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ESAE Scuola Regionale per Operatori Sociali P.zza Castello, 3 20121 MILANO IL METODO GORDON: Come Rendere più Efficaci le Relazioni Relatrice: Zanichelli Elena Candidata: Frigerio Daniela Anno Formativo 2002/2003 QUALIFICA di EDUCATORE PROFESSIONALE

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ESAE Scuola Regionale per Operatori Sociali

P.zza Castello, 3 20121 MILANO

IL METODO GORDON:

Come Rendere più Efficaci le

Relazioni

Relatrice: Zanichelli Elena

Candidata: Frigerio Daniela

Anno Formativo 2002/2003

QUALIFICA di EDUCATORE PROFESSIONALE

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Con profonda gratitudine e tanto affetto

Desidero ringraziare prima di tutto la mia relatrice, che mi ha accolto senza conoscermi, mi ha sostenuto e incoraggiato, mi è stata vicina con la sua competenza, la sua esperienza e con la massima disponibilità. Vorrei ringraziare tutte le persone, familiari ed amici, che mi hanno “sopportato” nei tre anni di studio e soprattutto nel periodo in cui ho lavorato sulla tesi. Un pensiero speciale per le mie colleghe che si sono sempre rese disponibili a cambiare i turni di lavoro per permettermi di frequentare i corsi e studiare e, in particolare, per Germana che mi ha prestato il suo portatile, strumento indispensabile nella complessità dei miei spostamenti. Un pensiero speciale anche per Pino, compagno di corso ed amico: senza i suoi richiami alla realtà e alla semplicità delle cose forse non sarei arrivata a questo traguardo.

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Indice

INTRODUZIONE: perchè il metodo Gordon per un educatore…..……5

Cap. 1 THOMAS GORDON E IL SUO PENSIERO………......……..10 1.1 Cenni biografici………………………………………10 1.2 Il pensiero psicologico anteriore e contemporaneo…..14

1.2.1 La psicologia umanistica………………14 1.2.2 Rogers………………………………… 18 1.2.3 Gordon………………………………....23

1.3 Lo sviluppo del pensiero di Gordon e il suo Metodo...25 1.4 Il concetto di educazione in Rogers e Gordon……….30

Cap. 2 IL METODO GORDON COME TERZA VIA EDUCATIVA..34 2.1 Chiarimenti sulla terminologia………………………36 2.2 Il metodo democratico: alternativa educativa ai metodi

punitivo e permissivo……….……………………..43 2.3 Interpretazione di un approccio educativo…………..52

2.3.1 Coping e Modeling…………………….52 2.3.2 Conseguenze su salute e benessere…….56

Cap 3. IL METODO……………………………………………………60 3.1 Il presupposto: la relazione interpersonale………...61 3.2 Il fondamento: la soddisfazione dei bisogni……….69 3.3 La finestra del comportamento…………………….74 3.4 La responsabilità………….………………………..82

Cap 4. L’ASCOLTO ATTIVO……………………………………..….90 4.1 La relazione d’aiuto………………………………..91 4.2 L’abilità dell’ascolto attivo…….…………………..96 4.3 Utilità dell’ascolto attivo………....………………..99 4.4 Condizioni per l’utilizzo………………………….100 4.5 Errori da evitare……………………………….….104 4.6 Altri utilizzi dell’ascolto attivo…………………...106

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Cap 5. L’AUTORIVELAZIONE………………………………….…108

5.1 I Messaggi in prima persona per l’area non problematica……...……....………………….....…..114

5.2 I Messaggi di confronto in prima persona per l’area problematica………………………………....……..117

5.3 Benefici e rischi dell’autorivelazione…...…………121

Cap. 6 IL CAMBIO DI MARCIA…......………………………….…126

Cap. 7 RISOLVERE I CONFLITTI……......………………………..129 7.1 Conflitti di soluzione……...……………………….131 7.2 Conflitti di valori……...………………………..….151 7.3 Aiutare l’altro a risolvere i propri conflitti…...……159

Cap. 8 IL METODO GORDON COME POSSIBILITA’ EDUCATIVA. 163

8.1 Gordon educatore…………..……………….……...163 8.2 Mezzi per acquisire le competenze Gordon…...…...167 8.3 Effetti educativi……………………………...……..170 8.4 Prospettive di utilizzo……………………...……….173

CONCLUSIONI……………………………………………………....182

APPENDICI A. Un credo per le mie relazioni con gli altri (Thomas Gordon)...185 B. La comunicazione efficace…………………………………….187 C. Glossario……………………………………………………….191 D. Gordon Training International…………………………………194 E. IACP…………………………………………………………...195

BIBLIOGRAFIA……………………………………………………..197

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INTRODUZIONE: perché il metodo Gordon per un

educatore

Ci possono essere lunghe discussioni riguardo a cosa significa educare e

cosa significa essere educatore: in un certo senso tutto il percorso di

formazione del corso da noi intrapreso è stato un cammino che ha offerto

spunti e possibilità per approfondire, per guardare in sè stessi e negli altri

e trovare una risposta a queste domande.

Ci possono essere tanti punti di vista rispetto a come si deve educare, a

cosa deve fare un educatore, punti di vista che fanno riferimento a valori,

bisogni e aspettative diversi.

Ma, indipendentemente dai punti di vista e dai valori di riferimento, non

si può negare o discutere un “fatto assoluto”: l’educazione è per sua

natura legata alla relazione. Relazione prima di tutto fra “educando ed

educatore”1, ma anche relazione fra individui e contesto, fra individui e

gruppi.

Ed è proprio per la centralità che nel suo metodo Gordon attribuisce alla

relazione, che il metodo stesso, pur nato prima all’interno di

organizzazioni imprenditoriali e poi applicato alla relazione

1 In questa tesi userò i due termini senza attribuzione di valore, ma solo per indicare in modo conciso una qualsiasi relazione educativa, con una qualsiasi tipologia di utenza

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genitore/figlio e insegnante/allievo, assume un significato ed apre una

possibilità per gli educatori professionali di impostare i propri interventi

in qualsiasi area questi si collochino.

Questa apertura del metodo a tutti gli ambiti educativi è implicita nella

tesi di Gordon: più importante del messaggio e dei contenuti che si

vogliono comunicare è il modo in cui gli stessi vengono trasmessi, è la

capacità di entrare in relazione con l’altro, è la qualità della relazione.

Infatti solo attraverso una buona relazione2 è possibile avere

un’influenza significativa, profonda e duratura sul destinatario

dell’azione educativa.

Il metodo Gordon è proprio una modalità di approccio, un sistema

strutturato di impostare una buona relazione e non una meccanica

sequenza di azioni o una “tecnica”.

C’è anche un’altra parola chiave nel Metodo di Gordon, che risulta

essere una parola chiave anche per l’educatore professionale, ed è

responsabilità.

2 Gordon definisce una buona relazione quella che presenta le seguenti caratteristiche:

Franchezza e Trasparenza, in modo che ciascuno possa essere del tutto sincero e leale con l’altro

Considerazione, perché ognuno sa di contare molto per l’altro Interdipendenza in quanto opposta alla dipendenza dell’uno dall’altro Distinzione, per permettere a ciascuno di crescere e svilupparsi nella propria

unicità, creatività e individualità Rispetto delle reciproche necessità, in modo che i bisogni dell’uno non siano

rispettati a spese dei bisogni dell’altro

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Ogni educatore, che sia professionale o “naturale”, ritiene fondamentale

che la persona con cui ha una relazione educativa “diventi responsabile”.

Ognuno metterà in questo diventare responsabile i contenuti di volta in

volta appropriati al contesto, all’età ecc.., ma la questione non può essere

trascurata, a meno di voler tenere l’altro dipendente.

Si può dire che la struttura del Metodo Gordon si basa su di una corretta

attribuzione della responsabilità: responsabilità dei problemi e delle

soluzioni agli stessi, responsabilità delle emozioni e delle loro

conseguenze, responsabilità di se stessi e delle proprie azioni in rapporto

alle persone e all’ambiente circostanti.

Una volta attribuità la responsabilità a chi di competenza, il Metodo

suggerisce di volta in volta le modalità di comportamento e le azioni più

efficaci per far crescere la relazione, per arrivare alla soluzione dei

problemi, per arrivare alla risoluzione dei conflitti.

Fra le ragioni che possono portare un educatore a scegliere di operare in

riferimento al Metodo Gordon, vorrei infine porre l’accentro sulla

questione dei bisogni.

Nelle riflessioni più recenti, riguardo all’impostazione dei servizi

(sanitari, sociali...) e di conseguenza riguardo all’atteggiamento di chi in

questi servizi opera (come l’educatore professionale), si sta verificando

una svolta: da strutture che tendono a soddisfare le esigenze

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organizzative dei servizi stessi, a strutture che prendono in

considerazione per prima cosa i bisogni di chi accede ai servizi, i bisogni

del cliente3.

Nel pensiero di Gordon la questione dei bisogni è strettamente legata alla

responsabilità e ai conflitti interpersonali: i conflitti nascono rispetto alla

soddisfazione dei bisogni che viene in qualche modo ostacolata

dall’esterno. Ma Gordon non pone l’accento esclusivamente sui bisogni

di chi offre un servizio o di chi vi accede, ma sui bisogni di entrambe le

parti, bisogni che hanno ugual valore all’interno di qualsiasi relazione

(anche di una relazione non paritaria come può essere quella fra

educatore ed educando). Ognuno ha la responsabilità della soddisfazione

dei propri bisogni e delle emozioni che derivano eventualmente dalla

loro frustrazione. Un atteggiamento franco ed onesto da parte

dell’educatore riguardo ai propri bisogni e all’esplicitazione degli stessi,

determinerà nell’altra persona una presa di coscienza e una maggiore

responsabilizzazione rispetto al proprio comportamento, come anche

un’analisi più approfondita dei propri bisogni. Tutto questo condurrà ad

una buona relazione, gratificante per tutte le parti e, a mio parere, anche

una riduzione dei problemi di burn out degli operatori.

3 Andrea Costa – Le nuove competenze dell’educatore. Da Luoghi & Professioni

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Il metodo nella sua impostazione e nella sua “esecuzione” sconvolge chi

lo avvicina per la prima volta perchè sembra rivoluzionare un mondo di

concezioni, di azioni e reazione interiorizzate fin dall’infanzia.

In questo senso la scelta di ispirare la propria azione al Metodo Gordon

richiede la disponibilità a rimettersi in gioco totalmente e ad

“esercitarsi”.

Gordon ritiene che per ottenere i migliori risultati educativi si debba

cominciare ad utilizzare il Metodo il prima possibile (per i genitori

suggerisce fin dalla nascita dei bambini) e questo non solo per il bene

dell’educando, ma anche dell’educatore che piano piano “fa pratica”,

partendo dagli interventi più semplici per arrivare a quelli più complessi

implicati dallo svilupparsi e approfondirsi della relazione e dei bisogni

individuali e reciproci.

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1. THOMAS GORDON E IL SUO PENSIERO

1.1 Cenni Biografici

Thomas Gordon è stato un rinomato psicologo clinico di orientamento

umanistico-esistenziale, che si è dedicato per gran parte della sua vita al

counselling psico-pedagogico.

Egli è anche riconosciuto come un pioniere nell’insegnamento delle

capacità comunicative e dei metodi di risoluzione dei conflitti.

Nato l’11 marzo 1918 a Paris nell’Illinois, alla fine degli studi superiori

ottenne una borsa di studio per frequentare la DePauw University

dell’Indiana, dove conseguì il B.A. (Bachelor of Arts, primo livello di

studi universitari in discipline umanistiche in genere). In questo periodo

sua madre fu ospitalizzata a causa di una depressione: questo fatto spinse

Gordon a desiderare di proseguire gli studi in ambito psicologico.

Si iscrisse pertanto alla Ohio State University (dove conseguì il M.A.

Master of Arts in discipline umanistiche), ma ben presto fu deluso del

tipo di argomenti che venivano presentati nei corsi. Si trattava

principalmente di storia della psicologia, di psicologia sperimentale e di

statistica: niente a che vedere con le persone.

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L’arrivo di un nuovo professore, Carl Rogers, costituì una svolta

decisiva nella vita personale e professionale di Gordon. Rogers divenne

infatti per lui l’insegnate favorito, il maestro, l’amico.

La carriera universitaria di Gordon fu a questo punto bruscamente

interrotta dalla Seconda Guerra Mondiale. Infatti Gordon, che aveva già

una licenza di pilota civile, si offrì volontario per diventare istruttore di

volo nell’aeronautica militare e fu impegnato in questa posizione dal

1942 al 1946.

Finita la guerra, Gordon seguì Carl Rogers alla Chicago University dove

conseguì nel 1949 il Ph.D. (Philosophy Doctor, massimo titolo

accademico che si consegue dopo 3/5 anni di studi e ricerche). Nella

stessa Università egli divenne Assistente e collaborò alle ricerche di

Rogers.

Nello stesso periodo, cominciò a lavorare come consulente in Aziende

nelle quali insegnava a manager e supervisori il suo modello di

leadership centrata sul gruppo.

Gli ottimi risultati ottenuti in queste organizzazioni, in termini di

miglioramento del clima generale, della soddisfazione delle persone,

della collaborazione e della produttività, lo spinsero a lasciare

l’univeristà per dedicarsi a tempo pieno all’attività di consulente

accettando un’offerta presso una società a Pasadena, California.

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Dopo tre anni, egli decise di diventare un consulente indipendente e di

dedicarsi anche all’attività di psicoterapista per bambini etichettati da

scuola o famiglia come emotivamente disturbati, nevrotici, disadattati o

predelinquenti.

Tutte queste esperienze portarono Gordon nel 1962 al suo primo Parent

Effectiveness Training (PET), che si perfezionò nel tempo e divenne nel

1970 un libro che fece scalpore. Tutte le più importanti emittenti

televisive e radiofoniche cominciarono a parlare delle sue idee e in

conseguenza sempre più genitori chiesero di frequentare i PET.

Sull’onda del successo di questi corsi, anche gli insegnanti chiesero una

formazione e così Gordon elaborò i Teacher Effectiveness Training

(TET). Inoltre, tornando ai suoi iniziali interessi per la leadership nelle

organizzazioni, Gordon trasformò i corsi, che già aveva effettuato nelle

Aziende, arrivando a definire i Leader Effectiveness Training (LET).

Tutti questi corsi erano finalizzati a garantire, nei diversi ambiti, una

corretta gestione del rapporto interpersonale, della relazione, interesse

fondamentale di Gordon.

Le idee e i metodi elaborati da Gordon e da lui proposti nei vari training

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furono divulgati sia attraverso scritti4 che attraverso la fondazione di

specifiche organizzazioni5.

Gordon ha ricoperto numerose importanti cariche: presidente

dell’Effectiveness Training Institute e della California State

Psychological Association, consulente della Casa Bianca nel 1970, in

occasione della “Conferenza sui Bambini”, conferenziere per la White

House Fellows. E’ stato inoltre socio della American Psychological

Association e membro della sua divisione di Peace Psychology, membro

della National Peace Foundation e dell’Association of Humanistic

Psychology.

In conseguenza della sua opera ha ottenuto anche vari importanti

riconoscimenti quali: premio alla carriera dalla National Parenting

Association; medaglia d’oro per il suo “duraturo contributo alla

psicologia nel pubblico interesse” dalla America Psycholgical

Foundation; premio alla carriera dalla California Psychological

Association.

4 Gordon è stato autore di oltre 50 pubblicazioni relative alla leadership di organizzazioni, alla comunicazione, al counseling, alla disciplina, alla risoluzione dei conflitti e alla presa di decisioni democratica. Inoltre ha scritto nove libri, pubblicati in 28 lingue e che hanno venduto oltre 6 milioni di copie in tutto il mondo: Group-centered leadership (1955), Parent Effectiveness Training (1970), Teacher Effectiveness Trainig (co-autore Noel Burch – 1974), PET in Action (co-autore la figlia Judith Gordon Sands – 1976), Leader Effectiveness training (1977), Effectiveness Training for women (co-autore la moglie Linda Adams – 1985), Discipline that works (1989), Sales Effectiveness Training (co-autore Carl Zaiss – 1993), Making the patient your partner (co-autore W. Sterling Edwards – 1995) 5 Gordon è stato il fondatore dell’Effectiveness Training Associates e del Gordon Training International (GTI – vedi Appendice D) che si occupano, rispettivamente, della formazione di tutti coloro che lavorano con bambini e giovani e della preparazione di persone autorizzate a far conoscere nel mondo i programmi di training secondo il metodo Gordon.

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E’ stato inoltre nominato per il premio Nobel per la Pace negli anni

1997, 1998 e 1999.

Thomas Gordon è morto il 26 Agosto 2002 a Solana Beach, California,

dove si trova la sede del Gordon Training International, oggi presieduto

dalla moglie Linda.

1.2 Il pensiero psicologico anteriore e contemporaneo

Fondamentali nella rielaborazione e nel pensiero di Gordon sono le idee

e i principi del suo “maestro”, cioè Carl Rogers, e del movimento della

psicologia umanistica, che Rogers stesso contribuì a fondare.

1.2.1 La psicologia umanistica

Nella prima metà del XX secolo, l’ambiente psicologico americano era

dominato da due scuole di pensiero: la psicoanalisi e il

comportamentismo.

Alla fine degli anni ’50, però, un gruppo di psicologi cominciò a

chiedersi come mai le correnti psicologiche dominanti non si

rapportassero alle persone come ad essere umani unici, non

considerassero i problemi reali della vita umana, non riconoscessero la

possibilità di studiare i valori, le intenzioni e i significati dell’esistenza

umana cosciente.

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Su invito di Abraham Maslow e di Clark Moustakas, essi cominciarono a

riunirsi per fondare un’associazione professionale che partisse da punti

di vista più “umani”, puntando l’attenzione su temi quali: la

valorizzazione e il rispetto della persona nella sua libertà, responsabilità

e storicità, l’espressione - qui ed ora - dei sentimenti, l’autocoscienza,

l’autodeterminazione, la spontaneità, il divenire, l’individualità, la

creatività. Quale risultato nel 1961 fu fondata la American Association

for Humanistic Psychology.

Il movimento, rappresentato da tale Associazione, doveva costituire una

terza forza6 che proponesse un approccio concettuale ed esperienziale

più profondo di ciò che significava essere “persone umane”; che

sostenesse l’ipotesi, non seguita dalla psicologia di quel periodo, che

“non ha importanza come un individuo possa essere etichettato o

valutato, egli sarà prima di tutto e profondamente un essere umano”; che

si avvicinasse “ad ogni persona come ad una realtà unica ed irripetibile”

(Maslow).

6 Secondo la terminologia introdotta da Maslow, la psicologia umanistica era la terza forza che andava a contrastare le due forze preesistenti:

- la prima forza, cioè il comportamentismo, che sistematicamente escludeva il dato soggettivo della coscienza, la complessità e il divenire della personalità, in quanto inaccessibili allo studio scientifico inteso come analisi di dati quantificabili del comportamento.

- la seconda forza, cioè la psicoanalisi, che riteneva il comportamento umano determinato essenzialmente dall’inconscio escludendo l’apporto dei valori, della creatività, della capacità di ogni individuo di guidare il proprio percorso di sviluppo personale.

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Gli esponenti principali della psicologia umanista degli inizi furono

Abraham Maslow, Carl Rogers e Rollo May.

Ognuno di loro apportò al movimento contributi specifici:

- Maslow propose di interpretare lo sviluppo umano come la

tensione verso il soddisfacimento di bisogni di ordine via via

superiore. Maslow ha rappresentato la gerarchia dei bisogni

attraverso una piramide di cinque livelli (partendo dalla base):

Sopravvivenza

Sicurezza

Ambito sociale e delle relazioni

Stima successo

Autorealizzazione

Egli ritenne che le persone autorealizzate sono quelle che hanno

riconosciuto e soddisfatto tutti i livelli di bisogni.

- Rogers concentrò la propria attenzione in ambito terapeutico

elaborando un nuovo tipo di rapporto terapista – cliente:

l’approccio centrato sulla persona (come trattato nel paragrafo

1.2.2)

- Rollo May rappresentò la corrente europea dell’esistenzialismo e

della fenomenologia ed enfatizzò, all’interno della psicologia

umanistica, gli aspetti tragici della condizione umana.

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I contributi della psicologia umanistica alle scienze umane negli anni ’70

e ‘80, si possono condensare in tre grandi aree:

1. Visione della natura umana:

• ogni essere umano è unico e irripetibile,

• l’essere umano ha la capacità di sviluppare

competenze per autodeterminarsi e realizzarsi,

• l’intenzionalità e i valori etici sono forze psicologiche

potenti per orientare il comportamento.

Da queste premesse segue lo sforzo di migliorare le

qualità essenzialmente umane di capacità di scelta,

creatività, libertà, rispetto di se stessi, autoaffermazione

anche attraverso interventi che facilitino le abilità

personali e di interazione sociale, l’assunzione della

responsabilità di se stessi, in particolare durante

momenti critici e di transizione.

2. Metodi di indagine del comportamento umano: allargando

la visione dell’esistenza umana a più livelli (fisico, organico

e simbolico7), la psicologia umanistica pone l’accento sugli

approcci fenomenologici e clinici nello studio della natura

umana da aggiungere all’approccio (che solo viene

7 Per la psicologia umanistica, la dimensione simbolica della coscienza è quella esclusivamente umana dei valori, della cultura, della decisione e della responsabilità personale

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considerato legittimo dal comportamentismo) costituito da

test sperimentali su dati quantificabili del comportamento.

Essa, inoltre, incoraggia a cercare nuovi approcci alla

ricerca volti ad approfondire la ricchezza della natura umana

stessa.

3. Psicoterapia: la prospettiva globale e multidimensionale

rispetto all’umanità ha generato uno spettro molto ampio di

approcci psicoterapici: psicologico, psicosociale,

psicosomatico. Inoltre, la psicologia umanistica ha proposto

che la psicoterapia fosse di valido aiuto non solo in caso di

difficoltà a vari livelli, ma anche per persone che, pur

essendo sane e competenti, volessero esplorare più

profondamente le proprie potenzialità.

Primo e più conosciuto approccio terapeutico della

psicologia umanistica è quello di Rogers.

1.2.2 Rogers

Carl Rogers nacque nel 1902 negli Stati Uniti. Al termini degli studi, egli

decise di impegnarsi nella ricerca8 e contemporaneamente fece

esperienza nell’ambito del colloquio clinico.

8 Significativo all’interno del suo pensiero, è il lavoro presso il dipartimento di studi sull’infanzia della Society for the Prevention of Cruelty to Children.

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Nella sua prima opera importante (Counseling and psychotherapy –

1942) egli attaccò implicitamente le teorie a priori sulla personalità e, fra

queste, la psicoanalisi. Infatti Rogers riteneva che nessuno occupasse una

posizione migliore del soggetto nel conoscere quali fossero i suoi

problemi, di conseguenza suggeriva l’abbandono di tutti i preconcetti e

un ritorno “ingenuo” al reale umano.

Nel 1950, con Client-centered therapy9, egli precisò il metodo del

colloquio non direttivo centrato sul cliente. Egli introdusse questa nuova

parte della dicitura “centrato sul cliente” per evitare, come talvolta si

verificava, di scambiare “non direttività” con “non interventismo”, e

contemporaneamente per sottolineare l’importanze del ruolo attivo del

cliente all’interno del colloquio.

La posizione di Rogersrispetto ai movimenti a lui precedenti o

contemporanei lo vedeva:

- appartenere al movimento dell’antipsichiatria

9 Rogers ha deliberatamente introdotto il termine cliente al posto di paziente per denotare l’originalità di un nuovo tipo di relazione nella quale l’assistito sceglie di farsi aiutare senza però abbandonare nè la sua libertà, nè la sua responsabilità nella soluzione delle sue difficoltà. Il termine cliente assume cioè in Rogers una valenza positiva. Il cliente è una persona che ha:

diritto di rispetto libertà di esprimere la propria opinione libertà di decisione

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- porsi come uomo di rottura rispetto agli psicologi di scuola, cioè

rispetto a coloro che si ponevano strettamente all’interno di una

linea interpretativa nel trattare ogni singolo caso10.

- essere psicologo umanista, cioè attento alla “persona umana”

- essere fenomenologo, cioè attento e interessato non tanto ai

paradigmi universali, quanto al caso singolo.

Alla base del pensiero di Rogers c’era la convinzione che ogni persona

fosse libera, potenzialmente attiva, buona, competente e che fosse in

grado di andare avanti in modo indipendente, se aiutata a superare

momenti critici 11.

Da tale base, egli identificò come premesse dell’intervento terapeutico:

al centro del problema deve essere posto il titolare dello stesso

il miglior conoscitore di un problema è la persona che ce l’ha

la soluzione, comunque elaborata, non ha significato se la persona

non la mette in pratica

L’approccio del terapista, secondo Rogers, doveva essere quello di

prendere in carico contemporaneamente il problema e la persona, il

10 Rogers non considerava nemmeno il colloquio non direttivo centrato sul cliente come l’unico modo per risolvere qualsiasi tipo di problema, riteneva invece che fosse opportuno integrare le varie metodologie. Per esempio, per eliminare delle dipendenze (da alcol, droga…) suggeriva l’utilità di impiegare, come primo passo, tecniche di ricondizionamento della persona. 11 Questa convinzione era condivisa da Maslow, ma non da tutti gli psicologi umanisti.

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problema in quanto dato osservabile e la persona in quanto unico

conoscitore del vissuto rispetto al dato.

Il terapista, poi, doveva mettere in atto tre abilità (skills) fondamentali,

che da sole sarebbero state sufficienti a facilitare il cliente nella

risoluzione del suo problema:

1. accettazione incondizionata12

2. empatia13

3. congruenza14

Ciò che è essenziale puntualizzare è che per Rogers tali abilità non erano

“tecniche” codificate da impiegare, ma erano un modo di essere del

terapista, da lui definito counselor.

La comunità internazionale del tempo aveva contestato tale approccio,

asserendo che se una persona conosceva così bene il suo problema e

12 É la capacità dell’operatore di accettare il cliente senza giudicarlo, anche quando manifesta valori discordanti dai suoi, di lasciare all’individuo la libertà di scelta rispetto a quello che va emergendo nella terapia. 13 È la capacità dell’operatore di:

- sentire il mondo personale del cliente come se fosse il “suo”, senza però mai giungere ad una totale identificazione,

- trasporre e rimandare tale mondo a livello verbale. Questa capacità consente al cliente di sentirsi compreso fino in fondo e di riuscire a simbolizzare correttamente il sentimento provato, attraverso la competenza verbale del counselor. 14 Tale abilità richiede che “il terapeuta sia, nell’ambito della relazione, autentico e ben integrato,..., sia liberamente e profondamente se stesso e la sua esperienza reale sia fedelmente rappresentata nella coscienza. Non assume perciò in nessun caso atteggiamenti di circostanza” (Rogers e Kinget – 1965). Rogers suggerisce che il grado di difficoltà di questa abilità cresce con il livello di disturbo del cliente, ma essa è quella che apre il maggior numero di soluzioni creative all’interno della relazione.

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aveva in sè le capacità di risolverlo, non si capiva perché dovesse

chiedere aiuto.

Rogers rispose che la questione si incentrava su di una momentanea

incapacità di azione del detentore del problema, conseguente

all’elaborazione di una modalità di interpretazione affettiva e cognitiva

del proprio sé come incapace (senso di impotenza appresa). Fornendo al

soggetto in difficoltà l’occasione di sentirsi accettato e accolto in modo

incondizionato, si modificava il quadro interpretativo del sé e si favoriva

un percorso con obiettivo “empowerment”, cioè con obiettivo la

riscoperta del proprio saper essere e saper fare.

Le tre conquiste fondamentali, che le scienze umane devono a Rogers,

conquiste che hanno rivoluzionato totalmente il pensiero psicologico,

psicoterapico ed educativo15, sono:

I. Spostamento di enfasi, nell’ambito di una relazione di aiuto, dal

ruolo dell’operatore/esperto al ruolo del cliente/persona portatore

del problema

II. Spostamento di enfasi dalle abilità tecnico procedurali, alle

cosiddette qualità umane, sopra elencate, dell’operatore di aiuto

15 Il modello educativo non direttivo è quello che, partendo dal principio di attualizzazione (= in assenza di ostacoli un soggetto si sviluppa naturalmente verso la maturità), prevede che l’educatore stabilisca con l’educando un rapporto di accettazione, considerazione positiva, sostegno, al fine di rilanciare le capacità di sviluppo autonomo del soggetto (vedi § 1.4).

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III. Spostamento dell’attenzione verso il processo di aiuto in quanto

tale, inteso come oggetto epistemologico in sé, del quale è

importante studiare le “condizioni interne” di efficacia.

Attraverso la sua attenzione al qui e ora di una relazione di aiuto, Rogers

ha minato la tendenza opposta a sovrastimare l’importanza dei grandi

sistemi teorici della psicologia, dai quali si pretendeva di far derivare

rigide regole procedurali per l’intervento o la terapia (Es. psicoanalisi).

Secondo Rogers, la situazione pratica contiene in se stessa una

complessità che la rende unica e, come tale, oggetto di studio.

Grazie a Rogers, la scarsa rilevanza delle teorie sovraordinate è

attualmente largamente accettata nelle psicoterapie: tutte le scuole di

pensiero possono funzionare, è determinante invece la presenza di

coerenti abilità di relazione nei terapeuti.

1.2.3 Gordon

Fra i concetti più importanti che Gordon riprende dal pensiero che lo

precede, si possono evidenziare:

- Il qui ed ora della psicologia umanistica: Gordon valorizza e

carica di significato all’interno di una relazione il qui ed ora dei

sentimenti, provati ed espressi, dell’interazione e della

comunicazione.

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- La Piramide dei bisogni (Maslow): come già si è accennato

nell’introduzione e come verrà illustrato dettagliatamente in

seguito, il concetto di bisogno è alla base di tutto il Modello di

Gordon

- Le qualità personali del Counselor (Rogers), che Gordon

rielabora passando da un ambito terapeutico ad un ambito

educativo, giungendo a definire: a partire dall’empatia e

dall’accettazione incondizionata la tecnica dell’Ascolto Attivo e a

partire dalla congruenza il concetto di Autorivelazione.

Gordon ritiene che chiunque possa imparare il suo metodo purchè sia

disposto:

- ad accettare di avere in sè dei bisogni e, quindi, ad accettare di

riconoscerli di fronte a se stesso e agli altri

- a crescere nelle qualità proprie di chi si impegna in una relazione

di aiuto

Tale disponibilità è la premessa alla messa in discussione di se stessi

richiesta dal suo Metodo.

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1.3 Lo sviluppo del pensiero di Gordon e il suo Metodo

Se come visto nel paragrafo precedente, la riflessione di Gordon si fonda

sulle conquiste di pensiero di Rogers e della psicologia umanistica, essa

comunque si sviluppa attraverso varie tappe.

Infatti, essendo il risultato di tale riflessione, cioè il cosiddetto Metodo

Gordon, non tanto una procedura, una tecnica, quanto piuttosto un

sistema di pensiero, un approccio globale alle relazioni e in particolare

alle relazioni educative, il percorso che ha portato Gordon ad elaborare

tale sistema è stato necessariamente il percorso di una vita di esperienze,

osservazioni, incontri significativi, studi e riflessioni.

Una precoce esperienza che ha segnato il pensiero di Gordon è stato

l’incontro con Miss Grace Cox, insegnante di una scuola domenicale.

Ella riusciva a creare in classe un clima che faceva sentir bene gli

studenti, riusciva a fare in modo che ad essi piacesse imparare, aveva un

modo speciale di condurre la classe, riuscendo a trasferire ai bambini la

responsabilità della gestione della classe stessa. Di conseguenza essi si

erano creati gli spazi per eleggere i propri responsabili, per formare delle

commissioni con compiti specifici, per prendere decisioni riguardo gli

argomenti che volevano discutere. I bambini avevano addirittura

cominciato ad assumersi a turno, nelle varie domeniche, il compito di

leaders o di facilitatori.

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Anni dopo Gordon comprese che Miss Cox aveva una percezione

profonda della gestione partecipata, dell’insegnamento centrato sullo

studente, della direzione democratica: aveva imparato che un vero leader

potenzia (empowerment) le persone che gli sono sottoposte.

Il secondo incontro fondamentale è stato, come si è già detto, quello con

Carl Rogers.

In modo simile a Miss Cox, Rogers/insegnate teneva seminari che erano

centrati sul gruppo e nei quali ogni partecipante sceglieva il proprio

progetto e lo esponeva al gruppo.

La collaborazione con Rogers/ricercatore, vedeva Gordon studiare

presso il Counseling Center della Chicago University i diversi approcci

terapeutici. I risultati delle ricerche mostrarono che, utilizzando il

reflective listening16 e vivendo un atteggiamento di accettazione e

fiducia nelle capacità del cliente di risolvere i propri problemi, si

verificavano nello stesso dei cambiamenti positivi e duraturi. E questo in

contrasto con l’approccio terapeutico in cui al cliente veniva detto quello

che non andava in lui e come fare per risolvere i suoi problemi.

16 Il reflective listening è un metodo in cui il terapista dà al proprio cliente un feed back dei contenuti e dei sentimenti espressi. Questa metodologia comunica al cliente che il terapista ha capito quello che quest’ultimo sta dicendo e offre, se necessario, allo stesso la possibilità di correggere. Inoltre il reflective listening consente al cliente di entrare meglio in contatto con i propri sentimenti, dal momento che gli vengono “restituiti” dalle parole del terapeuta.

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Le ricerche dimostravano cioè che attraverso il reflective listening e

l’accettazione, il terapeuta offriva al cliente uno spazio in cui potersi

esprimere liberamente senza timore di sentirsi giudicato e che questo

spazio era curativo.

Da qui la convinzione di Gordon che non bisogna risolvere i problemi al

posto dell’altro, ma bisogna facilitare l’altro nell’utilizzare le proprie

risorse per giungere alle soluzioni migliori per se stesso.

L’esperienza come istruttore di volo nell’esercito fu di fondamentale

importanza per consentire a Gordon di cogliere quello che sarebbe stato

l’interesse professionale della sua vita: sviluppare corsi per aiutare le

persone a migliorare le proprie relazioni.

Gordon percepì che le altissime percentuali di fallimento (intorno al 65%

di abbandoni) dei corsi di addestramento erano dovuti alla brutalità con

cui gli addestratori trattavano gli allievi: urlare e rimproverare non

produceva apprendimento, anzi talvolta conduceva ad incidenti.

Egli allora convinse i superiori a consentirgli di sperimentare un nuovo

programma di addestramento nel quale si cambiava semplicemente il

modo in cui gli istruttori trattavano gli allievi piloti e si stabiliva, di

conseguenza, un clima in cui la paura non costitutisse un elemento di

distrazione. L’esperienza dimostrò che gli studenti riuscivano a superare

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i test di volo e a volare in sicurezza. Le percentuali di successo

divennero quelle che prima erano di insuccesso

Anche la tappa professionale di consulente di un’azienda, durante la

quale ebbe la possibilità di applicare le teorie del modello di direzione

centrata sul gruppo, gli consentì di vedere come il pensiero elaborato nel

campo dell’apprendimento e del setting terapeutico, potevano essere

generalizzati: arrivò così a definire un training di leadership partecipata

per manager d’azienda.

Un momento di grande riflessione per Gordon fu anche quello in cui

operò come Psicoterapeuta per ragazzi definiti “difficili”.

Gordon fu colpito dal fatto che nel corso dei colloqui, che lui conduceva

“ascoltando”, tali ragazzi apparivano normali, sani, non disturbati. Essi

riuscivano a parlare liberamente dei conflitti e delle liti all’interno della

famiglia e a descrivere le situazioni nelle quali si erano sentiti trattati

ingiustamente. Molti di loro ritenevano che erano i genitori o gli

insegnanti ad avere problemi e riferivano che genitori e insegnanti non li

ascoltavano e non li capivano. Un commento ricorrente era: “Non posso

mai parlare con i miei genitori come parlo con te”.

D’altra parte, ascoltando i genitori, essi ritenevano di non avere problemi

o necessità di terapia. In effetti anche alla valutazione psicoterapica essi

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erano persone efficaci dal punto di vista del funzionamento sociale, ma

esprimevano il disagio di “non essere ascoltati” dai propri figli.

Il pensiero di Gordon arrivò ad una svolta quando si rese conto che il

problema non era negli individui, ma nelle loro relazioni, nel loro modo

di comunicare. Di conseguenza pensò che le abilità che potevano

migliorare le relazione in un ambiente di lavoro potevano con opportune

contestualizzazioni essere trasferite anche in famiglia.

Il passaggio concettuale dal problema particolare (lavorativo, familiare,

di insegnamento) all’ambito delle relazioni interpersonali, impegnò

Gordon in un lungo periodo, ma rese il suo pensiero e il suo approccio

uno strumento flessibile a situazioni diverse e sempre allargabili, dal

momento che comunque la relazione è la base di ogni aspetto della vita

umana.

Di conseguenza i vari training elaborati da Gordon nel corso degli anni,

per genitori (PET) per insegnanti (TET), per leaders (LET), trasmettono

conoscenze e strumenti che vanno al di là dello specifico ambito, per

comunicare un approccio generale alle relazioni interpersonali,

approccio che rende le persone e i gruppi più efficaci nelle relazioni

stesse e nella soluzione di problemi e conflitti.

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1.4 Il concetto di educazione in Rogers e Gordon

Naturalmente il Metodo Gordon, essendo un metodo che può essere

considerato educativo sia nelle sue finalità, cioè per i destinatari della

sua azione, che per le persone che intendono applicarlo, sottintende un

preciso concetto di educazione. Tale concetto presuppone le conquiste

della psicologia umanistica e di Rogers, oltre al personale contributo di

Gordon.

L’educazione umanistica parte dai seguenti assunti:

- la società si cambia attraverso al valorizzazione e il rispetto dei

singoli

- Ogni persona ha la capacità di gestire il proprio processo di

sviluppo e autorealizzazione

- le persone non si limitano a reagire all’ambiente, ma sono attive,

creative e dinamiche; hanno la capacità di rispondere in modo

intenzionale ai condizionamenti genetici, biologici, psicologici e

sociali

Di conseguenza essa sottolinea che la responsabilità dei singoli e della

collettività è quella di comprendere, rispettare e facilitare i processi di

sviluppo e maturazione delle persone.

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La convinzione di Rogers (non condivisa da tutti gli psicologi umanisti)

nella sostanziale positività delle persone e del loro processo di

attualizzazione, lo portò a vedere l’educazione come un processo

essenzialmente autogestito, centrato sull’impegno personale, sulle

capacità di iniziativa e di autovalutazione dell’educando. In tale

processo, la persona si apre all’interazione con l’altro se percepisce che

la sua personale modalità di crescita e autorealizzazione è garantita e

rispettata.

Per Rogers, quindi, la condizione educativa ideale è quella in cui

l’educatore, persona genuina e reale, entra con empatia nel mondo

dell’altro e riesce a creare un clima di rispetto, fiducia e libertà che

facilita il processo di crescita personale.

Egli ritiene che l’empatia sia di per sè agente educativo, perchè rilassa,

dà conferma, tranquillizza, comunica accettazione: in tale condizione la

persona può evolvere in qualsiasi direzione, ma di fatto spesso sceglie

strade costruttive e positive.

Per Rogers il processo educativo è molto fluido, aperto a qualunque

proposta e attività “accettabile” per il soggetto; è un itinerario molto

personale, perchè ogni persona ha un suo modo migliore di funzionare.

Per questo motivo Rogers ha scarsa fiducia nelle metodologie strutturate.

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Gordon ritiene invece che sia possibile mantenere fede ai principi

umanisti e rogersiani dell’educazione pur agendo in un setting

strutturato, in cui le “tecniche” di programmazione e realizzazione dei

processi abbiano un valore simbolico alla luce dei principi sottostanti.

L’educatore attraverso tali tecniche dovrà facilitare un processo che resta

essenzialmente autogestito, dovrà aiutare la persona ad educare se stessa.

L’educatore sarà prima di tutto “una persona” che incentrerà la sua

attenzione sulla qualità della relazione e che promuoverà l’espressione

delle idee, dei sentimenti e dei bisogni,

La soddisfazione dei bisogni è per Gordon il punto di partenza in ambito

educativo. Egli ritiene infatti che qualsiasi comportamento sia motivato

dal desiderio di soddisfare un bisogno.

La svolta concettuale e personale dell’educatore consiste, quindi, nel

rinunciare a giudicare i comportamenti come buoni o cattivi, ma ad

analizzarli per scoprire il bisogno sottostante, perchè è la conoscenza di

questo bisogno che guida l’educatore e l’educando insieme a cercare un

comportamento più accettabile e/o più funzionale alla soddisfazione del

bisogno stesso.

In pratica, per Gordon l’educazione è protesa a favorire negli individui la

capacità di:

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• soddisfare i propri bisogni, cercando di non frustrare quelli degli altri

• gestire e risolvere i conflitti, nel momento in cui i modi dei diversi

individui di soddisfare i bisogni interferiscono.

Una società che soddisfa i propri bisogni e quelli dei singoli, è una

società sana e costituita da individui sani, una società che promuove il

benessere di tutti.

Questo è il risultato che Gordon ritiene di poter garantire con la sua terza

via educativa.

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2. Il Metodo Gordon come terza via educativa

Il problema della disciplina e dell’utilizzo dei metodi “forti” per

stabilirla era tornato di grande attualità in America negli Anni ’80 a

seguito dell’attentato a Reagan e di una serie di studi che portavano alla

ribalta dell’opinione pubblica la questione della violenza, del vandalismo

e della delinquenza nelle scuole.

La soluzione che veniva proposta a tutti i livelli era quella di tornare

“alla disciplina vecchia maniera” (da un discorso di Reagan), di

ricordare che “le punizioni corporali nei confronti dei bambini

recalcitranti sono da molto tempo un metodo accettabile per promuovere

un buon comportamento e infondere i concetti di responsabilità e decoro

nella testa birichina degli scolari” (una sentenza della Corte Suprema

degli Stati Uniti), di ricordare ai genitori che dovevano tenere i propri

figli sotto controllo per il loro bene, per fare in modo che non

diventassero delinquenti, che rimanessero sottoposti all’autorità (che di

volta in volta poteva essere la loro, della scuola, dello Stato o di Dio).

Certamente la questione della disciplina, dell’uso dei metodi coercitivi

trovava Gordon molto sensibile ed attento, anche grazie alle sue

esperienze di vita, prima di tutto quella con la disciplina imposta in

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modo violento nell’esercito, e ai risultati di ampi studi sulla violenza in

famiglia che dimostravano quanto quest’ultima fosse diffusa, anche in

termini che andavano oltre la punizione occasionale, per giungere a

lesioni gravi.

Gordon riteneva che nell’America di quel periodo determinate

affermazioni risultassero ben accette al mondo adulto in quanto si

inserivano in un modo di pensare assorbito fin dall’infanzia, prima subìto

e poi riprodotto. Riteneva, però, che nel presentare un ritorno ai metodi

vecchia maniera non si presentassero anche le conseguenze negative che

da essi derivavano o si cadeva per reazione nell’atteggiamento opposto,

ma comunque nocivo, del permissivismo.

Queste stesse convinzioni profonde, per quanto espresse in modo meno

duro e assolutistico, sono riconoscibili nel parlare quotidiano di molti:

una sberla non ha mai fatto male a nessuno, una pacca ogni tanto ci

vuole perché il bambino impari….

E se in Italia, diversamente da molti stati degli USA, a livello di

istituzioni (scuola e altri ambiti educativi) l’uso della violenza fisica è da

tempo bandito per legge, c’è da chiedersi se altre forme di coercizione e

violenza più sottili non siano comunque portati avanti sulla base di

queste convinzioni profonde, per esempio attraverso parole “violente”

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(insulti, svalutazioni), ricatti o minacce (se ti comporti bene, se ti

comporti male, allora...)

Gordon affermava con chiarezza che qualsiasi forma di coercizione

aveva le medesime conseguenze e si doveva eliminare. Affermava anche

che tante diverse forme di coercizione sono presenti nei nostri

comportamenti e nel nostro modo di esprimerci di tutti i giorni, senza

che ce ne rendiamo conto.

In questo senso, un discorso sulla disciplina imposta tramite punizioni,

che per un educatore può sembrare superfluo perché escluso per

principio, non è poi così inutile perché la riflessione sul proprio utilizzo

di metodi coercitivi resta un momento significativo precedente

all’applicazione del Metodo di Gordon.

Infatti, fra gli scopi di tale metodo c’è anche quello di aiutare le persone

ad eliminare la violenza e l’uso del potere da tutti gli ambiti di vita, cioè

di fare in modo che le strategie impiegate in ambito educativo e/o per la

risoluzione dei conflitti non siano strategie che tendano a fare qualcosa

all’altro (= concettualmente una forma di coercizione) bensì a fare

qualcosa con l’altro.

2.1 Chiarimenti sulla terminologia

Nella parte iniziale di questo capitolo sono stati utilizzati termini, quali

disciplina, potere, metodi coercitivi, che è importante precisare insieme

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ad altri termini che verranno utilizzati in seguito, per non incorrere in

fraintendimenti.

Il trovare accordo riguardo la disciplina e la necessità di indurre un altro

ed essere disciplinato può dipendere dal significato preciso che si

attribuisce a questi termini.

Il sostantivo disciplina può evocare ordine, organizzazione,

collaborazione, il conoscere e seguire norme e procedure. Può evocare

inoltre un riguardo per i diritti degli altri. In tal senso molti sarebbero

d’accordo nel ritenere che la disciplina in un individuo sia qualcosa di

auspicabile e che vale la pena di trasmettere a bambini e ragazzi.

Molto più suscettibile ad essere messo in discussione sarebbe il verbo

disciplinare perché potrebbe essere inteso sia nel senso di educare,

istruire che nel senso di tenere sotto controllo, dirigere, contenere, tenere

a freno, limitare; e a nessuno piace essere diretto o limitato, tanto meno

ai ragazzi.

In un certo senso si potrebbe dire che esista un sostanziale accordo sul

fine che si vuole raggiungere, ma non sui mezzi da utilizzare per

raggiungerlo.

Il concetto di disciplina porta ad un’ulteriore riflessione: quella sui limiti.

I limiti in sé sono qualcosa di funzionale alla convivenza sociale.

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Qualsiasi educatore, genitore, insegnante sa che è importante per i

ragazzi capire che ci sono delle limitazioni al proprio comportamento per

il proprio benessere e per il benessere di chi sta loro vicino.

Quello che spesso non viene abbastanza preso in considerazione è chi

deve stabilire tali limitazioni e come: ancora una volta la differenza fra

fini e mezzi. Se il disciplinare è inteso come forzare sull’altro dei limiti

non condivisi, per quanto tali limiti siano giusti e ragionevoli, allora si

stanno usando mezzi coercitivi, anche se magari non violenti, per

controllare l’altro.

Sempre legati a disciplina e limiti, entrano in gioco altri due concetti,

quelli di controllo e influenza. Fra essi esiste una differenza

fondamentale: se la disciplina del tipo informare/educare è volta ad

influenzare, quella del tipo dirigere/limitare è sempre volta a tenere sotto

controllo. Il passaggio fra influenza e controllo è, però, molto sensibile e

talvolta può succedere che nello sforzo di comunicare ad un altro un

valore positivo, nel tentativo di influenzarlo positivamente, si cada in

buona fede nel tentativo controllarlo con atti di tipo coercitivo.

In realtà è importante tenere presente che un’influenza reale su di

un’altra persona si ottiene in modo inversamente proporzionale all’uso

del controllo e di mezzi coercitivi (quali possono essere punizioni o

minacce).

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In particolare per un educatore a contatto con bambini, Gordon

suggerisce che egli “acquisirà maggiore influenza sui bambini quando

rinuncerà ad utilizzare il suo potere per tenerli sotto controllo”17.

Si inserisce quindi a questo punto l’ultima fondamentale differenza:

quella fra potere ed autorità.

Gordon ritiene che spesso le persone utilizzano questi due termini come

se fossero sinonimi, non avendo riflettuto sul fatto che esistono quattro

tipi di autorità. Una schematizzazione di questi quattro tipi è molto

importante per un educatore, che spesso si vede confrontato nel lavoro

quotidiano con la necessità di essere autorevole18 e con la necessità di

chiarire a se stesso cosa questo termine implichi.

1. Autorità basata sulla competenza (autorità C): essa è spesso

definita come autorità conquistata, è quella cioè che deriva dalla

conoscenza e dall’esperienza di una persona, dai sui studi, dalle

sue capacità, dalla saggezza riconosciuta. Esempi: nella mia

famiglia allargata l’autorità di mia mamma a smacchiare qualsiasi

cosa, in una scuola la competenza di un insegnante rispetto alla

propria materia…

17 Tale argomento sarà approfondito nel terzo capitolo. 18 La questione è sollevata anche dal Codice Deontologico dell’Educatore, proposto dall’ANEP: nel capitolo che riguarda i doveri dell’educatore nei confronti dell’utente, il codice impone di non utilizzare “tecniche di costrizione o manipolative”, ma suggerisce di intervenire con “autorevolezza e determinazione” nell’ambito di una programmmazione interdisciplinare.

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2. Autorità basata sulla posizione o designazione (autorità L =

lavoro): essa può anche essere definita autorità designata o

legittima ed è correlata a mansioni lavorative, doveri, funzioni,

responsabilità di una persona, che siano ben chiari e codificati.

Quest’ultima caratteristica è la chiave per fare sì che tale autorità

funzioni nei rapporti umani: le persone coinvolte devono

veramente accettare, approvare e sottoscrivere il diritto di un

individuo “dotato di autorità” a dirigere alcuni dei loro

comportamenti.

L’autorità L diventa uno strumento di straordinaria potenza

nell’influenzare il comportamento quando i doveri e le

responsabilità sono resi legittimi attraverso il coinvolgimento delle

parti in un processo decisionale di gruppo che si conclude con una

soluzione accettabile per tutti. Questa precisazione è di

fondamentale importanza per un educatore: egli vedrà riconosciuta

più facilmente la sua autorità di ruolo professionale, se partirà nel

suo intervendo dalla definizione di regole condivise.

3. Autorità basata sui contratti informali (autorità I = impegni e

intese): essa è il risultato di numerosi accordi, intese e contratti

che le persone stipulano nelle loro interazioni quotidiane. Questo

tipo di autorità trae la sua potente influenza dall’impegno

personale che implica. Riferendosi alla relazione educatore-

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educando (o, in modo analogo, genitore-figlio, manager-

subalterno) essa diventerà effettiva solo se ritenuta vincolante da

entrambe le parti: se per esempio un genitore si impegna a fare

una determinata cosa per il figlio e poi se ne dimentica, allora allo

stesso modo il figlio non manterrà il proprio contratto in una

occasione successiva. Per un educatore il mantenere un impegno

preso con il proprio utente può implicare la necessità di tenerne

memoria scritta, così che anche il resto dell’equipe ne sia a

conoscenza e lui stesso non se ne dimentichi.

4. Autorità basata sul potere (autorità P): essa deriva dal fatto che

una persona detiene un potere su di un’altra, potere di comandare,

dominare, costringere, piegare al proprio volere, far fare agli altri

quello che non vogliono fare. Ad essa, di solito, si fa

implicitamente riferimento quando si parla di genitori e insegnanti

che devono far rispettare l’autorità, quando si pensa che i bambini

devono essere ubbidienti, quando si parla di “gerarchia di autorità”

nelle organizzazioni.

Questo è il tipo di autorità che un educatore utilizza quando

impronta il proprio metodo educativo al potere delle ricompense e

delle punizioni. E questo stesso è il tipo di autorità che si perde

quando la “presa” sull’educando delle stesse ricompense e

punizione viene meno con l’evoluzione della persona.

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Gordon ritiene che non pensare all’autorità in termini di questi quattro

tipi può generare problemi nelle relazioni.

Infatti, in generale le persone, adulti o minori che siano, accettano le

autorità C, L ed I (con le precisazioni indicate per ciascuna) e di

conseguenza l’utilizzo di tali tipi di autorità non logora le relazioni, anzi

può generare delle influenze reciproche positive.

Quasi mai, invece, le persone rispettano chi detiene un’autorità di tipo P,

anche se magari lo temono. In una relazione, però, la paura per il potere

di solito determina, in chi è soggetto a tale potere, azioni di rivalsa,

opposizioni, ribellioni, oltre a sentimenti di risentimento o addirittura

odio verso chi detiene il potere stesso. In questo modo la relazione è

deteriorata, e gli effetti sono di controllo esterno, ma non di influenza

profonda e di conseguente controllo interno.

L’aver puntualizzato i termini precedenti ha un riscontro sia “teorico”

all’interno del sistema di pensiero di Gordon, che “pratico” in termini di

approcci e di obiettivi educativi (il voler ottenere disciplina imposta

dagli altri o autodisciplina, controllo esterno o controllo interno, buone

relazioni o relazioni improntate alla lotta del potere fra chi tenta di

imporlo e chi si ribella, ecc..) così come si cercherà di illustrare nel

prosieguo di questa tesi.

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2.2 Il metodo democratico: alternativa educativa ai metodi

punitivo e permissivo

Gordon distingue tre diversi approcci educativi. Potremmo distinguere

tali approcci in base all’attribuzione del potere:

Metodo punitivo: potere all’educatore

Metodo permissivo: potere all’educando

Metodo democratico: nessuno ha potere sugli altri

Il metodo punitivo

Tale metodo potrebbe anche essere definito autoritario, secondo la

notazione adottata da Diana Baumrind in un suo studio sui

comportamenti genitoriali (1971). Secondo la Baumrind, un genitore, ma

naturalmente il principio resta lo stesso per qualsiasi educatore che adotti

tale metodo, risponde principalmente alle seguenti caratteristiche:

- cerca di plasmare, controllare e valutare il comportamento, gli

atteggiamenti del’educando, sulla base di criteri assoluti

- dà valore prioritario all’obbedienza, al rispetto per l’autorità, al

lavoro, alla tradizione e al mantenimento dell’ordine

- scoraggia l’interscambio dialettico

- scoraggia l’indipendenza e l’individualità dell’educando

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Il metodo educativo punitivo utilizza tre strumenti: la punizione, la

ricompensa19 e la lode20. E’ importante puntualizzare che tali strumenti

devono essere intesi in senso lato: per esempio una punizione può non

essere solo corporale, ma anche psicologica.

E’ possibile che molti siano d’accordo sul fatto che le punizioni non

producano effetti positivi e quindi non siano da utilizzare. Gli stessi,

però, potrebbero pensare che ricompense e lodi siano utili in una

relazione, in particolare se educativa, e determinino il miglioramento

della qualità della relazione stessa, l’apprendimento e la crescita

dell’educando, perché soddisfano bisogni “concreti e psicologici” (i

rinforzi primari e secondari del comportamentismo).

19 Ampi studi hanno dimostrato che, perché ricompense e punizioni funzionino come metodo educativo, è richiesta una padronanza specifica delle condizioni per il loro utilizzo nonché degli effetti collaterali non desiderati che possono verificarsi. I risultati di tali studi suggeriscono che, in realtà, ricompense e punizioni sono veramente incisivi solo nelle mani di esperti e in situazioni strutturate (vedi tecniche comportamentali) 20 La lode può essere definita come un messaggio verbale che comunica una valutazione positiva di una persona, di un suo comportamento, di un risultato da lei ottenuto. Già nella definizione è presente un nodo critico di questo strumento: la valutazione. Una valutazione, positiva o negativa, è comunque un giudizio espresso da una persona che, implicitamente, si considera e viene considerata “superiore” per capacità, grado, esperienza..., nei confronti di una persona “inferiore”. Ed è proprio la percezione di essere stati sottoposti ad un giudizio, che può generare nell’educando risposte impreviste da chi ha creduto di lanciare un messaggio incoraggiante, accettante e positivo e che molto assomigliano alle reazioni di chi ha subito un’”aggressione”. Tali risposte di volta in volta possono essere diverse e modulate sulle sfumature del messaggio che è percepito come sottostante alla lode:

- tentativo di manipolazione di una lode espressa in continuazione o ritenuta falsa o non meritata

- critica per confronto rispetto a situazioni in cui tale lode non è stata esplicitata - insincerità dell’educatore, se la valutazione espressa non coincide con

l’autovalutazione (con consenguente blocco della comunicazione perchè non ci si sente capiti)

- stimolo alla competizione per meritare la lode. Fra le conseguenze indesiderate più gravi, c’è la “dipendenza dalla lode”, la lode cioè può diventare motivazione estrinseca che va a sostituire quella intrinseca. Come si vedrà in seguito, Gordon suggerisce due alternative alla lode: l’ascolto attivo e il messaggio in prima persona.

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Gordon invece dimostra, attraverso studi su situazioni reali, che i tre

strumenti sono concettualmente dello stesso tipo. Essi tendono a negare i

bisogni delle persone a cui sono rivolti o a soddisfarli a condizione; essi

tendono a mantenere l’altro sotto il controllo e il giudizio di un

“superiore”. Tale superiore è colui che decide quali sono i

comportamenti da ritenere accettabili e quali no, decide le punizioni, le

ricompense, le lodi (cioè decide quali siano i bisogni dell’educando e

quali di essi possano essere soddisfatti e quali no): egli cioè ha un potere

assoluto.

Il destinatario del metodo educativo punitivo vivrà una condizione

interiore che è contemporaneamente presupposto e conseguenza del

funzionamento di tale metodo.

Strumento Condizione interioredel destinatario

Ricompensa Dipendenza

Punizione Paura

Lode Inferiorità

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Il metodo punitivo, inoltre, induce nell’altro reazioni diverse, che

possono essere raggruppate in tre tipologie21:

1. fuga = danneggia in modo permanente la relazione educatore –

educando e può sfociare in dipendenze (alcol, droga, cibo)

2. contrattacco = può presentarsi come ritorsione violenta verso il

controllante e/o verso il sociale e può sfociare in aggressività,

vandalismo, comportamento delinquenziale. Tale reazione

induce l’educatore ad imporre punizioni sempre più severe

3. apatia / sottomissione = è il tipo di reazione che è devastante

per il rapporto con i pari. In particolare i bambini che adottano

questa strategia di risposta sono spesso ridicolizzati, derisi e

rifiutati dai coetanei.

In generale (e lo si può vedere anche negli Stati totalitari) i rapporti

basati su un potere ineguale sono instabili, transitori e fomentano le

reazioni contrarie che, con il tempo, scardinano e indeboliscono il potere

del controllante.

Di conseguenza si arriva sempre ad un momento (per i bambini spesso è

il passaggio all’adolescenza) in cui gli strumenti utilizzati per mantenere

il potere non funzionano più. Nel frattempo il rapporto fra le parti si è

deteriorato: ciò rende impossibile il passaggio da una modalità di

21 Ogni persona reagisce utilizzando preferibilmente una di queste tre possibilità

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relazione basata sul potere ad una di relazione basata sull’influenza

dell’educatore sull’educando.

Il metodo permissivo

L’utilizzo di tale metodo può nascere per reazione ai metodi punitivi che

sono stati subiti o sulla base della convinzione, talvolta esplicitata da

educatori, insegnanti, genitori permissivi, che non si devono “tarpare le

ali” allo sviluppo libero dell’altro.

La “colpa” del permissivismo viene fatta risalire al Dottor Benjamin

Spock, celebre pediatra e autore di diversi libri sull’argomento. Spock,

attraverso la condivisione della sua esperienza pediatrica, spingeva i

genitori a ridurre le proprie ansie nei confronti dei figli, infondeva in loro

maggiore fiducia e li spingeva ad aumentare la propria accettazione nei

confronti dei comportamenti dei figli, riducendo il numero di

comportamenti che avrebbero considerato problematici e non accettabili.

Secondo Gordon, tale impostazione, che favoriva relazioni più piacevoli

ed affettuose fra figli e genitori, era stata travisata, dimenticando che

Spock affermava anche che: “il modo di far fare ad un bambino ciò che

deve fare o per impedirgli di fare ciò che non deve fare è di essere chiari

e precisi tenendoli d’occhio finché non obbediscono”.

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Dall’iniziale errore di interpretazione, si era giunti a teorizzare una

metodologia educativa, definita comunemente permissiva, in cui

consapevolmente l’educatore rinunciava a porsi come termine di

confronto per il comportamento dell’educando.

Una scelta di questo tipo inconsapevolmente opta per condizioni in cui,

nella relazione, è offerta all’educando la possibilità di esercitare il potere

dal momento che l’educatore non si assume la responsabilità delle

proprie convinzioni e dei propri sentimenti.

Di fronte a qualsiasi comportamento agito dall’altro, infatti, ciascuna

persona:

• percepisce tale comportamento come accettabile o non accettabile

• prova, nei confronti dello stesso, un determinato sentimento.

Il negare a se stessi e all’altro le proprie risposte interne, porta a quella

che Gordon definisce “falsa tolleranza”.

L’educatore in tale situazione manda dei segnali ambigui (egli infatti

molto difficilmente riuscirà a limitare i messaggi non verbali che

esprimono i suoi veri sentimenti): i diversi linguaggi comunicativi

dicono cose diverse. In questo modo comunica implicitamente un

messaggio educativo: non importa quali conseguenze o quali reazioni si

inducano nell’altro con la propria azione, ciascuno può agire in qualsiasi

momento come crede.

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Un atteggiamento permissivo, ponendo la persona in situazioni e

relazioni destrutturate, destruttura la personalità stessa dell’educando.

La falsa tolleranza fa sì che l’educando non impari che fra i bisogni che

percepisce c’è una gerarchia. Per esempio, per un bambino, aver fame,

non è la stessa cosa che voler mangiare una certa merendina; per un

ragazzo, aver bisogno di avere un mezzo per andare a scuola, non è la

stessa cosa che volere una determinata marca di motorino.

La mancanza di un termine di confronto per il proprio comportamento

rende l’educando una persona individualista, che non è in grado di

prendere in considerazione i bisogni dell’altro e non è in grado di

accettare la frustrazione dei propri bisogni da parte dell’altro, sia come

incapacità ad accettare la negazione che come incapacità a differirne la

soddisfazione.

Ma la vita non è migliore per l’educatore: nel gruppo, nella famiglia,

nella classe condotti in modo permissivo regna di solito la confusione, in

essi è difficile mantenere l’attenzione e l’interesse su qualsiasi

argomento, è difficile creare un atmosfera di condivisione. Inoltre,

siccome all’interno della relazione gli educatori sono i perdenti, essi

possono provare quei sentimenti che nel metodo punitivo sono propri

degli educandi: risentimento, rabbia, sentirsi privati di qualcosa che

spetta di diritto.

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I risultati educativi di tale metodo, comunque, non rispondono nemmeno

all’aspettativa di massima espressione nella liberta della personalità

dell’educando. Anzi, proprio una situazione priva di limiti, di regole, di

messaggi chiari pone la persona a disagio, la confonde, non le consente

di comprendere ed esprimere le proprie reali potenzialità e i propri reali

bisogni (potenzialità e bisogni che, peraltro, nessuna persona e nessuna

situazione richiedono di provare a cercare).

Forse la libertà vera viene concessa ad una persona quando le si offrono

gli strumenti e la si pone nelle migliori condizioni per operare delle

scelte e per prendere delle decisioni consapevoli; quando, con le dovute

modalità, le si propone “qualcosa” e non il semplice “astensionismo

educativo”.

Il metodo democratico: la terza via

E’ questo il metodo, la “terza via” elaborata e offerta da Gordon.

Essa parte dal presupposto che entrambe le impostazioni precedenti

siano distruttive perché entrambe si basano su di uno squilibrio di potere

fra le parti.

Per Gordon il problema di essere rigorosi o indulgenti è uno pseudo-

problema in quanto non esiste un aut-aut fra le due alternative

precedenti. Non bisogna scegliere fra le due strade obbligate, la scelta da

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fare è solo quella di abbandonare il linguaggio del potere per parlare una

nuova lingua: quella democratica.

Gordon rappresenta il cambiamento di mentalità che è richiesto dalla

terza via, dal suo metodo educativo, proprio attraverso il cambiamento

del linguaggio educativo che si verifica in chi pratica tale via. Si passa da

termini quali: correggere, controllare, dirigere, punire, minacciare, porre

dei limiti, mantenere l’ordine, dettare legge, essere intransigente,

rimproverare, sgridare, ordinare, esigere... a termini quali: risoluzione

dei conflitti, influenzare, confrontarsi, collaborare, cooperare, prendere

decisioni in comune, stringere patti con gli altri, andare c’accordo,

mediare, rispondere alle esigenze, ottenere dei risultati....

L’educatore che sceglie di utilizzare queste modalità relazionali

democratiche esprime responsabilmente la propria assertività, vissuta

interiormente non come esercizio di potere, ma come facilitazione di un

processo.

La terza via trasforma il modo in cui un educatore percepisce

l’educando, nonché il modo in cui lo tratta.

Questa tesi è incentrata proprio sulla presentazione di questa terza via.

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2.3 Interpretazione di un approccio educativo

All’educatore professionale, nel suo percorso di formazione, vengono

presentati teorie e modelli educativi diversi. Di conseguenza, prima di

intraprendere la propria attività egli ha la possibilità di riflettere su quale

ritiene essere l’approccio educativo più efficace e significativo rispetto

alle diverse tipologie di utenza ed anche più rispettoso del proprio modo

di essere e dei propri valori.

Tale opportunità di fare una scelta consapevole del metodo educativo da

seguire non è altrettanto evidente per altre categorie di persone (es.

genitori) o professionisti (es. insegnati, manager di azienda...) che

comunque vivono e operano con finalità educative a vari livelli.

Ma una scelta consapevole è fondamentale perchè è da essa che

dipendono gli obiettivi educativi22 che si vogliono raggiungere, ma anche

una serie di “effetti collaterali” positivi o negativi con i quali bisogna

fare i conti.

2.3.1 Coping e modeling

Nel momento in cui si decide quale metodo educativo si ritiene più

idoneo seguire, bisogna per prima cosa tenere contro di due meccanismi

22 Si noti che sempre quando si agisce una relazione educativa si perseguono degli obiettivi. Se però tali obiettivi non sono esplicitati dall’educatore prima di tutto a se stesso, egli rischia di non ottenere i risultati che desidera o di ottenerne altri che non si desidera.

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psicologici che si innescano quando una persona “subisce” l’azione di

un’altra: coping e modeling.

coping = le reazione, i comportamenti con cui una persona

risponde ad una azione, fa fronte ad una situazione

modeling = il riproporre con il proprio comportamento l’azione

subita

Se poi l’azione subita è continuativa nel tempo, come può essere nel caso

di un approccio educativo, i due meccanismi possono trasformarsi in

modalità di comportamento che entrano a far parte della persona o che

possono degenerare diventando patologiche.

Per esemplificare in riferimento al metodo educativo punitivo quanto

sopra definito, si possono classificare le reazioni di coping in tre tipi:

fuga, lotta e sottomissione, come già illustrato nel paragrafo precedente.

Durante i suoi training, Gordon raccoglieva dalle esperienze dei

partecipanti esempi di tali reazioni. Per citarne qualcuna:

reazioni di lotta

- ribellarsi, disobbedire, rispondere male

- compiere ritorsioni, contrattaccare, compiere atti vandalici

- non rispettare regole e leggi

- essere ostili e combattivi

- competere, aver bisogno di vincere

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- fare i prepotenti, intimorire gli altri

reazioni di fuga

- fantasticare, sognare ad occhi aperti

- fuggire da casa, saltare le lezioni a scuola

- non parlare, ignorare gli altri, stare in silenzio

- mangiare troppo o troppo poco

- bere, far uso di droghe

reazioni di sottomissione

- mentire, nascondere la verità

- accusare gli altri, spettegolare

- adulare, lusingare

- rinunciare, sentirsi sconfitti, non fare niente

- diventare timidi, timorosi, restii a parlare chiaro, esitanti di fronte

ad esperienze nuove

- ricercare costantemente rassicurazioni e approvazione

Invece, le reazioni di modeling possono comprendere

- il diventare ricattanti (per un ragazzo dire per esempio ai genitori:

studio se mi compri il motorino...)

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- diventare violenti23 sia verso l’educatore (ritorsione contro il

controllante) che in contesti sociali in genere

- ritenere che la violenza verso una persona vicina affettivamente

sia lecita (ti punisco per il tuo bene)

Se si pensa invece al caso del metodo permissivo si possono citare come

reazioni di coping:

- esercitare il potere sugli altri, specie sulle figure investite di

qualche autorità formale

- individualismo

- mancanza di attenzione e di capacità di riflessione

- disinteresse per gli altri

- sfruttamento di persone e situazioni a proprio vantaggio

e come reazioni di modeling:

- non prendere posizione

- non saper riconoscere e dare un nome ai propri bisogni e ai propri

sentimenti24

23 Non è ancora del tutto chiaro come le punizioni corporali sui bambini preparino il terreno ad una comportamento violento che più tardi può degenerare in delinquenziale, ma è probabile che concorrano più fattori:

modeling reazione frustrazione-aggressione ostilità reattiva proiettata verso le figure di autorità bisogno di vendicarsi disperazione e impotenza per la sensazione di mancanza di controllo sul proprio

destino 24 Per Rogers, saper ricononscere e dare un nome a ciò che avviene dentro è presupposto di salute mentale

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- non sapere cosa si vuole, seguire il gruppo e le mode in modo

compulsivo

- non avere valori di riferimento

2.3.2 Conseguenze su salute e benessere

Gli “effetti” sopra illustrati, derivanti dal modello educativo che si

subisce, sono indicatori di un malessere psicologico, con possibili serie

ricadute sulla salute.

Per parlare con la terminologia di Gordon, se un metodo educativo

impedisce alla persona di soddisfare i propri bisogni, la pone in una

situazione di stress e frustrazione, con conseguenze in termini di

sofferenza psicologica, sofferenza fisica (malattie psicosomatiche,

stanchezza...) e quindi di “malessere”.

Per riferirsi all’esempio del metodo punitivo, studi hanno dimostrato che

i bambini sottoposti a disciplina severa e punitiva, evidenziano più

facilmente degli altri:

- tendenze all’autopunizione,

- inibizioni e nevrosi

- mancanza di autostima

- mancanza di competenze sociali

- mancanza di indipendenza psicologica

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- locus of control esterno, cioè mancanza di autocontrollo e

autodisciplina a vari livelli

- sensazione di incapacità di controllare il proprio destino

- sentirsi strumenti per la realizzazione dei desideri altrui

Ma forse la conseguenza più grave del metodo punitivo o certamente

quella che nessun educatore, qualsiasi metodo applichi, auspica, è

rilevata dagli studi di Stanley Milgram degli anni ’60, rispetto ad autorità

ed obbedienza. Milgram stesso così enuncia: “La scomparsa del senso di

responsabilità è la conseguenza di più lunga portata della sottomissione

all’autorità”.

Ma proprio la sottomissione all’autorità, il rendere obbedienti è uno degli

obiettivi primari, più o meno esplicitamente riconosciuto, del metodo

punitivo.

Per riferirsi invece al caso del metodo permissivo, si possono indicare fra

le problematiche psicologiche indotte negli educandi:

- senso di colpa per averla sempre vinta

- dubbio rispetto all’affetto dell’educatore, perché il loro

comportamento inadeguato non li rende “degni” di tale affetto

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- dubbio rispetto alla sicurezza25 che l’educatore offre, perchè egli

cede sempre

- incapacità di stabilire legami con i pari, perché questi ultimi

vengono trattati con la stessa modalità di imposizione del proprio

volere utilizzata con gli adulti

- desiderio, per reazione, di una situazione molto rigida (per

esempio il caso di un figlio di genitori permissivi che alla fine

delle scuole superiori ha scelto di entrare nell’Aeronautica

militare).

Ancora si potrebbe dire che gli atteggiamenti psicologici indotti da un

metodo educativo possono favorire il verificarsi di pericolose situazioni

concrete.

Per esempio, l’obbedienza all’autorità sopra menzionato, secondo quanto

affermato da ricerche, gioca un ruolo importante nella violenza sessuale

sui bambini: l’abitudine all’obbedienza verso l’adulto, determinata dallo

squilibrio di potere implicito nel metodo punitivo, può generare nella

vittima la sottomissione senza resistenza e la seguente reazione di “far

finta che niente sia successo”

25 I bambini educati con un metodo permissivo, definiti dalla neuropsichiatra Giuliana Ukmar Bambini Onnipotenti, uniscono alla sensazioni di avere un potere assoluto l’angoscia determinata dal percepire che se dovessero aver bisogno di aiuto non saprebbero a chi rivolgersi, dal momento che l’adulto non offre sufficienti garanzie di sicurezza, protezione e contenimento.

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Altro esempio potrebbe essere il seguente: l’incapacità di autocontrollo

che si esprime in una guida spericolata, con conseguenze dannose per il

soggetto e la comunità.

Tutto quanto sopra esposto vuole essere uno stimolo ad una riflessione

seria che non si lasci condizionare da risultati facili, ma transitori. Può,

infatti, succedere che un metodo induca un soggetto a rispondere al

momento come l’educatore si apetta, ma poi a non mantenere tale

risposta nel tempo e/o a presentare “effetti indesiderati e imprevisti”.

In psicologia si parla in questo caso di “validità di facciata”

Secondo Gordon, la riflessione in tal senso si nutre di esempi presi dalla

vita reale che lui stesso fornisce e stimola a cercare. Man mano che si

procede nell’illustrazione del Metodo Gordon, si condurrà lo stesso tipo

di riflessione.

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3. IL METODO

Il Metodo è lo strumento che Gordon offre a qualsiasi educatore,

affinché egli possa contribuire, in qualità di facilitatore, al processo

attraverso cui gli educandi, imparando a riconoscere gli altri, se stessi e

quello che hanno dentro, si auto-educano.

Gordon, però, afferma la necessità che l’educatore, mentre impara ad

utilizzare le varie tecniche del Metodo (espressione pratica di un

pensiero filosofico, pedagogico ed educativo), si apra alla disponibilità di

mutamenti interiori.

Primo, quello di imparare non a fare, ma ad essere: essere, all’interno

del processo educativo, una persona autentica e congruente, che

promuove l’espressione dei bisogni, delle idee, delle emozioni dell’altro,

che è con l’altro in modo funzionale al suo progredire, svilupparsi e

apprendere.

Secondo, quello di liberarsi dalla paura di perdere il potere sull’altro e

dalla tentazione di delegare il potere all’altro: il potere, come si è

affermato in precedenza, logora tutte persone e le loro relazioni.

L’educatore, dimenticando le lotte di potere, dimenticando di chiedersi

nelle varie situazione cosa richiede il suo ruolo e se deve essere

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autoritario o permissivo, imparerà attraverso il Metodo a diventare una

persona assertiva.

Ed è proprio attraverso l’essere una persona accogliente, ma anche

assertiva, che l’educatore riuscirà a capovolgere le logiche inefficaci e/o

deleterie degli altri metodi educativi, riuscirà per esempio a:

- favorire l’autocontrollo, senza controllare

- far trovare all’educando le proprie motivazioni intrinseche, senza

offrirgliene di estrinseche

- favorire l’autodeterminazione e la responsabilità personale, senza

elaborare per l’altro progetti di sviluppo precostituiti

Ma, soprattutto, sostituirà la logica del vinci/perdi con la logica del

vincere insieme, logica che consente a tutte le parti di soddisfare le

proprie esigenze e di stabilire relazioni costruttive e durature.

Il Metodo diventa, così, uno strumento educativo potente.

3.1 Il presupposto: la relazione interpersonale

La relazione interpersonale è parte dell’esistenza di ogni persona, in

quanto l’essere umano è un essere sociale.

L’educazione (o l’autoeducazione, secondo il principio umanista) è

quindi, in quanto percorso umano, inscindibilmente legata alla relazione.

Di conseguenza, per l’educatore professionale, compagno e facilitatore

di tale percorso individuale, la relazione diventa uno strumento di lavoro,

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forse lo strumento di lavoro per eccellenza, dal quale partire e del quale

essere consapevole in ogni momento.

Gordon, come si è visto nel capitolo 1, attraverso esperienze diverse in

ambienti diversi (università, esercito, scuola, famiglia, lavoro), è riuscito

a dare una svolta alla sua riflessione quando ha capito che i problemi

umani spesso non risiedevano nelle persone singole, ma nelle loro

relazioni.

Per Gordon, infatti, punto di partenza, presupposto della riflessione e

dell’elaborazione del suo metodo educativo, è la relazione e il suo

miglioramento. La qualità della relazione è la chiave educativa che apre

le porte alla collaborazione nelle diverse situazioni, ad un clima rilassato

e affettuoso, ma soprattutto all’apprendimento.

E non si intende qui semplicemente l’apprendimento di una specifica

materia scolastica, ma di ogni cosa. Ciascuno di noi apprende

continuamente nel corso della propria vita, apprende concetti,

informazioni, apprende come vivere, apprende come stare con gli altri,

ad avere con loro rapporti buoni e costruttivi, “apprende come

apprendere”. Ciascuno di noi, apprendendo, si auto educa:

l’apprendimento risulta quindi inscindibilmente legato all’educazione.

Dall’altro lato dell’apprendimento c’è ovviamente l’insegnamento: i due

processi sono distinti e separati, ma perché funzionino è necessario

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attivare fra i due dei collegamenti, delle connessioni. Per Gordon le

connessioni devono essere stabilite dall’educatore, non tanto con un

trasferimento di conoscenze, qualunque esse siano, quanto piuttosto

attraverso una relazione di qualità, la quale, nel rispetto delle esigenze

delle parti e, di conseguenza, nella riduzione dei meccanismi di difesa

reciproci, favorisca il processo educativo.

Se la relazione è il presupposto educativo, essa diventa per quanto sopra

esposto oggetto di studio in sé: Gordon ha dedicato la sua intera opera in

questo senso in quanto, come si è già detto, con il suo Metodo egli non

vuole rendere “efficaci” le persone in determinati ruoli (genitori,

insegnanti, manager..), ma vuole rendere efficaci le relazioni e, in

conseguenza, rendere efficace e naturale il processo di autoeducazione e

autorealizzazione dei singoli individui.

Una vita di esperienze, ha confermato a Gordon la fondatezza di questa

impostazione, tanto è vero che nel 1999 diceva ad un collega: “Il metodo

cooperativo è infallibile! L’ho visto applicare per anni in contesti sociali

e culturali diversissimi e tutti mi confermano che funziona! Comincio a

pensare che ci sia una base universale su cui poggiano le relazioni umane

e che noi stiamo esplorando e definendo con sempre maggiore chiarezza

ed evidenza”

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Le tecniche, proposte da Gordon nel suo Metodo per favorire relazioni di

qualità, sono essenzialmente di tipo comunicativo, coinvolgono

principalmente il dialogo.

Il dialogo, attraverso i messaggi che comunica, può essere costruttivo o

distruttivo in questo senso: quando si dice ad una persona qualcosa che

la riguarda direttamente, si rivela ciò che di lei si sta pensando e tale

messaggio, in particolare in ambito educativo, contribuisce a definire ciò

che la persona pensa di se stessa.

Questo implica la necessità di porre un’attenzione particolare a come si

comunica. Gordon distingue due tipi fondamentali di linguaggio

attraverso i quali passa la comunicazioni: dell’accettazione e del rifiuto.

Il linguaggio dell’accettazione è quello tipico del Metodo (e verrà

analizzato nei paragrafi seguenti). La chiave della sua positività risiede

proprio nel fatto che comunica accettazione e approvazione.

L’approvazione degli altri è un importante fattore di aiuto nell’instaurare

rapporti attraverso i quali crescere e svilupparsi, operare dei mutamenti

costruttivi, imparare a risolvere problemi, conquistare benessere

psicologico, diventare più creativo e realizzare pienamente le proprie

potenzialità.

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Il sentirsi accettati così come si è significa anche sentirsi amati e tale

sensazione è un contributo potente all’autostima e all’accettazione di sé,

ad una migliore crescita fisica e psicologica, alla risoluzione di eventuali

problemi psicologici.

Ma perché l’accettazione, che ha origine dall’interno di un individuo,

abbia tali effetti sulle altre persone, è necessario che venga attivamente

comunicata o dimostrata.

Gli psicologi parlano in questo senso di “comunicazione terapeutica”

proprio perché certi tipi di messaggi hanno effetti terapeutici o salutari

sulle persone.

Gli educatori, quindi, dovranno imparare a comunicare attraverso il

linguaggio dell’accettazione (e questo è uno degli scopi di Gordon e del

suo metodo), disimparando il linguaggio che automaticamente e, talvolta

inconsapevolmente, essi utilizzano, cioè quello del rifiuto.

Il linguaggio del rifiuto centra la propria negatività, come è già

implicito nella sua definizione, nella non accettazione. Non accettazione

che nel, vissuto della persona cui il linguaggio si rivolge, si trasferisce

dalla questione specifica che viene rifiutata (scelta, comportamento,

problema…) alla persona stessa.

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Il sentirsi non accettati, indurrà una barriera alla comunicazione e, di

conseguenza, alla possibilità di uno scambio educativo fra le parti.

Gordon identifica dodici possibili barriere alla comunicazione26, generate

da dodici diversi tipi di messaggi di rifiuto, il cui utilizzo è

particolarmente negativo se la relazione si trova in una situazione di

difficoltà.

1. Ordinare, comandare, esigere. Inducono resistenza attiva, rabbia

e ribellione in conseguenza alla sensazione di essere considerati

inadeguati ad affrontare al propria situazione.

2. Avvertire, minacciare. Inducono paura, sottomissione oppure,

come nel caso precedente, risentimento e ribellione nel tentativo di

“verificare” le conseguenze della minaccia.

3. Far la predica, rimproverare, dire cosa si deve o non si deve

fare. Creano un obbligo imposto dai sensi di colpa e comunicano

mancanza di fiducia nel senso di responsabilità del soggetto. In

conseguenza egli può reagire radicandosi nelle sue posizioni.

26 Gordon raggruppa le barriere illustrate di seguito in tre gruppi:

- messaggi direttivi (dall’1 al 5): essi sembrano il metodo più rapido per ottenere una modificazione del comportamento. In realtà contengono messaggi che tradotti in un linguaggio crudo possono suonare come: “sei talmente stupido che nemmeno capisci come aiutarmi”, “io sono il capo, quindi cambi perchè te lo dico io”. Tali messaggi inducono reazioni ostili: l’educando non capisce cosa disturbi l’educatore, in quanto quest’ultimo con un messaggio in seconda persona non dice niente di sè, e, in conseguenza, trae conclusioni errate (Es. l’educatore è insensibile, ha dei problemi, è nervoso e ingiusto).

- Messaggi repressivi (dal 6 all’11): feriscono perchè contengono valutazioni, giudizi e bollano il soggetto come problematico. Tali messaggi possono essere rifiutati o interiorizzati.

- Messaggi indiretti (11 e 12): e Tali messaggi appaiono non chiari e l’educatore che li utilizza appare ambiguo.

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4. Consigliare, offrire soluzioni o suggerimenti. Oltre a far sentire il

soggetto non in grado di risolvere i suoi problemi, gli impediscono

di riflettere sulla questione, di creare alternative personali e di

sperimentarle. Possono indurre dipendenza o, al contrario,

resistenza

5. Discutere, cercare di persuadere, fare argomentazioni logiche.

Incutendo un senso di inferiorità e inadeguatezza, tali messaggi

sollecitano, per reazione, posizioni difensive, contro

argomentazioni o ritiro dalla comunicazione.

6. Giudicare, disapprovare, criticare, biasimare. Sono messaggi che

possono essere accettati ed interiorizzati col significato di “io sono

sbagliato” o che possono indurre una critica di ritorno

sull’educatore. In ogni caso essi spingono gli educandi a

nascondere i propri sentimenti per non correre rischi.

Particolarmente deleteria è la critica ricorrente perchè riduce

l’autostima e spinge il soggetto a sentirsi inutile e indesiderato.

7. Apprezzare, assecondare, dare valutazioni positive. Attraverso

questi messaggi, l’educando può percepire da parte dell’educatore

alte aspettative, ma anche un controllo costante della sua

adeguatezza rispetto alle aspettative stesse. Di conseguenza egli

può sentirsi sotto pressione. Può, in alternativa, vivere i messaggi

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in modo paternalistico, come tentativi di manipolazione,

soprattutto se ritiene gli apprezzamenti immeritati.

8. Definire, stereotipare, ridicolizzare. Possono essere messaggi

devastanti dell’immagine di sé e possono indurre rappresaglie

verbali

9. Interpretare, analizzare, diagnosticare. Bloccano la

comunicazione per la paura del soggetto di non essere compreso o

di essere scoperto e smascherato. Possono essere anche interpretati

come minacciosi

10. Rassicurare, mostrare comprensione, consolare, incoraggiare.

Portano l’individuo a sentirsi incompreso (a nessuno piace sentirsi

dire che sta esagerando, che non vede le cose come stanno in

realtà...). Per questo suscitano forti sentimenti di ostilità o di

ritorsione: “sei tu a non capire quanto è brutta la realtà”

11. Fare domande, indagare, mettere in dubbio, controinterrogare.

Le domande tese ad indagare portano in sé sempre una minaccia

rispetto principalmente al perché vengono fatte. Generalmente

esse inducono la persona a dire il meno possibile. Inoltre,

guidando la conversazione, limitano la libertà del soggetto di

parlare di ciò che realmente gli preme.

12. Eludere, distrarre, fare del sarcasmo, fare dello spirito, cambiare

argomento. Messaggi di questo genere possono comunicare

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l’impressione che ciò che riguarda l’altro sia puerile o irrilevante.

Per il meccanismo di modelling, possono anche suggerire che le

difficoltà della vita vanno evitate piuttosto che affrontate.

Caratteristiche costanti di queste dodici barriere, pur nelle varie

sfumature, sono:

a. Ostacolare la comunicazione sia come disponibilità all’ascolto

dell’educatore sia come apertura nei suoi confronti

b. avere un’influenza deleteria sull’autostima.

3.2 Il fondamento: la soddisfazione dei bisogni

La soddisfazione dei bisogni è, nel pensiero di Gordon, la chiave

interpretativa del comportamento umano e, di conseguenza, il

riferimento di tutta l’azione del metodo educativo

Gordon, infatti, ritiene che alla base del metodo democratico ci sia

proprio il tendere verso una situazione in cui siano soddisfatti i bisogni

di tutti, così che le relazioni interpersonali possano vedere, nel rispetto

delle reciproche esigenze, l’evoluzione delle tensioni e dei conflitti

interni ed esterni e sperimentare lo sviluppo del massimo potenziale

individuale, cioè l’autorealizzazione.

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Gordon ha il suo riferimento culturale nella Piramide dei bisogni di

Maslow.

Nel suo studio Maslow era partito dalla domanda: “Come l’essere umano

può esprimere il suo massimo potenziale di sviluppo”.

Analizzando i casi di persone di grande successo, aveva identificato delle

caratteristiche comuni: entusiasmo per la vita, energia creativa, senso

dell’umorismo e frequenti esperienze di alto significato esistenziale, e

aveva chiamato il possesso di queste caratteristiche autorealizzazione.

Naturalmente ogni educatore non può che desiderare che tutte che le

persone che gli sono affidate raggiungano tale traguardo, o ci si

avvicinino il più possibile.

Al contrario, Maslow si rese conto che le persone che hanno problemi di

crescita e di sviluppo “mancano” di qualcosa: egli definisce cioè in

termini di privazione, di bisogni, tale situazione di non realizzazione

personale.

Maslow definì una gerarchia di bisogni: ogni persona sente la necessità

di soddisfare i bisogni di un certo livello solo quando avrà soddisfatto

quelli dei livelli inferiori.

LIVELLO 1 Bisogni di sopravvivenza. Si riferisce alla sopravvivenza

biologica. Quando una persona ha una deprivazione a questo livello è

disposta a sacrificare tutto il resto per soddisfare le sue esigenze

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primarie. Per un educatore sarà quindi necessario tener presente che

nessun intervento verrà recepito in un momento in cui il soggetto ha un

bisogno fisiologico: sonno, fame…

LIVELLO 2 Bisogni di sicurezza. Soddisfatte le necessità biologiche,

si fanno strada negli individui i bisogni di sicurezza fisica (es. essere

protetti dalle aggressioni…) e psicologica (es. sapere che le persone

importanti della propria vita ci saranno oggi come domani, essere liberi

dalla minaccia del ridicolo, dell’imbarazzo, delle valutazioni e delle

critiche severe..). La deprivazione a questo livello determina la paura.

Qualsiasi apprendimento o intervento educativo è bloccato in presenza di

tale sentimento, perché ogni sforzo della persona è teso a diminuire la

paura.

Per un educatore, una considerazione molto importante a questo punto è

la seguente: per essere in grado di aprirsi all’apprendimento e

all’autoeducazione, la persona deve necessariamente soddisfare i bisogni

dei primi due livelli, ma la soddisfazione degli stessi non è sinonimo di

“stare bene”: essa lascia comunque un senso di incompiutezza, che può

essere colmata solo ai livelli successivi.

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LIVELLO 3 Bisogni sociali. Essi sono fondamentali in quanto l’uomo è

un essere sociale. Tra i bisogni di relazione si possono evidenziare quelli

di:

appartenenza ad un gruppo, una famiglia, una confessione

religiosa,

accettazione e comprensione, cioè di sentire che gli altri accettano

quello che ciascuno è,

affetto e amore,

intimità, cioè di condividere il proprio mondo interiore con

trasparenza, in un clima di fiducia e calore.

Una persona deprivata a questo livello vive sensazioni di sfiducia in se

stessa, solitudine, tristezza, emarginazione, noia. Un intervento secondo

il Metodo Gordon può essere molto efficace a questo livello, proprio

perché incentra l’azione a livello del miglioramento delle relazioni.

LIVELLO 4 Bisogni di stima. In quanto la stima è legata ai concetti di

valore e merito, i bisogni di questo livello si traducono nell’esigenza di

sentirsi produttivi, di avere successo nelle attività che si intraprendono e

in particolare nelle attività lavorative. L’educatore dovrà tenere conto di

questo livello di bisogni sotto vari aspetti:

i. esso induce una motivazione intrinseca forte nell’educando verso

il conseguimento di risultati. L’attenzione, però, dovrà essere

focalizzata non tanto su tali risultati, quanto piuttosto sulle

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modalità con cui raggiungerli, sui significati che essi possono

rivestire per l’educando a livello di autostima.

ii. Se un’attività determina nel soggetto un aumento della propria

autostima, in quanto richiede abilità al di sopra della norma, essa

non sarà abbandonata per il solo fatto che essa non sia funzionale

alla convivenza sociale o sia addirittura illegale (es. far ridere i

compagni in classe in continuazione, borseggiare, rubare nei

supermercati…)

LIVELLO 5 Bisogni di autorealizzazione. Maslow si rese conto che

nel soddisfare i bisogni dei primi quattro livelli le persone erano spinte

da una forza tendente all’autorealizzazione (tendenza attualizzante di

Rogers). Solo le persone pienamente capaci di esprimere le proprie

potenzialità soddisfano tale bisogno.

Gordon, seguendo il pensiero di Maslow e rifacendosi a questa

schematizzazione, ritiene che qualsiasi comportamento, sia da pensare

come uno sforzo per soddisfare attraverso l’azione un bisogno. Quindi

un comportamento non deve essere giudicato come buono o cattivo, ma

solo come il modo che una persona ha trovato in un determinato

momento per soddisfare un particolare bisogno.

Anzi, in questo senso ogni comportamento dovrebbe essere giudicato

come “buono”, perché indica che la persona si sta attivando per fare

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qualcosa che le serve, indica che la persona è “sana”: infatti si definisce,

comunemente “malata”, una persona che sia cronicamente

impossibilitata a soddisfare i propri bisogni e, di conseguenza, sia

frustrata, delusa, si senta perdente, sviluppi sentimenti di rabbia, ostilità

e aggressività verso gli altri.

Ma se non si può definire un comportamento cattivo, come è possibile

porsi di fronte ad un comportamento disturbante?

3.3 La finestra del comportamento

Per rispondere alla domanda sopra scritta bisogna prima di tutto spiegare

cosa si intende per disturbante.

Posta in questi termini e tenendo conto che un comportamento per il

soggetto che l’agisce è funzionale alle sue necessità, disturbante è un

aggettivo che si riferisce al vissuto di chi subisce l’azione: per esempio il

bambino che fa capricci al supermercato disturba il genitore; l’utente che

torna ubriaco in casa di accoglienza disturba l’educatore.

Per la precisione saranno le conseguenze di un comportamento ad essere

percepite come disturbanti o meno, “buone o cattive”: secondo l’esempio

precedente del supermercato sarà l’imbarazzo causato dai capricci a

disturbare il genitore.

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Questo significa che disturbante è una valutazione personale di chi

subisce l’azione e non ha niente a che vedere con chi l’agisce, persona

che in quel momento non è magari consapevole degli effetti che sta

inducendo nell’altro.

E significa anche che è necessario distinguere fra il bisogno “buono”,

che spinge ad agire per la sua soddisfazione, e il tipo di comportamento

scelto, comportamento che può essere non funzionale all’ambiente

circostante (e magari nemmeno al reale bisogno della persona).

Ne consegue che l’educatore dovrà disporsi internamente a tre cambi di

prospettiva:

1. deve guardare alla persona e al comportamento agito come a due

entità concettualmente distinte, presupponendo sempre, sulla scia

della psicologia umanistica, che la persona sia essenzialmente

buona e attiva

2. deve cercare di considerare un comportamento descrivendolo e

non valutandolo27 (e, quindi, a maggior ragione evitando di

valutare la persona che agisce il comportamento)

27 Per esempio in un gruppo strutturato in CAG, l’educatore può giudicare un ragazzo: “Andrea è irrispettoso delle attività già iniziate” o descrivere i comportamenti: “Luca arriva in ritardo al gruppo, saluta tutti ad alta voce e rovescia rumorosamente gli attrezzi sul suo tavolo”.

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3. dal momento che per soddisfare un determinato bisogno ci sono

molti modi, non deve limitarsi a censurare il comportamento

antisociale, ma deve accompagnare la persona nell’identificazione

del suo bisogno e verso la consapevolezza della inaccettabilità

sociale del suo comportamento, perché lo possa soddisfare in un

modo più funzionale ed efficace per tutti.

Questo cambio di prospettive induce, nell’esperienza di chi l’ha

accettato, prima di tutto un alleggerimento psicologico: poter supporre

che l’educando sia buono, potersi esimere dal giudicare quello che fa, è

meno faticoso, porta con sé meno sensi di colpa rispetto all’azione

educativa precedente. Ma soprattutto crea un clima più disteso e

affettuoso, perché dispone tali sentimenti prima di tutto “dentro”

l’educatore.

Gordon, per facilitare la messa in pratica di quanto sopra esposto, ha

suggerito un metodo grafico di analisi della situazione: la finestra del

comportamento.

La finestra è un semplice rettangolo all’interno del quale si deve

immaginare di porre tutti i possibili comportamenti di un soggetto per

quanto piccoli e insignificanti: nulla di ciò che egli possa dire o fare deve

restare escluso.

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Oppure si può pensare la finestra proprio come una “finestra”, punto di

osservazione unico e solo rispetto a tutto il mondo dell’educando.

Osservando il mondo dell’altro e indipendentemente dal fatto che

l’educatore legga i comportamenti alla luce dei bisogni che li

determinano, egli proverà nei confronti di tali comportamenti dei

sentimenti che lo porteranno a classificarli come per lui accettabili o

inaccettabili.

Analogamente che per l’aggettivo disturbante, il classificare un

comportamento in uno dei due gruppi è un’operazione che fa riferimento

strettamente al vissuto dell’educatore e non dell’educando:

- comportamento accettabile = quello che non interferisce con i

bisogni dell’educatore e le sue funzioni,

- comportamento inaccettabile28 = quello che impedisce

all’educatore di soddisfare un suo bisogno (bisogno che può essere

personale - fisiologico, psicologico, emotivo- o legato ai suoi

valori e alle sue convinzioni) o gli impedisce di adempiere alle sue

funzioni.

28 In questo caso l’educatore dovrà risolvere il suo problema prima di riprendere lo svolgimento del suo intervento.

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La finestra del comportamento risulterà allora suddivisa in due parti da

una linea di separazione. Tale linea, come si vedrà di seguito, non si

trova necessariamente a metà della finestra né è da pensarsi fissa,

immobile

Comportamenti accettabili

Comportamenti non

accettabili

La finestra del comportamento è uno strumento molto importante di

consapevolezza dell’educatore rispetto a se stesso, all’altro, alla

relazione educativa e a come quest’ultima deve essere agita in un

determinato momento.

Sono necessarie però alcune precisazioni prima di passare ad utilizzarla.

Prima di tutto, la finestra del comportamento di uno stesso individuo può

presentare una suddivisione diversa (o si potrebbe anche dire una

posizione diversa della linea di separazione) a seconda dell’educatore

che la disegna: ciascuno infatti, a secondo dei propri valori, del proprio

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carattere, del proprio livello di tolleranza29, si dimostrerà più o meno

accettante.

Uno stesso educatore, poi, potrà accettare o non accettare uno stesso

comportamento (cioè porlo sopra o sotto la linea di suddivisione) in

dipendenza da tre fattori:

i. cambiamenti nell’educatore, a seconda cioè delle sue condizioni

fisiche (stanchezza, salute…) ed emotive (preoccupazioni o

tranquillità, tristezza o allegria…).

ii. cambiamenti dell’educando, cioè lo stesso comportamento agito

da persone diverse può essere vissuto in modo diverso. Questo

perché, anche se un educatore per principio vuole operare

eliminando le “differenze”, queste nella vita reale esistono.

iii. cambiamenti nel contesto, secondo il detto “ogni cosa a tempo

debito”

Ma se l’accettazione o la non accettazione di un comportamento è

qualcosa di così variabile fra persona e persona e in una stessa persona,

29 Ciascun educatore, pur accettando il proprio modo di essere, dovrà essere consapevole del proprio livello di tolleranza e prestare attenzione a come gestirlo. Infatti non può dimenticare che la persona che viene sottoposta a critica continua, che vede non accettati i propri comportamenti, si sentirà a disagio e in ansia e, di conseguenza, sarà meno aperta alla possibilità di cambiare, apprendere e svilupparsi. In generale una persona tendenzialmente accettante riuscirà a stabilire relazioni migliori e in maggior numero, rispetto ad una che si dimostri rigida su ciò che ritiene “giusto o sbagliato”.

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ci si potrebbe chiedere come si fa a suddividere i comportamenti nella

finestra in modo “giusto”.

Se l’educatore si pone tale domanda, significa che la sua risposta partirà

da teorie e preconcetti e il risultato sarà il crearsi nella finestra dell’area

che Gordon definisce della Falsa Tolleranza, cioè di un’area nella quale

si trovano i comportamenti rispetto ai quali l’educatore sperimenta il

contrasto fra l’idea di ciò che pensa debba essere e il suo vissuto

emotivo.

Comportamenti accettabili

Falsa tolleranza

Comportamenti non

accettabili

La falsa tolleranza può esprimersi in due modi:

- l’educatore agisce come se certi comportamenti fossero

accettabili, mentre li sente inaccettabili,

- l’educatore non accetta, sulla base delle impostazioni del gruppo

di lavoro o per pressioni esterne, comportamenti che ritiene

accettabili.

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Il problema che si propone in queste situazioni è analogo a quello già

illustrato per il metodo educativo permissivo (§ 2.2): siccome i messaggi

verbali possono essere controllati, mentre quelli non verbali (mimica del

viso, postura del corpo…) difficilmente riescono a mascherare i veri

sentimenti, il messaggio educativo risultante è contraddittorio e quindi

genera ambiguità e confusione.

Gordon ritiene che, in una situazione che potrebbe collocarsi nell’ambito

della falsa tolleranza, sia molto più corretto dal punto di vista educativo

mandare messaggi che comunichino il vissuto dell’educatore, che

spieghino quello che egli sta provando. E questo andando oltre ciò che

secondo Gordon impedisce agli educatori di essere “persone vere”, cioè i

preconcetti e le loro stesse inibizioni riguardo al proprio ruolo.

Da tutto questo segue che per Gordon il modo giusto di definire una

finestra del comportamento sarà quello che esprime il “qui ed ora” dei

sentimenti, quello che viene spontaneo ad un certo educatore, in un certo

momento, in una certa situazione.

Questo però non deve significare lasciarsi andare alle ingiustizie e ai

cambiamenti di umore incontrollati.

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Per quanto possa essere difficile, significa accettare in se stessi di sentirsi

incoerenti o mutevoli, di sentire che una persona è più simpatica di

un’altra, di percepire e agire delle differenze fra gli educandi.

Significa, quindi, riconoscere che il problema presente nella relazione

appartiene a sé e non all’altro (o non solo all’altro).

Questa accettazione di sé come “essere non perfetto”, rende la persona

autentica e genuina, come Gordon suggerisce di essere all’interno della

relazione educativa.

Un educatore che vive questa relazione con sé, viene sentito dall’altro

come meno incoerente e mutevole, meno ingiusto, come una persona che

offre un modello di auto accettazione e di coerenza, fra ciò che chiede a

sé e all’altro30.

3.4 La responsabilità

Una volta definita la finestra del comportamento e la sua struttura, si può

passare al suo utilizzo all’interno del Metodo.

La finestra richiama prima di tutto il concetto di responsabilità.

La responsabilità che ognuno ha, o che deve imparare ad avere, rispetto

30 Gordon suggerisce anche, come spunto di riflessione rispetto alla coerenza dell’azione educativa, di prestare attenzione al fatto che in certi ambienti educativi possono essere tradizionalmente proposti modelli diversi di comportamento per educatori ed educandi: es. i primi possono fumare i secondi no….

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alla propria persona può essere declinata su tre aree principali:

responsabilità della propria condizione interiore. Come già

detto nel paragrafo precedente, tale responsabilità implica tre

passi:

a. ascolto dei propri sentimenti e delle proprie reazioni

b. riconoscimento e accettazione degli stessi

c. condivisione con l’altro di tale riconoscimento

responsabilità dei propri bisogni. Talvolta un educatore, sia

naturale che professionale, può essere indotto dall’alto valore che

attribuisce al proprio compito, dall’affetto che nutre per

l’educando, dalle motivazioni che vive dentro a “sacrificare” le

proprio necessità per quelle dell’altro. Gordon spinge a liberarsi da

tali preconcetti, perché anche un educatore è un essere umano e se

vive in sé frustrazioni, deprivazioni, non può essere una persona

vera, autentica ed efficace.

Responsabilità dei propri problemi. Chi ha un problema ha il

dovere di assumersi la responsabilità:

o della valutazione del problema e delle possibili soluzioni

allo stesso,

o del controllo del proprio mondo interiore rispetto al

problema,

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o delle conseguenze che tale problema induce sull’ambiente

circostante.

Operativamente la finestra del comportamento si inserisce a livello

dell’attribuzione della responsabilità di un problema a chi di pertinenza.

Di chi è il problema?

Gordon ritiene che padroneggiare il concetto di appartenenza di un

problema è condizione necessaria per mantenere dei rapporti costruttivi

fra le persone in generale e fra educando ed educatore in particolare.

Infatti, la persona che si vede giudicata e considerata problematica per

qualcosa che per lei non è un problema, nella migliore delle ipotesi non

capisce perché l’altro si scaldi tanto. Oppure può reagire ritorcendo il

giudizio di problematicità.

Quando si commette l’errore contrario, cioè si colloca un

comportamento nell’area dei problemi dell’educatore, mentre il

problema è dell’educando, si crea in quest’ultimo la dipendenza.

Infatti l’educatore che si prende una responsabilità che non gli compete

come primo passo comunica utilizzando le dodici barriere, viste nel

paragrafo 3.1.: questo interrompe la comunicazione e intacca

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l’autostima, l’indipendenza e la fiducia dell’educando nei propri

sentimenti e nelle proprie capacità. Sentendosi incompreso, sentendo che

la sua privacy e la sua libertà sono state violate, l’educando tende a

chiudersi e a ridurre il rischio di essere criticato adottando il

comportamento indotto dagli altri, diventando cioè dipendente.

Probabilmente un po’ tutti possono riconoscersi in questo modo di

attribuire la responsabilità “al contrario”31. Forse questo succede perché

è più difficile occuparsi dei propri problemi, implica senso di

inadeguatezza rispetto alla causa del problema, paura di non riuscire a

risolverlo. Occuparsi dei problemi degli altri invece non coinvolge fino

nel profondo, l’altro resta comunque tale, e consente di porsi dal punto di

vista della superiorità, l’io competente che aiuta l’altro che non lo è, e

dell’auto-gratificazione, l’io bravo che aiuta.

Gordon dice no a questa situazione, che distrugge i rapporti, chiude la

comunicazione, fa alzare difese reciproche, particolarmente perché fa

31 Nella vita quotidiana si constata già fra i bambini questa attribuzione della responsabilità “invertita”: riproducendo quello che vedono fare agli adulti, essi si assumono la responsabilità dei problemi degli altri e scaricano sugli altri la responsabilità dei loro. Ad esempio può succedere che in una classe degli alunni rispondano a nome dei compagni ai quali l’insegnate rivolge una domanda per avere informazioni su comportamenti verbali o non verbali che esprimono un problema. Viceversa può succedere che gli stessi, quando hanno bisogno di informare l’insegnante su un loro problema o su un loro bisogno, chiedano ai compagni di riferirlo al loro posto. In riferimento a questo comportamento, Gordon chiede all’educatore non solo di essere capace di discernere a chi appartiene un problema, ma anche di aiutare gli educandi ad acquisire essi stessi questa competenza.

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sentire tutti deprivati della soddisfazione dei propri bisogni e invasi

dall’esterno.

Attraverso la finestra del comportamento, egli indica la strada per

restituire il problema al “legittimo proprietario”32.

Ripartendo dalla finestra vista nel paragrafo precedente

Comportamenti accettabili

Comportamenti non

accettabili

Gordon ritiene che l’area dei comportamenti ritenuti inaccettabili

dall’educatore, coincida con l’area dei problemi che gli compete

affrontare e risolvere.

Per quest’area, Gordon suggerisce opportune abilità per intraprendere

l’azione appropriata che riesca a modificare il comportamento

dell’educando senza danneggiare la relazione (vedi paragrafo 5.2 –

Messaggi di confronto in prima persona per l’area problematica)

32 Quanto segue rispetto all’utilizzo della finestra del comportamento, come tutto il metodo Gordon, può applicarsi a qualsiasi relazione fra due persone.

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L’area dei comportamenti ritenuti accettabili viene divisa da Gordon in

due parti. Infatti, fra i comportamenti che non collidono con i bisogni e

le funzioni dell’educatore:

a. alcuni non sono un problema nemmeno per l’educando: siamo qui

nell’area non problematica

b. altri invece rappresentano una situazione di deprivazione di un

bisogno per l’educando.

L’area non problematica33 è quella in cui la costruzione delle relazioni,

l’educazione e l’apprendimento possono essere realmente efficaci.

Anche in questo caso, il Metodo suggerisce abilità specifiche per

ottimizzare tale opportunità di sviluppo e ampliare l’area stessa (vedi §

5.1 – Messaggi in prima persona per l’area non problematica).

Per l’area b., Gordon suggerisce all’educatore l’utilizzo di abilità che

aiutino l’educando ad assumersi la responsabilità dei propri problemi

(vedi § 4.2 – L’abilità dell’ascolto attivo).

Punto cruciale in questo caso è il lavoro che l’educatore deve fare su se

stesso per non utilizzare le barriere alla comunicazione e per lasciare la

responsabilità all’altro.

33 Scopo del Metodo è di riuscire ad ampliare il più possibile quest’area di qualsiasi relazione fra due persone o in un gruppo.

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Questo “lasciare” non sempre è facile. Può sembrare più pratico, più

operativo risolvere i problemi al posto dell’altro. Ma così facendo,

agendo cioè un atteggiamento protettivo e paternalistico, si causano

all’altro tutta una serie di altri problemi quali per esempio:

- dipendenza

- impossibilità di imparare ad affrontare le conseguenze delle

proprie azioni34

- impossibilità ad apprendere autodisciplina e autocontrollo

- mancanza di stimoli e di abitudine a ricercare il proprio potenziale

creativo nell’elaborazione di soluzioni personali alle varie

situazioni.

34 In merito alle conseguenze delle proprie azioni, Gordon ritiene che se è deleterio per un educatore punire, cioè far vivere conseguenze negative “indotte” per un comportamento non adeguato (per le ragioni già illustrate nel § 2.2), è altrettanto deleterio smorzare le conseguenze negative “naturali” che possono derivare da tale comportamento (per esempio picchiare lo spigolo su cui un bambino piccolo ha battuto la testa). Secondo Gordon, infatti, da tali conseguenze l’educando può imparare senza che sia intaccato il clima della relazione educatore/educando.

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Riassumendo graficamente quanto sopra esposto:

Area problematica per l’educando

Competenze per aiutare l’altro ad

aiutarsi da sé

Comportamenti accettabili

Area non problematica

Competenze e criteri per

migliorare il rapporto

Comportamenti non accettabili

Area problematica per l’educatore

Competenze per assumere la

responsabilità e l’iniziativa di risolvere un

problema legato alla relazione

Nei paragrafi successivi si analizzeranno le abilità specifiche da

applicare in ogni area.

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4. L’ascolto attivo

Quando una persona è frustrata, perché non ha avuto successo nel

risolvere i suoi problemi e nel soddisfare i suoi bisogni, più facilmente

agirà dei comportamenti dannosi per sé e/o per gli altri e inaccettabili per

l’educatore.

L’ascolto attivo è lo “strumento principe” da mettere in pratica di fronte

a tali comportamenti, anche se poi può essere utilizzato efficacemente in

altre situazioni.

Gordon ritiene che tradizionalmente si sia impostata l’educazione

sull’idea che la privazione di un bisogno fortifichi il carattere, mentre la

sua soddisfazione lo indebolisca. Al contrario, egli afferma che il

risolvere con successo i propri problemi, il riuscire a soddisfare i propri

bisogni siano gli ingredienti fondamentali per ottenere individui

collaborativi, responsabili, premurosi e dotati di autodisciplina, cioè per

ottenere gli individui nei quali ogni educatore vorrebbe veder sviluppare

i propri utenti.

Per questo Gordon attribuisce grande importanza alle abilità che

l’educatore dovrebbe possedere per accompagnare gli educandi nella

risoluzione dei loro problemi.

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La sua osservazione delle situazioni educative quotidiane e professionali

lo ha indotto a ritenere che talvolta, nonostante gli sforzi e le buone

intenzioni degli educatori, i loro tentativi di essere di aiuto sono

fallimentari e percepiti come tali dagli educatori stessi. Da parte degli

educandi, poi, c’è la sensazione di non essere ascoltati, di non essere

capiti e, di conseguenza, di non essere aiutati nella soluzione di un

problema.

4.1 La relazione di aiuto

Nella ricerca di strumenti capaci di rendere gli educatori in grado di

offrire reale aiuto, Gordon parte dall’ipotesi che la prima cosa che li

rende inefficaci è il non essere consapevoli (o l’esserne consapevoli, ma

il non metterlo in pratica) di un fatto basilare: una persona può essere

aiutata anche semplicemente ascoltandola. Gli educatori invece tendono

a fare al posto di.

Per Gordon, invece è chiaro che la situazione rappresentata nell’area

problematica per l’educando sia quella tipica della relazione di aiuto35 e

35 Con relazione di aiuto si intende un rapporto in cui almeno uno dei protagonisti cerca di promuovere nell’altro lo sviluppo, la maturazione, il funzionamento ottimale e la capacità di affrontare la vita. Può essere applicata a varie forme di interazioni che si dividono in due gruppi:

- relazioni a due (educatore/educando, counselor/cliente, insegnante/alunno… - relazione individuo-piccolo gruppo (leader/staff, insegnate/classe,

educatore/gruppo…)

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come tale vada gestita, cioè secondo l’approccio centrato sulla persona di

Rogers.

Qui si inserisce il personale contributo di Gordon, rispetto al maestro

Rogers: egli trasferisce l’approccio dall’ambito terapeutico all’ambito

educativo e così facendo lo modifica adattandolo alle nuove necessità e

alle nuove sfide.

Secondo Gordon, le competenze di aiuto e di facilitazione rivelatesi

fondamentali per i terapeuti professionisti nel corso degli studi da lui

effettuati con Rogers ed altri colleghi all’Università di Chicago, lo sono

anche per gli educatori.

Le abilità richieste da Rogers al terapeuta sono i modi di essere già visti:

congruenza, accettazione ed empatia. Nella rielaborazione di Gordon, le

abilità richieste all’educatore vengono così riformulate:

1. Congruenza: è la capacità di riconoscere, chiamandolo per nome,

qualunque sentimento, emozione, bisogno si stia provando. La

congruenza è percepita dall’altro come rassicurante e la persona

congruente come degna di fiducia e affidabile.

2. Trasparenza: comunicazione senza ambiguità della persona che

l’educatore è. Per far questo è necessario che egli si liberi

dalla paura di doversi interrogare su se stesso,

dalla paura di perdere la fiducia dell’altro

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dai preconcetti di ruolo

e che stia in continuo contatto con ciò che gli avviene dentro per

non generare confusione e disagio nell’altro.

3. Indipendenza: consapevolezza di essere abbastanza forte come

persona da restare indipendente e distinto da coloro che si desidera

aiutare. Tale consapevolezza implica il rispetto dei sentimenti e

dei bisogni propri, oltre che di quelli dell’altro. Ne consegue una

maggiore capacità di accettazione dell’altro, perché non si ha più

paura di “perdersi” nel suo mondo e nei suoi sentimenti.

4. Accettazione positiva e incondizionata: è il paradosso di

constatare che le persone accettate così come sono, desiderano

svilupparsi, crescere e cambiare per essere al meglio di ciò che

sono in grado, per mettere in atto tutte le proprie potenzialità. E’

importante per un educatore chiedersi in qualsiasi momento se è

davvero in grado di accettare il tutto della persona che ha di

fronte. Un’accettazione “condizionata”, infatti, impedirà all’altro

di sviluppare o cambiare gli aspetti di sé “rifiutati”, in quanto

rispetto a tali aspetti percepirà una minaccia proveniente

dall’educatore. D’altra parte, un educatore non è in grado di

accettare un aspetto di una persona se si sente minacciato dallo

stesso. La minaccia verso l’educando può essere eliminata,

sospendendo la tendenza al “giudizio”, positivo o negativo che sia.

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La minaccia percepita dall’educatore può essere neutralizzata

nella consapevolezza della propria indipendenza36.

5. Empatia: la capacità di entrare nell’universo dei sentimenti e

delle concezioni dell’altro, vedendole dal suo stesso punto di vista.

Affinando tale capacità si perde sempre di più la tendenza a

valutare e giudicare.

6. Processo di cambiamento: la capacità di guardare all’altro come

ad un essere in sviluppo con modalità uniche e originali, diverse e

indipendenti da quelle dell’educatore.

La relazione di aiuto in ambito educativo si discosta da quella terapeutica

anche in quanto la persona non necessariamente si rapporta all’educatore

manifestando una richiesta di aiuto.

Quindi l’educatore, prima di intervenire, deve essere in grado, leggendo

eventuali segnali inviati dall’educando, di “diagnosticare la presenza” di

problemi37 che covano dentro e che possono andare da turbamenti

momentanei a difficoltà gravi e profonde.

Tali segnali possono essere:

non verbali: azioni, suoni, tono della voce, espressioni del volto,

aspetto fisico, cura di sé, abbigliamento…

36 Cioè l’indipendenza e l’accettazione incondizionata sono abilità strettamente correlate. 37 E’ ovviamente controproducente intervenire in assenza di problemi.

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verbali: quello che viene detto, che però difficilmente comunica in

modo esplicito il vero stato d’animo e la vera condizione interiore.

Pertanto può essere necessario leggere fra le righe, ponendo

attenzione in particolare alla presenza nel discorso:

- di espressioni che comunicano resistenza ostile sia in modo

palese che in modo nascosto,

- delle cosiddette “domande che contengono un codice

insolito”38, cioè di quelle domande che si riferiscono a

qualcosa di ovvio, che sembrano fuori luogo o discordanti

rispetto a quello che si sa dell’educando, che sorprendono

per l’incongruenza. Esempi di tali domande possono essere

durante una lezione a scuola: ma dobbiamo proprio studiare

questa roba? la matematica è più importante della

letteratura? Ma bisogna studiare tanto per andare

all’università? Ma cosa si prova a morire…

Di fronte ai segnali dell’educando, l’educatore potrà rispondere

ascoltando sé stesso (di solito attivando risposte sullo stile delle dodici

barriere alla comunicazione – vedi § 3.1) o ascoltando l’altro. Solo in

quest’ultimo caso però sarà in grado di cogliere nell’altro l’esistenza di

38 Possono presentarsi anche sotto forma di constatazioni o affermazioni.

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un problema e di disporsi interiormente ad applicare le abilità suggerite

da Gordon in questa situazione, cioè l’ascolto attivo.

4.2 L’abilità dell’ascolto attivo

Di fronte alla presenza nell’altro di un problema, l’educatore dovrà

prima di tutto disporsi in silenzio ad osservare e ad ascoltare.

La prima tecnica suggerita da Gordon è quella del Non intervento.

Essa consiste in una scelta consapevole di non intervenire in quello che

l’altro sta facendo, scelta che comunica accettazione in quanto evita di

mandare messaggi di disapprovazione rispetto alle azioni intraprese dalla

persona. In questo modo la persona potrebbe anche da sola riuscire a

trovare una soluzione alla propria difficoltà o potrebbe elaborare una

richiesta di aiuto spontanea ed esplicita.

Un passo in avanti è rappresentato dall’ascolto passivo o silenzio. Esso

comunica attenzione, attraverso i messaggi non verbali: contatto oculare,

posizione del corpo… Grazie all’accettazione veicolata dal silenzio e

dall’attenzione, la persona potrà esprimersi liberamente seguendo il

proprio pensiero.

Nel momento in cui la persona dovesse “bloccarsi” l’educatore potrebbe

intervenire con cenni di attenzione o espressioni facilitanti: che ne diresti

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di parlarne? vorresti dirmi qualcosa di più rispetto a questo problema?

sono molto interessato a quello che stai dicendo! è interessante, continua.

Ma la tecnica per eccellenza nell’aiutare una persona a risolvere i propri

problemi è quella dell’ascolto attivo.

Ciò che caratterizza l’ascolto attivo, rispetto alle tecniche sopra indicate,

è il feed back (o riflessione del sentimento): esso consiste nella

riformulazione e nella restituzione di ciò che la persona ha detto per

consentirle :

- di percepire che non solo è stata ascoltata e accettata, ma è

stata anche capita,

- di chiarire meglio il suo pensiero a sé e all’altro, se ritiene

di non essere stata capita.

Un feed back completo dovrà comprendere contenuti e sentimenti39 ed

essere espresso in un tono di voce che comunica empatia. Esso inoltre

sarà formulato in seconda persona per dimostrare che ciò che si stava

ascoltando erano i sentimenti dell’altro e non i propri (centratura sul

cliente).

39 Pur esprimendo sia contenuti che sentimenti, la centratura dell’attenzione del feed back, come di tutto l’ascolto attivo, è sullo stato d’animo più che sulla situazione concreta in sé.

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I passi dell’ascolto attivo possono essere sintetizzati come segue.

L’educatore:

I. Osserva e ascolta

II. Fa un’ipotesi

III. Comunica la sua impressione

IV. L’altro conferma (ed eventualmente approfondisce) o corregge

I primi due passi dell’ascolto attivo devono essere agiti nella

consapevolezza di come si svolgono i processi di comunicazione.

La persona emittente ha un sentimento, un bisogno da comunicare e li

codifica in un messaggio, che viene trasmesso attraverso i canali verbali

e non verbali.

Il ricevente decodifica il messaggio facendo un’ipotesi riguardo alla

situazione emotiva dell’emittente, ipotesi che risponde alla domanda:

cosa voleva farmi sapere veramente chi mi ha inviato il messaggio? Tale

domanda secondo Gordon implica un ascolto fatto con l’orecchio

interiore.

Fermandosi a questo punto, non c’è certezza né per l’emittente di essere

stato capito, né per il ricevente di aver capito: l’aggiunta dello sforzo di

feed back da parte del ricevente completa una comunicazione da ritenersi

effettivamente efficace in quanto consente, attraverso la conferma o la

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rettifica da parte dell’emittente, la perfetta comprensione reciproca e

predispone all’approfondimento della comunicazione stessa.

4.3 Utilità dell’ascolto attivo

Se il mantenimento di una comunicazione efficace con l’educando è già

per l’educatore un risultato di notevole valore visto che la relazione è lo

“strumento di lavoro” di quest’ultimo, ovviamente ci sono altri

importanti risvolti positivi.

Primo fra tutti quello per cui l’ascolto attivo è stato introdotto: il favorire

nell’educando l’assunzione di responsabilità nella soluzione dei suoi

problemi.

Ripercorrendo ciclicamente i quattro passi dell’ascolto attivo, l’educando

chiarisce prima di tutto a se stesso la sua situazione. Il clima accettante

poi lo rende libero di esplorare alternative di soluzioni, per arrivare a

quella che sente più adatta a sé.

Sempre grazie all’ascolto attivo (e grazie all’assunzione di responsabilità

della propria situazione che ne deriva) la persona acquista anche:

fiducia in se stessa e nelle proprie capacità di affrontare la vita,

indipendenza,

capacità di analisi e di approfondimento,

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capacità di entrare in contatto con i propri sentimenti, di esprimerli

e viverli come naturali,

disponibilità “di ritorno” ad ascoltare l’educatore e a collaborare

alla soluzione dei problemi di quest’ultimo40,

disponibilità alla relazione, grazie al clima di cura reciproca, di

affetto, di rispetto e di condivisione profonda.

4.4 Condizioni per l’utilizzo

L’ascolto attivo deve rispettare alcuni principi orientativi

• per non essere utilizzato a sproposito, aggravando i problemi e

compromettendo i rapporti,

• per non diventare una “tecnica” fredda e meccanica, cosa che gli

farebbe perdere la sua profondità a livello emotivo, la sua forza nella

condivisione di sentimenti e pensieri e, di conseguenza, la sua

efficacia.

Un educatore ricorrerà consapevolmente all’ascolto attivo quando:

ci sono segnali precisi che l’altra persona ha un problema o un

bisogno insoddisfatto

40 Questa disponibilità sarà fondamentale all’interno delle modalità suggerite all’educatore per risolvere i propri problemi (vedi § 5.2).

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desidera sinceramente essere d’aiuto a quella precisa persona e in

quel preciso momento, ha la possibilità di farlo, in termini di

tempo a disposizione, tranquillità dell’ambiente…

sente di poter accettare completamente la persona, i suoi problemi

e i suoi sentimenti

sente di non desiderare di cambiare i sentimenti dell’altro e di

poter mantenere sempre la consapevolezza che i sentimenti

espressi sono transitori. Anzi, proprio l’ascolto attivo consente alla

persona di transitare fra stati emotivi.

è in grado di dedicare tutta la propria attenzione all’altro, senza

pensieri pressanti esterni alla questione da trattare

ha fiducia che l’altro abbia le capacità per risolvere il suo

problema

riesce a vedere l’altro come a se stante, riesce ad essere con l’altro

mentre vive il suo problema, senza però sentirsi responsabile nei

suoi confronti

sente di essere abbastanza distaccato dal problema da poter

accogliere qualsiasi soluzione la persona elabori

desidera comprendere con empatia come l’altro si vive dal suo

punto di vista.

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Al contrario sarebbe molto controproducente se l’educatore cercasse di

utilizzare l’ascolto attivo quando:

fosse troppo coinvolto nell’altro o nel suo problema

fosse in qualche modo infastidito, irritato, ferito dal

comportamento o dai sentimenti dell’altro

vivesse una situazione personale di deprivazione di un bisogno41.

percepisse dentro di sé il desiderio di spingere la persona verso la

“soluzione giusta”

si accorgesse di cercare di reprimere i veri sentimenti che in quel

momento prova per l’altra persona

Stabilito che l’ascolto attivo è da usarsi in quel determinato momento, è

possibile introdurlo o, comunque, favorirlo utilizzando una serie di frasi.

Quando si è abbastanza sicuri della propria percezione e l’altro sembra

ricettivo, frasi tipo le seguenti possono essere utili ad introdurre l’ascolto

attivo. Si noti che sono tutte espresse in seconda persona per centrare

l’attenzione sull’altro.

o ti senti…

o dal tuo punto di vista…

41 Siccome comprendere un’esperienza rende possibile reinterpretare la propria, ascoltare opinioni molto discordanti da quelle personali può essere destabilizzante.

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o nelle tue condizioni…

o a te sembra…

o mi stai dicendo…

o mi pare di capire che tu…

o vuoi dire che

Quando la situazione non appare del tutto chiara o l’altro non sembra del

tutto ricettivo all’ascolto attivo, si possono introdurre invece delle frasi

come le seguenti. Si noti che esse sono espresse in prima persona o in

modo impersonale, per non attribuire la “non chiarezza” all’altro:

o potrebbe essere che…

o mi chiedo se…

o non so se ho capito, ma…

o correggimi se sbaglio, ma…

o mi sembra che tu stia dicendo…

o non è che magari…

o vediamo se ho capito…

E’ molto importante non utilizzare le frasi di facilitazione in modo

prestabilito, per non infastidire l’altro dandogli l’impressione che si stia

“recitando un copione”.

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Gordon è molto preciso in tal senso: l’ascolto attivo deve essere portato

avanti in modo sincero, autenticamente empatico, congruente con i

propri sentimenti; le frasi devono essere scelte e utilizzate dall’educatore

in modo spontaneo nel corso dell’ascolto, così da essere percepite come

coerenti e naturali in quel preciso momento.

L’ascolto attivo NON è una tecnica meccanica e non deve essere

percepita come tale42.

4.5 Errori da evitare

Come tutto il metodo Gordon, anche l’ascolto attivo richiede un po’ di

esercizio per essere utilizzato in modo opportuno ed efficace.

E’ possibile talvolta compiere degli errori che, secondo Gordon, sono

causati essenzialmente dall’incapacità di restare in contatto con i

sentimenti immediati dell’altro o dall’incapacità di tenere separati i

propri sentimenti dal messaggio ricevuto, introducendo di conseguenza

in qualche modo nel feed back interpretazioni personali.

Partendo come esempio, da un messaggio di un ragazzo del tipo: “Non

riesco a capire perché Andrea vuole sempre vincere, qualsiasi gioco si

faccia”, fra gli errori di feed back più comuni si possono evidenziare:

42 Si noti come sempre Gordon puntualizzi l’importanza non solo di ciò che l’educatore percepisce al suo interno, ma anche di come comunicare questo stato interiore in modo esplicito, inequivocabile e coerente.

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esagerare ampliando l’intensità dell’emozione espressa. Sei molto

arrabbiato con Andrea!

aggiungere ampliando o generalizzando il senso di quanto

espresso. Andrea ti è proprio antipatico

anticipare prevenendo i pensieri dell’altro. Vorresti che non

giocasse più nel tuo gruppo

analizzare interpretando le motivazioni sottostanti. Forse sei

arrabbiato perchè nemmeno tu sopporti di perdere.

ridimensionare diminuendo l’intensità delle emozioni espresse.

Ma dai, non è poi così fastidioso!

omettere riducendo o ignorando parte dei fatti. Non hai voglia di

giocare oggi.

restare indietro non stando al passo con la comunicazione

dell’altro. Già, me lo dicevi prima che oggi va tutto storto

ripetere a pappagallo ridicendo quasi parola per parola il

messaggio dell’altro. Non capisci perchè Andrea voglia sempre

vincere.

Un rimando di ascolto attivo potrebbe essere: Ti sembra proprio che

Andrea voglia sempre vincere qualunque gioco facciate?

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4.6 Altri utilizzi dell’ascolto attivo

A parte introdurre l’ascolto attivo allo scopo di aiutare una persona a

risolvere i propri problemi o a soddisfare i propri bisogni, tale ascolto

può essere efficace anche per gestire altre situazioni specifiche, quali:

1. la necessità di aiutare l’educando a fronteggiare forti emozioni, in

quanto l’ascolto attivo favorisce il transitare fra stati d’animo

attraverso una specie di liberazione catartica (come si è accennato

in precedenza).

2. alternativa efficace alla lode. Come si è visto paragrafo 2.2,

Gordon sconsiglia l’utilizzo metodico della lode. Invece

rispondere con l’ascolto attivo, in una situazione in cui l’educando

ha fatto qualcosa di positivo o magari chiede un parere rispetto

alla propria azione, consente alla persona di sostituire la

valutazione esterna con la propria e, in conseguenza, di andare a

ricercare le motivazioni intrinseche di un’azione anziché quelle

estrinseche.

3. il mediare conflitti fra educandi, offrendo un modello di ascolto

attento e rispettoso delle esigenze dell’altro.

4. il fronteggiare le resistenze all’apprendimento. Tali resistenze

possono assumere una forma che va dalla totale passività, al

palese rifiuto di collaborare. In quanto le resistenze

all’apprendimento di solito sono indice di un problema irrisolto, si

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può ricondurre la situazione all’area della finestra del

comportamento problematica per l’educando.

5. il favorire nelle persone dipendenti il cammino verso

l’indipendenza. Infatti mettendo al centro dell’attenzione la

persona, offrendole l’opportunità di sperimentarsi, facendole

sentire la fiducia nelle sue capacità di affrontare la vita e i

problemi, le si offre la possibilità di aumentare l’autostima, di

migliorare la fiducia nei propri sentimenti.

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5. L’autorivelazione

L’autorivelazione è lo “strumento principe” che Gordon suggerisce di

utilizzare per gestire le situazioni nelle quali l’educatore ha dei problemi

a causa del comportamento dell’educando.

In modo analogo all’ascolto attivo, anche l’autorivelazione può essere

efficacemente impiegata in altri ambiti oltre a quello sopra indicato,

ambiti che non devono però rientrare nell’area della finestra del

comportamento problematica per l’educando.

L’assunto di fondo del Metodo è che un educatore efficace è un

educatore assertivo, cioè una persona sincera ed onesta nella

comunicazione e nell’azione, una persona che dà valore alla propria

persona e ai propri bisogni e che per soddisfare tali bisogni prende

l’iniziativa.

In tal senso, l’assertività é un valore positivo, perché solo un educatore

che abbia soddisfatto i propri bisogni, può darsi all’altro veramente e

condividere con lui risorse, energie ed esperienza. Ne consegue che

assertività e capacità di aiuto procedono di pari passi, in modo

interdipendente.

La chiave dell’assertività è l’autorivelazione: non solo è necessario

conoscere i propri valori, bisogni e desideri, ma è essenziale comunicarli

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e condividerli con gli altri. La soddisfazione delle nostre esigenze,

infatti, nella maggior parte dei casi passa attraverso le relazioni

interpersonali, attraverso la comprensione e la collaborazione degli altri.

Si può definire l’autorivelazione come una comunicazione che descrive

l’Io di chi parla, le sue esperienze interiori, i suoi pensieri, le sue

reazioni, le sue idee, i suoi sentimenti, cioè come una comunicazione che

fa sapere agli altri quello che la persona prova e in quale situazione si

trova.

Per il fatto di essere costituita da messaggi che espongono il proprio

mondo interiore, quello che “si è veramente”, l’autorivelazione è tanto

più difficile, quanto più c’è la possibilità di andare incontro alla

disapprovazione altrui43.

Certamente però è altrettanto vero, e ognuno lo può osservare

nell’esperienza di tutti i giorni, che le persone assertive sono spesso

molto amate e ricercate, proprio perché sentite come “persone che ci

sono”, chiare, oneste, affidabili, che non riservano brutte sorprese.

43 Per i rischi e i vantaggi dell’autorivelazione si veda il § 5.3

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I messaggi di autorivelazione sono definiti da Gordon Messaggi in

Prima Persona (MPP). Essi sono messaggi:

- autentici, onesti e congruenti, in quanto rivelano la vera natura e

l’intensità dei pensieri e dei sentimenti

- chiari, comprensibili e pertinenti, non mascherati da un linguaggio

indiretto o vago

In quanto dichiarazioni esplicite, i MPP aiutano gli altri a conoscere

meglio chi parla, a capire il suo modo di vivere. Aiutano anche a capire

che l’altro non è un “ruolo”, ma un essere umano con desideri, speranze,

bisogni: tale consapevolezza in un educando è molto utile perchè lo

rende più disponibile al dialogo e alla verbalizzazione del suo mondo

interiore, cioè lo rende più disponibile ad una relazione profonda e

significativa con l’educatore.

Dal punto di vista del linguaggio, una dichiarazione, una rivelazione del

Sé non può che essere espressa in prima persona: come nella relazione

d’aiuto si doveva usare il Tu, per centrare l’attenzione sull’altro e per

lasciare all’altro la propria responsabilità, in questo caso si usa l’Io per

centrare l’attenzione su di sé e per prendersi le proprie responsabilità.

I MPP sono anche detti messaggi di responsabilità, infatti la persona

che li esprime:

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si assume la responsabilità della propria situazione e del proprio

stato d’animo, facendone un’analisi ed esprimendo all’altro

sinceramente i risultati di tale analisi;

non scarica sull’altro colpe o meriti, attraverso le dodici barriere

alla comunicazione (espresse in seconda persona!),

lascia all’altro la propria parte di responsabilità, cioè quella di

modificare il proprio comportamento per venire incontro alle

esigenze espresse, e il tempo di pervenire alla maturazione di una

decisione interiore, cioè il tempo per riuscire ad esercitare

l’autoregolazione. In questo modo l’altro, invece di sentirsi

risentito o arrabbiato come succede con i messaggi in seconda

persona, si sente considerato e utile e di conseguenza più

disponibile e collaborativo. In questo processo di crescita

educativa, il divieto o la sanzione si collocano nella responsabilità

dell’educatore di porre limiti a comportamenti che danneggiano

anche l’intera comunità, ma non sono l’ultima parola perché la

porta dell’ascolto del disagio dell’altro non viene mai chiusa.

La struttura di un buon MPP comprende tre parti:

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1. Descrizione del comportamento dell’altro. Tale descrizione

deve essere un rapporto obiettivo dei fatti44. Purché non si cada in

interpretazioni o giudizi, questa parte del messaggio può essere

espressa con il “tu”, in quanto è il comportamento dell’altro che si

sta illustrando.

2. Descrizione dell’effetto tangibile e concreto di un

comportamento su chi lo subisce. E’ importante che gli effetti

siano “concreti e tangibili”45, in quanto l’altro ha bisogno di

comprendere esattamente nella “pratica” quali siano le

conseguenze delle proprie azioni. Infatti le conseguenze

“teoriche”, che riguardano i concetti di giusto o sbagliato, che

riguardano genericamente il vissuto di chi subisce l’azione,

possono essere messi in discussione e non condivisi. Il MPP perde

così la sua capacità di colpire nel segno.

Di conseguenza, l’educatore che deve imparare a costruire questa

parte dei MPP, deve necessariamente imparare a distinguere i

comportamenti che non hanno effetti tangibili su di lui, da quelli

44 Si presti attenzione a quelli che si possono definire “messaggi in seconda persona camuffati”, cioè a quei messaggi che pur espressi in prima persona comunicano valutazioni. Es: “quando scopro che non posso fidarmi di certe persone…” 45 Si può ritenere che un comportamento abbia degli effetti tangibili su di una persona quando:

costa in termini di tempo, energie, denaro impedisce di fare qualcosa che si desidera o che si deve fare procura malessere fisico provoca perdita parziale o completa di un oggetto importante dal punto di vista

economico o sentimentale

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che li hanno, perché il MPP stesso ha senso solo per questi ultimi.

3. Descrizione dei sentimenti di chi subisce l’azione. In questa

parte del messaggio si dichiarano i sentimenti, conseguenti

all’effetto tangibile e concreto del comportamento. Qui sta il nodo

cruciale: la sequenza comportamento-effetto-sentimento centra

l’attenzione sul comportamento e non sulla persona, per cui anche

se il messaggio dovesse riferirsi ad un comportamento non

accettabile, la disapprovazione verrà recepita come solo

riguardante il comportamento stesso e non la persona46.

Nonostante la sequenza logica sopra indicata sia importante, è possibile

formulare un MPP ponendo le tre parti in qualsiasi ordine o omettendone

una. Il MPP resta comunque un messaggio che ha una forte probabilità di

essere recepito come una dichiarazione aperta e sincera, che apre la

strada alla conoscenza reciproca ed è pertanto da preferirsi ai messaggi

in seconda persona o indiretti.

I MPP possono essere raggruppati in quattro tipologie, da utilizzare in

situazioni diverse:

1. positivi

2. dichiarativi

46 Al contrario di quanto succede con il linguaggio del rifiuto (§ 3.1, pag. 65)

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3. preventivi

4. di confronto

5.1 I messaggi in prima persona per l’area non

problematica

I primi tre MPP sopra indicati si utilizzano nell’area non problematica.

Il loro scopo è quello di estendere l’area stessa, riducendo la possibilità

di conflitti e tensioni nella relazione.

MPP dichiarativi

E’ la forma più elementare di autorivelazione e consiste semplicemente

di una “dichiarazione” agli altri di opinioni, idee, valori, preferenze ed

avversioni, sentimenti, pensieri, reazioni, atteggiamenti....

L’utilità è quella di offrire agli altri una conoscenza “profonda” di chi

parla.

MPP preventivi

Attraverso tali messaggi:

si mette l’altro al corrente di bisogni il cui soddisfacimento

richiederà in futuro la sua collaborazione, il suo sostegno o la sua

azione diretta

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si anticipa quello che si desidera fare o che si desidera venga fatto

dall’altro.

Lo scopo di tali messaggi è ovviamente quello di prevenire l’insorgere di

conflitti e problemi, in quanto l’esplicitazione delle esigenze future rende

più probabile che l’altro modifichi i propri programmi o i propri

comportamenti in modo da non ostacolare chi le esprime.

Gordon naturalmente suggerisce di includere nel messaggio le ragioni

del bisogno espresso, per aumentare la disponibilità dell’altro e per non

sembrare aggressivi, pretenziosi e autoritari.

I MPP preventivi hanno anche altri effetti positivi, prima di tutto per la

persona che li esprime. Infatti essi consentono all’emittente di:

- mantenere la consapevolezza e il controllo dei propri bisogni e

sentimenti,

- assumersi nel presente la responsabilità dei progetti futuri.

Invece essi consentono al destinatario di:

- prepararsi psicologicamente ad eventi e azioni future,

- modellare le abilità comunicative verso la verbalizzazione dei

propri progetti futuri, cosa che consente di chiarirli prima di tutto

a se stesso.

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MPP positivi

Gordon sottolinea l’importanza per gli educatori di esprimere non solo i

sentimenti di non accettazione (cosa che viene anche troppo spontanea!),

ma anche quelli di accettazione utilizzando i MPP positivi.

L’autorivelazione di sentimenti di accettazione, quali apprezzamento,

amore, approvazione, piacere, affetto, arricchisce notevolmente i

rapporti, li rende più piacevoli, affettuosi e collaborativi, consente

all’altra persona di aumentare l’autostima e la fiducia in se stessa.

Questo è tanto più vero nel caso di MPP positivi diretti dall’educatore ai

bambini più piccoli. Questi ultimi, infatti, con la loro fragile autostima e

il loro desiderio di “aiutare” sembrano trarre particolare vantaggio da tali

messaggi.

Per essere credibili ed efficaci, i MPP positivi devono essere

spontanei e autentici, non devono cioè essere pianificati, ma

devono esprimere il “qui ed ora” dei reali sentimenti che si

provano,

devono riflettere un’accettazione incondizionata,

devono essere privi di motivazioni nascoste, cioè non devono

essere espressi nell’intento di cambiare l’altra persona. In tale caso

infatti, essi sarebbero percepiti come ambigui e la persona che li

esprime come non sincera.

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I messaggi positivi possono sostituire efficacemente la lode: per

l’educando è significativo sentirsi dire chiaramente i sentimenti positivi

dell’educatore nei suoi confronti, senza sentirsi nello stesso tempo

giudicato o invitato, più o meno esplicitamente, a cambiare.

E il paradosso è che l’educando si sente più stimolato a cambiare e

migliorarsi proprio grazie alla fiducia e al rispetto che gli sono

dimostrati.

5.2 I Messaggi in prima persona per l’area problematica

Come si è visto, l’area dei comportamenti non accettabili per l’educatore

consiste di situazioni in cui egli ha dei problemi a causa degli effetti che

i comportamenti stessi provocano su di lui.

In tali situazioni egli rileverà in sé gli stessi sintomi che cerca di

individuare negli educandi per capire se questi ultimi hanno dei problemi

e cioè noia, frustrazione, risentimento, rabbia, distrazione, irritazione,

tensione, mal di testa… L’educatore dovrà allora assumersi la

responsabilità dei sintomi rilevati e prendere l’iniziativa per risolvere i

problemi che li causano. Può agire in tre direzioni, cioè modificare:

1. se stesso, valutando che la non accettazione di un comportamento

deriva da un suo problema interno

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2. l’ambiente, ridefinendo lo spazio fisico e il tempo della relazione

educativa a seconda del tipo di intervento educativo, della

personalità dell’educando, o delle caratteristiche del gruppo.47

3. il comportamento indesiderato

In questo paragrafo viene analizzata la terza opzione.

Il cercare di modificare un comportamento altrui non significa giudicare

l’altro e dargli degli ordini, ma significa mettere in atto con l’altro un

confronto.

Il confronto è un atto coraggioso e responsabile con cui una persona dice

ad un’altra che il suo comportamento sta interferendo con i propri diritti

e le proprie esigenze legittime. Tale atto è motivato dall’esigenza di

autodifesa e autoconservazione.

In quanto atto libero di iniziativa personale, il confronto deve avvenire

attraverso un messaggio in prima persona, nel quale la persona si prende

la responsabilità di far rispettare i propri bisogni e lascia all’altro la

responsabilità di decidere se e come rispettare tali bisogni.

Tale messaggio ha la struttura tipica dei MPP illustrata all’inizio di

questo capitolo ed è detto MPP di confronto.

47 La modifica dell’ambiente verà trattata in modo più approfondito nel § 8.4. Tale tecnica infatti è particolarmente utile con i bambini e nella scuola.

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Particolare attenzione deve essere data in questo caso nello strutturare la

comunicazione, per non cadere nei messaggi in seconda persona

camuffati o per non veicolare messaggi valutativi, di tipo accusatorio, di

scarico di responsabilità.

Oltre alle comuni caratteristiche delle tre parti del messaggio, sarà quindi

essenziale ricordare anche quanto segue:

1. Fatti: è necessario illustrarli utilizzando quando e se, perché è

particolarmente importante in questo caso che l’educando capisca

che è un suo particolare comportamento a non essere accettato e

non tutta la sua persona.

2. Effetti del comportamento: devono essere esplicitati in modo

preciso: una disapprovazione generica lascia l’altro

nell’incertezza, nell’impossibilità di capire da dove cominciare per

venire incontro ai bisogni di chi parla.

3. Sentimenti: prima di essere espressi devono essere analizzati in

modo dettagliato per identificare quali fra essi siano i sentimenti

primari determinati dal problema.

Fra i sentimenti, la collera necessita di una trattazione a parte.

Ovviamente se la collera viene espressa in un messaggio in prima

persona (es. quando fai…sono arrabbiato…perché…), tale messaggio

viene comunque recepito come valutazione negativa sulla persona e

interpretato come: “sono arrabbiato con Te”, “Tu mi hai fatto

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arrabbiare”. La collera infatti è una manifestazione di solito piuttosto

intensa, che può spingere a desiderare di vendicarsi sulla persona origine

del disagio, scaricandole la colpa o in qualche modo ferendola.

Gordon suggerisce di imparare a controllare la collera, imparando a

risalire al sentimento primario che l’ha generata.

La collera, infatti, è un’emozione secondaria, derivante da sensazioni

varie: paura, delusione, frustrazione, sensazione di ingiustizia…

La collera può anche essere vista come difesa della persona rispetto alla

difficoltà di mettersi in discussione e di assumersi le sue responsabilità in

rapporto al comportamento non accettato.

In ogni caso, Gordon afferma che quello che deve essere espresso nel

MPP di confronto è il sentimento primario, cioè l’unico sentimento

realmente coerente con gli effetti concreti di un comportamento e il solo

veramente credibile agli occhi di chi agisce tale comportamento.

Il sentimento primario, essendo fra l’altro meno intenso della collera,

consente di vedere la situazione problematica nella giusta prospettiva e

consente di assumersi la propria parte di responsabilità nella ricerca di

una soluzione.

Formulare i MPP di confronto nei termini sopra descritti, equivale a

mandare all’educando delle richieste di aiuto, che

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- non scaricano su di lui la responsabilità della situazione, ma la

mantengono dalla parte dell’adulto

- lo fanno sentire attivo e utile in quanto unico depositario della

possibilità di fare qualcosa per far stare meglio l’educatore

- lo fanno sentire uguale all’educatore: due esseri umani, entrambe

con le proprie esigenze, che si possono aiutare reciprocamente.

In questo stato d’animo, l’educando sarà più disponibile a cambiare il

proprio comportamento nella direzione desiderata dall’educatore, a

mettere in campo e a sperimentare tutte le sue capacità creative in tal

senso.

Da un punto di vista teorico, prevedere tale disponibilità significa

presupporre che la persona sia naturalmente buona, attiva, cooperante

(psicologia umanista). Da un punto di vista pratico, tale disponibilità sarà

tanto maggiore, quanto più l’educatore si sarà mostrato accettante nei

confronti dell’educando in tutte le situazioni, ma particolarmente in

quelle problematiche per quest’ultimo (vedi nota 6, Capitolo 4)

5.3 Benefici e rischi dell’autorivelazione

Nei paragrafi precedenti, sono stati di volta in volta illustrati i benefici

dei diversi MPP.

In generale si può affermare che i benefici per l’educando sono:

- aumento dell’autostima

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- responsabilizzazione

- interiorizzazione delle conseguenze delle proprie azioni48

- fiducia nelle proprie capacità

- considerazione dell’educatore come di una persona e, di

conseguenza, maggiore disponibilità ad una relazione profonda

con lui

- modelling: cioè l’educando impara ad autorivelarsi attraverso i

MPP avendo appreso un modello di:

comportamento: è legittimo dire di desiderare qualcosa,

comunicazione: è possibile esprimere i propri sentimenti

senza colpevolizzare, minacciare o mortificare l’altro

Ma i benefici dei MPP sono prima di tutto per l’educatore che li esprime.

Egli infatti utilizzandoli si accorge che:

- le sue esigenze sono più facilmente rispettate e nello stesso tempo

il suo intervento è più efficace per la crescita e lo sviluppo

dell’educando,

- la sua autostima aumenta, perchè egli si sente migliore, come

persona e come professionista, ed anche più forte e responsabile,

grazie alla sua maggiore apertura, chiarezza e sincerità,

48 La consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni porta a sviluppare autodisciplina e autocontrollo.

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- la consapevolezza di sè aumenta. Infatti l’educatore, attraverso

l’espressione del proprio essere agli altri, entra maggiormente in

contatto con se stesso, con i propri sentimenti, valori opinioni,

esigenze e, di conseguenza, con la propria capacità di tolleranza e

di apertura all’altro.

- l’esprimere i sentimenti invece di reprimerli ha su di lui lo stesso

effetto catartico che l’ascolto attivo ha sull’educando,

- la relazione educativa migliora perché l’autorivelazione:

consente agli altri una migliore comprensione dell’educatore

stesso, delle sue opinioni, dei suoi sentimenti, dei suoi

pensieri e valori, prevenendo, di conseguenza, anche i

conflitti,

favorisce l’intimità della relazione educativa stessa, la

fiducia e il rispetto reciproci49.

Come in tutte le scelte, la decisione di utilizzare i MPP oltre ai benefici

può però comportare dei rischi: ciò che conta quindi è valutare se i

benefici potenziali per sé, per gli altri e per le relazioni, valgono il

rischio che si corre.

49 Grazie al fatto, citato sopra come modelling, che la sincerità e la congruenza dell’autorivelazione diventano un modello per l’altro, sono per così dire “contagiose”.

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In questo caso, a fronte di benefici sia per l’educatore che per

l’educando, i rischi sono per lo più per l’educatore.

Il rischio principale per quest’ultimo è, soprattutto all’inizio, quello di

esporsi. Tale rischio è legato alla possibilità del rifiuto dell’altro, tanto

più dolorosa in quanto ciò che viene eventualmente rifiutato è il Sé più

profondo e autentico.

Un altro rischio è quello della messa in discussione di se stesso:

l’autoanalisi necessaria per essere e per esprimere il Sé autentico, può

portare alla consapevolezza di doversi e/o volersi modificare50. In questo

caso si potrebbe anche vivere il rischio come opportunità di crescita

personale, che però, come ogni fase di sviluppo, porta con sé la sua

sofferenza e le sue incognite rispetto al risultato.

Un altro rischio è quello che un messaggio di confronto può, per il

meccanismo di modelling, essere in un'altra situazione rivolto

all’educatore stesso: egli cioè deve sentirsi disposto ad accettare “sulla

sua pelle” la possibilità di questo confronto. Rispetto a questo rischio è

messa in discussione la congruenza dell’educatore e della sua scelta del

Metodo di Gordon come metodo educativo.

50 In questo modo l’educatore mette in atto contemporaneamente due delle possibilità di azione viste sopra per risolvere una situazione per lui problematica: la modifica del comportamento dell’altro e la modifica di se stesso.

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L’essere disposti a correre i tipi di rischi sopra esposti, dipende

essenzialmente

- dalla fiducia che si sente di poter riporre nell’altro

- dalla possibilità reale che il rischio si traduca in un qualcosa che

avvicini all’obiettivo educativo che ci si pone.

Se tutto quanto sopra esposto in termini di benefici conseguenti

all’utilizzo dei MPP, sembra spingere nella direzione di accettare in

generale il rischio, Gordon comunque precisa che di volta in volta, nelle

diverse occasioni, l’educatore dovrà “fare quello che gli sembra

opportuno” per sé e per la realtà circostante.

Gordon cioè risponde alla domanda “bisogna sempre dire quello che si

pensa a tutti e in qualsiasi occasione?”, con una regola empirica:

se un MPP avvicina allo scopo educativo che ci si prefigge, allora

bisogna esprimerlo,

se non avvicina, non si deve esprimerlo,

se si ha un dubbio, conviene comunque rischiare confidando che

l’onestà e l’umanità dimostrati riescano a smuovere qualcosa

nell’altro.

Il correre il rischio vale la pena, secondo Gordon, perché i MPP sono sì

efficaci abilità di comunicazione, ma sono anche e soprattutto qualcosa

di più: sono la nuda verità dei fatti e quindi un valore potente da

incarnare per se stessi e per gli altri.

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6. Il cambio di marcia

Nel paragrafo precedente si sono dati per scontati due fatti, in quanto di

solito essi si verificano come conseguenza di una comunicazione

efficace tramite i MPP di confronto:

L’altro non si risente del MPP

L’altro può e vuole cambiare il proprio comportamento per venire

incontro alle esigenze di chi parla

Talvolta però può succedere che anche il miglior MPP di confronto causi

all’altro dispiacere, sorpresa, imbarazzo oppure può succedere che il

comportamento che si richiede di cambiare sia per l’altro in qualche

modo importante.

Di conseguenza un educatore, quando invia un MPP di confronto, deve

prestare attenzione ai messaggi di risposta dell’altro: se tali messaggi

indicano in modo più o meno esplicito resistenza, reazioni di polemica,

atteggiamenti di difesa, di colpa, di diniego, di malessere o offesa, può

essere controproducente inviare MPP sempre più forti che finirebbero

per creare tensione nella relazione e risentimento. Infatti, in tale

situazione i MPP potrebbero essere vissuti dall’educando allo stesso

modo dei messaggi in seconda persona, cioè come costrizioni o

imposizioni mascherate. La resistenza che ne seguirebbe potrebbe invece

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essere vissuta dall’educatore come disinteresse, mancanza di

disponibilità nei suoi confronti.

Se l’educatore legge nell’altro sintomi di disagio, deve secondo Gordon

cambiare marcia, cioè, rendendosi conto che l’educando ha dei

problemi a causa del MPP, deve mentalmente spostare la situazione

nell’area della finestra problematica per quest’ultimo ed applicare

l’abilità del caso, cioè l’ascolto attivo: in questo modo l’atteggiamento

dell’educatore passerà da invio/assertività ad ascolto/comprensione.

In un dialogo, il passaggio fra MPP e ascolto attivo può avvenire più

volte. Tale passaggio fa capire all’altro che l’educatore

non è lì per soddisfare il suo bisogno a spese dei bisogni degli

altri

capisce ed accetta le reazioni altrui

capisce ed accetta la difficoltà del cambiamento

Il cambio di marcia di solito dissolve i sentimenti di resistenza al MPP di

confronto e, consentendo all’altro di risolvere il suo problema, favorisce

il pervenire a quella che può essere definita una soluzione di

compromesso, cioè ad una soluzione soddisfacente per tutte le parti.

E’ importante sottolineare il fatto che si pervenga ad una soluzione che

comunque risolve i problemi di tutti: l’educatore prende in

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considerazione il problema dell’altro abbandonando per un attimo la

soluzione del proprio, ma questo non significa che cade nel

permissivismo, significa che accetta di percorrere una strada diversa.

Se però nemmeno il cambio di marcia è sufficiente a risolvere i problemi

di tutte le parti, ci si trova allora in una situazione di conflitto.

Il prossimo capitolo è dedicato alla soluzione di tali situazioni.

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7. Risolvere i conflitti

In base al modello di rapporto interpersonale adottato da Gordon, con

conflitto si intende uno scontro, un contrasto tra due o più persone che

può verificarsi in due forme:

a. il comportamento di uno interferisce con le esigenze dell’altro in

modo tangibile e concreto

b. i valori dei singoli individui sono discordanti.

I conflitti fra le persone in tutti gli ambiti sono esistiti ed esisteranno

sempre, perché sono inevitabili. Anzi una relazione che non presenti mai

conflitti, può suggerire che per qualche motivo una delle parti sia troppo

spaventata per sfidare l’altra.

Non si può d’altra parte pensare che la causa del conflitto sia da

attribuire ad una sola delle parti in relazione: il conflitto è un problema

comune perché coinvolge entrambe le parti. La sua causa vera è da

cercare nel fatto che ciascuno è convinto che ciò che l’altro fa o non fa

gli rende la vita difficile, non rispetta le sue esigenze.

Secondo Gordon, di per sé un conflitto non è dannoso: ciò che lo può

rendere distruttivo è il metodo usato per risolverlo o il non risolverlo

affatto.

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Una soluzione che abbia come scopo la vittoria di una parte sull’altra,

renderà la relazione sempre più difficile, perché la parte perdente vivrà

sentimenti di frustrazione, risentimento e rabbia nei confronti dell’altra.

Al contrario una soluzione che si basi sulla collaborazione conseguente

alla consapevolezza che il problema è di tutti creerà un’atmosfera in cui

il conflitto possa manifestarsi, ma anche essere risolto in modo creativo

ed efficace per tutti.

A partire dalle osservazioni sopra riportate, Gordon non si è prefissato

di eliminare il conflitto, cosa impossibile, ma di:

ridurlo

definire un modo sano, costruttivo e democratico di gestirlo

L’utilizzo dell’ascolto attivo e dei MPP contribuisce a ridurre le

possibilità di conflitto sia risolvendo in modo “preventivo” alcune

difficoltà che potrebbero insorgere51, sia creando un clima di apertura

reciproca, di condivisione, di affetto, di fiducia.

Invece per gestire i conflitti, Gordon suggerisce processi diversi a

seconda della forma in cui i conflitti stessi si presentano.

51 Cioè queste abilità ampliano l’area non problematica

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7.1 Conflitti di soluzioni

Pensando ad una situazione di conflitto fra educatore ed educando,

l’immagine che automaticamente si visualizza è quella dell’educatore

che, non condividendo le idee dell’educando, cerca di contrastarle e

dell’educando che si oppone al volere dell’educatore52.

Secondo Gordon, la situazione reale non è in questi termini: il conflitto

non riguarda, le idee, il volere, in una parola i bisogni, delle due parti,

ma riguarda le soluzioni che le due parti hanno trovato per soddisfare i

propri bisogni.

Come già visto in precedenza, uno stesso bisogno può essere soddisfatto

in modi diversi: sono questi modi che entrano in conflitto.

Se ciascuno si attacca al proprio modo: “voglio fare a modo mio e ho

intenzione di lottare per riuscirci”, se ciascuno vive il conflitto come una

questione di principio, il conflitto diventa una lotta di potere e, di

conseguenza, non può aver soluzione, se non quella che una delle due

parti utilizzi il suo potere sull’altra. Succede così che uno vince e uno

perde

Al contrario secondo Gordon, se le due parti si confrontano sui rispettivi

bisogni che hanno motivato la scelta delle soluzioni conflittuali, possono

scoprire che questi sono sempre compatibili, cioè che è sempre possibile

escogitare insieme una soluzione che rispetti i bisogni di ciascuno. Non è

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necessario che la soluzione trovata abbia valore universale, è sufficiente

che essa sia soddisfacente per le parti in causa: essa sarà cioè una

soluzione personale e creativa.

In pratica succede che l’accettazione dei bisogni personali compatibili,

andando a sostituire la non accettazione delle soluzioni incompatibili,

crea il clima e le premesse per l’elaborazione della soluzione.

Ma se la soluzione va bene per tutti, allora tutti vincono insieme e

nessuno perde.

Questo è proprio il concetto ispiratore del Metodo di Gordon: tutti hanno

il diritto di soddisfare i propri bisogni, cioè tutti devono vincere e

nessuno deve perdere.

Nella pratica della soluzione dei conflitti, i concetti teorici sopra esposti

si traducono secondo Gordon in tre metodi:

Metodi I e II53: metodi basati sul potere, sulla logica del vinci e

perdi. Per abitudine, le persone ritengono che tali metodi siano le

uniche due strade percorribili in presenza di un conflitto.

Metodo III: metodo basato sulla cooperazione, sulla presa di

decisioni democratiche, sulla logica del vincere insieme. Alle

52 Quest’immagine può ovviamente essere estesa al conflitto fra due persone qualsiasi. 53 Tale notazione viene utilizzata da Gordon per sostituire i termini, talvolta ambigui per l’uso e l’abuso, di autoritario e permissivo

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persone deve essere detto, spiegato che esiste questa terza via e in

cosa differisce dalle predenti54.

Metodo I

Quando si verifica un conflitto, l’educatore che applichi questo metodo

ha una sua soluzione “vincente”, che spera sia accettata dall’educando.

Se questo oppone resistenza, l’educatore prima cerca di convincere, poi

minaccia l’uso del potere o lo usa effettivamente, per imporre sull’altro

la soluzione rispetto a cui non è d’accordo.

La situazione può essere schematizzata come segue

Flusso di risentimento

54 Gordon, nel corso della propria esperienza di formatore, si è reso conto che poche persone sono consapevoli di applicare un “metodo” ben preciso mentre risolvono un conflitto: esse di solito applicano il metodo I o II perché così hanno visto fare, così è stato fatto con loro. E’ raro inoltre che esse riconoscano che il comportamento dell’altro all’interno del conflitto possa essere direttamente connesso al metodo da loro usato per risolvere il conflitto stesso. Per questi motivi è importante spiegare gli effetti dei primi due metodi: tale spiegazione secondo Gordon assume il ruolo di una rivelazione che apre la strada alla comprensione del significato del Metodo III.

educatore

educando

Soluzione accettabile per

l’educatore

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Le conseguenze sull’educando saranno, da un punto di vista psicologico

(sentimenti, reazioni, coping modelling…), le stesse che si verificano

con il metodo educativo punitivo.

Si può aggiungere in particolare rispetto alla soluzione del conflitto:

- scarsa motivazione dell’educando a metterla in pratica perché non

la condivide o comunque la sente come imposizione

- necessità per l’educatore di continuare a utilizzare il potere per far

sì che la sua decisione sia rispettata, con conseguente perdita di

tempo ed energie, deterioramento progressivo della relazione

educativa

- trasgressione da parte dell’educando non appena la soglia dell’uso

del potere si abbassa (es. in assenza dell’educatore).

E’ comunque possibile che in determinate situazioni l’uso di questo

metodo sia l’unica strada percorribile:

situazioni di emergenza (es. butta immediatamente quel

coltello!)

quando si ha a che fare con moltissime persone (La festa è

finita, tutti a casa)

Bisogna tenere conto però che in qualsiasi caso il perdente proverà

risentimento ed ostilità verso il vincitore

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Metodo II

Anche l’educatore che applichi questo metodo ha una sua soluzione

“vincente”. Tutto si svolge come per il Metodo I: se l’educando non

accetta la soluzione, l’educatore cerca di convincere e a questo punto si

invertono i ruoli: l’educando minaccia e l’educatore cede.

Le minacce dell’educando possono essere diverse: andarsene, smettere di

studiare, non mangiare, fare qualcosa che sa essere disapprovato

dall’educatore…

La situazione può essere schematizzata come segue

Flusso di risentimento

Secondo Gordon, l’educatore che di fronte alla resistenza e alle minacce

dell’educando rinuncia è falsamente attento ai bisogni di quest’ultimo e

sacrifica in modo sbagliato e improduttivo i propri bisogni: in questo

modo tutti vengono privati della soddisfazione dei propri reali bisogni e

si favorisce lo svilupparsi nell’educando di tutte le conseguenze

educando Soluzione

accettabile per l’educando

educatore

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psicologiche, emotive e comportamentali viste per il metodo educativo

permissivo.

In modo particolare, la gestione dei conflitti secondo il Metodo II,

“obbliga” l’educando ad utilizzare il potere, imparando ad utilizzare

quali strumenti: scatti d’ira, dire cose cattive, urlare, piangere, essere

lamentoso fino all’esasperazione, imparando in pratica a fare sentire in

colpa l’educatore.

Quest’ultimo poi pagherà l’utilizzo di questo metodo in termini di

frustrazione e risentimento nei confronti dell’educando vincente.

I due metodi sopra esposti bloccano la relazione educativa in un clima

di:

- competitività

- ostinazione

- mancanza di riguardo e rispetto per le esigenze dell’altro

- mancanza di affetto reciproco

- mancanza di collaborazione.

Oscillazione fra i Metodi I e II

Può succede che un educatore nella risoluzione dei conflitti utilizzi

alternativamente i due metodi sopra esposti, spesso in questi termini:

ritiene opportuno il Metodo II, finché ad un certo punto non ce la fa più,

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la situazione diventa talmente ingestibile, che opera interventi secondo il

metodo I (sentendosi poi in colpa per averlo utilizzato).

Di fronte a questo modo di comportarsi dell’educatore, l’educando è

disorientato, è costretto a stare sempre in guardia, perché non gli è chiaro

quali siano i limiti e le regole da rispettare all’interno della relazione e

delle varie situazioni.

Metodo III

I metodi precedentemente descritti utilizzano il potere e si basano, di

conseguenza, sull’ipotesi che nella relazione una delle sue parti abbia

maggior potere dell’altra. Se invece le due parti avessero lo stesso

potere, i due metodi porterebbero ad una situazione di stallo, in cui

nessuno ha l’intenzione di cedere.

Il Metodo III parte invece dall’ipotesi di rinunciare alle lotte di potere: si

prevede che le parti coinvolte collaborino per trovare una soluzione al

conflitto che sia accettabile per tutti, senza costringere nessuno a subire

il potere dell’altro.

All’interno della relazione educativa, sarà l’educatore che, valutando di

trovarsi in presenza di un conflitto, inviterà l’educando a partecipare alla

ricerca di soluzioni accettabili per entrambi.

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Ciascuno, in tale ricerca, metterà in gioco la propria disponibilità ad

accettare le esigenze dell’altro, la propria creatività, la propria Autorità I

(impegni e intese reciproche). Non ha importanza poi chi troverà la

soluzione adatta, l’importante è che essa rispetti i bisogni di ciascuno

Questa impostazione, come visto sopra, traduce in pratica la filosofia del

vincere insieme e trasforma il conflitto in un evento positivo, occasione

per conoscersi meglio, per migliorare nell’interazione le personali

capacità di soluzione dei problemi. Essa inoltre sostituisce la

competizione dei Metodi I e II con la cooperazione.

La situazione può essere schematizzata come segue.

Sentimento di rispetto

Comunicazione nei due sensi

Soluzione accettabile per entrambe

educatore

educando

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Il Metodo III è un processo e, in quanto tale, non fornisce una soluzione

immediata, bensì presuppone una serie di interazioni, di aggiustamenti

reciproci.

Il processo definito da Gordon si rifà al metodo in sei fasi per la

risoluzione dei problemi individuali proposto da John Dewey. Gordon

applica questo “metodo scientifico” alla soluzione dei conflitti tra

individui e tra gruppi, egli cioè intende il conflitto come problema da

risolvere.

Secondo Gordon, le fasi sono le seguenti:

0. definire il contesto

1. definire il problema

2. escogitare le possibili soluzioni

3. valutare le soluzioni

4. scegliere le soluzioni accettabili per entrambi

5. attuare le soluzioni

6. verificare le soluzioni

dove la fase 0. può essere intesa come “fase di riscaldamento” e come

area di sicurezza cui tornare se il processo dovesse bloccarsi nel corso

delle fasi successive.

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Prerequisiti

Prima di utilizzare il Metodo III un educatore deve essere padrone delle

altre tecniche del Metodo di Gordon:

- l’ascolto attivo: deve saper ascoltare l’altro, le sue esigenze, le sue

proposte di soluzioni

- i messaggi in prima persona: deve saper esprimere chiaramente le

proprie esigenze non svalutando o minimizzando i propri

sentimenti, ma anche cercando di non drammatizzarli55.

Inoltre deve essere sicuro che il conflitto e il problema che lo sottintende

si trovino nella sua area di libertà, cioè si tratti di una questione che sia

di competenza sua e non invece di altri soggetti (es. superiori, strutture

pubbliche….).

Gordon, basandosi sulla propria esperienza nell’applicazione e

nell’insegnamento del Metodo, suggerisce anche di:

non utilizzare il Metodo III per la prima volta all’interno di una

certa relazione educativa, allo scopo di risolvere un conflitto

precedentemente risolto con il Metodo I o, se è necessario farlo,

prestare attenzione a :

ridiscutere la situazione dalla base

55 Drammatizzare eccessivamente può spaventare l’educando o renderlo scettico rispetto alla sincerità del sentimento espresso dall’educatore. In questo modo il MPP può essere vissuto come tentativo di manipolazione, con conseguente riduzione della disponibilità e dell’interesse a partecipare al processo di soluzione del conflitto.

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ridefinire in modo democratico regolamenti e regole

condivise

annullare tutte le decisioni precedenti, in riferimento alle

nuove regole

evitare assolutamente nel corso di tutto il processo, l’utilizzo di

messaggi in seconda persona

coinvolgere esclusivamente le persone che hanno a che fare con il

conflitto o che siano direttamente toccate dalla decisione finale. se

il processo viene utilizzato per risolvere un conflitto di gruppo

Fasi

0. Questa fase permette di creare le condizioni favorevoli per lo

svolgimento del processo di soluzione vero e proprio.

Per prima cosa l’educatore deve accertarsi che ci sia sufficiente

tempo per completare una o più fasi: interrompere una fase a metà

sarebbe molto controproducente, perché lascia una sensazione di

incompiutezza e il discorso deve essere completamente rifatto

nella sessione successiva.

Inoltre, fondamentale per la riuscita del Metodo III è che tutte le

parti siano disponibili ad applicarlo: questo significa che

l’educatore deve prima spiegare che ci sono dei modi con cui è

possibile risolvere un conflitto (Metodi I e II) in modo non

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soddisfacente per qualcuna delle parti e che, per evitare questo,

egli ha intenzione di applicare un metodo del tutto diverso

(Metodo III) attraverso il quale pervenire ad una soluzione il più

possibile rispettosa delle esigenze di tutti.

Una volta completata la spiegazione, tramite l’ascolto attivo

l’educatore deve:

accertarsi che gli educandi abbiano ben compreso quello

che si sta per intraprendere e che siano disponibili in tal

senso,

accogliere eventuali scetticismi (il metodo non è un trucco

per raggirare l’altro) o malintesi e cercare di risolverli,

ribadire che non si tornerà ad utilizzare i Metodi I e II.

Questa fase è fondamentale le prime volte che si applica il metodo

e, come accennato sopra, ci si può tornare in situazioni di stallo

delle fasi successive. Una volta che il Metodo III sia diventato la

modalità abituale di risoluzione dei conflitti all’interno di una

certa relazione, tale fase non sarà più necessaria

1. Questa è la fase fondamentale del processo di problem-solving:

Gordon afferma che se il Metodo III non funzione si è certamente

sbagliato qualcosa in essa. Insieme le parti dovranno definire il

problema in modo che la formulazione dello stesso non contenga:

accuse o giudizi,

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soluzioni desiderate

Rispettando tale schema, l’educatore esprimerà con precisi MPP i

propri bisogni e utilizzerà l’ascolto attivo per aiutare l’altro ad

esprimere i suoi bisogni in modo corretto56. E’ molto importante

che l’ascolto attivo non si rivolga esclusivamente ai “fatti

concreti”, ma anche all’espressione dei sentimenti e

particolarmente all’eventuale rabbia e chiusura iniziali.

Prima di procedere alla fase successiva è fondamentale accertarsi

che la definizione del problema sia espressa in termini di bisogni

piuttosto che di soluzioni incompatibili, sia condivisa ed accettata

da tutti e che i bisogni di tutti siano espressi fedelmente. Se le

esigenze sono numerose, può essere utile scriverle.

Talvolta, un’interruzione del processo di problem solving a questo

punto può consentire di lasciar decantare le emozioni e di riflettere

sulle esigenze espresse dagli altri

2. Questa è la fase creativa del processo di soluzione. Inizialmente

può essere utile che l’educatore

esprima frasi facilitanti la messa in moto della verbalizzazione

delle possibili soluzioni (es. Vediamo quante idee riusciamo a

proporre..),

56 Aiutare l’altro a distinguere i propri bisogni dalla soluzione desiderata è fondamentale perché egli riesca ad affrontare il conflitto come conflitto di soluzioni e non di bisogni.

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faccia in modo che siano gli educandi i primi a proporre idee e

le accolga tramite l’ascolto attivo

esprima liberamente le proprie idee solo in un secondo tempo.

E’ importantissimo che tutte le idee siano prese in considerazione

senza valutazioni o critiche (di pertinenza della fase successiva):

in questa fase conta il numero di soluzioni collezionate. Bisogna

quindi incoraggiare anche le opzioni più strane e bizzarre e trovare

un modo per non perderne nessuna. Per esempio si possono

scrivere le proposte oppure si può registrare il dialogo.

Conta molto anche la velocità della discussione, per non rallentare

la “pazzia creativa” (brainstorming). Se invece il flusso di idee

dovesse languire si possono inviare frasi stimolanti (es. ci sono

certamente altre soluzioni che possiamo proporre!) o si può

riprendere la definizione del problema, come ottenuta nella fase

precedente.

Se il conflitto in esame è pertinenza di un gruppo, l’educatore

dovrà avere anche l’attenzione di incoraggiare ciascuno ad

esprimersi, senza insistere eccessivamente e senza nominare

pubblicamente nessuna persona specifica.

3. Questa fase va avviata con espressioni facilitanti quali: che ne

pensate di queste idee? E’ arrivato il momento di dire quali

soluzioni vi piacciono e quali no.

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L’educatore stesso dovrà esprimersi con MPP chiari e autentici e

dovrà, nel caso stia conducendo un gruppo, incoraggiare tutti a

dare il proprio parere, utilizzando eventualmente farsi del tipo:

“Non mi sembra di aver sentito l’opinione di tutti e sono curioso di

sapere cosa ne pensa ciascuno”. Inoltre egli dovrà porre attenzione

ai messaggi non verbali di soddisfazione e insoddisfazione, così da

permetterne la presa di coscienza e la verbalizzazione.

Tutte queste attenzioni sono motivate dal fatto che la massima

sincerità da parte di tutti è essenziale per la buona riuscita del

problem solving: non si può permettere infatti che sia adottata una

soluzione che non sia veramente accettata da ciascuno, perché

altrimenti ci sarebbe poca motivazione a metterla in pratica (cade

così il senso del Metodo: la condivisione, la cooperazione,

l’impegno reciproco). Una volta espresse le critiche e una volta

che l’educatore tramite l’ascolto attivo si sia accertato che tutti

abbiano compreso le opinioni e i sentimenti degli altri, è

importante anche che ciascuno difenda con argomentazioni

appropriate la propria soluzione. Attraverso le valutazioni e

l’analisi delle soluzioni trovate, infatti, è possibile trovarne delle

nuove non pensate in precedenza, è possibile migliorare quelle già

trovate: bisogna tenere conto che un difetto di valutazione in

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questa fase aumenterà la probabilità di raggiungere una soluzione

mediocre, che non verrà portata avanti con serietà.

4. Lo scopo di questa fase è di determinare fra le soluzioni proposte

quella che è ritenuta da tutti la migliore o che perlomeno tutti sono

disposti a provare.

Se le fasi predenti sono state svolte correttamente, questa fase è

semplice, anzi talvolta può essere saltata in quanto nel corso del

processo può essere già emersa una soluzione ovviamente migliore

delle altre.

Se al contrario fosse necessaria una discussione, Gordon,

suggerisce all’educatore di:

prestare attenzione prima di tutto ad ogni tipo di messaggio

di consenso e dissenso

non spingere verso una soluzione ritenuta “perfetta”

dall’educatore stesso

non accelerare i tempi della discussione per arrivare ad una

soluzione

verificare le soluzioni proposte, cioè chiedere all’altro di

immaginare come potrebbe funzionare una certa soluzione

se fosse scelta. Per stimolare tale verifica, l’educatore

potrebbe inviare domande quali: questa soluzione

risolverebbe il nostro problema? ci sono dubbi a riguardo?

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precisare bene che la scelta di una particolare soluzione non

è una decisione irrevocabile, tale scelta può cioè essere

cambiata in qualsiasi momento se si rivela insoddisfacente.

In particolare se l’educatore si trova a condurre un gruppo, Gordon

suggerisce di:

verificare eventuali situazioni di consenso generale

non fare mai delle votazioni: la votazione infatti per sua

natura determina dei vincenti e dei perdenti, a meno che ci

sia unanimità

fare eventualmente delle pseudovotazioni, cioè farsi un’idea

degli orientamenti rispetto a ciascuna soluzione in termini di

numero di persone pro, contro, indifferenti

scrivere la soluzione, una volta concordata, ed

eventualmente chiedere di firmarla, come se fosse un

contratto reciproco. Richiedere la firma consente di

verificare il reale consenso rispetto alla soluzione. Se infatti

qualcuno dovesse esitare, significa che non è del tutto

convinto57: sarà allora necessario utilizzare l’ascolto attivo

per verificare lo stato d’animo.

Tutti i suggerimenti precedenti sono orientati dall’obiettivo di

questa fase, e cioè l’ottenimento del massimo consenso possibile

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rispetto ad una soluzione, consenso che solo garantisce l’impegno

dei singoli nell’attuazione della soluzione prescelta.

5. Tutto il processo di problem solving può concludersi in

frustrazione, se gli accordi presi non riescono ad essere messi in

pratica. Per questa ragione appena si è raggiunta una decisione,

bisogna discutere della sua attuazione pratica, in particolare

bisognerà stabilire chi fa cosa e a partire da quando. Per innescare

questo fase, potrebbero essere utili frasi del tipo: cosa può servire

per mettere in atto la nostra decisione? chi se ne prende la

responsabilità?…. E’ inoltre opportuno precisare dei modelli di

riferimento per le azioni decise: per esempio se si stabilisce in una

comunità che ciascuno deve tenere pulita la propria stanza,

precisare cosa si intende per camera pulita.

Secondo Gordon, non è consigliabile a questo punto minacciare

punizioni o sollevare la questione di cosa fare se non ci si attiene

agli impegni pratici presi di comune accordo. L’atteggiamento più

costruttivo in proposito è quello della fiducia nell’onestà dell’altro.

Se poi le decisioni dovessero essere disattese, l’educatore dovrà

rispondere con MPP di confronto o con suggerimenti che facciano

riferimento al progetto comune58. Mai comunque l’educatore

57 Può infatti accadere che qualcuno subisca la pressione del gruppo e vi si sottometta. 58 Secondo Gordon tali suggerimenti sono fondamentali con i bambini: l’età, infatti, può influire sulla capacità di agire comportamenti tenendo sempre presenti gli impegni presi.

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dovrà cedere alla tentazione di sorvegliare e rimbrottare

continuamente: tale atteggiamento infatti non favorisce lo

svilupparsi del senso di responsabilità nei confronti degli impegni

presi, induce al contrario dipendenza e risentimento (si percepisce

la mancanza di fiducia).

Gordon segnala che per educandi abituati al Metodo II nella

risoluzione dei conflitti, può essere difficoltoso, soprattutto

all’inizio, rispettare con attenzione agli impegni presi: sarà

opportuno allora che l’educatore esprima dei MPP di confronto

finché non venga ben compreso che l’inadempienza non può

essere accettata.

6. Per evitare continui e disturbanti richiami al “contratto

sottoscritto”, vale la pena di indicare direttamente nel corso del

problem solving momenti prestabiliti in cui fare il punto della

situazione, tenersi in contatto con i sentimenti e le impressioni

proprie e dell’altro.

D’altra parte è a priori previsto dal Metodo III che una decisione

che non si riveli soddisfacente possa essere modificata o sostituita.

Sarebbe allora opportuno, in previsione di questa possibilità o

anche in previsione del sopraggiungere di condizioni nuove o

impreviste, che siano stabiliti in partenza dei criteri di misurazione

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dell’efficacia della soluzione (primo fra tutti ovviamente la

scomparsa del conflitto) e della soddisfazione delle parti.

Nei momenti di verifica, l’educatore presterà attenzione in

particolare a:

valutare se gli impegni presi nell’entusiasmo del processo di

problem solving siano effettivamente sostenibili e non siano

troppo gravosi

sottolineare che, se la soluzione non funziona, potrebbero

essere sorte delle difficoltà rispetto alla soluzione stessa o

alla sua attuazione non prevedibili a priori. Questo per non

far perdere fiducia nel Metodo.

E’ utile comunque fare valutazioni occasionali anche delle soluzioni che

funzionano, per non far sembrare le decisioni irrevocabili in previsione

di successivi processi di problem solving.

Il Metodo III ha ovvi vantaggi legati:

- alla compliance rispetto alla soluzione

- alla riduzione delle reazioni avversive alle soluzioni nei vari

soggetti coinvolti

- allo svilupparsi di sentimenti di complicità e fiducia reciproca

- al modelling, cioè all’acquisizione di un prassi di comportamento

basata sulla cooperazione e sul rispetto dei bisogni personali

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In particolare questi ultimi due vantaggi, fanno propendere per un

precoce utilizzo del Metodo III con i bambini: l’acquisizione del modello

di comportamento esercita un’azione “preventiva” dei conflitti in quanto

l’altro non è percepito come avversario, ma come amico, fonte di aiuto e

collaborazione. In questo modo, ogni disaccordo che può sorgere viene

automaticamente gestito nel confronto dei bisogni e risolto di

conseguenza.

Inoltre l’abitudine al problem solving consente col passare del tempo di

affrontare con maggiore esperienza, fiducia e padronanza di sé le

difficoltà personali o relazioni che diventano con la crescita sempre più

complesse.

7.2 Conflitti di valori

Ripensando alla finestra del comportamento, si può dire che si è fin qui

trattato il Metodo di Gordon in riferimento all’area problematica per

l’educando e all’area non problematica. Rispetto poi all’area

problematica per l’educatore si sono analizzati i problemi risolubili

attraverso una modificazione dell’educatore stesso, dell’ambiente e del

comportamento dell’altro.

Si è visto poi che i problemi che rimanevano irrisolti potevano

configurarsi come conflitti.

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Rispetto alla definizione di conflitto enunciata all’inizio del paragrafo, si

si è trattato il Metodo III per la risoluzione dei conflitti rientranti nel

primo caso, cioè di quei conflitti in cui il disaccordo si riferisce a

comportamenti di un soggetto aventi effetti concreti e tangibili, effetti

che un altro soggetto vive come ostacolo alla possibilità di soddisfare i

propri bisogni.

Nonostante tutto restano dei conflitti che le tecniche fin qui utilizzate

non possono risolvere, come è indicato nella tabella seguente.

Finestra del comportamento

Metodo

Area problematica per

l’educando

Ascolto attivo

Area non problematica

Ascolto attivo

MPP Messaggi in seconda persona

→ Modifica di se stesso → Modifica dell’ambiente → MPP di confronto

Area problematica

per l’educatore → Metodo III

Conflitti irrisolti → ?

Tali conflitti si riferiscono a divergenze che possono riguardare:

- opinioni

- convinzioni

- ideali

- credenze

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- gusti

- modi di vivere

Gordon riunisce quanto sopra elencato in una parola: valore. Un valore è

un comportamento (espressione o azione) agito da un soggetto e che non

condiziona direttamente e in modo tangibile un altro soggetto, né

interferisce con i bisogni fondamentali di quest’ultimo.

Le persone, bambini o adulti che siano, in generale sono disposti sulla

base dell’empatia a modificare un comportamento che si rendono conto

interferire con le esigenze dell’altro. E’ come se modificando il proprio

comportamento essi dicessero: so quello che provi e desideri perché i

miei bisogni e sentimenti sono simili ai tuoi.

Viceversa, difficilmente le persone sono disposte a mettere in

discussione i loro valori, prima di tutto perché non vedono quale

“interesse” l’altro possa avere rispetto a tali valori, non vedono in pratica

quali difficoltà creino all’altro, e secondo perchè un valore è sentito

come un diritto e, in quanto diritto, come non negoziabile.

Questo atteggiamento nei confronti dei propri valori, fa sì che, nella

risoluzione di un conflitto, strumenti quali il MPP di confronto e il

Metodo III perdano a priori la propria efficacia (non ci sono effetti

tangibili e concreti cui fare riferimento, non c’è empatia o disponibilità

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in cui avere fiducia) anzi, l’utilizzo di tali strumenti da parte di un

educatore può essere vissuto da un educando come un’intromissione

indebita nella sua sfera di libertà. In conseguenza, quest’ultimo può

chiudersi nelle proprie posizioni e rovinare in tal modo anche il clima

dell’area non problematica.

Siccome non si può utilizzare il Metodo III e nello stesso tempo non si

può far finta di niente, Gordon suggerisce per anche questa situazione

specifiche modalità di intervento. Ma se egli assicura l’efficacia del

Metodo III, una volta che esso sia ben applicato nei suoi casi di

pertinenza, rispetto a tali modalità non inganna con falsi ottimismi: come

in tutte le situazioni qualcosa può sempre essere fatto, ma la risoluzione

dei conflitti di valore è complessa, a volte è impossibile. All’educatore

potrebbe restare solo la strada della “saggezza di saper accettare ciò che

non può essere cambiato”,

Naturalmente il prerequisito per l’utilizzo delle tecniche appropriate alla

gestione dei conflitti di valore è quello di essere sicuri di avere di fronte

una situazione di questo tipo.

I “sintomi” che devono essere rilevati durante un eventuale confronto sui

valori sono:

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l’educatore è in difficoltà nel definire un effetto tangibile e

concreto da esprimere nei MPP di confronto

l’educando mostra sorpresa e incredulità, non sembra capire il

senso del confronto stesso

l’educando lancia messaggi verbali e non verbali che indicano che

non è il caso di discutere dell’argomento

l’educando risponde con un giudizio sui valori dell’educatore.

I “sintomi” nella percezione dell’educatore sono invece:

quel comportamento è al di sotto della mia linea di accettazione

probabilmente l’educando non crede che il suo comportamento mi

condizioni

secondo me l’educando ha un problema che lo danneggia, ma lui

non crede di avere tale problema

Una volta stabilito di trovarsi in presenza di una collisione di valori, per

l’azione Gordon suggerisce otto opzioni, con gradi diversi di rischio per

la “salute” della relazione educativa.

L’utilizzo di tali opzioni è secondo Gordon subordinato ad una pre-

analisi dell’educatore: egli dovrà chiedersi nelle situazioni specifiche

quanto sia importante che le parti della relazione educativa si uniformino

su determinati valori e quanto invece è possibile convivere rispettandosi

nella diversità.

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Di seguito sono elencate le opzioni, a partire da quella meno rischiosa

per la relazione alle ultime due che Gordon non ritiene consigliabili, ma

che include nell’elenco perché potrebbero rendersi necessarie in

situazioni disperate

1. cambiare se stessi: dopo la pre-analisi, l’educatore può ritenere

che il valore che determina il conflitto non valga il costo del

confronto con l’educando. Opta così per la modifica di se stesso,

alzando il suo grado di accettazione, prendendo atto della

differenza esistente, modificando i propri valori (per esempio

imparando ad apprezzare certi tipi di musica...)

2. dare l’esempio: i valori degli educandi possono essere

influenzati dal modo di vivere degli educatori, dai valori che

questi ultimi esprimono a parole e coi fatti. Questa opzione può

essere considerata anche “preventiva” rispetto al conflitto di

valori: essa infatti “lavora nel tempo” e dovrebbe iniziare con

l’inizio della relazione educativa.

3. trasmettere vantaggi: una persona segue un valore perchè lo

ritiene giusto e importante. Di solito però lo persegue anche

perchè da esso ne trae una utilità, utilità che può essere sia

concreta che morale (sentirsi bene, gratificato, accettato dal

gruppo dei pari o dall’ambiente ...). Esplicitare all’educando

quali vantaggi derivano dal perseguire un determinato valore,

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quali bisogni vengono soddisfatti, può aumentare la sua

motivazione ad aderire spontaneamente al valore stesso.

4. usare il confronto/ascolto attivo: può succedere che il confronto

possa influenzare un valore, soprattutto se il valore è in fase di

elaborazione o è relativamente superficiale. In questo caso

l’educatore condurrà il confronto attraverso MPP che

comprendano le tre parti seguenti:

a. il comportamento/valore che sembra inaccettabile

b. gli effetti concreti e tangibili, ma ipotetici che si potrebbero

avere sull’educando

c. la forza dell’interesse e dei sentimenti dell’educatore, nei

confronti dell’educando

Il MPP in questa forma ha effetti positivi sull’educando in

quanto comunica che l’educatore è consapevole che esiste un

problema e lo affronta non come una questione personale, bensì

dimostrando attenzione per l’altro e disponibilità ad impegnarsi

in un dialogo costruttivo sui valori. Quest’ultimo punto è

fondamentale perché apre la strada dell’ascolto attivo, all’interno

del quale si può accompagnare l’educando

alla presa di coscienza del bisogno sottostante l’adesione

al valore (bisogno di sentirsi grande e autonomo, di

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sentirsi considerato dal gruppo, bisogno di stima e di

autostima)

alla ricerca di quali altri comportamenti assumere per

soddisfare il bisogno stesso.

5. dare consulenza: gli educandi potrebbero essere disponibili,

all’interno di una buona relazione, ad accogliere l’influenza della

saggezza e dell’esperienza degli educatori e dei loro valori. In

tale caso gli educatori assumono un ruolo di “consulenti”, ma in

quanto tali devono, secondo Gordon, attenersi alle “regole

d’oro” dei consulenti professionisti:

non imporsi, ma aspettare di essere consultati. In

pratica: accertarsi di essere stati assunti

identificare il problema reale e comunicare solo le

informazioni appropriate, magari documentandosi

prima (es. tatuaggi, sostanze stupefacenti...)

lasciare la responsabilità delle scelte all’altro, non

insistere, non assillare o controllare

non usare mai messaggi in seconda persone o le

barriere alla comunicazione

6. ricorrere al problem solving: può succedere che un educando,

per non avere ripercussioni negative, sia disposto a modificare il

comportamento senza però rinunciare al valore (es. non usare un

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certo tipo di linguaggio in determinati contesti, ma continuare ad

usarlo al di fuori di essi). Per arrivare a questo tipo di

compromesso si può utilizzare il Metodo III.

7. minacciare di ricorrere alla forza: da utilizzarsi tenendo

presenti tutti gli effetti collaterali e, in particolare, che se si

minaccia continuamente, ma non si mette mai in atto la minaccia

stessa si perde di credibilità.

8. ricorrere alla forza: da utilizzarsi solo in occasioni quali il

sentirsi moralmente tenuti a salvare la vita, fisica o psicologica,

dell’educando

7.3 Aiutare l’altro a risolvere i propri conflitti

Naturalmente l’educando può vivere delle situzioni problematiche o di

conflitto, che non coinvolgono direttamente l’educatore.

In tali casi, la prima cosa che quest’ultimo deve fare è distinguere se il

problema:

è solo dell’educando: per esempio un bambino ha il problema di

unirsi ad un gruppo e tenta di risolverlo irrompendo con violenza

e facendo male agli altri bambini. In questo caso, l’educatore

utilizzerà l’ascolto attivo per aiutare il bambino a risolvere il suo

problema, cioè come rapportarsi agli amici

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è nella relazione fra due o più educandi: in questo caso

l’educatore può porsi come mediatore e facilitatore nella

risoluzione del conflitto.

Se il primo caso rientra nella trattazione precedente dell’area della

finestra del comportamento problematica per l’educando, il secondo

pone l’educatore in un ruolo importante, ma molto delicato.

Egli dovrà prima di tutto evitare assolutamente di:

- farsi risucchiare dal conflitto

- schierarsi con una delle parti

- fare da giudice, definire chi ha ragione e chi torto, dare delle

punizioni

Se l’educatore cade in una delle trappole precedenti59, il suo intervento

non solo non sarà efficace, ma sarà addirittura deleterio: il conflitto finirà

solo per complicarsi, coinvolgendo una persona in più.

Soprattutto sarà la relazione educativa ad essere danneggiata.

Per evitare tali trappole, l’educatore tenendo ben presente:

a) di chi è il problema

59 I bambini in modo particolare tendono a coinvolgere l’educatore nei loro conflitti facendo la spia, facendo la vittima o facendo scenate.

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b) chi ha la responsabilità di risolverlo60

cercherà di incoraggiare le parti a parlarsi direttamente e non ad

utilizzarlo come veicolo di rimostranze, rivolgerà l’ascolto attivo a tutte

le parti, in riferimento sia ai contenuti che ai sentimenti, utilizzerà il feed

back per chiarire a tutte le parti i sentimenti espressi61.

Se l’ascolto attivo non fosse sufficiente, l’educatore potrà porsi come

guida nell’applicazione del Metodo III per la risoluzione dei conflitti.

In quanto guida all’applicazione del metodo, egli non deve entrare nel

merito dei contenuti, bensì attenersi all’identificazione delle varie fasi e

alla loro dinamica. L’ascolto attivo è fondamentale anche in questo caso

per capire quando l’educando è pronto a passare da una fase all’altra.

L’educatore dovrà inoltre prestare attenzione a :

o contrastare l’eventuale tendenza di una delle parti a cedere

(Metodo II)

o non accettare che le parti si facciano salvare da una

soluzione imposta dall’esterno

o fare in modo che le parti diano modo alle forti emozioni di

decantare.

60 Deve cioè ricordare che le uniche persone in grado di risolvere un problema di relazione sono quelle implicate nella relazione stessa. 61 Nel caso tali sentimenti fossero già stati espressi in modo chiaro, manterrà un’attenzione silenziosa.

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Il grado di coinvolgimento dell’educatore nel processo di problem

solving dipenderà ovviamente dall’età degli educandi (ricordando

sempre che il Metodo Gordon può essere applicato fin dalla più tenera

età) e dalla loro esperienza nell’utilizzo del Metodo.

L’obiettivo deve comunque essere sempre quello di mantenere il minimo

livello di coinvolgimento possibile, favorendo il percorso dell’educando

verso l’indipendenza.

Il favorire la soluzione dei conflitti fra educandi offre dei vantaggi anche

all’educatore:

a. soluzione del problema contingente

b. acquisizione di sempre maggior competenza

nell’applicazione del Metodo

c. aumento del rispetto reciproco in tutte le relazioni in gioco

(educativa e fra pari)

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8. Il Metodo Gordon come possibilità educativa

Quanto fin qui esposto ha a mio parere evidenziato che anche se Gordon

non ha mai parlato esplicitamente di una figura specifica chiamata

“educatore professionale”, in realtà la “teoria” e la “pratica” che egli ha

elaborato si riferiscono intrinsecamente all’educatore e rivelano che

Gordon stesso era un educatore.

8.1 Gordon educatore

Come si è visto nel primo capitolo, Gordon si muove nel campo

educativo62: egli fa sua la rivoluzione operata dal maestro Rogers in

ambito terapeutico e ne rielabora le conquiste trasferendole e adattandole

all’ambito educativo.

Il centro di interesse di Rogers era la persona:

la persona del cliente, fulcro e artefice del percorso terapeutico

la persona del terapeuta, che attraverso le sue qualità individuali

facilita il percorso terapeutico

Rogers era cioè essenzialmente un terapeuta, teorizzatore di un modo di

essere In Gordon il centro di interesse diventa la persona e la

62 Gordon stesso indica il 1950 quale anno per la nascita della sua “missione educativa”, anno in cui ha progetto presso l’Università di Chicago un breve corso di formazione per leader in ambito educativo e religioso.

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metodologia: egli è cioè essenzialmente un educatore, teorizzatore e

realizzatore di un modo di agire, di un modo di essere vicino

all’educando nella vita di tutti i giorni, di un modo di entrare in relazione

e accompagnare l’educando nel suo percorso di auto-educazione.

Egli è un educatore perché il suo pensiero si struttura in visioni ben

precise riguardo:

1) la filosofia sull’uomo

2) la figura dell’educatore

3) il metodo educativo che dà importanza a

a) relazioni e processi di comunicazione

b) responsabilità

c) tecniche

4) gli obiettivi educativi

5) il modello educativo

6) l’obiettivo ultimo: una società sognata

La “filosofia” di riferimento è, come già detto, quella umanistica che

vede la persona dotata di tutte le potenzialità necessarie per evolversi

autonomamente. Rispetto a questo processo di auto-educazione

l’educatore si pone come il facilitatore del processo stesso attraverso la

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realizzazione di un setting educativo adeguato, come il negoziatore della

soddisfazione delle esigenze e dei bisogni di ciascuno e dell’ambiente.

Il training di formazione dell’educatore è di conseguenza improntato ad

apprendere un metodo per gestire le relazioni, per rendere la

comunicazione più efficace, per rispettare i bisogni di ciascuno (suoi,

dell’educando, dell’ambiente), per sapere attribuire a ciascuno le proprie

responsabilità, per “classificare” le situazioni e i problemi rispetto alle

responsabilità.

L’educatore deve apprendere anche un linguaggio costituto da termini

definiti in modo operativo, cioè definiti attraverso le cose che devono

essere fatte, le tecniche che devono essere utilizzate per tradurre nella

pratica di ogni giorno i termini stessi. Tecniche che non sono la

ripetizione di un copione, quanto piuttosto un modo di “ricordare nel

concreto” i principi ispiratori sottostanti e gli obiettivi educativi.

Viste le premesse, gli obiettivi educativi non possono che essere prima di

tutto l’autonomia dell’educando dall’educatore e, in conseguenza,

l’autocontrollo, l’autodisciplina, l’autostima, l’autodeterminazione,

l’autocritica, il senso di responsabilità e la creatività rispetto al proprio

percorso educativo.

Il prefisso auto ricorda ancora una volta la centralità dell’educando,

questa volta non nel processo bensì nei risultati: la sua libertà, il rispetto

delle sue esigenze, l’espressione del suo modo di essere unico e

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irripetibile, il perseguimento del suo percorso di vita, in una parola

l’autorealizzazione.

Tali risultati possono essere molto diversi dai desideri dell’educatore, dai

suoi valori, dai suoi principi, ma l’educatore li accetta perché ha

rinunciato a porre il centro di interesse in sé, nel proprio desiderio di

ottenere una clonazione di se stesso e di esercitare il suo potere.

In questo modo, Gordon va oltre la definizione di un metodo educativo,

ma fa riferimento ad un modello, uno stile di conduzione e gestione dei

vari ambiti educativi che significa prima di tutto prevenzione e solo in

un secondo tempo riparazione delle situazioni problematiche.

Questo è il modello democratico63, che rinuncia all’utilizzo del potere e

si fonda sul principio di partecipazione delle parti di una relazione nella

- definizione delle regole di comportamento all’interno della

relazione stessa

- conduzione del rapporto

- cura reciproca

In questo modello il potere non serve per far rispettare le regole: esse

sono rispettate sulla base dell’autorità I, cioè sulla base degli impegni

presi reciprocamente in modo condiviso; la differenza di potere non

63 In Gordon, il modello democratico fa riferimento alla Gestione partecipata dell’America delle grandi aziende. Questo stile di conduzione aumenta il coinvolgimento del dipendente nell’assunzione delle decisioni che lo riguardano. Le esperienze hanno dimostrato che questo tipo di gestione porta dei benefici materiali all’azienda, ma ancora di più determina dei benefici per le persone in termini di sviluppo personale, di star bene sul posto di lavoro, di autostima e sicurezza, di percezione di controllo sulla propria vita.

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esiste perché le parti sono uguali, sono persone ciascuna con i propri

sentimenti e bisogni, persone che possono aiutarsi a vicenda.

Il modello diventa così la realizzazione di un obiettivo più complessivo:

la costruzione di una società sognata, democratica e senza lotte di potere,

lotte che risultano essere per le persone una fonte di “malessere”64 e

talvolta di veri e propri disturbi emotivi e psicologici.

8.2 Mezzi per acquisire le competenze Gordon

Gordon è educatore anche nel senso che attraverso il suo Metodo forma

gli educatori.

Nel tempo egli infatti si è reso conto che il modello democratico di

gestione dei diversi ambiti educativi e di vita (dalla famiglia, alla scuola

ecc…) può essere insegnato ed appreso.

In tal senso egli ha scelto di operare utilizzando dei training brevi65 e

interattivi. Gordon strutturava i corsi:

trasmettendo i principi del Metodo e le tecniche da utilizzare

facendo rielaborare66 ai partecipanti la propria storia personale di

educando e la propria esperienza in termini di ruolo educativo.

64 Studi psicologici hanno affermato che le maggiori fonti di stress e frustrazioni per le persone implicano generalmente una qualche forma di eccesso di potere. 65 Per dove seguire tali training si vedano le Appendici D ed E, oltre naturalmente alla possibilità di documentarsi attraverso gli scritti di Gordon. 66 I risultati e gli esempi derivanti da tale rielaborazione sono diventati materiale di riflessione per Gordon, sono citati nei suoi scritti e sono entrati a far parte dei training stessi.

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I training elaborati da Gordon (e poi dai successori del GTI) sono vari e

orientati a figure diverse. Essi hanno la medesima impostazione, sono

cioè orientati a migliorare le relazioni umane e a migliorare l’efficienza

della comunicazione. Le tecniche poi vengono di volta in volta adattate

ai diversi contesti di riferimento: famiglia (PET), scuola (TET), ambiente

di lavoro (LET), giovani (YET)...

Secondo quanto espresso da Gordon stesso, i suoi training vanno oltre

l’insegnamento specifico, per diventare un modello di ruolo e, ancora

più in generale, di interazione quotidiana dei singoli in tutti i loro

contesti di vita.

Da varie parti viene espresso scetticismo rispetto:

a) alla possibilità di insegnare all’educando ad essere autonomo

utilizzando un metodo rigorosamente strutturato.

b) alla possibilità di imparare in corsi così brevi (di durata intorno

alle 30 ore) la filosofia e le abilità necessarie per applicare il

Metodo

Rispetto all’obiezione a), si può affermare che il problema è

effettivamente complesso: di volta in volta l’educatore, a seconda della

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situazione, può optare67 per privilegiare il bisogno delle persone di

autonomia o il bisogno di struttura e sicurezza.

La cosa fondamentale resta però il verificare se l’educatore, quando

utilizza le varie abilità, continua ad ancorarle, secondo le intenzioni di

Gordon, ai valori profondi ed originari di cui esse sono l’espressione

visibile (valore simbolico delle tecniche) o lascia che le stesse

acquisiscano un valore autonomo di capacità di influire sui processi di

sviluppo delle persone e dei gruppi (valore assoluto delle tecniche).

Comunque nel corso dei training, così come nei testi di riferimento,

viene ricordato continuamente di tenere presente il valore simbolico

delle tecniche, quando si svolge un intervento educativo, e di far sempre

riferimento alla situazione contingente interna ed esterna all’educatore.

Rispetto all’obiezione b) si può precisare che comunque alla fine di ogni

training vengono lasciate indicazioni e griglie che suggeriscono agli

educatori di effettuare momenti di verifica personale o con i colleghi

rispetto

al mantenimento degli apprendimenti derivanti dai corsi

al miglioramento dell’abilità di applicazione degli apprendimenti

stessi.

67 D’altra parte Gordon stesso non impone in modo “assoluto” (come succede invece nel comportamentismo) se e come applicare le varie tecniche, ma spesso fa riferimento al buon senso rispetto alla situazione concreta (fenomenologia).

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Per Gordon, infatti, l’esperienza è parte fondamentale dell’applicazione

del Metodo stesso (come è stato più volte ricordato nel corso del

presente lavoro): il percorso formativo, breve o lungo che sia, resta

limitato nel tempo, l’esperienza continua e si arricchisce sempre.

8.3 Effetti educativi

Gli effetti educativi positivi del Metodo e delle varie abilità che lo

compongono sono stati via via illustrati nel corso di questa tesi: essi

possono essere riassunti in:

per l’educatore: aumento della consapevolezza di sé e degli

“strumenti professionali” che intende usare,

per l’educando: sviluppo verso l’autonomia, l’indipendenza e la

responsabilità,

per tutti: aumento della soddisfazione personale all’interno della

relazione

Si vogliono ora mettere in evidenza gli effetti positivi di

un’impostazione democratica degli ambienti educativi e delle relazioni.

Gordon nei suoi testi riporta di studi fatti negli USA sui figli di famiglie

impostate sui tre tipi di metodi educativi: autoritario, permissivo e

democratico.

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Gli effetti di tali metodi sono stati valutati in termini di : salute fisica,

salute psicologica, abilità sociali, quoziente di intelligenza (QI).

Salute fisica: è stato rilevato che figli di madri autoritarie,

dominanti, propense ad essere critiche e rifiutanti nei confronti dei

comportamenti dei figli, presentavano, rispetto ad un gruppo di

controllo e indipendentemente da predisposizione genetica,

un’incidenza maggiore di malattie psicosomatiche quali asma,

artrite, colite ulcerosa, ulcera peptica e eczema atopico.

Salute psicologica: i figli di famiglie democratiche erano

psicologicamente più sani, presentavano cioè rispetto ai figli di

famiglie permissive o autoritarie:

meno comportamenti aggressivi e atti vandalici

meno tendenze autodistruttive o suicide

maggiore autostima

un locus di controllo maggiormente interno

meno depressioni e crisi di pianto

meno ansie e senso di colpa

rapporti affettivi più soddisfacenti

Abilità sociali: i figli di famiglie democratiche facevano registrare

negli anni scolastici notevoli progressi nella socializzazione, erano

benvoluti, emotivamente sicuri e capaci di iniziativa sociale, meno

irascibili, più disponibile ad accettare le persone nuove.

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Quoziente di intelligenza: l’evoluzione del QI dei singoli individui

è stato uno dei risultati più sorprendenti delle ricerche. Nei figli di

famiglie autoritarie esso diminuiva, in quelli di famiglie

permissive restava stabile, in quelli di famiglie democratiche

aumentava notevolmente. Questo fu fatto risalire all’atmosfera

delle famiglie democratiche caratterizzata da libertà, stimoli

emozionali ed intellettivi; atmosfera che favoriva l’originalità, la

capacità di programmazione, la costanza, la curiosità e

l’immaginazione.

Gordon spiega i risultati di questi studi ricordando che un sistema

punitivo e autoritario genera per sua natura, anzi si potrebbe dire che

questo è il fondamento della sua “efficacia”, privazione e umiliazione

con conseguente stress e frustrazione.

Rinunciando alla punizione e al potere per una gestione democratica, si

diminuisce lo stress, si genera meno rabbia e ostilità, meno paura con

conseguente aumento della percezione di controllo sul proprio destino

che in cascata determina minore necessità di meccanismi di difesa,

maggior benessere, maggiore sicurezza e autostima, maggiore

responsabilità ed autocontrollo e tutti i vantaggi fin qui ricordati.

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8.4 Prospettive di utilizzo

Se il Metodo Gordon, basandosi sul miglioramento delle relazioni può

essere utilizzato in ogni ambito educativo, con le dovute attenzione a

contestualizzarlo alle diverse situazioni, i miei interessi e le mie

riflessioni mi portano in questa sede a proporne l’utilizzo in due casi:

burn out degli operatori sociali (fra cui naturalmente l’educatore) e

scuole per la prima infanzia (asili nido e scuole materne)

Burn out

L’utilizzo del Metodo Gordon da parte di un educatore può essere

considerato come preventivo di possibili burn out in quest’ultimo.

Se invece un educatore si trovasse già in situazione di burn out, la

riabilitazione personale e il ripartire nella professione possono a mio

parere aver luogo tramite l’apprendimento dell’approccio educativo del

Metodo.

Le ragioni di quanto affermato risiedono nel fatto che il metodo,

attraverso la classificazione delle situazione e le abilità correlate, ricorda

costantemente a chi lo applica di tenere presente se stesso all’interno

dell’intervento educativo.

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Prima di tutto la finestra del comportamento insegna a collocare la

responsabilità dei problemi. Questo significa che:

a. l’educatore non si sovraccarica con problemi di pertinenza degli

altri, mantenendo da essi una distanza “interna” pur operando per

facilitare all’altro la ricerca della soluzione. Questo significherà

anche minore frustrazione dovuta alle reazioni negative dell’altro

di fronte ai tentativi dell’educatore (fatti con le migliori

intenzioni) di risolvere i problemi al suo posto.

b. viceversa l’educatore affronta i propri problemi, non li nasconde a

se stesso, non li scarica sull’altro. In questo modo non si genera

una spirale fra il problema interno irrisolto e le conseguenze che

tale problema determina sull’esterno, conseguenze che

amplificano ulteriormente il problema di partenza.

Il metodo ricorda poi all’educatore di leggere le proprie reazioni, i propri

sentimenti, di farsene carico: in questo modo non gli passeranno

inosservati i primi eventuali sintomi di burn out. Si sa infatti che i

sintomi presi in tempo non degenerano.

Altra cosa fondamentale è il fatto che il metodo ricorda che prima di

essere un ruolo, l’educatore è una persona. Egli deve imparare ad

accettare se stesso come essere non infallibile e non perfetto non solo

nella sua vita privata, ma anche quando sta svolgendo la sua professione.

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Egli non deve dimenticare i propri bisogni e le proprie necessità, sulla

base di un improduttivo “sacrificio al bisogno dell’altro”: tale sacrificio

sarebbe infatti deleterio per tutte le parti.

In pratica, seguendo le indicazioni del Metodo, l’educatore diventa

realmente congruente, egli cioè agirà con se stesso e con l’altro nella

consapevolezza e nel rispetto di ciò che gli accade dentro.

Restare in contatto con il proprio Sé è sinonimo di salute psicologica e di

efficacia nelle relazioni, cioè è sinonimo per un educatore di successo e

soddisfazione nella propria professione.

Scuola per l’infanzia

L’importanza di applicare il Metodo fin dai primissimi mesi di vita è

affermata da Gordon come auspicabile perché:

consente alle parti di crescere insieme nell’esperienza e nell’abilità

di utilizzo del Metodo stesso

stabilisce un modello di comportamento personale e reciproco, che

entra a far parte della relazione come modalità naturale

fa sì che non si creino difese reciproche derivanti da errate

interazioni e che non si instaurino modalità relazionali “non

buone” e difficili da modificare.

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Gordon ritiene che l’utilizzo precoce del Metodo non solo sia

auspicabile, ma sia anche possibile, una volta che le abilità da applicarsi

siano adattate alle capacità comunicative proprie delle varie età.

In un’ipotesi di percorso a partire dall’asilo nido, mi immagino un

intervento che prenda in considerazione:

il bambino

la famiglia68

Se la famiglia collabora con la scuola utilizzando il medesimo modello

relazionale democratico, lo sviluppo del bambino sarà ovviamente più

coerente e meno disorientante: egli cioè non imparerà ad agire le

situazioni e ad utilizzare le persone a seconda del proprio tornaconto

(magari mettendo gli uni contro gli altri).

Con il Bambino

All’interno di un’impostazione che è comunque

democratica, che rifiuta cioè le lotte di potere,

assertiva, che rifiuta cioè le punizioni e le ricompense, ma che

nello stesso tempo non si pone come permissiva,

Gordon suggerisce una graduatoria fra i tipi di intervento, a partire da

quello meno invasivo della di libertà dell’altro, da mettere in pratica in

presenza di un comportamento del bambino ritenuto inaccettabile

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dall’educatore. L’ipotesi di partenza resta sempre quella che già si è

enunciato all’inizio del presente lavoro: qualsiasi comportamento un

bambino agisca è la risposta che il bambino stesso trova per risolvere un

suo bisogno. Da questa ipotesi l’educatore dovrà partire affinchè tale

bisogno venga soddisfatto, ricordando che più piccolo è il bambino,

meno possibilità ci sono per quest’ultimo di capire e soddisfare

autonomamente tale bisogno.

1. Il primo tipo di intervento è costituito proprio dalla soddisfazione

del bisogno. Tale soddisfazione sarà cercata ed eseguita

direttamente dall’educatore per tentativi se il bambino è molto

piccolo, verrà invece portata avanti in modo condiviso con il

bambino attraverso il riconoscimento e l’esplicitazione del

bisogno se questo è più grande ed è in grado di verbalizzare.

2. Il secondo metodo69 non basato sul potere e non invasivo della

libertà dell’altro è quello dello scambio. Riconoscendo un bisogno

nel bambino si può cercare un modo alternativo di soddisfarlo che

non disturbi l’educatore. Per esempio se il bambino sta strappando

dei fogli nuovi, si può provare a dargli carta usata.

68 Ovviamente l’intervento sulla famiglia dovrà attenersi alla sua sfera di pertinenza, cioè al trasmettere le modalità relazionali ed educative del Metodo Gordon. 69 Questi primi due metodi sembrano ovvi, ma la loro significatività risiede nel fatto che devono essere applicati in ogni occasione, mai sostituiti dai metodi autoritari o permissivi più sbrigativi (che risolvono il problema obbligando il bambino a fare ciò che vuole l’educatore o lasciandolo fare ciò che lui vuole). Tali metodi diventano così il modello di un modo di ragionare ed affrontare le situazioni, entrano a far parte del comportamento naturale di tutti.

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3. Il terzo metodo consiste nella modifica dell’accettazione

dell’educatore. Egli cioè può guardare in se stesso e valutare

quanto il comportamento in questione gli sia di effettivo disturbo e

quanto invece esso non vada a toccare nessuno dei suoi reali

bisogni. In questo secondo caso sarà sufficiente da parte sua

aumentare il suo livello di tolleranza.

4. Il quarto metodo consiste nella modifica dell’ambiente. Questo

metodo è fondamentale con i bambini, perché esperienze e studi

hanno dimostrato che spesso comportamenti inadeguati possono

essere eliminati con una “modifica o una riorganizzazione

preventiva” dell’ambiente (per esempio quando un bambino non

vuole dormire la sera, riducendo gli stimoli).

A seconda delle necessità e degli obiettivi che ci si propone, le

modifiche all’ambiente possono consistere in:

• Aggiunta di materiali e stimoli che aumentino l’attenzione e

la creatività

• Sottrazione / riduzione degli stimoli o degli strumenti fisici

che innescano comportamenti non adeguati

• Modifica dell’ambiente per favorire comportamenti più

autonomi ed efficaci (es. mettere in evidenza, mettere a

portata del bambino, segnalare percorsi....)

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• Semplificazione dell’ambiente: spesso infatti, se ci sono

troppe regole da rispettare (non toccare questo e quello, non

salire, non scendere…), i bambini trovano difficile

ricordarsi di tutto

Gordon sottolinea l’importanza di pensare alle modifiche

dell’ambiente in modo creativo ricordando oltre ai parametri fisici

e strutturali, anche quelli di gestione del tempo e delle varie

attività.

5. Altra possibilità è quella dei MPP. Rispetto ad essi, Gordon

ricorda che anche con i bambini più piccoli il messaggio verbale è

sempre importante perché il parlare con loro li aiuta nello sviluppo

del linguaggio e perché, comunque, non è detto che questi non

riescano a capire. Il messaggio verbale non è però sufficiente: è

necessario che l’educatore impari a combinarlo con un messaggio

non verbale, quale un’azione (allontanare il bambino da un

pericolo con mano ferma), un’espressione del viso (esprimere

dispiacere con gli occhi) o della voce (ferma o dolce…)

Secondo Gordon, i MPP di confronto sono molto efficaci con i

bambini perché essi sono profondamente autentici e congruenti,

privi delle inibizione della “buona educazione” e non hanno di

conseguenza problema ad accettare le esigenze esplicitate degli

altri, odiando fra l’altro non vedere riconosciute le proprie. Inoltre

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Gordon ricorda che i bambini sono tendenzialmente molto

volenterosi e desiderosi di “aiutare” l’altro

6. Ultima possibilità è il problem solving. Utilizzando questo

processo l’educatore dovrà prestare attenzione alle limitate

possibilità di un bambino nel seguire i vari passaggi: sarà quindi

fondamentale per l’educatore ascoltare il bambino, cercando di

leggere quando questo è pronto ad affrontare le varie fasi.

Con la famiglia

Rispetto all’intervento sulla famiglia, mi immagino prima di tutto dei

momenti di presentazione del Metodo Gordon sul quale è impostata la

scuola, degli obiettivi educativi, delle modalità per conseguirli. Un

genitore che iscrive il figlio deve essere consapevole dell’approccio che

verrà usato, lo deve condividere, preferibilmente lo deve utilizzare.

Inoltre prevedrei dei momenti di verifica in cui il genitore dà un feed

back del comportamento e degli apprendimenti del figlio, delle proprie

abilità nell’utilizzo del Metodo.

Per i singoli casi, poi, riterrei opportuno che:

- l’educatore osservi il bambino e le sue interazione con genitori e

familiari in genere in momenti quali: inserimento del bambino,

ingresso/uscita dalla scuola, giornate aperte alle famiglie

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- vengano effettuati colloqui personali con i genitori,

- si prevedano consulenze su richiesta rispetto alla relazione

genitore/figlio, a problemi specifici che dovessero sorgere,

all’utilizzo del Metodo Gordon in famiglia.

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CONCLUSIONE

Nell’introduzione avevo anticipato il fatto che, per applicare il Metodo

Gordon, l’educatore doveva essere disponibile a mettersi in gioco e a

rivoluzionare il suo modo di reagire, pensare ed agire. Doveva anche

essere pronto ad esercitarsi, a “fare i compiti”, per riuscire ad applicare il

Metodo in modo sempre più adeguato ed efficace.

Credo che l’illustrazione del Metodo Gordon abbia confermato tale

anticipazione; anzi credo che abbia aggiunto qualcosa: il Metodo è

impegnativo e per certi aspetti rischioso per l’educatore.

Spero però anche di essere riuscita a dimostrare che i risultati educativi

positivi che il Metodo riesce ad ottenere valgano la pena dell’impegno e

del rischio.

L’impegno e i rischi comportati dal Metodo fanno percepire

indirettamente che l’educazione è una cosa seria per la quale bisogna

prepararsi, che non deve essere lasciata al caso.

Naturalmente questo è ovvio per un educatore, ma l’apertura del metodo

ad altri ambiti (ad esempio il luogo di lavoro) può rendere consapevoli

tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno delle responsabilità su altri

individui, che è possibile agire (anzi sarebbe bello che pensassero che

devono agire) in termini educativi.

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Lo stesso si potrebbe dire rispetto alla relazione: il Metodo la mette al

centro e afferma con forza che la relazione è importante, va tutelata e

curata a tutti i livelli, essa non deve passare in secondo ordine rispetto

alle attività obiettivo della relazione stessa (per esempio, sul posto di

lavoro, rispetto alla produttività).

Nella pratica, l’attenzione alla relazione risulterà essere per il bene:

- delle persone

- dell’attività stessa

Un educatore può allora agire a vari livelli: può porsi come obiettivo di

lavorare sull’ambiente e con le persone che hanno responsabilità su altri

per diffondere, attraverso il Metodo Gordon, una società basata su di un

sistema realmente democratico, per diffondere un clima nei vari ambiti

di vita che faccia stare bene le persone.

Il benessere delle persone e la prevenzione delle situazioni

problematiche sono dopo tutto due punti fondamentali dell’intenzionalità

educativa di un educatore professionale.

A conclusione di tutto vorrei comunicare una piccola riflessione, che mi

è venuta spontanea studiando il Metodo Gordon, rispetto a:

congruenza, parola chiave del modo di essere di un educatore che

applica il Metodo

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paradosso, che sembra all’improvviso presentarsi utilizzando il

Metodo Gordon. Il paradosso di vedere che se si accetta una

persona così com’è, essa proprio per il fatto di sentirsi accettata si

apre più facilmente ad uno spontaneo desiderio di cambiare e

migliorarsi. Il paradosso di vedere che quando non si cerca di

controllare e cambiare l’altro, egli nella sua libertà personale

sembra più disposto a prendere in considerazione e a lasciarsi

influenzare da valori e modi di essere.

Congruenza e paradosso suonano, dal punto di vista del significato

letterale, come due termini inconciliabili.

Forse però, se si è realmente congruenti con se stessi, ciò che ad una

mentalità influenzata dalle regole della “buona educazione” e dei

preconcetti di ruolo sembra essere un “paradosso”, diventa una

“conseguenza congruente”. Una normale conseguenza del “non fare agli

altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, del ricordare che ciascuno è

un essere distinto, unico, libero, autonomo e attivo.

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APPENDICI

A. Un credo per le mie relazioni con gli altri

Quasi a ulteriore dimostrazione della centralità delle relazioni

interpersonali nella sua vita e nella sua opera, Gordon ha steso un Credo,

una sorta di manifesto programmatico del suo pensiero, una base di tutta

la struttura della sua azione.

Tu ed io siamo in relazione, cosa a cui io do valore e che desidero

mantenere. Nonostante ciò ciascuno di noi è una persona diversa con

bisogni specifici e con il diritto di soddisfare tali bisogni.

Quando tu sperimenterai dei problemi nel soddisfare i tuoi bisogni, io ti

ascolterò con accettazione sincera così da facilitarti il trovare le tue

soluzioni invece di dipendere dalle mie. Inoltre rispetterò il tuo diritto di

scegliere le tue convinzioni e di sviluppare i tuoi valori, per quanto

questi possano essere diversi dai miei.

Comunque, quando il tuo comportamento interferirà con quello che devo

fare per soddisfare i miei bisogni, ti dirò apertamente e onestamente

come il tuo comportamente influisca su di me, fiducioso che tu

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rispetterai le mie esigenze e i miei sentimenti abbastanza da cambiare il

comportamento che non è accettabile per me. Allo stesso modo, in

qualunque momento il mio comportamento non sarà accettabile per te,

spero che me lo dica apertamente e onestamente così che io possa

cambiarlo.

Quando dovesse accadere che uno di noi non possa cambiare per venire

incontro alle necessità dell’altro, ammettiamo di avere un conflitto e

impegnamoci a risolverlo senza che nessuno ricorra all’uso del potere

per vincere sull’altro, ponendolo nella condizione di chi perde. Rispetto

i tuoi bisogni, ma devo rispettare anche i miei. Per cui sforziamoci

sempre di trovare una soluzione che sia accettabile per entrambi. I tuoi

bisogni, come anche i miei, saranno soddisfatti – nessuno dei due

perderà, entrambe vinceremo.

In questo modo ciascuno di noi, attraverso il soddisfacimento dei propri

bisogni, potrà continuare a svilupparsi come persona. In questo modo la

nostra sarà una buona relazione, nella quale entrambi ci sforzeremo di

diventare ciò di cui siamo capaci. E potremo continuare a relazionarci

con rispetto e affetto reciproci e in pace.

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B. La Comunicazione efficace

(ispirato ad uno scritto di Thomas Gordon)

Gli studiosi di scienze sociali affermano che la comunicazione efficace è

una caratteristica degli “individui psicologicamente sani”, dei gruppi che

funzionano efficacemente, e delle organizzazioni che prosperano e si

sviluppano.

L’esperienza di Gordon formatore aggiunge a questa premessa la

constatazione che se i singoli, i gruppi, le organizzazioni vogliono

diventare efficaci nel conseguimento dei loro obiettivi, devono imparare

a comunicare in modo sempre più adeguato.

Per il singolo, la salute psicologica può essere definita come la “capacità

di parlare con se stessi in modo chiaro e congruente”, cioè come la

consapevolezza dei propri sentimenti, atteggiamenti, valori e opinioni.

Per il gruppo, la salute passa attraverso la comunicazione reciproca. Essa

infatti consente la risoluzione dei problemi, perché ne facilita

l’identificazione70.

Per la salute delle organizzazioni, vale la stessa considerazione espressa

per i gruppi: di conseguenza molti esperti di sistemi organizzativi, nei

70 Un gruppo che non comunica ha spesso dei “programmi occulti” sui quali i membri non hanno mai comunicato. Tali programmi inducono un clima nel quale il singolo si chiude nel silenzio e nella passività o si limita a comunicare cose superficiali e insignificanti.

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loro interventi per risanare un’organizzazione, concentrano l’attenzione

sull’abbattimento delle barriere alla comunicazione sia orizzontale che

verticale.

Se la comunicazione è così importante a tutti i livelli, è allora

fondamentale migliorarla, partendo da un’analisi volta all’identificazione

e al superamento delle barriere che la rendono inefficace.

Un modo di studiare una comunicazione efficace è quello di considerarla

un processo che implica due momenti:

1. invio chiaro o espressione efficace

2. ricezione accurata o impressione efficace

Ognuno di questi momenti comporta delle difficoltà che, per chi vuole

comunicare in modo efficace, significano rischi che bisogna essere

disposti a correre.

1. L’efficacia che una persona può raggiungere nell’inviare messaggi

è aumentata da alcuni fattori:

• parlare ad alta voce

• utilizzare parole familiari al ricevente (conoscenza del

codice)

• inviare un solo messaggio per volta (alcuni aspetti del

messaggio possono essere dimenticati se il mittente riempie

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la comunicazione di supposizioni, osservazioni di scarso

rilievo, ipotesi, fatti, argomentazioni, esempi…).

Il fattore decisivo risulta comunque essere il grado di congruenza

del mittente, cioè la coerenza fra ciò che la persona comunica e

ciò che essa pensa e prova all’interno. Questo fattore è decisivo

perché di solito il ricevente è molto “sensibile” al grado di

congruenza del messaggio ricevuto: valuterà di conseguenza il

mittente aperto, diretto e onesto oppure falso e ambiguo.

Naturalmente una comunicazione congruente espone a dei rischi:

per il mittente:di essere conosciuto per quello che è

e di esporsi alle critiche dell’altro

per il ricevente: di restare male per l’opinione che

l’altro ha di lui

per entrambe: della congruenza stessa, infatti

alcune persone sono spaventate da essa.

2. La ricezione efficace significa utilizzare l’ascolto attivo.

Anch’esso implica dei rischi, che in questo caso sono

essenzialmente per il ricevente. Quando infatti una persona mette

in pratica l’ascolto attivo per capire esattamente l’altro, i suoi

sentimenti e il suo punto di vista, corre il rischio di assistere alla

trasformazione delle proprie opinioni e dei propri atteggiamenti.

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In altre parole le persone cambiano attraverso ciò che capiscono

veramente, attraverso l’apertura all’esperienza dell’altro71.

Il prendere questi rischi dipende secondo Gordon dalla sicurezza

interiore, dall’autostima e dal coraggio personale.

71 Vale anche il viceversa: la persona che è sulla difensiva, che non vuole esporsi al confronto con idee e opinioni diverse dalla sua, è una persona che non sarà mai in grado di ascoltare veramente l’altro.

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C. Glossario

Ci sono dei termini chiave nell’illustrazione del sistema concettuale di

Gordon che vale la pena di puntualizzare, anche se in modo conciso.

Le definizioni che seguono sono prese dal sito del Gordon Training

International.

Active listening (ascolto attivo) = Una modalità di ascolto nella quale

viene riflessa da parte di chi ascolta la sua comprensione di ciò che una

persona ha detto. Lo scopo è duplice:

- confermare alla persona che chi ascolta ha compreso il messaggio

- offrirle la possibilità di correggere nel caso in cui il suo messaggio

non sia stato compreso correttamente

Ma ancora più importante è il fatto che questo tipo di ascolto comunica

l’accettazione dei pensieri e delle emozioni della persona.

Behaviour window (finestra del comportamento) = tutte le relazioni,

in un momento o in un altro sperimentano dei problemi. Gordon ha

escogitato uno strumento grafico, la Finestra del Comportamento, per

aiutare le persone a definire accuratamente i problemi, “a chi”

appartengono e come risolverli. La comprensione e l’utilizzo di questa

finestra aiuta a stabilire quale abilità comunicativa utilizzare, quando e

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come utilizzarla. La finestra consente anche di prevenire l’utilizzo di

azioni disciplinari e di eliminare la necessità di inquadrare la tipologia di

personalità della persona che sta di fronte.

I-Message (messaggi in prima persona) = Il messaggio in prima

persona è uno strumento per influenzare gli altri a modificare un

comportamento che interferisce con la possibilità di soddisfare i propri

bisogni. Esso consiste in una descrizione non-colpevolizzante e non-

giudicante di un comportamento considerato non accettabile, di come

esso influenza e fa sentire, degli effetti tangibili che esso ha su chi

subisce tale comportamento.

L’efficacia di tale messaggio risiede nel fatto che si affronta il

comportamento, ma non si attacca la persona. Come conseguenza, gli

altri sono più disponibili a cambiare il loro comportamento non

accettabile.

No-lose Conflict Resolution (Soluzione dei Conflitti senza Perdenti)

= E’ un metodo a sei passi per risolvere i conflitti in modo che tutte le

parti in causa siano soddisfatte dalla soluzione. Quando si invitano tutte

le parti a partecipare alla soluzione di un problema, di solito si ottengono

soluzioni di migliore qualità. Inoltre, è più probabile che le soluzioni

trovate e concordate dalle parti siano attuate.

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L’efficacia di tale metodo si spiega semplicemente con il Principio di

Partecipazione: le persone sono più motivate ad adeguarsi a decisioni

che hanno contribuito a definire.

Principle of Participation (Principio di Partecipazione) = E’ un

principio che deriva dal buon senso e che sottolinea il fondamento del

modello Gordon. Semplicemente il principio sostiene che le persone che

sono invitate a partecipare nel prendere decisioni e nello stabilire regole

che li riguarda sono più disponibili a rispettarle e a mantenere fede alla

propria parte del contratto.

A tutti, infatti, piace sentire che le proprie opinioni sono prese in

considerazione.

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D. Gordon Training International

Il Gordon Training International (GTI) fu fondato da Gordon nel 1962,

con sede in Solana Beach (California), per offrire possibilità di

formazione nelle relazione umane.

I training elaborati e tenuti da Gordon furono quelli per genitori (PET),

per insegnanti (TET) e per manager d’azienda (LET). Per questi corsi

Gordon offrì anche dei contributi scritti: i suoi libri, tradotti in ben 28

lingue, e degli audiovisivi (specifici per genitori).

Attualmente il GTI è diretto dalla moglie di Gordon: Linda Adams, che

nel tempo ha fortemente contribuito a sviluppare altri tipi di corsi ispirati

al Metodo Gordon. Fra i corsi offerti dal centro, si possono indicare

quelli per: la risoluzione dei conflitti per manager, l’efficacia personale e

professionale, la leadership per studenti universitari, la mediazione fra i

pari, la risoluzione dei conflitti a scuola.

Informazioni sul GTI, si possono trovare in internet al sito

www.thomasgordon.com

In esso vengono presentati tre dipartimenti: Lavoro, Famiglia e Scuola.

Il GTI ha rappresentanti e enti con licenza di offrire i corsi Gordon in

vari paesi, compresa l’Italia dove l’ente autorizzato è lo IACP (Istituto

dell’Approccio Centrato sulla Persona)

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E. IACP

L’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona in Italia è stato fondato

da Rogers e da due suoi stretti collaboratori: Charles Devonshire e

Alberto Zucconi, attuale presidente. Esso ha sede a Roma.

L’Istituto è un organismo internazionale senza fini di lucro dedito alla

ricerca sul comportamento umano, all’aggiornamento e alla formazione

di specifiche competenze professionali attraverso l’Approccio Centrato

sulla Persona.

Le aree principali di attività sono:

La scuola e l’educazione

La promozione della salute

La psicologia interculturale

Le professioni di aiuto

Il managment e lo sviluppo organizzativo

La psicologia clinica e la psicoterapia

Rispetto al Metodo Gordon, lo IACP ha l’esclusiva per l’Italia per lo

svolgimento di:

corsi brevi di formazione sulla relazione interpersonale

indirizzati a tutti coloro che svolgono attività di supporto

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sociale e individuale e, comunque, a tutti coloro che

desiderano migliorare la propria capacità di comunicare,

corsi di formazione specifica orientati a genitori, insegnanti,

giovani,

corsi indirizzati alla formazione manageriale e a tutti coloro

che hanno responsabilità nella gestione delle risorse umane.

Lo IACP ha inoltre l’esclusiva per la formazione dei formatori72 del

Metodo Gordone garantisce la qualità dei corsi tenuti da questi ultimi.

Per informazioni sullo IACP si può consultare il sito www.iacp.it.

Per informazioni particolari rispetto al Metodo Gordon, si può contattare

l’ufficio di coordinamento di Roma all’indirizzo e-mail: [email protected]

72 La formazione dei formatori consiste in un training di due anni nell’Approccio Centrato sulla Persona con lo IACP e di un training per diventare istruttori dei corsi Gordon, con formatori abilitati dallo stesso IACP.

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BIBLIOGRAFIA

1. Thomas Gordon Nè con le buone, nè con le cattive Edizioni La Meridiana

2. Thomas Gordon

Genitori efficaci Edizioni La Meridiana

3. Thomas Gordon

Leader efficaci Edizioni La Meridiana

4. Thomas Gordon Insegnanti efficaci Ed. Giunti

5. Mucchielli

Apprendere il counselling Ed Erickson

6. R. Carkhuff L’arte di aiutare Ed Erickson

7. IACP Insegnanti efficaci Quaderno di lavoro

8. Giuliana Ukmar Se mi vuoi bene, dimmi di no Franco Angeli – Le Comete

9. Codice Deontologico Stesura Luglio 2002 A cura dell’Associazione Nazionale Educatori Professionali

10. www.iacp.it

11. www.thomasgordon.com

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12. http://ahpweb.org (Association for Humanistic psychology)

13. www.anep.it

14. www.educare.it

15. www.psyconline.it

16. www.geagea.it