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IL DIABETE MELLITO A cura di Felice Citriniti e Daniela Musca Ospedale “Pugliese” di Catanzaro SOC di Pediatria A tutti i bambini affetti da Diabete e alle loro famiglie 1

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IL DIABETE MELLITOA cura di Felice Citriniti e Daniela Musca

Ospedale “Pugliese” di Catanzaro

SOC di Pediatria

A tutti i bambini affetti da Diabete e alle loro famiglie

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Indice

Introduzione

Capitolo 1

Il Diabete Mellito 6

1.1 Classificazione 10

1.2 Epidemiologia 13

Capitolo 2

Diabete Mellito tipo 1 16

2.1 Eziologia del DM1 17

2.2 Patogenesi del DM1 22

2.3 Istologia 24

2.4 Markers immunologici 26

Capitolo 3

Diabete Mellito di tipo 2 28

3.1 Eziologia del DM2 29

3.2 Patogenesi del DM2 32

Capitolo 4

Segni e sintomi del Diabete Mellito 34

4.1 Diagnosi 36

4.2 Emoglobina glicata 38

4.3 Complicanze del Diabete Mellito 40

Capitolo 5

Terapia del diabete Mellito 41

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5.1 Follow-Up del paziente diabetico 46

Capitolo 6

L’assistenza infermieristica al bambino con diabete 47

6.1 La Chetoacidosi 48

6.2 Linee guida italiane 50

6.3 Responsabilità infermieristiche nella gestione della chetoacidosi

51

Capitolo 7

L’insulina 52

7.1 Terapia insulinica intensiva continua con microinfusore 55

Capitolo 8

L’alimentazione 58

Capitolo 9

L’educazione/Formazione 59

9.1 I campi scuola 62

3

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Capitolo 1

IL DIABETE MELLITO

Il diabete mellito (DM) è definito come un disordine cronico del

metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle proteine (Robbins, 2000),

che conduce ad un’elevazione della concentrazione di glucosio nel

sangue (iperglicemia), dovuta ad una deficienza nella secrezione o

nell’azione insulinica (Nelson D., 2002) o in entrambe.

I primi accenni su questa malattia sono stati ritrovati su un papiro egizio,

ma furono i greci a descriverne per primi i dettagli, infatti il termine

“diabete” deriva dal verbo greco “diabaineim” che significa

“attraversare” (Bernoville & Beck-Peccoz, 1999), alludendo al fluire

dell’acqua poiché il sintomo più appariscente della malattia è l’eccessiva

produzione di urina. Il suffisso “mellito” deriva invece dal latino

“mel” (miele, dolce) ed è stato aggiunto in epoca molto più recente per

indicare il sapore dolciastro del sangue e delle urine dei pazienti

diabetici, caratteristica peraltro conosciuta già dagli antichi egizi, greci e

indiani (Ahmed, 2002).

Il glucosio è la principale fonte di energia dell’organismo perché

presiede al metabolismo all’interno delle singole cellule e, nel caso delle

cellule del sistema nervoso, rappresenta l’unica fonte di energia in

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quanto i neuroni non sono in grado di metabolizzare i lipidi. È un

carboidrato monosaccaridico (un aldoesoso) derivante in gran parte dalla

scissione dei carboidrati complessi introdotti tramite la dieta, anche se

una piccola quantità viene prodotta all’interno delle cellule dal

metabolismo delle proteine e dei grassi. Inoltre, questo zucchero circola

in forma libera nel sangue, dove viene mantenuto in un ambito ristretto

di valori grazie all’azione di ormoni quali l’insulina, il glucagone,

l’adrenalina, l’ormone della crescita, ecc.

In particolare l’insulina, una proteina di piccole dimensioni secreta dalle

cellule β del pancreas endocrino, viene rilasciata in seguito ad un

aumento della concentrazione ematica del glucosio e, legandosi al

recettore dell’insulina presente sulla membrana cellulare, innesca una

serie di reazioni biologiche che portano a un aumento della permeabilità

della stessa nei confronti del glucosio, che migra dal torrente ematico al

citosol. Questo processo coinvolge circa l’80% delle cellule

dell’organismo (soprattutto quelle del tessuto muscolare e adiposo), ma

non avviene per la maggior parte delle cellule cerebrali, in quanto i

neuroni sono permeabili al glucosio senza richiedere l’intervento

dell’insulina. Come conseguenza dell’accelerata rimozione del glucosio

dal sangue, la glicemia tende a scendere sotto i valori normali

rallentando il rilascio di insulina dal pancreas.

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Quando il glucosio che è entrato nella cellula è in eccesso e non può

essere utilizzato dal metabolismo cellulare immediatamente, l’insulina

ne favorisce la conservazione in glicogeno, un polimero di subunità di

glucosio con frequenti ramificazioni, ottenuto dalla glicogeno sintesi che

ha luogo principalmente nel fegato e nel muscolo scheletrico. Quando la

quantità di glucosio che entra nelle cellule epatiche è maggiore di quella

che può essere immagazzinata come glicogeno, l’insulina promuove nel

fegato la conversione del glucosio in eccesso in acidi grassi, i quali

successivamente, sotto forma di trigliceridi legati a lipoproteine a bassa

densità, vengono trasportati al tessuto adiposo e immagazzinati come

grassi di deposito (Tab. 1.1).

Oltre che sul metabolismo dei glucidi e dei grassi, l’insulina agisce

anche sul metabolismo delle proteine. Infatti, questo ormone promuove

il trasporto attivo di molti amminoacidi dall’esterno all’interno della

cellula, favorendo la sintesi delle proteine, e contemporaneamente

impedisce il catabolismo proteico, riducendo la liberazione degli

aminoacidi dalla cellula (Guyton A., 2002).

Tab. 1.1 - Effetto dell’insulina sulla concentrazione di glucosio nel sangue: assunzione di glucosio da parte della cellula e sua conversione in glicogeno e triacilgliceroli. (Nelson D., 2002)

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Effetto metabolico Enzima bersaglio↑ Assunzione di glucosio (muscolo) ↑ Trasportatore del glucosio↑ Assunzione di glucosio (fegato) ↑ Glucochinasi↑ Sintesi del glicogeno (muscolo, fegato) ↑ Glicogeno sintasi

↓ Demolizione del glicogeno (muscolo, fegato) ↓ Glicogeno fosforilasi

↑ Glicolisi, produzione di acetil-CoA (fegato, muscolo)

↑ Fosfofruttochinasi-1↑ Complesso piruvato deidrogenasi

↑ Sintesi degli acidi grassi (fegato) ↑ Acetil-CoA carbossilasi↑ Sintesi di triacilgliceroli (tessuto adiposo) ↑ Lipoproteina lipasi

.1 CLASSIFICAZIONE

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Poiché il diabete mellito comprende un gruppo di disturbi

metabolici accomunati dalla presenza di una persistente instabilità della

glicemia, nel corso dei decenni queste condizioni patologiche sono state

classificate secondo criteri differenti.

Nel 1979 è stata proposta una classificazione basta sul trattamento delle

varie forme di diabete e pertanto si distingueva il diabete mellito tipo 1

insulino-dipendente (IDDM, Insulin-Dependent Diabetes Mellitus) e il

diabete mellito tipo 2 non-insulino dipendente (NIDDM, Non-insulin-

dependent Diabetes Mellitus).

Nel 1997, a seguito dei progressi nella comprensione dell’eziologia e

della patogenesi del diabete, l’Associazione Diabetica Americana (ADA)

ha rivisitato questa classificazione ed ha deciso di eliminare i termini

insulino-dipendente e non insulino dipendente e i relativi acronimi

(IDDM e NIDDM) in quanto, in una classificazione basata sul tipo di

terapia, forniscono un quadro contraddittorio dal momento che anche il

diabete tipo 2 (indicato in precedenza come non insulino dipendente)

può richiedere un trattamento con insulina. Vengono invece mantenuti i

termini diabete mellito di tipo 1 e di tipo 2, realizzando così una

classificazione basata sull’eziologia.

La Società italiana di Diabetologia (SID) ha deciso di allinearsi al

criterio suggerito dall’ADA e dall’OMS e pertanto attualmente il diabete

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si divide in: tipo 1, tipo 2, altri tipi di diabete e diabete gestazionale

(American Diabetes Association, 2010).

Il diabete mellito tipo 1 si suddivide, a sua volta, in diabete mellito

immunomediato (DM tipo 1A) e diabete mellito idiopatico (DM tipo

1B). Il primo è causato dalla distruzione delle cellule β pancreatiche ad

opera di un processo innescato da autoanticorpi, mentre il DM idiopatico

è una forma rara ad eziologia sconosciuta, che colpisce soprattutto i

giovani afrioamericani e asiatici (Urakami T., 2002), e che è

caratterizzato da una ridotta riserva insulinica, ma residua risposta ai test

di sensibilità all’insulina. Gli individui affetti da DM tipo 1B mancano

dei markers immunologici indicativi di un processo autoimmune

destruente delle cellule β.

Il diabete mellito tipo 2 può essere, invece, suddiviso in tipo IIA, che è

la forma più comune e che colpisce i soggetti obesi, e tipo IIB, che

colpsce i soggetti normopeso. La categoria “altri tipi di diabete”

comprende una grande varietà di disordini metabolici, e in particolare:

• il diabete dovuto a difetti genetici delle cellule β, come il MODY

(Maturity Onset of Diabetes of the Young), una forma di diabete

tipo 2 ha un esordio giovanile;

• il diabete dovuto a difetti genetici nell’azione insulinica;

• il diabete secondario a malattie del pancreas esocrino (fibrosi

cistica, ecc.);

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• il diabete indotto da farmaci (glucocorticoidi, ormoni tiroidei,

fenitoina, ecc.);

• il diabete causato da infezioni (rosolia congenita, citomegalovirus

B, ecc.);

• il diabete secondario a endocrinopatie (Sindrome di Cushing,

acromegalia, feocromocitoma, ecc.);

• il diabete associato a sindromi genetiche (Sindrome di Down,

Sindrome di Turner, Sindrome di Klinefelter, corea di Huntington,

ecc.)

• e, infine, forme rare di diabete immunomediato (Sindrome

“dell’uomo rigido”, ecc.).

Una ridotta tolleranza glucidica si può sviluppare ed essere

riconosciuta per la prima volta durante la gravidanza: in questo caso

si parla di diabete mellito gestazionale (DMG). La maggior parte

delle donne recupera la normale tolleranza glucidica dopo il parto, ma

conserva un rischio sostanziale (dal 30 al 60%) di sviluppare il

diabete successivamente (Harrison, 2002).

1.2 EPIDEMIOLOGIA

La patologia diabetica rappresenta uno dei maggiori problemi

sanitari dei paesi economicamente evoluti e mostra una chiara tendenza a

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un aumento sia dell’incidenza sia della prevalenza. Questo dato ha

indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a parlare di una

vera e propria “epidemia” di diabete che, tuttavia, è destinata a

peggiorare in quanto si prevede un fortissimo aumento della prevalenza

soprattutto negli USA, nel Sud-Est Asiatico e in Medio Oriente e nel

2030 si stimano più di 380 milioni di soggetti diabetici nel mondo

(Maiese, 2008).

La percentuale di persone affette da diabete mellito viene stimata intorno

al 5% della popolazione mondiale, di cui circa il 10% è colpita da

diabete mellito tipo 1 e il rimanente 90% è affetta da diabete mellito tipo

2. Le altre forme di diabete sono meno comunemente riscontrate nella

pratica clinica.

Per quanto concerne il DM1, una dettagliata revisione della

letteratura (Karvonem M., 1993) evidenzia ampie variazioni geografiche

sia a livello intercontinentale sia a livello intracontinentale. I tassi di

incidenza più bassi si rilevano in Asia (in Giappone in particolare),

mentre i tassi di incidenza più elevati si riscontrano in Europa, dove sono

presenti notevoli variazioni geografiche: l’incidenza massima è osservata

in Finlandia (33 nuovi casi su 100000 per anno) (Montagna M.T., 2004),

mentre quella più bassa si rileva in Grecia (4.6/100000).

In Italia il diabete mellito di tipo 1 rappresenta il 3-6% di tutti i casi di

diabete. La prevalenza del DM1 risulta essere tra lo 0.4 e l’1 per mille e

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l’incidenza è compresa tra i 6 e i 10 casi per 100000 per anno nella

fascia d’età da 0 a 14 anni, mentre è stimata in 6.72 casi per 100000 per

anno nella fascia di età da 15 a 29 anni. Fa assoluta eccezione la

Sardegna, che ha un’incidenza di diabete giovanile tra le più alte del

mondo, pari a 34 nuovi casi per 100000 per anno nella fascia d’età tra 0

e 14 anni. Questo fenomeno è probabilmente dovuto a una

predisposizione al DM1 legata al peculiare assetto genetico della

popolazione sarda, che è appunto geneticamente distinta dal tutte le altre

popolazioni europee, compresa la popolazione italiana.

In Calabria, la “Rete Diabetologica Calabrese” ha recentemente

pubblicato uno studio epidemiologico in cui si evidenzia un’incidenza di

circa 18 casi/100000 da 0 – 14 anni. Questo dato pone la Calabria al 2°

posto in Italia per l’incidenza del DMT1 (Atti Congresso Nazionale

SIEDP 2009)

Il DM1 ha un picco di incidenza in età comprese tra i 5 e i 15 anni,

successivamente si ha una drastica riduzione del rischio, ma mai

completamente, così la malattia può manifestarsi anche in età adulta.

La tendenza del DM1 in Europa è destinata ad aumentare, infatti,

secondo un documento pubblicato online dalla rivista britannica The

Lancet, l’incidenza del DM1 nei bambini di età inferiore ai 5 anni

raddoppierà entro il 2020, mentre i casi sotto i 15 anni aumenteranno del

70%.

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Il diabete mellito tipo 2, come accennato, è molto più diffuso del DM1 e

la sua prevalenza è in continua crescita per l’aumento dell’obesità e della

sedentarietà: entro il 2010 si attende una triplicazione a livello mondiale

dei casi di DM2 rispetto al 1994. Inizialmente è asintomatico per cui la

prevalenza è stimata intorno al 3-4%, mentre indagini mirate forniscono

percentuali sensibilmente più elevate, del 6-11%. L’incidenza del DM2 è

stata stimata nello studio svolto a Brunico, uno dei pochi studi di

popolazione condotti in Europa; il tasso/1000 anni-persona è risultato

pari a 7,6 nei soggetti di età compresa fra 40 e 79 anni.

Il 5-10% dei pazienti inizialmente definiti come diabetici tipo 2 è in

realtà affetto dal LADA, una forma di diabete autoimmune a lenta

evoluzione verso l’insulino-dipendenza.

Capitolo 2

DIABETE MELLITO TIPO 1

Il diabete mellito di tipo 1 (DM1) è uno stato di deficit assoluto o

relativo di insulina che conduce a un’elevazione cronica della glicemia,

provocato dalla distruzione delle cellule β delle isole pancreatiche. Ne

consegue che, vista la condizione di insulinopenia, il paziente affetto da

DM1 dipende dalla somministrazione di insulina per la sua

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sopravvivenza e senza terapia sostitutiva sviluppa gravi complicanze

metaboliche acute, quali la chetoacidosi e il coma (Robbins, 2000).

In genere il DM1 insorge e si manifesta nell’infanzia o nell’adolescente e

per tali motivi in passato era definito anche diabete giovanile, ma in

alcuni casi la malattia può manifestarsi anche nell’adulto.

2.1 EZIOLOGIA DEL DM1

Il diabete mellito di tipo 1 è il risultato dell’azione sinergica di

fattori genetici, ambientali e immunologici (Burgio G.R., 1997)

(Harrison, 2002).

Per quanto concerne i fattori genetici, sono stati identificati circa 20 loci

genetici potenzialmente associati al DM1 (Vyse T.J., 1996) e pertanto,

affinché si sviluppi la malattia, è richiesta l’ereditarietà di un numero di

geni sufficiente a conferire la suscettibilità ad essa. Il principale gene

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correlato al rischio di diabete è localizzato nella regione HLA (Human

Leucocyte Antigen, detto anche sistema di istocompatibilità), sul braccio

corto del cromosoma 6. Gli antigeni del sistema HLA sono costituiti da

molecole glicoproteiche presenti sulla superficie cellulare. Vi sono due

classi di antigeni HLA: nella prima classe rientrano, divisi in tre classi

(A, B e C), gli antigeni presenti su tutte le cellule nucleate, mentre gli

antigeni di seconda classe (HLA-D) hanno una distribuzione più limitata.

In particolare le proteine di II classe si ritrovano sui macrofagi, sui

linfociti B e T helper, sui monociti e sulle cellule epiteliali, e se ne

distinguono tre serie maggiori (DP, DR e DQ). Le molecole MHC di

classe II presentano l’antigene alle cellule T helper e quindi sono

coinvolte nell’innesco della risposta immunitaria. La capacità delle

molecole MHC di classe II di presentare l’antigene dipende dalla

composizione aminoacidica dei loro siti di presentazione dell’antigene,

quindi le sostituzioni aminoacidi possono influenzare la specificità della

risposta immunitaria, alterando l’affinità di legame degli antigeni per le

molecole di classe II.

Il gene dell'HLA-DQ costituisce circa il 50% del rischio genetico di

sviluppare il diabete. Inoltre, circa il 90% dei soggetti di razza caucasica

con il DM1 possiede l'allele HLA-DR3 o DR4, rispetto ad una frequenza

nei soggetti normali di circa il 40%; inoltre il 40-50% dei soggetti con la

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malattia è doppio eterozigote DR3-DR4, a fronte del 5% della

popolazione sana.

Sebbene il locus associato allo HLA di classe II (detto anche IDDM1) è

probabilmente il sito cromosomico più importante nel determinare la

predisposizione genetica al diabete di tipo 1, esistono anche altri loci dei

quali si può considerare certo il coinvolgimento nel DM1 in quanto

l’associazione è stata confermata da studi familiari. Si tratta dei loci

IDDM2 (Pugliese, 1997), localizzato sul cromosoma 11 e contenente il

gene dell’insulina; IDDM4, IDDM5 (che contiene il gene SUMO4) e

IDDM8 (Wang CY, 2006) (De-Fang L., 1996). Bisogna ancora ricordare

il locus IDDM12, il quale è localizzato all’interno del gene CTLA-4

(cytotoxic T lymphocyte associated-4) (Aribi, 2008). Tale gene svolge

un ruolo importante nella regolazione della risposta immunitaria in

quanto è coinvolto nel processo di apoptosi dei linfociti T.

L’associazione di questa regione cromosomica con il DM1 è stata

rivelata da uno studio condotto su 46 famiglie italiane con multipli

membri diabetici (Nisticò L., 1996).

Esistono anche geni che conferiscono una protezione contro lo sviluppo

di questa malattia. Per esempio, l’aplotipo DQA1*0102, DQB1*0602 è

presente nel 20% della popolazione degli USA, mentre è estremamente

raro negli individui affetti da DM tipo 1A (<1%) (Harrison, 2002).

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Numerosi dati epidemiologici suggeriscono che la componente

genetica, benché fondamentale nello sviluppo del diabete di tipo 1, non è

da sola sufficiente a determinare l’insorgenza della malattia. È, quindi,

sempre più verosimile l’ipotesi che l’ambiente possa svolgere un ruolo

importante nell’eziologia del DM1, almeno modulando in senso positivo

e negativo l’espressione di fattori genetici predisponenti. I fattori

ambientali presi in considerazione sono in primo luogo gli agenti

infettivi, quindi gli agenti tossici e le abitudini alimentari (tab. 1.2).

Tabella 1.2 - Fattori ambientali potenzialmente implicati nell’eziopatogenesi del diabete di tipo 1.

Fattori ambientaliFattori ambientaliVirus Enterovirus, Herpesvirus, Rubivirus, Retrovirus

Batteri Micobatteri

Agenti tossici Glossano, streptozocina, Vacor, pentamidina

Sostanze alimentariLatte vaccino, sostanze diabetogene nella soya e

nel frumento

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Tra gli agenti infettivi, un ruolo particolare nell’eziologia del DM1 è

stato attribuito agli Enterovirus (Richer MJ, 2009), che sono virus a

RNA appartenenti alla famiglia delle Picornaviridae e comprendenti i

Polivirus, i Coxsackievirus (A e B) e gli Echovirus. Essi sono trasmessi

prevalentemente per via oro-fecale e respiratoria, penetrano attraverso la

mucosa dell’apparato digerente, si moltiplicano negli organi linfatici

della faringe e dell’intestino e quindi raggiungono per via ematica vari

organi bersaglio, tra cui il sistema nervoso, il fegato, il pancreas e il

cuore.

Un altro evento patogenetico di natura infettiva è quello della rosolia

congenita: risulta infatti che il 20% dei soggetti che hanno contratto la

rosolia durante la vita intrauterina sviluppa il diabete nell’arco di circa

10 anni e la malattia compare prevalentemente negli individui

geneticamente predisposti (Menser M.A., 1978).

Tra le numerose tossine chimiche che possono produrre un danno alle β

cellule si ricordano l’alossana, la streptozoticina, il Vacor (un rodenticida

diabetogeno) e la pentamidina (farmaco usato nella terapia delle

parassitosi), ma si tratta di situazioni non comuni nella pratica clinica.

Anche alcune sostanze alimentari si sono dimostrate diabetogene, in

particolare la precoce introduzione del latte vaccino nella dieta (nei primi

tre mesi) (Gerstein, 1994) e la dieta a base di cereali, probabilmente a

causa di sostanze presenti nel frumento e nella soya, mentre

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l’alimentazione con idrolizzati di caseina e con altre fonti di aminoacidi

ha un effetto protettivo.

2.2 PATOGENESI DEL DM1

Gli individui con suscettibilità genetica hanno una normale massa

di cellule β alla nascita, ma iniziano a perdere le cellule β in seguito a un

processo autoimmune innescato da uno stimolo infettivo o ambientale,

che produce anticorpi diretti contro le cellule pancreatiche,

provocandone la totale distruzione. Quindi la massa di cellule β

incomincia a ridursi e la secrezione di insulina si altera

progressivamente, anche se la tolleranza glucidica è conservata. La

velocità di distruzione delle cellule β varia ampiamente tra gli individui,

poiché alcuni casi progrediscono rapidamente verso il diabete clinico

mentre altri evolvono più lentamente. La forma a progressione rapida si

osserva comunemente nei bambini, mentre la forma che insorge

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lentamente si presenta negli adulti e viene riferita come diabete

autoimmune latente dell’adulto (Late Autoimmune Diabetes in Adults,

LADA).

Le manifestazioni cliniche non si evidenziano fino a che la maggioranza

delle cellule β (circa l’80%) non viene distrutta. A questo punto

residuano ancora delle cellule β funzionanti, ma sono in numero

insufficiente per mantenere la tolleranza glucidica. Gli eventi che

innescano il passaggio dalla ridotta tolleranza glucidica al diabete franco

sono spesso associati a un aumento del fabbisogno insulinico, come

accade durante la pubertà o nel corso di infezioni. Dopo l’iniziale

presentazione clinica del DM di tipo 1A può instaurarsi una fase di “luna

di miele” durante la quale il controllo glicemico viene raggiunto con dosi

modeste di insulina o , raramente, persino senza terapia sostitutiva.

Tuttavia questa fase fugace, che sarebbe dovuta all’iperproduzione

compensatoria di insulina da parte delle β cellule residue e che si può

osservare nei primi 1-2 anni dall’insorgenza del diabete, si esaurisce

quando tutte le cellule β sono state distrutte dal processo autoimmune e

l’individuo diventa completamente carente di insulina (Fig.1.1)

(Harrison, 2002).

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Fig. 1.1 - Illustrazione schematica dello sviluppo cronologico del diabete mellito di tipo 1 in funzione della massa di cellule β.

2.3 ISTOLOGIA

Il quadro istologico è quello di un’insulite (Burgio G.R., 1997):

quando si ammalano le isole pancreatiche vengono infiltrate da linfociti;

dopo che tutte le cellule β sono state distrutte il processo infiammatorio

si arresta, le isole pancreatiche diventano atrofiche e scompaiono i

markers immunologici. Le isole del Langerhans di diabetici all’esordio

della malattia sono infiltrate da cellule mononucleate che comprendono

prevalentemente macrofagi e linfociti T, con una predominanza di cellule

CD8 positive; può essere presente anche una piccola quota di linfociti B.

A distanza di 2-4 mesi dall’inizio della terapia insulinica, meno del 10 %

delle cellule β è ancora presente. Il danno riguarda selettivamente le

cellule β, mentre le altre cellule endocrine dell’isola di Langerhans

rimangono intatte (fig. 1.2).

Fig. 1.2 - Progressione del danno β cellulare dall’insula pancreatica normale all’insulino-deficienza.

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Gli studi su modelli animali hanno evidenziato che l’invasione delle

insule è preceduta dalla comparsa, alla quarta-sesta settimana di vita, di

un infiltrato di cellule mononucleate (cellule dendritiche, macrofagi e

linfociti) intorno alle insule stesse (peri-insulite) e da un quadro di

insulite periferica (presenza di linfociti alla periferia dell’insula). In

seguito, l’infiltrazione di cellule mononucleate si estende fino all’interno

dell’insula. Il diabete insorge più tardivamente della dimostrazione

dell’insulite franca, verso la 18-20 settimana. I linfociti T infiltranti sono

sia CD4 sia CD8 attivati; alcuni studi hanno dimostrato che le rime

cellule a invadere l’insula sono linfociti T CD4 positivi e in loro assenza

le cellule CD8 non migrano nell’insula. Inoltre, studi immunologici

hanno evidenziato che le cellule T infiltranti esprimono varie citochine,

in particolare IL-4 e IFNγ, con una tendenza a un basso rapporto IFNγ/

IL-4 nell’insulite iniziale e a un elevato rapporto nell’insulite franca.

2.4 MARKERS IMMUNOLOGICI

22

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Il primo riscontro di anticorpi diretti contro le insule pancreatiche

in soggetti diabetici di tipo 1 risale al 1974 (Bottazzo G.F., 1974). Questi

autoanticorpi sono stati definiti “islet cell antibodies” (ICA) e sono un

gruppo di diversi anticorpi diretti contro differenti molecole presenti nel

citoplasma del pancreas endocrino, come il GAD, l’insulina, l’IA-2/

ICA512 e un ganglioside insulare. Gli ICA sono utili come markers del

processo autoimmune del DM tipo 1°. Infatti, gli ICA sono presenti nella

maggioranza (>75%) dei diabetici di tipo 1 all’esordio della malattia, ma

la frequenza di positività per gli ICA tende a ridursi nel tempo. Nei

soggetti non diabetici gli ICA sono presenti in meno dell’1% dei casi,

mentre si riscontrano nel 3-4% dei parenti di primo grado degli individui

affetti da DM1. Se rilevati insieme ad un’alterata secrezione insulinica

dopo test di tolleranza glucidica per via endovenosa, indicano un rischio

>50% di sviluppare DM di tipo 1° entro 5 anni. Attualmente gli ICA

sono usati principalmente come strumento di ricerca e non nella pratica

clinica, in parte a causa delle difficoltà tecniche di dosaggio, ma anche

perché nessun trattamento si è dimostrato in grado di prevenire la

comparsa o la progressione del DM di tipo 1A (Harrison, 2002).

Gli anticorpi anti-GAD sono diretti contro l’enzima glutamato-

decarbossilasi (GAD), il quale sintetizza l’acido gamma aminobutirrico

(GABA), un neurotrasmettitore inibitorio presente in molti tessuti

endocrini, oltre che nel sistema nervoso centrale. Sono presenti in una

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percentuale elevata di soggetti all’esordio del DM1 (>80%), soprattutto

se di sesso femminile (Sanjeevi C.B., 1996).

Gli anticorpi anti-insulina (IAA) sono presenti nel 37-69% dei pazienti

all’esordio del DM1, raggiungendo anche il 100% nei bambini al di sotto

dei 5 anni di età, ad indicare che gli IAA si associano ad un andamento

più aggressivo della distruzione β-cellulare. La prevalenza di IAA nei

parenti di primo grado di diabetici di tipo 1 oscilla tra l'1% e il 7% e

anche in questo caso la prevalenza più elavata si riscontra nei bambini

(Naserke H.E., 1996).

Gli anticorpi diretti contro l’IA-2/ICA512 agiscono contro una proteina

trans membrana (ICA512) dotata di attività tirosino-fosfatasica, che è

parte dell’antigene IA-2.

Da qualche anno è stato scoperto un nuovo marker che pare sia presente

in un’altissima percentuale di pz con DMT1: ZnT8 (Zinco transporter 8)

che aiuta a predire la comparsa del diabete autoimmune.

Capitolo 3

DIABETE MELLITO DI TIPO 2

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Sebbene nello studio sperimentale riportato in questa tesi siano

stati presi in esame solo pazienti diabetici in età pediatrica, affetti da

diabete mellito di tipo 1, è doveroso, in questa sede, trattare

sinteticamente le caratteristiche anche del diabete mellito di tipo 2

(DM2).

Il DM2, in passato definito diabete mellito non insulino-dipendente, è la

forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa

malattia.

È un gruppo eterogeneo di disordini solitamente caratterizzati da gradi

variabili di insulinoresistenza, alterata secrezione insulinica e aumentata

produzione di glucosio (Harrison, 2002). In genere si manifesta dopo i

30-40 anni e per tale motivo in passato era riferito anche come diabete

dell’adulto.

Di solito viene diagnosticato dopo molti anni in quanto l’iperglicemia si

sviluppa gradualmente e inizialmente non è di grado severo al punto da

dare i classici sintomi di diabete (American Diabetes Association, 2010).

La diagnosi spesso avviene casualmente o in concomitanza di uno stress

fisico (infezioni, interventi chirurgici).

3.1 EZIOLOGIA DEL DM2

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Le possibili cause del DM2 sono molte ma non sono state ancora

definite con chiarezza. È certo che la patologia non origina da una

distruzione autoimmunitaria delle cellule β del pancreas, né dalle altre

cause che danno origine agli altri tipi di diabete. I fattori di rischio

associati alla sua insorgenza sono numerosi e tra questi si ricordano la

familiarità, la scarsa attività fisica e l’obesità.

Tab. 1.3 - Fattori di rischio per il diabete mellito di tipo 2. (American Diabetes Association, 2007)

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Familiarità per il diabete (genitori o fratelli con DM2)

Obesità (BMI (indice di massa corporea) ≥ 25Kg/m2)

Età ≥ 45 anni

Razza/etnia (afroamericani, americani nativi, americani

asiatici, ispanoamericani)

Precedente riscontro di alterata glicemia a digiuno o alterata

tolleranza glucidica

Storia di diabete gestazionale

Ipertensione (valori pressori ≥ 140/90 mmHg)

Colesterolo HDL ≥ 35 mg/dl e/o trigliceridi ≥ 250 mg/dl

Disturbi del sonno, che favoriscono l’aggravamento della forma DM2 (Cunha MC, 2008).

Riguardo alla familiarità, circa il 40% dei diabetici di tipo 2 ha parenti di

primo grado affetti dalla stessa malattia, mentre nei gemelli monozigoti

la concordanza si avvicina al 100%, suggerendo una forte componente

ereditaria della malattia.

Sebbene i geni principali responsabili di questo disordine non siano stati

ancora identificati, è chiaro che la malattia è multifattoriale e poligenica,

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coinvolgendo più geni responsabili della produzione di insulina e

implicati nel metabolismo glucidico.

Inoltre, nonostante il DM2 abbia una forte componente genetica, il

difetto genetico nella secrezione o nell’azione insulinica potrebbe non

manifestarsi salvo che un evento ambientale o un altro difetto genetico

non si sovrapponga. Tra i fattori ambientali hanno un’importanza

preminente l’obesità e l’inattività fisica.

L’obesità si riscontra in circa l’80% dei diabetici di tipo 2 e, in

particolare, è l’obesità viscerale o centrale (distinta dall’obesità a livello

dei depositi del tessuto sottocutaneo) ad avere un ruolo di primo piano

nello sviluppo della resistenza. Il tessuto adiposo è, infatti, in grado di

produrre una serie di costituenti biologiche (leptina, TFN-α, acidi grassi

liberi, adiponectina, resistina) che concorrono allo sviluppo

dell’insulinoresistenza, in quanto modulano la secrezione insulinica,

l’azione insulinica e il peso corporeo. Inoltre nell’obesità, il tessuto

adiposo è sede di uno stato infiammazione cronica a bassa intensità, che

rappresenta una fonte di mediatori chimici che aggravano la resistenza

all’insulina. Di conseguenza, i markers di infiammazione, come

l’interleuchina-6 e la proteina C-reattiva, sono spesso elevati in questo

tipo di diabete.

Anche l’età favorisce la comparsa del diabete, poiché essa si

accompagna ad una riduzione fisiologica della sensibilità dei tessuti

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periferici all’insulina, dovuta alla diminuzione di ormoni che aumentano

la permeabilità delle cellule al glucosio quali, ad esempio, il testosterone

(ormone che antagonizza l’azione diabetizzante del cortisolo).

3.2 PATOGENESI DEL DM2

Nelle fasi precoci della patologia la tolleranza glucidica permane

nella norma, nonostante la resistenza insulinica, poiché le cellule β del

pancreas attuano un compenso aumentando il rilascio di insulina.

Quando l’insulinoresistenza e l’iperinsulinismo compensatorio

progrediscono, le isole pancreatiche diventano incapaci di sostenere lo

stato iperinsulinemico. Compare, quindi, intolleranza glucidica

caratterizzata da un’elevazione dei livelli glicemici postprandiali.

Un’ulteriore riduzione della secrezione insulinica e un incremento della

produzione epatica di glucosio conducono al diabete conclamato con

iperglicemia a digiuno. Infine, può instaurasi l’insufficienza della cellula

β. (Harrison, 2002)

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RESISTENZA INSULINICA – È l’aspetto principale del DM2, ma non

è ristretto alla sindrome diabetica, infatti sia nella gravidanza sia

nell’obesità la sensibilità dei tessuti all’insulina diminuisce. Consiste in

una ridotta capacità dei tessuti periferici di rispondere alla secrezione

insulinica, ma tale resistenza è relativa poiché livelli sovra fisiologici di

insuline mia normalizzano la glicemia. La resistenza all’azione

insulinica altera l’utilizzo del glucosio da parte dei tessuti insulino-

sensibili e aumenta la produzione epatica di glucosio: entrambi gli effetti

contribuiscono all’iperglicemia del diabete. L’aumentato rilascio epatico

di glucosio è principalmente responsabile dei livelli aumentato di

glicemia a digiuno, mentre il ridotto utilizzo periferico di glucosio

determina l’iperglicemia postprandiale.

ALTERAZIONI DELLA SECREZIONE INSULINICA – Nel DM2 la

secrezione insulinica inizialmente aumenta in risposta alla resistenza

insulinica al fine di conservare la normale tolleranza glucidica.

Successivamente il difetto della secrezione insulinica progredisce verso

una condizione di secrezione insulinica francamente inadeguata.

AUMENTO DELLA PRODUZIONE EPATICA DI GLUCOSIO – Il

fegato mantiene la normoglicemia durante i periodi di digiuno attraverso

la glicogenolisi e la gluconeogenesi, usando substrati che derivano dal

muscolo scheletrico e dal tessuto adiposo (alanina, lattato, acidi grassi,

glicerolo). L’insulina promuove l’accumulo di glucosio come glicogeno

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epatico e sopprime la gluconeogensi. Nel DM di tipo 2

l’insulinoresistenza epatica origina dall’inefficacia dell’iperinsulinemia

nel sopprimere la gluconeogenesi, che provoca iperglicemia a digiuno e

ridotto accumulo di glucosio da parte del fegato nella postprandiale

(Harrison, 2002).

Capitolo 4

SEGNI E SINTOMI DEL DIABETE MELLITO

La sintomatologia di insorgenza della malattia dipende dal tipo di

diabete.

Nel caso del diabete mellito di tipo 1 di solito si assiste ad un esordio

acuto, spesso in relazione ad un episodio febbrile, con poliuria

(pollachiuria, nicturia, enuresi), polidipsia, perdita di peso malgrado

l’appetito sia conservato o accresciuto (polifagia), astenia, pelle secca e

aumentata frequenza di infezioni. Agli esami di laboratorio si riscontra

iperglicemia a digiuno e soprattutto dopo i pasti e glicosuria. La diuresi

osmotica determina grande perdita di liquidi ed elettroliti con le urine e

conseguente emoconcentrazione che causa falsa leucocitosi. Se la

condizione di poliuria-polidipsia passa inosservata o non viene corretta,

la situazione evolve in cheto acidosi, una condizione di grande squilibrio

metabolico con severa iperglicemia (glicemia >300 mg/dl) e acidosi

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metabolica (pH<7.3 con bicarbonati inferiori a 15 mEq/L) per accumulo

di corpi chetonici prodotti dalla beta ossidazione degli acidi grassi liberi.

Il paziente in cheto acidosi diabetica si presenta con alito acetonemico,

disidratato (lingua disepitelializzata, asciuttezza della mucosa orale,

bulbi oculari infossati, viso emaciato), con sensorio obnubilato, polipnea

con respiro di Kussmaul (atti respiratori frequenti e profondi) nel

tentativo di correggere l’acidosi metabolica con un’alcalosi respiratoria.

In presenza di una severa chetoacidosi, letargia e depressione del sistema

nervoso centrale possono progredire verso il coma. L’edema cerebrale,

una grave complicanza della chetoacidosi diabetica, è osservata molto

frequentemente nei bambini.

Nel diabete di tipo 2, invece, la sintomatologia è più sfumata e

solitamente non consente una diagnosi rapida, per cui spesso la glicemia

è elevata ma senza i segni clinici del diabete mellito di tipo 1. La

diagnosi è frequentemente posta a seguito di una complicanza diabetica.

4.1 DIAGNOSI

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La diagnosi di DM può essere stabilita sulla base di uno dei seguenti

parametri:

• Glicemia a digiuno superiore o uguale a 126 mg/dl (o 7 mmol/l);

• Glicemia random superiore o uguale a 200 mg/dl associata a

sintomi di iperglicemia;

• Glicemia maggiore o uguale a 200 mg/dl due ore dopo aver

assunto 75 g di glucosio per via orale (OGTT, test di tolleranza al

glucosio).

Tenendo conto che una glicemia a digiuno normale è inferiore a 110 mg/

dl e una glicemia postprandiale normale è inferiore a 140 mg/dl, esistono

delle situazioni cliniche in cui la glicemia raggiunge valori che non

costituiscono una condizione di normalità, ma non supera i limiti stabiliti

per la diagnosi di diabete. In questi casi si parla di alterazione

dell’omeostasi glicemica e, in particolare, di Alterata Glicemia a

Digiuno (IFG) quando i valori di glicemia a digiuno sono compresi tra

100 e 125 mg/dl, e di Alterata Tolleranza al Glucosio (IGT) quando la

glicemia, 2 ore dopo il carico di glucosio, è compresa tra 140 mg/di e

200 mg/dl. Si tratta di condizioni di “pre-diabete” che indicano un

elevato rischio di sviluppare la malattia diabetica, anche se non

costituiscono una condizione di patologia.

Sebbene in passato il test per emoglobina glicosilata A1c (vedi

oltre) non era ritenuto un test diagnostico sufficiente, una revisione

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aggiornata (International Expert Committee, 2009) degli esami di

laboratorio di glicemia e A1c da parte dell’attuale Commissione

Internazionale di Esperti indica che, grazie ai progressi nella

strumentazione e nella standardizzazione, l’accuratezza e la precisione

del test dell’A1c sono almeno uguali a quelli dei test della glicemia.

Pertanto, secondo le ultime linee guida dell’ADA (American Diabetes

Association, 2010), si può porre diagnosi di diabete, oltre che attraverso

gli esami precedentemente definiti, anche quando il test dell’HbA1c è

superiore o uguale a 6.5%. Il test deve essere eseguito da un laboratorio

che usa metodi certificati dal NGSP (National Glycohemoglobin

Standardization Program) e standardizzati alle analisi del DCCT

(Diabetics Control and Complications Trial).

4.2 EMOGLOBINA GLICATA

L’emoglobina glicata (HbA1c oppure A1c oppure Hb1c), detta

anche glicosilata, è un marker del controllo glicemico che gioca un ruolo

importante nel management del paziente diabetico.

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L’emoglobina A, che rappresenta il 90% dell’emoglobina (Hb) presente

nel globulo rosso, è formata da due catene di aminoacidi (alfa e beta). A

un terminale della catena beta dell’emoglobina si ancorano le molecole

di glucosio, formando così l’emoglobina glicosilata. Misurare la

percentuale di emoglobina glicosilata di un paziente diabetico è molto

utile in quanto è direttamente proporzionale alla quantità di glucosio con

la quale l’emoglobina è venuta a contatto nel corso di un arco di tempo

piuttosto lungo. Infatti, il legame con il glucosio permane per tutta la vita

della molecola di emoglobina (120 giorni circa, che è la vita media

dell’eritrocita) e quindi l’HbA1c ci consente di valutare i livelli medi di

glucosio ematico degli ultimi 2-3 mesi. Da qui deriva l’importanza

strategia di questo test, perché permette di verificare la qualità

dell’autocontrollo glicemico messo in atto dal paziente nei tre mesi

precedenti l’esame. A grandi linee, al 6% di HbA1c corrisponde una

glicemia media di 120mg/ml; al 7% di HbA1c una media di 150 mg/ml e

così via, in ragione di 30 mg/ml in più per ogni punto percentuale.

Livelli al di sotto del 7.7% sono ritenuti accettabili, mentre livelli

inferiori a 5.5% sono considerati normali.

Il limite del test dell’HbA1c è che non è possibile stabile in che periodo

siano avvenuti gli scompensi e che entità abbiano avuto, né le singole

trasgressioni o errori sporadici nella terapia sono sufficienti ad alterare i

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valori di emoglobina glicata. Un risultato alto può essere spiegato solo

con una lunga serie di iperglicemie o con un costante scompenso.

4.3 COMPLICANZE DEL DIABETE MELLITO

Il diabete può determinare complicanze acute e croniche.

Le complicanze acute sono la cheto acidosi diabetica (CAD) e lo stati

iperosmolare non chetosico (SINC). La CAD si osserva principalmente

negli individui affetti da diabete di tipo 1, mentre il SINC negli individui

affetti dal diabete di tipo 2. Entrambe le patologie sono associate a una

carenza assoluta o relativa di insulina, a deplezione di volume e

alterazione dello stato di coscienza.

Le complicanze croniche, che spesso si manifestano dopo 10-15 anni

dall’esordio del diabete, colpiscono molti apparati e sono responsabili

della maggior parte della morbilità e della mortalità associate a questa

malattia. Sono molto frequenti nel DM2 e si possono dividere in

complicanze vascolari e non vascolari. Le prime sono ulteriormente

suddivise in microvascolari (retinopatia, neuropatia e nefropatia) e

macrovascolari (coronaropatia, vascolopatia periferica, malattia

cerebrovascolare). Le complicanze non vascolari comprendono, a loro

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volte, vari disturbi come la gastroparesi, le disfunzioni sessuali e le

alterazioni cutanee (ulcera diabetica) (Harrison, 2002).

Capitolo 5

TERAPIA DEL DIABETE MELLITO

Gli obiettivi della terapia del diabete di tipo 1 e 2 sono:

1. eliminare i sintomi correlati all’iperglicemia;

2. ridurre o eliminare le complicanze microvascolari e

macrovascolari;

3. permettere al paziente di raggiungere uno stile di vita il più

normale possibile;

4. assicurare una buona crescita, nel caso del bambino diabetico.

I sintomi del diabete di solito si risolvono quando la glicemia è inferiore

a 200 mg/dl e quindi gran parte del trattamento diabetico mira a

raggiungere il secondo, il terzo e il quarto obiettivo.

La cura di un paziente diabetico richiede un’equipe multidisciplinare e,

per il successo di questo gruppo di lavoro, è importante la collaborazione

da parte del paziente, la sua motivazione e il suo entusiasmo. I membri

dell’equipe sanitaria comprendono il medico di base o l’endocrinologo o

il diabetologo, l’educatore specializzato e il nutrizionista. Quando

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insorgono le complicanze sono necessarie altre figure professionali,

come l’oculista, il neurologo, il nefrologo, il podologo, il cardiologo, il

chirurgo vascolare e l’odontoiatra, tutti con esperienza nelle complicanze

del diabete.

In linea di massima, la terapia del diabete prevede una corretta

alimentazione, l’attività fisica e, se necessario, la somministrazione di

farmaci (insulina, ipoglicemizzanti orali).

DIETA – Fondamentale è la terapia dietetica che, in alcuni quadri clinici

è sufficiente da sola, in altri è associata a farmaci antidiabetici. La

prescrizione dietetica deve essere seguita scrupolosamente, in particolare

per quanto riguarda le restrizioni che comprendono zucchero, dolciumi

in genere, gelati, bevande gasate artificiali, vini dolci e liquorosi e

sciroppi. In passato venivano imposti regimi dietetici restrittivi e

complessi, con regimi nutrizionali ipoglucidici. Oggi, invece, si ritiene

che l’apporto di carboidrati debba costituire il 50-55% del totale di

calorie al giorno, l’apporto di grassi circa il 30% e l’apporto proteico

intorno al 10-20%. Le fibre e il sodio sono raccomandati ai livelli della

popolazione sana e l’alcool va assunto in quantità moderate se il paziente

è ben compensato.

Per un miglior controllo della stabilità della glicemia, è fondamentale la

suddivisione degli alimenti in tre o quattro pasti, evitando pasti

eccessivamente ricchi e altri troppo poveri. Gravi deroghe alla

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prescrizione dietetica possono essere, specie se ripetute, alla base di

scompensi della malattia che possono portare al coma diabetico o al

coma ipoglicemico.

Nell’individuo con DM di tipo 1 l’obiettivo è di bilanciare e combinare

l’apporto calorico con l’appropriata quantità di insulina, quindi la dieta e

il monitoraggio della glicemia devono essere integrate al fine di definire

il regime insulinico ottimale. Inoltre, bisogna minimizzare l’incremento

ponderale spesso associato al trattamento diabetico intensivo.

Nel soggetto con DM di tipo 2 gli obiettivi sono leggermente differenti e

si indirizzano verso il notevole aumento della prevalenza dei fattori di

rischio cardiovascolare (obesità, dislipidemia, ipertensione) (Harrison,

2002).

ATTIVITÀ FISICA – L’esercizio fisico è una componente costitutiva del

trattamento integrato del diabete che ha molteplici effetti positivi:

benefici cardiovascolari, ridotta pressione arteriosa, calo ponderale,

mantenimento della massa muscolare, riduzione del grasso corporeo,

ecc. Nel soggetto diabetico, inoltre, l’attività fisica è utile anche per

ridurre la glicemia (durante e dopo l’esercizio) e aumentare la sensibilità

all’insulina (Harrison, 2002).

TERAPIA FARMACOLOGIA – La terapia farmacologica prevede la

somministrazione di insulina associata o meno agli antidiabetici orali.

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Il DM1 necessita inevitabilmente di terapia insulinica, vista

l’insulinopenia prodotta dalla distruzione delle cellule β del pancreas,

mentre il DM2 viene di solito trattato tramite dieta alimentare e

antidiabetici orali. Il DM2 richiede il trattamento insulinico in rari casi,

in particolare se è esaurita la riserva di insulina prodotta dal pancreas; in

presenza di controindicazioni all’uso di antidiabetici orali; in caso di

malattie con importante rialzo glicemico, ecc.

Esistono diverse preparazioni insuliniche, ottenute per sostituzione

aminoacidica dell’insulina suina e classificate solitamente in base alla

loro durata d’azione. Si distinguono, pertanto, l’insulina ad azione rapida

(insulina umana regolare o solubile), gli analoghi ad azione rapida

(insulina Lispro, Aspart), l’insulina ad azione intermedia (NPH, insulina

umana lenta), l’insulina a lunga durata d’azione (insulina umana

ultralenta) e gli analoghi ad azione ritardata (Glargine, Detemir).

Gli antidiabetici orali sono farmaci ipoglicemizzanti che agiscono

secondo diversi meccanismi di azione. Se ne distinguono quattro diverse

categorie: insulino stimolanti (Sulfaniluree e composti non-

sulfanilureici), insulino-sensibilizzanti (Biguanidi e Tiazolidindioni),

inibitori delle α-glicosidasi intestinali (Acarbosio, Miglitolo) e i farmaci

agenti sull’asse delle incretine (incretino-mimetici, inibitori della

dipeptidil-peptidasi IV).

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È possibile anche una terapia chirurgica del diabete di tipo 1, la quale

prevede il ricorso al trapianto del pancreas o delle isole di Langerhans

(S. Kidambi, 2008). Il trapianto del pancreas ha l’obiettivo di ridurre il

bisogno di insulina esogena eliminando al contempo alcune delle

manifestazioni più pericolose come l’ipoglicemia e l’ipoglicemia (G.

Faglia, 2006). I risultati sono soddisfacenti (Sutherland, 2001) ma in

alcuni pazienti la terapia immunosoppressiva e le complicanze

chirurgiche potrebbero essere pericolose. Il trapianto delle isole di

Langerhans HLA compatibili per via portografica è un intervento meno

invasivo rispetto al trapianto di pancreas e, ad oggi, ha dato risultati

promettenti sebbene ancora in studio. A 5 anni vi è l’80% di

sopravvivenza delle isole, ma già dopo 2 anni è necessario instaurare il

trattamento insulinico.

5.1 FOLLOW-UP DEL PAZIENTE DIABETICO

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Il controllo continuo della terapia è obbligatorio nel DM in quanto

il paziente rischia di non rendersi conto dell'eventuale inadeguatezza

della terapia o della dieta, essendo il diabete una patologia che decorre

asintomatica per lungo tempo. Classicamente il follow-up lo esegue il

paziente stesso attraverso il glucometro, effettuando una serie di dosaggi

del proprio livello glicemico durante tutta la giornata (eventualmente

anche durante la notte), verificando che i valori siano correttamente

mantenuti dalla terapia in atto. Il medico ha invece l'obbligo e il diritto di

verificare l'efficacia dei presidi messi in atto e per questo ai controlli

quotidiani si associa un controllo periodico di tipo ambulatoristico-

strumentale della emoglobina glicosilata e delle proteine plasmatiche

glicate (riunite sotto il termine "fruttosamina"). Come visto,

l’emoglobina glicosilata rispecchia l'andamento glicemico medio delle

ultime 6-8 settimane, mentre fruttosamina riflette l'andamento

metabolico degli ultimi 10-15 giorni (Diabete mellito - Wikipedia,

2010).

6.1 LA CHETOACIDOSI (DKA)

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L’incidenza del diabete mellito tipo 1 nell’età pediatrica è in

aumento in tutto il mondo. La gran parte di questi pazienti arriva alla

diagnosi con una grave DKA, perché nei bambini più piccoli i sintomi di

esordio possono essere lievi e spesso vengono confusi con quelli di altre

patologie.

La chetoacidosi è la causa di morte più comune tra i bambini con

diabete. Molti decessi sono dovuti ad edema cerebrale. Una percentuale

di superstiti ha danni neurologici permanenti. Il trattamento deve essere

iniziato non appena la complicanza è ritenuta sospetta. Negli adolescenti

la causa più frequente di DKA è la mancata somministrazione di

insulina. Vista la criticità della DKA, sono state stilate diverse linee

guida sia a livello nazionale che internazionale, per guidare la diagnosi e

gestire il trattamento precoce. La DKA è un grave squilibrio metabolico

che mette a rischio la vita del paziente se non rapidamente diagnosticato

e correttamente trattato. Clinicamente si presenta con polidipsia,

poliuria, astenia, calo ponderale, respiro acidotico di Kussmaul, diuresi

osmotica con disidratazione grave che può evolvere fino ad uno stato di

shock. Dal punto di vista biochimico risulta una glicemia >300 mg/dl,

glicosuria, chetonuria, ph venoso <7,3, bicarbonati <15 mEq/l. Le

complicanze sono l’edema cerebrale e aritmie ipopotassiemiche. Il

bambino va immediatamente trattato, controllando i parametri vitali,

rilevando peso e statura, glicemia e chetonemia da sangue capillare,

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EGA, es. urine per glicosuria e chetonuria ed ECG. Successivamente si

reperisce un accesso venoso per prelevare emocromo, glicemia,

elettroliti, azotemia e creatininemia e al termine ci si avvale di tale

accesso, rendendolo a doppia via, tramite l’ausilio di micro pompe di

infusione per reidratare il bambino, correggere gli squilibri

idroelettrolitici e per somministrare la terapia insulinica e.v.

Durante la prima fase bisogna monitorare ogni ora: glicemia capillare,

elettroliti, EGA, azotemia e glicemia da sangue venoso. Quando le

condizioni cliniche del paziente migliorano, corretta l’acidosi e la

glicemia, si somministra insulina sotto cute ed il piccolo inizia ad

alimentarsi per OS.

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6.2 LINEE GUIDA ITALIANE

Il progetto diabete ha elaborato le linee guida sul trattamento della

chetoacidosi diabetica, dove vengono definiti i criteri di diagnosi, la

valutazione dell’emergenza, le osservazioni cliniche, il monitoraggio e le

raccomandazioni al trattamento.

Nell’ U.O. di Pediatria dell’A.O. Pugliese Ciaccio di Catanzaro è stato

stilato un protocollo terapeutico che prevede l’utilizzo di micropompe

d’infusione a doppia via. Tale protocollo per la DKA prevede nella 1°

ora solo idratazione con soluzione fisiologica ad una velocità di 5-10 ml/

kg/h (in base alle condizioni del paziente) utilizzando la linea A

dell’accesso venoso. Nella 2° ora inizia la terapia insulinica e.v. (insulina

rapida) ad una velocita di 0,05-0,1 U/kg/h utilizzando la linea B della

pompa di infusione. Non appena la glicemia raggiunge valori inferiori a

250 mg/dl viene sostituita la soluzione fisiologica con una soluzione

glucosata al 5-10% aggiungendo sodio e potassio che andranno di pari

passo all’infusione di insulina somministrata attraverso la via B.

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Capitolo 7

L’INSULINA

L’insulina è un ormone proteico che permette, grazie a specifici

recettori, l’utilizzo del glucosio ed ha pertanto azione ipoglicemizzante.

La sua conformazione e la natura proteica rendono impossibili vie di

somministrazione alternative e quella sottocutanea. Poiché,

fisiologicamente, la secrezione insulinica varia durante la giornata, in

rapporto all’introito dei carboidrati, bisogna riprodurne questo

andamento circadiano con più somministrazioni giornaliere. L’insulina

richiede alcune attenzioni nella sua conservazione per evitare che perda

le sue caratteristiche naturali. Le fiale in uso possono essere conservate

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fuori dal frigorifero, a temperatura ambiente fino a 4 settimane. Le

confezioni di riserva, vanno tenute in frigorifero tra i +4°C e i +8°C.

Agitare il flacone dell’insulina prima dell’uso;

Ad ogni cambio del penfill nella cartuccia penna o iniettore

eseguire a vuoto sempre 15-20 unità per eliminare le eventuali

bolle d’aria.

Le siringhe:

Debbono essere utilizzate senza spazio morto superiore;

Non utilizzare mai siringhe da tubercolina o simili.

Il bambino con diabete mellito non deve mai sospendere la terapia

insulinica. In particolari situazioni (es. vomito) può essere ridotta la dose

o modificato l’orario si somministrazione.

Esistono diversi tipi di insulina:

Analogo ultrarapido

Umana rapida

Intermedia o lenta

Analogo lento

Premiscelate

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La zona di inoculo deve essere diversa ad ogni somministrazione:

Fascia addominale, ai lati dell’ombelico, ruotando in senso orario

Natiche

Braccia

Cosce, sulle aree estensorie o laterali

Durante la somministrazione dell’insulina la siringa o la penna (dotata di

ago corto e sottile) deve essere posizionata perpendicolarmente alla zona

di iniezione con un angolo di 90°, evitare che l’ago tocchi qualche

capillare o arrivi al muscolo. Bisogna evitare, altresì, somministrazioni

troppo superficiali che possono alterare l’assorbimento dell’insulina.

L’insulina non deve essere iniettata nelle zone di cellulite in quanto,

essendo poco vascolarizzate, riducono il suo assorbimento.

7.1 TERAPIA INSULINICA INTENSIVA CONTINUA CON

MICROINFUSORE (CSII)

In Italia i pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 sono circa

20.000. Di questi il 12% utilizza il microinfusore.

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Il Microinfusore è un piccolo dispositivo elettromeccanico che eroga in

modo continuo insulina e può essere programmato per mimare al meglio

il pattern fisiologico della secrezione pancreatica attraverso un’infusione

basale continua nelle 24 h e con dei boli in corrispondenza dei pasti.

Il microinfusore è composto da:

pompa infusionale controllata da un minicomputer costituito da un

schermo provvisto di tasti per la programmazione dei boli e

dell’erogazione continua d’insulina (insulina basale),

un serbatoio contenente l’insulina

un orologio

una fonte di energia

un set infusionale che è composto da un catetere che connete la

pompa ad un sottile ago flessibile o cannula inserito nel sottocute

che deve essere cambiato ogni 3 giorni

L’insulina basale ideale dovrebbe essere:

Senza picco

Di lunga durata d’azione

Riproducibile nell’assorbimento

Tra i vantaggi del microinfusore ricordiamo:

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migliore controllo metabolico

migliore qualità della vita

Tra gli svantaggi ricordiamo:

necessità di controlli glicemici più frequenti

pompa “connessa” 24ore su 24

Oggi è possibile fare il monitoraggio glicemico che ci permette di:

adattare meglio la terapia insulinica dei singoli pazienti per

ottenere livelli glicemici il più possibile simili a quelli fisiologici;

diminuire gli episodi di ipoglicemia severa e controllare le

iperglicemie a rischio di DKA;

diminuire i livelli di emoglobina glicosilata (HbA1c);

ridurre le complicanze.

Le frequenti misurazioni della glicemia permettono al paziente di

migliorare il controllo glico-metabolico adattando la quantità di insulina

somministrata . Si riducono così gli episodi ipoglicemici e di DKA.

Attraverso un diario aggiornato con tutti i rilevamenti effettuati, è

possibile avere un’idea sull’andamento generale della malattia. Il buon

controllo della glicemia permette di ridurre i valori dell’ HbA1c con una

riduzione del rischio delle complicanze della malattia. Nel programma

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educativo svolto dagli infermieri è incluso l’utilizzo del diario per

l’autocontrollo domiciliare fondamentale per la gestione del diabete.

Capitolo 8

L’ALIMENTAZIONE

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Un bambino diabetico ha bisogno di un’alimentazione uguale a

quella di un bambino non diabetico: Carboidrati 55%, Lipidi 30%,

Proteine 15%. E’ indicato, inoltre, un buon apporto di fibre

vegetali

Una dieta troppo drastica e carente in carboidrati non solo non

migliora il controllo del diabete, ma ostacola il corretto

accrescimento del bambino.

La dieta deve essere appropriata e vanno limitate solo le

assunzioni di zuccheri semplici.

Il bambino non deve essere abituato a mangiare quello che vuole e

a decidere la dose di insulina in base al cibo assunto.

Il miglior controllo della malattia si ottiene con il giusto equilibrio

tra terapia insulinica ,dieta e attività fisica.

La distribuzione dei pasti è suddivisa in: colazione, spuntino,

pranzo, merenda e cena.

Capitolo 9

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L’EDUCAZIONE/FORMAZIONE.

Spesso l’infermiere è la figura che ha il primo contatto con il bambino e

con i genitori. Oltre a dover gestire in prima persona molti aspetti pratici

della terapia, frequentemente gli vengono posti tutti i quesiti generati

dall’angoscia dei genitori e dallo stato a volte critico del piccolo

paziente. L’infermiere deve pertanto conoscere gli aspetti fondamentali

del diabete e la sua gestione in corso di emergenza. Terminata la fase

acuta l’infermiere inizia un programma di educazione al bambino e la

sua famiglia.

L’educazione terapeutica ha come obiettivi:

Ottenere il miglior controllo glicemico e metabolico possibile;

Ridurre significativamente la prevalenza delle complicanze;

Fare in modo che la malattia interferisca il meno possibile sulla

qualità di vita del bambino e della sua famiglia.

Preferibilmente la maggior parte dei programmi dovrebbero essere svolti

in un contesto non ospedaliero o in un ambiente ospedaliero mediante

lezioni individuali o di gruppo. Il programma educativo dovrebbe

utilizzare metodi interattivi, mirati al paziente e adatti a tutte le persone

coinvolte nella gestione del diabete. I bambini e gli adolescenti, i loro

genitori e quelli che in genere si prendono cura di loro dovrebbero tutti

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aver la possibilità di essere inclusi in un programma educativo.

L’educazione sanitaria al diabete dovrebbe essere prestata da

professionisti che abbiano una profonda conoscenza dei bisogni dei

giovani e delle loro famiglie e di come tali bisogni mutino nel corso

della vita.

L’educazione al diabete, perché sia efficace, deve essere un processo

continuo e costante di apprendimento. Terminata la fase acuta il bambino

ancora ricoverato inizia un programma di educazione all’autogestione

della malattia, che consiste in:

Spiegazione di come sia stata fatta la diagnosi e motivo dei

sintomi.

Semplice spiegazione per una possibile causa del diabete. Nessun

fatto da incolpare.

Necessità immediata di insulina e suo funzionamento.

Cose’è il glucosio? Livelli normali di glicemia e obiettivi da

raggiungere.

Nozioni pratiche.

Iniezioni di insulina.

Analisi del sangue e/o delle urine e motivi per i controlli.

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Consigli dietetici.

Il diabete a casa o a scuola, compresi gli effetti dell’attività fisica.

Iscrizione ad un’Associazione per diabetici e ad altri servizi di

supporto.

Adattamento psicologico al momento della diagnosi.

Il programma di educazione all’autogestione continua in regime di day

hospital organizzato prima della dimissione con date già stabilite.

I contenuti principali di un programma educativo devono gradualmente

comprendere i seguenti argomenti:

Secrezione insulinica, azione e fisiologia.

Iniezioni di insulina, tipi, assorbimento, azione, cambiamenti e

regolazioni.

Alimentazione - piano diabetico; carboidrati, grassi e fibre.

Controlli, inclusi l’emoglobina glicosilata e gli obiettivi dei

controlli.

L’ipoglicemia e la sua prevenzione, riconoscimento e gestione,

incluso l’uso del glucagone.

Malattie, iperglicemia, chetosi e prevenzione della cheto acidosi.

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Complicanze micro e macro – vascolari e loro prevenzioni.

9.1 I CAMPI SCUOLA

Sono dei "momenti" di educazione ed addestramento teorico –

pratico all'autogestione della malattia organizzati in forma

"residenziale", in ambienti extraospedalieri al quale partecipano in

funzione di docenti, per le singole competenze, medici ed

infermieri qualificati, ed anche dietista, psicologa, animatori,

diabetici guida e rappresentanti delle associazioni di genitori.

La durata di un campo, normalmente varia dai sette ai dieci giorni

e per tutto il periodo i ragazzi e l'equipe socio-sanitaria fanno vita

comune.

Le lezioni teoriche si alternano ad esercitazioni pratiche

permettendo in tal modo di verificare il grado di apprendimento e

colmare eventuali lacune.

Ciascun ragazzo è stimolato a compiere da solo, qualora non lo

faccia gia', i controlli e le terapie necessarie.

Per raggiungere questi obiettivi le Associazioni locali dei Giovani

Diabetici, AGD, ADIG ecc. e la Federazione nazionale che le raggruppa,

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FDG, organizzano annualmente ed in collaborazione con le Strutture

Diabetologiche, ormai da moltissimo tempo, campi scuola per bambini

ed adolescenti ed anche corsi di aggiornamento per giovani adulti con

diabete.

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