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Il fascismo nella storiografìa La dimensione europea Enzo Collotti Totalitarismo, fascismo, nazismo Gli studi a livello internazionale sul fascismo si muovono oggi tra due poli contraddittori. Da una parte raffinamento dell’indagine storiografica e l’assimilazione e l’utilizzazio- ne di tecniche e di risultati di ricerca di altri campi delle scienze sociali hanno posto la ri- cerca nella condizione di elaborare analisi di strutture, di istituzioni e di articolazioni di potere e ipotesi interpretative di grande fi- nezza e profondità analitica. Dall’altra, la crisi profonda di ideologie, sistemi politici e paradigmi scientifico-culturali che stiamo attraversando tende a fare sbiadire il ruolo fondamentale che il fascismo ha avuto nel- l’imprimere la sua fisionomia alla storia del- l’Europa del nostro secolo, quasi che altri siano gli eventi ai quali si debba attribuire una parte caratterizzante nelle vicende poli- tiche e culturali dell’Europa, quasi che tra le idee-forza del secolo sia al bolscevismo e non al fascismo che si debba attribuire il pri- mato di un processo che ha inciso radical- mente nella trasformazione della società eu- ropea dopo la prima guerra mondiale, se non altro perché mentre dal punto di vista istituzionale il fascismo in senso stretto si è esaurito con la conclusione della seconda guerra mondiale, la vicenda della rivoluzio- ne bolscevica ha avuto la sua fase espansiva e conclusiva proprio nell’ultimo mezzo seco- lo con l’esperimento dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale. La presenza e per una parte cronologica la compresenza di regimi di tipo fascista e del regime sovietico in Urss hanno fatto anche parlare di secolo del totalitarismo, come se la storia della nostra epoca si potesse unica- mente definire sulla base delle esperienze, peraltro così diverse, di negazione della de- mocrazia. Qualsiasi definizione di questa natura contiene una parte di verità, ma ci sembrerebbe del tutto arbitrario nella molte- plicità dei fenomeni e degli sviluppi politici, sociali e culturali che hanno lacerato il no- stro secolo stabilire priorità e gerarchie asso- lute. Riaffermare viceversa il carattere cen- trale dell’esperienza del fascismo vuol dire richiamare l’attenzione su un tipo di cultura politica e su una forma di organizzazione dello Stato e della società che hanno avuto nell’economia della storia dell’Europa una fortuna non effimera con particolare riferi- mento al periodo tra le due guerre mondiali, all’esperienza stessa della seconda guerra mondiale e all’area intera dell’Europa occi- dentale e centro-orientale. Questo, ripetia- mo, non può voler dire in alcun modo stabi- lire gerarchie od esclusioni ma solo indicare il ruolo centrale di una problematica che ha profondamente segnato mezzo secolo di sto- ria europea. Mentre dunque la distanza del tempo tra- scorso dall’esperienza storica del fascismo sembra metterci in grado di percepire con la maggiore nettezza possibile i contorni di questa come esperienza europea, alcuni sto- Italia contemporanea”, marzo 1994, n. 194

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Il fascismo nella storiografìaLa dimensione europea

Enzo Collotti

Totalitarismo, fascismo, nazismo

Gli studi a livello internazionale sul fascismo si muovono oggi tra due poli contraddittori. Da una parte raffinamento dell’indagine storiografica e l’assimilazione e l’utilizzazio­ne di tecniche e di risultati di ricerca di altri campi delle scienze sociali hanno posto la ri­cerca nella condizione di elaborare analisi di strutture, di istituzioni e di articolazioni di potere e ipotesi interpretative di grande fi­nezza e profondità analitica. Dall’altra, la crisi profonda di ideologie, sistemi politici e paradigmi scientifico-culturali che stiamo attraversando tende a fare sbiadire il ruolo fondamentale che il fascismo ha avuto nel- l’imprimere la sua fisionomia alla storia del­l’Europa del nostro secolo, quasi che altri siano gli eventi ai quali si debba attribuire una parte caratterizzante nelle vicende poli­tiche e culturali dell’Europa, quasi che tra le idee-forza del secolo sia al bolscevismo e non al fascismo che si debba attribuire il pri­mato di un processo che ha inciso radical­mente nella trasformazione della società eu­ropea dopo la prima guerra mondiale, se non altro perché mentre dal punto di vista istituzionale il fascismo in senso stretto si è esaurito con la conclusione della seconda guerra mondiale, la vicenda della rivoluzio­ne bolscevica ha avuto la sua fase espansiva e conclusiva proprio nell’ultimo mezzo seco­lo con l’esperimento dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale.

La presenza e per una parte cronologica la compresenza di regimi di tipo fascista e del regime sovietico in Urss hanno fatto anche parlare di secolo del totalitarismo, come se la storia della nostra epoca si potesse unica­mente definire sulla base delle esperienze, peraltro così diverse, di negazione della de­mocrazia. Qualsiasi definizione di questa natura contiene una parte di verità, ma ci sembrerebbe del tutto arbitrario nella molte­plicità dei fenomeni e degli sviluppi politici, sociali e culturali che hanno lacerato il no­stro secolo stabilire priorità e gerarchie asso­lute. Riaffermare viceversa il carattere cen­trale dell’esperienza del fascismo vuol dire richiamare l’attenzione su un tipo di cultura politica e su una forma di organizzazione dello Stato e della società che hanno avuto nell’economia della storia dell’Europa una fortuna non effimera con particolare riferi­mento al periodo tra le due guerre mondiali, all’esperienza stessa della seconda guerra mondiale e all’area intera dell’Europa occi­dentale e centro-orientale. Questo, ripetia­mo, non può voler dire in alcun modo stabi­lire gerarchie od esclusioni ma solo indicare il ruolo centrale di una problematica che ha profondamente segnato mezzo secolo di sto­ria europea.

Mentre dunque la distanza del tempo tra­scorso dall’esperienza storica del fascismo sembra metterci in grado di percepire con la maggiore nettezza possibile i contorni di questa come esperienza europea, alcuni sto-

Italia contemporanea”, marzo 1994, n. 194

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rici tendono a stemperare la storia del fasci­smo all'interno della storia nazionale di un singolo paese non per mettere in risalto la specificità del regime ma piuttosto per ricon­durlo nella normalità di un percorso nazio­nale, privandolo in tal modo così della sua specificità come del suo carattere esemplare e del suo valore periodizzante1. Non si tratta qui né di accomunare tutte le versioni di reinterpretazioni recenti del fascismo, del nazismo, dei regimi reazionari e delle ditta­ture militari che si affermano all’ombra del fascismo in una indistinta categoria di “revi­sionismo”, né di sottovalutare le motivazio­ni diverse che muovono i diversi protagoni­sti e fautori di una revisione interpretativa. Al contrario, si tratta di accettare la discus­sione sul nuovo terreno proposto, sempre che revisione non significhi aprire la via ad una rimozione o ad una cancellazione, se non al rovesciamento, di un paradigma in­terpretativo.

Ciò che va rifiutato è il gioco di bilanciare l’uno contro l’altro bolscevismo e fascismo per affermare che l’uno è peggiore dell’altro o il secondo il male minore e trarne le dedu­zioni politiche che è facile immaginare. Si tratta di fenomeni altrettanto importanti della storia della nostra epoca che non pos­sono essere resi fungibili ad una operazione di compensazione di colpe e di responsabili­tà, così come tra di essi non si può stabilire un rapporto di causa ed effetto. I tratti este­riori che possono accomunarli scaturiscono certo dal clima di un’epoca ma non sono sufficienti a smentire o ad attenuare le ra­gioni specifiche e le modalità specifiche che

nei rispettivi contesti sociali e nazionali rese­ro possibile la loro affermazione e condizio­narono la loro evoluzione. Tutto questo non significa che nel riflettere sulla storia del no­stro secolo non si debbano mettere in luce anche i caratteri comuni che possono avere contraddistinto regimi per altro distanti ed anche contrapposti e antagonisti, in quanto figli tutti di una stessa epoca e di una stessa temperie culturale. Così come comparare non può significare confondere né mettere tutto sullo stesso piano, appiattire, bensì non cessare mai di cogliere anche e proprio negli elementi della comparazione le rispetti­ve specificità.

La ricerca internazionale appare consape­vole e pressoché unanime nel considerare il fascismo una forza politica e una forma di organizzazione politicosociale di dimensione europea. La raccolta comparata di studi coordinata da Larsen e collaboratori (certo non l’ultima di analoghe iniziative) ha fatto più di una decina di anni fa il punto dei ri­sultati acquisiti dalla ricerca empirica e dal­l’elaborazione teorica sui movimenti fascisti e sui regimi gravitanti nell’orbita dei cosid­detti fascismi classici, il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco2. Gli studi suc­cessivi non hanno modificato, pur arric­chendolo, il quadro complessivo delle nostre conoscenze o i paradigmi interpretativi. Di­versi approfondimenti su singole situazioni nazionali, paralleli anche alla crescente at­tenzione posta negli studi degli ultimi anni al problema del collaborazionismo per il perio­do della seconda guerra mondiale3, hanno consentito di meglio specificare il rapporto

1 II referente di questa problematica continua ad essere nella sua radicalità Ernst Nolte, di cui si può vedere da ulti­mo il volume Streitpunkte. Heutige und kiinftige Kontroversen um den Nationalsozialismus, Berlin, Propylaen, 1993.2 Cfr. S.U. Larsen, B. Hagtvet, J.P. Myklebust (a cura di), Who were the Fascists? Social Roots o f European Fa­scism, Bergen-Oslo-Tromso, 1980.3 Per questa problematica mi permetto di rinviare alla rassegna di Enzo Collotti, Il collaborazionismo con le po­tenze dell’Asse nell’Europa occupata: temi e problemi della storiografia, “Rivista di storia contemporanea”, 1992, pp. 327-359.

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esistente tra gli spezzoni europei del fasci­smo e il primo modello, quello del fascismo italiano, dal quale trassero imitazione o ispi­razione tutte le forme di regimi fascisti o au­toritari di destra che si affermarono tra le due guerre mondiali. Non a caso, studiando la ricezione del fascismo nell’Europa orien­tale Jerzy W. Borejsza ha affermato che “tra il 1922 e il 1929 il fascismo italiano ha esercitato una certa influenza per il mero fatto di esistere”4, indipendentemente cioè anche dai concreti contatti politici o propa­gandistici che pure vi furono.

Non c’è dubbio che la fonte di ispirazione fondamentale dei movimenti fascisti è stata rappresentata dalla lezione della prima guer­ra mondiale. Certo, i sedimenti nazionalisti spiegano bene, nel caso dell’Italia come del­la Germania, la sutura tra l’esperienza della guerra mondiale, la crescita del regime fasci­sta e poi l’avvento al potere del nazionalso­cialismo, nonché l’incubazione in altri ambi­ti nazionali, Francia compresa, di una miria­de diffusa di movimenti fascisti e fascistoidi che se non misero mai immediatamente in pericolo le istituzioni democratiche ne mina­rono tuttavia la credibilità e la saldezza. Gli studi di George Mosse sulle radici culturali non soltanto del nazionalsocialismo ma an­che del fascismo italiano, sul rapporto fon­damentale nazionalismo-fascismo, sulla mi­stica giovanilistica del fascismo conservano una ricca messe di suggerimenti e di stimoli

in queste direzioni e in direzione dell’analisi della problematica del consenso5. È dalla guerra e dalle esperienze di mobilitazione po­litica, economica e sociale che derivano le vi­sioni organicistiche della società, la visione e la prassi militarizzata della politica, il rifiuto del pluralismo e del parlamentarismo in no­me di una armonizzazione e subordinazione dei punti di vista particolari a un modello esasperato di union sacrée.

Sembra viceversa avere sottovalutato que­sto rilevante aspetto, perché muove da un di­verso angolo visuale, Zeev Sternhell, il quale — tutto intento a spiegare l’origine del fasci­smo in Francia (ma anche in generale) come derivazione di sinistra della revisione del marxismo attraverso la mediazione di Sorel e più tardi di Henri De Man e a proiettarla nel­le lontani radici prebelliche — ha lavorato sulle costruzioni ideologiche, trascurando i mutamenti che nella vita sociale e nella men­talità di grandi masse furono apportati dalla grande guerra6. Una direzione opposta a quella che sarà seguita nei suoi studi sullo sbocco fascista dei delusi della sinistra in Francia da Philippe Burrin, al quale si devo­no alcune delle osservazioni critiche più per­tinenti nei confronti del lavoro emintemente ideologico e ideologistico di Sternhell7.

Ancora più fuorvianti sotto questo profilo sono apparse le tesi enunciate da Ernst Nol­te, parzialmente correttive fra l’altro rispetto alla sua stessa opera di impostazione feno-

4 Cfr. Jerzy W. Borejsza, East European Perceptions o f Italian Fascism, in S.U. Larsen, B. Hagtvet, J.P. Mykle- bust (a cura di), Who where the Fascists, cit., p. 362.5 Si fa riferimento in primo luogo ai saggi raccolti nel volume di George L. Mosse, L ’uomo e le masse nelle ideolo­gie nazionaliste, Bari, Laterza, 1982 (ed. orig. New York, Howard Fertig, 1980), ma anche a Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1968 (ed. orig. New York, Grosset & Dunlap, 1964) ed in generale alla ricerca storicoculturale avviata da Mosse con l’opera La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1975 (ed. orig. New York, Howard Ferting, 1974).6 Da vedere soprattutto di Zeev Sternhell, La droite révolutionnaire. Les origines françaises du fascisme 1885-1914, Paris, Seuil, 1978; Id., Ni droite ni gauche. L ’idéologie fasciste en France, Paris, Seuil, 1983 e Id., Naissance de l ’i­déologie fasciste, Paris, Fayard, 1989. Tra i contributi alla discussione critica sollevata dall’opera di Sternhell rile­vante ci pare sempre l’intervento di Leonardo Rapone, Fascismo: né destra né sinistra?, “Studi storici”, 1984, pp. 799-820.7 Cfr. Philippe Burrin, La dérive fasciste. Doriot, Déat, Bergery 1933-1945, Paris, 1986 ed ivi principalmente l’in­troduzione.

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menologica sul fascismo come fatto “epo­cale” dell’inizio degli anni settanta, sulla derivazione del nazionalsocialismo dal bol­scevismo, tesi scorrette anche solo dal pun­to di vista cronologico e concettualmente prive di consistenza come ripetutamente sottolineato in particolare da Hans Ulrich Wehler8. A non dir altro, se si accettassero i punti di vista di Nolte il peso della tradi­zione dell’antisemitismo tedesco nel succes­so del nazionalsocialismo e nello stesso ge­nocidio degli ebrei risulterebbe enormemen­te ridimensionato se non totalmente cancel­lato.

Rimangono a mio avviso soltanto due contraddittori seri rispetto alla possibilità di considerare il fascismo a livello internazio­nale come un fenomeno attraverso le sue ar­ticolazioni interne concettualmente unitario. Il primo di essi è Karl Dietrich Bracher, lo storico della deutsche Diktatur. Il secondo è Renzo De Felice, lo storico del fascismo ita­liano e biografo di Mussolini. Le loro obie­zioni meritano attenta considerazione, an­che al di là delle implicazioni di carattere strettamente politico che sono sottese alle lo­ro impostazioni storiografiche.

Anche nella sua più recente sintesi in pro­posito, Bracher, che pur insiste nel sottoli­neare l’influenza europea del fascismo, ten­de ad allontanare dal nazionalsocialismo il denominatore comune del fascismo. Bracher considera l’antisemitismo e il razzismo come la qualità più specifica del nazismo, ciò che

gli conferì appunto il carattere di incompa­rabile radicalità e distruttività, al punto che assumerlo sotto la comune definizione del fascismo significherebbe per Bracher dare una rappresentazione edulcorata e banaliz­zante del nazionalsocialismo. La sua affer­mazione, per altri versi così drammatica- mente pertinente, che la storia del nazional­socialismo è la storia della sua sottovaluta­zione, sembra sotto questo aspetto andare al di là del segno. A sua volta Bracher si presta ad essere criticato proprio per la sottovalu­tazione che egli tende a fare dei caratteri del­la dittatura fascista in Italia, nonché per la portata eccessivamente limitata che egli at­tribuisce agli obiettivi del fascismo, in modo tale da poterli differenziare nettamente dagli obiettivi del nazionalsocialismo9. Non basta infatti prendere atto che nella prassi gli ef­fetti prodotti dal regime fascista siano stati meno devastanti di quelli prodotti dal nazi­smo per dedurne che il primo rappresente­rebbe una forma più blanda e meno perico­losa di dittatura del secondo, tanto meno poi per escludere la comune appartenenza dei due regimi alla medesima famiglia del fascismo. Analogo appare il percorso inter­pretativo compiuto da Renzo De Felice ri­spetto al fascismo italiano, anche se parzial­mente diversi sono gli esiti che se ne possono dedurre. Nel corso degli anni De Felice, muovendo dall’esigenza di liberare la ricerca sul fascismo da ipoteche ideologiche, è ve­nuto accentuando la sua visione di un fasci-

8 Al di là dell’ultimo libro citato alla nota 1 è questo un leitmotiv dell’opera di Nolte dell’ultimo decennio, in parti­colare a partire dallo Historikerstreit e da Der europàische Biirgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bol- schewismtis, 1987, Frankfurt a.M.-Berlin, Ullstein-Propylaen, 1987 (ed. it., con il titolo Nazionalsocialismo e bol­scevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Firenze, Sansoni, 1989). Per quanto riguarda il punto di vista critico di Hans Ulrich Wehler è da vedere anzitutto Entsorgung der deutschen Vergangenheit? Ein polemischer Essay zum “Historikerstreit”, München, 1988; un ultimo intervento in “Der Spiegel”, 13 settembre 1993, pp. 81-87.9 Si tratta di un punto di vista costantemente sostenuto da Bracher, da ultimo nel contributo II nazionalsocialismo in Germania: problemi d ’interpretazione, nel volume a cura di Karl Dietrich Bracher e Leo Valiani, Fascismo e na­zionalsocialismo, Bologna, Il Mulino, 1986 e più recentemente ancora in Nationalsozialismus, Faschismus, Totali- tarismus-Die deutsche Diktatur im Macht-und Ideologienfeld des XX. Jahrhunderts, in K.D. Bracher, M. Funke, H.A. Jacobsen (a cura di), Deutschland 1933-1945. Neue Studien zur nationalsozialistischen Herrschaft, Düssel­dorf. Droste. 1992.

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smo lontano e distaccato dal nazionalsocia­lismo già esplicitata nelle sue Interpretazioni del fascismo e sottolineata con forza, dopo l’intervista sul fascismo, in una nota confe­renza del 197910. Non solo egli afferma, giu­stamente nel fatto in sé, che il fascismo non si macchiò dei crimini di Auschwitz ma in tempi ancora più recenti è venuto afferman­do, contro l’evidenza stessa dei fatti, che il fascismo non fu neppure antisemita, sebbe­ne egli abbia scritto un libro per illustrare la politica e la legislazione antiebraica del regi­me fascista, dunque un caso esemplare di antisemitismo di Stato11. Nel suo percorso interpretativo De Felice va anche oltre; non accetta la definizione di un carattere interna­zionale del fascismo perché l’estensione del termine al nazionalsocialismo comportereb­be caricare il fascismo italiano dei caratteri specifici del nazismo, a cominciare appunto dalla radicalità della violenza razzistica. Se­condo De Felice la difficoltà di integrare l’antisemitismo nella versione nazista nel fa­scismo sarebbe sufficiente per escludere la possibilità di racchiudere esperienze così di­verse come il fascismo in Italia e il nazional­socialismo in Germania sotto l’unica catego­ria concettuale del fascismo. Sembra strano che proprio uno storico che ha studiato i rapporti tra Hitler e Mussolini anteriormen­te al 1933 non sottolinei la comune matrice politicoculturale dei due movimenti, prima ancora che dei due regimi, e non colga al di là delle diversità anche le forti analogie e convergenze tra di essi. Una sottovalutazio­ne che si ripeterà a proposito dell’alleanza dell’Asse e del Patto tripartito, come se nel­l’intreccio della sciagurata alleanza e dello

scatenamento della seconda guerra mondiale l’affinità tra i due regimi fosse un fatto me­ramente accidentale e incidentale. In defini­tiva, per De Felice lo storico del fascismo deve guardare essenzialmente se non esclusi­vamente al regime italiano; nella sua ottica, posto in rapporto alla tradizione politica ita­liana il fascismo tende anche a perdere i connotati della sua specificità e a presentarsi piuttosto come un semplice irrigidimento della tradizione autoritaria del liberalismo12, sottolineando lo scarto tra le conoscenze empiriche che il suo stesso lavoro ci ha fatto acquisire e la capacità di riflessione storio­grafica e teorica che dovrebbe scaturire dai risultati stessi della sua ricerca. In realtà, il rifiuto di riconoscere il peso specifico del fa­scismo come fenomeno internazionale ha implicazioni più profonde non soltanto dal punto di vista dell’area di influenza del fa­scismo, ma sotto il profilo della natura stes­sa del fascismo disconoscendone il carattere eversivo e il potenziale aggressivo. Inoltre, se si nega che il fascismo si ponesse oggetti­vamente, anche se non l’avesse voluto, come modello di soluzione dei problemi dell’ordi­ne sociale nella transizione dalla società libe­rale ottocentesca al mondo così profonda­mente trasformato uscito dalla guerra mon­diale nei confronti non solo della società ita­liana ma negli anni venti e ancor più negli anni trenta rispetto a molti dei paesi in crisi dell’Europa continentale, si rischia di non comprendere neppure come la sua fortuna sia dipesa non soltanto dalla sua ambizione o capacità di espansione ma anche dall’inte­resse, dalle simpatie e dalle curiosità che cir­condarono dall’esterno la sua esperienza in

10 Cfr. Renzo De Felice, Interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969 e Id., Il fenomeno fascista, “Storia con­temporanea”, 1979, pp. 619-632. Nello stesso senso si muove l’introduzione alla quarta edizione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Torino, Einaudi, 1988).11 Così in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993 (nuova edizione amplia­ta, ed. orig. 1961), p. IX.12 Questo è ad esempio quanto De Felice ha sostenuto nella nota intervista al “Corriere della sera” del 27 dicembre 1987.

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Italia, non soltanto presso le destre autorita­rie in larga parte d’Europa ma anche presso i conservatori inglesi e almeno una parte del mondo conservatore francese e tedesco13.

Spesso si è equivocato sul fatto che il fa­scismo sarebbe stato irripetibile perché non vi è stato alcun altro regime in Europa che ne abbia riprodotto puntualmente le forme istituzionali, la dottrina, l’organizzazione sociale. Ma ben sappiamo che, perché si possano assimilare entità statuali e sociali diverse ad un unico modello di sistema poli­tico, non occorre affatto la compresenza né l’identità totale di tutti i fattori che concor­rono alla determinazione della fisionomia di un assetto istituzionale. Le simiglianze isti­tuzionali sono importanti ma non devono essere intese come identità; ciò che è fonda- mentale per distinguere un’area di regimi as­similabili al fascismo è la presenza di obietti­vi comuni e di un corpo di principi ispiratori che convergono verso la costruzione di un sistema di tipo fascista14.

È vero che la storiografia non è unanime nell’individuare questi fattori15, ma è anche vero che sono stati compiuti notevoli sforzi per pervenire alla definizione di un nucleo concettuale minimo identificabile nel fasci­smo, al di là della semplice autodescrizione che del fascismo hanno fatto gli stessi fasci­

sti ma della quale non è neppure possibile sbarazzarsi puramente e semplicemente.

Proprio la contraddittorietà con la quale la stessa dottrina fascista ha posto il proble­ma della tensione tra la sua vocazione uni­versalista e la sua protesta di non volere considerare il fascismo merce di esportazio­ne offre una spia e una ragione in più per mettere a confronto l’autorappresentazione con l’evoluzione così delle iniziative concre­te del fascismo (la propaganda all’estero, l’uso delle colonie di emigrazione italiane, l’incoraggiamento di movimenti fascisti in altri paesi) come della complessiva situazio­ne europea e del richiamo all’esempio del fa­scismo in Italia diffuso nella cultura e nelle proposte politiche prima ancora della gran­de crisi a cavallo tra gli anni venti e gli anni trenta, e a maggior ragione dopo l’incedere della crisi.

Le difficoltà di pervenire a una cifra inter­pretativa che possa raccogliere una larga ba­se di consenso tra gli studiosi si sono ripro­poste di recente proprio a proposito dell’ap­plicazione al fascismo e ai fascismi della ca­tegoria del totalitarismo. Non condivido la contrapposizione netta tra fascismo e totali­tarismo, quasi che su questa contrapposizio­ne si potesse fissare la collocazione del fasci­smo da una parte e del nazismo dall’altra.

13 Sebbene le ricerche in questa direzione siano ancora tutt’altro che esaurienti disponiamo già di studi che rappre­sentano molto più di un semplice sondaggio, come i lavori di Aldo Berselli, L ’opinione pubblica inglese e l ’avvento del fascismo (1919-1925'), Milano, Angeli, 1971; Klaus Peter Hoepke, Die deutsche Rechte und der italienische Fa- schismus, Düsseldorf, Droste, 1968; Pierre Milza, Le fascisme italien et la presse française 1920-1940, Bruxelles, 1987; Elena Fasano Guarini, Il “Times” di fronte al fascismo (1919-1932), “Rivista storica del socialismo”, mag­gio-dicembre 1965; Corrado Vivami, La stampa francese di fronte al fascismo (luglio 1922-gennaio 1925), ivi, gen­naio-aprile 1965.14 Si vedano al riguardo le considerazioni svolte da Nicola Tranfaglia, Italia e Spagna: due regimi autoritari a con­fronto, in Id., Labirinto italiano. Il fascismo, l ’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989; e Id., Tre casi di fascismo in Europa: una proposta di comparazione, in E. Castelnuovo-Valerio Castronovo, Europa 1700- 1992: storia di un ’identità. Il ventesimo secolo, Milano, Electa, 1993.15 Tutte le opere che affrontano il fascismo come fenomeno internazionale si imbattono nella problematica indica­ta; tra di esse ci limitiamo a segnalare per l ’evidenziazione di diverse tipologie, oltre all’opera collettiva già citata a cura di S.U. Larsen, B. Hagtvet, J.P. Myklebust, Who were the Fascists, cit., Stanley G. Payne, Fascism: Compa­rison and Definition, Madison, University o f Wisconsin Press, 1980 e Wolfgang Wippermann, Europaischer Fa- schismus im Vergleich 1922-1982, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1983, nonché il nostro Fascismo fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.

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Ho altra volta sottolineato il carattere po­tenzialmente totalitario del fascismo, anche per richiamare la necessità di studiare le ca­ratteristiche del regime nelle sue diverse fasi evolutive, non staticamente, come se i suoi caratteri fossero stati fissati tutti sin dall’ini­zio, una volta per sempre, un criterio che vale ovviamente per l’analisi di qualsiasi.si­stema e istituzione politica. L’uso di concetti e categorie interpretative non può non essere praticato con la flessibilità necessaria, che non vuol dire incertezza o oscillazione inter­pretativa ma consapevolezza del carattere complesso, orientativo e non normativo, che hanno gli strumenti euristici in storiografia. È chiaro che se si parte dal principio che so­lo il fascismo allo stato puro si può definire tale o dal principio che un regime è uguale a se stesso e non ad altri si cade in un circolo vizioso tautologico e si nega a priori la pos­sibilità di qualsiasi comparazione, il cui sco­po non è quello di compiere una accademica operazione di logica formale ma di fornire strumenti per l’ulteriore comprensione di un fenomeno storico.

Per tornare all’evoluzione del fascismo, nel caso specifico non si può dire che il fa­scismo italiano sia stato sin dall’inizio razzi­sta in senso antisemita. Ma a partire dalla seconda metà degli anni trenta, e segnata- mente a partire dalla codificazione delle leg­gi razziali, il problema si pone, sia avvenuto questo per semplice imitazione della Germa­nia nazista o per autonoma dinamica inter­na, non dissociabile comunque da un conte­sto internazionale. Riteniamo che a questo punto l’antisemitismo del regime fascista concorra a metterne in evidenza la tendenza ad assumere caratteri sempre più tipicamen­te totalitari, al di là dello sviluppo istituzio­nale sino allora realizzato e anche senza as­sumere le forme più rigide e monolitiche che

il regime nazista aveva già assunto in Ger­mania.

Del tutto consenzienti ci trova il richiamo formulato da Philippe Burrin quando sotto- linea con forza l’affinità, non l’identità, di fascismo e nazionalsocialismo e individua, come terreno di analisi per la verifica del suo assunto questa serie di circostanze: “convergenze strategiche”, “concezioni ideologiche”, “dispositivi istituzionali” e la “disponibilità e la ricettività della società che si trova a governare”16. Quest’ultima espressione allude all’esigenza di approfon­dire l’ampia e complessa problematica del consenso, che troppo spesso risulta schiac­ciata e appiattita dalla contrapposizione net­ta tra consenso e opposizione, che elude la vasta gamma di comportamenti intermedi attraverso i quali si perviene alla formula­zione delle posizioni antitetiche17. Al pari di altri autori, Burrin enumera gli elementi strutturali costitutivi di fascismo e nazional­socialismo, gli stessi che ne autorizzano la considerazione come “famiglia politica” au­tonoma rispetto alla più generale valutazio­ne del totalitarismo: l’alleanza con le forze conservatrici, che si può esprimere anche e forse più correttamente con il richiamo al rapporto con le élite tradizionali; il rapporto tra lo Stato e il partito in un contesto carat­terizzato dal partito come strumento di mo­bilitazione di massa; il sostegno popolare (che torna a richiamare la problematica del consenso); il mito del capo. A loro volta, Serge Berstein e Pierre Milza, con i quali mi sento a questo proposito in linea di massima di consentire, assumono i caratteri del totali­tarismo, da essi definibili attraverso la vo­lontà di un regime di trasformare 1’ “uomo nuovo”, di costruire una dittatura moderna nell’epoca della società di massa, di compri­mere l’autonomia della società civile, di ri­

16 II richiamo è al contributo di Philippe Burrin, Politique et Société: Les structures du pouvoir dans l ’Italie fascis­te et l’Allemagne Nazie, “Annales ESC”, 1988, pp. 615-637.17 Rinvio a E. Collotti, Fascismo fascismi, cit., pp. 53-55.

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conoscere quale unica fonte di volontà poli­tica il partito unico, quale elemento discri­minante per stabilire il confine tra l’area del fascismo in senso stretto e la più vasta e più fluida gamma di regimi attribuibili all’auto­ritarismo più o meno tradizionale18. All’in­terno di questa distinzione il fascismo italia­no e il nazionalsocialismo in Germania sono accomunati nella stessa categoria del fasci­smo, trattandosi di esperienze che si ricono­scono nei medesimi fattori costitutivi e nei medesimi caratteri totalitari. L’antisemiti­smo della Germania nazista non rappresenta un fattore discriminante di distinzione ma piuttosto una specificazione ulteriore della dimensione totalitaria del nazismo. Né in questa affermazione è in alcun modo possi­bile vedere una sottovalutazione del genoci­dio degli ebrei, come sembra intendere Saul Friedlaender, poiché anche quest’ultimo a sua volta non può essere considerato fine a se stesso ma va storicamente inquadrato nel contesto del regime nazionalsocialista19.

In un’ottica ancora diversa si pone quella parte della storiografia tedesca che sottoli­nea nel nazismo, muovendo dal modello sto­rico del fascismo, l’esasperazione del mo­mento totalitario sempre latente ma non sempre presente nel fascismo italiano20. Co­mune ai due regimi fu la capacità di svilup­parsi autonomamente e di pervenire autono­mamente al potere senza bisogno di influen­

ze esterne: tutti i fascismi cosiddetti “mi­nori” pervennero al potere per influenza di­retta di uno dei due fascismi-guida. Questo fu certamente il caso dell’Austria clerico- fascista di Dollfuss, la cui vicenda risulta particolarmente complessa sia per le specifi­che caratteristiche che assunse il regime di Dollfuss, sia per il conflitto di interessi tra i due fascismi di cui fu teatro l’Austria. Senza l’incoraggiamento e l’appoggio dell’Italia Dollfuss non avrebbe potuto avere tempora­neamente la meglio né sull’odiata e temuta socialdemocrazia né sulle concorrenti ten­denze antidemocratiche di derivazione filo­nazista: un caso singolare, questo dell’Au­stria, in cui il fascismo interno fu la risultan­te dello scontro e della concorrenza tra filo­fascismo e filonazismo21. In modo ancora più evidente questa subalternità ai fascismi “maggiori” si sarebbe manifestata nel caso dei filoni fascistizzanti che divennero regime soltanto nella fase di espansione della Ger­mania nazista (come nel caso della Slovac­chia) e ancor più dopo lo scatenamento della seconda guerra mondiale grazie alla pressio­ne diretta di Italia e Germania nei territori invasi e occupati dell’Europa; in quest’ulti- ma ipotesi questi fascismi locali si identifica­rono con il collaborazionismo con la potenza occupante: così avvenne in Norvegia, in Croazia, nella stessa Ungheria nel passaggio dalla dittatura militare di Horthy a quella fi-

18 II riferimento è all’Avant-propos di Pierre Milza, Serge Berstein, Dictionnaire historique des fascismes et du na­zisme, Bruxelles, Ed. Complexe, 1992; da notare che i due storici francesi che sostengono l’applicabilità del concet­to di fascismo al fascismo italiano e al nazionalsocialismo tedesco intitolano la loro opera ai “fascismi”, attenuan­do ci pare la demarcazione tra fascismo e regimi autoritari altra volta più fortemente sostenuta come in P. Milza, Les Fascismes, Paris, Imprimerie Nationale, 1985.19 La tesi del carattere sui generis che l’antisemitismo del Terzo Reich conferisce al nazismo donde l’incomparabili­tà di quest’ultimo è stata sostenuta da Saul Friedlaender in diverse occasioni, nel modo più chiaro e stringato, ci pare, nel saggio De 1‘antisémitisme e l ’extermination. Esquisse historiographique, “Le Débat”, settembre 1982.20 Riassuntiva in questo senso la voce Faschismus redatta da Wolfgang Schieder per il volume Geschichte del Fi­scher Lexikon, a cura di R. van Duelmen, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1990.21 Sulla problematica dell’austro-fascismo riferimenti essenziali in Francis L. Carsten, Faschismus in Òsterreich. Von Schònerer zu Hitler, München, Wilhelm Fink, 1977 e il volume a più voci a cura di Emmerich Talos-Wolfgang Neugebauer, “Austrofaschismus”. Beitrage iiber Politile, Ôkonomie undKultur 1934-1938, Wien, Verlag für Gesel- lschaftskritik, 1985; inoltre anche il mio Fascismo fascismi, cit., alle pp. 91-104.

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lonazista di Szalasi dopo l’occupazione del­l’Ungheria da parte della Germania22.

Ancora diversa fu la vicenda del regime di Vichy in Francia, al quale la storiografia, e in primo luogo quella francese, disconosce il carattere di regime fascista facendolo rien­trare nella tipologia dei regimi autoritari tra­dizionali, ma nei cui confronti è indubitabile l’influenza determinante di circostanze esterne, quali la sconfitta militare del 1940 e l’occupazione della Francia soprattutto da parte della Wehrmacht, che ne consentirono l’affermazione prima e ne influenzarono lo sviluppo successivamente23.

Per buona parte della storiografia la dif­ferenziazione tra il fascismo italiano e il na­zionalsocialismo in Germania non si pone nella fase (o nelle fasi) dell’avvento al pote­re, ma nella fase dell’esercizio della dittatu­ra, nell’esercizio del monopolio del potere da parte del partito fascista e rispettivamen­te della Nsdap. È a questo punto che suben­tra la divaricazione, poiché il regime fascista in Italia non pervenne mai ad una totale Gleichschaltung delle altre forze e poteri isti­tuzionali né della società. I numerosi com­promessi istituzionali sui quali si resse il re­gime fascista, in primo luogo quelli con la monarchia e con la Chiesa cattolica, e che furono gli stessi che il 25 luglio 1943 consen­tirono al re di estromettere Mussolini, furo­no sconosciuti al regime nazista, che potè realizzare l’instaurazione di un regime tota­litario incomparabilmente più compatto e

integrale del fascismo italiano. Quest’ultimo cioè rimase modello del nazionalsocialismo sino alla presa del potere; a partire da que­sto momento l’allievo superò il maestro, sia nell’organizzazione totalitaria del potere con la distruzione di ogni pluralismo politico, istituzionale e sociale, sia nell’intransigenza della politica razziale che nella Gleichschal­tung trovava una delle sue premesse24. Non è quindi di per sé la violenza della politica antiebraica (su cui insiste soprattutto Bra- cher) la discriminante tra i due regimi, lo so­no le caratteristiche che assunsero dopo la presa del potere l’articolazione delle struttu­re di potere e i canali di esercizio del potere stesso.

Anche per il franchismo il fascismo rap­presentò il modello, ma mentre gli studiosi tedeschi accentuano la progressione degli elementi di totalitarismo nel passaggio dal fascismo al nazismo, uno storico spagnolo come Tusell adotta una scala decrescente di livelli di totalitarismo muovendo dal fasci­smo italiano, nei cui confronti usa l’efficace espressione di “totalitarismo defectivo” (noi diremmo: un totalitarismo imperfetto), per pervenire alla collocazione marginale del franchismo rispetto all’area più tipicamente totalitaria25. Non intendiamo con questo en­trare nella complessa discussione sulla defi­nizione e sui caratteri della dittatura franchi­sta già oggetto del resto di un interessante dibattito nel corso di un convegno svoltosi a Bologna26, ma vale la pena di fare questo ri-

22 Rinviamo in proposito al nostro Fascismo fascismi, cit., parte II, cap. IV e alla nostra relazione II collaborazio­nismo con le potenze dell’Asse nell’Europa occupata: temi e problemi della storiografia, cit.23 Ci limitiamo alle citazioni essenziali ai fini di ricostruire i termini della discussione: R.O. Paxton, La France de Vichy 1940-1944, Paris, Seuil, 1973; P. Milza, Fascisme français. Passé et Présent, Paris, Flammarion, 1987, in particolare cap. IV; nonché i contributi nell’opera a cura di Jean-Pierre Azema e François Bedarida, Vichy et les Français, Paris, Fayard, 1992, in particolare nella parte nona.24 In questo senso l’applicazione più recente dell’impostazione di cui al testo è offerta dal saggio di W. Schieder, Die Nsdap vor 1933. Profil einer faschistischen Partei, “Geschichte und Gesellschaft”, 1993, f. 2, pp. 141-154.25 Cfr. Javier Tusell, La dictadura de Franco, Madrid, Alianza Editorial, 1988, p. 348.26 Le relazioni del convegno sono raccolte nel volume a cura di Luciano Casali, Per una definizione della dittatura franchista, Milano, Angeli, 1990.

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chiamo per sottolineare ancora una volta l’area di espansione e di influenza del fasci­smo. Neppure il regime franchista sarebbe arrivato al potere se non avesse ricevuto l’aiuto determinante delle potenze fasciste: al di là delle ideologie, in questo caso furo­no gli interessi concreti di potenza di Italia e Germania che determinarono la vittoria del franchismo nella guerra civile. Ma così come la vittoria di Franco non è dissociabile dalla natura dei regimi che ne determinarono la sorte, neppure il regime franchista poteva sfuggire ad una caratterizzazione che alme­no in parte, e almeno fino al 1942, lo asso­ciasse al fascismo. Tusell lo colloca a mezza strada tra il fascismo e il salazarismo in Por­togallo, che viene assunto a sua volta come prototipo di regime autoritario27. In questo quadro il salazarismo risulta al margine del­la sfera dell’autoritarismo tradizionale, en­tro la quale del resto lo collocano le ricerche più recenti di storici portoghesi28, senza che sia tuttavia possibile espungerlo del tutto dall’area di influenza del fascismo come spi­rito dell’epoca, ma anche come modello di soluzione della questione sociale e come for­ma di organizzazione dello Stato e dei rap­porti tra lo Stato e la società.

Aspetti della risonanza internazionale del fascismo

Questa sintetica e certo incompleta rassegna dei principali punti di vista sviluppati nella più recente storiografia sul fascismo è servi­ta a richiamare le analogie che sotto il profi­lo della trasformazione istituzionale hanno caratterizzato i due regimi più direttamente

riconducibili alla nozione di fascismo e la costellazione assai vasta degli Stati che nel­l’Europa centro-orientale hanno risposto in senso autoritario alla crisi della democrazia o all’impossibilità di adottare, all’atto della propria costituzione, il modello di una de­mocrazia che non aveva alcuna tradizione alle spalle (fu il caso della Polonia, ma an­che della Iugoslavia e dell’Ungheria: a parte andrebbe esaminato il caso, come eccezione felice, della Cecoslovacchia). Diversi anco­ra, come sappiamo, sono i casi di Romania, Bulgaria, Grecia, sui quali non possiamo partitamente soffermarci. Si potrebbero na­turalmente approfondire alcuni momenti particolari che nella evoluzione della situa­zione complessiva tra le due guerre mondiali danno ragione di affinità e simpatie per il modello fascista, anche indipendentemente dall’assunzione delle forme istituzionali ed esteriori dello Stato totalitario nell’accezio­ne fascista. Credo che oggi dovrebbe essere chiaro che come il fascismo si fece erede e protagonista di forme di militarizzazione della politica mutuate direttamente dall’e­sperienza sociale e culturale della grande guerra, altrettanto forte fu la spinta che esso trasse dalla predisposizione autoritaria e an­tidemocratica diffusa in molte delle nuove entità statuali che nascevano senza una sicu­ra identità non solo statuale ma addirittura nazionale e sociale e che all’atto stesso della loro formazione si trovavano a porsi acuti problemi di identità collettiva e di colloca­zione come Stati. A prescindere, natural­mente, dal problema della preesistenza in ta­luni di essi, ancora anteriormente allo scio­glimento dell’impero asburgico, di elementi e di tradizioni che si sarebbero successiva-

27 Cfr. J. Tusell, La dictatura de Franco, cit., cap. VI.28 Per la più recente discussione critica si rinvia al libro di Antonio Costa Pinto, O salazarismo e o fascismo euro­pea. Problemas de interpretacao nas ciencìas sociais, Lisboa, Editorial Estampa, 1992; dello stesso autore si veda la sintesi in italiano del suo punto di vista: “Lo “stato nuovo” di Salazar e il fascismo europeo. Problemi e prospet­tive interpretative, “Storia contemporanea”, 1992, pp. 469-524. Inoltre gli atti di convegno O Estado Novo. Das origines ao firn da autarcia 1926-1959, vol. I, Lisboa, Editorial Fragmentos, 1987.

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mente integrati e fusi con elementi dei fasci­smi locali29.

Se già per l’Italia e per la Germania, due Stati pervenuti all’unità nazionale con relati­vo ritardo rispetto alla tradizione politica dell’Europa occidentale, la ritardata forma­zione dell’unità nazionale è stata considera­ta tra gli elementi politici, sociali e culturali all’origine dell’instaurazione dei regimi fa­scista e nazista attraverso il processo di tra­sformazione della mentalità prodotto dalla guerra mondiale, ancora più profondo do­veva rivelarsi il trauma della ritardata o ad­dirittura della mancata unità nazionale nella più parte degli Stati nati dai trattati di pace.

La fortuna di due componenti essenziali del fascismo, il corporativismo o comunque l’ideologia interclassista (nel caso della Ger­mania nazista) e il nazionalismo estremo si­no all’abiezione del razzismo e dell’antise­mitismo come strumento di distruzione bio­logica, non può essere dissociata dai proces­si di sviluppo politico e sociale di lungo pe­riodo che sono legati ai singoli contesti so­ciali e nazionali. Non è un caso che le due dittature fascista e nazista si siano affermate in contesti caratterizzati da una tradizione, debole o forte che fosse, di pluralismo poli­tico e di forte conflittualità sociale: in essi l’affermazione della dittatura ha significato la costruzione con la forza, con la violenza istituzionale e istituzionalizzata, di un ordi­namento sostitutivo rispetto a un più vec­chio e consolidato assetto. La dittatura ha segnato la vittoria sugli avversari politici e sui nemici di un progetto interclassista (di qui fra l’altro la violenza dell’attacco al mo­vimento operaio) e l’avvio di un nuovo as­setto sociale e di potere fondato sull’esclu­sione degli avversari politici dalla collettività (si trattasse del popolo dei “produttori” nel­

la terminologia fascista o della “comunità popolare” di matrice nazionalsocialista), senza escludere (e in taluni casi prevedendo esplicitamente) l’obiettivo del loro fisico an­nientamento. La radicalità dello scontro si rendeva necessaria per garantire la selezione e, ove necessario, il parziale ricambio della élite dirigente e anche la profondità di un processo di mobilitazione delle masse che, nella stessa misura in cui le espropriava di ogni diritto politico e talvolta anche civile, le strumentalizzava in funzione della costru­zione di un consenso più o meno coatto, che aveva tuttavia in sé un effetto di trascina­mento destinato ad autoalimentarsi e per questa via a fare crescere su se stessa l’ade­sione al regime.

Italia e Germania potevano disporre di ce­ti borghesi sia pure politicamente deboli; gli Stati di formazione nuova erano totalmente privi di solide borghesie nazionali e soprat­tutto privi di un solido retroterra politico che non derivasse unicamente da tradizioni di lotte nazionali (nel caso della Polonia) o da tradizioni militari (prevalenti nel caso dell’Ungheria) anteriori alla loro stessa for­mazione come Stati. La frammentazione so­ciale da una parte, la frammentazione nazio­nale dall’altra concorsero nella maggior par­te degli Stati di nuova formazione alla rapi­da polarizzazione delle forze politiche verso forme di aggregazione tendenti a privilegiare l’aggregazione più strettamente nazionale piuttosto che quella politicopartitica o a sot­tolineare fattori di identità nazionale e reli­giosa tanto forti ed esclusivi da sfociare nel­l’ostracismo e nell’intolleranza nei confronti delle nazionalità o delle confessioni altre. Le diffuse ideologie corporative — non si pensi soltanto all’irradiazione diretta del corpora­tivismo italiano, si pensi anche al circuito di

29 Si vedano al riguardo le osservazioni generali formulate da Stephen Fischer-Galati nell’opera Who were the Fa­scists, cit., introduzione alla parte 4, Fascism in Eastern Europe, e nella relazione Regimes autoritarios da Europa Oriental: estudo comparativo, in O Estado Novo, cit., pp. 87-98.

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mediazione rappresentato dal mondo cultu­rale austrotedesco: un nome su tutti, quello di Othmar Spann — si radicavano su un ter­reno quanto mai disponibile a raccoglierle: più che l’identità professionale era il mito dell’accordo e dell 'armonia tra le classi, in­dissolubile dal mito delle unioni nazionali al di sopra dei partiti e per ciò stesso antiparla­mentari, che fungeva contemporaneamente da ammortizzatore delle conflittualità socia­li e da fattore di ricomposizione di un’unità nazionale in gran parte ancora da costruire. Probabilmente soltanto i partiti contadini nell’Europa centro e sudorientale rappresen­tavano, tra le forze in qualche modo tradi­zionali, interessi non meramente corporati­vi, nel senso che erano anche forze politiche che esprimevano valori sociali globali, ossia una visione della società nel suo complesso, non importa se arcaica o meno. Può valere la pena di insistere sulla suggestione del mito corporativo30. A questo proposito, credo di potere notare come la storiografia non sem­bri avere recepito né sviluppato adeguata- mente le osservazioni implicite nell’uso del concetto di corporatismo formulato una quindicina di anni or sono dallo storico americano Charles S. Maier31. Maier poneva il problema della trasformazione nella dislo­cazione di potere tra Stato e interlocutori economicosociali, tra pubblico e privato nel processo di redistribuzione del potere segui­to alla guerra mondiale. Il corporativismo si presenta in questo contesto come la soluzio­ne autoritaria coatta, dall’alto, di una rego­lamentazione contrattuale che in altri conte­sti assumeva carattere per l’appunto consen­suale, ossia di mediazione ininterrotta tra gli interessi in conflitto. Ebbene, se si cerca di approfondire le ragioni delle tendenze cor­

porative (non corporatiste!) prevalenti negli Stati minori dell’Europa centro e sudorien­tale ci si rende conto che il ricorso al potere coercitivo dello Stato era il rovescio della debolezza delle loro élite agrarie e industria­li; queste non dovevano difendersi soltanto da agguerriti movimenti sindacali, come era avvenuto nell’Italia prefascista e nella Ger­mania prenazista, quanto dalla arretratezza della loro strumentazione nel campo politi­cosociale e degli strumenti di rappresentanza del sistema politico. Non si verificava perciò la composizione degli interessi, che in origi­ne era stata ipotizzata per la repubblica di Weimar, ma ci si avvicinava al modello di coazione che apparteneva alla pratica del re­gime fascista in Italia.

La Polonia di Pilsudski e più tardi del co­lonnello Beck rappresenta l’esempio forse più rappresentativo della misura di ricezione del mito e del sistema corporativo in un con­testo profondamente diverso da quello ita­liano e che comunque non assumerà mai i connotati istituzionali del fascismo; e al tempo stesso di verifica del modo in cui la propaganda fascista si appropriò di figure, simboli e accadimenti che non gli appartene­vano per accapparrarsene la paternità. Na­turalmente, bisogna guardarsi dal conclude­re che questa sarebbe la conferma che il cor­porativismo fosse una risposta adeguata per paesi a sviluppo ritardato come la Polonia degli anni venti e trenta: una risposta di que­sto tipo non nasceva specificatamente dal­l’arretratezza della situazione economicoso- ciale ma dall’incertezza complessiva dell’i­dentità politica del nuovo Stato.

Un discorso analogo si potrebbe fare per il nazionalismo, l’antisemitismo, il razzi­smo. Il nazionalismo era la risposta più im­

30 Per questa problematica si veda a titolo introduttivo il capitolo iniziale del lavoro di Marco Palla, Fascismo e Stato corporativo. Un’inchiesta della diplomazia britannica, Milano, Angeli, 1991.31 Cfr. Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, Bari, De Donato, 1979 (ed. orig. Princeton, Princeton University Press, 1975) in parti­colare la conclusione.

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mediata e più facile, quella che emotivamen­te era suscettibile di raccogliere rapidamente il più vasto consenso, all’incertezza di iden­tità e di collocazione praticamente di tutti gli Stati di nuova formazione, in nessuno dei quali si era realizzato il concetto dello Stato- nazione che aveva presieduto all’unificazio­ne dei grandi Stati nazionali dell’occidente europeo. Tutti gli Stati di nuova formazione ripetevano il carattere di Stato plurinaziona­le (Cecoslovacchia e Iugoslavia in testa) o di Stato con forti componenti minoritarie (so­prattutto la Polonia). E proprio in Polonia, ancora una volta, particolarmente elevata era la componente ebraica, sia per il numero assoluto dei suoi componenti, sia per la sua diffusa stratificazione sociale che non con­sentiva di circoscriverla ad uno specifico set­tore professionale; rilevante inoltre era il re-' taggio dell’antisemitismo tradizionale dei territori ex zaristi. La ricerca e il tentativo di forzare in tempi quanto più possibile rapidi elementi di identificazione nazionale porta­rono ben presto all’esasperazione del nazio­nalismo di derivazione sia cattolica sia so­cialmoderata (Pilsudski), un nazionalismo che derivava dalla lunga tradizione di lotta per l’indipendenza contro la Russia, e che ora associava sentimenti antirussi e antibol­scevismo, ma che era anche dotato di un forte sentimento antiprussiano (prima anco­ra che antitedesco). Già la guerra contro la Russia bolscevica del 1920 presenta la com­mistione di questi ingredienti essenziali del bagaglio di un nazionalismo aggressivo, mi­litante e tendenzialmente militarizzato alla maniera squadristica.

L’antisemitismo si presentò in Polonia co­me un ulteriore motivo di potenziamento della spinta nazionalistica, già di per sé cari­ca di risentimenti e di intenzioni revanscisti- che soprattutto contro la Russia. In Polo­nia, certo, l’antisemitismo non assunse va­lenze biologiche ma la tradizione cattolica e la tradizione nazionalista concorsero alla co­struzione di ipotesi che andavano al di là del numerus clausus o del numerus nullus (se­condo l’efficace espressione ripresa da Si­mon Wiesenthal) per gli ebrei o di uno statu­to di cittadinanza limitata, per progettare una vera e propria espulsione degli ebrei dal­la Polonia32: dopotutto, il progetto Madaga­scar, che ricomparirà tra i progetti dei nazi­sti, era già stato ventilato in precedenza al­l’interno della diplomazia francese e, paral­lelamente, all’interno dei circoli governativi polacchi33. L’antisemitismo si presentava come l’antidoto di una difficile situazione sociale di grande frammentazione e di esa­sperata contrapposizione tra ceti piccolo e medio borghesi e ceti proletari, tra mondo urbano e mondo rurale, nonostante l’uno e l’altro avessero forti punti di contatto negli elevati livelli di proletarizzazione e fossero attraversati nella loro stratificazione da una forte compenetrazione della componente ebraica. Nell’ottica dei nazionalisti delle più svariate tendenze l’antisemitismo in Polonia assolveva a una funzione di unificazione na­zionale34.

Se ci siamo soffermati sul caso della Polo­nia è perché qui più che altrove furono evi­denti i margini dell’espansione ideologica del fascismo, al di là della sua identificazio-

32 II riferimento è all’intervista a cura di Maria Sporrer e Herbert Steiner, Simon Wiesenthal. Ein unbequemer Zeitgenosse, Wien-München-Zürich, Orac, 1992, p. 21 e numerosi altri cenni all’antisemitismo dell’epoca.33 Sui precedenti del progetto Madagascar si vedano Michael Marrus, Robert O. Paxton, Vichy et les Juifs, Paris, Calmann-Levy, 1981, pp. 94-97 e Colonel J. Beck, Dernier Rapport. Politique polonaise 1926-1939, Neuchâtel, La Baconnière, 1951, p. 140.34 Interessanti riflessioni su questa problematica offre il contributo di E. Mendelsohn, Gli Ebrei dell’Europa orien­tale tra le due guerre mondiali, negli atti di convegno a cura della Camera dei Deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Roma, 1989.

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ne in una forza politica determinata, senza che a questa tuttavia corrispondesse una analoga assunzione dei modelli istituzionali; dopo il 1926 si affermò in Polonia un siste­ma ibrido fondato sulla dittatura personale di Pilsudski, da taluni studiosi assimilata al­la dittatura primoderivista in Spagna o al re­gime austriaco di Dollfuss35, che mutuava dal fascismo italiano l’ispirazione corporati­va che sarebbe stata codificata dalla Costitu­zione del 193536. Autoctono era l’antisemiti­smo, fortemente legato fra l’altro al clero e alla popolazione cattolica, che tale rimase anche dopo l’avvento al potere del nazismo in Germania. La generalizzazione della spin­ta alla persecuzione in tutta Europa che ne seguì non indusse la politica polacca ad al­cun cambiamento di rotta, neppure quando la minaccia tedesca immediatamente rivolta contro la Polonia adombrò l’anticipazione di una catastrofe che avrebbe colpito al cuo­re non soltanto la comunità ebraica ma con essa la stessa nazione polacca.

La Polonia in definitiva è un caso interes­sante per verificare non tanto l’affinità for­male dei regimi quanto l’assorbimento da parte di un altro paese e la ritraduzione in termini nazionali, autoctoni, di parti dell’e­sperienza che andava compiendo il regime fascista in Italia. Va da sé che nella valuta­zione di questa ricezione di esperienze biso­gna tenere conto anche delle esigenze propa­gandistiche del regime fascista, che spesso si attribuiva la primogenitura di circostanze o

formulazioni che erano entrate a fare parte della coscienza comune e del linguaggio po­litico dell’epoca o che avevano influenzato in maniera sostanziale il pensiero politico contemporaneo.

L’enfasi propagandistica che si diede alla figura di Pilsudski o agli orientamenti cor­porativi della Polonia era certamente in fun­zione prevalente dell’interesse dell’Italia a presentarsi come il centro capace di suscitare risonanza internazionale e di fornire appun­to un modello da imitare, ma non smentiva il fatto che, al di là di ogni strumentalizza­zione, si mettessero in risalto evidenti simpa­tie della Polonia per il fascismo italiano. A questa operazione concorrevano, in sintesi: la figura del duce come capo di uno Stato forte; l’organicismo della concezione corpo­rativa che mirava a privilegiare l’aggregazio­ne e la consociazione degli interessi al di so­pra della molteplicità dei partiti e della lotta di classe; certamente vi concorreva anche l’antibolscevismo che aveva avuto un cam­pione militante in Pilsudski protagonista della guerra contro la Russia sovietica. Pil­sudski era esaltato come il Mussolini della Polonia37; addirittura nella biografia di Pil­sudski si scavavano episodi che tendevano a presentarlo come un protofascista; inoltre si raccoglieva con evidente compiacimento l’affermazione proveniente dalla stessa Po­lonia secondo la quale la marcia su Varsavia del 12 maggio 1926 aveva avuto un “esem­pio luminoso” nella marcia su Roma38.

35 È questa per esempio l’opinione di F. Ryszka riferita da J.W. Borejsza, East European Perceptions o f Italian Fascism, cit., p. 357.36 Cfr. F. Giulietti, Le Costituzioni polacche, Firenze, Sansoni, 1946 ed ivi i testi della Costituzione del 1921 e di quella del 1935. Notizie interessanti in proposito contiene anche l’articolo di Wieslaw Kozub-Ciembroniewicz, La ricezione ideologica del fascismo italiano in Polonia negli anni 1927-1933, “Storia contemporanea”, 1993, pp. 5-17, che farebbe desiderare una più ampia e approfondita ricerca nella stessa direzione.37 Citiamo a titolo esemplificativo tra le voci retoriche di questa letteratura propagandistica O. Colautti Novak, Il creatore della nuova Polonia, Giuseppe Pilsudski, Roma, 1928; tra i molti articoli, recepiti anche dalla pubblicisti­ca polacca, di L. Kociemski, Il maresciallo Pilsudski, “L’Europa orientale”, luglio-ottobre 1935.38 La citazione è ripresa dall’articolo di W.FL Meisels, Pilsudski, “L’Europa orientale”, novembre-dicembre 1927.

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Il piglio militaresco e deciso, il suo tono nazionalpopolare, facevano dell’uomo poli­tico polacco il prototipo dell’uomo forte che sarebbe piaciuto al governo fascista vedere insediato nel maggior numero possibile di paesi.

Faceva parte del consolidamento del fa­scismo al potere in Italia la possibilità di contare su una rosa di paesi amici e tenden­zialmente affini. Da questo punto di vista lo studio della ricezione del fascismo in altri contesti e quello dell’assimilazione al fasci­smo di altre esperienze fa parte a pieno tito­lo dello studio della fortuna del fascismo e contribuisce non solo al chiarimento di ciò che possiamo considerare fascismo in senso stretto ma anche di quali parti dell’esperien­za fascista si travasarono in altri contesti, contribuendo ad allargare la base delle al­leanze potenziali del fascismo e della sua ri­sonanza internazionale. Ripetiamo, questo non significa confondere esperienze di tipo diverso ma soltanto orientare la ricerca ver­so quella maggiore comprensione dell’area di influenza del fascismo come idea politica e come politica nazionale senza la quale non si comprenderebbe il peso che esso ha assun­to nella storia dell’Europa tra le due guerre mondiali. Una influenza che non può essere misurata soltanto sulla base di finanziamen­ti a movimenti o partiti filofascisti o di infil­trazioni filofasciste o del favore accordato a gruppi eversori nei rispettivi paesi ma anche e soprattutto in base a quella osmosi politi­coculturale che consentì una forte espansio­ne del modello antidemocratico, antilibera­le, antiparlamentare e antiegualitario del fa­scismo e delle sue pretese organicistiche ed elitistiche, del suo nazionalismo legionario, al di là dell’imitazione della sua aggressività

in politica estera, come fatto non soltanto di stile ma di metodologia e di condotta poli­tica.

L’estensione del discorso sul fascismo ai regimi autoritari, dittature personali e ditta­ture militari, dell’Europa centro-orientale non appare perciò indebita, sempre che si tenga conto delle necessarie differenze. Una tradizione di studi — per citare soltanto Eu- gen Weber, Nicholas M. Nagy-Talavera e più recentemente Fischer-Galati e Borejsza39 — si è mossa in questa direzione non per ar­bitraria interferenza o estensione di concetti, ma proprio per la forza euristica della com­parazione. L’analisi dei regimi dell’Europa centro-orientale è certamente un contributo alla fenomenologia di dittature e sistemi au­toritari che, fondati su autoctone radici so­ciali e culturali nazionali, mutuano elementi ideologici e pratiche di governo soprattutto dal coevo fascismo italiano. Ma è un contri­buto anche e soprattutto alla storia di partiti e di movimenti dichiaratamente filofascisti, che senza mai essere arrivati al potere quan­to meno da soli hanno fatto parte di una ga­lassia di forze che ha fatto da cassa di riso­nanza del fascismo. In questo senso è un ul­teriore contributo per la storia di quella fa­scistizzazione dell’Europa che, prima ancora che il riprodursi puntuale di regimi fascisti in senso stretto, mette in evidenza la pene- trazione e la compenetrazione nella società europea di diffuse ideologie nazionaliste, antidemocratiche, anticomuniste e antisémi­te, senza la cui presenza risulterebbe incom­prensibile fra l’altro l’intreccio di domina­zione e di collaborazione di cui è fatta la vi­cenda dell’occupazione nazista e fascista dell’Europa durante la seconda guerra mon­diale.

39 Agli scritti già citati, senza alcuna pretesa di completezza che richiederebbe ben altro spazio, vogliamo aggiunge­re almeno il libro di Nicholas M. Nagy-Talavera, The Green Shirts and the Others. A History o f Fascism in Hun­gary and Rumania, Stanford, Stanford University Press, 1970 e di J.W. Borejsza, Il fascismo e l ’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Bari, Laterza, 1981 e L ’Italia e le tendenze fasciste nei paesi baltici (1922-1940), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 1974, voi. 8.

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Diplomazia e ideologia di regime nella politica estera del fascismo

Un terzo momento essenziale per valutare il problema e la dimensione di quella che già in precedenza abbiamo definito la capacità di irradiazione verso l’esterno del fascismo porterebbe ad approfondire l’influenza del­l’Italia nella destabilizzazione dell’Europa, al di là della semplice diffusione di idee e di ideali, attraverso la concreta iniziativa poli­tica, diplomatica e anche militare. L’appro­fondimento di questa direttrice di studi, che spesso si esaurisce nella rievocazione di ini­ziative meramente propagandistiche o co­munque di limitato respiro, sottolinea l’esi­genza di una maggiore integrazione nello studio della politica estera del fascismo tra la storia delle relazioni internazionali e la storia politico-ideologica del regime. Trop­po spesso, in presenza degli orientamenti at­tuali della storiografia diplomatica sembra di non riuscire a percepire quell’intreccio di propaganda, tecnica diplomatica e politica tout court che costituì gli ingredienti della politica estera del fascismo40. Un fattore che non è possibile escludere dalla considerazio­ne del tema della presente relazione non sol­tanto perché concorre in maniera non secon­daria alla ricostruzione di uno dei caratteri del fascismo ma anche a riprova dell’ipotesi

secondo la quale “la caratteristica essenziale di differenziazione tra regimi autoritari e re­gimi fascisti nell’Europa tra le due guerre fu esclusivamente l’assenza di piani espansioni­stici aggressivi da parte dei primi”41.

Non è evidentemente questa la sede per una rassegna degli studi sulla politica estera del fascismo, ma non è fuori luogo constata­re come non sia casuale che una serie impor­tante di studi siano stati dedicati di recente alla formazione dell’Asse Roma-Berlino e alle vicende dell’alleanza italotedesca42. Or­bene, uno degli aspetti più interessanti degli studi più recenti ai quali alludevamo è che essi aprono e affrontano tematiche sinora relativamente poco o per nulla studiate, vuoi per mancanza di fonti documentarie vuoi per troppo scarso interesse storiografico, nelle quali i rapporti tra i due paesi sono in­dissolubilmente legati ai rapporti tra due re­gimi politici, sia che si tratti dello studio del Petersen sull’accordo culturale italotedesco del 1938, con i suoi evidenti riflessi tra gli al­tri di politica razziale43; sia che si tratti dello studio di Brunello Mantelli sul reclutamento di manodopera italiana per il Reich, studio che allarga la prospettiva dei rapporti tra i due paesi dell’Asse dal campo meramente politico al campo dei rapporti economici an­cora ben lungi da una soddisfacente sistema­zione44; sia infine che si tratti dell’ampia ri-

40 Nel senso indicato nel testo si muove il saggio rassegna di Marco Palla, Imperialismo e politica estera fascista, nel volume di Guido Quazza e al., Storiografia e fascismo, Milano, Angeli, 1985. Ci sembra convergere con le no­stre osservazioni una parte dei contributi nel volume a cura di Ennio Di Nolfo, Romain H. Rainero, Brunello Vi- gezzi, L ’Italia e la politica di potenza in Europa (1938-40), Settimo Milanese, Marzorati, 1988.41 Come si esprime S. Woolf, Fascismo e autoritarismo: em busca de una tipologia do fascismo europea, nel volu­me O Estado Novo, cit., p. 20; già in precedenza praticamente negli stessi termini l’autore si era espresso a conclu­sione del saggio Movimenti e regimi di tipo fascista in Europa, in Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, La Storia, vol. IX, L ’età contemporanea, t. 4, Torino, Utet, 1986.42 Per la rassegna degli studi rinviamo al saggio ultimo citato di M. Palla, limitando Paggiornamento soltanto al­l ’esemplificazione dei casi che aprono prospettive di ricerca nuova come risulta da quanto diremo nel testo.43 II riferimento è all’importante contributo di Jens Petersen, L ’accordo culturale fra l ’Italia e la Germania del 23 novembre 1938, in Fascismo e nazionalsocialismo, cit.44 Cfr. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’As­se 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992.

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cerca che sta conducendo Klaus Voigt sulla trasmigrazione dalla Germania dei persegui­tati politici e razziali che dopo il 1933 cerca­rono rifugio in Italia45. Tutti questi studi ri­portano il discorso anche metodologico allo stretto nesso tra la politica degli Stati e la fi­sionomia dei regimi.

Una circostanza infatti che, al di là degli aspetti strettamente diplomatici ma non per questo neutri come già a suo tempo fu mes­so in luce da Mario Toscano46, investe diret­tamente il processo di destabilizzazione del­l’Europa che fu parte integrante, prima an­cora che di un programma, del modo stesso di essere del regime fascista. Si deve misura­re l’influenza del fascismo non soltanto nel­l’intreccio di propaganda, politica e diplo­mazia ma anche nei comportamenti concre­tamente assunti in campo internazionale. Di fronte a quello che sembra, a giudicare da studi recenti su aspetti della politica estera del fascismo, un persistente ritorno al fetici­smo degli archivi diplomatici ma soprattutto alla loro lettura meramente “tecnica”, non mi pare fuori luogo ricordare che le stesse novità nella tecnica diplomatica che Tosca­no rilevava nella diplomazia delle potenze totalitarie (Italia e Germania) erano in realtà connotati organici alla natura e alla politica dei regimi dei quali si trattava così come le loro reciproche relazioni erano studiate alla luce di quella “solidarietà tra i due regimi” che era del resto negli intendimenti dello stesso Mussolini. Come ho già avuto modo di argomentare in passato, sono sempre del­l’avviso che la considerazione della diffusio­ne del fascismo in Europa non possa pre­

scindere dalla valutazione della tendenza al­la creazione di un complesso di Stati mossi da interessi e metodologie di comportamen­to comuni e come tali destinati a presentarsi sulla scena delle relazioni internazionali co­me un fattore fondamentale omogeneo e nel caso specifico destabilizzante47.

È probabile ad esempio che uno studio complessivo dell’atteggiamento dell’Italia fascista nei confronti della Società delle na­zioni, quale ancora non abbiamo, porti alla conclusione che l’Italia sottovalutò consape­volmente il ruolo della Sdn indipendente­mente dalle motivazioni specifiche di una occasione conflittuale. Il rifiuto di ammette­re il principio della parità formale tra gli Stati era in linea con il rigetto del principio democratico anche nelle relazioni tra gli Sta­ti e con il ridimensionamento riservato ai piccoli Stati anche al di là degli esiti derivan­ti da rapporti di forze e da un equilibrio complessivo delle forze. L’affermazione del­l’Italia come grande potenza (che significava armamenti, colonie, ecc.) che era generica­mente nei voti del fascismo si sposò anzitut­to con la tendenza ad aggregare intorno al­l’Italia una serie di Stati minori dei quali es­sa potesse, se non di fatto tutelare, tuttavia fare proprie le rivendicazioni. La fase del “revisionismo” contro i trattati di pace valse all’Italia il favore di Ungheria e Bulgaria, che entravano nell’orbita della sua influenza e in larga misura si apprestavano ad unifor­marsi al suo comportamento. Al di là di ini­ziative direttamente revisioniste dell’Italia, questo modo di satellizzare una serie di Stati minori costituì nella pratica una via per

45 Cfr. Klaus Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1993: in realtà questo volume, a dispetto del titolo dell’edizione italiana, è soltanto il primo di due e copre soltanto il periodo sino al 1943, mentre gli anni 1943-1945 saranno trattati nel secondo volume di imminente pubblicazione nell’edizione te­desca e del quale si auspica sollecita la traduzione italiana.46 Ci riferiamo in particolare al contributo di Mario Toscano, L ’Asse Roma-Berlino-Il Patto Anticomintern-La guerra civile in Spagna-L’Anschluss-Monaco, nel volume di Augusto Torre e al., La politica estera italiana dal 1914 al 1943, Torino, Eri, 1963 e anche, nel medesimo volume, al successivo contributo dello stesso Toscano sul patto d’acciaio, al quale l ’autore dedicò del resto il più importante degli studi esistenti.47 Mi permetto di rinviare alle considerazioni svolte in E. Collotti, Fascismo fascismi, cit., pp. 18-20 e passim.

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svuotare la Società delle nazioni, sottraendo- le spazio e intaccandone più che l’autorità la legittimazione.

Faceva parte del progetto di fascistizzazio­ne dell’Europa, un progetto nei fatti più se­rio di quanto non potrebbe sembrare se ci si fermasse alle frasi propagandistiche o alla re­torica mussoliniana sui valori universali del fascismo o sulla “rivolta ideale” dell’Euro­pa, l’affermazione della volontà di risolvere da soli, unilateralmente, quindi se del caso con l’azione diretta e con l’uso della forza, problemi di equilibrio, di rivendicazioni ter­ritoriali e di riclassificazione di rapporti di forza. Sotto questo profilo il fascismo legitti­mò la sfida alla Società delle nazioni, non ri­spetto ai molti difetti e alle gravi disfunzioni dei quali fu costellata la sua esistenza, ma più radicalmente nei confronti dei suoi stessi principii. Il rigetto non solo teorico del paci­fismo ma di una pratica stessa della sicurezza collettiva facevano parte della contestazione globale che il fascismo opponeva a qualsiasi tentativo di vincolare anche gli Stati a una sorta di patto contrattuale.

Certo, tutto ciò rimase per lungo tempo sulla carta o nelle parole della propaganda, con l’eccezione dell’incauto colpo di mano di Corfù. Ma dopo il decennio di assestamento, gli anni trenta, che coincisero con l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germa­nia, comportarono anche una maggiore di­sinvoltura nella gestione esterna del fasci­smo. Paradossalmente, sulle prime fu pro­prio l’avvento del nazismo a mettere sulla di­fensiva il regime fascista, facendo preludere a un nuovo dinamismo della politica tedesca. In un secondo momento si potè temere una collusione tra interessi italiani e interessi te­deschi derivante oltre che da comunanza di obiettivi (contro Versailles) da una affine metodologia di comportamento e da affini premesse teoriche. Tuttavia, né l’affinità dei regimi, né le simpatie ideologiche, né il rico­noscimento della primogenitura del fascismo nella lotta contro il bolscevismo e nella

messa in scena della marcia su Roma come simbolo e prefigurazione della presa del po­tere, né infine i legami politici e personali tra Mussolini e Hitler, potevano annullare le di­vergenze tra gli interessi di potenza, che era­no accentuate proprio dall’esaltazione dell’i- pernazionalismo e dell’iniziativa unilaterale degli Stati e dal rifiuto del principio della si­curezza collettiva e della disciplina della So­cietà delle nazioni. Già nella prima fase del­l’inizio degli anni trenta sembrava profilarsi l’impossibilità di una conduzione paritaria della politica estera tra Italia e Germania che esploderà nel corso del secondo conflitto mondiale, nell’impossibilità di realizzare un condominio tra le potenze dell’Asse nella guida del progettato Nuovo ordine europeo.

Questa considerazioni naturalmente non vogliono sottolineare l’incompatibilità tra fascismo e nazismo, né attenuare le corre­sponsabilità del fascismo nella distruzione della pace; mirano a dimostrare l’impossibi­lità per il fascismo (e a maggior ragione per il nazismo) di operare un qualsiasi processo di unificazione dell’Europa muovendo dall’in­teresse esclusivo o preminente di una potenza come nucleo centrale della nuova sistemazio­ne continentale. La contraddizione fonda- mentale e radicale risiedeva nel principio stesso della pretesa egemonica, in quanto pretesa esclusiva e nella sua ulteriore radica- lizzazione razzistica, che implicava la sotto- missione necessaria di tutte le popolazioni e le entità statuali che non fossero in grado di esercitare un potere contrattuale e di sostener­lo con la forza delle armi. In questo modo il fascismo, che aspirava ad egemonizzare e a unificare politicamente e culturalmente deter­minate aree dell’Europa, agiva contradditto­riamente da fattore di divisione e non di unio­ne, proprio per incapacità (che forse era l’im­possibilità) di vedere al di là dei propri imme­diati interessi nazionali; infatti anche laddo­ve esso tenterà di imporsi con la forza — so­prattutto nel corso dell’occupazione della pe­nisola balcanica — si scontrerà con i limiti

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derivanti dall’interno della propria sfera di potenza e di potere, ossia con l’impossibilità di realizzare ambizioni per le quali non posse­deva né l’adeguata attrezzatura materiale, in termini di armamenti e di strumenti di domi­nazione, né la legittimazione politica e morale.

Non si sottolineerà mai abbastanza il peso anche nella politica estera di fattori costituti­vi del patrimonio politico del regime, della sua costituzione materiale, come tutela di in­teressi nazionali tradizionali ma anche come strumento di espansione ideologica. Del re­sto, la stessa concezione antipluralista dello Stato e la pretesa di soluzione totalitaria del rapporto Stato-società erano per antica tra­dizione del pensiero nazionalista funzione della politica estera, come “politica per ec­cellenza”48. Il mito e la politica dell’impero non si possono spiegare né soltanto come operazione di politica interna e di consenso, né solo con le vecchie rivendicazioni africane dell’Italia e l’esigenza di riequilibrare i rap­porti di potenza con Francia e Inghilterra; né basta definire la guerra all’Etiopia come im­presa tardo-coloniale. Facile sarebbe anche retrospettivamente valutare gli aspetti dema­gogici di una impresa che, al di fuori di ogni meditata strategia, contribuiva a disperdere ulteriormente risorse militari e risorse econo- mico-finanziarie senza arrecare alcun sostan­ziale beneficio ai problemi del paese all’in- fuori di effimere parvenze di prestigio.

Non occorre ricordare qui come lo sposta­mento del centro di gravità della politica estera italiana verso l’Africa comportasse il suo allontanamento dai problemi dell’Euro­pa continentale; da questo punto di vista è vero che la proiezione mediterranea che fu impressa alla politica dell’Italia rappresentò una forma di regionalizzazione49, e quindi di isolamento rispetto al cuore dei problemi eu­

ropei. Ne conseguì un ulteriore indeboli­mento nei confronti di Francia e Inghilterra, ma anche nei confronti della Germania nazi­sta: la mano libera che la Germania ebbe sull’Austria e sul bacino danubiano diede a posteriori la conferma che l’Italia non era in grado di operare contemporaneamente sulla direttrice africana e su quella europea, ma soprattutto che la scelta della dimensione mediterranea rischiava di cacciare l’Italia dall’Europa e di relegarla a un ruolo del tut­to marginale.

A riprova di come fosse difficile dissociare nella politica fascista politica interna e politi­ca estera converrà ricordare che al massimo di consenso all’interno fece riscontro all’e­sterno la pericolosa tendenza all’isolamento dell’Italia e la spirale di un uso della forza che si autoalimentava in permanenza. Posta in difficoltà dall’inefficienza di strumenti di­plomatici e dal fatto che i suoi stessi interlo­cutori oscillavano tra irrigidimenti, blandizie e acquiescienza, rivelando la debolezza delle democrazie, la politica del fascismo si ali­mentò dell’illusione che fosse possibile pro­cedere sul piano internazionale con la mede­sima disinvoltura con la quale era stato fatto credere al popolo italiano che la conquista dell’Abissinia avrebbe portato con il presti­gio dell’impero anche la soluzione di strozza­ture dello sviluppo metropolitano. Non enfa­tizzeremo gli aspetti strettamente economi- co-sociali della politica e del mito dell’impe­ro: al contrario, è da sottolineare la loro cari­ca propagandistico-culturale, il valore sim­bolico con il richiamo alla tradizione romana da una parte e il sogno visionario di un com­pito da adempiere come missione di civiltà e al tempo stesso religiosa.

Connotati analoghi di commistione tra po­litica di potenza e affermazione di regime

48 Come si esprimeva il Manifesto della rivista “Politica” nel primo numero del dicembre del 1918.49 Esprime un medesimo concetto Carlo C. Santoro, La politica estera di una media potenza. L ’Italia dall’Unità ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1991, quando attribuisce la marginalizzazione del ruolo dell’Italia nel periodo fascista al­la “mediterraneizzazione” della sua politica estera (p. 174 e anche altrove).

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rivestiranno le sortite dell’Italia in direzione della Spagna e più tardi dell’Albania. Fer­miamoci all’esempio della Spagna, tanto più interessante in quanto non si trattava della tappa di una programmazione ma di un inci­dente di percorso. Al di là degli interessi strategici e di potenza (il controllo delle Ba- leari, la supremazia nel Mediterraneo occi­dentale sulla Francia per il controllo delle rotte africane), le motivazioni dell’interven­to italiano a fianco della Germania furono tutte di carattere politicoideologico: l’avver­sione ai governi di fronte popolare come piattaforme specificamente antifasciste, in Francia come in Spagna; l’appoggio ai na­zionalisti spagnoli come baluardo contro il complotto del bolscevismo e del giudaismo internazionale; l’attacco indiretto alla Fran­cia in quanto culla della democrazia e sede dell’emigrazione antifascista; l’appoggio al­la Spagna come avamposto della cristianità contro la persecuzione religiosa dei “rossi” e la scristianizzazione quasi a fare propria la piattaforma della “crociata”, anche al di là della stessa identificazione della Santa Sede con le ragioni e le motivazioni del clero spa­gnolo.

È vero che l’Italia non puntava diretta- mente a trapiantare in Spagna un regime fa­scista, ma la natura dell’intervento non era dissociabile dalla natura del regime al potere nei paesi dell’Asse. L’aiuto accordato pre­supponeva che esso si sarebbe sviluppato pienamente in misura di un sempre maggio­re avvicinamento della Spagna al modello del regime fascista. Esso non era affatto svincolato da pregiudiziali del genere, né dettato unicamente da calcoli di Realpolitik: esso era prestato a una Spagna di un certo tipo, non a una Spagna qualunque. Se il di­segno di fare della Spagna una pedina di

una Europa fascistizzata non riuscì, come in altri casi, non fu certo perché ne erano man­cate le intenzioni, ma perché Franco scelse, dopo avere approfittato dell’aiuto accordato per arrivare al potere, una collocazione di­versa sulla scena internazionale, avvertendo di non potere schierarsi unilateralmente con le potenze dell’Asse né soprattutto rompere con l’Inghilterra.

Più scontata può apparire la direttrice di marcia che portò all’annessione dell’Albania, la tradizionale direttrice balcanica del nazio­nalismo e dell’imperialismo italiano. L’Alba­nia non poteva essere a lunga scadenza obiet­tivo fine a se stesso né per il modesto risultato politico (una nuova perla nella corona dei Sa­voia, a rinsaldare il legame monarchia-regi­me); né per le modeste prospettive di sfrutta­mento economico. Il significato principale era il segnale politico, lanciato insieme all’Inghil­terra e alla Germania, che l’Italia era pronta a destabilizzare anche il Mediterraneo orienta­le, sfidando apertamente anche l’area di in­fluenza inglese, e soprattutto di natura strate­gica: la testa di ponte sui Balcani rientrava nel vecchio e mai abbandonato progetto di accer­chiamento della Iugoslavia; solo che, una vol­ta privata l’Italia del trampolino austriaco, il possesso dell’Albania rendeva più prossima la prospettiva di una gara concorrenziale con l’espansione in atto della Germania nell’area danubiano-balcanica.

Una conclusione che non possiamo imma­ginare se non come culmine di una politica estera di impronta specificamente fascista, fatta di aggressività verso l’esterno ma al suo interno costantemente minata dall’insanabile antinomia tra la vastità delle ambizioni im­perialistiche e la limitatezza dei mezzi per realizzarle.

Enzo Collotti

Enzo Collotti insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Firenze ed è membro della direzione di “Passato e presente”. Ha studiato la storia della Germania, dell’Austria e dell’Euro­pa contemporanea; tra le sue recenti pubblicazioni: Fascismo, fascismi (Firenze, Sansoni, 1989), Dal­le due Germanie alla Germania unita (Torino, Einaudi, 1992).