutta ha qui fin l'umana stirpe. -

- Quei che lussureggiar fra pompe ed agiTestè vedesti, a lui Michel risponde,Son que' medesmi che superbi e gonfiDi lor valore e lor guerriere impreseIvano in pria, ma di virtù veraceErano vôti. Con gran sangue e stragi

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Soggiogan genti e fan di fama acquisto,Di titoli pomposi e ricche prede:All'ozio quindi, alle delizie molli,A intemperanza ed a lascivie in braccioSi dan, finchè licenza e orgoglio insanoDestan contese e risse anco di paceE d'amistade in sen. Color che vintiE fatti schiavi son, con la perdutaLor libertade, ogni virtude ed ogniTema di Dio pérdono a un tempo ancora,Di Dio cui chiese invan soccorso e scampoL'infinta lor pietà nel fero giornoDella battaglia. Abbandonata quindiOgni divota cura, intesi soloSaranno a trar la pigra e turpe vitaIn securtà su quel che lor lasciatoFia da' sazj tiranni; e larga assaiI doni suoi dispenserà la terra,Onde dell'uom la temperanza a provaPossa venir. Degenere, corrottoCosì tutto farassi; a tutti ignoteGiustizia, verità, modestia e fedeSaran, tranne ad un uomo, unico figlioDi luce in buia età, che a' pravi esempi,Alle lusinghe, agli usi, a un mondo iratoIntrepido opporrassi. Egli sprezzandoGli altrui sprezzi, i rimproveri e la rabbia,Rinfaccerà le lor perverse vieAll'empie genti, e di giustizia il calle,Che il calle è in un di sicurezza e pace,Lor mostrerà. L'ira del ciel pendenteAnnunzierà sulle proterve fronti,E deriso ne fia, ma lui con lietoOcchio Iddio mirerà qual uom che soloSeguace di virtù rimane in terra.La vasta mole di mirabil'arca,Com'hai già visto, ei per divin comandoFabbricherà, dove fuggir co' suoiLa sovrastante universal ruinaDato gli sia. Colà rinchiuso appenaCon sua progenie e con la lunga schieraDegli animali a sopravviver sceltiEgli sarà, che spalancate tutteL'ampie del cielo cateratte a un tempoContinua sgorgheran crosciante piovaIl dì, la notte: del profondo abissoSu sboccheran le fonti, e l'oceánoLeverà il dorso altissimo, spumanteFinchè de' monti ancor l'estreme vetteSoverchi altero e le s'inghiotta il flutto.Per la possa dell'acque allor divelto

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Fia da sua sede questo monte stessoDel Paradiso, giù pel vasto fiumeTravolto dal rapace ondoso cornoCon sua guasta verzura e i fluttuantiArbori in seno del vorace golfo;Là prenderà nuove radici, fattoIsola salsa e nuda, ad orche, a focheEd a marini, schiamazzanti augelliAsilo e nido: e quindi, Adamo, apprendiChe santo in faccia a Dio loco non evvi,Se nol fa tale il cor devoto e puroDegli abitanti suoi: Ma segui il restoOr a mirare. - Adam riguarda e vedeSul bassato oceán barcollar l'arca:Sparite eran le nubi in fuga spinteDa Borea acuto che col soffio adustoDel diluvio increspando iva la facciaOmai scaduta. In sull'acquoso, immensoCristallo il sol vibrava ardenti sguardi,E a larghi sorsi il fresco umor bevea.Con piè furtivo ritraeasi intantoA poco a poco l'onda invêr l'abissoChe i suoi sgorghi arrestò, come già chiuseIl cielo avea sue cateratte. L'arcaPiù non ondeggia omai, ma d'alto monteFerma in sul dorso appar; spuntan, quai scogli,Le vette omai degli alti gioghi; al mareChe si ritira, affollansi i torrentiSonori, impetuosi; ed ecco un corvoVolar si scorge dalla nave, e quindi,Nunzia più fida, una colomba partePer due volte a cercare o pianta o suoloOve posar il piede, e nel secondoRirorno suo, reca nel rostro un verdeD'olivo ramuscel, segno di pace.Già si mostra la terra, e fuor con tuttiI suoi compagni il venerabil veglioDella nave discende: ei tosto al cieloCon grato cor gli occhi e le mani innalzaDivotamente, e rugiadosa nubeSopra il capo si mira, a cui nel mezzoSplende tricolorato arco ridenteChe con Dio pace annunzia e nuovi patti.A quella vista il già si tristo coreD'Adamo esulta, e in questi detti il labbroL'interna gioia esprime: - O tu che puoi,Come presenti, le future coseRecarmi innanzi, interprete del cielo,Con questo nuovo consolante aspettoTu mi torni alla vita; io veggo, io veggoChe l'uom vivrà cogli animali tutti,

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Ed a' più tardi secoli serbatoIl lor seme sarà. Meno or mi gravaUn mondo intier di figli rei distruttoChe non m'allegra quel sì pio, sì giustoUom che mertò di disarmar l'irataDivina destra e d'un novello mondoEsser principio. Ma perchè, deh! dimmi,Quelle appaiono in ciel fulgide liste?Imagin forse del placato ciglioDi Dio son esse? o con leggiadro margoChiudono il grembo a quell'acquosa nubeOnd'ella ancor non si disciolga e torniLa terra ad allagar? - Sì, gli rispondeMichel, ben avvisasti; dell'EternoPlacata è l'ira. Ei rimirò la terraDi misfatti coperta, ed in sue vieOgni carne corrotta, ond'ebbe in coreD'aver creato l'uom rammarco e sdegno,E i perversi punì: ma grazia tantaUn sol uom giusto al suo cospetto trova,Che sol per lui dall'esterminio estremoL'uman genere scampa, e quind'innanzi(Ei lo promette) a disolar la terraPiù non discenderan l'acque del cieloNè più trascorrerà fuor de' prescrittiConfini il mar. Tal è il suo patto, e quandoEgli le nubi stenderà per l'etra,Quell'arco suo di tre colori impressoAppariravvi ond'ei richiami in menteLa sua promessa. Il dì così, la notte,Della semenza e della messe il tempo,La state, il verno alterneran lor corso,Finchè tutto rinnovi e purghi il foco,E sorgan altri cieli ed altra terraOve un popol d'eletti avrà soggiorno.

LIBRO DUODECIMO

L’arcangelo Michele narra quel che avverrà dopo il diluvio: quindi, facendo menzione di Abramo, viene per gradi a spiegare quale sarà il seme della donna che fu promesso ad Adamo e ad Eva dopo la loro caduta. Incarnazione, morte e ascensione del Salvatore. Stato della chiesa fino alla seconda venuta dello stesso. Adamo consolato da questi racconti e promesse, scende con Michele dalla montagna, sveglia Eva che per tutto quel tempo aveva dormito, e la trova tranquilla e disposta a sommissione dai sogni favorevoli che avea fatti. Michele li prende ambedue per mano, e li conduce fuori del Paradiso. Si vede la spada di fuoco fiammeggiare dietro loro, e i cherubini prender i loro posti per guardare l’entrata del luogo.

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Qual chi sul mezzodì s'arresta e posa,Benchè bramoso di compir sua via,Tal, fra lo spento e 'l rinascente mondoL'Angel fermossi ad aspettar se forseQualche ricerca Adam frappor volea;Indi così riprese: - Un mondo hai vistoPrender principio e gire al fine, e quasiRinascer l'uomo da novello tronco.Molto è tuttor quel ch'a veder ti resta;Ma ben m'accorgo che s'aggrava e langueIl tuo sguardo mortal, nè regger puoteAl supremo splendor de' divi obbiettiL'umano senso; onde a narrarti io prendoQuel che avvenir dovrà: tu porgi attentaA' miei detti l'orecchia. In fin che pochiSaranno i germi di quest'altra stirpe,E vivo ancora avran l'orrore in menteDel passato giudicio, andar lontaniNon oseranno dal diritto calleE temeranno Dio: di larga proleCinti saran, coltiveran la terra,E di biade, di vin, di pingui oliveRaccorranno ampie messi: a Dio soventeDalle lor mandre or offriran giovenco,Or capretto, or agnel, fra le ricolmeLibate coppe e le divote feste.Tranquilli giorni in innocente gioiaEssi così trarranno e in lunga pacePer famiglie e tribù sotto il paternoSoave impero. Alfin gonfio d'orgoglioE fasto sorgerà chi non contentoDi bella egualità, fraterno stato,S'arrogherà sopra i germani suoiIniquo scettro, di natura i drittiCalcherà temerario, e dalla terraSbandirà la concordia. Egli col ferro,Ei coll'insidie andrà non già le belvePerseguitando, ma le umane gentiChe di portare il suo pesante giogoFaran rifiuto. Cacciator possenteSarà quindi nomato innanzi a Dio;Sprezzerà il cielo, od il secondo scettroPer dritto aver dal ciel darassi vanto:Sedizïosi e ribellanti gli altriEi chiamerà, ma di ribelle il nomeEgli avrà con ragion. Seguìto e cintoDa turba rea che un pari orgoglio unisceSeco o sott'esso a farsi altrui tiranna,Rivolge i passi all'occidente, e vastaPianura incontra, ove gorgoglia e bolleNera, bituminosa una vorago

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Su di sotterra che profonda pareFauce infernal. Di quel tenace umoreFrammisto a cotta argilla ampia cittadeA fabbricar si danno ed ardua torreChe al cielo erga la cima, onde risuoniAlto il lor nome, ed in rimote e straneTerre, ove poscia andran divisi, erranti,La lor memoria o buona o rea non pera.Ma Dio, che a visitar le umane gentiSpesso scende invisibile, e fra loroD'ogni lor opra osservator s'aggira,Dal sommo trono suo costor mirando,Viene alla gran città pria che la torreAlle torri del cielo emula surga;E, con sorriso schernitore, infondeSulle lor lingue un vario spirto, il primoNatìo linguaggio ne cancella, e inveceVi sparge un suon di sconosciute vociDiscordante, confuso. Alto frastuonoTra i fabbri allor si leva, invan l'un chiama,Invan replica l'altro, a ignoto accentoRisponde accento ignoto, è rauco ognuno,E ognun, quasi schernito, infuria e freme.Il romoroso borbogliare e stranoDesta gran risa in ciel; pende la stoltaMole lasciata in abbandono, e all'opraDalla confusïon rimane il nome. -

Acceso allora di paterno sdegnoEsclama Adamo: - Ahi detestabil figlio!Ahi scellerato ardir! Tu sopra i tuoiFratelli osi innalzarti, e quell'imperoChe all'uomo Iddio non diè, così t'usurpi?Sopra le belve, sugli augei, su i pesciAssoluto dominio a noi concesseIddio soltanto: è dono suo tal dritto:Ma l'uom dell'uomo egli non fe' signore;A sè tal grado serba, e dell'umanoGiogo egli lascia l'uom disciolto e franco.Ma non s'appaga di costui l'orgoglioNel calcare i suoi pari; il ciel medesmoCon quella torre egli minaccia e sfida!Ahi sciagurato! e qual trarrai lassusoVitto, onde te co' tuoi guerrier disfami,Ove la stessa sottilissim'auraTi crucierà l'anelo petto, e 'l fiatoTi verrà men, se non il cibo? - A luiMichele allor: - Quel figlio a dritto abborri,Quel figlio indegno che il felice statoDell'uom così sconvolse, e libertade,Che unì con la ragion natura e Dio,D'opprimer s'attentò: ma sappi ancora

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Che dopo il tuo fallir perduta, Adamo,È vera libertà che, nata insiemeCon la retta ragion, seco pur sempreSoggiorna e senza lei vita non ave.Se il lume di ragion nell'uom s'oscura,Insane brame e ribellanti affettiPrendon l'impero, ed in crudel servaggioTraggono l'uom libero in pria: s'ei lasciaDa interni soggiogar tiranni indegniIl proprio core, a vïolenti e feriSignori esterni lo abbandona ancoraIl giustissimo Dio. Che siavi è d'uopoLa tirannia, ma non per ciò di scusaDegno è il tiranno. Nazïoni intereDalla virtù ch'è la ragione stessa,Allontanarsi si vedran talora,E in tal viltà cader che fia ben drittoSe il ciel le maledice e dàlle in predaA straniero signor. Così quel figlioDi lui che l'arca feo, dal padre offesoFia maledetto, e la sua stirpe iniquaCondannata di servi ad esser serva.Peggiorando in tal guisa andrà, del pariChe il vecchio mondo, il nuovo ancor, fintantoChe stanco Iddio dall'opre ree, ritragga,L'augusta sua presenza e i santi sguardiDa que' perversi, ed a lor empie e sozzeVie gli abbandoni alfine. Un popol caroPerò fra loro ei si scerrà, da cuiInvocato sarà, popol che scendeDa un solo uomo fedel. Di qua soggiornoQuesti avrà dall'Eufrate e instrutto fiaDe' falsi déi nel culto. O cieche menti!Credere, Adam, potrai che, mentre ancoraRespira il santo veglio alle voraciAcque scampato, le insensate gentiObblïeranno il Dio vivente, e l'opreDelle stesse lor mani in legno e 'n sasso,Quai numi, adoreran! Ma Dio si degnaA quell'uomo apparire in sogno, e lungiDal patrio tetto e dai congiunti il chiamaE da que' falsi numi ad altre spiaggeCh'ei mostreragli. Un popolo possenteDa lui vuol trarre e sì versar sovr'essoI doni suoi che tutti in suo legnaggioFien benedetti i popoli. VeloceEgli al cenno obbedisce, e benchè ignoriSua meta, è fermo in sua credenza. Io 'l veggo,Ma dato a te non è, con quanta fedeNumi ed amici e 'l natìo suol caldeoEgli abbandona: ecco d'Arán il guado

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Valica e seco un largo stuolo adduceD'armenti e greggi e numerosi servi.Meschino errando egli non va, ma l'ampieSue ricchezze confida a Dio che il chiamaA ignoti lidi. In Canaán ei giunge,Di Sichen presso i muri e sul vicinoPiano di More le sue tende io scorgoPiantate: quivi in don quell'ampie terreDa divina promessa egli ricevePe' figli suoi dal boreale AmateFino al deserto austral (fian questi i nomiDi que' lochi che nome ora non hanno)E dal gran monte orïental dell'ErmoAl vasto mare occidental: qua sorgeL'Ermo, là vedi il mare; a te rimpettoMira i lochi che addito. Ecco il CarmeloIn sulla riva, ecco il Giordan che scendeDa doppia fonte e verso l'orïenteSegna il confin; si stenderanno quindiI figli suoi fino a Senìre, a quellaLunga catena di montagne. Or membraChe benedette di quest'uom nel semeSaran tutte le genti: a te quel grandeLiberator si mostra omai, che il capoFrangerà del serpente, e che più chiaroTosto predetto ti sarà. Da questoGran patriarca (i secoli futuriDiranlo il fido Abramo) un figlio nasceEd un nipote poi, che a lui simíliSaranno in fama, in sapïenza, in fede.Da i lidi cananéi parte il nipoteCon sei figliuoli e sei verso una terraCh'Egitto nomerassi, ed è dall'ondeDel Nil divisa: questo fiume vediChe sgorga in mar per sette foci: ei vanneQuel suolo ad abitar, dove lo invita,Mentre rabida fame il popol strugge,Il minor figlio ch'ai secondi onoriDel regno fia per le sue gesta alzato.Là more il padre, e la sua stirpe lasciaCrescente in nazïon sì che ne prendeSospetto ed odio il successor regnante.Quindi a frenar la numerosa troppoProgenie lor, tutti in non cale ei poneGli ospitali diritti, a rio servaggioDanna ciascuno, e i maschi lor bambiniConsegna a morte. Due germani allora,Aronne e Moisè, manda l'EternoA trar di ceppi il popol suo che carcoDi gloria e spoglie alla promessa terraCon lor s'indrizza. Ma con feri segni

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E severi giudizi il core in priaDomo sarà del perfido tirannoChe il lor gran Nume ed i messaggi suoiRiconoscer non vuol. Cangiati in sangueI fiumi si vedran; di mosche e raneE di mordaci insetti un'oste immondaEmpierà la sua reggia e 'l regno interoInonderà; feroce lue le greggiTutte consumerà; del re, di tuttoIl popol suo le membra ulceri e bozzeGonfieran, pasceran; l'egizio cieloSquarceran tuoni orrendi a grandin misti,E grandin mista a turbini di focoCroscerà rovinosa, e ovunque passi,Tutto devasterà. Ciò che non struggeIl nembo, un'atra di locuste e foltaNube con spaventevole stridoreDivorerà le biade, i frutti e quantoDi verde in terra appar; nere ombre il regnoTutto ricopriran, palpabili ombrePer cui tre dì fian spenti: alfine, al mezzoDi feral notte, piomberà su tuttiGli egizj primogeniti improvvisoColpo di morte. Sì da dieci piagheIl niliaco dragon trafitto e domoPartir li lascia alfin: più volte il crudoSuo cor si piega, ma qual gel che induraDi più, poichè fu sciolto, ei pur ritornaA ferocia maggiore, e quelli insegueCui già l'andar concesse: il mare alloraCon l'oste sua lo inghiotte, il mar che al toccoDella mosaica verga in due si parteDi liquido cristal pendenti mura,E diviso rimane infin che tuttaL'eletta stirpe sull'opposto lidoSalva non pon l'asciutto piè. Tal possaDio concede all'uom santo! Anzi egli stessoÈ seco lor nell'angel suo che siedeNel dì sovra una nube e nella notteSu colonna di foco, ed ora è scorta,Precedendo, al lor corso, or li difende,Girando a tergo, dal vicin tiranno.Questi pien di furor la notte interaGl'incalza e preme, ma l'orror frappostoGli vieta d'appressar finchè nel cieloL'alba novella spunti, e allora IddioFuor dell'ignea colonna o della nubeSporgendo il guardo, un subitan spaventoManda per l'oste tutta, e de' lor carriLe rote infrange. Per divin comandoSul mar distende la possente verga

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Mosè di nuovo, ed obbedisce il mareAlla sua verga; furïose l'ondeCadon sull'oste ed è sommersa. Il passoMuove invêr Canaán l'eletta stirpe,Non pel breve cammin, ma in lungo giroPel selvaggio deserto, onde allo scontroDell'armi Cananée subita temaNon risospinga l'inesperte gentiVerso l'Egitto a scer piuttosto indegnaVita servil: chè cara a tutti e dolceSien forti o vili, è la tranquilla vita,Se all'armi non gl'infiamma impetuosoFuror bollente. D'altro frutto ancoraFerace ad essi quell'indugio fiaPer lo vasto deserto: ivi le basiPorranno al lor governo, e 'l gran senatoDa dodici tribù scerran che tuttoRegga Israel con ordinate leggi.Iddio dal Sina, la cui grigia vettaTremerà al suo venir, fra lampi e tuoniE di trombe al clangore, Iddio medesmoDetterà quelle leggi. Il civil drittoPrescrivon l'une, ed altre il culto, i sacriRiti e le feste: in mistiche figureEd ombre ei loro annunzierà pur qualeSeme a schiacciar del serpe il collo alteroÈ destinato, e come il duro giogoAgli uomini ei torrà. Ma spaventosiAd orecchio mortal troppo gli accentiSono di Dio: chieggon perciò le turbeChe di Mosè pel labbro ei lor dispieghiIl suo volere e quel terror rimova.Dio le lor preci ascolta, e apprendon quindiChe senza intercessor non avvi accessoPresso di lui. Mosè ne prende intantoL'alto ufficio in figura in fin che vengaUn dì l'altro maggior, di cui prediceEi stesso il tempo; e i sacri vati poiTutti cantar del gran Messia le lodiS'udranno in varie età. Le leggi e i ritiFermati in guisa tal, tanto dilettoDel buon popolo suo prende l'Eterno,Che in mezzo ad essi di locar si degnaIl tabernacol proprio, e 'l Solo, il SantoCo' mortali soggiorna. È per suo cennoDi cedro e d'oro un santuario erettoChe un'arca accoglie, e dentro l'arca è chiusaLa ricordanza del divino patto.Di due raggianti cherubin fra l'aliL'aureo seggio di grazia in alto splende,E sette lampe che del ciel le faci,

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Quasi in zodiaco, raffiguran, sempreArdongli innanzi: al padiglione in cimaPosa una nube il dì, che fiamma posciaDivien la notte, eccetto allor che moveSue tende il campo. In quella terra alfineChe ad Abram fu promessa e a' figli suoi,Fermano il piè. Lungo il ridir sarebbeTutte le pugne loro, i vinti regi,I soggiogati regni, e come in cieloIntero un giorno il sole immoto sta,E 'l corso usato la notte trattiene,Quando un uom griderà: Fermati, o sole,In Gibeón, e tu t'arresta, o luna,In valle d'Aialón, finchè IsraelloSia vincitor. Così chiamato fiaIl nipote di Abram, d'Isacco il figlio,Che il nome stesso alla sua stirpe tuttaDi Canaán vittrice indi trasmette. -

- Celeste messo, che a sgombrar venistiLe mie tenebre dense, Adam gli dice,Oh con qual gioia rivelarmi ascoltoQuesti segreti e quei del giusto AbramoSovra tutt'altri e di sua stirpe! Or sentoQuesti occhi miei la prima volta aprirsiVeracemente e confortarsi il coreTant'ansio in pria sul mio destin futuroE quel de' figli miei: già veggo il giornoDi Quei che recherà letizia e paceSovr'ogni gente alfine. Oh grazia! o donoMal mertato da me, cui voglia insanaSpinse a cercar per divietate vieDivietato saper! Ma pur non ancoIo comprender ben so perchè cotanteA quei s'impongan leggi e sì diverse,Fra cui lo stesso Dio scender si degnaAd abitar; di molte colpe sonoMolte leggi argomento: or come IddioPuò soggiornar fra sì perversa gente? -

- Non dubitarne, a lui Michel risponde,Fra lor pur troppo regnerà la colpa,Poichè scendon da te: per ciò la leggeFu data ad essi, onde la lor si mostriInnata pravità che ognora è prontaA pugnar contro lei. Così veggendoChe può la legge sol scoprire il fallo,Ma purgarlo non già (chè lieve e soloUn'adombrata espïazion fia quellaDi tauri ed irchi in sacrificio offerti),Conosceran che ben diverso sangueDovrà dell'uom perduto essere ammenda,Sangue del giusto per l'ingiusto; e quindi,

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Con viva fè, d'una tal ostia il mertoRecando in sè, potran di Dio la priscaGrazia e dell'alma racquistar la pace.Vani a tal fine e inefficaci i ritiSon della legge, di cui l'uom non puoteLo spirito adempir, nè fia ch'ei viva,Se non l'adempie. Ella imperfetta è dunque,E data a lui soltanto onde il prepariA migliore alleanza, a dì più lieti,Quando fia tempo. Lo splendor del veroAll'adombrate, mistiche figureAllor succederà, di strette leggiAl giogo imposto, un inesausto fonteDi grazia a ognun liberamente aperto,A servil tema il filïal rispetto,E all'opre della legge opre di fede.Quindi Mosè, benchè sì caro a Dio,Pur, poichè della legge è sol ministro,Non condurrà nella promessa terraIl popol suo; sol Giosuè ve 'l guida,Che Gesù detto è fra i Gentili, e il nomeE l'officio di lui sostien che posciaIl fero abbatterà nemico serpe,E l'uom ricondurrà dai lunghi erroriPer lo mondano inospite desertoNel Paradiso dell'eterna pace.Del Canaán terrestre i ricchi campiAbiteranno intanto, e lieti giorniSplender vedran per lungo tempo infinoChe nequizia comun non turbi e rompaLa comun pace, e contro lor non destiNemiche schiere irato Iddio. Pur sempreA lor pentiti egli perdona, e sottoI giudici da pria, poi sotto i regiLi difende e li scampa. Il Re che al soglioAscenderà secondo, e fia non menoPer la pietà che pel valore illustre,Promessa irrevocabile da DioRiceverà che stabile in eternoSarà il suo trono. Canteran lo stessoTutti i profeti; che dal regio troncoDi Davidde (così quel re s'appella)Un figlio sorgerà, femineo seme,A te, ad Abramo, ai re predetto, in cuiL'alta speranza poserà di tutteLe nazïoni, e fia dei re l'estremo,Perchè del regno suo non sarà fine.Ma lunga serie di monarchi in primaTerrà lo scettro. Di Davidde il figlioChiaro per senno e per ricchezze, all'arcaDi Dio che fino allor cinta di nubi

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Errava fra le tende, un tempio augustoFonda e splendido culto. Appresso a luiVien ordin lungo di regnanti or giustiOr rei, ma questi i più, ne' fasti inscritti,Che sozzi ed empj riti ed altre colpeDel lor popolo reo mescendo ai falliTanto provocheran di Dio lo sdegnoCh'ei da lor partirassi, e 'l lor terreno,La lor cittade, il tempio suo, la santaArca e gli arredi tutti in preda e schernoDati saranno alla città superba,Di cui vedesti or or l'eccelse muraIn gran scompiglio abbandonate, ond'ebbeDi Babilonia il nome. Ivi di setteE sette lustri il doloroso giroPassan fra le catene; alfin rimembraIddio la sua pietade e la giurataCon Davidde alleanza a par de' giorniDel cielo eterna, e agli oppressor toccandoIl cor, le genti sue scampa e riduceDal misero servaggio. Esse il distruttoSuo tempio ergon di nuovo, e in picciol statoMenan frugale e temperata vitaPer alcun tempo; ma cresciute posciaIn numero e in ricchezze, eccole in predaA feroci tumulti; e scoppia in primaFra i sacerdoti stessi il foco reoDella discordia, in mezzo a lor che sempreNella mente, nel cor, sul labbro paceDovriano aver; dall'empie lor conteseContaminato è il tempio: i figli alfineDisprezzan di Davidde ed allo scettroDanno di piglio. In forestiere maniCader lo lascian quindi, e 'l gran Messia,Il verace unto Re, da' dritti suoiEscluso nasce; ma nel ciel risplendeAl nascer suo non più veduta stellaChe giunto lo palesa. A quel fulgoreMovon tre re dall'orïente i passiIn traccia di sua cuna, e incenso e mirraEd oro a offrir gli vengono. Dal cieloUn nunzio scende, e a semplici pastoriChe nella notte vigilando stanno,Il suo natale umil soggiorno addita.Lieti colà s'affrettan essi, e gl'inniDelle angeliche squadre odono intornoAl testè nato pargoletto. MadreUna Vergine gli è, suo genitoreIl poter dell'Eterno. Egli sul tronoDel Padre ascenderà; confine il mondoFia del suo regno, e di sua gloria il cielo. -

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Ei qui cessò, scorgendo Adamo oppressoDa gioia tanta che a dolor somiglia,E già trabocca in lagrime, se sfogoDi parole non ha. - Superno vate,Adam prorompe allor, quai lieti eventiMi predicesti, e come appaghi tuttiGli ultimi voti miei! Chiaro or comprendoCiò che tanto finora invan cercai,Perchè detta sarà femineo semeLa gran speranza dell'umana gente.Salve, o Vergine Madre, al ciel sì cara:Eppur uscir tu di mia stirpe déi.Eppur dee dal tuo grembo uscir la proleDell'altissimo Dio! Così l'EternoCon l'uom s'innesta, e con mortal feritaSarà dell'orrid'angue il capo infranto.Ma dove e quando, dimmi, il gran conflittoAvvenir dee? Qual morso il piè ferisceDel vincitore? - Al che Michel: - La pugnaMistica è sol, nè capo o piè feritoSarà veracemente: il divin FiglioLe umane forme a rivestir non scendePerchè Satán con maggior colpo atterri.Non fia vinto così quei che dal cieloPrecipitando, di più gravi piaghePercosso fu, nè fu perciò men attoA scagliar sopra te di morte il colpo.Dalle fauci di questa a trarti vieneIl tuo Liberator, non già struggendoSatán, ma di Satán l'opere iniqueIn te, nella sua stirpe. È d'uopo quindiChe a quell'incarco, a cui tu debil fosti,D'eseguir fido la superna legge,Ei si sommetta, e la dovuta ammendaPaghi di morte che il tuo fallo trasseSopra di te, sulla progenie tutta,Tua trista erede: di cotal restauroSolo fia paga la giustizia eterna.Ei la legge del cielo adempie attentoD'amor e obbedïenza unico esempio,Benchè adempierla solo amor potrebbe.Cinto d'umana carne ei la tua penaViene a soffrire, aspri derisi giorniE morte infame, egli salvezza e vitaPromette a tutti lor che fede avrannoIn sua redenzïon, che i merti suoiS'ascriveran colla medesma fedeE tutta in essi riporran la speme,Non mai nell'opre lor, benchè conformiSieno alla legge. In mezzo agli odj, all'ire,All'onte, alle bestemmie ei vive, e ceppi

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Soffre e giudicio rio che a morte il dannaObbrobrïosa e cruda. A dura croceDal suo medesmo popolo confittoEi muore: e muor perchè la vita arreca;Ma su quel tronco stesso i tuoi nemiciEgli pur anche immola: ivi la leggeA te contraria, e dell'intero umanoSeme si stan tutte le colpe affisse.Così dal timor prisco ognun fia scioltoChe nel suo sparso sangue ha certa speme.Ei muor, ma lungo sovra lui la morteNon usurpa l'impero, e pria che spuntiIn ciel la terza aurora, erger l'augustoCapo lo veggon dal funereo sassoLe mattutine stelle, assai più frescoE più lucente del novello albòre.Così pagato è nel suo sangue alfineIl gran riscatto delle umane genti;E salvo è ognun che il vuole e 'l sommo donoDi lui con fè non vota d'opre accoglie.Quest'opra eccelsa del divino amoreCancella alfin quella sentenza, ond'eriDannato a morte pel tuo fallo eterna;Frange a Satáno la cervice altera,Colpa e Morte conquide, i due più fortiDi lui sostegni, e i dardi lor ritorceIn lui medesmo con più grave colpoChe passeggiera e momentanea morteRecar non può del vincitore al piedeEd a' redenti suoi, morte simileAd un placido sonno, un lieve e dolceVarco a vita immortale. Egli risortoQuaggiù non resta a lungo, e sol taloraAi discepoli suoi, che fidi sempreNel vïaggio terren gli fur compagni,Fa di sè mostra: ei lor impon che quantoAppresero da lui, vadan spargendoPer tutti della terra i lidi estremi,E di salute apran le vie, battesmoDando de' fiumi nelle limpid'ondeA ognun che crederà; mistico segnoDi lavacro maggior, per cui, le macchieAsterse della colpa, a pura vitaL'uomo rinasce, ed è disposto e fermoA incontrar morte, ov'uopo sia, simíleA quella già dal Redentor sofferta.La sua dottrina ad ogni popol contaSarà per essi; chè non solo i figliD'Abram dopo quel dì saran chiamatiDi salute al sentier, ma i figli ancoraDella fede d'Abram per tutto l'ampio

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Terrestre giro, e nel suo seme quindiFia beata ogni gente. Al ciel de' cieliEgli ascende dipoi, de' suoi nemiciE de' tuoi trionfante, e nel suo voloDell'aria il Prence, il fero serpe afferra,Per tutti i regni suoi stretto in cateneLo tragge in mostra, ed al suo scorno alfineEi l'abbandona. Rientrando posciaNella sua gloria, alla paterna destraRiprende seggio, e sopra i nomi tuttiEsaltato è il suo nome: indi, allor quandoMaturo fia per la sua fine il mondo,Cinto di gloria e di poter verranneGiudicator de' vivi e degli estinti,Gl'infedeli a punire, a render degnoGuiderdone a' suoi fidi, e nell'eternaFelicità seco raccorli in cielo,O sulla terra; chè la terra alloraFia tutta un paradiso, e più d'assaiChe quest'Eden non è, felice albergoD'un più bel sol, di più bei dì lucente.

Qui s'arrestò l'Arcangelo, del mondoGiunto alla meta estrema, e Adam ripienoDi gioia e di stupor così rispose:- O divina bontà, bontade immensaChe tutto questo ben dal mal produce,Che volge in bene il mal! prodigio ancoraMirabil più che non fu trar dal foltoAntico orror la luce! In dubbio or stommiSe più del fallo mio pentirmi io deggiaE della labe su i miei figli sparsa,O più gioir che tanto ben ne scenda,A Dio gloria maggior, sull'uom da DioPiù larghe grazie, e sovra l'ira sparsoIl fonte di pietà. Ma di': se al cieloRisalir debbe il Redentor, che fiaDe' pochi fidi suoi, tra infida turbaE al vêr nemica abbandonati? AlloraChi fia lor guida e difensor? Quegli empi,Più che di lui non fèr, strazio crudeleNon farann'anco de' seguaci suoi?

- Certo il faran, l'Arcangelo risponde,Ma lor bentosto ei spedirà dall'altoUn tal Consolator, del sommo PadrePromesso dono e Spirto suo, che in essiFarà dimora, e della fè la leggeChe per amor tutt'opra e tutto vince,Scriverà nei lor cori: essa lor guidaSarà nell'arduo di virtù sentieroE della verità: d'armi celestiEssa ricopriralli, onde dell'empio

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Satán gli assalti e gl'infuocati dardiPossano rintuzzar. Quindi la rabbiaAffronteran degli uomini e la morteCon saldo petto, e tale un dolce internoFra le lor pene sentiran confortoChe di tanta costanza anco i più crudiTiranni avran stupor. L'aura divinaScende in prima su lor che nunzi vannoDel fausto alto preconio, e quindi al pariSovra ciascun che mondo uscì del sacro,Salubre fonte, e portentosi doniAd essi imparte, onde a lor grado in ogniVario linguaggio di repente sciorreSanno le labbra, e quei prodigi stessiChe il lor Signore oprò, dinanzi al mondoStupefatto iterar. Così di tuttiI popoli gran schiere andran con gioiaA ricever del ciel la nuova legge.Il santo ministero alfin compiutoE ben percorso il glorïoso arringo,Dalla terrena alla celeste vitaFanno tragitto, ma vergate carteDi lor dottrina e di lor gesta in priaLascian quaggiù. Poscia d'ingordi lupi,Già predetta da loro, a lor succedeUn'empia turba che del cielo i santiMisteri tutti alla sfrenata, insanaCupidigia d'onori e d'ôr fan servi;E 'l sacrosanto ver, candido e puroLasciato in lor memorie, in mille guiseSforman con vane imaginate fole.Titoli quindi e dignitadi e nomiProcacciando si vanno, e mentre vôltiMostran d'aver tutti i pensieri al cielo,Van sol d'impero e di ricchezze in traccia.Contro quel lume che a ciascun nell'almaDio stesso accese, opran la forza, e soloIn vani riti ed in pompose formeRiposto è il culto lor: sen va sbanditoIl ver percosso dai maligni straliDella calunnia, e solo in sen di pochiSi nasconde e ricovra. Ai buoni infesto,Propizio ai rei, sotto il suo peso stessoGeme così, così prosegue il mondoIn suo cammin, finchè il gran giorno arriviDi requie a' giusti e di vendetta agli empi,Il giorno, in cui tornar vedrassi alfineQuei che in oscuri sensi a te promessoFu dianzi e meglio or riconosci, il tuoRedentore e Signor. Nella paternaGloria, in mezzo alle nubi, egli dal cielo

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Verrà sterminator del reo SatánoE del corrotto mondo. Al foco in predaEi darà questo; indi novelli cieliPer secoli infiniti e nuova terraDall'avvampante ripurgata massaFuori trarrà; giustizia e pace e amoreStabil v'avranno eterna, sede, e fruttiDi gioia interminabile daranno. -

Qui l'Angel tacque, e per l'estrema voltaCosì Adam replicogli: - Oh! come rattoIl tuo sguardo profetico di questoFugace mondo ha misurato il corsoEd il volo del tempo, infin che immotoIl tempo rimarrà. Di là si stendePer ogni parte il tenebroso abissoD'eternità, nel cui profondo immensoOgni sguardo vien meno. Instrutto assai,Assai tranquillo io di qui parto: tuttoQuel saper ricevei, di cui capaceÈ quest'angusto mio vasello. Oh quantoFui folle, a cercar oltre! Alfin comprendoCiò che di tutto è il meglio, e fermo sonoD'amar sempre e obbedir quel grande e soloPadre e Signor, sempre pensar ch'io stommiNel suo cospetto, ognor serbare in menteLa provvidenza sua, sempre riporreOgni mia speme in sue paterne cure.Ei quanto fe', con amoroso sguardoMira e soccorre con pietosa mano:Col ben del mal trionfa, ad opre eccelseDel debole si val, con lievi mezziOgni gran forza atterra, e l'uman sennoCon la semplicità vince e confonde.A difesa del vero i mali tuttiCostante sopportar veggo che solaÈ d'altissimo onor degna fortezza:Che del fedel la morte è solo un varcoAlla vita immortale, e ciò m'insegnaL'alto esempio di Lui ch'io lieto adoro,E da cui sol la mia salvezza attendo. -

Allor Michel l'ultima volta anch'egliCosì risponde: - Appresso ciò, giungestiDel saper alla cima; altro non resta:Più oltre non bramar, quand'anco tuttiGli astri del ciel, le angeliche possanzePotessi annoverar, del gran profondoScoprir gli arcani, e di natura e DioOgn'opra in cielo, in terra, in aria, in mare,E tutte posseder quante ricchezzeRinserra il mondo, ed il sovrano imperoTu solo averne. Al tuo saper aggiugni

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Opre conformi e basta; aggiugni fede,Virtù, fortezza, temperanza, amore,Alma d'ogni virtù, che detto poiFia carità. Ritroso allor da questoNon partirai beato suol; che in senoUn più felice paradiso avrai.Ma vieni alfin, da quest'eccelsa vettaScender convien; n'è giunta l'ora. Vedi?Le guardie che lasciai là su quel colleStanno a moversi preste, e in fronte ad esseLo sfolgorante ferro a cerchio ondeggiaChe intima il tuo partir. Vanne, risvegliaLa tua consorte: a lei non men con dolciSogni presaghi di felici eventi,Rasserenai lo spirto e la disposiA sofferenza umìl. Di ciò che udistiTu le fa parte a miglior tempo, e quelloPiù le ripeti che a fermar sua fedePiù gioverà; ripetile che un giornoDèe dal sen d'una donna uscir il germeDel mondo salvator. Così concordiIn una stessa fè viver possiateI vostri dì che saran molti, e possaIl vostro duol, della commessa colpaTristo e debito frutto, aver confortoNel pensier dolce del promesso fine. -

Qui tacque, ed ambi scesero dal monte:Adam là tosto s'affrettò dov'eraEva rimasta in alto sonno immersa;Ma desta ritrovolla, e funne accoltoCon questi detti in placido sembiante:

- So dove fosti e donde torni: IddioScende nel sonno ancor; di lieti eventiAuspici sogni ei m'inviò pur ora,Quando dal duolo e dall'ambascia vintaCaddi in braccio del sonno. Or tu mi guida;Son pronta, andiam; fia paradiso ancoraOgn'altro suolo a me, se teco io sono;E senza te nè qui giammai nè altroveRitrovarlo potrei: tu, Adamo, il tuttoSei per me sotto il ciel, tu che da questoLoco se' per mia colpa in bando spinto.Un altro alfin certissimo confortoMeco ne vien che, se cagione io fuiDella ruina universal, di tantoNon mertato favor degnommi il cielo,Che nascerà pur dal mio sangue il grandeRiparator della comun ruina. -

Eva sì disse, e ne fu lieto Adamo,Ma non rispose; chè dappresso troppoL'Arcangel era, e dall'opposto colle

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A' destinati posti in rifulgenteOrdin scendeano i cherubini, a guisaDi leggiere meteore il suol radendo.Così nebbia talor dal fiume uscita,Lieve strisciando, il paludoso pianoTrascorre in sulla sera, e del bifolcoChe ritorna all'albergo, i passi incalza.Innanzi ad essi balenava in altoLa brandita di Dio rovente spadaA cometa simile, e, a par dell'arsoLibico ciel, quel già sì dolce climaCon sua vampa affocava. Allor MichelePrendendo i nostri padri ambi per mano,L'indugio ne affrettò, dritto alla portaOrïental guidolli, e di là rattoGiù per la rupe alla pianura, e sparve.Essi al perduto lor felice albergoVolsero indietro gli occhi, e l'igneo brandoVider rotante in fulminosi giriSu tutto il lato orïentale e folteIn sulla porta star tremende facceEd armi ardenti. Alle lor ciglia alquanteStille di pianto allor mandò natura,Ma tosto le asciugaro. A sè dinanziAvean tutta la terra, ove un soggiornoScegliersi di riposo, e loro scortaEra la Provvidenza. A incerti e lentiPassi, dell'Eden pei solinghi campi,Tenendosi per man, preser la via.