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Ida MagliGli uomini della penitenza

È possibile tentare di ricostruire le culture passate con i metodi della moderna antropologia? Può l'antropologo guardare alla storia come ad un possibile oggetto del suo campo di ricerca, e quali saranno in tal caso le novità apportate dalla ricostruzione antropologica? Il lettore di questo libro sarà in grado di prendere una sua posizione su questo problema, oggi intensamente e polemicamente discusso sia fra gli storici che in seno alle diverse correnti dell'antropologia. Un arco di tempo così importante per la storia d'Italia e d'Europa, e ancor oggi cosí problematico come quello che va dalla fine del Mille a tutto il 1400, si presenta qui con un profilo storico nuovo, e in una dimensione in cui prendono rilievo e si inseriscono come fattori di fondamentale importanza, fenomeni fino ad oggi ritenuti marginali. La predicazione popolare e i vari tipi di circolazione della cultura, la devozione ai santi e alle reliquie, i pellegrinaggi, l'assunzione della povertà come « valore » e il contemporaneo emergere del concetto « laico » di lavoro, le confraternite di penitenza e le grandi flagellazioni, il culto dei morti e la paura del demoniaco, il formarsi di un « pubblico » e la matrice psicologica dell'arte religiosa medioevale, tutti questi fenomeni si ricollegano fra loro nel sintetico quadro antropologico di una « cultura penitenziale » che è vista come momento primo, e sotto certi aspetti determinante, dell'attuale società.

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Ida Magli

Gli uominidella penitenzaLineamenti antropologici del medioevo italiano

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Il problema della « penitenza »come problema antropologico del medioevo

I. Antropologia e storia.

Questo libro rappresenta un tentativo di applicare il metodo antropologico ad un periodo storico. La ricchezza di dati, di conoscenze che l'antropologia è riuscita ad ottenere nello studio delle culture « illetterate », o cosídette « primitive », è uno stimolo indubbiamente efficace a tentare di accostarsi ad altre culture con lo stesso angolo visuale. Nello sforzo di ricerca, e nella passione con cui si è applicato allo studio delle culture « primitive », possiamo supporre che l'antropologo sia stato in fondo sollecitato dal desiderio di conoscere più profondamente anche se stesso e la propria cultura; desiderio che si è rivelato del resto estremamente « profetico », se non altro nella profonda adesione e nella risonanza che la conoscenza delle culture « primitive » ha trovato nello spirito degli uomini della nostra epoca.

Anche la nostra ricerca è nata, almeno in parte, per un'affinità di chi scrive con alcuni tratti della cultura medioevale; e per una più o meno consapevole aspirazione a ritrovare lí una verità, che potesse in qualche modo svelarci a noi stessi. È del resto cosa ormai nota che si va rinnovando oggi, specialmente in Italia, il fascino che il medioevo già ha esercitato nel periodo romantico. La rivalutazione che gli studiosi ne vanno facendo sembra presentare qualche analogia con la riscoperta dei « classici » durante il rinascimento. C'è al fondo di questa attrattiva, di questo ripensamento, di questa riscoperta meravigliata e ansiosa del medioevo, forse il senso di una qualche affinità, l'intuizione vaga ma pur pressante di poter trovare lí, profondamente nascosta, qualche radice del nostro « essere moderni »; il desiderio teso, o addirittura il bisogno, di comprenderci di più, e di scoprire alle origini, il significato essenziale della nostra angoscia.

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Motivi antropologici e psicologici dunque, alla base del lavoro che presentiamo; ma soprattutto la « tentazione » di sperimentare, in tutte le sue possibilità, il metodo antropologico. C'era però da superare una difficoltà di ordine strettamente scientifico: in che modo infatti giustificare una ricerca antropologica in campo storico? I rapporti fra le scienze dell'uomo e la storia non sono ancora ben chiari, anche se negli ultimi tempi molte indicazioni si sono avute sulla necessità di una più stretta collaborazione fra storici ed antropologi (1). A noi sembra tuttavia che già con la definizione di cultura intesa come « disposizione ad affrontare la realtà, disposizione che si costituisce negli individui in quanto membri di una società storicamente determinatasi e determinantesi » si possa trovare una prima giustificazione di un lavoro antropologico su base storica. La cultura cosí intesa, infatti, designa quel patrimonio sociale dei gruppi umani che comprende conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, norme, valori, nonché le disposizioni all'azione, che da tutti questi derivano e che si concretizzano in schemi e tecniche di attività tipici in ogni società (2).

Secondo Kroeber la storia è alla base delle scienze sociali. « Il fatto che gli storici narrino generalmente avvenimenti inquadrati esattamente nel tempo e compiuti dagli uomini, non implica che il loro lavoro sia limitato alla cronologia e allo studio dei personaggi e fatti specifici. La storia deve essere considerata in senso più ampio come l'attività dell'intelletto che ricorda o può ricordare successione di fatti, ma che soprattutto caratterizza e descrive» (3). La storia, sempre secondo Kroeber, può prendere in esame gli individui, in quanto soggettivamente espressione di cause ed effetti sociali; oppure può studiare movimenti sociali, istituzioni o fatti culturali, senza riferimento a specifiche persone. In questo senso lato la storia è alla base di tutti gli studi sociali, poiché i fatti sociali sono fatti storici.

C'è però già qui, forse, una precisazione da fare: se i fatti sociali sono fatti storici, come è indubbio, rimane però aperto il problema se questa affermazione significhi semplicemente

(1) Si può vedere quanto dice in proposito A. DUPRONT, L'Acculturazione, Einaudi, Torino, 1966. (2) T. TENTORI, Antropologia culturale, Studium, Roma, 1960, p.8.

(3) A. L. KROEBER, The Nature of Culture, The University of Chicago Press, Chicago-London, 1952.

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che si può fare la storia dei fatti sociali, attraverso la successione degli avvenimenti, oppure che si possa farsi « tentare » dalla successione cronologica per formulare una spiegazione causale. In altri termini, la storia ha la sua specifica dimensione nel tempo, e lo storico tradirebbe quindi il suo compito se tentasse di descrivere i fatti storici come « processo », perché anche con il massimo scrupolo possibile e la massima buona fede, finirebbe col sacrificare alcuni eventi per metterne in evidenza altri, venendo meno al suo vero compito che è quello di narrare ciò che è « avvenuto », realmente avvenuto, come fatto. Anche se questo modo di concepire la storia fosse inteso come « fare della cronaca », come più volte è stato detto, bisogna anche riconoscere che già nel fare onestamente della cronaca lo storico pur sempre introduce il suo personale angolo visuale, cioè una « sistemazione » dei fatti che non può non essere già « interpretativa ». È questo del resto il pensiero di Kroeber quando dice: « Io credo che il carattere distintivo dell'approccio storico sia, in ogni campo, non una sistemazione delle sequenze temporali, pensiero che quasi inevitabilmente affiora là dove gli impulsi storici sono forti e genuini, ma un tentativo di integrazione descrittiva. Per « descrittiva », intendo dire che i fenomeni sono conservati il più possibile intatti come fenomeni; diversamente dall'approccio delle scienze non storiche che tende a decomporre i fenomeni allo scopo di mettere in luce i processi come tali. Lo storico naturalmente non ignora il processo, ma non se lo pone come il suo obiettivo principale. Il processo, nella storia, è un nesso fra i fenomeni trattati come fenomeni, non qualcosa che deve essere scoperto ed estratto dai fenomeni» (4).

La storia, vissuta dagli uomini, non possiede una dimensione interpretativa, che è possibile solo all'occhio dello studioso che segue un certo arco di sviluppo, prevede il nascere, lo stabilirsi e il decadere di un certo fatto. La storia, implicita nella vita di un popolo o di un individuo, appartiene ad una sfera diversa e partecipa non solo di tutti quei fenomeni che lo studioso prende in considerazione come accadimenti, ma anche di innumerevoli altri fenomeni espliciti o impliciti, coscienti o inconsci, esterni o interni agli individui. Questo non significa che lo storico debba precludersi

(4) A. L. KROEBER, The Nature of Culture, cit., p. 63.

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una comprensione più profonda dei fatti, come del resto non deve essere precluso il metodo storico ad altri ricercatori delle scienze dell'uomo (4b). La comprensione del fatto umano, infatti, non può avvenire se non per approssimazioni multiple e successive, di cui è difficile dire quale sia la più vera o la più giusta, perché ognuna racchiude la verità sulla quale l'altra è costruita, ed ognuna illumina l'altra, permettendo cosí una sempre migliore e più feconda approssimazione. Il pericolo più grave di una simile costruzione del sapere è semmai quello che una disciplina si costituisca su i dati di un'altra non del tutto certi; cosa questa che è già molte volte avvenuta, in diversi periodi storici, e in diversi campi del sapere.

Un altro pericolo, anch'esso grave, è che un'interpretazione rigorosa dei confini della propria disciplina e delle proprie possibilità metodologiche, porti lo studioso ad escludere categoricamente dal proprio angolo visuale tutto quello che non vi rientri « di diritto ». In ambedue questi casi può succedere che si cada in gravi errori senza accorgersene, e che si finisca col salvare la propria « onestà scientifica », sacrificando in definitiva la verità.

Ci sembra che sia quindi necessario, almeno nell'ambito delle « scienze umane », da parte del ricercatore, una profonda vera umiltà. È vero che gli scienziati si sono molto spesso rifugiati nell'attributo dell'umiltà, facendolo proprio, ma bisognerà allora chiarire di quale umiltà si tratti: il rifiutarsi di uscire, sia pure temporaneamente, dai limiti metodologici ed oggettuali della propria disciplina, pur sapendo che questo comportamento può far rischiare di giungere a conclusioni non solo parziali ma addirittura errate o illusoriamente giuste, non è tanto una dimostrazione di umiltà scientifica quanto forse una dimostrazione di rigorismo e un tentativo di evasione dai problemi più profondi della scienza stessa.

La tentazione più grave dell'uomo infatti, è quella dell'assoluto. Non l'assoluto è per l'uomo difficile da accettare, malgrado la diffusa credenza, ma il « relativo ». Accettare il relativo, pur non rinunciando mai a raggiungere l'assoluto, è in definitiva il compito dello scienziato, il quale, nella

(4b) cfr. P. FILIASI-CARCANO, « Importanza e struttura dell'antropologia», De Homine, 17-18, p. 56.

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ricerca della verità, deve saper correre il rischio di sbagliare. Assolutizzare la propria disciplina, o peggio, il particolare metodo della propria disciplina, può portare invece fino a capovolgere i termini della ricerca: non il metodo per conoscere i fatti, ma i fatti per comprovare il metodo.

A tale proposito possono ancora essere considerate esemplari le affermazioni di Redfield: « Sono antropologo e, come tale, ho assunto l'impegno del rispetto dell'obiettività. Ma se qualche volta ho infranto questo impegno, la mia coscienza non ne soffre. In me, l'uomo e l'antropologo non si dividono nettamente. Mi illusi di poter attuare una tale separazione nello studiare scientificamente l'umanità. Devo ora confessare che non mi è stato possibile e che non penso sia possibile. Le uniche norme di obiettività alle quali mi sento impegnato sono: la chiara esposizione dei fatti affinché possano essere controllati dagli altri; la disposizione a dubitare di tutte le più importanti tesi che sono venuto sostenendo e a metterle continuamente in discussione; la capacità di osservare un atteggiamento di umiltà di fronte ai fatti, di saper ammettere di aver sbagliato ed essere pronto a ricominciare di nuovo... » (5).

Esempi degli errori cui accennavamo sono numerosissimi: basti pensare a tutto quel settore dell'etnografia che aveva cercato di descrivere e classificare le varie culture cosidette primitive senza tentare di comprendere l'enorme influenza del fattore religioso in queste culture. Sembra del tutto ovvia oggi, a chi guardi con occhio imparziale a questo tipo di culture, la prevalenza in esse della dimensione « sacrale »; ma per gli studiosi rigoristi il sacro doveva essere allineato a tutti gli altri comportamenti e fenomeni, e nella aspirazione illusoria ad una assoluta obiettività, essi si sono messi, più o meno volontariamente, in condizione di non poter capire la «realtà» dell'oggetto studiato. I ricercatori di questo tipo escludono il sacro dal proprio microscopio, solo perché il microscopio non possiede la lente adatta ad illuminarlo, e cosí facendo finiscono col credere che in realtà il sacro non sia importante, o addirittura non esista (6).La fecondità del pensiero per esempio di un Lévy- Bruhl,

(5) Cit. da T. TENTORI, Antropologia culturale, cit., p. 128-129. (6) Cfr. R. CANTONI, Illusione e pregiudizio, Il Saggiatore, Milano, 1967.

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anche se oggi in parte superata, si può invece praticamente racchiudere in una sola considerazione: il Lévy-Bruhl è partito da un'ipotesi che alla lunga si è rivelata anch'essa pregiudicante (quando è stata « assolutizzata »), ma che in una prima approssimazione è stata estremamente utile: l'ipotesi cioè che esistesse un tipo di pensiero « diverso » da quello « logico », o meglio (perché è qui la forza dell'ipotesi) diverso dal nostro.

Un altro esempio di successive approssimazioni alla verità che « passano per l'errore », lo si può trovare nelle applicazioni che Freud fece delle sue teorie sull'inconscio ai reperti che l'etnografia gli forniva sulle popolazioni «primitive». Disconoscere l'ampliarsi degli orizzonti che Freud ha permesso alla psicologia, all'etnografia, all'antropologia, con le sue ardite anche se forse illusorie interpretazioni del comportamento collettivo, della religione, della primitività come nevrosi, della nevrosi come primitività, ecc., sarebbe impossibile; e tuttavia è chiaro che le sue ipotesi sono ben lontane dall'essere « provate », scientificamente provate.

Bisogna ammettere, quindi, che l'atteggiamento più fecondo del ricercatore, nell'ambito delle scienze umane, è quello di una consapevole accettazione del relativo, in una continua dinamica tensione verso la verità, che gli permetta di non escludere nulla, assolutamente nulla dal suo interesse, dal suo orizzonte, dal suo sguardo critico; pur rimanendo tenacemente fedele alla sua disciplina, al suo metodo, al particolare oggetto della sua scienza. Perché la conoscenza, in definitiva, è sempre conoscenza in un limite e di un limite: ogni categoria di pensiero, e ogni conoscenza nell'ambito di una categoria, è « esasperazione » di questa categoria al punto da non poterne più evadere; la comprensione è possibile cioè solo nel limite, e limite è appunto esasperazione, premere disperatamente in determinati confini. È proprio il limite che determina la necessità del « sistema », ma per conoscere il limite bisogna continuamente superarlo. Quando la scienza si rifiuta di uscire dall'ambito del «sistema», si preclude praticamente qualsiasi possibilità di vera conoscenza.

La differenza fra il metodo storico e il metodo antropologico, nella conoscenza dell'uomo, appare chiaramente esemplificata in ciò che è successo proprio nello studio delle

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popolazioni «illetterate». Una gran parte degli etnologi, assumendo il concetto degli storici che non vi sia storia (o meglio che non vi sia possibilità di fare della storia) laddove non esistono documenti scritti, ha finito col dare per scontato che le popolazioni « primitive » fossero prive di storia. Come spesso avviene, (ed è purtroppo umano che avvenga), lungo il corso della propria ricerca lo studioso accantona a poco a poco le preclusioni e i limiti che si è posto all'inizio della ricerca stessa, e accantonandoli arriva a considerarne nulli gli effetti. In realtà invece quello che conta per l'antropologo non è tanto la consapevolezza della propria storia da parte di un popolo, e i documenti che l'affermino, quanto il fatto che la storia esiste sempre ed agisce nella vita di un popolo come di un individuo (7).

Tuttavia, proprio per aver accettato senza discuterli alcuni presupposti storici, sono nate le varie teorie sulla « staticità » di questo tipo di culture, il percepirle da parte del ricercatore come «atemporali», oppure sempre uguali, ecc. È chiaro che un simile modo di accostarsi alla cultura « primitiva » era dettato dall'implicita concezione della storia che è stata appannaggio della cultura occidentale fino alla nascita delle scienze sociali, e cioè una storia-accadimenti (evenemenziale) consapevoli e memorizzati nel tempo. In ogni cultura, invece, esiste una storia, con accadimenti più o meno consapevoli, perché per l'uomo, come per un popolo, anche il ripetersi sempre uguale e sempre diverso del quotidiano è storia; cioè il quotidiano va a far parte del tessuto della sua esistenza, e più o meno impercettibilmente ne modifica la personalità ed i costumi. « Limitandoci all'istante presente della vita di una società, dice Lévy-Strauss, cadiamo innanzitutto vittime di un'illusione; poiché tutto è storia; è storia quello che è stato detto ieri, è storia quello che è stato detto un minuto fa. Ma soprattutto ci condanniamo a non conoscere questo presente, perché solo lo sviluppo storico permette di soppesare e di valutare nei loro rispettivi rapporti gli elementi del presente » (8).

(7) Cfr. A. DUPRONT, L'acculturazione, cit., p. 47.(8) C. LÉVY-STRAUSS, Antropologia strutturale, Il Saggiatore,

Milano, 1966, p. 24-25.

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2. Storia e «tradizione».L'uso della storia da parte dell'antropologo può essere quindi

utilissimo come una « verifica », un misurarsi dell'antropologia sulla dimensione del tempo. L'antropologia, quando si applica allo studio di culture « primitive », di « piccole comunità », tende di solito a percepirle come chiuse in se stesse, senza sviluppo, senza un principio o una fine (tranne nel caso in cui si scontrino con altra cultura), tende cioè a collocarle in una dimensione extratemporale. Invece quando ci si applica allo studio di periodi storici, ci si accorge quanto sia complessa la vita anche all'interno di una cultura che può sembrare a prima vista come « semplice », come conclusa in se stessa; ci si accorge che una storia è presente in ogni singolo momento di una cultura con tutto il peso del passato e con tutte le trasformazioni in atto, momento per momento, nel modo in cui i singoli individui di una cultura la vivono. È come l'allargarsi di un cerchio nell'acqua quando vi si getti un sasso: ogni gesto, ogni parola, ogni rapporto nell'ambito di un individuo e di un gruppo crea delle condizioni nuove all'interno di una cultura di cui è difficile calcolare l'« effetto », ma di cui una cosa è certa: che questo effetto esista.

La « ripetizione » stessa, in una cultura « primitiva », di gesti, di riti, di attività (come quelle collegate, per esempio, al mito delle origini) implica un atteggiamento culturale di fronte al tempo, al trascorrere del tempo. È chiaro che per popolazioni di questo tipo c'è stato ad un certo momento (non sappiamo quando, ma potremmo individuarlo anche in un qualsiasi giorno o momento della loro esistenza) un'accettazione della dimensione extratemporale nella loro storia, ma questa dimensione era senza dubbio diversa nei tempi più vicini al fatto «mitico» narrato. In altri termini, se come dice Eliade (9), nel mito c'è sempre una parte che si riferisce all'azione « creativa » e « originale » degli dei, e una parte che è invece « mitizzazione » di fatti avvenuti, è chiaro che tanto maggiore è la distanza dal fatto, tanto più la ripetizione mitica influisce sull'atteggiamento culturale di una popolazione (10).

(9) M. ELIADE, Mito e realtà, Boria, Torino 1966, p. 138.(10) A livello psicologico ben sappiamo come la ripetizione di un

atteggiamento di fronte ad una situazione, rafforzi questo stesso atteggiamento,

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Si potrebbe del resto fare un'esemplificazione di questo genere per l'attesa della parusia del Cristo nei primi tempi del cristianesimo. Il ritorno del Cristo, pensato come « storico », cioè come possibile in un determinato anche se non conosciuto momento dai primi cristiani, induceva ad un certo atteggiamento di fronte alla vita e alla stessa realtà storica. Quando, col passare del tempo, il ritorno del Cristo, da fatto atteso storicamente, è diventato motivo « escatologico » (valutabile teologicamente), ed ha perso la dimensione storica, è diventato un fattore fondamentale dell'atteggiamento cristiano di fronte alla vita, da cui si può dire discenda, per esempio, tutta l'impostazione del Concilio Vaticano II (ll).

Questo non significa che il motivo escatologico è semplicemente scaturito dal non avvenuto ritorno del Cristo; ma che il tempo, sia nel suo aspetto di « passato » (la sempre maggiore lontananza dal Cristo storico), sia nel suo aspetto di «durata» (l'accumularsi di nuovi continui dati teologici, ascetici, psicologici, politici sul « messaggio » cristiano) ha portato ad una diversa valutazione del ritorno del Cristo.

In termini un po' diversi, e forse con una sfumatura di significato diverso, è questa la posizione del Dupront, quando dice: « Il presente è indiscutibilmente il livello di misura della durata; anzi soltanto in esso può operarsi la partizione liberatrice fra ciò che è esaurito o morto nella dinamica delle continuità e ciò che al contrario ha bisogno di vivere. Ma per la salute e l'equilibrio dei gruppi umani nella società attuale, e anche per la loro conoscenza, è fondamentale sapere da quanto tempo durano forme, abitudini, valori, sacralità, e come si siano imposti e contro che cosa. La datazione storica delle forme nel loro confronto con il presente è per qualsiasi società un'analisi dei suoi segreti vitali. Quale misura delle « tradizioni » è possibile senza la storia? Queste tradizioni, che una certa antropologia troppo spesso raccoglie in una sorta di sintesi extratemporale, devono evidentemente essere valutate nella loro durata, se si vuole discernere fino nel mondo attuale lo stato d'animo e di vita che esse rappresentano. In ogni visione della vita presente dei gruppi

cosí che si forma un circolo vizioso: l'atteggiamento giustifica la ripetizione, e la ripetizione dà consistenza all'atteggiamento. (ll) Solo perché il ritorno del Cristo è proiettato in un tempo indefinito e finale, è importante che i cristiani lavorino alla formazione della realtà terrena.

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umani bisogna costruire, per una conoscenza utile a coloro cui si intenda dare aiuto, una scala delle durate vissute, quasi una chiaroveggenza dei meccanismi e delle fonti d'esistenza» (12). Tuttavia bisogna riconoscere che solo con l'apporto degli antropologi, e cioè con il loro immergersi in una dimensione culturale del tempo diversa dalla nostra, e solo attraverso il contatto con le culture « primitive », noi abbiamo cominciato a capire in profondità che cosa sia il tempo nella nostra cultura, e quindi a « padroneggiarlo » come elemento culturale nella ricerca. Abbiamo cioè finalmente capito la « categoria » del tempo, già additata da Kant, ma non più come concetto « filosofico », usabile e usato da noi e quindi dipendente da noi, ma come « limite » psicologico e culturale; il contatto con un'altra categoria del tempo, ci ha permesso cioè di intravedere quel « limite » senza il quale, come dicevamo, non ci è possibile conoscere.

L'approccio antropologico è perciò un approccio che implica il desiderio di comprendere l'uomo, l'uomo nel suo «mistero», nella sua realtà esistenziale (quotidiana), l'uomo che è nella storia perché è nella « cultura »: a formare una cultura contribuisce indubbiamente la storia, ma a «provocare » la storia (nel senso che abbiamo detto appartenere al ricercatore occidentale) contribuisce la cultura.

Con questo non si intende affermare che l'antropologia aspiri a conoscere l'individuo in sé e per sé, ma che l'antropologia si sforza di conoscere l'uomo in quanto vive nel quotidiano, nella cultura, nella storia, pur non esaurendovisi mai; l'uomo infatti è sempre proiettato al di là e al di sopra delle esperienze di cui è portatore (13). La storia dunque conosce l'uomo perché lo « ferma » in un momento preciso, in un accadimento, o in una successione di accadimenti, che solo l'occhio dello storico vede come concatenantesi fra loro; l'antropologia conosce l'uomo (14), come « portatore » di questi accadimenti, ed insieme portatore di innumerevoli altri accadimenti, che risultano dalla fusione dei dati con cui l'individuo è inserito in una cultura, in un determinato momento

(12) A. DUPRONT, L'Acculturazione, cit., p. 48.(13) Cfr. a questo proposito P. PIOVANI: a Antropologismo e

antropologismo », Rassegna di Sociologia, VII, ott. 1966, 4, p. 523-545.(14) O meglio si sforza di conoscerlo, ma con l'assoluta consapevolezza di usare

alcune possibili « chiavi », che non può e non deve considerare come le uniche.

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« storico » di quella cultura, momento storico che implica ciò che quella cultura è già stata e ciò che quella cultura tende ad essere.

3. Il problema del metodo.

L'antropologo, in fondo, è sollecitato da una particolare vocazione, che si può probabilmente individuare anche in un non completo « adattamento » alla sua propria cultura. Questo fortunato non completo adattamento gli permette una « distanza » dalla sua cultura che lo libera da eccessivi conformismi, e lo rende straordinariamente « adatto » a capire e ad amare altre culture. Potrebbe esserci qui l'obiezione che un'affinità psicologica o intellettuale da parte del ricercatore possa portarlo a degli errori di valutazione, a dare importanza a ciò che forse non ne ha, o a sottovalutare elementi che forse sarebbero importanti, ecc.

Questo pericolo infatti esiste; riteniamo però che sia più onesto, da parte dell'antropologo, riconoscere questo pericolo, e guardarsene, piuttosto che studiare e tentare di capire culture psicologicamente troppo lontane da lui (si tratta in ogni caso come è chiaro, di una « distanza » psicologica che può non coincidere affatto con una distanza spaziale o temporale effettiva).

In questo senso l'osservazione partecipante è un metodo che presenta qualche rischio. Quando l'antropologo si immedesima nelle culture che studia, non è forse sufficiente quel distacco dalla sua propria cultura di cui parlavamo, a garantire l'obiettività della sua osservazione; perché, se è possibile, con un atto di consapevole volontà allontanarsi dai propri tratti culturali, è invece molto difficile liberarsi dei propri tratti psicologici. Potrebbe quindi avvenire che nell'osservazione partecipante l'antropologo finisse col «proiettare » inconsciamente i propri desideri più profondi, quell'immagine ideale di sé, e della « cultura » che è implicita nella immagine di sé, sulla cultura che sta osservando.

Non è forse anche per questo che l'antropologo occidentale, che vede profondamente disarmonica la sua cultura, tende a vedere come « armoniche » le culture lontane dalla sua? Alcuni pericoli della ricerca antropologica possono però essere superati proprio per mezzo della storia (almeno quando

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questa parla nei suoi documenti). Lo studioso onesto con se stesso e con l'oggetto del suo studio farà i conti con la storia (e sono conti sempre estremamente rigorosi) ogni qual volta avrà individuato un qualsiasi elemento che gii sembri rilevante nell'analisi di una cultura.

Lo studio di una cultura documentata nella storia permette infatti di vederla nella dimensione del tempo, nascere, strutturarsi, trasformarsi, logorarsi e a volte morire, ed è la presenza di questo arco di sviluppo che raggiunge la soglia percettiva dell'antropologo, che gli dà anche la possibilità di verificare le sue ipotesi con maggiore sicurezza che non l'osservazione continuata di una realtà quotidiana che ovviamente sembra sempre uguale, perché i cambiamenti sono impercettibili.

Si possono quindi fare dei conti con la storia, e quando si è in dubbio fra un'« intuizione » di carattere culturale e un dato storico, si può approfondire fino all'estremo possibile il dato storico, avallandolo con altri dati storici. Cosí nella nostra ricerca sulla cultura penitenziale, si è potuto notare che molti storici, pur riferendosi a fenomeni come « predicazione di penitenza», vita apostolica e povera, confraternite di penitenza, ecc., non si sono soffermati a chiedersi in definitiva cosa significasse il termine « penitenza », dandone per scontata l'accezione ascetica corrente.

Tutto un periodo storico invece, appare sotto una luce diversa, quando si individui nella penitenza un orientamento culturale, e certamente non è l'aver notato una molteplicità di fenomeni penitenziali che può convincere dell'esistenza di un tale orientamento, quanto l'avervi intravisto un valore « primario », che è alla base dei vari fenomeni, intersecantesi e interagenti fra loro. Non è quindi la conoscenza di una serie di fenomeni (anche se naturalmente questa conoscenza è indispensabile) a poter far comprendere il fenomeno « cultura », ma un angolo visuale diverso, quello cioè che guarda prima di tutto a quella « disposizione ad affrontare (15) la realtà » che rappresenta il nucleo centrale della definizione di cultura.

(15) Anche se a noi il termine affrontare non sembra il più adeguato a definire l'essere nel mondo dell'uomo. Sembrerebbe implicita infatti, in tale termine, l'esistenza di due realtà contrastanti e contrapposte, mentre noi siamo profondamente convinti che l'atteggiamento primario dell'uomo è piuttosto quello di una immediata strumentalizzazione e assunzione significativa della realtà. Solo dopo avere dato

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Il problema, indubbiamente grave per l'antropologia, è quello di accettare l'idea che ogni cultura va « colta » in particolare modo, con particolare sensibilità da parte del ricercatore, e che sarebbe illusorio tentare di applicare a tutte le culture un sistema metodologico e uno schema concettuale uniforme. Questo non significa rinunciare a ogni metodo, ad ogni tentativo di « sistema », ma piuttosto mettersi psicologicamente e intellettualmente da parte del ricercatore in uno stato d'animo di assoluta « disponibilità » verso la cultura che si vuole studiare. Compito dell'antropologo è ricostruire l'ordito di una cultura, in cui innumerevoli fili si intersecano, non sempre formando un disegno riconoscibile, perché moltissime trame rimangono incompiute e moltissimi fili si disperdono e muoiono.

In molti casi non è neanche possibile individuare l'ordito principale. Forse è un'illusione, dettata dalla sempre rinnovantesi speranza dell'uomo di riuscire a cogliersi nella sua essenza, quella di poter stabilire una « forma » essenziale di una cultura, ove si consideri come essenziale quella «prevalente », quella « tipica », quella più « partecipata » dai suoi membri. Se è necessario studiare una cultura come un'unità integrale (16) bisogna però guardarsi dal credere che tale tipo di studio implichi che l'oggetto è un tutto. Un oggetto di studio infinitamente complesso come una cultura va percepito dall'antropologo come un tutto, perché è implicito nel concetto di cultura quello di globalità, in cui determinati fenomeni, determinati elementi culturali si « configurano » in modo saliente, tale da determinare il particolare « volto » di una cultura.

Che esistano in una cultura delle pluralità di configurazioni ci sembra indubbio; però non si può contestare il fatto che alcune culture si presentano all'occhio dell'antropologo con una configurazione emergente su altre configurazioni che sembrano rimanere in secondo piano.

È necessaria perciò una visione « stratigrafica » di una cultura, e simultaneamente una visione della superficie che le dà « figura ». Questo non significa che la configurazione

significato alle cose, le cose diventano « oggetto », e come tali possono essere affrontate.

(16) F. BOAS, «The Methods of Ethnology », American Anthro-pologist, XXII, 1920, pp. 284-86; cfr. anche P. FILIASI-CARCANO, « Importanza e struttura dell'antropologia », cit., p. 45.

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emergente debba, proprio in quanto emergente, anche avere un carattere globale, debba cioè caratterizzare l'intera cultura. Si è potuto notare, per esempio, nella presente ricerca, che alcune configurazioni emergenti possono avere una base ristrettissima di partecipazione effettiva da parte dei membri di una cultura, mentre può accadere anche che siano condivise dalla maggioranza dei membri solo in alcuni aspetti parziali. Cosi, per esempio, nel tentare di mettere in luce quella configurazione emergente nella cultura italiana dal 1000 al 1400, che abbiamo chiamato cultura « penitenziale », si è potuto notare che la « penitenza », come modus vivendi culturale, veniva interpretata e sentita nella sua essenza totale da alcuni strati della popolazione e da certi membri di essa, mentre altri gruppi e altri membri ne vivevano e ne sentivano come propri soltanto aspetti parziali o livelli diversi. La Chiesa, istituzionalizzando la predicazione di penitenza, la riduceva ad esortazione morale, e limitava molto perciò la sua carica di « totalità », ma faceva in tal modo defluire alcuni aspetti del « focus » penitenziale su pratiche devozionali, che diventando a poco a poco istituzioni, venivano a loro volta assorbite e fatte proprie da gruppi molto più estesi. In altre parole, aspetti limitati o deformati della cultura penitenziale investono e caratterizzano tutte le classi sociali, tutta la comunità e l'area presa in esame, ma l'essenza dell'atteggiamento culturale penitenziale è vissuta e sentita nella sua totalità da gruppi meno estesi (anche se molto numerosi); praticamente il messaggio penitenziale viene percepito e vissuto come tale dalle popolazioni cui viene predicato, cioè proprio dagli strati sociali più informi, meno strutturati, ed è quindi per questi strati soltanto che si potrebbe parlare di una « cultura » penitenziale, cioè di un atteggiamento condiviso di fronte alla realtà. Ma aspetti parziali della cultura penitenziale, o interpretazioni deformate della sua essenza, vengono percepiti anche dagli altri strati della popolazione; cosí per esempio il pellegrinaggio, che viene vissuto e attuato prima di tutto nel suo significato « assoluto », di simbolo di vita; la Chiesa lo codifica, regolamentandolo, attribuendogli indulgenze e usandolo come disciplina penitenziale, e a poco a poco inevitabilmente lo depaupera cosí del suo significato più vero e più profondo e gli assegna una funzione strumentale precisa.Si capovolge da questo punto di vista la normale prospettiva

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della organizzazione di una cultura: il formarsi di una istituzione non starebbe a significare la presenza di un tratto culturale, quanto piuttosto la sua distorsione e il suo progressivo logoramento; anche se la istituzionalizzazione a sua volta agisce sui gruppi sociali e favorisce l'uniformità culturale. È in base a questi motivi che non ci è sembrato utile servirci nella ricerca di uno schema concettuale come quello di ethos, sebbene l'ethos come « tono affettivo fondamentale della vita » potesse sembrare il più adatto a studiare una cultura come quella medioevale, profondamente caratterizzata sul piano affettivo. Quando si parla di ethos di una cultura ci si riferisce alla sua «qualità totale... ossia al sistema di ideali e di valori che dominano la cultura stessa e tendono quindi a controllare i tipi di comportamento dei suoi membri (17) ». Ma è stato proprio questo riferimento alla « qualità totale », che ci ha trattenuto dal servirci di questo concetto. Perché uno schema concettuale si va via via formando contemporaneamente allo studio e alla conoscenza di un determinato oggetto, e finisce con l'aderirvi. Se, per esempio, il concetto di ethos viene usato per comprendere e descrivere la cultura di una piccola comunità, allora forse si può ammettere il passaggio di pensiero implicato nella definizione: da « qualità totale...» a «sistema di ideali e di valori che dominano la cultura». Ma è difficile tentare di descrivere culture complesse in questi termini.

4. Antropologia e psicologia.

Un'altra strada è stata esplicitamente evitata, anche se poteva sembrare in una prima approssimazione abbastanza utile per il nostro tipo di ricerca: quella di ridurre a motivazioni fondamentalmente psicologiche la cultura penitenziale. Tuttavia qui bisogna riconoscere che, anche senza aderire del tutto a teorie che ricercano soltanto motivazioni inconscie nel formarsi di una cultura, in un primo momento questa strada è sembrata la più adeguata, soprattutto per alcuni aspetti della cultura penitenziale che facilmente si prestano ad interpretazioni di carattere psicologico, o psicanalitico.

(17) A. L. KROEBER, Anthropology, Harcourt Brace, New York, 1948, p. 294.

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Istituzioni come quelle delle confraternite dei « flagellanti», la ricerca voluta e ossessiva della penitenza come « sofferenza », specialmente fisica; meccanismi psicologici facilmente identificabili come « sublimazione », e che si ritrovano continuamente nella cultura penitenziale (tutto il fenomeno della Via Crucis come simbolo della vita potrebbe sottostare a questa etichetta), potevano indurre ad una spiegazione psicologica della cultura in esame. Ma anche se gli elementi dichiaratamente psicologici sono stati assunti, come si vedrà, per comprendere alcuni fenomeni penitenziali, la motivazione psicologica è stata sempre reinserita nel contesto culturale.

La tendenza a ricostruire una cultura solo su basi psicologiche conduce infatti, a nostro giudizio, su una strada troppo ristretta ed eccessivamente semplificatrice. Ogni teoria « riduzionista » finisce del resto, col non poter dar conto dell'umano; il « null'altro che » non si addice a quel fenomeno indicibilmente complesso che è l'uomo. Ma addirittura sarebbe un controsenso, da parte dell'antropologo, ricercare le cause prime di una cultura a livello soltanto psicologico, quando è merito proprio dell'antropologia aver messo l'accento sulla cultura, superando cosí l'angusto spazio in cui si muovono gli psicologi nella conoscenza dell'uomo. In altri termini la definizione stessa di cultura come « atteggiamento di fronte alla realtà » è già definizione del fenomeno uomo, poiché appunto in questo l'uomo è uomo, e non animale, nell'assumere la vita non come un dato ma come una «possibilità», nel dare cioè « significato » alla vita, e nell'assumere di conseguenza un atteggiamento di fronte ad essa.

Ciò significa che l'uomo crea sempre una cultura, e che sotto certi aspetti uomo e cultura sono la stessa cosa. Quello che l'antropologia studia dunque è il differente atteggiamento che determinati aggruppamenti umani prendono di fronte alla realtà, e che si manifestano nelle diverse culture.

L'individuo è senza dubbio influenzato, a livello psicologico, dalla cultura cui partecipa; come pure la somma di molteplici e convergenti stimolazioni psicologiche individuali finisce per influenzare la cultura in cui avvengono; esiste cioè un interscambio continuo fra psicologia individuale e cultura, ma è proprio l'esistenza di questo interscambio che dimostra la irriducibilità della cultura alla psicologia.

Del resto è proprio nell'ambito dello spessore temporale che si coglie la discontinuità fra di esse. L'individuo si trova

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a vivere in un determinato brevissimo momento di una cultura, vi partecipa e vi reagisce; la cultura infatti è uno stimolo che può anche ottenere una risposta negativa da parte dell'individuo (problema del disadattamento), ma quei determinato individuo continua a far parte della sua cultura, e contribuisce sia pure impercettibilmente a modificarla.

La cultura invece è stabile (un'istituzione, un movimento passeggero possono appartenere alla storia, ma non « fanno » esplicitamente cultura), si protrae nel tempo, è dotata di un'enorme vischiosità, che persiste e sopravvive, sia pure logorandosi, a numerose generazioni. È questa differente durata che crea le condizioni di una simultanea e pur non omogenea appartenenza di un individuo a una cultura. Nel continuum temporale di una cultura ogni singolo individuo si inserisce in un momento diverso, e con un'« accelerazione » diversa. Questa discontinuità temporale ci sembra sufficiente a far escludere una riduzione della cultura a motivazioni esclusivamente psicologiche. Né d'altra parte si può superare questa difficoltà accettando l'ipotesi di una «personalità di base» (18), ipotesi che appunto tenderebbe a dare una diversa dimensione temporale alla psicologia individuale. Perché lo spessore temporale di una cultura è tale da far si che noi quasi sempre non ci accorgiamo delle continue, lentissime modificazioni che avvengono nel suo interno, ma l'individuo che si inserisce in un determinato momento nella vita di una cultura è stimolato, influenzato in modo sempre diverso dagli altri individui e reagisce di conseguenza. Di nuovo gioca qui il discorso sulla irriducibilità della cultura alla psicologia; postulare un assoluto condizionamento degli individui, che vivono nell'ambito di una cultura, significa semplificare troppo la complessità del fenomeno umano. Gli individui portatori di una cultura possono non accorgersi affatto delle modifiche che con la loro stessa esistenza apportano alla cultura in cui vivono, giorno per giorno, momento per momento; ma queste modifiche si sommano, interagiscono, si intersecano. La complessità della dinamica all'interno di una cultura è tale che noi possiamo solo tentare di immaginarla, e non possiamo valutarne

(18) Secondo il noto pensiero di Linton e di Kardiner, la matrice psicologica comune ad un certo gruppo di individui, dalla quale si sviluppano i tratti del carattere (cfr. A. KARDINER- R. LINTON, L'individuo e la sua società, Bompiani, Milano, 1965).

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le conseguenze, se non quando queste acquistano un determinato peso, una qualità di « soglia ». Ma accettare il concetto di una « soglia » che ci permetta di « percepire » il fatto culturale, non significa negare che il fatto esista anche al di là della nostra soglia percettiva.

Concludendo dobbiamo dire che la difficoltà di scegliere fra i diversi schemi concettuali che l'antropologia oggi offre al ricercatore, è stata da noi superata praticamente col non operare nessuna scelta preliminare.

È stato soltanto durante il corso della ricerca che la « penitenza » si è imposta come un « valore primario », mentre altri concetti correnti in antropologia come tema, tratto, schema, ecc. sono stati liberamente impiegati quando sembravano aderenti alla situazione da descrivere.

L'angoscia del significato, angoscia che ci accomuna più di qualsiasi altro dato al nostro universo culturale, e che in un primo momento ci faceva sembrare quasi impossibile la « comunicazione » del nostro lavoro, è stata superata all'improvviso, quando ci siamo resi conto che fa parte dell'essenza del concetto di cultura il dover imporsi da sé, in maniera unica, e nel suo significato fondamentale, all'occhio e allo spirito del ricercatore. Con questo non intendiamo dire che ci siamo affidati a un'intuizione di tipo « artistico », se non in quanto ben sappiamo quanto metodo, quanta tecnica, quanta perseverante ricerca di sistematicità siano inclusi nella creazione dell'opera d'arte.

Ciò che crediamo invece fermamente, e ciò che conta, nella comunicazione fra gli uomini, è la possibilità di spiegarsi e di rendere conto del proprio linguaggio, rendersi capaci di intendere l'altro e noi stessi, avere coscienza cioè del significato. E questo significato può arrivare agli altri come a noi, in modo omogeneo, solo se si impone, anche agli altri, lungo il percorso di studio, di conoscenza, di meditazione che noi stessi abbiamo fatto.

Il concetto di cultura penitenziale, che a noi è sembrato ad un certo momento il più aderente alla realtà umana che stavamo studiando, non esclude perciò in assoluto altri concetti e altre chiavi interpretative del medioevo italiano; ma a noi sembra che il valore penitenziale, che ci siamo sforzati di mettere in luce, sia quello che più di qualsiasi altro ci ha

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permesso di raggiungere una profonda approssimazione al vissuto, non un comodo schema per padroneggiare il passato, ma un tentativo (e per noi una vera esperienza) di comunicare con un mondo reale e con degli uomini vivi.

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Capitolo 1

1. La predicazione, funzione ufficiale della Chiesa.

Fino al dodicesimo secolo il predicatore ordinario è il Vescovo.

Lo era in effetti fino dai tempi degli Apostoli e ancora nel XII sec. nessuno metteva in dubbio questa prerogativa, ad eccezione di qualche « eretico », il quale in ogni caso non tanto contestava questo diritto, ma il fatto che esso fosse inteso in senso esclusivistico.

D'altra parte la predicazione è ritenuta un dovere. Secondo gli avvertimenti pastorali del tempo il vescovo non a-vrebbe dovuto conoscere altra occupazione; tutta la sua vita avrebbe dovuto essere divisa fra lo studio della sacra scrittura, la preghiera e l'annuncio del Vangelo (1).

In genere però il compito della predicazione e dell'insegnamento viene affidato dal vescovo agli abati, ai superiori dei vari conventi e ai parroci e curati di campagna, ma è sottinteso che questo avviene perché il vescovo non può da solo svolgere tale compito; si tratta perciò di una vera e propria «delega» ufficiale che demanda a determinate persone un incarico pastorale che propriamente spetterebbe solo al vescovo.

Il luogo della predicazione è ancora la cattedrale; qui si svolge ogni domenica e ogni giorno di festa l'omelia, che in pratica fa parte dell'azione liturgica. In realtà però la predicazione è molto più frequente nei chiostri e nei monasteri; ed è appunto in questo ambiente che si sono andate a poco a poco raccogliendo la maggior parte delle collezioni di sermoni che sono giunte fino ad oggi (2).

(l) « Episcopus nullam rei familiaris curam ad se revocet, sed lectioni, orationi, et verbi Dei praedicationi tantummodo vacet». Decretum Magistri Gratiani, I Pars, dist. LXXXVIII, c. VI.

(2) Anche perché l'esistenza degli scriptoria nei monasteri rendeva più facile l'opera di trascrizione.

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Per quanto riguarda la predicazione nelle parrocchie di campagna, esistevano da lungo tempo delle ordinanze; ma una parte non era applicata, l'altra era caduta nell'oblio (3).

Alla fine del dodicesimo secolo i consigli provinciali si accontentavano di ricordare ai sacerdoti che dovevano far recitare al popolo il Padre nostro, il Credo e l'Ave Maria, e spiegargliene il significato (4).

La grave decadenza della predicazione datava però da molto tempo. Nell'Omelia 17a sui Vangeli, rivolta ai Vescovi riuniti nella Basilica Lateranense, già Gregorio Magno denunciava la gravità della situazione: «Ecco che il mondo è pieno di sacerdoti, e tuttavia nelle messe di Dio, troppo raramente si trova colui che lavori, perché abbracciamo l'ufficio sacerdotale, ma non ne adempiamo i doveri. Ma riflettete, fratelli carissimi, riflettete a ciò che si dice: Pregate il padrone delle messi che mandi operai per la sua mietitura. Voi dovete pregare per noi, affinché possiamo lavorare degnamente per voi; affinché la nostra lingua non si riposi dall'esortare; affinché dopo aver assunto l'ufficio della predicazione, non ci avvenga di esser condannati al tribunale del giusto Giudice, per aver taciuto. Spesso, infatti, la lingua dei predicatori è legata per la loro negligenza; spesso invece è colpa dei dipendenti, se quelli che presiedono sottraggono loro la parola della predicazione. Rimane legata la lingua dei predicatori, per la loro negligenza, quando si verifica ciò che dice il Salmista: « al peccatore, poi, dice Dio: Perché stai a recitare i miei comandamenti? ». E ancora la voce dei predicatori è ostacolata dai vizi dei dipendenti, come il Signore dice ad Ezechiele: « E farò che la tua lingua si attacchi al palato, e tu sarai muto, e non più come un uomo che rimprovera, perché è una casa ribelle ». È come se dicesse apertamente: ti è tolta la parola della predicazione, perchè il popolo non è degno di ascoltare

(3) La predicazione regolare della domenica che in certi momenti e in alcune regioni non era stata mai praticata, non fu imposta che dal Concilio di Trento ad ogni parroco. Concil. Trident., Sessio 5, Decr. secundum, n. 11, in Conciliorum oecumenicorum decreta, edit. Centro di documentazione. Istituto per le Scienze religiose, Herder, 1962, p. 645.

(4) « Exhortentur populum semper presbyteri ad dicendam orationem dominicam, et Credo in Deum, et salutationem beatae Virginis », Odonis Episcopi Parisiensis Synodicae Constitutiones, in J. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Venetiis, 1778, XXII, col. 681.

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le mie esortazioni di verità, avendomi esasperato con le sue colpe. Non è facile determinare per quale vizio venga sottratta al predicatore la parola della predicazione; quello che si sa con certezza è che il silenzio del Pastore qualche volta è dannoso anche a lui, ai sudditi lo è sempre» (3).

2. La « pessima taciturnitas » del clero medioevale.

Carlo Magno aveva tentato, nei primi dell'Ottocento, di scuotere lo stato di inerzia dei predicatori con diversi provvedimenti, quali quello di fissare gli argomenti, gli scopi e i limiti della predicazione, ordinando nel concilio di Tours dell'anno 813 ai predicatori di tradurre i sermoni in lingua romanica o germanica affinché tutti i fedeli potessero comprendere quello che veniva detto. (6) Ma le condizioni della cultura ecclesiastica in questo periodo erano tali che era ben difficile, se non impossibile, che essi potessero corrispondere convenientemente ai desideri dell'Imperatore. Il rilassamento dei costumi e la grave decadenza morale del clero giustificavano il pessimismo di coloro che si preoccupavano dello stato della predicazione. Pietro il Cantore chiamava «pessima taciturnitas» l'abitudine del clero di non predicare, equiparando il silenzio dei predicatori ai cani muti di Isaia (56, 10) (7). Bernardo da Chiaravalle gridava: «Avessi almeno qualche pastore istruito ed esemplare, a presiedere le chiese di Dio ! (8) Alano da Lilla mette ancora più chiaramente il dito sulla piaga: come potrebbero essi predicare? Non potrebbero in tal caso che pronunciare la loro condanna !, ed afferma: « O vilis ignorantia,

(5) XL Homiliarum in Evangelia, lib. I, hom. 17, n. 3, in Patrologia Latina, 76, c. 1139.

(6) « Visum est unanimitati nostrae, ut quilibet episcopus habeat homilias continentes necessarias admonitiones, quibus subiecti erudiantur, id est de fide catholica, prout capere possint, de perpetua retributione bonorum, et aeterna damnatione malorum; de resurrectione quoque futura, et ultimo judicio, et quibus operibus possit promereri beata vita, quibusve excludi. Et ut easdem homilias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam, aut Theotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur ». Concilium Turonense III, c. XVII, in MANSI, Sacr. Conc., XIV, Venetiis, 1769, c. 85.(7) Verbum abbreviatum, cap. 62, in PL, 205, c. 189 B.(8) Epistolae CCL, n. 2, in PL, 182, c. 450.

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abominabilis insipientia, quae praelato imponit silentium, canem id est pastorem reddit mutum; haec est « calamites » quae in os canis proiecta aufert latratum. Praelati nostri temporis prius sedent in cathedra, quam erudiantur sub ferula; prius suscipiunt honorem magisterii, quavi sustineant onus discipuli. Isti volunt praeesse, non prodesse, pretium honoris, non pondus honeris » (9).

Qualche vantaggio si trasse tuttavia dallo zelo di Carlo dato che, per obbedire in qualche modo ai suoi ordini, ci fu chi ebbe l'idea di preparare delle raccolte di omelie e di sermoni ad uso dei predicatori più pigri o più incolti. Non che l'idea di ripetere le prediche altrui non fosse già stata abbondantemente sfruttata nei secoli precedenti, anzi; traduzioni latine delle omelie del Crisostomo e di Origene erano già state fatte nel sec. VI, e nei primi secoli del medioevo sembra che veramente si predicasse seguendo la traccia o addirittura la lettera di sermoni precedenti. Dice il Muratori che: « Se qualcuno del clero predicava al popolo, non si serviva se non dei sermoni degli antichi, dei quali le Chiese maggiori conservavano qualche raccolta; oppure esercitandosi in altre forme di letteratura, non facea udire se non cose triviali o anche puerili» (10).

Tuttavia il moltiplicarsi di raccolte che ebbe inizio con Carlo Magno, fu dettato da uno spirito diverso, in quanto ebbe dichiaratamente l'intento di servire alla predicazione, e il famoso Homiliarius di Paolo Diacono dette quasi certamente il via alla compilazione di quelle antologie ad uso dei predicatori che dovevano avere grandissimo successo nei secoli seguenti. Si comincia cioè a comprendere la necessità di fornire della materia prima ai predicatori, e quando la predicazione dal 1200 in poi divenne uno dei fattori culturali e sociali più importanti, dalla compilazione di antologie e di schemi di prediche si passò alla compilazione di vere e proprie enciclopedie, nelle quali si riversava, ad uso del predicatore, tutta la scienza e il sapere del tempo (11). Il clero secolare d'altra

(9) Summa de arte praedicatoria, c. XXXVIII, in PL, 210, c. 184.(10) L. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, Venetiis, 1753.(11) Fino alla fine del medioevo si composero le Artes praedicandi, e furono continuamente ricopiate le raccolte ormai classiche delle Omelie dei Padri; inoltre si composero raccolte di Exempla (la stessa Leggenda Aurea fu spesso usata dai predicatori come una raccolta di esempi e di aneddoti sulla vita dei Santi).

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parte non si preoccupava di comporre sermoni. Fra il 12° e il 13°

sec. la maggior parte dei predicatori che ci hanno lasciato delle testimonianze della loro attività appartenevano al monachesimo.

I vescovi, come abbiamo visto, non avevano il tempo di farlo, e lo facevano fare da altri; oppure si accontentavano di recitare un'omelia patristica. C'erano dei vescovi, anzi, che si facevano scrupolo di non dire nulla di personale; cosa questa, del resto, che faceva parte della mentalità letteraria dell'epoca.

I migliori sermoni di questo periodo, nati nei chiostri e fatti per i chiostri, non potevano essere minimamente utili per edificare ed istruire i semplici fedeli. Pieni di sottigliezze e di interminabili allegorie, comprensibili solo per i chierici e i monaci, erano per giunta recitati quasi sempre in latino, sebbene fosse obbligatorio di tradurre in volgare, come abbiamo visto, il modello patristico. Le parole dei vescovi quindi servivano ben poco ai loro uditori, e le condizioni di abbandono e di ignoranza religiosa del popolo erano veramente gravi. Si predicava troppo poco, secondo il parere degli scrittori contemporanei, di cui abbiamo riferito qualche giudizio; e sebbene i vescovi avessero l'obbligo di procurarsi un sostituto quando non avevano la possibilità di adempiere all'ufficio della predicazione, quest'obbligo era quasi totalmente caduto in disuso, soprattutto per il fatto che i sostituti si sarebbero dovuti pagare.

Nel basso clero le cose prendevano un andamento ancora più grave. Si ritrovano qui, in maggior numero e in forma ancora più grossolana, i vizi e le manchevolezze dei vescovi; c'erano parrocchie abbandonate nelle mani di individui che non sapevano neanche leggere, spesso perché erano questi i sostituti che reclamavano i salari più bassi.

D'altra parte esistevano proibizioni assolute di far predicare chi non fosse autorizzato. Era proibito, per esempio, al parroco di lasciar predicare nella sua chiesa, e nel territorio della sua parrocchia, sacerdoti che non potessero garantire di esserlo, e che non possedessero un'autorizzazione formale del vescovo. Era pure proibito ai fedeli, sotto pena di gravi sanzioni, di ascoltare simili predicatori, e i parroci dovevano richiamare spesso l'attenzione dei fedeli all'osservanza di questo divieto.Ci si attaccava dunque rigorosamente alla missione

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regolare del predicatore, che assumeva il valore di criterio di ortodossia. Chiunque si fosse messo a predicare senza delega e senza permesso sarebbe stato senz'altro classificato come « eretico »(12).

Gli « eretici » dal canto loro si dedicavano con estremo ardore alla predicazione. I Catari davano prova in questo campo di uno zelo straordinario. Quelli che avevano ricevuto il « Consolamentum » (13), vi si consacravano subito, e con la conoscenza poco comune che essi possedevano del Nuovo Testamento, e con l'esempio di una vita povera e modesta si conquistavano le simpatie del popolo, che non poteva fare a meno di confrontare il comportamento di costoro con la vita dei Vescovi che era spesso ben poco edificante.

Il successo dei Valdesi era altrettanto notevole. A differenza dei Catari, i Valdesi erano di solito persone poco istruite, che agivano più col loro esempio che con insegnamenti sottili, ma per lo zelo nel diffondere le loro idee non si lasciavano battere da nessuno. Appena Valdo aveva guadagnato qualche discepolo, che voleva imitare il Cristo e gli apostoli nella perfetta povertà, lo mandava, uomo o donna che fosse, a predicare nelle borgate vicine. Essi avevano l'obbligo di parlare a tutti, nelle strade e nelle piazze, leggendo e spiegando la Bibbia in lingua volgare. D'altra parte era loro assoluta convinzione che solo i cristiani che vivevano, secondo l'esempio degli apostoli, in povertà perfetta e senza alcun possesso, avevano il diritto di predicare, e ne davano testimonianza rinunciando ai loro beni per vivere di mendicità (14).

Abbiamo dunque nei Catari e nei Valdesi dei campioni della predicazione laica. Ma che, in effetti, i laici avessero il diritto di predicare, era allora cosa molto discussa, anche in diversi ambienti ortodossi. Si erano poi gettati in questa disputa anche i monaci. Con il termine « laico » si intendeva allora la grande massa, la maggioranza del popolo « ignorante », opponendo il termine laico a quello di «letterato»; ma si

(12) Lucio III, Decretum contra Haereticos (1181), in MANSI, cit., XXII, 447, Venezia, 1788.

(13) Il battesimo dello spirito, unico sacramento dei Catari, che veniva conferito ai « perfetti » con l'imposizione delle mani e la consegna del Pater noster come preghiera perenne.

(14) G. GONNET, Il valdismo medioevale, Torre Pellice, 1942, e anche A. DONDAINE, Aux origines du valdéisme. Une profession de foi de Valdès, in Archivum Fratrum Praedic, 16 (1946), pp. 191-235.

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intendeva pure la maggioranza dei monaci che non avevano ricevuto l'ordine sacro (15). In origine i monaci-sacerdoti erano rari nei chiostri; ma dalla fine del mille, sotto l'influenza del nuovo ideale di attività apostolica e pastorale, la fisionomia del vecchio ordine laico si era andata sempre più trasformando. Il numero dei monaci che si faceva consacrare era in continuo aumento, anche perché i vescovi vi trovavano facilmente uomini già preparati. Tuttavia sia nelle file del clero secolare che nei chiostri si cominciò a levare la voce che voleva proibire al monaco ogni specie di attività pastorale, e soprattutto la predicazione. Il monaco era morto al mondo e non vi doveva ritornare, neanche per apostolato (16). Suonava del resto allo stesso modo il motto molto in voga: « Monachus praedicare non audeat ». Si andava cosí distinguendo fra l'esortazione fraterna, alla quale ogni cristiano è tenuto, e quindi anche il monaco, e la predicazione pubblica, che spetta soltanto ai vescovi, agli abati e ai preti nelle loro chiese rispettive. C'era però chi faceva della predicazione una « missione », nel senso di una investitura sovrannaturale, e cercava quindi di giustificare la predicazione laica.

In questa duplice impostazione del problema della predicazione è già presente tutta una interpretazione dell'evangelium, che è ritenuto appunto « messaggio », e, come tale, è inteso prima di tutto come « parola annunciata », uguale in un certo senso a « predicazione ». D'altra parte la codificazione del « messaggio evangelico » da parte della chiesa gerarchica porta, come conseguenza, ad una «ufficialità» della predicazione stessa, a considerare la predicazione come una « investitura », che viene quindi assunta dalla chiesa gerarchica e da essa sola demandata a chi di dovere. Nella predicazione « libera » si può in un certo senso includere il « profetismo » (che avrà infatti, come vedremo, larghissimo posto nella predicazione penitenziale);

(15) S. Pietro (1 Pt., 2, 10) usa il vocabolo greco laós per designare l'intero popolo cristiano. Successivamente ne derivò il termine laikòs (S. CLEMENTE, I Cor., cap. 100, 40). Tertulliano lo usa già come termine tecnico per indicare i fedeli che non appartengono al clero (cfr. G. DAMIZIA, v. laico, in Enciclopedia Cattolica).

(16) «Dura, profitearis monachum, confiteris te esse mortuum. Monachus enim non est, qui non est saeculo mortuus; mortuus autem quomodo est, cuius vox foris auditur? »; RUPERTO, Altercatio monachi et clerici, quod liceat monacho praedicare, in PL, 170, 537.

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nell'altra accezione, invece, il messaggio diventa equivalente a insegnamento religioso.

Comprendiamo cosí come vi siano stati, in tutti i secoli del cristianesimo, laici e monaci predicatori, anche non investiti degli ordini maggiori. Si trattava sempre, come è chiaro, di casi straordinari, in cui una chiamata sovrannaturale sembrava confermata da miracoli e da segni eccezionali di santità o di ascetismo. Tuttavia la Chiesa richiedeva sempre che essi avessero un minimo di cultura, che conoscessero la Sacra Scrittura, si mostrassero obbedienti, e conducessero una vita apostolica perfetta. Ma anche quando venivano assolte tutte queste condizioni, la predicazione dei monaci laici era sempre rimasta qualche cosa di eccezionale, non del tutto accettata. Anche se in certi momenti la Chiesa si è mostrata più accomodante che in altri, certe concessioni venivano sempre considerate come misure momentanee e provvisorie. L'esperienza, d'altra parte, aveva dimostrato come la predicazione dei laici facilmente conducesse all'eresia, e fosse difficilmente controllabile dalle gerarchie, cosa questa che rendeva sempre più riluttante la Chiesa ad accettare l'intervento dei laici nella predicazione.

Ci sono momenti però in cui i sommovimenti religiosi della grande massa hanno bisogno di essere illuminati e guidati, ed uno dei momenti più sintomatici, da questo punto di vista, è appunto il periodo che va dalla metà dell'XI sec. alla fine del XII, in cui, anche per reazione alla ricchezza e ai vizi della Chiesa, il popolo si entusiasmava per un ideale di cristianesimo che sembrava essere quello primitivo, e per una forma di vita che veniva senz'altro definita come «apostolica ».

Il clero d'altra parte, come abbiamo visto, era sempre più incapace di esaudire i bisogni di illuminazione sociale e religiosa del popolo (17). Avveniva cosí che il desiderio di ascoltare una « parola religiosa » da parte del popolo venisse sfruttato

(17) Noi non ci occupiamo qui se non del problema della « comunicazione diretta » di un messaggio religioso; resterebbero però da studiare, e sarebbe certamente molto interessante farlo, tutti gli altri mezzi di comunicazione religiosa, che evidentemente non sono mancati nel nostro periodo. Anzi, possiamo supporre che l'incremento di Rappresentazioni sacre, di Leggende, di Racconti, ecc., non solo abbia in qualche modo supplito alla deficienza dell'insegnamento religioso, ma possa addirittura essere stato provocato da questa stessa deficienza.

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da predicatori questuanti, preti, o laici di cui era difficile attestare l'ordinazione, che armati di reliquie, autentiche o false, traversavano città e villaggi, raccogliendo, dopo qualche breve sermone, offerte in favore di chiese e ospedali, che molto spesso esistevano soltanto nell'immaginazione dei predicatori. Al suono della campana si chiamava la popolazione a radunarsi in chiesa o in una piazza, e la si esortava a dare elemosine in favore di un santo o di un'opera di carità. Se il questuante era prete o affermava di esserlo, si chiudeva la questua con la celebrazione della messa sul reliquiario. Ma l'ignoranza di alcuni di questi predicatori, e la loro cattiva condotta, provocavano spesso gravi scandali nel popolo, e tutta una serie di concilii intervenne con diversi canoni per mettere fine a questi abusi (18).

A fianco poi di questi predicatori questuanti, per i quali la predicazione non era che un mezzo di lucro, si trovano altri che « appaltavano » la predicazione in una diocesi o in una parrocchia, e versavano al loro committente una parte dei benefici acquistati per questo esercizio. Certi finivano poi col formare delle vere e proprie organizzazioni che, a prezzo fisso, assumevano l'incarico della predicazione in una parrocchia o addirittura in una provincia ecclesiastica.

Nascevano perciò facilmente i sospetti contro ogni predicazione laica, tanto che i laici venivano senz'altro definiti: «pseudo praedicatores», o «falsi praedicatores» (19).

3. « Potenza» della parola.

Tutto quanto siamo andati dicendo fino adesso, però, ci dà solo la dimensione esterna del problema; in realtà, sotto l'apparente rivendicazione ad attività ufficiali-gerarchiche, da parte dei laici, e sotto l'indubbio conflitto di potere che la Chiesa vi individua, e di cui teme i risultati, la problematica dell'uso e del significato della « parola sacra » trascende le motivazioni storiche dell'epoca che stiamo trattando, ed ha le sue radici nella fenomenologia religiosa, nella teologia cristiana,

(l8) Concilio di Parigi (forse) del 1213 e Concilio di Rouen del 1214; cfr. MANSI, cit., XXII, c. 729 (51), c. 735 (51).(l9) MANSI, cit., XXII, 846.

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oltre che nell'orientamento culturale di base, che caratterizza gli uomini degli ultimi secoli del medioevo.

Dal punto di vista della teologia cristiana, il problema può essere riassunto in questi termini. Il ieròs lògos del cristianesimo è non soltanto la « parola di Dio », ma il « comandamento divino », la « Rivelazione », e soprattutto l'« evangelium-proclamazione ». La parola sacra non designa il racconto in forma letteraria della vita di Gesú Cristo; ma prima di tutto la buona novella, il felice messaggio che proclama che è giunta la salvezza (20).

È avvenuto qualcosa di decisivo, un miracolo: è giunto il Salvatore; altro non rimane che comunicarlo alle genti; trasmettere il messaggio e l'invito alla conversione.

Tale contenuto resta l'essenziale, anche quando le raccolte evangeliche hanno preso forma biografica; non si tratta di far conoscere certi fatti, ma di « predicare » colui che è riconosciuto Signore. Per questo il Cristo è il Figlio di Dio, ma anche la Parola di Dio («Et verbum caro factum est»; Giov. 1, 14). « Praedicatio verbi Dei est Verbum Dei », afferma Karl Barth (Kirchliche Dogmatik). Praticamente nella religione cristiana sono dunque impliciti tre livelli di significato della parola sacra: « profezia », « mito », « proclamazione ».

La parola di Dio è la notifica, il messaggio della salvezza, ma è anche la salvezza stessa, quale si rivela nell'avvenimento attuale. La ripetizione della storia della salvezza (il mito che vive nella celebrazione) e l'esposizione, l'annuncio, la proclamazione della salvezza stessa sono strettamente legati e formano la « parola di Dio »; la predicazione, quindi, del messaggio, è sempre contemporaneamente un atto sacerdotale e viceversa. « L'esperienza » della salvezza è la « conversione »; la « metánoia » è il grande miracolo della nuova nascita con la quale si penetra nella sfera del trascendente in virtù dell'esperienza personalmente vissuta, perché Dio si rivela nei suoi tempi stabiliti, ha le sue epifanie; ma la prima, la più importante di queste epifanie è la parola predicata, in cui l'uomo è certo che Dio si rivela e si comunica.

Ritroviamo qui, in questo particolare aspetto della fenomenologia religiosa, la « potenza » della parola, che è presente

(20) « Foste rigenerati, non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, mediante la parola di Dio, viva e permanente » (I Pt., I. 23).

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sotto molteplici aspetti in tutte le religioni, e che raggiunge il suo vertice nel protestantesimo, in cui la parola stessa è sacramento (21).

Posto cosí il problema, ci accorgiamo che in tutto il periodo che vede nascere e svilupparsi la predicazione popolare, con le varie rivendicazioni al diritto della parola da parte dei laici, e lo stabilirsi, proprio in base ad una interpretazione del diritto a predicare, di quei movimenti, come quello Valdese e quello dei Poveri cattolici, per esempio, che di fatto vengono classificati come eretici perché non vogliono sottostare al divieto di predicare, siamo, sia pure inconsapevolmente e implicitamente, nell'ambito di una rivendicazione essenzialmente religiosa. Ma, se il profondo significato religioso, implicito nella rivendicazione della parola, non è del tutto presente e consapevole nel pensiero di colore che si fanno assertori di questo diritto, è invece intuitivamente presente nell'atteggiamento culturale di questi uomini, atteggiamento radicato in una tensione verso l'assoluto, che travalica le dighe degli ordinamenti e delle istituzioni civili e religiose, e li riassume, con la parola, a significati sacrali.

Profetismo, celebrazione, proclamazione, diventano i canali più ovvi e naturali della cultura penitenziale; sotto l'accesa e violenta disputa sul diritto alla predicazione, riemergono, vitali e prepotenti, le strutture primarie dell'uomo di fronte all'Altro. La parola, il suo significato, le varie dimensioni in cui « rivela » e « si rivela », i rappresentanti di cui si serve, tutti gli aspetti di questo essenziale modo di « porsi » dell'uomo di fronte all'Altro, sono presenti, e li possiamo facilmente individuare nella storia e nello sviluppo della cultura dei secoli che vanno dal 1100 alla fine del 1400 in Italia.

Intanto a quel livello che abbiamo detto « profetico ». Secondo la sua etimologia è un « parlatore » colui che parla «in nome di» (Dio); il suo ufficio di «rappresentante» di Dio, consiste principalmente nel discorrere. Abitualmente si suppone anche che il profeta eserciti la sua missione in maniera « estatica »; ma in realtà il profeta è semplice strumento della « potenza »; è pieno di Dio e vuoto di sé. Tutti i profeti del Vecchio Testamento, come si sa, annunciano la parola di Jahvé.

(21) Tillich parla addirittura non solo di un sacramento della parola, ma della parola scritta, che avrebbe fondato una nuova gerarchia della dottrina pura. (Religiose verwirklichung, p. 148).

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Il profeta, inoltre, parla quasi sempre suo malgrado; egli è un « chiamato »; la sua individualità è abolita, poiché il profeta è colui che ha, in qualche modo, ottenuto la potenza del linguaggio « oggettivo » (22). Ma il discorso oggettivo di colui che parla non consiste di semplici parole: la parola è anche atto.

I profeti, in quanto rappresentanti della « potenza », con i loro discorsi ne danno un'esposizione, una presentazione, come avviene chiaramente nel profetismo dell'Antico Testamento. Il fatto che nel profetismo sia incluso un concetto quale quello di « predizione » non contrasta con quanto abbiamo detto sul discorso oggettivo; poiché chi parla non adopera soltanto un semplice segno d'espressione; ma esce da se stesso, e la parola, una volta caduta, stabilisce una situazione (23).

Secondo Cassirer (24), la teoria nominalista, che considera le parole soltanto segni convenzionali, puri flatus vocis, fu soltanto effetto di riflessioni tardive, non espressione della coscienza del linguaggio, naturale, immediata. Per tale coscienza, l'« essenza » della cosa, non è designata « indirettamente » nella parola, per suo tramite, ma vi è contenuta e presente in qualche modo.

Se la parola, come dice Saussure, appartiene all'ambito di un tempo irreversibile, la parola « profetizzata » e « predicata » è soltanto l'esplicita assunzione formale, da parte di colui che parla, di questa essenza della parola. Quando gli smaliziati Fiorentini della fine del '400, al grido del Savonarola: «Ecce gladius Domini super terram», fuggivano atterriti, e si lamentavano l'un l'altro: « Questo Frataccio ci fa capitare male » (25), non facevano se non esprimere questa convinzione nella parola profetizzata. Una convinzione ben diversa da quella razionalizzazione che è implicita nel nostro pensiero, quando supponiamo che ciò che dice il profeta avvenga perchè conosce il futuro; non lo conosce, ma lo « attua », nel momento stesso in cui lo predica.

(22) G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino, 1960, p. 175 ss.

(23) Nell'Antico Testamento, per es., l'invio dei Profeti da parte di Jahvé, è in un certo senso un aut-aut. Una volta che il Profeta ha parlato, se il popolo non gli darà ascolto, la vendetta di Jahvé è sicura.(24) II pensiero mitico, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1964.(25) RIDOLFI, Vita di Gerolamo Savonarola, Belardetti, Roma, 1926.

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Non diversa del resto la situazione dello stregone. Nell'isola Isabella (Melanesia) uno stregone aveva annunciato il tempo buono. Una burrasca invece il giorno stesso gli smantellò la capanna. Nessuno pensò che si fosse sbagliato, ma si capi che nell'isola c'era un altro stregone che possedeva un «mana» più forte (26).

Si spiega cosí anche la riluttanza dei profeti, tutti vaticinanti controvoglia e quasi costretti. Il lamento di Geremia è lamento di colui che si sente strumento di una parola « potente », di una parola che, se cade, decide della situazione (27).

La riassunzione di questo fondamentale significato della parola nella predicazione penitenziale degli ultimi secoli del medioevo, porta quasi naturalmente al profetismo di un Gioacchino da Fiore e, quasi insensibilmente, all'« aspettativa », alla « tensione » verso qualcosa che « deve avvenire », che deve rivelarsi, e che solo nei suoi aspetti parziali o deteriori si identifica con la profezia spicciola, la previsione del futuro, e di un futuro catastrofico o catartico, che pure dilaga in questo periodo. La predicazione popolare e penitenziale fa suoi tutti gli aspetti essenziali della parola sacra; e cosí come assume il profetismo, assume anche la «celebrazione-proclamazione», l'annuncio del Regno di Dio e, intrinsecamente congiunto ad esso, l'invito perentorio alla conversione-penitenza .

Rimane fuori dalla predicazione penitenziale, come è del resto naturale, se è vero quanto siamo andati dicendo fino adesso sull'essenza della parola, l'aspetto catechetico della parola stessa, la sua funzione didattica. E tuttavia la Chiesa teme proprio questa separazione dell'« insegnamento » dalla « celebrazione-proclamazione » e, pur di non sanzionarla, si sforza di riportare nei ranghi gerarchici i « predicatori » penitenziali e profetici. Francesco rifiuterà di diventare sacerdote, ma gli sarà imposta, come condizione al permesso di predicare, la tonsura e il diaconato. L'ordine domenicano, come vedremo,

(26) SÖDERBLOM, Dos Werden des Gottes glaubens, 1926.(27) « Mi hai sedotto, Jahvé, e io mi sono lasciato sedurre;« mi hai fatto forza e hai prevalso.« Sono divenuto oggetto di scherno ogni giorno,« ognuno si fa beffe di me.« Poiché ogni volta che parlo, grido,« Violenza ! Oppressione ! io proclamo » (GEREMIA, 20, 7-8).

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assumerà di diritto il nome di « Ordo Praedicatorum », e avrà dalla Chiesa ufficialmente il compito di insegnare predicando. Ma i Domenicani non saranno, se non per ragioni che possiamo dire esclusivamente storiche e di circolazione di temi culturali, anche predicatori popolari; di fatto la predicazione penitenziale esula dai loro intenti e dal loro spirito.

È tuttavia difficile, proprio nel cristianesimo, segnare i limiti fra le diverse attribuzioni. Nel cristianesimo la Scrittura è una « predicazione »; ma è necessario che la scrittura sia spiegata, interpretata, e questo implica la necessità di una teologia e di un maestro. La figura del maestro si distingue da quella del profeta e del predicatore, perché nella sua parola l'elemento « potenza » si è attenuato; la parola del maestro non dispensa la salvezza, non la proclama, ne fa solo oggetto di una considerazione e di una spiegazione.

Ma se la catechesi non si può assimilare alla salvezza, ne è però l'espressione; e il maestro, come il profeta e il predicatore, ne è lo strumento. La Chiesa, unificando l'ufficio del sacerdote e del maestro, tenta di far defluire la «potenza», insita nella consacrazione sacerdotale, sulla catechesi, e ne assume ufficialmente il compito.

Comprendiamo, cosí, quale sia il dramma che sottende a tutto il problema dell'attribuzione della predicazione durante gli ultimi secoli del medioevo. La impossibilità a comporre tale dramma, l'inserirsi sempre più prepotente in esso di nuovi motivi e di nuovi valori culturali, porta al disfacimento della cultura penitenziale, e, al tempo stesso, ad una inevitabile ed esasperata affermazione di due « verità » contrastanti: l'assunzione della « sacramentalità » della parola nella Riforma, con l'esclusione della figura sacerdotale, e, all'altro estremo, con gli ultimi bagliori del rogo del Savonarola, alla rigida istituzionalizzazione del diritto alla parola, effettuata dal concilio di Trento.

4. Primi tentativi di predicazione popolare.

La crisi della predicazione, dopo il mille, era grave soprattutto in Francia e in Italia, principalmente nella Linguadoca e in Lombardia, nella Germania dell'Ovest e nelle Fiandre. Il problema inoltre si poneva soprattutto nelle città. Come è noto al principio del 1200 ci si trova alla

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fine del lungo passaggio dal feudalismo al regime comunale. La vita economica, sociale e politica, che si era mantenuta fino allora nell'ambito del Castello del Signore e delle sue terre, trova adesso il suo punto di riferimento nelle città, e nei borghi, che divengono centro della prosperità e della cultura, e si liberano a poco a poco dalla dipendenza e dalla influenza dei loro maestri ecclesiastici e civili (28).

La Chiesa rimaneva invece prevalentemente attaccata alle vecchie idee e posizioni feudali. La vita pastorale e spirituale che si irradiava dai monasteri era quasi sempre lontana dalle città; i Vescovi non riuscivano ad adempiere alla loro missione pastorale, mancando le strutture organizzative adeguate ai cambiamenti sociali. Il papato, d'altra parte, non poteva rimanere indifferente ad uno stato di cose che, con la crisi della predicazione, finiva per togliere alla Chiesa stessa il mezzo più potente di autorità, di divulgazione e di conoscenza.

La crisi delle istituzioni ecclesiastiche, del resto, non era solo il frutto del dodicesimo secolo che stava per finire; essa datava da molto tempo. La grande riforma gregoriana aveva senz'altro portato dei risultati, che però non erano stati duraturi. I monaci perseguivano nuovamente l'ideale e il rigore ascetico dei primi tempi; ed anche il clero ordinario, che si era in molti casi riunito in vita comune, aveva, almeno in parte, ritrovato una certa spiritualità. Le istituzioni dei Cistercensi e dei Canonici regolari possono essere considerate il frutto di questi sforzi (29).

D'altra parte l'epoca legata alla riforma gregoriana aveva visto rinascere un vecchio ideale di « imitazione di Cristo », quello della vita « apostolica ». I canonici regolari, soprattutto, avevano identificato, nel legame di una vita di preghiera con un apostolato attivo, la perfetta imitazione del Cristo e degli Apostoli. Un certo numero di Capitoli cittadini si erano riformati sotto questo impulso. Ma verso la fine dell'XI secolo la maggior parte del clero, nelle cattedrali e nelle collegiali, era sfuggito alla riforma. Questa, d'altra

(28) Per tutto questo aspetto del problema cfr. G. SCHNÜERER, L'Eglise et la civilisation au moyen âge, Paris, 1935, e H. PIRENNE, Les Villes du moyen âge. Essai d'istoire economique et sociale, Bruxelles, 1927.

(29) CH. DEREINE, art. Chanoine, in Dictionnaire d'Histoire et de Géographie ecclésiastique, XII, Paris, 1953, c. 353-405.

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parte, non era la sola ragione che aveva portato alla crisi dell'oratoria sacra.

Molti vescovi non vedevano di buon occhio le attività monastiche e proibirono perciò ai canonici regolari qualsiasi forma di apostolato. Fra i monaci più conservatori del resto, sono pochi in principio quelli che reclamano il diritto di dedicarsi alla predicazione. S. Bernardo stesso, il più grande predicatore del dodicesimo secolo, aveva espressamente proibito ai suoi di predicare. Nel sermone 64 sul Cantico dei cantici dice espressamente: « Et scimus monachi officìum esse non docere sed lugere... Ex his nempe claret et certum est, quod pubblice praedicare nec monacho convenit, nec novitio expedit, nec non misso licet » (30).

Tuttavia i monaci si spinsero tanto oltre da individuare nella predicazione e nel ministero pastorale una prerogativa dei monaci stessi. In definitiva essi giunsero alla stessa conclusione dei canonici regolari e degli « eretici »: chi vuole imitare il Cristo, deve condurre vita apostolica nella povertà e nell'austerità.La fondazione di Premontré (1120) era, nella concezione del suo fondatore, forse la più adatta alla sintesi che si cercava fra l'ascesi monastica e l'attività apostolica. A differenza dei canonici regolari, i premonstratesi avrebbero potuto forse realizzare una istituzione centralizzata, che avrebbe reso possibile un apostolato energico ed organico; ma l'influenza dei cistercensi, piuttosto alieni dall'apostolato, e l'amore per la solitudine, fecero fallire i loro sforzi. Il fatto che essi abbiano installato le loro case soprattutto in campagna dimostra che non avevano ben capito le esigenze del loro tempo (31). I papi del dodicesimo secolo fecero qualche tentativo per riorganizzare il ministero pastorale e la predicazione. Fra questi tentativi i più importanti furono senza dubbio l'istituzione dei predicatori apostolici, quella di « gruppi » di missionari, e soprattutto l'autorizzazione che la Chiesa concesse agli eretici riconciliati, di proseguire nella loro opera di apostolato con la predicazione.

(30) PL, 183, 1085.(31) C'è poi sempre, alla base di questa difficoltà, il fatto che in quest'epoca

non era stata ancora raggiunta, psicologicamente e consapevolmente, l'idea di un lavoro di gruppo, da svolgersi fuori dei conventi. Anche l'apostolato, come ogni altra attività infatti, presuppone un determinato concetto di lavoro e una mentalità organizzativa.

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Presso i predicatori apostolici, detti anche predicatori itineranti, troviamo particolarmente accentuate le aspirazioni alla povertà. Il primo, nel dodicesimo secolo, è Roberto d'Arbrisselles (m. 1117); uomo di forte personalità, armato di una solida preparazione culturale e dotato di uno straordinario dono della parola. Giovane arcidiacono di Rennes, aveva già manifestato il suo zelo contro la simonia e gli altri vizi del clero e si era attirato per questo l'ostilità dei suoi confratelli. Dopo la morte del suo vescovo si ritirò nella solitudine della foresta di Craòn, dove si raccolse intorno a lui un gruppo di discepoli, cosa questa che succedeva quasi sempre in questo periodo a coloro che si ritiravano in solitudine. L'attrattiva per il « deserto » (la foresta equivale al deserto) portava quasi sempre alla formazione di una piccola comunità e faceva così ben presto concludere qualsiasi tentativo di eremitismo vero e proprio. Nell'anno 1096 il Papa Urbano II, trovandosi ad Angers, fece venire Roberto a predicare in sua presenza, ed entusiasmatosi della sua capacità oratoria, lo nominò predicatore apostolico, con il permesso di predicare dovunque volesse. Roberto cominciò cosí una vita di viaggi continui, completamente dedito alla predicazione. Al suo passaggio molte persone si decidevano a « rinunciare al mondo », segno questo che ancora la predicazione è legata soprattutto ai temi della rinuncia, e poco si preoccupa dei problemi terreni e quotidiani del popolo. Tuttavia Roberto parla con franchezza e realismo, senza le allegorie care ai contemporanei; e il tema su cui più volentieri si sofferma è lo spirito di povertà, di cui si sforza di impregnare i suoi uditori: non sono soltanto i monaci che debbono vivere di questo spirito, ma anche i ricchi nel mondo. Cerca di impegnare tutti ad una vita evangelica centrata sulla povertà, e impone ai suoi discepoli il nome di « Pauperes Christi» (32).

L'aspetto di Roberto dava forza alle sue parole. A piedi nudi, vestito poveramente, attraversava le campagne con la barba lunga, segno di penitenza, che gli incorniciava il volto smagrito dal digiuno. Sono già presenti, in queste brevi note, i primi tratti di una predicazione di penitenza, in cui il Vangelo è inteso in senso di « annuncio » profetico; il predicatore

(32) R. NIDERST, Robert d'Arbrissel et les origines de l’ordre de Fontevrault, Rodez, 1952.

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assume vesti e atteggiamenti « profetici », richiamandosi alla figura del Battista, e il suo messaggio è indirizzato soprattutto alla povertà.

Tuttavia la predicazione, l'opera di tutta la vita di Roberto, alla quale restò fedele fino all'ultimo, non fu proseguita da nessuna comunità di predicatori itineranti. Il fuoco dell'entusiasmo che aveva acceso si spense con lui, sia per le difficoltà ambientali, sia, forse, perché ancora non erano chiari nemmeno in lui gli scopi che voleva raggiungere.

Bernardo di Thiron (m. 1117) aveva ricevuto anche lui la missione di predicare dal Papa. L'attività a lui affidata (e quindi affidata ai predicatori itineranti quando erano chierici) non si limitava al sermone, ma abbracciava anche tutte le funzioni sacerdotali: confessione, ingiunzione della penitenza, battesimo. I fedeli avevano l'obbligo di provvedere con le elemosine al suo mantenimento e possiamo quindi già intravedere in questo particolare un inizio di predicazione mendicante. Gli avversari dei predicatori itineranti rimproveravano loro appunto di vivere di elemosine, e di portare degli abiti trascurati, indegni del sacerdozio; anzi, questo particolare della trascuratezza nel vestire continuò ad' essere rimproverato ai monaci itineranti fino al principio del 1200, quando divenne sempre più consapevole, fra gli uomini della penitenza, il bisogno di identificarsi con le masse più povere.

Un altro predicatore uscito dall'ambiente di Roberto è Vitale di Savigny (m. 1122). Tutti e tre si incontravano per discutere di questioni ecclesiastiche e pastorali, e si succedevano l'uno all'altro nei vari centri di predicazione, girovagando all'infinito, tanto che si poteva quasi parlare di una predicazione perpetua. Il loro sforzo di evangelizzazione li portò fino in Inghilterra; ma dal loro movimento non nacque una istituzione; le difficoltà erano troppo grandi, dato che tutti i predicatori itineranti finivano con l'urtarsi più o meno contro le ostilità e le opposizioni dei vescovi e del clero secolare (33).

Le accese parole dei predicatori itineranti non erano ancora cessate di risuonare in Francia, che in Germania, al Concilio di Fritzlar (1118), il canonico Norberto di Xanten (m. 1134) veniva denunciato perché predicava senza autorizzazione.

(33) A. DAL PINO, Storia della Chiesa nel Medioevo, ed. O.S.M., Roma, 1965.

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Gli si rimproverava anche di vestirsi da monaco senza esserlo, e di condurre una vita vagabonda. Fu quindi condannato, ed ogni attività gli fu interdetta.

Norberto se ne tornò in Francia, dove si trovava allora il Papa Gelasio II, per domandargli l'autorizzazione di predicare. Appena gliene fu accordato il permesso, si mise in viaggio e se ne andò predicando dappertutto, a piedi nudi, sotto un abito povero e grezzo. Calisto II, successore di Gelasio, non volle però più permettere a Norberto di viaggiare liberamente, indipendente da ogni comunità, e Norberto si decise allora a fondare il monastero di Premontré. Ma una volta fatta questa fondazione, e perduta la libertà di predicatore itinerante, fu costretto a rinunciare a poco a poco al suo ideale di predicazione. I cistercensi da parte loro, come abbiamo già detto, si sforzarono di attirarlo verso la loro spiritualità che, improntata all'isolamento dal mondo, non poteva che allontanarlo da una reale vita apostolica; e a poco a poco non rimase più nulla dell'idea di una predicazione sistematica e itinerante. I discepoli di Norberto ebbero il permesso di predicare solo nell'ambito delle parrocchie che amministravano, e anch'essi si limitarono ad occuparsi delle parrocchie di campagna; questa situazione, d'altra parte, fu oggetto di lunghi conflitti fra i vescovi e i ministri delle parrocchie di Premontré che godevano del diritto dell'esenzione in rapporto all'ordinario del luogo.

Il prete Lamberto il Balbuziente (m. 1177) si dedicò invece completamente alla predicazione presso gli operai.

Figlio di un operaio, divenuto prete, restaurò una piccola chiesa crollante, vi svolse gli uffici divini, tradusse in volgare una parte della Bibbia, e richiamò intorno a sé una gran massa di operai che accorsero ai suoi sermoni. Ma l'opposizione del clero secolare giunse fino a farlo accusare di eresia; Lamberto si appellò al papa, che gli concesse il permesso di predicare, ma quando finalmente poté uscire dalla prigionia, mori, sfinito, sulla strada del ritorno (34).

Dell'opera di tutti questi predicatori non rimase traccia. Il loro tentativo di dare origine ad una predicazione popolare, al di fuori dell'omelia legata al rito o alla Messa; il loro desiderio di raggiungere le masse, che sempre più venivano abbandonate

(34) Per tutto questo movimento di predicazione popolare cfr. P. MANDONNET-M. H. VICAIRE, Saint Dominique, II, Desclée, Paris, 1937. pp. 22-40.

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a sé stesse, prive di qualsiasi insegnamento religioso; la loro irreprensibilità e la loro povertà, in contrasto coi costumi dei contemporanei, anche se riscuoteva un immediato e straordinario successo, moriva con loro. Tuttavia, dai tentativi di questi primi predicatori itineranti, si intravedono le idee e le tendenze che sempre più si affermeranno nella predicazione mendicante e di penitenza. La strada, per quanto difficile, è ormai abbastanza chiara alla mente degli uomini più sinceri e impegnati nel rinnovamento dell'evangelizzazione: imitazione degli apostoli, predicazione e ministero pastorale libero e indipendente dal vescovo, necessità di una azione intensa presso le popolazioni delle città, o avulse dai centri maggiori di diffusione del cristianesimo (abbazie e cattedrali), e soprattutto «povertà».

L'ideale della povertà sembra assommare in sé, durante tutto questo movimento, la totalità dell'annuncio evangelico; la povertà, assimilata alla « penitenza », assurge a valore assoluto. L'interpretazione del Vangelo che nasce e si sviluppa nel dodicesimo e tredicesimo secolo, sembra trovare perciò le sue radici più profonde in un orientamento culturale di base che provoca una serie di correlazioni fra componenti diverse: la povertà sociale diventa la virtù per eccellenza e si allinea alla «penitenza» come « conversione» (35), trasformazione spirituale di fronte a Dio e trasformazione di vita di fronte agli uomini, da cui di nuovo, con insopprimibile movimento circolare, la « povertà » riemerge come « valore », e dà consistenza ai «socialmente poveri», ponendoli per ciò stesso come « giudici » di fronte ai ricchi. Siamo però ancora in un ambito strettamente religioso; quando tutta la tematica della povertà come « penitenza » e della « penitenza » come sintesi del messaggio evangelico sarà esaurita, i socialmente poveri saranno infine maturi per delle rivendicazioni « terrene », in cui la povertà non sarà più un bene da difendere ma uno stato da cui liberarsi (36).

(35) Chi si converte, abbandona tutti i suoi beni come segno di conversione-penitenza (vedi Francesco e i suoi seguaci, i Sette Santi Fondatori, ed altri).

(36) Abbiamo cercato qui di dare un primo schema di come si sia andata articolando la cultura penitenziale; quello che ci sembra soprattutto importante sottolineare, in questa prima fase, è l'assunzione di nuovi significati di realtà già esistenti (per es. la povertà), e come l'emergere di un « valore » culturale porti allo « spostamento » di significato di molti altri valori culturali coesistenti.

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Capitolo II

I. La concentrazione dei cervelli nei grandi centri universitari.

Si considera di solito il XII secolo come un periodo di progresso considerevole nel campo intellettuale, e questo può sembrare esatto ad una prima osservazione; ma si tratta in realtà della fioritura di un'elite. Nel XII secolo abbiamo in effetti un gran numero di uomini di valore, che contrasta con la rarità degli scrittori e dei pensatori del secolo precedente. Tuttavia, se possiamo vedere in questa situazione un fenomeno di rottura, che dimostra la possibilità di uno sganciamento individualistico dagli schemi culturali correnti, questo non contrasta con la mancanza di diffusione del sapere e della scienza nella massa degli uomini di Chiesa, cioè nella classe sociale che avrebbe dovuto beneficiare di una formazione scolastica che era insieme religiosa, giuridica, e letteraria.

Uno dei motivi che sono alla base di questo stato di cose è forse la forma stessa del progresso compiuto nel dominio scolastico.

La questione delle scuole era stata una spina costante della Chiesa dai primi secoli della storia d'Europa, ma l'azione combinata delle alte autorità ecclesiastiche e civili non era mai riuscita a creare i maestri e le scuole necessarie alla formazione del clero. Malgrado i progressi compiuti durante il dodicesimo secolo, la situazione generale non è cambiata e forse è perfino peggiorata.

Gli intellettuali, come uomini impegnati solo a studiare e ad insegnare, appaiono praticamente solo col sorgere delle città. D'altra parte una vera e propria rinascita urbana avviene soltanto con il XII secolo, poiché precedentemente, anche se città in occidente sono sempre esistite, queste erano soltanto i pochi resti delle città romane del Basso Impero, che racchiudevano nelle loro mura un esiguo numero di abitanti raccolti intorno a un capo militare, amministrativo o

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religioso. Le città episcopali raggruppavano uno scarso laicato intorno a un clero poco più numeroso, e senza altra vita economica che un piccolo mercato locale destinato ai bisogni quotidiani.

È quindi soltanto nel XII secolo che il fenomeno urbano prende un'ampiezza sufficiente, modifica le strutture economiche e sociali dell'Occidente e comincia attraverso il moto comunale, a sconvolgerne le strutture politiche (1). Grandi centri scolastici si formano appunto nelle città, specialmente in Francia, e questi attirano e trattengono i maestri più celebri, contribuendo a rendere ancora più rarefatta la presenza di maestri nella rimanente area della società cristiana. La popolazione scolastica che aveva la voglia e i mezzi per studiare segue naturalmente questo movimento di concentrazione. Succede cosí che i grandi centri scolastici, attirando i migliori fra gli insegnanti, influiscono sull'elevarsi del livello di cultura di quelli che vi potevano accedere come studenti e come professori; ma finiscono anche col lasciar fuori dalla loro azione la maggior parte delle provincie cristiane, e rendono difficile, se non impossibile, ogni organizzazione scolastica a profitto della grande massa del clero. Nel dodicesimo secolo siamo dunque in presenza di un duplice fenomeno: un notevole progresso della cultura in una piccola parte del clero, per mezzo di alcune grandi e fiorenti scuole; e una profonda ignoranza nella maggior parte del mondo ecclesiastico, privato del mezzo d'istruirsi nelle regioni stesse dove svolge le sue mansioni, cioè nelle diverse diocesi d'Europa (2). Del resto già dall'epoca della grande riforma dell'ordine benedettino dell'817, ispirata all'Imperatore Luigi il Pio da Benedetto d'Aniano, le scuole «esterne» dei monasteri erano state chiuse, per cui era andata perduta anche questa possibilità di studio.

Inoltre i preti che studiano, si dedicano a scienze di lucro, soprattutto al diritto civile ed ecclesiastico, e i prelati in genere sono dei giuristi e non dei teologi. Il 3° e il 4° Concilio Lateranense (1178-1215) danno informazioni sicure e attendibili su questa situazione. La cultura letteraria, come programma scolastico, era infatti in quest'epoca limitata al mondo ecclesiastico, per cui l'autorità sovrana dei concili

(1) G. LE GOFF, Genio del Medioevo, Milano, 1959, p. 10.(2) Cfr. G. LE GOFF, cit., p. 13.

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generali può farci conoscere bene lo stato reale delle cose e i miglioramenti che la Chiesa intendeva portarvi. La legislazione scolastica del 3° e del 4° Concilio Lateranense gioca in effetti un ruolo importante nella storia dell'organizzazione dell'insegnamento alla fine del medioevo, e alcuni suoi decreti ne indirizzano lo sviluppo in molti elementi essenziali. D'altra parte questa legislazione ha valore per tutta la cristianità; il 3°

Concilio Lateranense per esempio, col decreto del 19 marzo 1179 (3), stabilisce che in ogni chiesa cattedrale debba esservi un beneficio destinato al mantenimento di un maestro, il quale avrà la missione di istruire gratuitamente i chierici di quella chiesa e gli studenti poveri. Viene imposto anche l'obbligo di ristabilire questo beneficio nelle chiese e nei monasteri dove già esisteva in precedenza. L'autorità ecclesiastica è tenuta a non esigere nessuna ricompensa dal maestro per la licentia docendi; e questa licenza non deve essere rifiutata a nessuno se è idoneo all'ufficio. Nel 1215, trentasei anni più tardi, il 4° Concilio Lateranense ritorna sul decreto precedente, che non viene osservato quasi per nulla nella maggioranza delle chiese, e lo ribadisce con nuove interpretazioni ed aggiunte. Il Concilio ordina che vi sia, non soltanto nelle chiese cattedrali, ma anche in qualsiasi altra chiesa che possa farlo, un maestro dotto e capace, nominato dal prelato e dal capitolo, che istruisca gratuitamente i chierici, ed anche studenti laici, nella grammatica ed altre materie. La chiesa metropolitana deve inoltre assumere un teologo che istruisca i chierici e gli altri studenti nella sacra scrittura e nel ministero pastorale. I Capitoli vengono obbligati ad assegnare le rendite di una prebenda per ogni maestro e il capitolo metropolitano per il suo teologo.

I maestri non diventano canonici in base a questo ufficio, ma percepiscono le rendite del beneficio per tutto il tempo in cui insegnano (mentre i canonici lo avevano a vita).

Nel caso in cui la chiesa metropolitana non possa provvedere al maestro di grammatica e al teologo, si fa obbligo di trovare la rendita per il maestro di grammatica in un'altra chiesa della città o della diocesi (4).

(3) Concilium Lateranense III, Canone 18 in Conciliorum oecumenicorum decreta, ed. Centro di documentazione, Istituto per le Scienze religiose, Herder, 1962, p. 196.

(4) Concilium Lateranense IV, constitutio n. 11, in Conciliorum oecoumenicorum decreta, cit., p. 216.

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Il 4° Concilio Lateranense non può fare quindi altro che constatare che il decreto del 1179, che prescriveva un maestro per ogni vescovado, non viene quasi mai osservato. Per facilitarne l'esecuzione, il Concilio stabilisce allora le attribuzioni di questo maestro. Si deve provvedere affinché vi sia un professore di grammatica in ogni città episcopale, e un professore di teologia in ogni città metropolitana. Questo programma scolastico però, per quanto povero possa sembrare, non fu mai attuato. Cinque anni più tardi Onorio III infatti si lamenta dell'inerzia dei prelati. Questi, a dire del Papa, per scusarsi del fatto che i decreti scolastici non vengono osservati, si rifugiano nel pretesto della scarsità dei maestri di teologia. Per risolvere questa difficoltà (che d'altra parte non era del tutto inventata) Onorio decide allora che i vescovi e i capitoli debbono destinare qualcuno dei loro chierici, adatto agli studi teologici, ad andare a studiare nei grandi centri scolastici perché possa in seguito insegnare agli altri. A questo scopo il Papa autorizza gli studenti e i professori a godere delle loro rendite per cinque anni consecutivi, anche senza rimanere nella loro residenza (questo perché il beneficio obbligava di regola alla residenza). (5) Questa misura contribuisce ad accrescere immediatamente la popolazione scolastica dei grandi centri come Parigi ma, contrariamente a quanto si potrebbe credere, la situazione scolastica delle chiese metropolitane, per quanto riguarda i maestri di teologia, non migliorò.

La Chiesa fece tutti i tentativi possibili per far mettere in atto i decreti scolastici del Concilio Lateranense, sia direttamente, sia per mezzo dei suoi legati, e abbiamo diverse testimonianze dell'impegno del papato nel perseguire la riforma, come pure della negligenza e dell'impotenza dei vescovi a questo riguardo. Il 14 maggio 1254 Innocenzo IV si decide a nominare lui stesso un maestro di grammatica per Venezia e ordina al Vescovo di Castello di fornirgli le rendite di una prebenda (6).

In generale il decreto relativo ai maestri di grammatica fu più osservato, sia perché era più facile reperire dei maestri

(5) DENIFLE-C. CHATELAIN, Chartularium universitatis parisiensis, Paris, 1889.

(6) G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, VII, Milano, 1883, p. 109.

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di grammatica, sia perché spesso erano le autorità civili a fornire le rendite per il loro mantenimento. Anzi si può considerare questo l'inizio del carattere municipale delle scuole, sebbene continuino ancora per molto tempo ad essere rette da chierici, e destinate soprattutto agli aspiranti allo stato ecclesiastico. È anche su questo terreno che scoppiarono più tardi i conflitti fra l'autorità ecclesiastica e l'autorità civile, in materia di insegnamento. Ma il decreto relativo alla presenza del maestro di teologia negli arcivescovadi restò quasi lettera morta. Vediamo cosí che il 21 giugno 1231 Gregorio IX è costretto ad imporre alla cattedrale di Reggio Emilia la collazione di una prebenda in favore del teologo Maestro Pietro, che aveva insegnato per cinque anni teologia in quella città (7).

Ma questi fatti, che testimoniano della volontà del papato di fare attuare il decreto lateranense sull'insegnamento della teologia, lasciano anche comprendere che si urtava contro un'inerzia difficile da vincere.

Anche nei grandi centri universitari come Bologna, dove si studiava soprattutto giurisprudenza, ma dove i chierici giuristi dovevano spesso aspirare ad arrivare agli ordini sacri, mancava un maestro di teologia. Il Vescovo di Bologna si appella nel 1219 o 1220, al maestro Aicardo, arcidiacono di Reggio, perché venga ad insegnare teologia nella sua città che manca di un maestro, ma niente ci fa supporre che l'arcidiacono sia venuto. Cosi pure i magistrati di Vercelli, nell'atto di istituzione di uno Studium generale per la loro città, il 4 aprile 1228, avevano previsto la presenza di un maestro di teologia. Qui ancora è il potere civile che supera col suo zelo l'autorità ecclesiastica. Ma nel 1234 questo maestro non vi si era ancora stabilito, e il comune, senza dubbio davanti alla difficoltà di trovarlo, cerca di sopprimerne l'incarico (8). È dunque certo che durante tutto il secolo XIII i decreti lateranensi riguardanti l'insegnamento della teologia non furono quasi mai osservati. Lo afferma del resto lo stesso S. Tommaso che loda i religiosi, e particolarmente i Domenicani, per aver stabilito delle scuole di teologia nelle città metropolitane ed anche in un gran numero di città episcopali, contrastando cosí all'incuria dell'episcopato.

(7) Archiv. für Literatur und Kirchengeschiechte des mittelalters hrg VON P. H. DENIFLE und FR. EHRLE, IV, 240, Berlino, 1885.

(8) BAGGIOLINI, Lo studio generale di Vercelli nel medioevo, Vercelli, 1888, pp. 77-85 e 94-95.

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Le cause vere di un tale stato di cose erano molteplici, ma la più importante è senza dubbio quella economica. I chierici che possedevano dei benefici avevano acquisito il diritto di studiare e di insegnare teologia durante cinque anni, senza essere obbligati alla residenza nel luogo del loro beneficio. Molti quindi approfittarono della concessione di Onorio III, e se ne andarono a studiare in uno dei grandi centri scolastici, che esercitavano allora un fascino straordinario (9). Ma, dopo aver studiato, non avevano nessun interesse a mettersi a loro volta ad insegnare, dato che non vi avrebbero ricavato nessun profitto ulteriore. L'insegnamento infatti era gratuito, e il beneficio ecclesiastico lo possedevano già. La soluzione proposta dal Concilio avrebbe potuto forse essere più efficace: impiegare le rendite di un beneficio per assoldare un maestro soltanto per il periodo in cui avrebbe insegnato.

I vescovi veramente si lamentavano che non vi fossero maestri da assoldare, e certamente questo era vero; ma soprattutto era impossibile trovare un beneficio vacante per mantenere un maestro di teologia. Nel momento in cui il 4° Concilio Lateranense stabiliva il suo decreto, tutti i benefici erano occupati. D'altra parte, come i prelati, i beneficiari stessi e le autorità civili erano sempre alla ricerca di un beneficio per i loro parenti ed amici, e diveniva quasi impossibile disporre di una prebenda in favore di un maestro di teologia. Alla fine i papi rinunciarono ai loro tentativi per far mettere in atto i decreti del Concilio, e affidarono l'insegnamento ai Frati Predicatori.

(9) « Parigi, nella realtà e simbolicamente, è per gli uni la città-faro, la fonte d'ogni godimento intellettuale, per gli altri l'antro del demonio... S. Bernardo grida ai maestri e agli studenti di Parigi: «Fuggite da Babilonia, fuggite e salvate le vostre anime...». L'abate Filippo di Harvengt scrive: « eccoti dunque a Parigi, e tu hai trovato quella Gerusalemme che tanti desiderano. È la dimora di Davide... del saggio Salomone... » e Giovanni di Salisbury scrive a Tommaso Becket: «Ho fatto una puntata sino a Parigi... Entusiasmato da questo felice pellegrinaggio, ho dovuto confessare: Il Signore è qui, e io non lo sapevo... » (G. LE GOFF, Genio del Medioevo, cit., pp. 27-29).

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2. Il «lavoro» intellettuale.

Tocchiamo qui dunque con mano la difficoltà vera che è alla base della crisi dell'insegnamento: il problema della retribuzione, connesso ad un nuovo modo di concepire il lavoro intellettuale. È questo il motivo che viene alla luce quasi costantemente col passare degli anni; e che alla fine diventa tanto condizionante da pregiudicare, come abbiamo visto, qualsiasi possibilità di soluzione. Il problema di come e se pagare gli insegnanti aveva le sue radici in una determinata concezione dell'insegnamento stesso, e non è senza significato che proprio nel XII secolo questa concezione si esaurisca, portandone un'altra alla ribalta. Una concezione che si rifaceva ai tempi in cui non c'era altro insegnamento che quello religioso, e che faceva risalire a Dio qualsiasi scienza, non poteva non indurre alla convinzione che fosse immorale farsi pagare per insegnare. L'insegnamento d'altra parte era stato sempre considerato parte integrante del ministero del chierico, e qualsiasi retribuzione veniva quindi ritenuta simoniaca.

Ma al di sotto di queste motivazioni ben chiare alla coscienza degli uomini del tempo, c'è quell'altra più profonda motivazione che abbiamo tentato di lumeggiare parlando della « potenza » della parola. L'insegnamento ha le sue più vere radici nella « sacralità » della parola, ed è per questo che la Chiesa si è dimostrata sempre riluttante a separarlo dall'ufficio del chierico. La scienza è sacra in quanto concepita come conoscenza di Dio, e il sacro, qualsiasi forma di sacro, viene assunto dalla Chiesa come appartenente ad una sua inderogabile funzione.

Secondo il pensiero di G. Le Goff è il senso di una « specializzazione » della propria funzione, che fa nascere l'intellettuale nel significato moderno del termine: « In Occidente l'intellettuale del Medioevo nasce con esse (le città), appare nel periodo della loro espansione — legata alla funzione commerciale e industriale, o, più modestamente, artigianale — come uno di quegli artieri che si stabiliscono nei centri urbani dove s'impone la divisione del lavoro. Si può dire che prima di questo periodo le classi sociali enumerate da Adalberone di Saon — quella che prega: chierici, quella che protegge: i nobili; quella che lavora: i servi — corrispondessero appena a una vera specializzazione degli uomini. Il servo,

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pur coltivando la terra, era anche artigiano; il nobile, soldato, era anche proprietario, giudice, amministratore; i chierici, soprattutto i monaci, erano sovente tutto ciò insieme. Il lavoro dell'intelligenza non era che una delie loro attività, e non era fine a se stesso, ma, coordinato con tutto il resto della loro vita, era dalla Regola volto verso Dio... L'uomo che per mestiere scrive e insegna — o meglio fa le due cose insieme —, l'uomo che per professione esercita un'attività di professore, di erudito, insomma l'intellettuale, appare soltanto col sorgere delle città » (10).

Si può essere essenzialmente d'accordo nell'individuare la nascita del « mestiere » dell'insegnante nella « specializzazione », e cioè nella consapevolezza che il sapere, e l'insegnamento che ne discende, ha valore ed è fine a se stesso. Ma questa consapevolezza non è, in fondo, (almeno ci sembra), che il riconoscimento di una separazione dal « sacro », anche se in apparenza può sembrare una distinzione soltanto formale o istituzionale. È già presente qui, in questo delimitarsi di una sfera della conoscenza, che ha significato e valore « per sé », il nascere della « laicità », nel senso moderno del termine; ci troviamo già dunque inseriti in una dimensione essenzialmente « umanistica », ed è la presenza di questa dimensione che fa rifuggire, per esempio, un Francesco davanti alla scienza (11).

Il costituirsi di questa nuova dimensione della parola ci spiega anche il sorgere e lo svilupparsi prepotente della predicazione di penitenza. La parola sacra riassume, come per una nuova nascita, tutta la sua « potenza ». Purificata dalle implicazioni formali, « istituzionali », « funzionali » di cui si era andata caricando nel corso dei secoli, con le successive e logoranti « sacralizzazioni » di tutti gli aspetti della vita (12), si ripropone, proprio in questa dialetticità con la parola «fine a se stessa», in tutta la forza sconvolgente della parola «irreversibile», della parola-atto, della parola-conversione

(10) G. LE GOFF, Genio del Medioevo, cit., pp. 9-10.(11) Cfr. Florestrium Sociorum, Sectio B, n. 17-22, ed. Vita e Pensiero,

Milano, 1967.(12) Intendendo per «sacralizzazione» il far defluire in forma impropria il

sacro nel profano; cfr. a questo proposito F. CRESPI, «Crisi del sacro, irreligione e ateismo», Rivista di Sociologia, gennaio-aprile 1965, dove però il concetto di «sacro» è posto in modo alquanto diverso.

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Il costituirsi dell'intellettuale come « lavoratore » del pensiero, e il suo organizzarsi in corporazioni con lo sviluppo delle Università, rende, fin dal XII secolo, estremamente attuale, e addirittura drammatico, il problema della retribuzione degli insegnanti. Molti sono ormai gli intellettuali laici, che, non più mantenuti dalla comunità come il monaco, devono trovare da se stessi i mezzi per vivere. D'altra parte, un nuovo concetto di lavoro è implicito nella formazione della « classe » dei « dottori »; se lo studio, e l'insegnamento ad esso collegato, è un lavoro, allora l'operaio ha diritto alla sua mercede.

Questa situazione si prolunga ancora per molti anni, e sebbene divenga, col passare del tempo, sempre più normale provvedere alla retribuzione dei maestri nelle università, ancora nel 1400 questa abitudine veniva contrastata dalla vecchia interdizione, per chi insegna una verità sovrannaturale, di toccare del denaro che sarebbe stato simoniaco. Diventava perciò sempre più difficile uscire da questa contraddizione, anche se furono tentate diverse strade per risolverla. La soluzione più semplice, conforme alla tradizione e alla pratica, era quella di conferire agli insegnanti dei « benefici » senza cura d'anime, cioè di farne dei canonici. Fu cosí che la cattedra fini con l'identificarsi con il beneficio. Essa si definisce infatti per tre caratteri, che sono quelli stessi del beneficio: insegnamento ordinario, dotazione perpetua, inamovibilità del titolare.

Non è difficile intravedere qui uno dei motivi fondamentali per la difficoltà di circolazione della cultura. Verso la fine del 1200 infatti i maestri universitari cominciano ad occupare le alte cariche ecclesiastiche e laiche. Diventano vescovi, arcidiaconi, canonici, consiglieri, teologi, giureconsulti. Questa tecnocrazia intellettuale, che rimane, con la scolastica, attaccata al latino, si priva degli arricchimenti continui delle lingue volgari in pieno sviluppo e si allontana sempre di più dalla gran massa del popolo, dai suoi problemi, delle sue angosce e dalle sue speranze.

Ciò permise e facilitò lo sviluppo e l'enorme successo dei predicatori popolari. Nel campo stesso della predicazione si ebbe una separazione completa; i professori universitari, infatti, a causa di un'ultima perdurante «contaminazione»

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di sacralità, avevano l'obbligo di fare dei sermoni agli studenti. Ma questa predicazione ufficiale e accademica, lontana dalla vita e da un vero rapporto con gli ascoltatori, si differenziò completamente dalla predicazione tenuta ai popolo, e divenne oggetto delle più sottili disquisizioni teologiche e retoriche, prive quasi del tutto di vero afflato religioso.

Tuttavia, se la cultura universitaria non riusciva ad arrivare se non ad alcune sfere della società, si può dire però che si andava formando un nuovo tipo di circolazione della cultura: i chierici erano il più delle volte ignoranti e incolti; dalle università usciva invece una gran numero di studenti poveri (13), i quali non trovavano altra soluzione che quella di mettersi alla caccia di qualche benefìcio, trasformandosi in chierici o canonici. Si ottiene cosí un aumento della cultura fra gli ecclesiastici, che si avviano a diventare «letterati», sempre meno impegnati sul piano religioso; e si approfondisce sempre di più il solco fra gli alti dignitari, l'elite degli uomini di Chiesa che esce dall'ambiente universitario, e quegli uomini della penitenza che, spinti prima di tutto da un forte slancio religioso, si mettono a predicare e a istruire il popolo, al di fuori di qualsiasi cultura accademica. Basandosi su una interpretazione del Vangelo, come abbiamo visto, unicamente come messaggio di penitenza, di conversione, di trasformazione di vita, si abbandonano al loro spirito profetico, alla « potenza » della parola, e, impugnata con forza e con passione l'arma del « volgare », si liberano da qualsiasi elucubrazione teologica e da qualsiasi schema intellettualistico.

Si ha cosí una strana situazione: i teologi accreditati, di estrazione ufficiale e universitaria, anche a causa dello sviluppo che prende il nominalismo, rinunciano a una visione d'insieme del messaggio evangelico e ad un vero contatto psicologico con il pubblico, e si limitano ad affermazioni casuistiche, ancora più infruttuose e sterili di quelle che c'erano state nella morale, perché riducono molto spesso la discussione a sottigliezze teologiche senza nessuna aderenza con la realtà. I predicatori popolari, invece, spesso più sprovveduti sul piano teologico, meno colti e quasi mai accademici (l4), tendono a dare al popolo un quadro unitario

(l3) Se ne possono vedere degli accenni nella poesia goliardica del tempo.(l4) Di solito i predicatori popolari vengono chiamati nelle Università

soltanto quando la loro fama è già molto grande e consolidata.

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del messaggio evangelico, racchiudendolo praticamente nel tema della metànoia e della penitenza, spingendo i fedeli a un « contatto » sempre più diretto con Dio e soprattutto col Cristo e con la Vergine.

3. L'« Ordo Praedicatorum ».

Abbiamo detto che i Papi finirono con l'affidare l'insegnamento ai Domenicani. In effetti l'ordine dei Frati Predicatori ebbe fin dalla sua fondazione (1206-1216) un carattere essenzialmente dottrinale e scolastico, e questo proprio per risolvere il problema di cui siamo andati trattando: fornire dei maestri per l'insegnamento delle scienze sacre. L'ordine di S. Domenico fu fondato sotto il nome di Ordo praedicatorum, che nella lingua del tempo è identificato, per i motivi che abbiamo già messo in luce, con l’Ordo Doctorum (15). I Domenicani quindi hanno il compito di preparare dei maestri per l'insegnamento della teologia. Nelle loro stesse costituzioni è previsto che non possono fondare un convento senza che vi sia un «dottore», cioè un professore di teologia, il quale avrà il permesso di insegnare pubblicamente solo dopo aver studiato per almeno quattro anni.

Con la rapidità di estensione presa dall'Ordine, le scuole di teologia furono aperte non soltanto nelle città arcivescovili, ma anche in molti vescovadi; stabilitisi poi nei due grandi centri universitari, Parigi e Bologna, i Domenicani vi trovarono molti allievi disposti a diventare religiosi (16). In questo modo si veniva realizzando quella decentralizzazione scolastica che era indispensabile per cominciare a far circolare nuovamente qualche forma del sapere. Ma come abbiamo visto, i Vescovi, approfittando della diffusione delle scuole domenicane, si considerarono esentati dall'eseguire i decreti lateranensi in materia di insegnamento teologico. I Papi dal canto loro favorirono questo stato di cose. Pur non accordando l'erezione di facoltà teologiche, le scuole dei Predicatori e

(15) Anteriormente alla fondazione dei Frati Predicatori, l'insieme delle persone che si dedicavano all'apostolato della parola era considerato un Ordo Praedicatorum. Questo titolo passò in proprio, per volontà della Chiesa, all'ordine fondato da S. Domenico (cfr. MANDONNET-VICAIRE, S. Dominique, cit., p. 71).

(16) Archiv. fur Literatur, cit., I, 223.

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in seguito degli altri ordini mendicanti, furono considerate come equivalenti a una facoltà teologica. Anche quando qualche arcivescovo, nel 13° secolo, e più tardi qualche vescovo, non volle rinunciare ad eseguire i decreti dei Concili Lateranensi, chiamò ad insegnare nelle scuole vescovili i Domenicani, ciò che dimostra quanto fosse difficile procurarsi dei professori di teologia fra il clero secolare.

I Domenicani diventarono cosí il più valido strumento della riforma scolastica, con i conventi-scuole che stabilirono un po' dappertutto, e per i maestri che fornirono al clero secolare; inoltre esercitarono anche una forte influenza nelle Università che possedevano una facoltà di teologia. Il gran numero di professori-religiosi che andò arricchendo le file dei Domenicani si divise fra le scuole conventuali, le università, le scuole episcopali e monastiche. Il celebre predicatore Giordano da Rivalto poteva riassumere in poche parole, all'inizio del XIV secolo, il progresso, o meglio la rivoluzione operata nel 1300 nell'insegnamento della teologia: « In ogni convento è scuola di Divinitade, e i Frati Minori, ed anche gli altri Frati, hanno impreso da questa, e però catun convento di ogni Ordine ha la sua scuola di Divinitade la qual cosa è di tanta utilitade che non si potrebbe dire» (17).

Si compiva cosí quella separazione fra teologia e « messaggio » che gli inizi, incerti e inconsapevoli, della predicazione penitenziale, avevano in qualche modo preannunciato. Tuttavia la presenza dell'Ordo Praedicatorum nascose, o almeno contribuì a rendere meno evidente la profonda differenza che era implicita nella predicazione penitenziale. Fu una specie di contrappeso alla forza assoluta del messaggio francescano; e in ogni caso servi alla Chiesa per riprendere almeno in parte nelle sue mani, quella funzione catechetica che essa non poteva concepire disgiunta da quella sacerdotale.

La situazione scolastica, che abbiamo tentato di descrivere, favorisce dunque il nascere e lo svilupparsi della predicazione popolare a carattere penitenziale. Il popolo, quasi del tutto privo di una parola illuminante, aveva un estremo bisogno di essere in qualche modo alimentato, e cedeva, anche per questo, a chiunque si presentasse a parlargli, anche se a volte in forme assurde e sconvolgenti. (Il successo della

(17) G. DA RIVALTO, Prediche, t. I, Firenze, 1831, pp. 236-37.

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ciarlataneria che pure caratterizza questo periodo, non è infatti da attribuirsi solo ad ignoranza e credulità).

Di fatto sono le classi più umili che partecipano al fiorire dell'atteggiamento profetico penitenziale. La maggioranza di coloro che aderirono ai movimenti religiosi popolari dell'XI e XII sec, eretici o ortodossi, apparteneva in genere alle ultime classi della società medioevale, contadini e illetterati. Come rileva il Morghen (18) gli eretici di Arras firmavano con la croce il testo delle loro deposizioni, e non capivano il latino, tanto che le domande dei giudici dovevano essere loro tradotte in volgare. I Patarini venivano chiamati cosí dai loro nemici, per la loro povertà (secondo l'interpretazione del termine: paterini = straccioni, pezzenti). I seguaci di Roberto d'Arbrissel e di Pietro l'Eremita erano servi della gleba, coloni, abitanti di villaggi, meretrici convertite, mulierculae.

Dall'altra parte, uomini pieni di slancio e di fervore si sentono spinti a riempire il vuoto della predicazione ufficiale, con la forza della loro parola immediata e rivoluzionaria. Ma possiamo già qui vedere, anche se sarà più chiaro quando avremo messo in luce altre articolazioni della cultura penitenziale, come in una cultura si intersechino e si influenzino in maniera continua e strettissima motivi « originali » (primari) di un determinato orientamento culturale, e motivi « secondari » (derivati), che però a loro volta possono diventare primari. Cosí la nascita dell'Ordine Domenicano ha le sue origini nella stessa « crisi della parola » che abbiamo visto favorire la nascita della predicazione popolare e, una volta instauratosi il movimento penitenziale, entra in qualche modo a farne parte. Moltissimi predicatori di penitenza appartengono all'Ordine domenicano, e quando si tratta di uomini «personalmente» orientati all'atteggiamento «penitente», partecipano indubbiamente alla cultura penitenziale (basti per tutti il Savonarola). Tuttavia l'Ordine Domenicano, in rapporto a quella fenomenologia della «parola» che abbiamo visto essere alla base della predicazione religiosa del medioevo (cfr. cap. I, 3), è all'antitesi della cultura penitenziale, e possiamo dire che fa parte del momento « istituzionale » di una cultura; momento istituzionale che non sempre porta alla ribalta un tratto

(l8) R. MORGHEN, Movimenti religiosi ed eresie, in Relazioni, III, X Congresso Intern. di Scienze Storiche, Sansoni, Firenze, 1955.

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culturale, ma, come in questo caso, serve a delimitare, o addirittura a trasformare un « valore » culturale.

La polemica spicciola, e a volte volgare, che si instaurò fra Domenicani e Francescani, e che può sembrare (e certamente in alcuni casi lo fu) una polemica di « potere », era in realtà soltanto l'ultima, esasperata manifestazione di una differenza radicale: Francesco è il più puro rappresentante della cultura penitenziale, e i suoi seguaci, sia pure in forme attenuate e a volte distorte, sentono e vivono fino allo spasimo il bisogno di differenziarsi da quella impostazione teologica e catechetica dei Domenicani che, loro malgrado, sembrava convogliarsi e identificarsi nel messaggio francescano.

Questo bisogno di differenziarsi, dettato dalla inconsapevole certezza di una assoluta estraneità, alla fine si trasforma, e si rivela in scoppi di vera e propria ostilità. Nell'inconscio tentativo di riportare in luce l'essenza del messaggio penitenziale, i Fraticelli si aggrappano e quasi si identificano con quello che è l'aspetto più concreto e più « misurabile » della penitenza: la povertà.

La battaglia per la povertà assoluta diventa vessillo e strumento visibile di un messaggio che, in sé, era radicalmente diverso. Poiché gli uomini non sono mai del tutto consapevoli delle implicazioni profonde della cultura che creano, e di cui sono al tempo stesso portatori; ma nel prolungarsi, e nel continuo rinnovarsi, della disputa sulla povertà, si possono anche riconoscere gli ultimi, disperati riflussi di una cultura che lentamente si trasforma ed esaurisce.

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Capitolo III

I. La «penitenza» come atteggiamento culturale.

La storia, e i diversi, anche se simili significati, del termine penitenza, sono estremamente interessanti per comprendere il movimento penitenziale medioevale. Siamo, col termine «penitenza», proprio al centro dell'esperienza religiosa, vissuta sia interiormente che ritualmente.

Un primo significato di penitenza, quello di « conversione », che è fondamentale nella fenomenologia della religione, potrebbe forse individuarsi nella « metanoia », sebbene anche il termine metanoia sia difficilmente traducibile in un solo concetto. Potrebbe infatti stare a significare, come nella letteratura classica, un cambiamento di pensiero, di giudizio (noũs), se non fosse implicito nel noũs qualcosa che va al di là, e supera la pura razionalità; infatti metanoia viene spesso usato al posto del termine metamelia che indicherebbe piuttosto il cambiamento dell'anima, del cuore. Ma anche questa accezione non è sufficiente ad esaurire il concetto di penitenza nel Nuovo Testamento; il «ravvedetevi» del Battista (1), è usato con una particolare accentuazione della volontà; dipende dalla volontà degli uomini il ravvedimento. In Matteo (4, 17) abbiamo il « poenitentiam agite, appropinquavit Regnum coelorum », che implica una conversione totale in relazione all'avvento del Regno, collegati fra loro: la metanoia non è soltanto la preparazione necessaria al Regno, ma fa entrare nel regno stesso (2). In tutti questi aspetti del concetto di penitenza è indubbiamente presente una determinata concezione dell'uomo, del suo modo di essere e di sentire, a livello della volontà, della ragione, del cuore. Ma da tutte queste sfumature

(1) MATTEO, 3, 2.(2) A. MAYER, in Enciclopedia cattolica, v. penitenza, IX, 1952, c. 1105.

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dipende pure il diverso accento che nelle varie esperienze religiose, e nelle varie religioni, viene messo sulla « conversione », sull'aspetto interiore della conversione, o su quello esteriore. Il cambiamento di vita rimanda alla rinuncia al peccato; la rinuncia al peccato comporta la soddisfazione rituale-cultuale del peccato, e sbocca nella confessione. (Il termine « exomologeĩs », per esempio, originariamente indicante la confessione, fu ben presto usato nella chiesa cristiana primitiva per indicare tutto il processo della penitenza pubblica).

L'Antico Testamento non conosce uno speciale termine tecnico per penitenza e « fare penitenza »; ma di fatto la penitenza si presenta sotto due forme: penitenza cultico-rituale, e il postulato profetico della conversione (ritorno a Jahvé) (3). Nei testi legislativi prevalgono le espiazioni cultico-rituali (abluzioni, digiuni, confessione dei peccati, abiti di lutto in sacco et cinere). Ma è già presente, in questa duplice forma della penitenza, il senso di una separazione del culto dall'esperienza religiosa vissuta; i Profeti si sforzano infatti di riproporre il ritorno a Jahvé come penitenza interiore, e condannano l'atto rituale privo di adesione sentimentale.

Nel Nuovo Testamento la metanoia, la conversione, la penitenza, sono invece, prima di tutto, atti interiori, cui si associa il battesimo, come segno dell'avvenuta rigenerazione. Ma a poco a poco questo « segno », con il progressivo evolversi della sensibilità religiosa, si distacca dallo stato interiore, diventa una forma oggettiva (esterna) che, come nel caso del battesimo dei bambini, è sufficiente di per sé a far « rinascere », diventa cioè sacramento ex opere operato.

Comincia a perdersi quel significato iniziale di esperienza interiore, di stato psicologico e volontario, che è, come abbiamo

(3) Nell'esegesi biblica più rigida (ebraica) si tende a sottolineare il fatto che la conversione, il pentirsi, consiste nel «ritorno a Jahvé», più che in una trasformazione morale o di costume; mentre nella tradizione esegetica cattolica si è andato sempre più accentuando l'aspetto «morale» della conversione, il rifiuto del male, interpretando in questo senso soprattutto alcuni passi di Geremia e di Ezechiele.

In ogni caso ci sembra che, proprio da questo punto di vista, sia importante il metodo dell'antropologia, perchè permette di assumere i dati delle varie discipline in modo non «assoluto», ma relativo al significato «antropologico» delle discipline stesse, con le loro eventuali motivazioni ed implicazioni di carattere culturale.

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visto, il significato preponderante della metanoia neotestamentaria (4). Tuttavia si tratta di aspetti di un'esperienza religiosa, che si richiamano a vicenda, e che difficilmente possono sussistere distaccati l'uno dall'altro; quando si mette l'accento più sull'uno che sull'altro aspetto, questo avviene più per riflessione che potremmo chiamare di carattere intuitivamente teologico, che di esperienza vissuta.

Certamente quello che sfugge ad una riflessione sul carattere primordiale della « penitenza », è la corrente psicologica sotterranea che ne forma il substrato, perché nell'esperienza religiosa « primaria », (se vogliamo considerare tale quella dei « primitivi ») esteriore e interiore non sono né divisi, né pensati come divisi. L'atto rituale è in origine, oggettivo e soggettivo insieme (5). In altri termini conversione e battesimo sono la stessa cosa; mentre noi intendiamo il battesimo come oggettivo e la conversione come soggettiva. Ora è indubbiamente la trasformazione di questa primigenia unità dell'atto religioso, che è interno ed esterno insieme, che possiamo individuare nel progressivo articolarsi del concetto di penitenza in aspetti diversi dell'esperienza religiosa. La conversione come stato interiore, psicologico, si distacca dalla penitenza come manifestazione esteriore della conversione; l'atto rituale di carattere penitenziale a sua volta può riportare all'esperienza interiore della conversione, divenendo « sacramento », cioè operando di per sé la rigenerazione. Infine la disciplina giuridica della penitenza giustifica l'atto di soddisfazione del peccato, e può giungere, come durante l'alto medioevo, ad offuscare quasi del tutto la necessità dello stato psicologico interiore, divenendo in un certo senso autosufficiente.

Questa dinamica dell'esperienza religiosa della metanoia, che abbiamo qui solo sommariamente accennato (6) trova, nel periodo che va dal mille fino alla Riforma, (la quale, da

(4) E che caratterizza in modo assolutamente originale la metanoia evangelica dalla fenomenologia della conversione presente nelle varie religioni (cfr. R. PETTAZZONI, La confessione dei peccati, Zanichelli, Bologna, 1929, 1936).

(5) L. LÉVY-BRUHL, Le surnaturel et la nature dans la mèntalité primitive, Paris, 1931; cfr. anche G. VAN DER LEEUW, L'uomo primitivo e la religione, Boringhieri, Torino, 1961.

(6) Si tratta infatti di un problema estremamente complesso e che meriterebbe una trattazione a parte.

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questo punto di vista, è una delle soluzioni possibili al problema) un'accentuazione particolare, con delle motivazioni soprattutto di carattere psicologico, sociale e culturale, anche se si manifesta in un modo che può sembrare, in un primo momento, soltanto un tipo particolare di « viabilità » religiosa.

Nel medioevo coesistono, in egual misura, i due aspetti della metanoia, cui abbiamo accennato, quello della «conversione » (legata alla predicazione del Regno) e quello dell'atto penitenziale, che trova la sua massima estrinsecazione nel molteplicarsi di istituti e di costumi penitenziali. Ma ci sembra che si possa scorgere, alla base di questi due aspetti principali dell'esperienza religiosa del medioevo, un atteggiamento in parte diverso, e che forse sfugge ad una possibilità di analisi particolare, proprio perché sembra identificarsi con un certo tipo di esperienza e di comportamento squisitamente religioso.

Alludo a quell'atteggiamento di fondo dell'uomo della penitenza, che è un atteggiamento di fronte alla vita e alla morte, un atteggiamento di fronte a se stesso e di fronte agli altri, un atteggiamento che ingloba il mondo, gli uomini e Dio in uno « stato », in una situazione esistenziale, che non è religiosa, o almeno che è culturale prima di essere religiosa. L'uomo medioevale si riconosce « uomo », e riconosce che l'uomo è, proprio in quanto uomo, « di fronte » a Dio (7); si accorge che riconoscersi uomo significa riconoscere Dio, significa «porre» Dio, e porsi in rapporto a Dio. Questo « essere » di fronte a Dio sembra sufficiente a dare significato a tutta la vita; o meglio sembra che la vita, tutta la vita, sia solo questo modo di essere, questo modo di riconoscersi, di ritrovarsi.

L'itinerario dell'uomo medioevale, che troverà innumerevoli estrinsecazioni concrete, non è un itinerario per raggiungere Dio (perfezione, amore, preghiera, sono tutti modi che in seguito troveranno la loro strada nella mistica, nella devotio, ecc. ma che non discendono direttamente da questo

(7) Si potrebbe proporre da questo punto di vista una interpretazione della « frontalità » che contraddistingue l'arte del primo medioevo e seguire via via con l'evoluzione di questo atteggiamento il successivo « muoversi » dalla frontalità ad altre posizioni, fino all'acentrismo contemporaneo. (Un accenno ad una interpretazione psicologica della frontalità nell'arte medioevale si trova in A. HAUSER, Storia sociale dell'arte, Einaudi, Torino, 1964, I, p. 157).

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atteggiamento). L'uomo della penitenza è fermo, sta di fronte a Dio, è pellegrino in un « ordo » di pellegrini, è penitente in un « ordo » di penitenti, è flagellante in una confraternita di flagellanti, è in uno « stato » di vita, che non implica una progressione, una trasformazione, un raggiungimento di qualcosa d'altro, se non una progressione, una trasformazione, un raggiungimento sempre più certo, e convinto, e profondo, del suo « stato » di penitente, di pellegrino. In altri termini si tratta di un vero e proprio atteggiamento di fronte alla vita, di un modus vivendi culturale, che ha profonde radici psicologiche e religiose, ma che si rivela anche e soprattutto, come una visione totale del proprio modo di essere, e che si estrinseca « culturalmente » in complesse e articolate istituzioni storiche e sociali.

Non è difficile, del resto, individuare, proprio in questo atteggiamento, la sorgente prima dell'umanesimo, i cui segni possiamo riconoscere già in alcuni tratti culturali dal mille in poi. Lo spostarsi dell'attenzione sull'uomo, per quanto ancora e soprattutto in relazione ad una visione sacrale della vita, è fondamentale per l'inizio dell'umanesimo.

Dio non è più un « dato », scontato perché mai messo in dubbio, ma una « possibilità » di rivelazione che è in stretto rapporto con l'atteggiamento penitente dell'uomo — Tanto più l'uomo si riconoscerà « uomo », e uomo penitente, tanto più l'Altro si rivelerà in quanto « altro » — Per questo si passa cosí facilmente, nell'epoca che ci interessa, da Dio, al diabolus dagli angeli, ai demoni; il trascendente « è là », pronto a rivelarsi, sotto tutte le forme possibili, dovunque ci sia un uomo che si riconosce « uomo ». Basta un nulla, d'altronde, a porre l'«umanità» dell'uomo; una danza, un desiderio, un sogno, una battitura con una frusta, un bastone da pellegrino; l'Altro si rivelerà, e non si può sapere se si rivelerà angelo o demone, Dio o Belzebù. L'uomo penitente, in quanto penitente, si pone sempre a rischio di una trascendenza, che può essere anche, anzi che è il più delle volte malefica.

Ma non è possibile né pensabile sfuggire a questo rischio; perché, laddove c'è l'uomo penitente, là è sempre anche il sacro.

La commistione di significati fra penitenza come spirito del messaggio evangelico, e penitenza come disciplina e fatto giuridico, richiesto dalla Chiesa per la salvezza, è presente

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fin dai primi secoli del cristianesimo (8). La disciplina penitenziale, rigorosissima durante l'antichità cristiana, rimase in vigore, con qualche limitazione, anche durante l'Alto Medioevo; le colpe gravi, pubbliche e scandalose, dovevano essere scontate sempre in pubblico, dinnanzi alla comunità; inoltre l'accettazione della penitenza non dipende più come prima dalla libera volontà del peccatore, ma viene imposta durante la visita pastorale, e nel giudizio sinodale, anche con l'aiuto della forza secolare. I peccati occulti e meno gravi venivano rimessi alla penitenza privata e alla confessione privata.

Le opere imposte per penitenza consistevano principalmente in digiuni, elemosine, esili, o lunghi viaggi in terra straniera, pellegrinaggi, flagellazioni, entrata in convento. La proibizione delle nozze, che prima si applicava per i penitenti, venne soppressa dal sinodo di Worms nelÌ'868. Alla penitenza erano dedicati specialmente i 40 giorni della Quaresima. Il mercoledì delle Ceneri era generalmente il giorno in cui si imponeva la penitenza, il Giovedì Santo quello dell'assoluzione.

Verso la fine del sec. VII cominciò a diffondersi un'importante innovazione nella prassi penitenziale, con la cosidetta « redenzione ». Questa consisteva nella sostituzione di gravi pene canoniche, specialmente il digiuno, con opere suppletive come preghiere ed elemosine, che venivano giudicate equivalenti, ma che si potevano eseguire con maggiore facilità. Questa procedura venne favorita dal fatto che i ricchi e i nobili, per adempiere al più presto alla loro penitenza, si facevano aiutare da persone estranee, anche pagandole. Invalse cosí l'uso di « riscattarsi » dalla penitenza, o da una parte di essa, mediante una somma di denaro offerta per opere pie; e i libri penitenziali ne fissarono le tariffe. È facile immaginare gli abusi che seguirono a questa innovazione; il sinodo di Rouen del 1048 fa espresso divieto di inasprire o di mitigare la penitenza per denaro (9). Dal secolo XI e XII

(8) K. BIHLMEYER-H. TUECHLE, Storia della Chiesa, II, Morcelliana, Brescia, 1956, p. 140 ss.

(9) Ancora S. Francesco è costretto a combattere contro questo vizio, tanto che in una lettera al ministro generale di tutto l'Ordine dice « E i confessori non abbiano assolutamente facoltà di ingiungere un'altra penitenza diversa da questa: "Va e non voler più peccare" » (Tutti gli scritti di S. Francesco, Longanesi, Milano, 1951, p. 67).

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a fianco della redenzione subentra l'indulgenza e la soppianta definitivamente (10).

Il codificarsi della prassi penitenziale nella chiesa ufficiale fa sempre di più scomparire lo « spirito » di penitenza, e questa evoluzione è molto importante perché, insieme alla carenza scolastica e alla crisi della predicazione, è uno dei fattori che più contribuisce al fiorire e allo svilupparsi dell'oratoria popolare. Dall'altra parte abbiamo, fin dall'XI secolo, un movimento di pietà popolare che assume sempre più, col passare del tempo, un carattere marcato di ascetismo. L'ascesi così come era stata vissuta dal monachesimo, soprattutto orientale, porta facilmente ad assumere discipline penitenziali. È infatti l'influenza ascetica che si irradia intorno alle nuove fondazioni religiose, che colpisce l'immaginazione popolare. Tuttavia l'ascesi rimane una componente in un certo senso « impura » della cultura penitenziale, perché viene interpretata non come «strumento » per conoscere meglio Dio, per meditare o pregare di più, per liberarsi del peso materiale delle passioni della carne, (questi erano infatti i significati dell'ascesi nel monachesimo), ma viene soprattutto usata nel suo aspetto « esteriore », di « flagello » del corpo, di analogia esterna alla penitenza interiore.

La penitenza pubblica, tendendo sempre di più a sparire come ufficiale, diventa l'appannaggio degli spiriti di buona volontà. Questo nuovo « ordo » di penitenti (in realtà i penitenti erano diventati già da tempo una specie di « classe » nell'ordinamento della Chiesa, ma si trattava di peccatori che stavano espiando ufficialmente la loro colpa) sostituendosi all'antico, beneficia tuttavia della situazione, in quanto viene considerato una specie di categoria ecclesiastica inferiore (11). La generalizzazione di questo movimento di penitenza nel XIII secolo spiega perché un certo numero di associazioni o di gruppi importanti portino il nome di Fraternità o di Ordini

(10) K. BIHLMEYER-H. TUECHLE, Storia della Chiesa, cit., p. 142.(11) La somiglianza di nome di alcune di queste società, l'imprecisione

del carattere presso la maggior parte, la rarità e la dispersione dei documenti che le riguardano, hanno reso difficile lo studio di un soggetto cosí importante per la conoscenza dello stato della società civile e religiosa del medioevo. Di fatto le teorie sulle origini di questi Ordini penitenziali sono ancor oggi diverse e contrastanti; mi e parso però sufficiente, per il mio assunto, attenermi alla teoria più seguita dagli studiosi. Cfr. MANDONNET-VICAIRE, cit., p. 297.

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della Penitenza, senza parlare di molti altri che hanno il medesimo carattere senza averne il titolo.

Fra le comunità che hanno portato un nome penitenziale, abbiamo i Fratres o Ordo de Poenitentia, cosí chiamati senz'altra aggiunta al loro titolo ufficiale, che sono il gruppo più antico. L'Ordo de Poenitentia Beatae Mariae-Magdalenae, fondato nel 1255 in Francia e in Germania, e che comprende solo il ramo femminile. L'Ordo de Poenitentia Jesu-Christi (chiamato usualmente Fratelli del Sacco) fondato al tempo del primo Concilio di Lione; e inoltre l’Ordo de Poenitentia sanctorum martyrum, limitato alla Polonia.

È soprattutto in Italia che, sul finire del XII sec. si ha il maggior sviluppo del movimento penitenziale laico; oltre agli Ordini già citati abbiamo l’Ordine dei Servi di Gesú Cristo, di S. Marco, di S. Giovanni Battista; altri gruppi, non appartenenti ad Ordini veri e propri, prendevano il nome dalla Chiesa o dall'Ospedale presso cui vivevano e servivano come: i Frati dell'Ospedale di S. Gallo, i Frati Crociati di Osmannoro a Firenze; i Frati della B. Vergine di Parolo, di S. Caterina a Bologna, i Frati di S. Marco a Parma (12).

Infine l’Ordo de Poenitentia S. Dominici e l’Ordo de Poenitentia S. Francisci, i cui nomi appaiono verso la fine del XIII sec. (13).

2) Un uomo della penitenza: Francesco.

Quando, nel 1207, Francesco si converte, indossa l'abito eremitico e si mette a condurre vita di penitenza. È cosí che egli stesso si descrive nel suo testamento, destinato a rappresentare quello che egli considerava il suo vero spirito: « Dominus ita dedit mihi fratri Francisco incipere facere poenitentiam » (14); Giordano di Giano, nella sua cronaca, presenta questa penitenza di Francesco non come una penitenza comune o transitoria, ma come uno stato, «modum

(12) R. M. TAUCCI, La vita religiosa a Firenze al principio del sec. XIII, in Studi storici, O.S.M., Roma, V, 1953, p. 50.

(13) I rapporti dell'Ordine Francescano con le altre Fraternità penitenziali, specialmente per quanto riguarda il terz'Ordine, non sono stati ancora sufficientemente chiariti sul piano storico.

(14) Acta Sanctorum octobris, II, Autverpiae, 1768, p. 663, n. 622.

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penetencie» (15). Qualche tempo dopo, restaurata la Chiesa di S. Damiano, Francesco ascolta le parole del Vangelo in cui Gesú descrive il costume di quelli che invia a predicare, e subito le mette in pratica: abbandona il bastone e le scarpe; cambia la cinta di cuoio con una corda e non conserva che una tunica; diventa cosí, sotto questo abito, ancora più penitente (in effetti il bastone era simbolo di penitenza, ed era portato abitualmente dagli eremiti e dai pellegrini in viaggio di penitenza).

Quando comincia a predicare in pubblico, Francesco predica la penitenza (16). I primi compagni che si uniscono a lui, nel secondo anno della sua conversione, abbracciano secondo il suo esempio la vita di penitenza. Il secondo di questi compagni, Egidio, quando già i Francescani portavano il nome di Frati Minori chiama ancora la loro vocazione «stato di penitenza » (17).

Il prete avaro, che è convertito dall'esempio di Francesco, si mette a condurre vita penitente a casa sua (18). In una delle sue lettere Francesco indica quelli che osservano la sua regola con questa formula: « De illis qui faciunt poenitentiam ».

Quelli che non ottemperano alla regola sono posti sotto la rubrica: « De iilis qui non agunt poenitentiam » (19).

Quando Francesco con i suoi tre primi compagni tenta un principio di attività apostolica, ma non ancora di predicazione vera e propria, è all'amore a Dio, alla «penitenza», che egli esorta (20). Il programma stesso tracciato da Francesco ai suoi primi compagni, è di andare per il mondo a dire a tutti, più con l'esempio che con la parola, di fare

(15) «Anno Domini 1207, Franciscus... in habitu heremitico modum penetencie est aggressus », Analecta Franciscana, I, 2, Ad Claras Aquas, 1885.

(16) « Coepit instincto divino evangelicae perfectionis annunciator existere, poenitentiamque simpliciter in pubblicum praedicare », TRES SOCII, Acta Sanctorum, 730, n. 25, Venetiis, 1734.

(17) « Si exempla Patrum nos praecedentium non habuissemus, forsitan in statu poenitentiae, in quo sumus, non essemus », Acta Sanctorum, 23 aprile, cit., 234, n. 57.

(18) « Coepit Deum timere, et in domo sua poenitentiam agere ». TRES SOCII, Acta Sanctorum, cit., 732, n. 31.

(19) SABATIER, Collection II, 132, 33.(20) «Hortabatur omnes ut amarent et timerent Deum, atque

poenitentiam agerent de peccatis ». TRES SOCII, Acta Sanctorum, cit., 732. n. 33.

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penitenza dei loro peccati. «Annunciate semplicemente la penitenza » (21).

Quando più tardi Francesco scrive ai suoi frati, qualifica la loro predicazione come predicazione di penitenza (22). Un testo della vita di Fra Egidio ci descrive questo metodo di predicazione penitenziale. « Quando Francesco ebbe dato l'abito a Egidio, lo prese con sé e lo condusse nella Marca. Beatus autem Franciscus nondum praedicabat populo: tamen quando per civitates et castello transiret, confortabat homines ut poenitentiam agerent, et Fr. Aegidius respondebat dicens: Optime dicit, credatis ei» (33). La gente che li vede passare, a volte li ascolta, a volte li schernisce, e alla fine domanda loro a che Ordine appartengano. Ed essi rispondono: « noi siamo gli uomini della penitenza di Assisi» (24).

Ai suoi inizi quindi il gruppo francescano portava il nome di Penitenti ed era veramente un'associazione laica con carattere penitenziale. Nel 1209 o 1210 Francesco e i suoi compagni, già. in dodici, vengono a Roma a presentarsi a Innocenzo III, per fare approvare la loro piccola regola o forma di vita.

Il Papa acconsente e determina lo scopo dell'associazione nascente: la predicazione della penitenza. « Ite cum Domino, fratres, et sicut ipse vobis inspirare dignabitur, omnibus poenitentiam praedicate » (25). Questa licenza non è il permesso di predicare in generale, ma una concessione speciale e limitata, quella di predicare la penitenza. La Chiesa in effetti, non desiderava, come abbiamo già visto, affidare senza riserva la missione di predicare ai laici. Cercando di evitare lo scoglio della predicazione popolare e di concedere allo stesso tempo qualche cosa all'inclinazione del momento, la Chiesa autorizzò la predicazione dei membri laici di certe associazioni, circondandola di diverse restrizioni. Per prima cosa subordinò l'esercizio di questo diritto all'autorizzazione

(21) « Eamus per mundum, exhortando omnes plus exemplo quam verbo ad agendum poenitentiam de peccatis suis... annunciate simpliciter poenitentiam ». TRES SOCII, Acta Sanctorum, cit., 733, n. 36.

(22) « In omni praedicatione quam facitis de poenitentia ». SABATIER, Collection II, 136.

(23) Acta Sanctorum, 23 apr., 222, n. 2.(24) «Quidam interrogabant eos: "Unde estis? Alii vero: De quo Ordine

estis ? Illi autem simpliciter respondebant: Poenitentes sumus et in civitate Assisio nati sumus. Adhuc enim Religio fratrum non nominabatur Ordo" », Acta Sanctorum, 585, n. 211.

(25) TRES SOCII, Acta Sanctorum, 736, n. 49.

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dei Parroci e degli Ordinari; poi restrinse l'oggetto della predicazione alla pietà e alle buone opere, escludendo il dogma e i sacramenti; di qui il nome di « esortazione » impiegato di solito per indicare questo tipo di predicazione laica. Ma questa restrizione ci fa comprendere come la Chiesa già fosse tendenzialmente inclinata a identificare la penitenza con uno stato d'animo direttamente riferito al peccato, o meglio « ai peccati »; cioè a intendere ancora in senso soltanto « morale », e quindi disciplinare, molto determinato sul piano teologico delle colpe, l'esortazione alla penitenza. Fin dal primo momento, cioè, pur in contatto con il più profondo significato del movimento penitenziale, nella persona e nello spirito di Francesco, la Chiesa interpreta nel suo aspetto marginale la «penitenza», quell'aspetto marginale che tuttavia diventerà anch'esso un tratto culturale, quando le « pratiche » penitenziali diventeranno appannaggio istituzionale della Chiesa, e, una volta codificate, saranno col Concilio di Trento riportate nell'alveo del cristianesimo ufficiale. Predicazione, processione, flagellazione, via Crucis non saranno più lasciate alla libera volontà dei laici, e diventeranno strumento devozionale e disciplinare della gerarchia, che sola potrà permetterne l'uso.

La regola del 1210 conferma il fatto che i primi Francescani erano deputati alla predicazione della penitenza. La regola contiene in effetti il modello stesso di questa esortazione alla penitenza, che è come il canovaccio se non il testo scritto di quello che i Frati debbono dire per « esortare » il popolo. Il tratto principale di questa breve esortazione è quello della penitenza. «Et hanc talem exhortationem et laudem omnes fratres mei quandoque placuerit eis annuntiare possimi et inter quoscunque homines cum benedictione Dei... Facite poenitentiam, agile dignos fructus poenitentiae... Beati qui moriuntur in poenitentia, quia erunt in regno coelorum. Vae illis qui non moriuntur in poenitentia... » (26).

La regola del 1223 dà ancora alla predicazione francescana una forma limitata. Essa deve essere breve e relativa alla morale: « In praedicatione quam faciunt (fratres) sint examinata et casta eorum eloquia ad utilitatem et aedificationem populi, annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et

(26) Regola I, Cap. XXI.

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gloriam cum brevitate sermonis» (27). Sembra che i primi studi francescani siano stati ordinati su questo programma.

Francesco si presentava alla Chiesa nel momento in cui questa era entrata nella via delle concessioni. Beneficiò quindi di una pratica molto antica, ma soprattutto definitivamente stabilita durante gli ultimi dieci anni. Innocenzo III, concedendo nel 1210 a Francesco e ai suoi compagni un diritto di predicazione, continuò a farlo secondo il costume stabilito: ne limitò l'oggetto ad una esortazione alla penitenza.

Ma invece di subordinarne l'esercizio ad una precedente autorizzazione dell'Ordinario, il Papa la subordinò all'autorizzazione di Francesco stesso, e allo scopo di non laicizzare del tutto la predicazione, fece dare la tonsura a Francesco e ai suoi compagni, che divennero chierici, incorporati cosí alla gerarchia ecclesiastica. Francesco si attenne sempre poi alla pratica di accordare indistintamente ai chierici e ai laici dell'Ordine il ministero della predicazione della penitenza.

L'azione esercitata dall'esempio e dalla parola di Francesco e dei suoi compagni ebbe per effetto di attirare alla loro forma di vita persone che si trovavano in condizioni diverse dalla loro, donne pie che votarono a Dio la loro verginità, e laici impegnati nel matrimonio. Le vergini e le vedove continenti di cui Chiara d'Assisi fu nel 1212 la primizia, appartengono a quella fioritura intensa di donne pie, che in diversi luoghi della cristianità, al principio del 13° secolo, si votano alla castità, senza entrare in monasteri propriamente detti, restano nel mondo o si raggruppano fra loro per condurre una vita penitente e vivere del lavoro delle loro mani.

La Chiesa Romana dà loro ufficialmente il titolo di Continenti, cosí pure agli uomini che imitarono questa forma di vita. Si costituiscono cosí diversi monasteri; ma la maggior parte di queste persone non si mettono che verso la fine del secolo sotto una regola riconosciuta, sebbene siano considerate come impegnate nella vita di Penitenza. I continenti (maschi o femmine) ricevettero diversi nomi, specialmente quello di beghini e beghine; e questo nome fu applicato a tutte le persone che vivevano nel mondo pur conducendo una specie di vita religiosa. (È qui ancora operante l'antico concetto

(27) Regola II, Cap. IX.

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ascetico di salvezza ottenibile solo « fuori del mondo », almeno spiritualmente, anche se non del tutto materialmente). Chiara e le sue compagne, affiliandosi, o meglio incorporandosi alla Fraternità francescana, si sottomettevano a una regola determinata, ma che non era ancora ufficialmente canonica. In ogni caso esse abbracciavano la vita di Penitenza, che era il tratto caratteristico di Francesco. Nel suo testamento Chiara chiama la sua prima vocazione una vocazione alla Penitenza: «Pater Coelestis...cor meum dignatus est illustrare ut exemplo et doctrina beatissimi patris nostri Francisci poenitentiam facerem (28). Cosí pure il suo antico biografo quando nomina le umili vesti che riceve dalle mani di Francesco le chiama insegne di penitenza: « Cum autem coram altari beatae Mariae sanctae poenitentiae suscepisset insignia... » (29). I « Tre Compagni », fornendoci qualche parola di chiarimento non soltanto su Chiara, ma su tutto questo movimento femminile, non esitano a dichiarare che era un movimento penitenziale diretto dai Frati. « Mulieres, virgines et viduae ad eorum praedicationem compunctae, secundum ipsorum consilium, per civitates et castra, monasteriis ordinatis, recludebant se ad poenitentiam faciendam » (30).

Il quadro religioso-sociale del tempo e del luogo in cui sorge il movimento francescano — cioè del principio del secolo XIII e dell'Italia comunale — è vasto e complesso e presenta elementi contradditori. Nella nuova società italiana ed europea vi erano elementi di laicità e di razionalismo che non significavano, secondo le definizioni correnti oggi, estraneità e tanto meno ostilità verso la religione, ma conferivano alla vita religiosa maggiore autonomia di fronte alla tradizione e alla gerarchia. Il secolo XII e XIII sono estremamente religiosi; ma cominciano a farsi luce delle virtù umane, o meglio si comincia a far luce una valorizzazione dell'umano, che apparentemente sembra porsi al di fuori del contesto sacro tradizionale, per cui anche la religiosità prende aspetti diversi e contradditori. La fede religiosa tende a concretizzarsi maggiormente nella fede morale e cerca la sua realizzazione nella vita pratica, o almeno viene sentita come

(28) Acta Sanctorum, 12 agosto, cit., 747, n. 42.(29) Acta Sanctorum, 12 agosto, cit., 756, n. 8.(30) Acta Sanctorum, 4 ottobre, cit., 738.

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occasione e possibilità nella vita terrena. Cominciano ad essere valorizzate come virtù da vivere nel mondo, la prudenza, la fortezza, la giustizia, accanto a quelle che erano state considerate sempre le virtù monacali per eccellenza: l'umiltà e la penitenza (intesa nell'antico significato di ascesi), non perché credute proprie di un particolare stato di vita come quello monacale, ma perché credute possibili, totalmente possibili, solo nel distacco dalla vita terrena e nell'immersione in quell'anticipo di vita ultraterrena quale era ritenuto il monachesimo; non per nulla il cenobio era chiamato infatti: « deambulatorium angelorum ».

Di fronte al clero, pur considerato sempre come trasmettitore delle grazie soprannaturali, si veniva formando un'opinione pubblica più libera, più distaccata, più critica. Il monaco poi, come era stato fino allora, appariva al popolo, anche quando era perfettamente rispettabile nella condotta di vita, come appartenente all'aristocrazia, e quindi era sentito in genere lontano ed estraneo più del clero secolare.

La critica e il distacco rispetto al clero venivano acuiti dalle controversie comunali che, nella prima metà del secolo XIII, possono essere considerate quotidiane. Alle misure giuridiche, economiche, militari dei Comuni, contrarie ai privilegi del clero, l'autorità ecclesiastica replicava con censure spirituali, scomuniche, interdetti. La privazione dei sacramenti e delle funzioni religiose pesava gravemente sulla coscienza dei fedeli, e contribuiva ad impoverire la vita sociale, che era allora ravvivata soprattutto dalle festività religiose. Tuttavia, come è naturale che avvenga, man mano che le censure ecclesiastiche divenivano più numerose e frequenti, il popolo ne rimaneva meno sconvolto, e addirittura finiva col prendere un atteggiamento di resistenza. Si faceva allora pressione sul clero secolare perché non osservasse l'interdetto, oppure consoli e podestà prendevano misure di rappresaglia interdicendo ai cittadini ogni rapporto coi vescovi ed i preti. Si cominciava perciò a mettere in discussione, sia pure in linea di principio, il limite fra potere civile e potere religioso, e a distinguere fra la spiritualità e la temporalità della Chiesa. Praticamente si comincia a prendere coscienza delle possibilità di critica da parte del popolo, nei confronti delle condizioni morali e giuridiche della Chiesa come istituzione; e comincia a formarsi, come vedremo meglio trattando della predicazione popolare, una vera e propria opinione

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pubblica, che non si peritava per es. di deplorare la donazione di Costantino a Papa Silvestro, e che criticava aspramente l'attaccamento ai beni terreni, l'avarizia e la cupidità della curia romana (31).

Ritorno al Vangelo, povertà, lavoro, predicazione apostolica erano nell'aria. Su queste aspirazioni e su queste incertezze prendeva forza quella tendenza apocalittica che non era mai venuta meno nel medioevo. Se il mondo era corrotto, se la sua corruzione era penetrata nella Chiesa, gli ultimi tempi dovevano essere vicini. Questa certezza prendeva corpo nella voce profetica di Gioacchino da Fiore. Ritiratosi in solitudine sull'altipiano della Sila, egli aveva fondato verso il 1190 S. Giovanni in Fiore, congregazione di Cisterciensi riformati che non ebbe però grande sviluppo. Gioacchino aveva una coscienza acutissima dei mali morali del monachesimo, e in genere del clero a lui contemporaneo, e contro di essi cominciò a lanciare aspre invettive. Tutti gli istituti ecclesiastici del tempo gli apparivano ben lontani dalla perfezione della Chiesa primitiva. Per quanto riguardava poi le contese fra la Chiesa e l'Impero, egli dubitava se non sarebbe stato meglio patire l'ingiustizia piuttosto che correre il rischio di commetterla. La sua massima aspirazione dunque era quella di liberare la Chiesa dalle dispute giuridico-politiche, e da qualsiasi gravame di impegni terreni.

Lo studio assiduo delle Scritture, animato dalla sua esperienza e dai suoi ideali religiosi, lo condusse a comporre una serie di opere in cui il principio tradizionale della molteplicità dei sensi scritturali era applicato in un allegorismo ad oltranza, tanto da trasformare gli scritti biblici in una quasi esclusiva rappresentazione del futuro. L'Antico Testamento era stato considerato fin dai primi tempi del cristianesimo come una figura del Nuovo; ora Gioacchino interpretò il Nuovo come figura dell'età successiva e finale. Le opere più indicative della sua concezione apocalittica sono la « Concordia Novi et Veteris Testamenti », la « Expositio in Apocalypsim » e il « Super Quattuor Evangelia », scritte verso la fine del secolo XII (Gioacchino morí nel 1201 o 1202). Gioacchino pose al centro della storia, non la Cristologia come si era

(31) Cfr. L. SALVATORELLI, Movimento francescano e Gioacchimismo, in Relaz., X Congr. Intern. di Scienze Storiche, Firenze, 1955, vol. I pp. 418 ss. Ci sembra sufficiente ricordare quanto dice a questo proposito DANTE, Inferno, XIX, v. 90 e ss.

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sempre fatto, ma la Trinità. Alle tre persone di Dio fece corrispondere tre tempi e tre stati della storia della salvezza. Il primo tempo da Adamo a Cristo, il secondo da Cristo al tempo stesso di Gioacchino, il terzo infine che avrebbe dovuto avere inizio con il ritorno di Elia. Non vi è fra i tempi secondo Gioacchino una separazione netta, anzi essi si intersecano in modo tale che il tempo evangelico è già iniziato con i profeti ebraici, e il terzo tempo con S. Benedetto. Se lo stato del primo tempo era sotto il dominio della Legge, si è avuto col Vangelo l'avvento del regno della Grazia, ed è ormai tempo per il regno dello Spirito, che si svilupperà nella pienezza della libertà, perché dice l'Apostolo: « dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà ».

Alla pari del regno di Dio evangelico, il terzo tempo dello Spirito Santo, sebbene futuro, comincia già ad infiltrarsi per Gioacchino nel presente; gli albori di esso, egli dice, illuminano già i nostri occhi. Questo terzo regno, preparato da Benedetto, doveva infatti essere il regno del monachesimo, trionfante in una assoluta spiritualità. L'essenza del nuovo stato è l'abolizione di ogni vincolo, di ogni istituto, di ogni elemento materiale esterno. La Chiesa dovrà essere anch'essa completamente spiritualizzata. Gioacchino non impugna nessuno degli istituti ecclesiastici esistenti, ma li ritiene destinati tutti a scomparire nell'imminente regno dello Spirito. È questa l'attuazione diretta e definitiva del « Vangelo Eterno ».

Nel quadro della redenzione finale e purificazione suprema, immaginato dalla fantasia di Gioacchino da Fiore, figuravano personaggi di provenienza celeste e nuove comunità religiose, che furono identificati facilmente con Francesco e il suo ordine. S. Francesco fu considerato il grande predicatore della verità, preannunziato negli scritti di Gioacchino come colui che doveva venire ad insegnare agli uomini il disprezzo della terra e l'amore del cielo, e a portare loro il dono dello Spirito Santo; e viene identificato con l'angelo dell'Apocalisse che porta impresso il segno del Dio vivente (le stimmate); identificazione che si ritrova sia nell'an-tigioachimita S. Bonaventura che nella testimonianza gioachimita di Salimbene (32).

(32) Cfr. L. SALVATORELLI, cit., pp. 403 ss. e A. MESSINI, Profetismo e profezie ritmiche italiane d'ispirazione gioachimito-francescana (secc. 13° e 14°), Roma, 1939.

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L'anno fissato, in base ai calcoli apocalittico-gioachimiti per l'avvento del regno dello Spirito era il 1260; e appunto in quest'anno scoppiò il movimento dei Flagellanti, in stretta relazione, come vedremo, con l'aspettativa apocalittica precedente, anche se era del tutto estranea allo spirito francescano originario. Passato il 1260 senza la discesa dello Spirito, il grande movimento apocalittico si disciolse; ma non venne mai meno. Bastava che sorgesse un nuovo momento di tensione politico-religiosa che l'apocalittica rifioriva, l'aspettativa di una grande palingenesi tornava a farsi vivace e a produrre sommovimenti specialmente in Italia. Accanto alla figura di Francesco, nuovo Elia, nuovo Giovanni Battista, comparivano quella del Papa Angelico, che finalmente avrebbe purificato la Chiesa, o dell'Imperatore che l'avrebbe redenta.

Non sappiamo se qualcosa delle profezie gioachimite sia mai arrivato all'orecchio di Francesco; è infatti assai difficile stabilire quanto egli abbia partecipato al fermento religioso, più o meno eterodosso, del tempo. Può darsi che abbia sentito parlare dei Valdesi, diffusi in Lombardia e in Francia, da suo padre che compiva numerosi viaggi di lavoro; notizie sugli eretici, e sui conflitti locali con le autorità religiose, correvano del resto largamente sia per motivi politici sia per motivi religiosi.

C'è però in Francesco qualcosa di assolutamente diverso dai movimenti e dalle personalità che pure apparentemente propugnano gli stessi ideali. Il Salvatorelli individua il nucleo di questa differenza nell'affermazione positiva di un bisogno religioso, nell'espressione vitale di una profonda esperienza di carattere sacrale, mentre negli altri movimenti sembra prevalere un carattere negativo e polemico. All'origine dell'azione religiosa di Francesco non troviamo infatti nessun elemento di opposizione, o semplicemente di critica, verso i vizi del clero o le condizioni della Chiesa. La sua crisi religiosa non sorse dalla impressione fattagli dalle condizioni ecclesiastiche del tempo. La sua « vocazione » è vocazione che nasce da un bisogno personale, la sua vita è creazione personalissima, in cui tutti i motivi presenti nella cultura in cui egli vive e di cui partecipa, sono potenziati e portati alle estreme conseguenze.

Il significato « profetico » (nel senso che abbiamo chiarito) del Vangelo è per lui immediato e assoluto, individuale

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e totale, certamente non « sociale ». La categoria del sociale (almeno nel significato che diamo oggi a questo termine) gli è estranea, come gli è estranea qualsiasi classificazione del mondo. Gli uomini nella loro totalità e nella loro individualità gli sono presenti, uguali a lui e trascinati in lui a partecipare a quella « unione » che è il Cristo, che è al di là, al di sopra, o meglio « radicalmente altro » da qualsiasi altra unione. Il Vangelo, come messaggio « assoluto », è messaggio di «penitenza»; in Francesco questo atteggiamento fondamentale di fronte alla vita cerca (e trova) la sua massima e piena realizzazione. La penitenza, di cui abbiamo visto evidenziarsi tanti aspetti diversi e convergenti, si rivela nel suo vero significato e si riassume nella personalità e nella creazione di vita che si realizza in Francesco. La penitenza è « l'orientamento di base », è il significato essenziale dell'esistenza, nei suoi motivi radicali quasi sempre non del tutto consapevoli ed espliciti, che tenta delle realizzazioni parziali nella penitenza del corpo, nella povertà, nella ricerca di ciò che è pili basso, più umile, più nudo. Ma è, al fondo di questi tentativi di estrinsecazione esterna, di realizzazione visibile, un « atteggiamento » di base, una « interpretazione » della vita. L'« uomo » è uomo della penitenza, perché è implicito nell'essere uomo, essere in rapporto a Dio, e proprio perché in rapporto a Dio « basso » « umile » « peccatore » « penitente ». La « penitenza » è lo « stato » dell'uomo che riconosce Dio, una condizione esistenziale, l'unica possibile condizione per l'uomo davanti a Dio, per l'uomo che, riscattato dal Cristo, tende a inserirsi nell'amore.

Per questo non c'è in Francesco l'esplicita intenzione di fondare un ordine religioso, o di modificare in qualche modo la società politica o la gerarchia ecclesiastica; per lo stesso motivo è anche assente in Francesco l'aspirazione al sacerdozio. Tanto più infatti egli sarà in rapporto con Dio, quanto più sprofonderà nel suo essere uomo; il sacro è presente non nella ricerca di attributi sacri, ma nello spogliarsi di qualsiasi attributo, che lo lasci nudo nel riconoscimento profondo della sua umanità. Quella stessa umanità che lo fa gridare piangendo amaramente per notti intere: « Mio Dio e mio tutto !»(33), e che si riassumerà totalmente, in presenza della morte, nel suo voler essere disteso, spoglio

(33) Fioretti, Cap. I.

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di tutto, sulla terra (34). In una dimensione interiore, che è quella del rapporto d'amore con Dio, e che si esplicita nel riconoscimento del proprio essere « esaltato nella propria nullità », profondamente sentito perché interiormente vissuto come unica realtà possibile all'uomo, niente più è vincolo significativo, ma tutto è in funzione di una sempre maggiore realizzazione dello « stato di penitenza ».

Francesco non tende a cambiare nulla esplicitamente della realtà sociale esterna, ma solo a chiamare i singoli uomini ad una « conversione » interiore, che, se vera e totale, di per sé porta ad un cambiamento di vita. Del resto per Francesco il cambiamento di vita è poco importante; quando la realtà è la realtà interiore, l'altra la serve, ed è importante solo perché la serve e le permette di esprimersi. Si compie in Francesco, in forma totale, quel capovolgimento di valori che solo apparentemente era stato tentato dal monachesimo, soprattutto orientale. Il monachesimo ascetico, proprio perché in forma massiccia ripudiava il « mondo » terreno, gli onori, le glorie, le gioie del mondo, proiettava il male in qualche modo fuori dell'uomo, ed esplicitamente riconosceva in esso una proposta di valore, una realtà da cui guardarsi, oggettivata e presente. Il disprezzo e la fuga infatti non annullano il nemico, anzi ne riconoscono la realtà. Ben altro l'atteggiamento di Francesco. In lui non esiste dualismo perché qualsiasi dualismo si risolve se si ammette che unica realtà di bene o di male è il proprio modo di essere di fronte a Dio, e che tutto in sé è buono perché rivelatore di Dio, e del rapporto di Dio con gli uomini (38). Parlare di un naturalismo di Francesco, come a volte è stato fatto, ci sembra errato perché non c'è in Francesco nessuna preoccupazione di « catalogare le cose» in una gerarchia di fronte a Dio. C'è invece una sola realtà; Dio, che ama, da una parte, e il mondo

(34) « Si spogliò e rimanendo ignudo, seduto per terra, con la mano sinistra che ricopriva la cicatrice perché non potesse essere veduta da altri, disse loro: "Ho fatto la mia parte; ora fate voi come il Signore v'ispirerà" ». (I fiori dei Tre Compagni, Sezione D, 33 a, ed. Vita e Pensiero, Milano, 1967).

(35) « Diceva anzi che il frate ortolano doveva fare un bell'orticello in qualche parte dell'orto, seminando e piantando erbe odorifere e altre di ogni specie che producono fiori, affinché alla loro stagione invitino i riguardanti a lodare Iddio. Perché ogni creatura proclama e grida: Dio mi fece per te, o uomo ». (I Fiori dei Tre Compagni, cit., 113).

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tutto, inclusi gli uomini, in atteggiamento « penitente » di fronte al suo amore; atteggiamento « penitente », e cioè atteggiamento di assoluta umiltà, di assoluto riconoscimento del rapporto fra Dio creatore e il mondo creatura. Nulla di più lontano da Francesco che un naturalismo, o un panteismo, perché è il rapporto, rapporto d'amore fra Dio e gli uomini, fra Dio e le cose, che per lui è unica luce, unica realtà. Rapporto d'amore che solo il Vangelo, cioè il richiamo alla « conversione », non « passaggio » d'animo, ma « stato » sempre più approfondito, sempre più creduto, sempre più vissuto, rende possibile.

Se la conversione è una prima trasformazione, un movimento della volontà, essa si stabilizza, si realizza, si approfondisce durante tutta la vita nella « penitenza », nell'essere e nel sentirsi « penitenti », profondamente miseri davanti a Dio e profondamente esaltati perché finalmente, come « penitenti », capaci di amarlo.

Par di sentire infatti in tutte le parole di Francesco gli aggettivi di lode con cui egli « scopriva » Dio: bello, radiante, prezioso, casto, iocundo, colorito, robustoso, forte, risuonano, mi sembra, soprattutto come attributi di Dio, una litania di entusiastico e consapevole amore, amore che come sempre nell'amore umano, irradia e si riverbera su tutto e su tutti. In un turbine d'amore Francesco strappa le cose alla loro oggettività terrena e le trascina con sé nella visione della bellezza di Dio. Ma, ben diverso sotto questo aspetto dalla psicologia consueta dei mistici, Francesco è un uomo della « penitenza », un uomo che ha accettato il Vangelo come messaggio da vivere nel mondo, non fuori del mondo, è penitente in quanto è nel mondo. Di qui il suo rifuggire all'istituzione di un ordine, alla formulazione di una regola; il Vangelo è prima di tutto uno stato interiore, è il significato da dare alla vita e l'atteggiamento da prendere di fronte ad essa. Nient'altro è necessario, perché tutto è dettato dal di dentro, cioè dal modo con cui vivere le cose, le situazioni che si presentano (36). Come pensare

(36) Da questo punto di vista non possiamo fare a meno di riproporre la lettura del celebre brano sulla perfetta letizia. Francesco disse: « Scrivi quale è perfetta letizia. Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell'Ordine. Scrivi: non è perfetta letizia. Dice anche, che sono entrati tutti i prelati di oltremonte, arcivescovi e vescovi; e anche il Re di Francia e il Re d'Inghilterra.

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che si possa « codificare » uno stato d'animo, un atteggiamento psicologico, una verità interiore?

Francesco dunque rappresenta la realizzazione totale della cultura penitenziale, e sotto certi aspetti ne è anche al limite; egli mostra con chiarezza verso che cosa « tende » la cultura penitenziale, anche se egli solo riesce a realizzarla nella sua purezza, in qualche modo ponendosene anzi al di fuori.

Molti tratti della cultura penitenziale rimarranno estranei alla sua prospettiva (per es. la ricerca voluta della sofferenza e il profetismo apocalittico), ma in Francesco indubbiamente si colgono i significati essenziali di questa cultura, soprattutto « l'atteggiamento » che ne è alla base, quello di una implicazione totale del mondo nel Vangelo, implicazione cui nessun aspetto della vita può e deve sfuggire.

3. I « valori»: la povertà, pietra di paragone della cultura penitenziale.

Fin dai primi tentativi di predicazione penitenziale la povertà appare come l'aspirazione costante degli uomini della penitenza, ideale e simbolo di quel « ritorno » a un cristianesimo primitivo, che era la loro forza e la loro motivazione essenziale.

Scrivi: non è perfetta letizia. Dice anche, che i frati sono andati agli infedeli e che li hanno convertiti tutti alla fede; e anche che io ho tanta grazia da Dio che risano gl'infermi e opero molti miracoli. Ti dico che in tutte queste cose non è perfetta letizia. Ma quale è perfetta letizia? Torno da Perugia e di notte fonda vengo qua. È tempo fangoso d'inverno, e tanto freddo che pendagli d'acqua diaccia rappresa si formano agli orli della tonaca e flagellano di continuo i ginocchi e viene sangue dalle lacerazioni. Tutto infangato e intirizzito e gelato arrivo alla porta. Batto a lungo e chiamo, e viene il frate e chiede: "Chi sei?". Rispondo: "Frate Francesco". E quello dice: "Vattene, non è ora d'andare in giro: qua dentro non metti piede". E a me che insisto, ribatta: "Vattene, sei uno zuccone e un ignorante, non venirci più tra i piedi. Siamo tanti e cosí cresciuti che di te non ce ne facciamo niente". E io ancora sto all'uscio e dico: "Per amore di Dio, ricettatemi questa notte". E quello ripicchi: "Manco per niente. Vattene all'ospizio dei Crociferi, e bussa lí". Ti dico che se avrò avuto pazienza e non mi sarò alterato, in ciò è perfetta letizia e perfetta virtù e salvezza dell'anima ». (I fiori dei Tre Compagni, cit., Appendice, n. 5).

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In realtà non si trattava di un ritorno. E non soltanto perché i ritorni sono storicamente impossibili; ma prima di tutto perché la povertà è un concetto « relativo ». I poveri infatti sono sempre tali in rapporto ai ricchi. La diversa valutazione di ciò che è la ricchezza, rende possibile la valutazione della povertà. E naturalmente parliamo qui di una povertà strettamente economica. Ma c'è tutto un aspetto della povertà, che è alla base della cultura penitenziale (in Francesco stesso la povertà ha una funzione esclusivamente strumentale) (37) e che va ben oltre i limiti di una valutazione economica. Tuttavia agli inizi i primi predicatori itineranti (Roberto d'Arbrisselles, per esempio) si rifanno a un concetto di povertà economica (comunitaria) come a un ritorno alla vita della Chiesa primitiva, apostolica. In questa prima fase è soprattutto l'anelito alla riforma della Chiesa, che spinge questi uomini coscientemente a desiderare e predicare un cristianesimo povero. Essi predicano, accentuando fortemente la povertà, perché hanno sotto gli occhi lo sfacelo spirituale della Chiesa (gerarchia, clero e monaci) quasi del tutto irretita dal giogo dei beni del mondo.

I beni del mondo, d'altra parte, includevano allora tutto quanto di meglio ci fosse, e non soltanto la ricchezza; il clero secolare e regolare, che provenisse o no dalla nobiltà, di fatto entrava a far parte di un ordine sociale pieno di prestigio e di autorità (l'appartenere al clero rimase fin verso la metà del quattrocento un mezzo di ascesa sociale). La ricchezza in senso stretto era un bene che si accompagnava a tutti gli altri, prestigio, potere politico, autorità, cultura, libertà, privilegio.

La penitenza è lo stato del tutto opposto a questo, e suo immediato strumento è la povertà. È per i limiti della stessa dialettica umana, per l'impossibilità di predicare una metànoia puramente psicologica, che gli uomini della penitenza si aggrappano alla povertà come pietra di paragone dello stato di penitenza che essi propongono. Naturalmente non si può affermare con questo che essi fossero coscienti della strumentalità, nel loro atteggiamento, della ricerca di una povertà assoluta. Un atteggiamento culturale è sempre, almeno in parte, inconscio (non consapevole); d'altra parte

(37) L. SALVATORELLI, Movimento francescano e Gioacchimismo, in «Relazioni», cit., p. 433 e passim.

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il bisogno di oggettivare in qualche modo i propri ideali, con delle forme concrete di comportamento, è connaturato con l'uomo: l'uomo del medioevo soprattutto che, per quel fenomeno di ricerca di una coincidenza puntuale fra interno ed esterno, fra soggettivo ed oggettivo che lo caratterizza, è immediatamente portato ad estrinsecare in corposi gesti esteriori i suoi sentimenti, e identifica subito la penitenza con la povertà (senza mezzi termini: mendicità), con la sofferenza fisica (inasprimento di digiuni, poi flagellazione), col distacco dal mondo (vagabondaggio, eremitismo, pellegrinaggio).

Il concetto di povertà, e la ricerca di ciò che è più povero, si articola perciò in diverse forme, e nel valore primario si inseriscono valori derivati o addirittura diversi, connessi e interagenti con le trasformazioni sociali allora in atto.

La mendicità per esempio, è in relazione non soltanto con il concetto di lavoro che comincia proprio in questo periodo ad assumere significato « laico », ma anche con altri tratti culturali, che partecipano della struttura psicologica e religiosa dell'uomo penitente.

Il mendicante, infatti, è figura quanto mai suggestiva. Come il pellegrino e l'eremita, viene da un mondo lontano, diverso, estraneo; in qualche modo il mendicante è « dall'altra parte », è altro. Questo aspetto mitico del mendicante è presente in molte religioni (basti per tutte il buddismo), ma lo troviamo esemplificato molto bene nella cultura greca, in cui pellegrino, straniero, profeta e mendico sono spesso la stessa cosa. Da essi proviene una forza, sono in qualche modo rappresentanti della « potenza », e in quanto tali, potenti essi stessi. Incutono timore, perché il timore si accompagna sempre al « diverso », all'estraneo, all'altro. Ispirano, come sempre i rappresentanti della potenza, un sentimento ambivalente di ammirazione e di dispregio; cosa questa che spiega, almeno in parte, il fascino e l'ostilità che hanno riscosso i primi movimenti penitenziali, in cui la mendicità era assunta come valore, anche se poi con la solita tecnica della razionalizzazione, diviene strumento della povertà.

D'altra parte essere mendico significa essere sradicato da tutto e, in quanto tale, libero; libero di una libertà che il medioevo non conosce, perché la libertà nel medioevo è « privilegio », cioè esattamente un diritto connesso a determinate

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posizioni e funzioni sociali, legame e vincolo che non cambia e non si trasforma mai. Ma il senso di sicurezza che il privilegio e la dipendenza. pur sempre fornivano, perde a poco a poco della sua importanza, con lo svilupparsi delle città. La lunga decadenza demografica in Europa si era quasi certamente arrestata dopo la « peste emisferica » del 742-743, che aveva avuto effetti disastrosi (38). Nel secolo X la popolazione ricomincia ad aumentare rapidamente e questo accrescimento prosegue senza interruzioni fino alla seconda metà del duecento, e non si arresterà completamente che verso la metà del trecento. Tra il secolo X e il XIII nessun grande flagello (cui si doveva soprattutto lo spopolamento) sembra aver infierito profondamente: non si sente parlare di grandi pestilenze; la lebbra, certamente molto diffusa, è però una malattia che non provoca morti immediate, e la malaria sembra che avesse un carattere abbastanza benigno.

Anche la guerra consisteva in scontri poco sanguinosi; poche migliaia di combattenti, poche centinaia di morti. Il prestigio dei cavalieri infatti era dovuto soprattutto al fatto che essi erano dei tecnici della guerra: combattenti scelti che sapevano fare la guerra senza farsi ammazzare (39).

Questo primo fattore, l'aumento della popolazione, e il senso di una minore esposizione a tremende catastrofi, fa aumentare la sicurezza dell'uomo medioevale, e lo tiene meno legato ai pochi beni che possiede. Anche le risorse economiche non erano più tanto scarse; sia per un addolcimento del clima che permetteva coltivazioni più abbondanti e più sicure, sia per una serie di perfezionamenti tecnici che rese possibile agli agricoltori strappare alla terra con minore sforzo prodotti più ricchi, trasportabili anche verso mercati lontani (40).

Fin dal secolo X le città italiane vanno assumendo proporzioni sempre maggiori: sul finire del duecento Milano è probabilmente la città più popolosa dell'Europa occidentale

(38) R. S. LOPEZ, La nascita dell'Europa (secc. V-XIV), Einaudi, Torino, 1966.

(39) F. LOT, L'art militaire et les armées au Moyen Age, Paris, 1946.(40) Lo sfruttamento del mulino ad acqua, per es.; la sostituzione della

striscia di cuoio come finimento per il cavallo con un collare, che ne accrebbe la forza di trazione (sostituendo cosí il bue nell'aratura); la simultanea introduzione della ferratura dei cavalli che rese possibili i primi trasporti pesanti su lunghi tragitti.

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(circa duecentomila abitanti), ma anche Venezia, Firenze e Genova passano il traguardo dei centomila abitanti, e parecchie altre città italiane ne hanno più di ventimila. Più che il numero degli abitanti però, ciò che importa è lo spirito dinamico delle città, il loro ritmo di vita, le loro caratteristiche, che sono l'abbondanza, la mobilità, la rapidità. « L'aria della città rende liberi » dice un noto adagio medioevale, e la mendicità nasce proprio nei grossi centri urbani. Solo dove c'è molta gente è possibile vivere di elemosine; gli ordini mendicanti si sviluppano nelle città, dove il bussare di porta in porta permette il sommarsi di numerosi oboli, e dà garanzia che il necessario pane quotidiano non mancherà.

Naturalmente questo nei primi tempi; quando gli ordini mendicanti si saranno costituiti in organismi sociali, la situazione si codifica, e addirittura i Comuni prevedono nei loro statuti le elargizioni da dare annualmente ai conventi che risiedono nel loro circondario, e i ricchi, mercanti banchieri artigiani, lasciano nei loro testamenti una grande quantità di beni in eredità al convento prediletto. La mendicità, come rischio quotidiano e come libertà, perde a poco a poco il suo significato, tanto che la Chiesa potrà introdurla nella regola degli ordini costituiti, senza per questo venir meno al principio che richiedeva determinate garanzie economiche per la fondazione di nuovi conventi.

Ma altri fattori di sicurezza contribuiscono a dare alla povertà una valutazione concreta, relativa a diversi schemi di riferimento della struttura sociale. Le variazioni demografiche avevano portato a una diversa valutazione della mano d'opera. Lo spopolamento che aveva caratterizzato l'alto medioevo aveva ridotto il numero degli schiavi, lavoratori che consumavano poco e sostenevano il maggior peso della produzione. Ma quando i pochi schiavi che rimanevano si trasformarono in servi, e per quanto miseri fossero, consumavano di più e lavoravano di meno degli schiavi, si rese necessario trovare nuovi modi di accrescere la produttività del lavoro. Alcune delle maggiori conquiste tecniche medioevali si possono mettere in rapporto proprio con la crisi della mano d'opera (il mulino ad acqua per esempio, conosciuto da lunghissimo tempo, non fu mai sfruttato a fondo, fino a quando gli schiavi non diventarono servi) (41).

(4l) R. S. LOPEZ, La nascita dell'Europa, cit., p. 153.

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Ma una volta iniziato questo ciclo di sviluppo, la ripresa demografica non fece che accentuarlo. I lavoratori, anche se aumentano di numero, non rinunciano più alle loro esigenze; molti servi ottengono la libertà, e tutti quanti, servi o liberi, migliorano il proprio tenore di vita. È infatti proprio quando l'uomo comincia ad ottenere l'esplicito riconoscimento di un « ruolo » sociale, che inizia la sua ascesa, qualsiasi sia il livello da cui parte, perché è implicito nel « ruolo » l'assegnazione da parte della società di uno « status » corrispondente, di una collocazione nella struttura dell'insieme (42). Occorre tener presente, a questo proposito che l'ultimo gradino nella scala sociale corrisponde allo zero, è privo di « status », non ha perciò un peso che venga preso in considerazione perché non c'è un punto di riferimento che possa farlo « collocare » in forma positiva, che gli permetta cioè, di avere anche un ruolo. Poiché un ruolo è sempre attribuito in forma positiva, è un « attributo », appartiene all'essere individuato, ed è di per sé individuante.

Tutta una massa dunque che prima apparteneva all'amorfo e all'indistinto, arriva ad una prima attribuzione di ruolo, acquista uno status, si stabilizza in uno schema di riferimento nella struttura sociale e comincia a prendere coscienza di questo ruolo e di questo status.

Questa prima consapevolezza di sé che comincia ad albeggiare, permette alle masse più indistinte di accogliere il messaggio penitenziale, e permette anche di predicare una povertà che non sia soltanto economica. Perché non si può predicare la povertà come «valore» a chi è totalmente povero; è questa classe che prende coscienza di sé e del suo inserimento nella società, che può cominciare a sentirsi anche in grado di giudicare i valori del contesto sociale in cui vive e di propugnare una trasformazione della società stessa. Nel fiorire di movimenti civili, religiosi, giuridici, politici che contraddistinguono l'Italia degli ultimi secoli del medioevo la povertà assume una dimensione positiva, un valore, e al tempo stesso una consistenza sociale, che è solo per la tipica illusione dell'eterno ritorno alle origini, che gli uomini

(42) Cfr. R. B. CATTELL Personality 1950 pp. 404-13; ed anche « The cultural functions of social stratification »; « Regarding individual and group dynamics » Journal social Psychology, XXI, 1945, 25-55.

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della penitenza identificano nella povertà della chiesa apostolica.

Ma nella povertà della chiesa apostolica c'era stato semplicemente un accordo volontario di vita comunitaria, nei piccoli gruppi di convertiti riuniti nelle associazioni, nelle ecclesie; nulla fa supporre che ci sia stata una presa di coscienza della sua dimensione sociale, che non fosse limitata all'orizzonte privato e personale di ogni singolo convertito o dei singoli gruppi. Nella predicazione penitenziale, invece, la povertà diventa il punto di riferimento costante della riforma della Chiesa, e della palingenesi universale che tutti si attendono.

È una povertà che, predicata come conversione totale, come atteggiamento interiore, trova nel contesto sociale una rispondenza immediata e una distorsione altrettanto immediata. I socialmente poveri cominciano a giudicare la ricchezza, e a valutare la povertà, e nell'interazione tra un messaggio di carattere spirituale e una dinamica sociale che comincia proprio nello stesso periodo a lievitare, abbiamo uno dei motivi più forti e più violenti dello sviluppo della cultura penitenziale. L'adesione di una grande massa al valore predicato della povertà provoca conseguenze immediate e tangibili nel piano sociale ed economico.

Le interminabili discussioni teologiche sulla povertà di Cristo, e le tremende diatribe che ne seguirono, infocate al punto da far condannare come eretico un Papa che aveva sostenuto la capacità di Cristo di possedere (43), non possono e non debbono ingannarci su questo punto. Si discute a livello teologico, perché la teologia è ormai nell'aria, in una cultura in cui veicolo di comunicazione più importante è la predicazione popolare. Ma al di là della disputa teologica, ciò che conta è la valutazione sociale della povertà, il valore umano, terreno, profano che essa assume, e che non può più essere giudicato nei termini dell'assoluto. Non è più possibile una dicotomia totale fra ricchezza e povertà; non c'è più, o almeno non è più pensabile, l'assolutamente ricco o l'assoluta-mente povero. Una società che è immersa nel commercio,

(43) Si tratta della nota controversia teoretica della povertà, che si svolse soprattutto fra il Papa Giovanni XXII e gli Spirituali e i Francescani di Comunità, e che portò fino all'elezione di un Antipapa (Niccolò V).

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nell'artigianato, nel traffico di denaro, che ha capito il valore del tempo, il valore del lavoro, una società in cui viene bollato col bollo dell'infamia chi non fa, chi non produce, chi si abbandona all'ignavia, la povertà diventa sempre più un metro di valutazione concreta, di ciò che si è fatto e di ciò che si deve fare, oggi, domani, nel mondo, nell'opera quotidiana.

La mendicità a poco a poco viene superata, perché ciò che conta è il lavoro; Bernardino da Feltre, Bernardino da Siena si impegnano nell'istituzione dei Monti di Pietà, ma questi, in quanto concepiti come un « prestito » al povero, implicano tutti gli elementi di una valutazione « terrena » del denaro; basti pensare allo stipendio da corrispondersi all'impiegato del Monte di Pietà; all'interesse da pagarsi in forma limitata, ma prescritta, sul denaro prestato; al divieto di accettare come pegno da parte del creditore gli attrezzi e gli utensili necessari al lavoro del debitore (44).

Tutt'altra cosa dunque, dalla « carità », dall'elemosina, dalla comunanza dei beni delle prime comunità cristiane, che pure era stato il miraggio degli uomini della penitenza. La dimensione terrena della povertà assume valore e significato in un contesto sociale che non la mette ai margini, non la esclude dall'azione e dalla produttività comune, ma tutt'al contrario la include nel proprio ciclo di sviluppo, ne tiene conto come uno degli elementi più rilevanti della propria struttura.

Ma giungiamo cosí, con l'esaurirsi di questo processo, all'estremo volgere del '400; con la fine della cultura penitenziale anche la povertà ha acquistato un valore diverso. La tensione positiva che ne aveva fatto una delle molle più potenti della « penitenza » si esaurisce, logorata da quella stessa dinamica culturale che aveva contribuito a sollecitare; il significato sociale della povertà prevale su quello penitenziale e alla fine lo svuota del tutto del suo valore trascendente.

(44) BERNARDINO DA FELTRE, De Monte Pietatis Papié erigendo, Sermone 55, in Sermoni del Beato Bernardino Tomitano da Feltre, II, Milano, 1964, pp. 185-193.

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Capitolo IV

I. Il veicolo della cultura penitenziale: la predicazione popolare.

Con la nascita del movimento francescano e con il fiorire dell'Ordine Domenicano, la predicazione popolare raggiunge il massimo del suo sviluppo. Insieme a questo sviluppo possiamo cominciare a delineare le caratteristiche di quello che si può, sotto diversi aspetti, considerare un vero e proprio linguaggio di massa (l).

Già con l'« Homiliarius » di Paolo Diacono si cominciarono a compilare delle antologie ad uso dei predicatori, cosa questa che testimonia del fatto che il predicatore non riusciva a sovvenire da solo ai bisogni della formulazione della predica. Non si trattava soltanto di « pigrizia » o di « ignoranza » da parte del predicatore, ma soprattutto del fatto che il popolo era assetato di sapere, e pretendeva dal predicatore la conoscenza di tutto.

La cristianità di questo periodo è sempre più desiderosa di apprendere e di assimilare. Si citano, è vero, a tutto spiano le « autorità », saccheggiandole, come abbiamo visto, senza scrupoli; convinti però che il possesso della verità rivelata assicuri al più umile cristiano un vantaggio nei confronti dei maggiori geni che non l'hanno conosciuta. Il clero costituisce ormai soltanto l'elite del pubblico. Il popolo ne costituisce invece la massa, e la nobiltà la clientela occasionale, spesso distratta, ma suscettibile di appassionarsi ai temi che la interessano da vicino (2).

La sete e il desiderio di sapere diventano cosí forti nel popolo che i predicatori non riescono a soddisfarli, e sono

(1) Cfr. I. MAGLI, Un linguaggio di massa del medioevo: l'oratoria sacra, in «Rivista di Sociologia », I, 1963, pp. 181-198 (in cui si troveranno maggiori particolari).

(2) R. S. LOPEZ, La nascita dell'Europa, cit., pp. 201-203.

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costretti a fare della predica il mezzo più ricco possibile di informazioni, dalla politica alla cronaca spicciola, dalla scienza all'arte e alla letteratura, dalla morale agli usi e costumi quotidiani, dalle novellette agli esempi spintosi, dalle previsioni del tempo alle illustrazioni e alle barzellette. Il sermone dà cosí vita intorno a sé ad una letteratura speciale, che lo serve e lo arricchisce: enciclopedie storiche, scientifiche, teologiche; raccolte di citazioni sacre e profane, raffronti e analogie fra i testi sacri, manuali di racconti, di parabole, di leggende; trattati retorici intorno all'arte di forgiare e di nutrire la predica.

Un desiderio irresistibile di conoscere spinge nuovi gruppi sociali all'ascolto della predicazione; l'oratoria a sua volta esce dalle chiese e dilaga per le piazze, le strade, le campagne.

L'uso del volgare è certamente l'elemento di maggiore successo perla predicazione popolare. Essa infatti contribuisce non soltanto per le informazioni che dà, ma anche per il valore sociale che assume di per sé, a suscitare l'interesse delle classi che non conoscevano il latino, e soprattutto a dare a queste stesse classi la misura della loro nuova importanza e della loro dimensione sociale. Basti pensare a questo proposito a quella che era stata per il medioevo l'immagine dell'angoscia più grave: la diversità delle lingue simbolizzata dalla torre di Babele. Il latino era sembrato l'unico mezzo per superare quest'angoscia; esso avrebbe dovuto fare l'unità della civiltà medioevale e, per mezzo di questa, l'unità della civiltà europea. I lamenti dei chierici avevano sempre identificato nella diversità delle lingue una delle conseguenze del peccato originale, e la facevano risalire come tutti i mali a quella madre di tutti i vizi che è Babilonia (3). L'uso del volgare nella predicazione popolare fa tutt'a un tratto superare nella coscienza delle classi più basse il senso di questa angoscia, e crea un nuovo « valore » che diventa di per se stesso elemento unificatore delle popolazioni che si affacciano ormai consapevolmente alla ribalta della vita civile.

In Francia si predicava in volgare fin dal IX sec. e, come

(3) La più antica rappresentazione in occidente della torre di Babele si trova nel manoscritto di Caedmon della fine del X o principio dell'XI sec; da allora, durante tutto il medioevo, la « confusione delle lingue » viene simbolizzata con la torre di Babele, e a imitazione dell'iconografia orientale, se ne fa spesso un'immagine terrificante e catastrofica.

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abbiamo visto, Carlo Magno dispose nell'813 che tutti i sermoni fossero tradotti in volgare. Per l'Italia sussiste qualche incertezza; però è certo che nel X sec. si predicava in volgare. Il primo monaco di cui si abbia testimonianza che non disdegnò di predicare nella lingua del popolo è il Papa Gregorio V (966-999) e l'iscrizione posta sulla sua tomba lo loda fra l'altro perché istruì il popolo tedesco in latino e in volgare. In volgare si predicava la crociata per le terre d'Europa; in volgare predicavano assiduamente gli eretici, ed il loro esempio contribuì non poco a spingere anche il clero italiano a predicare in volgare.Dal 1200 in poi la predicazione, sotto la spinta dello zelo degli ordini mendicanti, diviene sempre più frequente. Domenicani e Francescani predicano in ogni occasione, per le vie e nei campi, anche più volte in un giorno. Tutti i giorni e tutte le occasioni parevano adatte per effondere la vena inesauribile della loro eloquenza. Fra Giordano, per esempio, (1260-1311) in qualunque giorno della settimana, in qualsiasi luogo e in qualsiasi ora, era sempre pronto a tenere sermoni. Nel 1304 e nel 1305 tenne due cicli di prediche, l'uno la mattina e l'altro la sera, per tutti i quaranta giorni della quaresima. Una delle sue prediche comincia appunto con le parole: « Vedi come t'ho mostrato oggi in quattro prediche, la copia e l'abbundanzia dei beni... » (4). Era un martellare continuo ed inesorabile, una forza propagandistica e psicologica che non lasciava mai cadere la tensione e l'interesse. Come lui i tanti predicatori popolari che nel medioevo dominarono e diressero a loro piacere innumerevoli folle, esercitarono infaticabilmente la loro parola. Antonio da Padova, Giovanni da Vicenza, Bernardino da Feltre, Roberto da Lecce, erano tutti uomini che dovevano gran parte della loro immensa popolarità appunto al contatto ininterrotto con gli ascoltatori.

Dalla cattedra e dall'ambone nelle chiese, essi passano a predicare nelle piazze e nei campi, cosa questa che, se dettata in principio dalla necessità di trovare spazi sempre più larghi al numero straordinario dei loro ascoltatori, agevola però e determina il tipo stesso di predicazione e di rapporto, permettendo una maggiore disinvoltura negli esempi e nelle battute, e una maggiore familiarità nel discorso che non l'ambiente severo della chiesa. Già S. Francesco e S. Domenico avevano

(4) FRA GIORDANO DA RIVALTO, Prediche, Masi, Bologna, 1820.

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parlato e ammaestrato peregrinando; ma Antonio da Padova non riusciva più a trovare luoghi abbastanza vasti per contenere le moltitudini che volevano ascoltarlo, e passava dalle chiese alle piazze, dalle piazze ai campi, e infine si ridusse a predicare nelle arene dei vecchi circhi romani.

Giovanni da Vicenza, Giacomino da Reggio, Giovanni da Bologna parlavano nelle vie, nelle piazze, nei letti asciutti dei fiumi, e peregrinavano nelle campagne traendosi dietro torme di popolo delirante, che li seguivano per l'intera giornata, portando con sé un po' di cibo pur di non perdere una sola parola.

Di Vincenzo Ferrer sappiamo che « una volta predicando a Tolosa sul giudizio finale, tanto atterri gli uditori che furono presi da brividi come di febbre. Si videro spesso donne e fanciulli cadere tramortiti nelle pubbliche piazze e nelle campagne, ove egli predicava non meno che nelle chiese. Era cosa consueta udire durante i suoi sermoni le grida e i gemiti degli ascoltatori: spesse volte era costretto a interrompersi finché fosse quetato il rumore dell'uditorio... Quando egli partiva da un luogo, spesso si vedevano processioni di pubblici penitenti, da lui convertiti, camminare in ordine per le strade a piedi nudi, con le spalle scoperte, sferzandosi a sangue. Quando era annunciato il suo arrivo in qualche luogo, i mercanti preparavano una specie di fiera in cui non erano esposti che flagelli, cilici, cinture di crine o di ferro ed altri strumenti di penitenza...Traeva con sé anche pubblici notai perché redigessero e firmassero gli atti di riconciliazione e di pace, cui addivenivano per opera sua in molti luoghi famiglie e frazioni discordi » (5). Ma la parola dei predicatori è sempre anche azione. Alla fine di un ciclo di predicazioni si stabiliva di solito un periodo di pace nelle interminabili e sanguinosissime contese che sconvolgevano città intere. Si giungeva allora a solenni riconciliazioni ed abbracci, anche se le due parti contendenti erano divise da terribili stragi. Di solito venivano richiamati in città a tale scopo quelli che ne erano stati banditi, e molto spesso i più famosi predicatori venivano appositamente chiamati a predicare quando insorgevano gravi discordie pubbliche o private in qualche città.

(5) H. D. FAGES, Histoire de S. Vincent Ferrer, Parigi-Lovanio, 1901.

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I più famosi predicatori di pace furono forse Fra Giovanni da Vicenza, Fra Giacomo da Reggio, Venturino da Bergamo, Vincenzo Ferrer, e naturalmente Bernardino da Siena.

Fra Giovanni da Vicenza, domenicano (m. 1263) fu forse uno dei più famosi. « Venuto a Bologna, racconta il Sigonio nel De Regno Italiae, con l'eloquenza e la santità della vita seppe guadagnarsi gli animi in tal modo che in breve ebbe nelle sue mani l'intera città. Quindi i cittadini e i contadini, gli artigiani e i soldati, pieni di religione, con croci e vessilli, lo seguivano processionalmente: in lui solo confidavano, dichiaravano di abbandonarsi alla volontà di lui solo: non vi era lite che da lui non fosse agevolmente composta, non discordia che per lui non fosse pacificata ». Forte di una tale autorità, liberò dal carcere i debitori, fissò col consenso dei creditori, nuovi patti di pagamento, diminuì il lusso delle donne, emendò molte leggi, corresse abusi, e operò molto bene in favore dei poveri e della giustizia. Per parecchi anni egli fu quindi a Bologna quasi quello che fu più tardi il Savonarola per Firenze, il vero Signore della città, e la forza della sua eloquenza era tale che un giorno, scagliatosi in una predica contro l'usura, provocò nel popolo un vero tumulto contro un certo Landolfo usuraio, la cui casa fu messa a sacco.

Di Alberto da Sarteano, francescano (m. forse nel 1450) sappiamo che le città gareggiavano per averlo e i consigli comunali lo invitavano solennemente a tenere cicli di predicazione. A Brescia, dove era stato chiamato invano una prima volta nel 1438, ottenne che si istituisse nel 1444 un grande ospedale; nel 1445 riuscí a mettere pace fra Guelfi e Ghibellini e con la sua parola promosse l'erezione di altri ospedali a Firenze e a Siena (6). Fra Cesario da Ferrara, servita, (m. 1490) fu uno dei tanti predicatori che, come il Savonarola, ebbero nelle mani le fila di tutte le attività civili, politiche e sociali della loro città. A lui si devono importanti iniziative sociali fra qui quella di aver persuaso il Magistrato di Ferrara a fabbricare una prigione per i debitori separata da quella dei comuni delinquenti. E non si accontentò degli effetti della sua parola; non fidandosi forse della buona volontà delle autorità civili, Fra Cesario: « con grande elimoxine fece la

(6) B. NERI, La vita e i tempi del b. Alberto da Sarteano, Quaracchi, 1902.

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prexone nova a tereno », cioè cominciò egli stesso la fabbrica con la raccolta delle elemosine (7).

In suo onore (come del resto in onore di altri predicatori popolari) fu coniata dai m° Sperandio una medaglia, in cui egli stesso volle essere rappresentato meditabondo su di un teschio, che addita a chi guarda con le parole: « Rifletti o uomo mortale, con la morte tutto sparisce ! »

È nota l'azione di Bernardino da Feltre per l'opera dei Monti di Pietà, ma Bernardino fu anche uno dei più famosi banditori della crociata contro i Turchi, e fu mandato negli Stati Veneti a raccogliere offerte per la guerra. Gli parve allora cosa intollerabile che un altro predicatore affermasse, che chi offriva denaro per la crociata poteva poi giocare impunemente in una certa bisca malfamata di Venezia. Cominciò quindi a inveire in tal modo contro di essa che il Consiglio dei Tre ne ordinò la chiusura, benché appartenesse alla potente famiglia dei Contarini (8).

Fra Roberto da Lecce francescano (1425-1495) fu scelto più di una volta a predicare la crociata contro i Turchi e a raccogliere la decima per le spese di guerra. Francesco Sforza per esempio, in una lettera del 12 maggio 1464, lo invita a sollecitare negli Stati Ducali il pagamento delle decime per la guerra, formulando questo programma di aggressione tributaria mediante la predica: « E perché siamo avvisati che in Cremonese sonno alcune terre renitente et difficile ad fare el debito, parendo alla Reverentia vostra, in questo suo venire, potrà fare la via de Casalmaiore, e lí predicare duy di, poy venirsene a Cremona et fare qualche predica, benché li cittadini sono bene disposti, per confirmarli e fortificarli in la dicta bona dispositione et perseverantia; deinde parendovi fare la via per Sonzino, Romanengo e Castelleone deinde ad Lode, et in caduno di questi lochi fare due prediche come vi parerà richiedere el bisogno ».

Scegliere fra Roberto per la raccolta della decima era sempre un buon affare. Nel luglio 1457, incaricato da Papa Calisto III della raccolta della decima in Lombardia e nel Monferrato, ne ricavò ben settemila ducati; ma non è difficile spiegarsene la ragione, in base a quello che siamo andati già

(7) G. BORTONE, Fra Cesario da Ferrara, in Studi Storici, O.S.M., T. X, 1950, fase. III-IV.

(8) L. DA BESSE, Le bienheureux Bernardin de F. et son oeuvre, Tours-Paris, 1902.

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dicendo. La sua fama di predicatore era tale che ormai il pulpito era divenuto per lui un vero palcoscenico. Si vantava, e pare che rispondesse a verità, di poter muovere al pianto o al riso gli uditori a suo piacere, di qualunque argomento parlasse; i suoi atteggiamenti divistici fecero nascere su di lui dicerie, aneddoti e storielle salaci in gran numero; tuttavia egli passò di trionfo in trionfo, desiderato a gara da Signori e Comuni. Aveva una voce potente e sonora, polmoni infaticabili, e una memoria prodigiosa, con la quale infarciva di innumerevoli citazioni le sue prediche. Moltitudini enormi lasciavano il loro lavoro per ascoltarlo: a Brescia, nel 1451, predicò per otto giorni di seguito nella piazza grande, stipata di folla, tanto che una volta durante una sua predica, crollò il tetto di una casa per il grande peso della gente che vi era salita, e scene simili si ripetevano dovunque andasse. « Talvolta, dice un testimonio, stava per più di un terzo d'ora ritto in piedi sul pergamo, con le braccia stese, in atteggiamento di un crocifisso, rapito in estasi, e allora ad una voce tutti gli spettatori gridavano: « Mira, mira ! Mirabilis Deus in factis eius! » (9).

Inutile soffermarsi sull'immenso potere del Savonarola, dato che si tratta di cosa nota a tutti, ma alcuni particolari sono sufficienti a farci comprendere che si tratta di un potere fondato quasi esclusivamente sulla « parola », ed è questo che qui soprattutto ci interessa. Otto, dieci, quindicimila persone assistevano sia nei giorni feriali che nei festivi, alle sue prediche, quando Firenze non contava allora che circa novantamila abitanti (10). Nessuna disposizione politica o amministrativa veniva presa, senza che fosse stata discussa e illustrata da almeno una predica. Quando nel 1494 salí sul pulpito del Duomo e fece echeggiare il grido: « Ecce gladius Domini super terram, cito et velociter » un brivido di terrore percorse tutti gli astanti; Pico della Mirandola confessa di essersi sentito i capelli drizzarglisi sul capo (11); e da quella stessa ventata di terrore fu travolto Michelangelo, il quale fuggí da Firenze, e confessò poi che quella voce lo aveva seguito dovunque (12).

(9) WADDING, Annales Fratrum minorum, X-XV, Quaracchi, 1931-(10) Cfr. P. SANTINI, Studi sull'antica costituzione del Comune di Firenze,

Firenze, 1903.(11) G. SAVONAROLA, Compendio di rivelazioni, presso Morgiani e Petri,

Firenze, I° sett. 1495, c. a 4 t.(12) G. PAPINI, Vita di Michelangelo, Garzanti, Milano, 1949, p. 63.

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Possiamo dunque renderci conto, anche da questi pochi cenni, come i predicatori popolari partecipassero fino a tutto il XV sec. con la parola e con l'opera alla vita contemporanea. Le grandi opere collettive, le riforme economiche, tutti i nuovi impulsi e avviamenti sociali, li vedono collaboratori e partecipi o addirittura iniziatori. Quasi sempre le grandi correnti dell'opinione pubblica sono indirizzate e determinate dalla loro parola, martellante e capillare. Le stesse accuse scagliate sovente contro i Frati, e l'apparire di personaggi frateschi in tutti i pettegolezzi della vita del tempo, facile accompagnamento di qualsiasi fama divistica, ci testimoniano della loro potenza e della loro partecipazione, a livello psicologico, ma anche sociale e culturale, all'immaginazione e alle speranze del popolo. Amministratori, consiglieri, pacieri, iniziatori di provvedimenti e di riforme di grande valore collettivo (basti pensare ai Monti di Pietà) i predicatori tengono nelle loro mani e muovono quasi tutti i fili della vita contemporanea.

2. I divi della penitenza.

Ma la forza rivoluzionaria, la dinamicità, la capacità di sommovimento e di « identificazioni » che i predicatori provocano con la loro presenza sono dovute soprattutto all'instaurarsi nell'oratoria sacra di carattere popolare del fenomeno del « divismo », che fa ritrovare per alcuni aspetti delle analogie fra la predicazione medioevale e i moderni linguaggi di massa. Il « divismo » si rivela in molti modi, ma uno dei più caratteristici è la fama taumaturgica che i predicatori più famosi assumevano presso il popolo. Poiché in realtà, anche se alcuni di essi erano indubbiamente uomini di grande fede, la maggior parte non aveva di certo la santità che il popolo gli attribuiva. Quel Giovanni da Vicenza di cui abbiamo già parlato, divenuto un vero e proprio divo, tiranneggiava, come racconta Salimbene, i Frati del suo Ordine con i più stravaganti capricci, si vantava di operare miracoli, e pretendeva anche il culto che si deve a un santo. A sua volta il popolo credeva di lui le cose più prodigiose, e si affermava che, nell'Alleluia del 1233, méntre parlava nel Consiglio della Città intorno alla concordia civile, gli splendesse in fronte un fulgore sovrannaturale. Anche di Giordano da Rivalto si racconta che mentre predicava alla moltitudine, gli appariva miracolosamente

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sulla fronte una croce rossa e fiammeggiante, come suggello dell'ispirazione divina (13). I fans dei più famosi predicatori gli si stringevano talmente intorno che questi ne rimanevano quasi soffocati, tanto che dovevano farsi spesso proteggere. Venturino da Bergamo (m. 1346), promotore di un grande pellegrinaggio a Roma nel 1335, affermava: « Dovunque arrivassi, ville, castelli, città, ivi predicavo più volte al giorno, ed era tale il concorso dei popoli tra i quali arrivavo, da dovere, benché affaticato e stanco, subito predicare, e tale era l'importunità della devozione della gente che mi voleva toccare, che per le loro strette ne restavo quasi soffocato » (14).

Di Giovanni da Capistrano, piccolo, bruno, condottiero di pellegrinaggi e di eserciti, sappiamo che fu il vero erede dell'immensa popolarità di Bernardino, e di lui dice il Wadding: « Predicò per quasi tutte le città d'Italia e accorrevano per udirlo tanti uditori che la folla non poteva raccogliersi dentro i muri delle chiese, ma doveva radunarsi in larghe piazze o nei campi...

A Firenze, affinchè potesse camminare per le piazze, conveniva circondarlo di uomini armati, proteggerlo con fiaccole ardenti, o condurlo entro uno spazio di quattro pertiche in quadratura, perché non fosse soffocato dalla folla irrompente » (15).

Le cronache e i documenti contemporanei delle città per cui passava ne parlano come di un prodigio della natura. Ma a noi appare oggi come un vero prodigio il suo straordinario potere sull'immaginazione popolare. Mandato in Austria per desiderio di Federico III di Boemia ad evangelizzare quelle popolazioni, i suoi successi, narratici da Enea Silvio, sono quasi incredibili. Clero e popolo gli andavano incontro pro-cessionalmente, portando reliquie di santi, o gli si serravano intorno cercando di toccarlo. Predicava tutti i giorni, e per udirlo si accalcavano turbe di venti e perfino trentamila persone, le quali non potevano capire la lingua del Capistrano, che predicava sempre in latino, e faceva poi leggere la sua predica da un interprete tedesco. Ma, come dice il Piccolomini,

(13) A. SILLI, Giordano da Rivalto, in. Bibliotheca Sanctorum, VI, c. 506.(14) G. CLEMENTI, Il b. Venturino da Bergamo, Roma, 1904.(15) WADDING, Annales fratrum minorum, cit., X-XIII.

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il popolo ascoltava più volentieri lui che l'interprete, ammaliato dal suo gesto, dal volto e dalla voce di lui (I8). Non contava dunque più tanto quello che diceva, ma il fatto che fosse lui a dirlo, ed è questo uno dei tratti che più caratterizzano un rapporto divistico con il pubblico.

3. La nascita del «pubblico»e la nuova istituzionalizzazione della parola.

È proprio con questo tipo di predicazione, e cioè con la instaurazione di un « rapporto » completamente nuovo fra chi parla ed agisce e chi ascolta, che si può cominciare a individuare praticamente nel medioevo i lineamenti di un vero e proprio pubblico. Da molti autori è stato affermato che il teatro nasce dalla liturgia (17), ed è infatti proprio nel nostro periodo che nasce la sacra rappresentazione. Ma a noi sembra che la trasformazione psicologica che è inerente alla formazione di un « pubblico » nel senso spettacolare, (è solo impropriamente infatti che si può parlare di un pubblico nell'azione liturgica) sia dovuta principalmente all'instaurarsi di una nuova forma di « rapporto », ad una « tensione », ad un' « aspettativa», che è ben diversa da quella rituale. In un'azione rituale-liturgica, l'aspettativa e la tensione sono « mediati » dai sacerdoti, dal canto e dal gesto rituale, ma anche dai fedeli, sia che vi agiscano o meno. In realtà la tensione e l'aspettativa, o meglio il « rapporto », è situato fra l'insieme dell'azione (clero e fedeli) e l'Altro, il « sacro », che deve rivelarsi, che ci si aspetta che si riveli e che agisca. Con la predicazione popolare, con gli inizi della sacra rappresentazione, abbiamo invece il formarsi di un vero e proprio pubblico, perché la « tensione », «l'aspettativa» si sposta, e si dirige direttamente su coloro che parlano o che agiscono, che diventano cosí il vero oggetto della comunicazione e della tensione. Si spiega in questo modo la sempre minore partecipazione attiva degli « spettatori » all'azione che si sta svolgendo, e si spiega cosí anche il divismo.

(16) G. HOFER, Giovanni da Capistrano, L'Aquila, 1955.(17) Si tratta di un problema estremamente dibattuto e complesso, cui noi

qui ci riferiamo soltanto di sfuggita; per un orientamento bibliografico cfr. A. D'ANCONA, Origini del teatro italiano, 2a ed., Torino, 1891; P. TOSETTI, Le origini del Teatro italiano, Torino, 1955.

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La forza del sacro non essendo più collocata al di là dell'attore, si manifesta direttamente con l'attore e nell'attore; ed è questo il motivo per cui l'attore assume un significato e un'importanza incommensurabili; significato e importanza che si rivelano in quella particolare forma di identificazione che è il divismo.

La forza di questo nuovo rapporto è tale, da superare in modo travolgente le possibilità di influsso e di penetrazione della parola « codificata ». Poiché la parola codificata si affida all'autorità, e a schemi culturali fissi e istituzionalizzati; la parola viva si affida invece alle forze e alle spinte più incoscie, ma che portano alla superficie le « tendenze » culturali della società.

La « cultura » ci appare cosí nel suo duplice aspetto di forma « istituzionalizzata » e « duratura » sotto la cui superficie, al riparo anzi della cui superficie, si mescolano, si agitano, e « tendono » a prendere forma i nuovi contenuti culturali.

Una « cultura » è infatti in continuo movimento, malgrado l'apparente staticità. Nelle tensioni, nelle aspirazioni, nei facili e transitori entusiasmi e sommovimenti degli uomini dell'ultimo medioevo (18), possiamo non solo individuare una «forma », che è quella che abbiamo chiamato « penitenziale », ma possiamo già anche intravedere le tendenze che porteranno alla sua massima approssimazione la cultura penitenziale, e che la faranno superare e morire.

Il rapporto nuovo fra pubblico e attore è uno di questi elementi. Una volta perduta l'aspettativa reale e immediata del rivelarsi del sacro, lo « spettacolo » avrà via libera nella sua forma propriamente « profana », laica. Ma perdurerà in esso quel « rapporto », di aspettativa di una « rivelazione » che, pur non essendo più coscientemente e volutamente aspettativa del sacro, sostanzierà tuttavia di una forza sacrale qualsiasi spettacolo (19).

Certamente una cultura non muore mai del tutto, perché è con il materiale di recupero di una cultura che ne fiorisce un'altra, ed è con i temi embrionali che non sono giunti a completa maturazione che una cultura nuova si innesta

(18) E che il BURCKHARDT ha ritenuto poco importanti appunto perché fugaci, cfr. J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze, 1961.

(19) Cfr. A. MAGLI, Lo spettacolo sacro nei testi arcaici e primitivi, Guanda, Parma, 1964, pp. 9-72.

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sulla precedente. Con questo non intendo dire però che la continuità cronologica e spaziale indichi una continuità vitale. Alla fine del '400 moltissimi temi medioevali perdurano, ma il valore fondamentale della cultura penitenziale è perduto per sempre: la « penitenza » l'atteggiamento di fronte alla vita, l'interpretazione « totale » ed assoluta del Vangelo, il « mondo » come opposto al Regno dei Cieli, la proiezione angosciata e tesa dell'uomo al di là della vita terrestre, la transitorietà dell'uomo pellegrino, la sua aspettativa del rivelarsi macroscopico del « sacro » si romperanno, inabissandosi, davanti all'umanesimo, anche se dell'umanesimo potremmo individuare alcuni tratti già dalla fine dell'XI secolo.

Alcuni fili dell'ordito penitenziale rimarranno annodati, per la particolare vischiosità dei tratti culturali, che tendono a sopravvivere a due livelli: quello « formale » che vive nella tradizione, e quello psicologico che vive in ciò che, impropriamente e solo per comodità terminologica potremmo anche chiamare « inconscio collettivo ».

In realtà noi siamo in fondo convinti, contrariamente all'antico detto, che « Natura facit saltus », e cioè che ci siano fra una cultura e l'altra delle fratture totali; perché la frattura non avviene tanto nelle istituzioni (le istituzioni infatti sono vischiose), ma nella « consapevolezza » che ad un tratto l'uomo raggiunge di una « metànoia »: la « diversità » culturale infatti non la si afferra per gradi ma per « trauma »; raggiunge cioè la coscienza come un dato incommensurabile, una « essenza », per sé, definita e totale.

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Capitolo V

I. Il processo d'identificazione: la vita è una Passione.

Tutto l'insieme di attività, di istituzioni, e di comportamenti che si sviluppa intorno alla predicazione popolare, si può riassumere nel modo seguente: riattivazione dell'importanza della « parola » presso il popolo, incremento delle devozioni penitenziali (confessione, flagellazione, via crucis), istituzione di confraternite di «edificazione», come quella dei Disciplinati, eccezionale sviluppo dei Terzi Ordini, (associazioni laiche a carattere devozionale), concentrazione di attenzione sul Cristo, Uomo di dolore, incremento del culto della Vergine e dei Santi, intensa passione per i pellegrinaggi. Tutti questi aspetti del modus vivendi dell'uomo medioevale possono essere visti come manifestazioni diverse di un atteggiamento fondamentale di fronte alla vita: la penitenza come significato esistenziale, e l'aspettativa di una straordinaria possibilità di rivelazione e di partecipazione al « sacro », che il comportamento penitenziale dovrebbe in qualche modo facilitare. Tuttavia il comportamento « religioso » degli uomini della penitenza porta, o almeno contribuisce, a delle trasformazioni sociali, ad istituzioni di carattere civile, ad un nuovo modo di sentire e di vivere il rapporto fra le varie classi, ad una trasformazione visibile e concreta delle strutture sociali e infine, come abbiamo visto parlando dei predicatori popolari, alla partecipazione viva di larghi strati della popolazione più umile ai problemi e ai movimenti di strutturazione della società. Facendo quindi qui un quadro panoramico del comportamento religioso dell'uomo medioevale, soprattutto in Italia, ci riferiremo anche a tutto quello che questo comportamento implica sul piano culturale e sociale, rinviando anche agli accenni fatti nei capitoli precedenti e di cui vedremo il collegamento e le interrelazioni alla conclusione del nostro lavoro.

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La prima cosa che colpisce nella spiritualità dell'ultimo medioevo è l'importanza della devozione ai Cristo che supera e quasi cancella il pensiero delle altre persone della Trinità. Un indice abbastanza interessante di questa specie di riduzione del mistero della trinità a una sola persona è che il Cristo è spesso chiamato Padre, o anche Madre. Il popolo abbandona il Cristo di maestà, con la sua grandezza imperiale, e a poco a poco il personaggio si umanizza. L'amplificarsi dei pellegrinaggi in terra santa (con l'XI sec.) porta anche a stabilire un contatto più vivo con il Cristo del Vangelo, e quindi contribuisce a dare concretezza al personaggio umano.

Il mistero del Cristo assorbe via via tutti gli altri e il cristianesimo sembra ridursi soltanto ad un culto soterio-logico.

La messa diviene la « rappresentazione del calvario »; gli ornamenti dell'altare fanno posto ai diversi strumenti del supplizio del venerdì santo, frequentemente rappresentati nell'arte del tempo (cfr. Tav. 6); è pure in quest'epoca che si conferma l'usanza di porre sempre un crocifisso sull'altare durante la messa.

Si sviluppa anche in questo periodo la devozione all'eucarestia che assicura la presenza del Cristo; ma questa devozione partecipa dello stesso spirito della devozione alla passione, ed anzi vi è strettamente collegata. Ne fa fede il moltiplicarsi di ostie « sanguinanti »: si guarda l'ostia consacrata per non morire in quel giorno, la si conduce in trionfo per assicurarsi una presenza salutare. Il mistero della trinità è ricondotto a quello della Redenzione: a poco a poco si giunge alla rappresentazione delle « Trinità di pietà » dove si vede il Padre sostenere il Figlio deposto dalla croce, sul quale vola una colomba (1).

Tutti i titoli del Cristo sembrano impallidire in confronto a quello di Salvatore; l'unico che sembra ancora avere una certa voga è il titolo di Re, ma questo non può sorprendere, perché la figura del Re è spesso legata nella fenomenologia religiosa a quella del sacrificio per il proprio popolo. Sebbene

(1) Cfr. H. HEIMANN, L'iconographie de la Trinile, in « Art chrétien», vol. I, 1934; cfr. anche E. DUMOUTET, Le Christ selon la chaire et la vie liturgique au Moyen Age, Parigi, 1932.

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già presente nei secoli precedenti è nel sec. XIV che si incrementa ed esplode questa devozione. Il titolo di Re attribuito al Cristo, non è mai stato tanto impiegato come durante il Grande Scisma (2). L'idea era tanto più familiare nei popolo perché il sermone della prima domenica di Avvento consisteva nel predicare proprio la dottrina della regalità del Cristo. Il contenuto di questi sermoni è, come sempre del resto nella predicazione popolare, più affettivo e morale che dommatico: il predicatore si sforza di dimostrare come il Cristo sia re delle anime, e abiti in esse per mezzo della grazia. Agli argomenti scritturistici, i predicatori più scolastici aggiungono delle considerazioni complicate. Per Vincenzo Ferrer il Cristo è Re in grazia di sua madre che l'ha fatto uomo, come il Re di Aragona succede a sua madre.

Giovanni da Capistrano, che ha trattato con frequenza del Cristo Re nei suoi sermoni, passa con disinvoltura dalla teologia scritturistica più tradizionale alle applicazioni pratiche e alle questioni contingenti. Tutta la vita di Cristo è ripresa da questa prospettiva, fin da quella « preistoria » che è l'Antico Testamento.

La regalità cessa cosí di essere un argomento di scuola per identificarsi con il mistero del Cristo: è lo stesso Re che riceve l'adorazione dei magi ed è coronato di spine; e vediamo qui uno dei motivi dell'incrementarsi del culto delle s. spine; la corona è sempre venerata nella Sainte-Chapelle di Parigi, una spina è portata in processione a Perugia; la corona del Cristo flagellato diventa nell'iconografia del tempo sempre più voluminosa, ad attestare l'importanza di questo segno di regalità (cfr. Tav. 3) (3).

La riduzione del Cristo sempre più a Uomo, a mediatore, porta quindi alla sua esaltazione come Re, perché è il Re in origine che è Dio, non è Dio che è Re. L'uomo « potente » diventa Re, e la regalità è un « ufficio » di cui è investito l'uomo « potente ». Il Re è sempre anche Salvatore, e deve quindi morire per il suo popolo. Quando la potenza gli è venuta meno, e bisogna che il Re muoia, egli può aspettare il supplizio oppure può togliersi la vita da sé. Frazer cita infatti molti

(2) Cfr. DELARUELLE, LABANDE, OURLIAC, L'Eglise au temps du Grande Schisme et de la crise conciliaire, Bloud-Gay, 1964.

(3) La devozione alle spine è molto diffusa anche presso i mistici: la troviamo anche in Inghilterra presso Giuliana di Norwich.

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esempi nei quali entra l'idea del sacrificio e in cui appare anche un'idea che diventa predominante nello sviluppo del concetto di Salvatore: l'idea del « rappresentante » (4). Nell'ambito della fenomenologia delle religioni risulta che in origine era il re stesso che moriva come rappresentante del Dio, poi vi furono dei sostituti. Il sacrificio per « sostituzione » è molto importante nella psicologia religiosa e sotto certi aspetti può intravvedersi, al fondo dell'atteggiamento dell'uomo penitente il desiderio di « essere salvatore », di partecipare in proprio all'opera della salvezza, pur con l'ambivalenza tipica dell'uomo che va alla ricerca della potenza. È infatti nell'impotenza che si trova il massimo della potenza. Molti studiosi hanno creduto di individuare nell'uomo medioevale un atteggiamento di passività, di rinuncia, di paura (5), ma quello che ci sembra invece importante rilevare è la volontà di potenza che sottende a questo atteggiamento. La partecipazione massiccia alla passione del Cristo, in tutti i suoi aspetti più reali, più concreti, sta senza dubbio a significare un vero e proprio meccanismo di identificazione, e cioè un essere come lui, vittima ma salvatore, sanguinante ma potente (l'ostia sanguinante è miracolosa, il miracolo è segno di potenza), umiliato ma Re.

Fa parte di tutto l'insieme del processo di identificazione alla Passione, la devozione alle reliquie della Passione stessa. Da lungo tempo si possedeva la Croce; molti dei suoi frammenti vengono racchiusi ora in nuovi reliquiari. Dove non si avevano reliquie, il popolo desideroso di alimentare la sua devozione, andava in cerca di immagini di quella passione in cui identificava ogni possibilità di salvezza. Si spiega cosí una produzione a buon mercato di crocifissi di tutti i generi: sono delle croci che non conoscono più l'immagine del Cristo sereno e glorioso delle epoche precedenti, ma portano realisticamente sulle loro braccia un uomo di dolori. I cambiamenti iconografici, alimentati dalla devozione dei mistici che nelle loro visioni andavano figurandosi i più piccoli dettagli della scena della passione, furono tali che ad un certo momento il popolo non fu più in grado di riconoscere le vecchie figurazioni solenni e maestose del Cristo.

(4) S. G. FRAZER, The magical origin of Kings, London, 1920, e G. VAN DER LEEUW, Fenomenologia della religione, cit., pp. 85-97.

(5) Cfr. G. LE GOFF, La civilisation de l'Occident Médiéval, Arthaud, Paris, 1964, p. 207.

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Con questa meditazione si sviluppano nuove scene evangeliche, e appaiono nuovi personaggi. La scena del S. Sepolcro, anch'essa abbastanza recente, prende il suo massimo sviluppo e si arricchisce di continui particolari (6).

Fanno anche la loro apparizione nuove reliquie.Si diffonde sempre di più la popolarità dei Sudari,

soprattutto quello di Torino (7). La devozione alle piaghe porta al moltiplicarsi del numero degli stimmatizzati, che si trovano anche fra i laici (Lucia da Norcia, terziaria francescana, Elisabetta (m. 1421) che cadde ammalata, con delle piaghe simili a quelle del crocifisso, in seguito a una predicazione sulle sofferenze del Cristo) (8).

Preziosissime diventano le reliquie del sangue. Molte chiese sono fiere di possederle, fra queste Bourges e Mantova. I teologi discutono sull'autenticità di queste reliquie; S. Tommaso infatti aveva sostenuto che il sangue di Cristo si era riunito al Corpo nel venerdì santo. Ma le dispute dei teologi su tutte queste questioni non fanno che alimentare la fantasia popolare, messa al corrente dalla predicazione, dalle processioni, dai pellegrinaggi, dai libri d'ore.

I predicatori infatti si accaniscono in queste dispute, e diventano famosi per aver parlato pro o contro una delle tesi in campo: cosí Giacomo della Marca per esempio, viene ritratto in un codice di poco posteriore alla sua morte con nella destra un reliquiario che mostra l'ampolla col sangue di Cristo. Nello stesso codice, l'autore di una sua vita in ottava rima, dopo aver ricordato una visione del sangue di Cristo avuta dal Beato, cosí prosegue:

(6) Maria, strettamente associata a queste figurazioni della Passione, ha un posto d'onore alla deposizione della Croce e al S. Sepolcro. Ma una nuova scena sta a simboleggiare il suo ruolo nel mistero della redenzione; come vi è un Cristo di pietà, cosí nasce verso la fine del 1300, la Vergine di pietà: la Vergine ha sulle ginocchia il figlio morto. Tuttavia la scena della deposizione è importante, come vedremo, anche perché permette la visione della croce come albero (spoglio del Cristo).

(7) Il Sudario di Torino fa la sua prima apparizione verso il 1389. (Cfr. DELARUELLE, L'Eglise au temps du Grande Schisme, cit., p. 756).

(8) P. DEBOUGNIE, Essai critique sur l'histoire des stigmatisations au Moyen Age, in Études carmelitaines, V, XX, 1936.

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«E per tal signo de eternal memoria se penge el nostro sancto de Victoria:in man l'ampulla col sangue beatodel vero Christo, dentro residente.Tal cosa papa Sixto ha comandatoperché a la gran desputa fuo presenteet anche lui ne ebbe argomentatouno con frate Jacobo Valente (9).

Ma l'importanza del sangue è soprattutto collegata al fenomeno della flagellazione.

Già dall'alto medioevo gli asceti avevano utilizzato la « disciplina » tra gli strumenti di penitenza; nella solitudine della loro cella si flagellavano o si facevano flagellare per riparare ai loro peccati, ma soprattutto per resistere alle tentazioni (della carne). Di questa pratica che fino allora era stata di carattere volontario e privato, Pier Damiani (1007-1072) si fece ardente propagatore, non soltanto con le parole, ma anche scrivendo un opuscolo, il a De laude flagellorum » (10). In diversi monasteri come Cluny, la Grande Chartreuse, ecc. seguendo l'esempio di Pier Damiani, la disciplina diventa molto importante perché assume il carattere sia di penitenza volontaria che quello di penitenza « giuridica ».

Vi contribuiscono due motivi principali: l'aumento del culto dei defunti (incrementato soprattutto da Cluny), e la possibilità di « soddisfare » giuridicamente per certe colpe. Quando uno dei nostri frati muore, scrive Pier Damiani, ciascuno offre per lui, in più dei digiuni e delle messe, « septem disciplinas cum millenis scoparum ictibus ». D'altra parte si può cosí abbreviare il tempo necessario per ottenere il perdono di certe colpe; infatti a Fonte Avellana, dice sempre P. Damiani, « tremila colpi equivalgono a un anno di penitenza ».

I Domenicani e i Francescani usano della disciplina (Francesco però è contrario alle penitenze volontarie sul corpo) e sembra sia dovuta anche alla loro propaganda la diffusione della « disciplina » nei terz'ordini e nelle confraternite che essi dirigono nell'Italia Centrale. Sarà sufficiente

(9) AURELIO SIMMACO DE' JACOBITI, Vita di S. Giacomo della Marca, codice del collegio Franc. del SS. Nome, Washington.(10) PL, 145, 679-686.

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cosí l'invito di un predicatore perché i fedeli se l'amministrino in pubblico, sulla strada (11).

Ma la grande devozione penitenziale che ha la sua origine nella città di Perugia, nei maggio del 1260, si manifesta soprattutto per il confluire nella disposizione psicologica alla penitenza della grande massa, dell'aspettativa angosciata e tesa dell'avvento della terza età, predetta da Gioacchino appunto per il 1260. La caratteristica principale della « grande devozione » non è da vedersi infatti a nostro giudizio, nella flagellazione, ma nelle processioni, e cioè nella manifestazione pubblica e collettiva di uno stato d'animo ormai incontenibile, e che trova nella flagellazione, soprattutto un mezzo, visibile, e tuttavia personale e privato, di comunicare col mondo. È una forma di « testimonianza profetica » che nasce da « quibusdam pauperibus et simplicibus » (12), anche se fomentata da quell'eremita Raniero Fasani, che si era fatto annunciatore di una prossima orrenda morte per tutti (13).

Col permesso delle autorità municipali, per quindici giorni si organizzano processioni in cui, dietro alla croce e al clero, a centinaia e a migliaia, gli uomini avanzano con la frusta in mano, a due a due, senza distinzione di rango o d'età (vi sono perfino dei bambini) percorrono la città cantando dei salmi e gridando « pace ! pace ! ». Si fermano soltanto per flagellarsi; ogni giorno con più forza (14). Le donne, comprese le matrone e le ragazze, partecipano a questa penitenza collettiva, ma in « suis cubiculis e com omni honestate » (15). Il movimento riprende in autunno e diviene itinerante. Da Perugia raggiunge Imola, Bologna, Reggio, Parma, Modena, Genova, le Marche, la Romagna, in breve tutte le regioni della penisola sotto l'influenza guelfa; non incontra resistenza che dalla parte dei capi ghibellini, che in qualche caso, vi oppongono la forza come Manfredi in Sicilia,

(11) G. PEIGNOT, Réchèrches historiques sur l'origine et l'usage de l’instrument de pénitence appélé discipline, Dijon, 1841; L. GOUAUD, Pratiques et dévotions ascètiques du Moyen Age, Paris, 1925, pp. 175-199.

(12) J. DE VORAGINE. Chronicon genuense, in L. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, t. 9, Milano, 1726, c. 49-50.

(13) G. MEESSERMAN, Études sur les anciennes confréries dominicaines, in « Archivum Fratrum Praedicatorum », t. 20, 1950, p. 22.

(14) J. DE VORAGINE, Chronicon genuense, cit., c. 50.(15) Annales Sanctae Justinae Patavini, MGH Scriptores, t. 19, 1866,

p. 179.

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e Oberto Palavicino a Milano e a Brescia. In tutto questo periodo non si sentono più risuonare se non canti lugubri, scanditi dai colpi di frusta, che proseguono tutta la notte, alla luce delle torce.

Alla fine del gennaio 1261, anche a causa di un inverno particolarmente rigido, i flagellanti ritornano alle proprie case. L'annalista di Padova si rallegra dei risultati benefici che sono stati raggiunti: le inimicizie che si sono estinte tra le famiglie e le città, le restituzioni di beni contesi che sono state operate, e i ritorni degli esuli richiamati nella loro patria (16).

Fuori d'Italia l'entusiasmo per le flagellazioni è minore. Tuttavia in Polonia si hanno i primi accenni di quello che sarà lo sviluppo successivo del movimento flagellante, e che lo condurrà ad essere condannato come eretico: i penitenti si assolvono fra loro dei più gravi peccati, affermando che la loro associazione è gradita a Dio ed è in grado di salvare anche le anime cadute in inferno.

Le riserve e le preoccupazioni dei vescovi aumentano sempre di più; i flagellanti tendono ad allontanarsi dalla Chiesa e la criticano per le sue istituzioni. Affermano inoltre che una lettera, di cui presentano il testo, è stata deposta da un angelo sull'altare di S. Pietro a Gerusalemme, secondo la quale per concessione del Cristo alla Vergine, tutti quelli che si sarebbero flagellati avrebbero ottenuto piena remissione dei loro peccati (17). Il clero era molto diviso sull'atteggiamento da prendere nei loro confronti, cosa che accentuava i dubbi e le incertezze del popolo. Infine Clemente VI si decide, ad inviare ai vescovi tedeschi una bolla contro i flagellanti. I termini della condanna di Clemente VI ci fanno comprendere che nel pensiero della Chiesa quello che veniva condannato non era la flagellazione in sé, come strumento di penitenza, ma l'atteggiamento che l'accompagnava e che ne era il substrato. Il papa infatti nella bolla Inter sollcitudines (20 ottobre 1349), descrive cosí la situazione: « In certe regioni della Germania e circostanti è apparsa, sotto il pretesto di praticare la devozione e la penitenza, ma di fatto per

(16) Annales Sanctae Justinae, cit., pp. 179-180.(17) Cfr. H. DELEHAYE, Note sur la légende de la lettre du Christ tombée

du ciel, in « Bulletin de l'Académie royale de Belgique », classe des lettres, 1899, pp. 171-213.

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ispirazione del maligno, una specie di religione vana e di invenzione superstiziosa, per la quale molti uomini semplici, che si chiamano flagellanti, si sono lasciati ingannare e trascinare a vilipendere il potere della Chiesa e la disciplina ecclesiastica, abbandonandosi a degli atti del tutto estranei alla vita normale, ai costumi e all'osservanza dei fedeli... dichiara che la Santa Sede considera queste associazioni e le loro pratiche come illecite e le colpisce con una proibizione perpetua». Poi Clemente VI aggiunge: «...Noi non intendiamo tuttavia per nulla proibire ai fedeli né la pratica della penitenza, né l'esercizio di atti meritori di virtù, propri a servire il Signore con devozione e in spirito di umiltà...» (18).

Sembra chiaro quindi che la Chiesa abbia inteso condannare, anche in questo aspetto del movimento penitenziale, l'atteggiamento interiore che lo dettava, pur lasciando sussistere la « pratica » devozionale e cioè la flagellazione in sé (che rimarrà come strumento ascetico anche nelle Regole e nelle Costituzioni delle Congregazioni posteriori). Ancora una volta quindi prevale, nell'interpretazione del movimento penitenziale da parte della gerarchia, l'aspetto moralistico e strumentale; mentre la Chiesa non riesce a cogliere la profonda motivazione psicologica che portava ad estrinsecazioni apparentemente morbose.

Malgrado la bolla di Clemente VI, i Flagellanti non scomparvero; riappaiono qua e là durante l'ultima parte del XIV secolo e soprattutto al principio del XV, mentre si prepara la riunione di un concilio ecumenico. Secondo il cronista Cornelius Zantfliet (19) arrivarono a Maestricht dei flagellanti che le autorità decisero di disperdere malgrado vi fossero molti populares et plebei che li lodavano e li approvavano.

Al sud della Germania, intorno a Conrad Schmidt, che asseriva di essere la reincarnazione di Enoch, si forma un gruppo di discepoli che portano il nome di « crucifratres ».

Essi continuano a credere nella lettera « portata dal cielo » e persistono nel flagellarsi pubblicamente, malgrado la interdizione del papa e dei vescovi. Ma l'accento è posto qui chiaramente più che sulla sofferenza fisica, sul «sangue », ed è proprio questo elemento che ci interessava mettere in rilievo.

(18) MANSI, t. 25, col. 1153-1155.(19) Cfr. Dictionnaire de Spiritualité, Beauchesne, Paris, 1962, fasc.

XXXIII-XXXIV, col. 399-400.

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La presenza della devozione al Sangue raggiunge infatti in questo modo e in forma esplicita il suo significato più vero. Affermano i Fratelli della Croce che «in transitu crucifratrum » la legge del battesimo con l'acqua è stata abolita da Dio e rimpiazzata da quella del battesimo di sangue; nessuno può più entrare in cielo se non si è castigato con una flagellazione volontaria fino all'effusione del sangue, né ricevere i sacramenti secondo i riti della Chiesa senza commettere un peccato mortale; la flagellazione in memoria della passione di Cristo è stata stabilita dalla legge dei flagellanti per tutto il popolo cristiano al posto dei sette sacramenti. (È qui già dunque presente tutto il processo di identificazione con la Passione, e col Salvatore).

Dopo il periodo della grande devozione, i flagellanti riappaiono qua e là in diversi momenti e con caratteristiche in parte diverse. Inoltre alcuni gruppi vengono condannati come eretici, mentre altri, esortati e controllati dai predicatori degli Ordini mendicanti, si abbandonano alla flagellazione soprattutto in concomitanza col successo di alcuni famosi predicatori penitenziali, che li trascinano con sé da un paese all'altro. Di questi episodi i più imponenti in Italia sono quelli di Bergamo nel 1334 per influenza del domenicano Venturino, quello di Cremona nel 1340 e quello massiccio ed esteso del 1348-49, in concomitanza della peste nera. Infine, all'inizio del quattrocento, abbiamo il più famoso di questi predicatori, Vincenzo Ferrer (1350-1419).

Le scene di flagellazione cui si abbandonavano gli uditori delle prediche di Vincenzo sono rimaste celebri (20). Secondo la tradizione fu nel 1399, sotto la pressione dell'incubo turco, che Vincenzo inaugurò le flagellazioni pubbliche. Esse divennero sempre più frequenti e cosí importanti che il Concilio di Costanza, nel 1417, specialmente per opera di Gerson, dovette occuparsi della predicazione di Vincenzo. Ma ancora una volta alle caratteristiche della flagellazione penitenziale, si accompagnava il motivo profetico, il timore del giudizio finale con l'arrivo dell'Anticristo. Difatti Gerson compone nel 1417 un opuscolo Contra sectam flagellantium (21), che è praticamente diretto a Vincenzo, e in cui alla fine fa questa ammonizione: se è necessario parlare del giudizio

(20) M. M. GORCE, Saint Vincent Ferrier, Paris, 1924, pp. 185-186.(21) Opera Omnia, ed. Du Pin, Anversa, 1706, t. 2, col. 660-664.

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universale o dell'Anticristo, farlo senza avventurarsi nei dettagli e concludendo che al momento della morte ciascuno è sottomesso a un giudizio particolare e incerto (22).

Dalla fine dei 1200 fino a tutto il XV secolo si trovano anche associazioni di disciplinati o di « battuti », devoti della disciplina. A volte si tratta soltanto della trasformazione di una società già esistente. Cosí la congregazione dei « Devoti della disciplina » (23) sotto la protezione della Vergine, eretta a Bologna al principio del 1261, e che rimarrà in vita fino alla fine del XIV secolo (24). In tutte queste società, fra le altre pratiche imposte, si trova la penitenza con la disciplina, con l'indicazione del tempo e del luogo in cui è prescritto questo esercizio.

I vescovi nel XIV secolo tendono a controllare le confraternite di « disciplinati » per evitare che rimangano ai margini della Chiesa. A Trento assegnano degli statuti comuni alle confraternite di tutta la diocesi; a Viterbo il vescovo rivendica il diritto di un pieno controllo su di esse; a Bergamo Francesco Regazzi nel 1419 stabilisce che non vi debba essere in tutta la città che una sola società dei cosiddetti devotorum disciplinatorum (25). La disciplina penitenziale rientra cosí sempre di più nelle mani della Chiesa.

Nel 1400 si moltiplicano le confraternite di « penitenti », che portano un vestito in forma di sacco e sulla testa una specie di cappa. Questo vestito, con una frusta alla cintura, non è solo un simbolo. Questi « disciplinati » fanno sul serio. Negli statuti dei » penitenti bianchi » di Avignone, per esempio, si legge: « Quelli che si saranno cosí disciplinati e battuti, se ne andranno a farsi curare all'infermeria della cappella alla fine della processione, dove, per ordine del rettore, troveranno degli incaricati per curarli. E se capiterà qualche

(22) Gerson invitava anche il P. Vincenzo a recarsi al concilio. Ma Vincenzo se ne tenne alla larga, mandando all'assemblea una lettera in cui affermava la sua sottomissione. (BARONIUS, Annales, ed. Theiner, t. 25, p. 465).

(23) È importante notare che la « disciplina » diventa in un certo senso una « devozione », attrae in sé e per sé un certo tipo di spiritualità.

(24) G. MEERSSEMAN, Études, cit., t. 20, p. 25.(28) G. ALBERIGO, Contributi alla storia delle confraternite dei disciplinati

e della Spiritualità laicale nei sec. XV e XVI, in « Il movimento dei disciplinati nel 7° centenario dal suo inizio », Perugia, 1962, p. 171 e p. 187-188.

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svenimento durante il giro della città, sarà loro permesso di lasciare la processione e di farsi curare nella cappella» (26). La partecipazione dei « disciplinati » alle processioni è ampia e documentata per tutto il periodo che ci interessa. Gli statuti dei disciplinati di S. Domenico a Prato, nel 1335, stabiliscono che vi sia una processione per la città e nei dintorni, con l'uso della disciplina, il Venerdì Santo e nelle feste dell'Annunciazione, di S. Domenico e di S. Stefano (patrono della chiesa principale) (27).

Gli statuti di altre confraternite italiane, a Bergamo, a Todi, a Parma, a Palermo, ecc. confermano queste usanze (27). A Siena vi furono almeno una decina di confraternite di flagellanti: fra le altre quella di Santa Croce che dipendeva dai francescani, San Domenico che dipendeva dai Predicatori, S. Nicola del Carmelo, S. Andrea degli Umiliati, ecc.

A volte le confraternite dei disciplinati sono tutt'uno con quelle dei laudesi; e certamente processioni, flagellazioni, laudi e sacre rappresentazioni hanno dei tratti in comune. Molti fra i predicatori e gli uomini più attivi sul piano religioso si fanno come per necessità autori di Laudi; cosí per esempio Giovanni Dominici, il Caffarini, S. Antonino. Anche la musica che accompagnava le laudi era molto ritmata, per sottolineare ed incoraggiare le marce dei Bianchi e il vigore delle flagellazioni (28).

Molti autori accennano al carattere esibizionistico delle flagellazioni, e allo spirito del tempo che è quello del teatro popolare, per cui sotto certi aspetti le sedute di flagellazione potrebbero essere considerate come una « sacra rappresentazione ». Ma l'accostamento ci sembra molto problematico. Una pratica cosí violentemente personale, che implica profondi meccanismi psicologici di intraggressività, è difficilmente riconducibile

(26) L. GUIBERT, Les confréries de pénitents en France, Limoges, 1879.(27) G. MEERSSEMAN, Etudes, cit., t. 20, p. 44; cfr. anche «Il movimento dei

disciplinati nel 7° centenario del suo inizio », Perugia, 1962, pp. 156-252.(28) Le Laudi erano strettamente associate allo spirito di penitenza; i

confratelli di S. Stefano di Assisi, come si ricava dal loro statuto (1327), si flagellavano appena cessato di cantare, per il tempo di un Pater-noster recitato in silenzio. Nello stesso statuto il solista è invitato a muovere con il canto corda fratrum ad planctum et lacrimas. (Cfr. C. GARBOLI, V. Lauda, Enciclopedia dello Spettacolo, VI, col. 1272).

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conducibile a quel tipo di rapporto, mediato e distaccato, che è presente in una rappresentazione. Ho già detto del resto come sia diverso un « rapporto spettacolare » da un rapporto liturgico.

È forse possibile intravedere invece, anche nel movimento dei flagellanti, il momento strettamente «culturale» della penitenza, (che implica cioè l'atteggiamento di fondo di un gruppo di individui di fronte alla vita, e al significato della vita, in tutti i suoi aspetti: psicologici, religiosi, sociali), e questo nei movimenti flagellanti sorti spontaneamente intorno alla predicazione penitenziale e nell'aspettativa dell'Anticristo. Mentre nella flagellazione delle confraternite si può vedere il momento della istituzionalizzazione, che è allo stesso tempo più povero e più ricco di quello spontaneo. Più povero perché si perde quasi del tutto il suo significato essenziale, di tensione e testimonianza collettiva del valore penitenziale; più ricco perché nelle istituzioni confluiscono non soltanto i valori e le tendenze « attuali » di una cultura, ma anche i residui più persistenti dei momenti culturali precedenti (la disciplina come «tecnica» ascetica), residui che non muoiono perché le strade psicologiche già da essi aperte si presentano spontaneamente come i canali più facili di deflusso di nuove cariche emozionali. L'ambiguità del concetto di penitenza, per cui abbiamo già visto più volte equivocare la Chiesa sul suo contenuto, porta anche nel corso del movimento dei flagellanti a istituzionalizzare, con le confraternite, più « l'effetto di alone » dell'atteggiamento penitente che non il suo nucleo essenziale; ma le istituzioni a loro volta influenzano il movimento penitenziale originale, e mentre, da una parte lo depauperano, distorcendone il significato, dall'altra lo stabilizzano, incanalandolo su altre strade.

Il non essere riusciti a « salvarsi » con la penitenza (atteggiamento) farà morire la cultura penitenziale, e il suo residuo (le opere di penitenza) daranno, per contrasto l'occasione alla nascita di un nuovo atteggiaménto: non le « opere » (che infatti erano accessorie nella cultura penitenziale) possono salvare l'uomo, ma la «fede». La fine degli uomini della penitenza è la fine della lotta, tragica ma concreta, appassionata, violenta per « salvarsi » con le proprie forze. L'uomo che nasce dal fallimento della cultura penitenziale è Lutero, colui che non lotterà più (29), perché ogni lotta è

(29) Almeno psicologicamente, con l'accettazione totale della

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inutile; non si può né camminare verso Dio né allontanarsene; il pellegrinaggio è finito. Ma è chiaro che la Riforma, il significato culturale della Riforma, discende non dalla cultura penitenziale, ma dalla presa di posizione contro i suoi residui istituzionalizzati, quando la cultura penitenziale è praticamente già conclusa. Col Concilio di Trento e l'evoluzione della spiritualità verso le forme di una moralità tecnica e di costume, il contenuto più strettamente culturale della penitenza si esaurisce, la flagellazione diventa nuovamente, come era stata nell'ascesi monastica, strumento individuale di punizione della carne e tecnica ascetica. Ignazio di Loyola la mantiene come tale nei suoi Esercizi Spirituali (30); e la disciplina sopravvive ancor oggi nelle costituzioni moderne di vari ordini e congregazioni. Ma si tratta appunto di un « esercizio »; tutte le implicazioni più profondamente culturali e psicologiche spariscono, ancora una volta imbrigliate dall'impostazione catechetica della Chiesa.

Il movimento dei flagellanti è indubbiamente connesso a tutta la struttura della cultura penitenziale; oltre infatti al « tratto » più evidente, che è quello del riconoscimento del male, in sé, presente nell'uomo in quanto uomo, a prescindere da particolari colpe individuate ed oggettive, altri tratti della cultura penitenziale si intrecciano con quello, e non si può dire a un certo punto quale prevalga.

La devozione al Sangue porta ad accentuare l'importanza della effusione del sangue da parte dei penitenti (abbiamo già parlato della disputa sul sangue di Cristo e abbiamo visto i Crucifratres asserire il valore di battesimo di sangue nella flagellazione). Ma questo aspetto che sembra tipico di un comportamento religioso di « analogia col Cristo » ha invece le sue più profonde radici nella « potenza » del sangue, nei successivi significati di sangue-vita - anima -persona - sesso. «Sangue, sangue!...» grida Caterina da

grazia; anche se poi Lutero tradisce i motivi primi del suo atteggiamento, abbandonandosi alla lotta esterna nella riforma. È importante tuttavia sottolineare, come conferma di quanto andiamo dicendo, lo sforzo ascetico della gioventù monastica di Lutero, ove l'ascesi comportava quell'equivoco sullo « stato di penitenza » che abbiamo tentato più volte di lumeggiare. (Cfr. E. BONAIUTI, Lutero, dall'Oglio, Milano, 1958, p. 47 ss.).

(30) Decima addizione, 3a Maniera, Milano, 1953, p. 86.

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Siena,.. «Sangue, sangue» sembra rispondere il miracolo di Bolsena. I casi di ostie consacrate che lasciano apparire il sangue si moltiplicano: il Delaruelle cita quelli del 1380, 13S3, 1384, 1388, 1399, 1400, 1401, 1405, 1408, 1410, 1412, 1421, 1429, 1433, dopo di che questo tipo di miracolo diventa sempre più raro.

I flagellanti dunque, identificandosi col Salvatore, vogliono salvarsi con l'effusione del loro stesso sangue; sempre più chiaro ci appare il meccanismo di identificazione e la volontà di potenza che lo sottende. Il portare in mano la frusta diventa simbolo, e simbolo di potenza, come per il pellegrino e l'eremita il bastone, per il vescovo il pastorale, per il Re e per il Cristo-Re lo scettro (31).

2. La cattiva coscienza: il diavolo può apparire.

La scena finale dell'esistenza terrestre tante volte rappresentata nell'arte medioevale (cfr. Tav. 15 e Tav. 18), in cui l'anima del morto è messa in gioco fra Satana e S. Michele, prima di essere condotta dal vincitore in paradiso o all'inferno, è sembrato a diversi autori che stesse a significare « la passività dell'esistenza dell'uomo medioevale, la più alta espressione e la più impressionante della sua alienazione » (32). Ma in realtà la presenza massiccia e terrificante del diavolo è l'effetto di una « cattiva coscienza » nei confronti del Padre, che scompare a poco a poco dietro al Figlio-Uomo, nel quale gli uomini della penitenza sempre più si identificano.

Si può vedere qui, forse meglio che in qualsiasi altro tratto della cultura penitenziale, lo stretto rapporto fra meccanismo psicologico e atteggiamento culturale. Una prova di questo la si può trovare nel fatto che la presenza del demonico non si esaurisce con la fine della cultura penitenziale, né con la fine del medioevo. Anzi, il cinque e il seicento assistono

(31) Nell'iconografia del tempo l'uomo « potente » viene sempre rappresentato con un oggetto « potente » in mano, simbolo e strumento della sua potenza. Cosí Giacomo della Marca con in mano l'ampolla del sangue di Cristo, Bernardino da Siena con la tavoletta su cui è inciso il nome di Gesú.e perfino troviamo un onesto filosofo e letterato come Nicola da Cusa rappresentato in veste di pellegrino con il bastone in mano.

(32) G. LE GOFF, La civilisation de l'Occident Médiéval, cit., p. 207.

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al massimo sviluppo della credenza nei demoni e nella stregoneria.

La presenza del demonico dunque è strettamente legata ad un motivo culturale che nasce con la cultura penitenziale ma che non si esaurisce con essa: l'abbandono del Padre è alla radice di questo motivo, ed è un motivo di volontà di potenza e non di passività.

Se l'insicurezza e la paura dell'uomo medioevale, tante volte rilevate fino ad oggi, fossero la causa della massiccia presenza del demonio, questo avrebbe dovuto scomparire con la fine del medioevo; e rimarrebbe inesplicabile in un contesto culturale cosí diverso, l'esplosione della caccia alle streghe, che si estende dal cinquecento al settecento (32b).

L'essenza della lotta dell'uomo medioevale consiste invece proprio nel dover combattere più con Satana che con Dio. Si affievolisce il pensiero del Padre, ci si identifica sempre di più col Salvatore-Uomo, e la lotta si sposta quindi fra queste due forze: l'uomo e Satana. L'inconscia identificazione con Dio, attraverso l'esaltazione dell'Uomo-Dio, porta, come punizione, a dover combattere Satana. In altri termini, tentare di liberarsi del Padre, provoca un senso di colpa intollerabile, e l'attesa angosciosa della punizione.« Secundum legem debet mori » afferma Vincenzo Ferrer. Il Cristo, solo salvatore, nel quale gli uomini della penitenza si identificano, è condannato a morte dalla giustizia implacabile del Padre; non è un amico, ma l'uomo dei dolori, rappresentante di tutti gli altri uomini, anch'essi condannati a morte e uomini di dolore.

La morte è l'ultima parola, è l'ombra che aleggia e dà sostanza a tutta la meditazione sulla Passione. La letteratura di questo periodo vi ritorna continuamente, tanto che si potrebbe pensare che giochi qui un meccanismo psicologico: la necessità di superare ciò che più si teme facendolo per cosí dire « entrare in casa »; meccanismo nevrotico che potrebbe stare a significare che il pensiero della morte sia stato messo all'ordine del giorno per eccesso di paura (33).

La meditazione sulla morte prende perciò, nell'ultimo

(32b) Fino a quando cioè il trauma per l'abbandono del Padre sarà superato, e l'uomo non avrà più timore, con l'illuminismo, di mettere in discussione Dio.

(33) Con un meccanismo psicologico del tutto opposto a quello odierno della « rimozione », nei confronti della morte.

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medioevo, un significato ben diverso da quella riflessione cristiana sulla morte che aveva caratterizzato sia l'opera patristica, sia l'ascesi monastica. Quell'accento sull'uomo, che è uno degli aspetti più significativi della cultura penitenziale, porta a vedere la morte in una prospettiva di vero, tragico destino, di condanna terrificante dell'uomo sulla terra, il quale non può sfuggire a ciò che di tremendo è implicito nella morte, perché essa è veramente il significato ultimo della Passione: la condanna e l'abbandono definitivo da parte del Padre.

Le rappresentazioni sempre più brutali del cadavere, (cfr. Tav. 18 e 19) con quel realismo simbolico che è caratteristico dell'ultimo medioevo, testimoniano di questo acuito interesse per la parte che l'uomo è chiamato a compiere per morire e nel morire. Le artes moriendi sono da questo punto di vista estremamente significative: la tecnica nevrotica dell'anticipazione e della ripetizione diventano l'estrema risorsa davanti all'angoscia della morte.

D'altra parte la rappresentazione sempre più cruda degli aspetti fisici della morte (rappresentazione che inizia soltanto verso la metà del '300, proprio in Italia), e la introduzione della Morte come personaggio, scheletro armato e minaccioso, è l'ultimo sbocco di tutta l'impostazione penitenziale della esistenza.

Un personaggio non nasce se non come « oggettivazione »; solo con la cultura penitenziale l'uomo diventa il vero personaggio nel dramma esistenziale, e dà corpo cosí, dialetticamente, a quell'altro personaggio che è la morte.

L'identificazione col Cristo-Uomo, e «Uomo che deve morire », raggiunge cosí il limite massimo, e nel logorarsi del significato religioso di questa identificazione, il Cristo che muore diventa solo simbolo dell'uomo che muore. La morte, mirabile e desiato passaggio alla vita ultraterrena nella meditazione cristiana precedente, diventa la vera condanna dell'uomo, in bilico tra la terra e un al di là che sempre più è raffigurato e sentito come mondo dei morti. È già abbastanza chiara, in questo senso, quell'Allegoria della vita umana di Pietro Lorenzetti, in cui il macabro fantasma

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vola nell'aria al di sopra della testa del Cristo in croce, nell'atto di reciderne la vita con una falce (34).Quel mondo dei morti che sempre più incombe sui vivi (l'intensificarsi dei culto dei morti aveva avuto il suo inizio a Cluny, ma testimonia di questa paura: pregare per il morto significa soprattutto assicurarsi che egli « riposi in pace », e non venga a disturbare i vivi) aggrava l'angoscia della morte sempre più oggettivata e presente. Perché anche i morti sono o possono essere nemici; l'esperienza vissuta dell'incontro col morto (che è presente in quasi tutte le religioni) si risolve nella danza macabra, in orride nozze. Ma la potenza dei morti è dovuta anche al fatto che la vita può venire anche da loro. Sia la « danza » che le « nozze » infatti richiamano all'idea della vita. Per questo nella tensione verso i morti c'è anche, più o meno oscuramente, la tensione verso i demoni. Le potenze della vita sono considerate e sentite come spaventose, spesso calamitose, sempre incalcolabili perché nella credenza ai demoni si proietta all'esterno non la paura di una cosa spaventosa che sia anche concreta, ma l'angoscia indeterminata di fronte all'orribile, all'inafferrabile. Il brivido, il fremito, il terrore improvviso, l'angoscia infrenabile prendono la forma di demone. Il demone finisce col rappresentare in modo assoluto quanto nel mondo c'è di spaventoso, il potere incalcolabile che si muove intorno all'uomo e minaccia di impadronirsene. Per questo la natura del demone è equivoca e imprecisa. Come tale ha un potere di seduzione straordinario, una seduzione del resto tutta psicologica, perché ha le sue radici non tanto nel benessere o nella felicità che promette, ma semplicemente nell'attrattiva di servirlo, nella tensione verso qualcosa di orrido e di sconosciuto, che sembra a un tratto altrettanto pieno del senso del sacro quanto Dio. Quell'aspettativa di « rivelazione » del sacro, che l'uomo penitenziale sente come condizione sempre possibile, alimenta ancor più la suggestione del demonico.

Infine al pensiero ossessivo e atroce della morte, alle danze macabre e alla preoccupazione per le « povere anime », si unisce e si confonde, nell'ultimo medioevo, la preoccupazione per la stregoneria, come rivelatrice della presenza del demoniaco agente nel mondo. Alla stregoneria credono tutti,

(34) Cfr. A. TENENTI, La vie et la mori à travers l'Art du XVe siede, Cahiers des Annales, 1952.

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in qualsiasi ambiente, anche quando è praticata in modo rozzo e primitivo. Dalla credenza in demoni che stringono legami sessuali con i vivi, nasce il sospetto su bambini nati per « opera » del demonio. Sortilegi gettati Sugli innocenti spiegano i malintesi coniugali, i disastri, le guerre.

La predicazione popolare ebbe anche in questo campo un ruolo importante; i predicatori infatti si soffermavano spesso sulla presenza e sull'azione dei demoni nella vita e nelle vicende degli uomini e, trascinati dalla forza stessa dell'oratoria popolare, che di per sé porta ad uno stile violento e immaginoso, si abbandonavano a racconti terrificanti e pur tremendamente concreti. Fra questi è famoso Vincenzo Ferrer il quale usava di immagini e di particolari tali da attrarre e spaventare un numero enorme di uditori. Del resto l'usanza di simili racconti da parte dei predicatori era cosí diffusa, che nei manuali per l'esame di coscienza dei fedeli c'era scritto, a proposito della credenza nei sortilegi « Non dire per scusarti: un monaco mi ha insegnato » (35).

In effetti la nozione di stregoneria è complessa, e gli inquisitori stessi ebbero difficoltà a stabilire il termine per definirla. Dal 1380 in poi i processi diventano sempre più frequenti e la S. Sede accetta le definizioni proposte dai teologi e si decide ad incoraggiare la repressione. Tuttavia Roma è la città dove si ebbe un minor numero di processi, forse perché i Papi, quando si trovarono più vicini ai fatti, ebbero maggior modo di constatare la vacuità delle accuse; prova ne sia che S. Bernardino fu difeso dai suoi accusatori proprio dal Papa.

I Santi dell'epoca d'altra parte non si comportarono in modo diverso dal popolo e dalla gerarchia nei confronti della stregoneria; Bernardino stesso, il più equilibrato forse fra i grandi predicatori del tempo, credette all'esistenza delle streghe (di Vincenzo Ferrer abbiamo già parlato), e non si può dunque comprendere questo fenomeno senza rifarsi a tutta l'impostazione culturale di cui abbiamo fatto cenno. Il demonico è uno dei tratti più significativi della cultura penitenziale, e sopravvivendo ad essa, testimonia della complessa dinamica che in una cultura porta all'esaurimento di alcuni valori, e trova in questo esaurimento la possibilità di far emergere altri valori in esso impliciti.

(35) Cfr. J. JANSSEN, L'Allemagne et la Riforme, VIII, Paris, 1911, p. 526.

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3. L'albero sacro: la Croce.

Il bisogno di partecipare alle sofferenze del Cristo, alimentato, come abbiamo detto, da un processo inconscio di identificazione, porta a riprodurre realisticamente quella Passione, che è simbolo della vita degli uomini della penitenza. Tutta la vita si cadenza sulle « stazioni »; le ore canoniche vengono recitate con lo scopo di evocare i vari momenti del Calvario (36). I Francescani di Gerusalemme inoltre avevano preso l'abitudine di far seguire ai pellegrini il cammino percorso dal Cristo verso il Golgota, frammentato da «stazioni » in cui ci si fermava per meditare i vari episodi dell'ultima giornata del Cristo. I pellegrini che si recavano sempre più numerosi in Terra Santa facevano conoscere e rendevano popolari al loro ritorno questi esercizi.

Si organizzano su questi esempi, a poco a poco, delle devozioni di questo tipo: devozione alle sette cadute, devozione alle piaghe, meditazione delle parole del Cristo (36). Ci vorrà del tempo prima che queste immagini distaccate si raggruppino in un insieme coerente, al quale il ricordo del cammino del Cristo darà un filo conduttore. È soltanto nel sedicesimo secolo che questo lavoro di coordinazione sarà portato a termine; la Via Crucis sarà allora ordinata al ritmo delle stazioni più o meno numerose, durante le quali i fedeli pregano. Ma dalla fine del XIV secolo si era già presa l'abitudine di visitare una chiesa il Venerdì Santo per camminare col Cristo, ed anche se in questo periodo questo tipo di devozione ha ancora un carattere saltuario e privato, non è difficile individuare nel diffondersi sempre più frequente della Via Crucis, il desiderio di riprodurre, in miniatura, una specie di pellegrinaggio verso la vita vera. Breve o lungo che sia il cammino che si dovrà percorrere, esso è strutturato come qualsiasi pellegrinaggio: una stazione di partenza, spirito penitenziale, stazioni intermedie, raggiungimento della stazione finale che prevede un'offerta sacrificale (conversione = morte), e la visione dell'albero della vita: la croce spoglia del Cristo.

(36) Per es. al « mattutino » si medita l'arresto nel giardino degli ulivi, a « prima » il giudizio davanti a Pilato, ecc.

(37) M. J. PICARD, Croix (chemin de), in Dict. de spirit., vol. II, col. 2576-2606.

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Si diffondono cosí sempre di più una serie di devozioni con significati simbolici: il cammino verso la montagna sacra, l'albero di vita, il centro del mondo, la cosmogonia, molti simboli che sono presenti nella storia e nella fenomenologia delle religioni, si riattivano e si fanno pregnanti, lungo tutto il corso della cultura penitenziale, riassumendosi alla fine in forma « stilizzata » nella scena del Calvario.

Alberi sacri, riti e simboli vegetali si incontrano nelle religioni e nelle tradizioni popolari di tutto il mondo, come pure nella metafisica e nella mistica arcaica. L'albero può presentarsi, con diversi significati simbolici, i quali si ricollegano però e si richiamano l'uno con l'altro. Può essere strumento di teogonia cosmica (il cosmo è immaginato in forma di albero gigantesco) (38), oppure simbolo della vita, della fecondità inesauribile, dell'assoluta realtà; oppure può essere ancora centro del mondo e sostegno dell'Universo. Il collegamento fra queste diverse rappresentazioni è abbastanza evidente: l'albero che rappresenta il Cosmo vivente che si rigenera senza interruzioni, può diventare albero della Vita-senza-morte, poiché la vita inesauribile è equivalente all'eternità. D'altra parte la vita inesauribile traduce, nell'ontologia arcaica, l'idea di «realtà assoluta», per cui l'albero diventa simbolo di questa realtà (centro del mondo) (39).

L'albero (certi alberi) rappresenta una potenza. Questa potenza è dovuta sia « all'albero » in quanto tale, sia alle sue implicazioni cosmologiche. Per la mentalità «primitiva», in cui natura e simbolo coesistono, l'albero non è mai adorato per se stesso, ma sempre per quel che si rivela per suo mezzo, per quel che l'albero implica e significa. « Non esiste culto dell'albero in sé; sotto la figurazione dell'albero si nasconde sempre un'entità spirituale » (40).

È perciò in virtù della sua potenza, per quello che manifesta

(38) A volte quest'albero è rovesciato. Dante rappresenta le sfere celesti nel loro complesso come la corona di un albero le cui radici sono volte in alto. « L'albero che vive dalla cima » (Par. XVIII, 28) è un albero rovesciato.

(39) M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino, 1954, p. 386 ss.

(40) N. PARROT, Les représentations de l'arbre sacré sur les monuments de Mésopotamie et d'Elam, Parigi, 1937, p. 19

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(e che lo supera) che l'albero diventa un oggetto religioso. Questa potenza a sua volta è convalidata da un'ontologia: se l'albero è carico di forze sacre, ciò avviene perché è verticale (41), cresce, perde le foglie e le ricupera, e di conseguenza si rigenera («muore» e «risuscita») innumerevoli volte.

Questa sacralità dell'albero si ritrova fortissima nella cultura penitenziale; e sotto tutti i significati simbolici che ad essa si ricollegano. La foresta per esempio è sentita, in forma ambivalente, come luogo sacro, eletto da tutti coloro che vogliono mettere in atto la « fuga mundi », e come fonte di pericoli, e di rischi misteriosi.

Gli eremiti, gli innamorati, i cavalieri erranti, eleggono là foresta a loro dimora; per i monaci è « il deserto », luogo di meditazione, di visioni e di tentazioni. Dio può rivelarsi nella foresta, che simboleggia la « terra aliena », il confine del mondo, come pure può rivelarsi il demonico, poiché ogni albero può essere sede di un diavoletto o di una strega (42). D'altra parte l'albero non manca mai nella storia delle religioni, nelle varie rappresentazioni del « luogo sacro ». Il santuario semitico arcaico era spesso formato da un albero e da un sasso (43). I luoghi ove Cananei ed Ebrei deponevano le offerte erano situati su ogni collina elevata e su ogni albero verdeggiante (44).

Il « luogo sacro » si configura quindi nelle più antiche rappresentazioni religiose come un microcosmo: paesaggio di sassi, acque, alberi (45). Il binomio culturale pietra-albero è presente in diverse zone arcaiche, come pure in Grecia e nel mondo semitico. L'altare e il tempio, che sono trasformazioni ulteriori del « luogo sacro » primitivo sono microcosmi, sono centri del mondo, si trovano nel cuore stesso

(41) Può aver contribuito alla « scelta » dell'albero anche l'anasogia della verticalità con la posizione eretta dell'uomo, cosa che mi lembra abbastanza evidente anche nel legame mistico dell'albero con l'uomo. Non ho potuto però verificare questa ipotesi, che non ho trovato neanche accennata nei testi di storia e di fenomenologia delle religioni.

(42) LE GOFF, La civilisation de l'Occident Médiéval, cit., p. 171.(43) SMITH R., Lectures on the religion of the Semites, London, 1889, p. 187.(44) GEREMIA, 2, 20.(45) S. PRZYLUSKI, La participation, Parigi, 1940, p. 41 (citato da Eliade).

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dell'Universo e rappresentano una « imago mundi ». L'idea di centro, di realtà assoluta, in quanto sede del sacro, è implicita anche nelle concezioni più elementari del « luogo sacro », concezioni in cui, come dicevamo, non manca mai l'albero.

Quello che colpisce con estrema evidenza nella cultura penitenziale è la tendenza fortissima a ritrovare in realtà storico-religiose diverse, simboli e significati originari (primari), come se il ripercorrere a ritroso le varie sovrapposizioni simboliche fosse un'esigenza inderogabile della viabilità del sacro in questo atteggiamento culturale.

Abbiamo cosí Gerusalemme che diventa il centro del mondo, poi il Calvario (posto elevato) diventa centro del mondo, su cui è piantata la Croce, albero sacro, albero della vita] L'identificazione della croce come albero di vita è molto frequente nell'iconografia cristiana (46), ma si moltiplicano nel medioevo le leggende sul legno della Croce, fino ad asserire che la Croce fu fatta col legno dell'albero della vita che stava in Paradiso, e che da questo deriva la sua virtù (47).

L'origine delle leggende sul legno della Croce e sul viaggio di Seth in Paradiso, che circolarono per tutto il medioevo, risale all'Apocalisse di Mosé, al Vangelo di Nicodemo e alla vita di Adamo ed Eva (48). La più complessa di queste leggende narra che Adamo, dopo aver vissuto 932 anni nella valle di Hebron, fu colpito da una malattia mortale, e mandò il figlio Seth a domandare l'olio della misericordia all'Arcangelo che custodisce la porta del Paradiso. Seth, giunto davanti al Paradiso, comunicò all'Arcangelo il desiderio di Adamo. L'Arcangelo gli consigliò di guardare il Paradiso tre volte. La prima volta Seth vide la fonte da cui nascevano i quattro fiumi e, al di sopra della sorgente, un albero secco. Al secondo sguardo, un serpente si avvolse intorno al tronco. Al terzo, vide l'albero innalzarsi fino al cielo: portava sulla cima un neonato e le sue radici affondavano nell'inferno (l'Albero della vita si trovava al centro dell'Universo, e il suo asse attraversava le tre regioni cosmiche). L'angelo spiegò a Seth il significato di quello che aveva veduto, e gli annunciò

(46) H. BETHE, Baumkreuz, in Reallexikon zur deutschen Kunstgeschichte, Stoccarda, 1937.

(47) R. RÉAU, Iconographie de l'art chrétien, vol. II, pp. 483-84.(48) A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del medioevo, Torino, 1925,

pp. 61 ss. (I testi degli Apocrifi ebbero molta fortuna durante il medioevo).

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l'avvento di un Redentore; gli diede poi tre semi del frutto dell'albero fatale gustato dai suoi genitori, e gli disse di posarli sulla lingua di Adamo, che sarebbe morto dopo tre giorni. Quando Adamo udì il racconto di Seth, rise per la prima volta dopo la cacciata dal Paradiso, perché comprese che gli uomini si sarebbero salvati. Dopo la sua morte, dai semi che Seth gli aveva posto sulla lingua, spuntarono nella valle di Hebron tre alberi, che crebbero di un palmo fino al tempo di Mosè. Questi, conoscendone l'origine divina, li trapiantò sul monte Tabor o Horeb («centro del mondo»). Gli alberi vi restarono un millennio, fino a che Davide ricevette il comando divino di portarli a Gerusalemme (altro «centro»). Dopo altre peripezie, i tre alberi si fusero in uno solo, che servi a fabbricare la croce del Redentore. Il sangue di Gesú, crocifisso sul centro della Terra, precisamente nel punto ove era stato creato e sepolto Adamo, cadde sul « cranio di Adamo » (49), battezzando il padre dell'umanità e riscattandolo dai suoi peccati (50).

È dunque l'immortalità lo scopo ultimo della ricerca. Ma l'immortalità si ottiene difficilmente; è concentrata in un albero della vita (o Fonte della vita), in un luogo inaccessibile (o in un «centro»); un mostro (un serpente) custodisce l'albero, e l'uomo che con molte fatiche vi si è avvicinato, deve lottare col mostro e vincerlo per impadronirsi dei frutti che danno l'immortalità (51).

La lotta col mostro ha evidentemente un senso iniziatico: l'uomo deve superare le sue prove, diventare « eroe » per avere diritto all'immortalità. Il cammino è lungo, arduo, pieno di ostacoli, come tutte le strade verso il Centro, il Paradiso, o una fonte d'immortalità.

L'angoscia della morte che abbiamo visto assillare gli uomini dell'ultimo Medioevo, li manda alla ricerca dell'immortalità, e ritroviamo questo stesso significato « nell'eroismo » medioevale, nell'idea di crociata, nell'essenza stessa del pellegrinaggio come itinerario duro e pericoloso verso la salvezza. L'albero che fa da patibolo al Dio morente riassume cosí

(49) Cfr. W. STANDE, Le crâne-calice au pied de la croix, « La Revue des arts », Paris, 1954; inoltre RÉAU, op. cit., pp. 488-89.

(50) ELIADE, op. cit., pp. 303-304.(51) Nel Battistero di Parma accanto all'albero della vita stanno di guardia

dei draghi; lo stesso motivo si ritrova in un bassorilievo del Museo della Cattedrale di Ferrara.

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tutti i significati impliciti nei precedenti sviluppi della cosmogonia sacra, e non si può fare a meno di notare come siano pochi e sempre ricorrenti i simboli di cui l'uomo dispone, se perfino l'aspetto spoglio e sterile della croce possiamo ritrovare già come adombrato in Egitto e in Grecia dove soltanto l'albero secco e morto è considerato portatore di potenza o sede degli dei (52).

Negli inni alla croce si ritrovano tutte le immagini simboliche implicite nell'albero sacro: O crux ave, spes unica ... regnavit a ligno Deus ... mors mortua tunc est, in ligno quando mortua vita fuit. Unda manat et cruor: terra, pontus, astra, mundus, lavantur flumine !

(52) Cfr. VAN DER LEEUW, cit., p. 36.

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Capitolo VI

I. La comunicazione del sacro.

L'essenziale, per gli uomini della penitenza, è riconoscersi come uomini in rapporto a Dio. Dio non è più un « dato », è una « possibilità ». Naturalmente quest'affermazione non va interpretata come un dubbio sull'esistenza di Dio. Questo dubbio non sfiora (coscientemente) neanche i più scettici fra gli uomini del medioevo; quello che è in crisi è la possibilità di « rapporto », e questo rapporto dipende dagli uomini. Potremmo dire, facendo nostro il linguaggio biblico, che gli uomini della penitenza credono che sia necessario « tentare » Dio, costringerlo a comunicarsi. In realtà è già implicito in questo atteggiamento, un « dubbio » su Dio, però gli uomini della penitenza non se ne rendono minimamente conto, e questo dubbio non sarà portato alle estreme conseguenze se non con la fine della cultura penitenziale, o meglio potremmo dire, con il suo « fallimento ».

La « penitenza » infatti non è stata sufficiente a far rivelare Dio, a instaurare il Regno dello Spirito: la Chiesa riprenderà sotto le sue ali gli uomini esausti dal loro pellegrinare, delusi dei loro inutili tentativi per raggiungere la potenza, e li convincerà ad affidarsi a lei, al tesoro di grazia di cui è detentrice (lo sviluppo delle indulgenze è in parte collegato a questo atteggiamento). L'umiltà diventa la virtù per eccellenza, ma è un'umiltà del tutto diversa da quella penitenziale: l'uomo della penitenza assumeva l'umiltà come riconoscimento di potenza (si riconosceva « uomo » in rapporto a Dio); l'uomo della controriforma è umile soprattutto perché è obbediente alla Chiesa; l'obbedienza è segno di dipendenza totale, l'umiltà consiste nell'accettazione di questa dipendenza. Si tratta tuttavia di un'umiltà che non è un atteggiamento culturale globale, ma soltanto un valore religioso ed esula quindi

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dal nostro sguardo (1). Mentre da quel « dubbio » su Dio che era implicito nell'atteggiamento penitenziale, nascerà l'atteggiamento rinascimentale, il graduale distacco dalla ricerca del sacro, la valorizzazione di « quell'uomo per sé » che avevamo visto vagamente apparire agli inizi della cultura penitenziale.

Tuttavia c'è un aspetto di quel « tentare » Dio di cui parlavamo, che dobbiamo ancora mettere in luce, e che ci appare nella forma più evidente nella « circolazione » del sacro durante gli ultimi secoli del medioevo.

Quest'epoca contrassegnata da un dinamismo straordinario, in cui tutti e tutto si muovono, per ragioni che hanno sempre la loro radice nella ricerca della sacralità, vede, proprio per questo motivo, svilupparsi enormemente il culto dei santi, e, collegato ad esso, il pellegrinaggio.

Le feste dei santi si moltiplicano, i loro sepolcri sono vene-ratissimi e visitati spesso con pellegrinaggi, proprio come avviene per i luoghi santi di Gerusalemme. Fra i santuari più frequentati troviamo le tombe di Pietro e Paolo a Roma, di S. Giacomo a Santiago di Compostella in Spagna e di S. Martino a Tours.

I santi sono anzitutto qualcosa di sacro, cioè di « potente »; l'importante è la potenza che si rivela loro e in loro, e li fa diventare quindi portatori di potenza. Il carattere empirico della potenza predomina nel culto dei santi: è santo chiunque possiede potenza; e questo è vero anche per l'aspetto « eroico » del santo. Il concetto di « virtù » eroica (e bisogna tener presente quanto abbiamo già visto dell'« eroismo » nel medioevo) è strettamente legato, linguisticamente, alla forza, alla potenzialità, al miracolo (virtus = ἁρετή).

Ma il santo è anche un cadavere; sono santi i morti ed è santa la potenzialità dei morti (questo spiega il contemporaneo sviluppo del culto dei morti nell'epoca penitenziale (vedi cap. IV). Il santo è infatti un essere umano il cui corpo possiede qualità divinamente potenti, qualità che l'uomo può riuscire ad appropriarsi per contatto (2).

(1) Non posso però fare a meno di accennare al fatto che la poca a presa » che ha avuto il protestantesimo in Italia è dovuta, almeno in parte, proprio alla stanchezza per il fallimento dell'atteggiamento penitenziale di cui parlavo.

(2) H. DELEHAYE, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l'antiquité, Soc. des Bollandistes, Bruxelles, 1927, p. 74.

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Tutti cercano quindi di venire in possesso di reliquie, cioè dei corpi stessi dei santi o di loro parti, oppure di oggetti che sono stati in contatto con i santi durante la loro vita, oppure dopo la loro morte. I cadaveri diventano oggetto di rivalità fra le città che si disputano la loro potenza. Per questo la tomba e le reliquie diventano più importanti del santo stesso. La tomba che conserva le reliquie è garante della potenza sacra, li presente, e contribuisce alla formazione dello «spazio sacro» (santuario). Quando S. Francesco, prossimo alla morte, tornava ad Assisi, si evitò di farlo passare per Perugia, temendo che i Perugini si impadronissero del santo; la gioia di arrivare sani e salvi ad Assisi dipendeva dalla fondata speranza che Francesco vi sarebbe spirato fra poco (3). La reliquia permette la comunicazione del sacro, è potente perché comunica la potenza e questa possibilità di comunicazione del sacro è l'aspettativa più forte dell'uomo penitenziale, che non cerca altro in definitiva che fornire l'occasione al sacro di rivelarsi.

La « elevazione » dei santi, il loro trasferimento in un nuovo santuario e la loro solenne « ostensione » in determinati giorni si trasformano in grandi feste popolari. La maggior parte delle reliquie veniva dall'Italia (Roma), dalla Francia e dall'Oriente. Le crociate, specialmente la quarta (conquista e saccheggio di Costantinopoli nel 1204) permisero di portare dall'Oriente in Occidente una grande quantità di reliquie, delle quali molte certamente non autentiche.

Le traslazioni soprattutto diventano importanti perché trasportare le reliquie da un posto ad un altro non implica soltanto « consacrare », comunicare la potenza a questi stessi luoghi, ma (cosa questa che non mi sembra sia stata abbastanza rilevata dagli studiosi di fenomenologia religiosa) significa « mettere in moto » la potenza, riattivarla, costringerla a rivelarsi, in un certo senso permetterle di essere «più potente».

(3) P. SABATIER, Vie de saint Francois d'Assise, X ed. (1894), pp. 362 ss.; dicono anche i Tre Compagni: « Francesco giaceva gravemente malato nel palazzo vescovile d'Assisi (era tornato in quei giorni dal luogo di Bagnara). E il popolo della città temeva che se il santo moriva di notte, a loro insaputa, i frati ne trafugassero il corpo santo e lo collocassero in un'altra città. Deliberarono quindi che tutte le notti egli fosse attentamente vigilato da scolte, poste tutte intorno, fuori delle mura del palazzo ». (I Fiori dei tre Compagni, cit., Sezione A, n. 7, p. 23).

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È la partecipazione dell'uomo a questo « mettere in atto la potenza», che più colpisce nel comportamento dell'uomo medioevale (partecipazione che sussiste anche nelle processioni e nei pellegrinaggi), e che sembra convalidare l'ipotesi che abbiamo avanzato sulla volontà di potenza che sottende a tutti i tratti più evidenti della cultura penitenziale. La « partecipazione » dell'uomo, valorizza e dà forza a ciò che è già potente, e in un certo senso si può supporre che perfino il « contatto » attraverso il quale la potenza si comunica e « contagia » l'uomo, sia inteso dall'uomo della penitenza come la condizione sine qua non perché la potenza stessa possa rivelarsi.

Il culto dei santi si intensifica continuamente fino a raggiungere il suo apice nel 1400. La predicazione sui santi si fa anch'essa più frequente. Di solito un predicatore che pubblica i suoi sermoni, pubblica un « De sanctis » insieme a un « De Tempore ». Cosí per esempio Vincenzo Ferrer, Bernardino e molti altri.

Si moltiplicano i « beati », che sono in un certo qual modo ancora i santi del popolo, in contrasto con la stretta procedura di canonizzazione che era stata nel frattempo instaurata; ma questi « beati » sono fatti « su misura » dal popolo; ed è da notare come essi siano onorati ed amati soprattutto per le loro caratteristiche ancora di tipo « monastico », malgrado l'evoluzione della spiritualità che abbiamo descritto nella cultura penitenziale. La vecchia agiografia trova ancora la sua forza di penetrazione nelle caratteristiche di una virtù « eroica » perché potente. Basterebbe ad esemplificare questo fenomeno l'ultima parte dei Fioretti in cui si perde quasi del tutto il messaggio francescano e si ritrova, in maniera alquanto goffa, nei frati della Marca, la figura del monaco che attinge l'infinito nel silenzio dell'ascesi come i padri del deserto, e che fa miracoli nella vita ascetica quotidiana. C'è dunque, in queste caratteristiche del culto dei santi, soprattutto la ricerca di una manifestazione, facile e quasi ovvia di « potenza », che fa scomparire la personalità del santo dietro un'immagine prestabilita e quasi priva di individualità, e che tende a mettere in luce quasi esclusivamente la forza « miracolosa » che emana dalla sua vita.

Molti dei santi (canonizzati) e dei beati (considerati santi dal popolo e dagli ordini religiosi cui appartenevano)

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Tav, I.

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Tav. I.Abbiamo qui un primo accenno di deposizione dalla croce. Il Cristo è chiuso, non nella morte, ma in una vita distaccata e trascendente, che la rigida corona regale sembra accentuare. Tuttavia l'inclinazione del capo verso destra (la scelta della destra persiste in tutte le scene di crocifissione e deposizione) è il primo segno di quell'umanizzazione del crocifisso che andrà sempre più accentuandosi nell'ultimo medioevo. (Portale occidentale della Basilica di S. Zeno a Verona, finito nel 1187)

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Tav. 2.Il tema della discesa dalla croce, che si diffonde dopo il X sec. da Bisanzio, diventerà uno dei più importanti e dei più meditati con lo sviluppo della cultura penitenziale. Il Cristo qui non è ancora sofferente, e non porta né corona regale né corona di spine. Ma è indubbio che il significato e l'intuizione religiosa che sollecita a sviluppare con sempre maggiori dettagli la scena della Passione, fino alla deposizione del corpo del Crocifisso nel grembo della Madre, precede, contrariamente a quanto è stato a volte supposto, lo sviluppo della Rappresentazione Sacra, che in Italia assume una vera fisionomia solo con la nascita della lauda, dal 1260 in poi. (Parma, Cattedrale, Deposizione di BENEDETTO ANTELAMI, 1178)

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Tav. 3

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Tav. 3.Siamo nel momento della massima umanizzazione del Cristo; nel corpo tutto trafitto di spine, e nell'estrema sofferenza del volto non sembra trasparire nessuna speranza di risurrezione. La morte, che incombe sull'uomo della penitenza è la stessa che si riflette nella tremenda Passione del Cristo; l'enorme corona di spine è l'unico segno di regalità dell'Uomo. Nella spietata violenza con cui viene rappresentata l'estrema derelizione del Crocifisso, sembra risuonare la stessa condanna che Vincenzo Ferrer attribuiva alla volontà del Padre: « Secundum legem debet mori ». (cfr. cap. V) MATHIS NITHART, Crocifissione, 1512-1515 circa, partic. Museo di Colmar.

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Tav. 4

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Tav. 4La scena della Deposizione diventa sempre più importante; se confrontiamo il crocifisso della porta di S. Zeno (Tav. I) che si stacca rigidamente dalla croce con la sua corona regale in testa, con questo corpo abbandonato che sembra scendere direttamente nelle mani della Madre, ci accorgiamo di quanto siano vivi soprattutto coloro che stanno intorno alla croce, e che sono essi, come in ogni morte, i veri attori della scena. Cristo è ormai uomo fra gli uomini. Tuttavia qui è anche ben visibile che la croce rimarrà, spoglia del Cristo, alta sugli uomini, e già delineata e chiusa in un significato a se stante. (SIMONE MARTINI, 1340 c., Anversa)

Tav. 5 a.Il Calvario diventa a poco a poco lo « spazio sacro » per eccellenza; luogo « elevato » (c'è una montagnola sotto la croce) e «

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centro » del mondo; il teschio di Abramo, la cui tomba secondo una popolarissima leggenda medioevale, è posta proprio sotto la croce, riceverà il battesimo direttamente dal sangue che scorre dai piedi del Cristo. Tuttavia il teschio assume durante la cultura penitenziale diversi significati simbolici che si contaminano l'uno con l'altro; e come sta a significare l'avvenuta rigenerazione di Adamo, cosí pure è segno della presenza incombente della Morte e simbolo di penitenza (lo ritroviamo nelle raffigurazioni di S. Gerolamo nel deserto, di Pier Damiani, entusiasta assertore dei meriti della « disciplina », di S. Maddalena penitente, di Francesco d'Assisi, ecc.). (ANDREA DEL CASTAGNO, Il crocifisso e Santi, 1456 - 1457 Firenze, Cenacolo di S. Apollonia, foto Alinari)

Tav. 5 b.

Siamo verso la fine della « cultura penitenziale ». La scena della crocifissione è spesso rappresentata ormai in una forma pura ed essenziale. I due momenti evolutivi della rappresentazione del Calvario coincidono e si fondono nella rassegnata umanizzazione del Cristo e nella linea dell'orizzonte che proietta la croce come fuori del mondo ed elevata al di sopra del mondo (cfr. cap. V). Ritroviamo gli stessi motivi nel dolore rassegnato di Maria e di Giovanni, dolenti accanto al Cristo ed accomunati in una medesima distaccata umanità col Cristo; e nella sottile corona di spine che accompagna l'aureola insanguinata (motivo del Cristo Re e Uomo di Dolore). (MATTEO DI GIOVANNI, Predella di S. Caterina, 1460, Museo di Arte sacra, Asciano)

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Tav. 6

Tav. 6Gli strumenti della Passione diventano simboli essenziali della cultura penitenziale; non tanto arma Christi, ma quando e soprattutto oggetti « potenti », strumento di identificazione alla passione, come proiettati e chiusi in un loro significato autosufficiente. Il corpo del crocifisso non sembra più essere indispensabile nel concretizzarsi di devozioni (via Crucis, flagellazione,

sangue), in cui il « segno » diventa a poco a poro quasi più pregnante della realtà. (BARTOLOMEO DA CAMOGLI, Predella dellUmiltà,1346, Galleria nazionale della Sicilia, Palermo)

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Tav. 7.Tutta la capacità simbolica dell'uomo medioevale sembra essersi proiettata sulla Passione del Cristo, in cui ogni gesto, ogni dettaglio assume significato a se stante. La croce potrebbe di fatto riassumerli tutti, come a volte avviene; perfino qui, dove sembra che nulla sia stato dimenticato, dalle mani di Pilato a quelle di Giuda, dalla benda per il Cristo deriso alle tenaglie e al martello per i chiodi, la croce, enorme, li racchiude e dà loro un significato essenziale. « L'albero », in cui la croce ad un tratto fiorisce, è anch'esso simbolo, (la croce come albero), e diventa nido del « pellicano », che durante tu t t o il medioevo sta a rappresentare il Cristo che dona il suo sangue per redimere i suoi piccoli. La simbologia del pellicano è particolarmente frequente in Italia (il « nostro Pellicano » del Paradiso di Dante (C. 35), il « Pio Pellicano » dell'inno di S. Tommaso d'Aquino), soprattutto per l'influenza della predicazione popolare. LORENZO MONACO, La sepoltura, part., Uffizi, Firenze)

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Tav. 8.Tav. 8« Fra tutti i corpi, la luce fisica è ciò che vi è di meglio, di più piacevole, di più bello... ciò che costituisce la perfezione e la bellezza delle cose corporali, è la luce » dice Roberto Grossatesta; e citando S. Agostino, una delle più importanti « autorità » medioevali, ricorda che « il nome di Bellezza, quando è capito, immediatamente fa percepire la prima luce ». Questa prima luce non è altro che Dio, fuoco luminoso e incandescente. La chiesa gotica, tutta tesa nello sforzo di una illuminazione significativa, diventa cosí « strumento » di percezione della luce, e veicolo radioso di quella presenza e bellezza di Dio che l'uomo medioevale teme continuamente di veder scomparire. (BOURGES, Cattedrale di S. Stefano, navata estrema sud, fine del XII sec.

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Tav. 9.La devozione a S. Cristoforo, che si intensifica dall'XI sec. fino ad esaurirsi (anche se non del tutto) con la fine del medioevo, è una tipica devozione della cultura penitenziale. Prescindendo dal fatto che il personaggio è del tutto immaginario, esso si carica via via di tu t t i i significati ed i valori tipici dell'uomo della penitenza. Porta il Cristo sulle sue spalle, è un eterno pellegrino, e al tempo stesso è al servizio dei viaggiatori e dei pellegrini, ai quali fa attraversare i fiumi pericolosi, portandoli sulle spalle (identificazione del pellegrino col Cristo). Il bastone al quale si appoggia, piantato in terra, si trasforma in una palma ricca di datteri (potenza del bastone). Protegge dalla morte improvvisa: è sufficiente « guardare » la sua immagine per essere al sicuro dal pericolo della morte per tutta la giornata. Si moltiplicano perciò le sue immagini, e la potenza insita nella vista, sembra proiettarsi negli occhi di Cristoforo, il cui sguardo si carica di una forza allucinata. (S. Cristoforo che porta il bambino Gesú, affresco del 1275 c., Tour Ferrande, Pernes, Vancluse).

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Tav. 10.S. Cristoforo, particolare, 1275 c

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Tav. 11Il diavolo si presenta durante la cultura penitenziale nelle forme e nelle immagini più terrificanti; in veste simbolica, cui i bestiari danno innumerevoli possibilità di estrinsecazione, e in veste antropomorfica, che in un certo senso sembra ancora più orrida e sconvolgente. Le enormi mani che artigliano la gola del dannato non sono che una delle tante, mostruose immagini demoniche che hanno assillato il disperato senso di colpa dell'uomo della penitenza. (GISLEBERT, Le mani del diavolo, particolare del Giudizio finale del timpano della porta occidentale della cattedrale di Autun, XII sec.)

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Tav. 12.Le incarnazioni dello Spirito del Male sono numerosissime durante il medioevo, e i bestiari si prestano a simbolizzare sotto tutti gli aspetti l'orrenda maschera demonica. Animali reali o favolosi, ibridi o semiumani, moltiplicano la possibilità di rappresentazione del mostruoso che pure affascina, del tremendo che pure attira. Il ghigno del demone, che si affretta a tirare la corda dell'impiccagione di Giuda, trae la sua forza e il senso di una viva realtà, dall'essere non tanto bestiale, quanto una contraffazione efficace dell'umano. (Cattedrale di Saint-Lazare, Autun, particolare del capitello con l'impiccagione di Giuda, 1120-1146 circa)

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Tav. 13.La presenza massiccia del diavolo sembra dare la possibilità all'uomo della penitenza di « proiettare » tutto il suo bisogno di crudeltà, di ferocia, di vendetta. Le innumerevoli rappresentazioni dei tormenti dell'inferno, la fantasia spietata che li alimenta (come alimenta le rappresentazioni dei martiri dei santi) non trova una sufficiente spiegazione se non forse nel profondo senso di colpa che angoscia l'uomo medioevale e lo spinge ad esasperate manifestazioni aggressive. (Scuola Pisana sec. XIV, L'inferno, particolare del Giudizio universale, Camposanto di Pisa)

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Tav. 14.I chiodi sono estremamente importanti, come tu t t i gli altri strumenti della Passione, e spesso simboleggiano da soli tutto il Calvario. Qui un angelo (personaggio « potente ») li tiene stretti in mano come « oggetti potenti », e li presenta in ginocchio, severo e adorante, nel paesaggio penitenziale della foresta. La foresta, infatti, assume nel medioevo il significato di « luogo penitenziale », spazio sacro connesso alle « tentazioni », alle rivelazioni del demonico, alle visioni, alle lotte del penitente. È un nuovo tipo di « deserto », che appare anche molto spesso nelle rappresentazioni delle tentazioni di S. Antonio abate e di S. Gerolamo, i due più famosi penitenti nel medioevo. (VINCENZO POPPA, particolare della Predella delle Grazie, 1476, Pinacoteca di Brera, Milano)

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Tav. 15.La devozione all'arcangelo Michele si estende per tutto il medioevo (in Italia è meta di pellegrinaggi il santuario di S. Michele al monte Gargano); oltre a combattere contro il drago, S. Michele è il presidente del tribunale del Giudizio Finale. È alleato dell'uomo alle soglie dell'eternità, e in caso di bisogno sa dare il colpo necessario per far traboccare la bilancia dalla parte giusta. La spada è il suo « oggetto potente », e non fa meraviglia, nel contesto penitenziale, l'alleanza dell'uomo con il più « aggressivo » degli angeli. La sfiducia dell'uomo della penitenza verso Dio Padre si manifesta qui nella forma più rivelatrice: se i diavoli sono chiamati da Dio a fare le Sue vendette contro l'uomo peccatore, perfino la sua giustizia potrà essere ingannata con il colpo sulla bilancia. (A. ORCAGNA, Lotta del cielo e dell'inferno per l'anima dell'imperatore Enrico II, Predella della pala Strozzi, 1357, Firenze, S. Maria Novella)

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Tav. 16.La devozione ai santi, che raggiunge il più grande sviluppo durante l'ultimo medioevo, è ai suoi inizi soprattutto devozione al loro martirio, alle loro reliquie. Negli affreschi della cripta posta sotto il coro dell'abbazia di Saint-Savin (1023 c.) sono rappresentati episodi della vita e del martirio di S. Savino e S. Cipriano, le cui reliquie erano venerate nell'abbazia stessa. Secondo la tradizione i due santi sarebbero stati messi a morte sulle rive del Gartempe, e fra i numerosi supplizi cui sarebbero stati sottoposti, quello della « ruota » è evocato con vivo ed ingenuo realismo. Intere generazioni di pellegrini vi si sono commosse facendo dell'abbazia uno dei più famosi e venerati luoghi di pellegrinaggio.

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Tav. 17.Il Cristo parla spesso nel periodo penitenziale, dalla croce dove è inchiodato; è questo anzi uno dei tratti che maggiormente contraddistinguono l'umanizzazione del Re crocifisso. D'altra parte il protrarsi della meditazione davanti al Crocifisso porta quasi spontaneamente ad instaurare un colloquio. Molti temi devozionali legati all'agiografia risentono di un determinato contesto culturale; in questo senso uno studio dei tratti che caratterizzano le biografie dei santi si rivelerebbe senza dubbio interessante. Il crocifisso che parla si ritrova nel profilo biografico e mistico di diversi santi del periodo penitenziale; basti pensare al famoso crocifisso di S. Damiano che parla a Francesco. Qui è invece il Cristo che elogia Tommaso: « Bene scripsisti de me, Thoma ». (SASSETTA. Predella dell'arte della lana, 1423-1426, Pinacoteca Vaticana, Roma)

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Tav. 18.Il momento della morte, sentito come il più importante e decisivo, è continuamente presente al pensiero e all'immaginazione dell'uomo medioevale. I segni e i simboli della morte, come quelli della Passione, si moltiplicano nelle rappresentazioni dell'ultimo medioevo, dove a poco a poco scompariranno la figura del Dio Padre e quella rassicurante dell'arcangelo Michele (qui ancora presenti nel tentativo di strappare l'anima del defunto a Satana) per far posto al nudo e scheletrico « personaggio » della Morte, che con la sua falce e il suo vessillo, riempirà della sua orrida presenza le Danze macabre e i Trionfi. (La morte del cristiano e il giudizio dell'anima, miniatura dalle « Grandes Heures de Rohan », 1418 - 1435 e, Parigi, Bibl. Nat., cod. lat. 9471.

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Tav. 19.L'angoscia della morte e la presa di coscienza del suo orrore, che si sviluppano durante il periodo penitenziale, trovano in questo cadavere scolpito sulla tomba con un realismo sorprendente, la più chiara testimonianza. Le Artes moriendi, le Danze macabre, le varie Rappresentazioni di vivi e di morti, il culto dei defunti, possono essere considerati tutti come manifestazioni dell'atteggiamento ambivalente dell'uomo delta penitenza di fronte all'orrida realtà della morte, e che coincide con l'identificazione al Cristo-Uomo crocifisso, più che Dio risorto. In questo particolare della tomba del Cardinal Lagrange (Avignone, Museo Calvet, 1402), nessun accenno alla speranza della Resurrezione, anzi; l'iscrizione che l'accompagna, dice: « Infelice, che motivo hai di essere orgoglioso? Tu non sei che cenere, e sarai presto, come me, un cadavere fetido, pasto dei vermi.

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Tav. 20.Due confratelli incappucciati, con in mano la disciplina, si inginocchiano ad adorare i simboli della Passione. Gli appartenenti alle varie « confraternite » hanno il primo posto nelle processioni e nelle varie azioni liturgiche. La loro maggiore identificazione al Cristo li rende « potenti » e capaci quindi di stare più vicino al « sacro »; la « disciplina », soprattutto è strumento di salvezza e di conformità al Cristo crocifisso. (BARTOLOMEO DA CAMOGLI, particolare della Predella dell'Umiltà, 1346)

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Tav. 21.Una processione di disciplinati si avvia, percuotendosi le spalle, verso un'immagine della Madonna col Bambino, mentre un angelo le indica la strada col suono della sua tromba e un confratello la precede, carico di una grossa croce. L'atteggiamento penitente e sofferto con cui si snoda la processione sembra illustrare lo spirito che anima gli statuti delle confraternite di penitenza: « con grande compassione doviamoci ricordare di quella aspra e crudelissima disciplina la quale per nostro amore ricevete il nostro salvatore Giesú Cristo... per la qual cosa in memoria di tanta caritade e smisurato amore, noi dovemo fare la disciplina non solamente il venerdì santo, ma etiamdio ogni domenica da matina per tempo... E però ogniuno si deve animare a seguitare la passione di Christo, disciplinandosi il suo corpo, considerando che esso benedetto Redentore nostro ha sparso il suo sangue precioso per nostra salute. Per la qual cosa dovemo noi fare come fa l'eleffante il quale essendogli monstrato il sangue, si va ad animare alla bataglia ». (Cosí suona lo statuto dell'Arciconfraternita dei disciplinati di S. Francesco e di S. Bernardino in Cavaglià, ma praticamente tutti gli statuti si fondano sullo stesso atteggiamento. L'illustrazione è tratta dal privilegio di indulgenza della Fraternità di S. Maria in Cividale, pergamena della Famiglia De Portis, vol. III, f. 16; ms. 1228, Biblioteca Comunale di Udine)

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Tav. 22, 23.Le Fraternite di Disciplinati si dedicano soprattutto al culto dei defunti, come appare chiaramente da questo stendardo, dove i confratelli, con la disciplina in mano e il tipico vestito aperto sulle spalle per la flagellazione, pregano attorno ad uno scheletro; nel retro dello stendardo una crocifissione che oltre ai consueti motivi del pianto della Madonna, di Giovanni e della Maddalena, ribadisce il valore del « sangue », che gli angeli raccolgono in grandi vasi dalle mani e dal fianco del Crocifisso. (Stendardo della Fraternità dei Disciplinati di S. Francescuccio, Assisi)

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Tav. 24Il povero «viandante» è l'uomo più «libero» della società medioevale; il rischio della strada, una volta decisamente affrontato, sembra cancellare il peso di quell'altro più grave «rischio» che è per l'uomo medioevale la perdita del rapporto con Dio. Il viandante è dunque sicuro di sé, e come il pellegrino, il crociato, l'eremita, assume un « modello » di vita che diventa ideale e simbolo della cultura penitenziale. (Cattedrale di Treguier, particolare del gruppo in legno: S. Ivo che rende giustizia fra il ricco e il povero).

Tav. 24

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Tav. 25.Varie insegne di pellegrinaggio divennero oggetti-ricordo conosciutissimi e molto stimati sia dai pellegrini, sia da coloro che li potevano ammirare addosso ai fortunati che avevano potuto compiere il loro viaggio di salvezza verso qualche famoso santuario. A Roma come a S. Michele o a Chartres si vendeva di tutto nei pressi del santuario, ma senza dubbio il commercio più proficuo era quello delle medaglie ricordo. La più famosa, fra le insegne di pellegrinaggio, fu certamente la conchiglia di S. Giacomo, che i pellegrini riportavano con grande fierezza dal loro lungo viaggio a Compostella.

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Tav. 26.In onore dei più famosi predicatori popolari furono coniate spesso delle medaglie, il più delle volte in ricordo dei cicli di prediche particolarmente apprezzati da qualche città. La famosa visione del Savonarola: la mano di Dio che brandisce la spada sulla c it tà di Firenze, e il grido che egli lanciò: « Ecce gladius Domini super terram, cito et velociter », furono imprigionati per sempre nel bronzo di una bellissima medaglia, anche se la voce dell'ultimo « profeta » della cultura penitenziale rimase praticamente inascoltata.

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Tav. 27.Museo Aquilano, Predica di S. Giovanni da Capestrano (attribuito a SEBASTIANO di COLA da Casentino, part., .XVsec). In realtà si può essere in dubbio se si tratti del Capestrano o di Bernardino da Siena, dato che il predicatore libera gli indemoniati mostrando dal pulpito il tipico emblema bernardiniano del nome di Cristo. Ma quello che più importa sottolineare è la facilità con cui il diavolo si rassegna ad uscire dalla testa degli ossessi, scena questa che avveniva molto più

frequentemente durante i cicli di predicazione che non nelle solenni liturgie, a conferma della « potenza » attribuita, durante il periodo penitenziale, alla « parola sacra ».

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sono in quest'epoca anche dei predicatori famosi (4). Ora questi santi e questi beati erano vissuti in mezzo al popolo e con il popolo in un rapporto, come abbiamo visto, quasi quotidiano, e certamente nulla rimaneva segreto della loro condotta di vita e delle loro azioni. Tuttavia nelle loro biografie (cioè in quelle biografie che il popolo si creava per alimentare la sua devozione) quello che risalta di più è il particolare miracoloso, che non ha quasi nulla a che fare con la realtà umana del personaggio. Il caso forse più sorprendente di questa sovrapposizione di « lineamenti » tradizionali a quelli effettivi di un personaggio, è il caso di S. Antonio da Padova, simile a tanti altri casi in cui viene esautorata quasi del tutto non solo la realtà storica (di cui allora si aveva un senso ben diverso da oggi) ma addirittura la dimensione umana del personaggio. Di Antonio da Padova non si sa quasi nulla; quel poco che si sa non è molto diverso dai particolari di altre vite e di altri santi dell'epoca, e tuttavia la sua fama ha sfidato i secoli (ancor oggi è in Italia forse il santo più venerato e più conosciuto) solo in funzione della sua potenza taumaturgica.

In altre parole, quello che conta in un santo nell'epoca penitenziale è la sua capacità di farsi portatore di « potenza » e di stabilire il contatto fra il sacro e l'uomo. Tanto più i tratti reali del personaggio sono sfumati, tanto più la sua Legenda può essere caricata di miracolo. Anche se la Chiesa si è sempre servita dei Martiri e dei Santi proponendoli come «esempi» da imitare, in realtà il meccanismo psicologico dell'imitazione (ben diverso sotto certi aspetti dall'identificazione) ha preso piede solo con la fine della cultura penitenziale, o meglio con la controriforma, quando l'elemento « potenza » si è attenuato trasferendosi nella « tecnica » virtuosa. L'atteggiamento culturale implicito « nell'uomo per sé » sboccherà, sul piano religioso in Ignazio, nei suoi Esercizi, nella sua ostinata convinzione che la santità sia un acquisto graduale della « volontà » umana, che non ha nulla a che fare col miracolo.

La vita del santo diventerà cosí sempre di più un modello da imitare; anche se l'elemento miracoloso non riuscirà mai a scomparire del tutto.

(4) Basti citare fra i tanti: S. Francesco, S. Domenico, S. Bernardino da Siena, il B. Bernardino da Feltre, il Beato Alberto da Sarteano, il Beato Giacomo della Marca, S. Antonio da Padova, il Beato Giovanni da Capistrano, S. Vincenzo Ferrer.

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2. L'immagine dell'uomo della penitenza: il pellegrino.

Se essere penitente significa porsi in quanto uomo in rapporto a Dio, questo porsi trova il sue appagamento, con il solito meccanismo analogico di realismo simbolico, nel mettersi effettivamente di fronte (5): all'Ostia soprattutto, alle reliquie, alle immagini. Si manifesta sempre di più il bisogno di « vedere »: i reliquiari vengono costruiti in modo da permettere il massimo della visibilità della reliquia, e rassomigliano agli ostensori dell'Eucarestia. In una bolla di Martino V del 1424 si autorizza a mostrare le reliquie ai fedeli, a condizione che questo non avvenga per semplice curiosità. Grandi « estensioni» avvengono a Trèves, Wittemberg, Vienna, a Compostella, Napoli, Rodi. Queste ostensioni vengono arricchite con diverse indulgenze, che specificano a volte che lo scopo dell'indulgenza è quello di permettere la visione. Col medesimo scopo si moltiplicano le processioni, che non sono in definitiva che delle ostensioni (collegate, come vedremo per il pellegrinaggio, al tema della messa in moto della potenza).

Ma nel medioevo tutto un atteggiamento culturale si rivela nel « vedere »; l'ansia di vedere è l'ansia di stare concretamente di fronte. Guardare, guardare; l'importanza della vista si ritrova in tutte le manifestazioni devozionali che implicano una « ostensione » del sacro; l'epifania è un'ostensione, l'elevazione dell'ostia è un'ostensione, i reliquiari sono fatti a forma di ostensorio perché i fedeli possano effettivamente « vedere » la reliquia; le processioni e i pellegrinaggi implicano nella meta finale la « visione » della Città Santa.

Ma la visione implica la luce; la luce è l'aspirazione fondamentale dell'uomo della penitenza; il Cristo è invocato come luce, il gotico è soprattutto una tecnica di illuminazione, l'ottica diventa la scienza fondamentale del XIII secolo. Il gusto per il colore forte e luminoso che caratterizza il medioevo, cela dietro alla fantasmagoria di colori, la paura della notte e la ricerca della luce come salvezza. Il muro delle chiese gotiche si vuota e lascia entrare fiotti di luce colorata dalle vetrate; la finestra di vetro fa una timida apparizione

(5) Lo star di fronte è segno anche di aggressività (è questo il significato di molte forme idiomatiche del genere), e quindi è presente anche in questa ricerca della frontalità l'ambivalenza dell'uomo penitente di fronte a Dio.

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a partire dal XIII sec. nelle case; la scienza scruta la luce, mette l'ottica al primo posto nelle sue preoccupazioni, (gli occhiali sono stati inventati alla fine del secolo XIII). Dietro a tutto questo c'è ciò che è stato chiamato la « metafisica medioevale della luce »,. ma che forse più modestamente si potrebbe chiamare la ricerca della sicurezza luminosa.

Il santo medioevale è un essere di « luce » (6). Il Paradiso di Dante è un cammino verso la luce. D'altra parte la verità è nascosta, « velata ». Il sogno è una « visione » e tutti sono alla ricerca di visioni, di apparizioni, di sogni. Ma soprattutto è la possibilità di contatto, di partecipazione che sembra attuarsi attraverso la vista che è sentita in modo fortissimo (7), perché vedere è essere visti (8), è costringere l'altro a guardare od è la prima forma di « contatto » e di partecipazione alle case che sia sperimentata dall'uomo.

Ma c'è anche il «rischio» che la mancanza della luce annulli addirittura ciò che deve essere visto. L'uomo della potenza, che ha fortissimo il senso che la comunicazione del sacro debba essere resa possibile da parte dell'uomo, ha paura di chiudere gli occhi, perché se gli occhi chiusi possono servire a non essere visti, possono però anche annullare ciò che si vuol vedere. Si spiega cosí l'orrore che l'uomo medioevale ha per i ciechi, e il simbolismo che questi assumono nelle figurazioni dell'epoca. Il cieco è simbolo del sacro, o meglio del demonico, in quanto « rifiutato » (non visto) da Dio. Che cos'è infatti accecare un uomo se non togliergli la potenza, togliergli la possibilità dell'immortalità? (9).

Ma non si può parlare del culto dei santi, delle reliquie,

(6) L'Elucidarium (specie di catechismo sugli ultimi fini, composto verso il 1150 da Onorio Augustodunensis) precisa che al Giudizio Finale i santi resusciteranno con i corpi di colori diversi, secondo che siano martiri, confessori o vergini. (PL 172, 1169).

(7) Il culto delle immagini si ricollega a questo bisogno. È proprio in questo periodo che le immagini si moltiplicano nelle chiese, che in Italia vengono tutte affrescate a cura delle varie confraternite.

(8) Il bambino si chiude gli occhi con le mani quando gioca a nascondersi, appunto con la convinzione che l'altro cosí non possa vederlo.

(9) È questo, a nostro parere, il significato primo della cecità di Edipo. È interessante notare però anche l'implicito significato di potenza sessuale, o addirittura di atto sessuale nel guardare; per cui se già in Edipo la cecità condanna la colpa sessuale, ritroviamo però nel medioevo donne violentate dai demoni o rese gravide solo per ché « guardate ». È evidente, in ogni caso, l'ambivalenza della vista

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delle processioni e delle ostensioni senza notare come tutti questi fenomeni si ricolleghino con il motivo del pellegrinaggio. Il pellegrino è uno dei personaggi più caratteristici del basso medioevo. La mobilità di questo periodo è straordinaria. Tutti si muovono, partono, camminano, si fanno nomadi, e il pellegrino, insieme al predicatore itinerante, è uno dei personaggi più significativi da questo punto di vista.

Il pellegrinaggio sembra diventare una specie di professione. Dal 1300 in poi troviamo dei pellegrini che vi consacrano tutta la vita, qualunque sia il motivo che li spinge. Le confraternite a loro volta esortano i loro membri al pellegrinaggio: gli statuti prevedono l'aiuto da darsi al pellegrino, che viene accompagnato al principio del viaggio o allo straniero cui si dà ospitalità. La confraternita italiana di S. Giovanni Battista di Padova si dedica addirittura ad organizzare dei pellegrinaggi, ma alla fine questi dovettero essere soppressi perché davano spesso occasione a scandali di vario genere.

I motivi che confluiscono nello sviluppo del pellegrinaggio sono molti, ma tutti correlati e interagenti fra loro.

Intanto il pellegrinaggio può essere considerato un caso particolare di devozione ai santi: si va ad un santuario per ottenere una guarigione, per domandare una grazia, per « vedere » il santo. Spesso anche il pellegrinaggio è una penitenza imposta da un confessore, o in caso di peccato riservato, da un penitenziere. Una simile penitenza acquista un valore supplementare nello spirito del tempo per il fatto che il pellegrino cammina come camminò il Cristo, e questo vale soprattutto per i pellegrinaggi in Terra Santa e per la via Crucis, ma anche per tutti gli altri, data la disposizione psicologica dell'uomo della penitenza a realizzare nella vita di tutti i giorni, con la più spontanea e naturale strada analogica, il processo d'identificazione al Cristo.

Spesso il pellegrinaggio è imposto dall'autorità civile, come penalità prevista dal diritto (9b). Era un mezzo percome capacità di « potenza », come possibile mezzo di comunicazione col sacro; e della cecità come segno di un rapporto (mostruoso) col « mondo dei morti » (cfr. le interessanti notazioni in proposito di V. IA. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate, Einaudi, Torino, 1949, pp. 114-120).

(9 b) Cfr. E. VAN CAUWENBERGH, Les pèlerinages expiatoires et judiciaires dans le droit commun de la Belgique au Moyen Age, in « Recueil de Travaux, Confér. d'hist. et de philol. »; XLVIII, Lovanio, 1922.

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le città di sbarazzarsi di individui pericolosi, senza peraltro perdere di vista il colpevole durante la sua assenza, perché veniva fornito di salvacondotti validi soltanto per un itinerario prestabilito e aveva l'obbligo, al suo ritorno, di esibire un certificato che attestasse la sua visita al santuario previsto.

Questa formula presentava un altro vantaggio: ci si poteva riscattare dal pellegrinaggio con una tariffa stabilita in precedenza, che andava ad aumentare le casse comunali; come pure ci si poteva riscattare con lo stesso sistema dal voto di partecipare alla crociata, o da altre obbligazioni.

Le colpe in base alle quali si poteva essere condannati al pellegrinaggio erano quanto mai diverse: divinazione, bestemmia, malefizi, ma anche delitti politici, risse, concubinaggio, ecc. Il santuario da visitare cambiava a seconda della colpa; in Italia un santuario fra i più frequentati era quello di S. Nicola a Bari.

Dante distingue tre specie di pellegrini: « Chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepoltura di sa' Jacopo fu più lontana de la sua patria che d'alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi ch'io chiamo peregrini andavano » (10).

I pellegrini costituiscono da molto tempo un ordo, cioè una categoria speciale di fedeli, definiti dal diritto canonico, sottomessi a certi obblighi, ma anche usufruenti di certi privilegi. Come tali essi portano un costume speciale: sciarpa e bastone con insegne diverse secondo i diversi pellegrinaggi e i diversi santuari visitati (cfr. Tav. 24 e 25). Essi inoltre sono tenuti a non portare armi. Il pellegrino infatti, in quanto «penitente», non può essere nemico di nessuno, ed ottiene dei salvacondotti anche dai suoi avversari, che non penserebbero mai di poter impedire la salvezza anche di una sola anima ostacolandone il viaggio ad un santuario.

Tutto un rituale circonda la partenza e il viaggio. Il pellegrino fa testamento, parte da una chiesa prestabilita, solo o in gruppo. È munito di un salvacondotto, spesso anche di una scorta per proteggersi dai pericoli del brigantaggio. Il pellegrino va sempre a piedi. Giunto alla meta, dove a volte

(10) DANTE, Vita Nuova, XL.

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deve trattenersi per un periodo considerevole (per es. due anni), gli si danno delle lettere testimoniali che saranno verificate al ritorno (11). Si giunse poi a poco a poco a farsi sostituire da altre persone nell'adempiere al voto del pellegrinaggio. Il sostituto doveva essere del medesimo « rango » del pellegrino; i prezzi venivano fissati in precedenza, e variavano a seconda del luogo da visitare. Si formò cosí una « classe » di pellegrini di professione. E si può vedere già in questo fenomeno come possa spontaneamente, anche se con gradualità, venire a cadere quella divisione in « ordini » di carattere socioreligioso tipico del medioevo, e subentrare un concetto di classe in certo modo « professionale ». Gioca però qui anche il solito fenomeno di « circolazione del sacro », che già conosciamo; se è possibile partecipare alla sacralità delle reliquie, dei luoghi, ecc., è anche possibile trasferire da una persona a un'altra i propri doveri in proposito (12). È cosí che una penitente si propone di far fare a un'altra il digiuno che il confessore le ha inflitto per « soddisfazione ».

I pellegrini sostituti erano spesso dei preti, incaricati di dire il maggior numero possibile di messe durante il percorso. Quando questi pellegrini di professione adempivano al voto di un malato, lasciavano la sua immagine nel santuario visitato, per assicurarne la guarigione (13).

Si stabiliscono a mano a mano degli itinerari lungo i quali vengono scaglionati degli ospizi. Alcuni pellegrini si radunano addirittura in confraternite e tengono aperto un ospizio (per es. S. Giacomo a Parigi); si poteva allora riscattarsi dall'obbligo di andare al santuario, versando il denaro del viaggio all'ospizio. In aggiunta agli ospizi si aprono delle locande con nomi pii; e spesso i pellegrini potevano anche contare sull'ospitalità dei monasteri, specialmente quando si trattava di pellegrini illustri che avevano potuto ottenere delle lettere di raccomandazione reale.

(11) Vi sono evidentemente delle varianti secondo le regioni e le epoche, ma si trova menzionata anche in Inghilterra la « lettera testimoniale », tanto più che i governi diffidavano di un nomadismo di carattere a volte rivoluzionario.

(12) Per il voto di pellegrinaggio, come per gli altri, si è posto anche il problema di sapere se era trasmettibile agli eredi. Cfr. L. LALLEMAND, Histoire de la charité, v. III, Paris, 1906, p. 116.

(13) J. VIELLIARD segnala il caso della contessa di Savoia che nel 1384 invia due francescani a Compostella per compiere un voto a nome suo. (Pèlerins d’Espagne à la fin du Moyen Age, Barcellona, 1936).

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Le cerimonie del pellegrinaggio variavano secondo i santuari e le loro tradizioni. Tuttavia si svolgevano presso a poco in questo modo: raduno in una piazza, squillo delle trombe, processione alla cattedrale, preghiera sulla soglia e benedizione; messa all'altar maggiore nel corso della quale il pellegrino faceva la comunione, venerazione delle reliquie, partenza (14).

Per permettere ai fedeli di profittare il più possibile di queste cerimonie, venivano composti dei manuali e i confessori erano a disposizione della folla. Si verificavano anche dei miracoli, e i miracolati lasciavano all'altare della Madonna o del santo venerato le insegne della loro infermità.

L'uso del pellegrinaggio si diffonde verso la fine del XIV sec. in modo tale da entrare a far parte del costume sociale e viene perciò fatto oggetto anche di critiche e di dileggi. I predicatori e gli scrittori del tempo lanciano i loro strali contro gli abusi che esso comporta; si accusano le donne di partire per ritrovare qualche amico, e di fatto alcuni santuari erano conosciuti per il loro carattere equivoco. Gli eremiti appaiono anche come dei fannulloni che non amano lavorare, e c'è chi ironizza su quei pellegrini che vanno da Roma a Rocamadour invece di partire alla ricerca della verità (15). Spesso queste critiche sono fatte anche in nome di una religiosità più interiore. Cosí per es. nell'Imitazione di Cristo che afferma: « Qui multum peregrinantur, raro sanctificantur » (l6), e presso Bernardino da Siena che dichiara che perdonare vale di più che andare al S. Sepolcro (l7). Queste critiche però non riescono ad offuscare agli occhi dei contemporanei il valore del pellegrinaggio.

(14) Del culto e della venerazione delle reliquie abbiamo già parlato; tuttavia la credulità era certo spinta fino agli estremi; ad Aikla Chapelle si mostrava il « velo »:

« questo santo vestito che portava Maria,Madre di Dio, nella santa notte di Natale,quando Gesú Cristo, vero Dio e vero Uomoda Lei è nato ».

Con la medesima solennità era presentato alla venerazione dei fedeli il vestito di Gesú, quello che Gesú portava la notte di Natale.

(15) J. J. JUSSERAND, Les Anglais au Moyen Age, L'epopèe mystique de William Langland, Paris, 1893, p. 149-153.

(16) I. 23, 4.(17) Si tratta del sermone di Siena del 1425 sull'amore fraterno, in

Prediche volgari inedite, Pacetti, Siena, 1935, p. 439 ss

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Lo sforzo del pellegrino sincero per condurre durante lunghi mesi una vita ascetica, il suo esercitarsi in una preghiera costante, lo stato emotivo che il distacco e il mettersi in canini!no verso una terra lontana certamente provocavano, le grandi missioni popolari che organizzavano in certi periodi i predicatori e i penitenzieri, e che trascinavano alla conversione numerose folle, apparivano anche agli uomini più distaccati dal contesto culturale, come un valore eccezionale, superiore a qualsiasi rischio.

Il pellegrinaggio del resto era concepito come un cammino verso la Gerusalemme celeste: «Non portava un frutto divino quando un pellegrino moriva d'amore sul calvario, viaggiatore giunto al termine del pellegrinaggio e alla fine della vita? » (18).

Il tema dell'uomo pellegrino era rappresentato da tutta una tradizione (19). Il libro di Guillaume de Deguillevile « Romant des trois pelerinaiges » è ancora nel 1400 ricopiato e completato. D'altra parte il testo liturgico con l'Ufficio del pellegrino che si rappresentava il Lunedí di Pasqua, presentava i pellegrini di Emmaus come dei modelli della ricerca di Cristo sulla strada (20).

L'idea che la vita cristiana è continuo progresso e cammino forniva ai predicatori un inesauribile soggetto per i loro sermoni; cosí l'immagine del pellegrino è allora frequente per caratterizzare la condizione dell'uomo sulla terra. Gerson scrive un « Testamento del pellegrino che va in Paradiso » non soltanto in latino, ma anche in francese, proponendo dunque ai semplici fedeli una spiritualità escatologica fino allora di fatto riservata ai monaci.

Nicola Cusano, infine, riprendendo l'idea dell'uomo pellegrino sulla terra, estende questo concetto alla Chiesa, che egli vede in cammino verso il punto omega, verso il quale convergono anche l'Islam e tutta l'umanità (21).

Il valore del pellegrinaggio quindi con tutti i suoi significati sia espliciti: richiesta del perdono, venerazione del santo

(18) BERNARDINO DA SIENA, Prediche volgari inedite, cit., p. 505.(19) E. DELARUELLE, Le pèlerinage intérieur au XV siede, in « Eleona »,

aprile, 1962, p. 6-12.(20) La scena di Emmaus viene rappresentata nell'arte dell'epoca in forma

di pellegrinaggio.(21) M. DE GANDILLAC, Oeuvres choisies de Nicolas de Cues, Paris, 1942,

p. 361.

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e delle reliquie; sia simbolici: il tema dell'uomo pellegrino, il viaggio verso la Gerusalemme celeste, la vita terrena come passaggio, è strettamente collegato ai valori fondamentali della cultura penitenziale, e in un certo senso li riassume e dà loro forma unitaria. In questo senso il pellegrinaggio si ricollega strettamente alla processione (Via Crucis), alla visione e adorazione della potenza (reliquia), alla necessità della purificazione penitenziale (conversione = morte).

Ma nel pellegrinaggio è presente un significato ulteriore (che si intravvede del resto nella Via Crucis), il raggiungimento di uno « spazio » sacro, in cui la potenza si rivelerà.

Lévy Bruhl ha posto felicemente in luce la struttura ierofanica degli spazi sacri: « Per (quegli) indigeni la località sacra non si presenta mai isolatamente allo spirito; fa sempre parte di un complesso nel quale entrano con essa le specie animali e vegetali che vi abbondano in certe stagioni, gli eroi mitici che in quel luogo hanno vissuto, errato, creato, e che spesso si sono incorporati al suolo, le cerimonie che vi sono state celebrate periodicamente, e infine le emozioni suscitate da questi complessi » (22). La nozione di spazio sacro implica l'idea della ripetizione della ierofania primordiale che ha consacrato quello spazio, trasfigurandolo, singolarizzandolo, in breve isolandolo dallo spazio profano circostante (23). Uno spazio sacro trae la propria validità dalla permanenza della ierofania che una volta l'ha consacrato. La ierofania non ha avuto soltanto l'effetto di santificare una determinata parte dello spazio profano omogeneo, ma assicura anche per l'avvenire il perdurare di questa sacralità. Là, in quella zona, la ierofania si ripete. Il luogo si trasforma cosí in una fonte inesauribile di forze e di sacralità, che concede all'uomo, a condizione che egli vi penetri, la partecipazione a quella forza e la comunione con quella sacralità.

Il pellegrinaggio dunque implica prima di tutto il raggiungimento di uno spazio sacro, e la speranza di una rivelazione; e tuttavia il raggiungimento dello spazio sacro è condizionato dal mettersi in cammino da parte dell'uomo, il quale in un

(22) L. LÉVY-BRUHL, L'expérience mystique et les symboles chez les primitifs, Paris, 1938, p. 183.

(23) Un'analoga idea di ripetizione sostiene la nozione di tempo sacro, e fonda tanto gli innumerevoli sistemi rituali quanto, in generale, le speranze che l'uomo nutre per la propria salvezza personale. (Cfr.M. ELIADE, Trattato di Storia delle religioni, cit. p. 378).

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certo senso « aiuta » il sacro a rivelarsi, aggiungendo al « gioco », la sua parte di potenza. Il pellegrino va a piedi: il suo andare è già «potente», implica la stessa potenza dell'eremita e dei mendicante: viene da lontano e va lontano (24). Il luogo che egli deve raggiungere è il luogo in cui abita la « potenza », e nel momento stesso in cui egli si muove per raggiungerla, in qualche modo già ne partecipa.

Nel pellegrinaggio si possono infatti individuare due « momenti » di localizzazione sacra dello spazio, uno « dinamico »: l'andare è già sacro e mette in movimento una potenza sacra; e il «giungere » alla meta come «luogo » sacro. Il luogo sacro, il « santuario » è tale perché vi si rivela la potenza, è un luogo di « epifania » del Dio. Per questo è nel santuario che avvengono più facilmente i miracoli; il miracolo infatti è prima che spiegamento di potenza, rivelazione di potenza.

Il grande sviluppo del pellegrinaggio nell'ultimo medioevo sembra corrispondere quindi a due profonde istanze della cultura penitenziale: mettersi in cammino è un modo di partecipazione alla messa in atto della potenza, e raggiungere il santuario dove è presente la « reliquia » è riuscire a « vedere » l'epifania, e in un certo senso « costringere » Dio a mostrarsi. Si spiega cosí l'incremento della festa dell'Epifania negli ultimi secoli del medioevo, che si accompagna allo sviluppo della devozione ai « Magi »; i Magi infatti sono i testimoni dell'epifania del Dio, ma sono soprattutto i pellegrini che debbono giungere alla grotta perché il Dio possa manifestarsi; l'epifania è in qualche modo condizionata dall'arrivo dei Magi. Poiché il culto ad un santo è sempre prima di tutto dovuto ad un processo di «identificazione», ci spieghiamo cosí lo sviluppo della devozione ai Magi (dalla fine del XII sec), nei quali gli uomini della penitenza si identificano.

D'altra parte la santità di un luogo è molto persistente (25). La relazione fra il luogo santo e l'insieme del mondo è la relazione di una santità che è al di sopra di tutto il resto. Il santuario è un centro di potenza, un mondo per sé; il santuario propriamente detto non sta nel mondo, ma ne è

(24) È da notare la forza che ancor oggi sottende il « cammina, cammina, cammina... » di molte fiabe.

(25) Interessanti, a questo proposito, le ipotesi di M. Halbwachs sulle leggi della memoria collettiva che regolano le localizzazioni dei luoghi sacri. (Cfr. La topographie légendaire des évangiles en Terre Sainte, Presses Universitaires de France, Paris, 1941).

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distinto; e al tempo stesso è una « imago mundi », dove tutto è simbolo (26) (cfr. cap. V). Nel medioevo la cattedrale diventò il mondo stesso in compendio; si perse a poco a poco il concetto della chiesa « tabernaculum Dei cum hominibus », recinto della comunità unificata da Cristo, e ridivenne soprattutto la « casa del Dio ».

Il pellegrinaggio diventa allora la ricerca di un santuario più santuario, « diverso », con maggior concentrazione di potenza; luogo dove si aspetta che qualcosa avvenga e dove, se l'uomo si mette in cammino per raggiungerlo, qualcosa « può » avvenire. È « distante », perché simboleggia la lontananza e la distanza psicologica di ciò che è sacro (27). In un certo senso ogni circolazione (processione) è pellegrinaggio, perché delimita uno spazio sacro e mette in moto la potenza portandola ad una meta; ma i luoghi in cui la santità è percepita già di per sé come più potente attirano letteralmente gli uomini della penitenza. Il luogo del pellegrinaggio è una specie di paese nativo, è la « casa propria », la vera casa propria. Dal pellegrinaggio si spera fortuna, progenie, conseguimento dei desideri, riscatto dai peccati; ma per l'uomo della penitenza il santuario è il luogo che darà significato alla sua vita, è la verifica di tutti i suoi valori, è l'immagine delle sue speranze e la sostanza delle sue certezze. Il solo mondo dove l'uomo della penitenza stia veramente in casa propria è perciò in terra lontana; il pellegrino, che instancabilmente percorre le vie che portano al santuario, è il penitente che gioca la sua ultima carta. Spesso fa testamento prima di partire; ma, anche se sono i pericoli del viaggio che lo spingono al pensiero della morte, in realtà il santuario si identifica nella sua unica, ultima speranza.

Quando nel 1300 Bonifacio VIII si decise a promulgare il Giubileo, in realtà, come rileva il Morghen, tutta la cristianità credeva che esso fosse già in atto, tanta era l'attesa e la speranza di una palingenesi totale (28). La fiducia in un perdono

(26) Questo stesso concetto è alla base della santità dell'eremo e del monastero.

(27) Se un santuario è « a quattro passi da casa » gli abitanti del luogo non ne percepiscono la carica sacrale, e preferiranno andare in pellegrinaggio in altro santuario, « lontano », più potente.

(28) R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Laterza, Bari, 1951, p. 313 ss.

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che desse finalmente pace all'angoscia dell'abbandono da parte del Padre, porta quasi spontaneamente al concetto di Giubileo, che in pratica viene soltanto sanzionato dall'approvazione apostolica. Un'approvazione che fu concessa quando già si accalcavano a Roma i pellegrini giunti da ogni parte. Guglielmo Ventura, cronista astigiano, narra come folle innumerevoli si affrettassero verso Roma, supplicando il Papa: « Dacci o Padre Santo, la tua benedizione, prima che ci tolga la morte. Sappiamo noi dai nostri avi che chiunque l'anno centesimo visiti i corpi dei Santi Apostoli, va libero di colpa e di pena ».

Allora la risoluzione che la Chiesa prende con la concessione dell'indulgenza, la porta ad avocare a sé quella funzione carismatica e di catarsi collettiva che il movimento penitenziale, culminato in S. Francesco, aveva invece attribuito alle singole coscienze, chiamate ad entrare, per esprimersi con una frase di Giovanni da Rivalto «nella vigna della penitenza ». Il motivo del pellegrinaggio, interagendo con gli altri motivi della cultura penitenziale, ad un certo momento porta ad uno sbocco psicologico, che rompe l'angoscia, e al tempo stesso apre la via, istituzionalizzandolo, ad un nuovo motivo culturale.

Praticamente perciò il Giubileo del 1300 segna la fine di una prima fase del movimento penitenziale, o meglio ne segna ufficialmente, formalmente la fine, perché svuota di contenuto la « tensione » individuale degli uomini penitenti verso il Regno dello Spirito, verso la « vigna della penitenza ». Si identifica sempre più nella Chiesa papale questa stessa « vigna », con una proiezione oggettivante che riporta sulla terra, in forma giuridica, quella che era stata un'aspirazione e una tensione ultraterrena. Il movimento penitenziale, condannato ad « evaporare » tutte le volte che si tentava di codificarlo, continuerà a rinascere, e a svilupparsi perché ancora vitale nell'ambito psicologico-culturale, ma inizia da questo momento ufficialmente il suo arco discendente; e si concluderà fuori della Chiesa con Lutero, e dentro la Chiesa col rogo del Savonarola.

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3. Trasformazione e superamento di una cultura.

Nella quaresima del 1485, mandato a San Gimignano, il Savonarola diede inizio alla sua predicazione profetica proponendo queste conclusioni: « che la Chiesa aveva a essere flagellata, rinnovata, e presto » (28).

Nella quaresima del 1486 predica ancora a San Gimignano sopra il tema della flagellazione e rinnovazione della Chiesa; commentando le parole di Luca, « Securis ad radicem Posita est », dice: « Noi aspettiamo presto un flagello, o Anticristo, o guerra, o peste, o fame. Se tu mi domandi con Amos, se io son profeta, con lui ti rispondo: non sum propheta. Sappiate che io non vi dico ciò come profeta, ma congetturando dalla Scrittura che la Chiesa aspetta un grande flagello».

E da questo momento il « terribile » frate non si discostò più nelle sue predicazioni dal modo profetico inaugurato in San Gimignano. Fin dal principio vi fu chi disse che quel nuovo predicatore era un buon uomo, ma semplice; altri che era dotto, ma astuto e abile; altri che attendeva a visioni false e stolte. Anche i suoi fautori gli dicevano: « Padre, voi toccate troppo in là, voi entrate troppo addentro ». Altri non contentandosi delle semplici verità predicate, se ne dolevano con lui: « Padre, voi non ci dite mai nessuna questione » (30).

Altri invece, pur fra coloro che frequentavano le sue prediche, «allettati dalla verità e utilità della sua dottrina», gli rimproverano la grossolana violenza della pronunzia e dei gesti. Domenico Benivieni gli disse un giorno: «Padre, questo vostro modo di predicare, questa pronunzia, questi vostri gesti incomposti vi tolgono molto di grazia, avendo questi vostri auditori innanzi agli occhi il paragone di Fra Mariano ». Fra Mariano da Genazzano, francescano, che doveva diventare poi uno dei maggiori nemici del Savonarola, predicava quell'anno sul pergamo di S. Spirito, ed era il predicatore che allora piaceva ai fiorentini, elegante umanista, che infiorava i suoi sermoni di citazioni di antichi autori e di squarci poetici, modulando squisitamente la voce.

(29) Notare il termine: flagellata, per indicare un rinnovamento penitenziale.

(30) È il Savonarola stesso che riporta questi giudizi su di lui nelle Prediche sopra Ruth e Michea, Salani, Firenze, 1889.

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Siamo dunque già, a questo punto, introdotti in un mondo in cui la predicazione popolare, raggiunto il massimo del suo sviluppo, è diventata un fatto di costume e ha assunto nelle sue forme, le tendenze letterarie e il gusto stilistico corrente. Possiamo cioè toccare con mano l'influenza reciproca di diversi motivi culturali: la predicazione popolare, proprio perché, in base alla sua popolarità, è diventata un fattore importante nel piano sociale, comincia ad assorbire e a fare suoi motivi culturali che in principio le erano estranei, come quello linguistico, e a codificare gli atteggiamenti oratori che erano nati spontaneamente nel suo contatto con le folle. Abbiamo perciò dei predicatori che sono ormai popolari, come Fra Mariano, solo perché appartengono ad uno stile e ad una scuola oratoria che porta il nome di « popolare », ed attraggono di fatto numerosissime folle, le quali però si aspettano da lui determinati gesti, determinati discorsi, in definitiva una specie di « rappresentazione ». D'altra parte il sermone popolare, in base alla forza di penetrazione e al rapporto sociale che era riuscito ad instaurare, porta alla ribalta i nuovi interessi artistici e letterari, e ne favorisce la conoscenza e la divulgazione, contribuendo cosí esso stesso all'involuzione e all'estinguersi di ciò che nel movimento penitenziale era stato uno dei fattori più violenti e positivi: il contatto con le masse, diretto e sincero, al di là delle retoriche di scuola, in un rapporto psicologico, alieno da qualsiasi preoccupazione di arida didattica.

Il Savonarola dunque appartiene al mondo dei predicatori «penitenziali», ma la predicazione popolare è ormai cambiata, e i suoi ascoltatori, come abbiamo visto, si meravigliano della ruvidezza della sua lingua. In realtà Fra Girolamo, come quasi tutti i predicatori popolari che l'avevano preceduto, usava abbozzare degli orditi latini delle sue prediche, poco più che uno scheletro esegetico, con rari accenni alle invettive, alle digressioni, e alle applicazioni morali, che per lo più improvvisava sul pulpito. Ma quelle « improvvisazioni » gli sgorgavano cosí impetuose dal petto, cosí violente e « profetiche » che egli stesso se ne meravigliava, tanto che alla fine della sua vita, fiaccato dalle torture fisiche e morali, ritrovava la sua forza solo al pensiero di poter risalire sul pulpito, ed esclamava: « quassù è tutta un'altra cosa » ! Del resto alcune delle sue predicazioni, egli stesso non esita a definirle come « spaventose ». Cosí il memorabile quaresimale del 1491,

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qualificato da lui come una « terrifica praedicatio » (31), in cui oltre a fare un tremendo ritratto della corruzione dei fiorentini, accusa senza nominarlo Lorenzo, specialmente per le tasse inflitte arbitrariamente al popolo. Sembra che il Magnifico abbia pensato allora di bandirlo dalla città, come aveva fatto tre anni prima con Bernardino Da Feltre; e qualcuno certamente andò ad ammonire il Savonarola, il quale però tranquillamente rispose: « Abbiate paura voi de' confini, che avete moglie e figliuoli. Io non ho paura, che quando bene io non stessi qua, questa vostra terra è come un granello di lente a comparazione del resto di tutta la terra. Io non me ne curo; faccia lui. Ma sappia questo: che io sono forestiero e lui cittadino e il primo della città; io ho a stare e lui se n'ha a andare; io a stare e non lui » (32). Ed era questa una profezia di morte.

Il contenuto profetico delle sue predicazioni si va sempre più approfondendo, tanto che nella quaresima del 1495 dopo aver scelto come testo di meditazione il libro del Genesi, egli grida dal pulpito di S. Lorenzo: « Dissi già che ero quasi certo, poi che ero certo, ora dico che ne sono più che certo... e non narrerò più come lo scorso anno le cose passate, ma bene narrerò le cose future come si narrano le istorie ». Ormai il suo spirito profetico non si queterà più. Da quel terribile: « Ecce gladius Domini super terram, cito et velociter » a quel più tremendo ancora: « Ecce adducam acquas diluvii » la sua voce si fa sempre più forte e accresce il terrore degli astanti, ai quali quella gigantesca forza pareva cosa tanto più sovrumana perché usciva da un corpo cosí piccolo e fragile. «Penitenza, penitenza! Fa penitenza, o Firenze, che siedi sopra i fiumi dei tuoi peccati !... Tu t'inganni, Italia e Firenze se non credi questo che ti dico. Null'altro ti può giovare se non la penitenza... O Italia, o principi dell'Italia, o prelati della Chiesa, l'ira di Dio è sopra di voi, e non avete rimedio alcuno se non vi convertite, et a sanctuario meo incipiam! O Italia, o Firenze, propter peccata veniunt tibi adversa! O nobili, o potenti, o plebei, manus Domini est super vos et non resistet sapientiae potentia vel fuga!... O principi d'Italia fuggite la terra d'aquilone; fate penitenza mentre che la spada

(31) Cfr. R. RIDOLFI, Vita di Girolamo Savonarola, Belardetti, Roma, 1952, I, p. 58.

(32) R. RIDOLFI, Vita di Girolamo Savonarola, cit., I, p. 59.

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non è fuori della guaina, e mentre che ella non è insanguinata ! Fuggitevi da Roma ! O Firenze ! Fuggitevi da Firenze; cioè fuggite per penitenza del peccato... » (32b).

Ma ormai la sua è veramente una voce che grida nel deserto; tutti i temi che gli sono familiari, e in cui si riassumeva la cultura penitenziale, sono oramai superati ed esauriti intorno a lui. Se egli scrive e parla ancora della « Ruina Mundi », del « Triumphus Crucis », del « De ventate prophetica », del «Solatium itineris», egli è ormai però uno degli ultimi a credervi, a sentirli non soltanto vivi, ma anche e soprattutto ancora possibili strade per la salvezza.

Tuttavia, se sono vere le ipotesi che siamo andati facendo sulla predicazione popolare e sul carattere di linguaggio di massa che essa acquista negli ultimi secoli del medioevo italiano, Girolamo Savonarola, pur essendo in un certo senso la figura più vistosa di questo fenomeno, non ne è però una eccezione. Il potere, l'importanza del Savonarola nella vita fiorentina e italiana dell'ultimo quattrocento, rientrano nel contesto della cultura penitenziale, pur portandone all'estremo limite ed esaurendone in qualche modo la capacità di azione. Il Savonarola ci appare sotto diversi aspetti come testimone della cultura penitenziale, proprio perché in lui e con lui vediamo distaccarsi il contesto dal quale la cultura penitenziale era nata. Si riassumono in lui molti valori della cultura penitenziale, ma le folle che gli si stringono intorno, quella città che egli riesce a tenere in pugno e a piegare ai suoi desideri solo con la forza della sua voce, è praticamente già estranea a quegli stessi valori che egli le propone e a cui soggiace. Possiamo constatare cioè, proprio nell'opera del Savonarola, e nel comportamento dei Fiorentini dell'ultimo quattrocento (il Savonarola sale al patibolo il 23 maggio 1498) come l'interazione continua fra diversi motivi culturali e l'istituzionalizzarsi di alcuni di essi, portino a capovolgerne o a distorcerne il significato. Diventano primari alcuni valori che erano in principio secondari, e viceversa, cosí che a un certo punto la cultura stessa cambia volto, esaurendosi e logorandosi. Tuttavia è chiaro che chi studi una cultura non ne percepisce il principio o la fine se non quando

(32b) Vedi il testo di questo sermone in Appendice a pag. 187.

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alcuni fenomeni si addensano fino a raggiungere la sua soglia percettiva, ed è per questo che gli avvenimenti fiorentini ci servono per verificare alcune ipotesi che siamo andati facendo lungo il corso del nostro studio.

Nella Firenze savonaroliana si possono individuare alcuni fra i principali lineamenti della cultura penitenziale: la predicazione penitenziale, il « divismo » del predicatore (inteso nella forma di processo intenso d'identificazione), il profetismo (nel suo duplice aspetto: aspettativa apocalittica e predizione del futuro), esaltazione del Cristo Re (il Cristo diventa Re di Firenze). Collegati ad essi altri motivi che da secondari finiscono col diventare primari: la predicazione popolare diventa essa stessa un valore, e non è più soltanto un mezzo di comunicazione (quando il Savonarola interrompe le predicazioni, il popolo si dispera, e c'è chi va ansiosamente a chiedergli: « Padre, quando si predica? Noi ci moiamo di fame ») (33).

Ma questa forza della predicazione che assume forma istituzionale (nell'ambito anche civile, e non solo religioso, di Firenze) è già diversa dalla forza primigenia della predicazione popolare, che la ritraeva esclusivamente dal suo essere in sintonia coi bisogni e coi desideri del popolo cui si rivolgeva, e che non aveva altra autorità che quella che il popolo le concedeva.

La predicazione penitenziale, come fenomeno che nasce dal basso e rimane tale, è già col Savonarola esaurita. Anche se il Frate ferrarese è un vero predicatore di penitenza, l'ambito in cui egli si muove non è più quello della cultura penitenziale. Egli parla e il popolo lo ascolta, ma c'è un'autorità nelle sue parole che gli è data, non dal popolo, ma dalla predicazione come funzione; anche se non si tratta della funzione catechetica della Chiesa, perché è la stessa predicazione popolare che ha assunto un valore di per sé, ed entra nel gioco della cultura trasformandone la dinamica iniziale. Il Savonarola è catturato da questo stesso gioco. Tutto quello che altri predicatori popolari avevano fatto prima di lui nell'ambito non solo religioso, ma anche sociale, civile, politico, non li aveva resi prigionieri delle loro azioni, perché rientrava nel piano della cultura di cui erano esponenti, ma nella quale erano anche profondamente immersi. Il Savonarola,

(33) R. RIDOLFI, Vita di Girolamo Savonarola, cit., p. 323.

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non più sostenuto dal magma culturale, tenta l'istituzionalizzazione della «penitenza», ma è sulla base soltanto del rapporto che si crea fra l'oratore e il pubblico, fra il « divo » e i suoi fans, che si sostengono le sue iniziative penitenziali, e che rimangono perciò fragili e senza radici. L'humus culturale in cui egli semina non è più tendenzialmente rivolto alla penitenza. Il rapporto fra il terribile frate e i Fiorentini è quindi un rapporto più psicologico che culturale, e questo spiega anche perché il Savonarola, contrariamente agli altri predicatori di penitenza, non sia diventato un predicatore itinerante. Gerolamo è un divo e ha bisogno del suo pubblico, quei Fiorentini che dipendono da lui psicologicamente molto di più di quanto non ne dipendano culturalmente.

Per questo anche la sua indubbia vocazione profetica è costretta a prendere forma di vaticinio concreto e immediato, e porta il Savonarola ad esasperare la sua forza, e ad usarla per rafforzare la vita quotidiana, gli avvenimenti spiccioli. Il profeta dell'Ecce gladius Domini super terram, vero profeta e vero predicatore penitenziale, è irretito dal suo stesso rapporto divistico con i Fiorentini, che lo costringono (sia pure inconsciamente) a vaticinare sempre di più, sempre più dettagliatamente; forzando cosí la sua «potenza» profetica a diventare non più «parola potente», ma povera e a volte illusoria previsione del futuro.

È lí, già pronta, la sua morte. Quella prova del fuoco, cui la debolezza (o il buon senso) degli uomini non dette luogo, fu intesa come uno smacco del « profeta »; e fu allora indubbiamente (34) che i Fiorentini sentirono di potersi finalmente abbandonare all'odio che covavano contro di lui, un odio che ha la sua più vera e più profonda motivazione nella tremenda dipendenza psicologica in cui si erano ridotti. Quell'uomo che li aveva portati ad eleggere Cristo Re dei Fiorentini, a fare processioni di penitenza e bruciamenti di vanità durante il Carnevale, che li aveva portati a votare leggi contro la sodomia ed altri costumi prediletti (35), che li aveva ridotti a dipendere dalla sua parola al punto da chiedere le

(34) E del resto anche uno storico appassionato del Savonarola come il Ridolfi lo afferma (I, p. 364).

(35) Ridolfi riporta la frase di uno dei magistrati che, alla condanna a morte del Savonarola, esclama: « Lodato sia Iddio, che si potrà soddomitare! » (II, p. 27).

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sue prediche come si chiede il pane, era un uomo già fuori del suo tempo, ultimo frutto di una cultura che si era esaurita prima di lui.

Ma perché una cultura si esaurisce? Sebbene non si possa in pratica rispondere a questo interrogativo, si può tentare di individuare almeno alcuni degli innumerevoli motivi che portano al logoramento e alla trasformazione della cultura penitenziale.

Cercando di riassumere qui i vari temi che sono venuti in luce nel corso del nostro studio, mi pare che si possa fare un quadro schematico della cultura penitenziale in questi termini. Dall'XI sec. in poi la « crisi » della parola in cui si dibatte da una parte la Chiesa che non riesce a svolgere la sua funzione didattica, dall'altra parte la gran massa del popolo abbandonato a se stesso e privo quasi del tutto di un mezzo di « comunicazione » con le istituzioni civili e religiose, porta alla nascita della predicazione popolare. La predicazione popolare, proprio in quanto nasce dal popolo (movimento laico, cattolico e eterodosso, francescanesimo), e sotto la spinta di un «ritorno» al Vangelo primitivo, assume carattere « penitenziale », e tende ad interpretare il Vangelo come parola annunciata e da annunciare: contenuto del messaggio la metànoia (penitenza) e forma del messaggio il profetismo. D'altra parte la predicazione, nel momento in cui nasce e si sviluppa come predicazione penitenziale, si struttura essa stessa come valore culturale: la parola « vivente » non è soltanto estrinsecazione di un bisogno psicologico, ma diventa anche una forma di presa di coscienza culturale; la parola usata, si codifica e rafforza il bisogno psicologico dal quale nasce, incanalandolo e dandogli forma culturale.

Il tentativo di portare concretamente in luce il contenuto del messaggio penitenziale induce a mettere l'accento sull'aspetto più concreto e misurabile della penitenza, la povertà; la povertà diventa cosí un valore, e la mendicità viene assunta come testimonianza di questo valore. L'atteggiamento penitenziale, d'altra parte, ponendo l'accento sull'« uomo », sul suo sentirsi e riconoscersi «uomo» (penitente in quanto uomo), pone le basi embrionali di un valore culturale, che prenderà forma e consistenza nell'esaurirsi stesso dell'atteggiamento penitenziale, ma che in pratica è già uno dei motivi che lo portano

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ad esaurimento. L'umanesimo, il valore «per sé» dell'uomo e delle attività dell'uomo, porta, nel momento stesso in cui « pone » un rapporto con Dio (mentre prima il rapporto era un « dato ») ad un progressivo distaccarsi dalla sfera dei sacro (per es. nel dibattito sul concetto di lavoro, e sulla retribuzione del lavoro intellettuale) dell'attività dell'uomo nel mondo. Si hanno cosí all'inizio due valori di cui alla fine uno svuota di contenuto l'altro: il lavoro, la fatica dell'uomo assume un valore « per sé », e tanto più si rafforza questo valore tanto più si perde il valore della mendicità come testimonianza della povertà (l'ambivalenza della mendicità è già presente nell'atteggiamento del popolo verso gli ordini mendicanti, di volta in volta ammirati perché poveri, ed osteggiati perché non lavorano per guadagnarsi il pane). La povertà diventa cosí a sua volta un valore « per sé », e non più in funzione di una testimonianza di «penitenza».

Contemporaneamente a questo evolversi di significato di uno stesso motivo culturale, abbiamo una struttura politica e sociale che pone in una medesima istituzione, la Chiesa, la fonte di valori religiosi e di valori civili.

Quei ricchi che perdono il valore in un certo senso « sacro » dell'orbo medioevale perché comincia a circolare il valore « povertà », finiscono col perdere anche il valore sociale perché non lavorano; d'altra parte i ricchi sono anche i preti, la Chiesa, la detentrice di un potere sacro e di un potere civile. La crisi tremenda che si scatena negli uomini della penitenza nei confronti della Chiesa, è la crisi di chi vede vacillare non una istituzione, ma i valori che essa detiene e di cui è simbolo.

Di qui ancora una interazione e una circolarità di temi: la crisi del rapporto col Padre, che si rivela nell'identificazione col Figlio-Uomo, porta alla paura, all'angoscia, al rischio dell'« esposizione » al demonico. La Chiesa, vacillando, sembra abbandonare ancor più gli uomini al rischio del demonico; l'uomo della penitenza perde sulla terra un qualsiasi ubi consistam, e va peregrinando alla ricerca di un luogo sacro, potente, che lo rassicuri.

La sua « dimora » è sempre più in terra lontana, ma questa lontananza accentua la fragilità dell'uomo sulla terra, abbandonato al demonico, perché ha abbandonato il Padre. Quando col Giubileo, riappare una speranza di perdono, la Chiesa ridiventa, nella sua ambivalenza, una possibilità di dimora;

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il pellegrinaggio riacquista una meta vicina; e la Chiesa riassume nelle sue mani una parte del valore trascendente che aveva perso.

Il Giubileo segna una prima fase di declino dei valori penitenziali; la paura della libertà è più forte del messaggio penitenziale-profetico. L'uomo che aveva rinunciato al Padre, riacquista una Madre (la Chiesa) (36). Roma diventa sempre più meta di pellegrinaggio; cosí che quando il Savonarola grida ai Fiorentini la necessità della flagellazione della Chiesa corrotta e meretrice, in realtà gli uomini cui egli parlava non erano più disposti a rinunciare alla sicurezza che questa loro dava, e i valori essenziali della cultura penitenziale erano già. esauriti.

Gli ordini mendicanti avevano perso nel frattempo la loro battaglia per la povertà; regolamentati dalla Chiesa, i loro beni saranno al sicuro nelle mani del Papa, e il rischio della povertà soltanto una finzione giuridica. La predicazione popolare è diventata anch'essa una istituzione (sfruttatissima dalla Chiesa postridentina con le famose « missioni»); Gerson riassume nella Chiesa il tema del pellegrinaggio attribuendo alla Chiesa stessa l'aggettivo di « pellegrina... »; l'uomo, «penitente in rapporto a Dio» scompare per far posto allo sviluppo di un valore, in esso embrionale: l'uomo per sé... che nasce nell'Europa Cristiana dell'XI sec; e di cui assistiamo oggi, senza poterlo misurare, allo sconfinato sviluppo.

Tutto quanto siamo andati dicendo, va però inteso come un tentativo di conoscenza analitica che è e deve rimanere solo un momento di una ricerca antropologica.

I valori e i motivi messi in luce si influenzano infatti e si rafforzano reciprocamente; da essi come abbiamo visto, nascono altri valori ed altri motivi che interagiscono sui primi e ne logorano il significato, cosí che la descrizione analitica di una cultura è sempre in qualche modo forzata ed impropria. L'uomo, inserito nella vita, che l'antropologo si sforza di comprendere, è un tutto, cosí come è un tutto il complesso tessuto culturale in cui l'uomo vive e tende a vivere.

(36) Sarebbe forse interessante studiare, da questo punto di vista, l'immagine della donna in questo periodo, e lo sviluppo contemporaneo della devozione alla Vergine.

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Interazione di «temi culturali» nella cultura penitenziale (*)

P E N I T E N Z A

(*) Abbiamo tentato di esprimere con questo grafico l'intersecarsi di temi che sii nfluenzano a vicenda nella cultura penitenziale, disegnandone in forma schematica

i lineamenti.

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VITAitinerarium

Predicazione popolare

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APPENDICE

Alcuni esempi di temi culturaliJ.

nei Sermoni dei predicatori popolari

Tutti i temi che siamo andati mettendo in luce e che formano l'ossatura della cultura penitenziale, sono presenti nella predicazione popolare. I predicatori, mentre li comunicano e li mettono in circolazione, al tempo stesso ne rafforzano il valore, ripetendoli in continuazione, trasferendone i significati nei modi più diversi, traendone analogie e simbolismi con innumerevoli citazioni della Sacra Scrittura, concretandoli in episodi di vita quotidiana, e facendone la base stessa della loro esortazione alla metànoia penitenziale. Vediamo cosí rimbalzare da un sermone all'altro, da un predicatore all'altro, da un secolo all'altro, i temi del pellegrinaggio, della povertà, della presenza demonica nel mondo, della Passione, della Croce, come pure il dibattito sull'importanza della predicazione stessa e della sua forza « profetica », con una insistenza e con una perseverazione veramente sorprendenti.

Il materiale è enorme, e naturalmente di diverso valore documentario ed artistico a seconda degli uomini che lo hanno elaborato; ma dal punto di vista della ricerca antropologica, è tutto estremamente interessante perché indicativo dell'atmosfera nella quale si svolgeva la predicazione popolare, e dei contenuti culturali in essa presenti. La maggior parte di questi sermoni sono caduti nell'oblio; quelli che ci sono rimasti, sono giunti fino a noi attraverso la storia della letteratura, solo perché ritenuti importanti per la loro forma linguistica e letteraria; mentre da un punto di vista antropologico sono importanti soprattutto perché inseriti nel vivo del tessuto culturale, artefici e al tempo stesso « funzione » della cultura penitenziale. È stato infatti soprattutto con la lettura dei sermoni popolari dell'epoca, che noi abbiamo cominciato a intravedere i temi essenziali sui quali si è andato articolando l'atteggiamento degli uomini della penitenza. Basterebbe del resto scorrere i titoli e gli argomenti di questi sermoni, per comprendere a quali valori si riferiscano, e come le masse ne fossero assetate, e vi ritrovassero la chiave e il sostegno del loro atteggiamento spirituale e del loro problema esistenziale.

Ma la cosa che forse colpisce più di tutto, leggendo i testi di

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questi predicatori, è la sincerità e la convinzione che trapela dalle loro parole, dal loro stile. Anche se appesantiti ai nostri occhi dalle innumerevoli citazioni della S. Scrittura e dei Padri (per Bernardino da Feltre ne sono state contate circa quindicimila), non si può fare a meno di accorgersi che i testi sacri erano il tessuto della loro cultura, la base della loro vita spirituale, base non estrinseca ma condivisa e partecipata dal popolo stesso che li ascoltava. La ricchezza delle immagini, l'arguzia e la vivacità delle espressioni, la consapevolezza di un rapporto diretto e positivo con gli ascoltatori, si ritrovano simili e significativi nei sermoni dei predicatori più diversi e lontani nel tempo. Cosí pure non si può fare a meno di accorgersi che, al di là delle enormi differenze linguistiche e stilistiche che contraddistinguono il faticoso itinerario espressivo dell'Italia dell'ultimo medioevo (si passa dall'eleganza di un Giordano da Rivalto e di un Bernardino da Siena allo stupefacente intreccio di forme dialettali feltrine e bresciane, di volgare e di latino, di Bernardino da Feltre) ci si trova di fronte ad un'unità culturale, che ha le sue radici in un condiviso atteggiamento di fronte alla vita, e ad una ricerca univoca e partecipata di identici valori.

La brevissima scelta di sermoni che qui presentiamo, data la scarsità dello spazio, non si propone altro scopo che quello di immettere il Lettore, con maggiore immediatezza, nel vivo dell'atmosfera culturale che ci interessa, e di rendere, con qualche esempio, più concreti e tangibili i temi distintivi della predicazione popolare, che ci sono serviti ad individuare, durante il nostro studio, le principali articolazioni della cultura penitenziale.

GIORDANO DA RIVALTO

Dalla Predica XXXVIII « Crucifixus etiam pro nobis » (l).

Cominceremo a predicare dell'articolo della Passione, il quale comincia Cruci fixus etiam pro nobis. Dividemmo la Passione di Cristo in quattro parti: e fu detto alcuna cosa della figura: e però in questa predica diremo d'altre figure, ch'ebbe questo legno della Croce. E diconne i Santi molte cose: e fu figurata la Croce di Cristo in quattro legni nel vecchio Testamento: nella

(1) Questa predica fu pronunciata in Firenze nell'aprile del 1305, e testimonia del fatto che il tema della Croce era già uno dei più vivi nella predicazione popolare.

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verga di Moises: nel legno d'Aman in Ester: nel legno, sopra '1 quale Moisè puose il serpente del rame: e nel legno amaro, che dulcuroe l'acqua amara (2). Dico nella verga di Moises, la quale Iddio gli diede: e in virtù di quella verga per volontà d'Iddio fece molti miracoli: e con questa verga divise il mare rosso. Or lasciamo fare gli altri miracoli, e diciamo, pur di questo. Che significa questa verga? La Croce di Cristo, dicono tutti i Santi. Quale è il mare Rosso? Le tribolazioni del mondo, le pene e le tentazioni. Questo mare è pericoloso e periglioso, se tu non lo dividi. Come si divide, dicono i Santi? Solamente con questa verga, con la Croce di Cristo. Non è nullo mare si grande, che con questa verga divider non si possa. Nullo rimedio ci ha migliore, o altro, che questo, se non dividerlo con la Croce di Cristo. Ma sai, che dicono i Santi? Questa verga, quando Moises la gittoe in terra, si diventoe uno serpente: e cosí è. Se tu la Croce di Cristo, cioè la penitenzia (3) getti in terra affatto, si diventa uno serpente, che ti roderà. Ma dice, che Moisè il prese per la coda, e diventoe verga di virtù. Nollo prese per lo capo nò: ma pur un poco per la coda; a significare, che noi poremo forse cosí pigliare tutta la penitenza; ma pigliarne pur un poco, un micolino della coda: non sarà si poca, che non ti dea salute; onde leggier cosa è a confessarti, a tornare a penitenzia (4). Non ti comanda, che facci grandi fatti; ma pur tu ti lavi un poco leggiermente, ch'è di grande agevolezza. Non sarà si poca, che non ti dea salute: ma se al tutto la getti in terra, si diventa serpente, che ti roderà. Ora incomincia fra Giordano con grandi grida a riprendere le donne co' traini (5): e gli uomini che non digiunano neente, e che al tutto anno gittata via la Croce di Cristo: e disse molto: e disse de' rei costumi, che ci sono tanti. E disse: l'hoe veduto cogli occhi la Reina di Francia (6), e le figliole del Re, e i figlioli, quando veniano al luogo nostro, mentreché stavano in Santo, e che si dicea la messa: tutti coi belli

(2) La simbologia della Croce era praticamente inesauribile e forniva ai predicatori sempre nuove possibilità di analogie. La croce è identificata anche alla verga e al bastone, che era uno dei simboli del pellegrinaggio.

(3) La « penitenza » è identificata con la Croce, come la Croce è identificata con la vita.

(3) È chiaro qui che la penitenza è intesa come uno stato al quale si giunge con la conversione (confessione) (cfr. cap. III, prg. I).

(5) Le invettive contro la moda femminile erano frequentissime e rimasero uno dei temi dominanti della predicazione popolare (vedi Bernardino da Siena a pg. 171 ss.); traino = strascico.

(6) L'uso di raccontare quello che succedeva in altri luoghi è tipico della predicazione popolare (l'omelia ufficiale non lo avrebbe mai potuto permettere), e rappresentava una delle maggiori attrattive per il pubblico del tempo.

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libretti in mano, e leggeano, insino che la messa era detta. Ciascuno avea il suo libretto in mano, ch'era una devozione. E cosí le grandi donne di Francia tutte vanno onestissime, e sono in Santo coi belli salteretti, ch'è una devozione. Onesta usanza non è qui. Ancora è la Reina di Francia, e le figliuole vestite tutte onestissime, e di panno onesto, e tutte coperte: e qui si fa tutto '1 contrario: e non portano corona, né queste cose, per disdegno di voi e dell'altre; che ciascuna vuole essere reina: e i panni portate tali, che la Reina non li può aver migliori. Or che vantaggio può aver da voi? E però ella e l'altre grandi donne si sono umiliate per disdegno di voi, e annole disprezzate. Sopra queste parole fra Giordano si riscaldò, e ribattecisi molto (7).

Dalla Predica XXXVI « Sul Credo » (8).

Onde sono molti matti, i quali non voglion pensare, se non dell'umanità di Cristo, e come fue uomo. Questi dividono Cristo; perocché non solamente dovemo pensare pur dell'umanità sua, ma della sua deitàde. Odi, che dicono i Santi. Voi vedete, e son molti, i quali pensando l'umanità di Cristo, trovano diletti sommi, e grandi dolcezze nella Croce di Cristo; perocché gli è la miglior cosa a pensare di questa vita, e la più somma, e che più frode fa. Dicono i Santi: Vedi, che se la Croce di Cristo, dà tanto diletto; che diletto dee dare a pensare la deitade sua? ove sono tutti i sollazzi, tutti i diletti, e tutt'ogni allegrezza, che si può pensare: nel quale pane si dilettano gli Angeli, e sono beati. Dunque buono è a pensare dell'umanità di Cristo, in quanto fu uomo; ma meglio è a pensare della Deitade sua. Sono molti, che della deità non si curano neente: non si curano se non dell'umanitade. Sono matti: e questi dividono, il quale non è diviso; che sempre fu, ed è congiunta con quella umanitade la deitade...

(7) Qui è il trascrittore che commenta e al tempo stesso ci avverte che ha abbreviato il discorso.

(8) Pronunciata il giorno 9 di aprile 1305 in Santa Maria Novella. È importante il riferimento alla devozione all'umanità del Cristo. Siamo ancora nella fase di sviluppo del processo d'identificazione al Cristo-Uomo; e Fra Giordano è ancora in grado perciò di intravedervi un pericolo. Una volta maturato questo tratto essenziale della cultura penitenziale, l'umanità del Cristo diventerà il valore centrale intorno al quale si articoleranno tutti gli altri valori (cfr. Cap. V, prg. 1).

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VINCENZO FERREE

Da « II ritrovamento della Santa Croce » (9).

« Sia lungi da me il gloriarmi, se non sulla croce di nostro Signore Gesú Cristo ».. Ciò è detto testualmente nella Lettera ai Galati (6), e ufficialmente nell'epistola odierna. La solennità eia festa presente si definiscono come ritrovamento della Santa Croce, perché Sant'Elena, madre dell'Imperatore Costantino, con molti miracoli ritrovò la Croce di nostro Signore Gesú Cristo, che i Giudei avevano nascosta. Questo sarà il tema anche del nostro sermone. Se piace a Dio, avremo buoni argomenti per l'illuminazione dell'intelletto, per la regola della vita e per la consolazione delle nostre anime. Ma innanzitutto sia salutata la Vergine Maria (10).

Nel sermone odierno intendo trattare il tema propostomi sotto tre aspetti:

in primo luogo, nella persona di Cristo sofferente sulla Croce;in secondo luogo, nella persona di S. Elena alla ricerca della

Croce;in terzo luogo, nella persona di qualsiasi uomo che creda

veramente.Sul primo punto, riguardante la persona di Cristo sofferente sulla Croce, parla lo stesso Cristo, e cioè: « Non mi sia concesso di giungere alla gloria della resurrezione del corpo, se non attraverso la Croce. Si trova infatti chiaramente nella Sacra Scrittura che Cristo molte volte fu in pericolo di morte in mezzo ai Giudei, e variamente si attentò alla Sua vita; ma nessun altro modo di morire piacque a Lui se non in croce, ed Egli evitò gli altri modi fuggendo, o altrimenti. Invece, alla morte in croce venne incontro Egli stesso spontaneamente dalla Galilea a Gerusalemme... (11). La ragione per cui non volle morire in tal modo (precipitato dal monte) fu quella di insegnarci ad evitare la morte dal precipizio che è aperto dal peccato della superbia. Quando infatti il diavolo vuole che qualcuno precipiti nell'inferno, anzitutto lo fa salire sul ciglio del monte della superbia. Per fare qualche esempio

(9) La leggenda del ritrovamento della croce era una delle più popolari nel medioevo (cfr. Cap. V, prg. 3).

(10) I sermoni cominciavano quasi sempre con la recita collettiva dell'Ave Maria.

(11) Il tema della scelta della morte da parte del Cristo, era molte frequente nella predicazione (si trova già per es. in Giordano da Rivalto); questo permetteva di dare sempre più importanza alla Croce in sé, non tanto come strumento di morte, quanto come « oggetto potente ».

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pio, parliamo in primo luogo dei religiosi. Quando invero un religioso vive devotamente nel chiostro, osservando scrupolosamente la regola, tale via conduce diritta al paradiso; ma il diavolo, volendo precipitarlo nell'inferno, gli pone in cuore siffatta prospettiva:« Perché non frequenti l'Università? (12). Potresti forse diventare maestro di teologia, e poi confessore del re, e poi vescovo...» E cosí egli trascura la devozione, l'osservanza, ecc. E quando sta in alto, sul ciglio del monte, viene precipitato all'inferno. In proposito dice David al diavolo: « Li facesti precipitare mentre venivano innalzati » (Salmi, 72, 18). Lo stesso si può dire del semplice sacerdote: quando gode di un beneficio limitato, non pensa a procurarsi una concubina, perché non può provvedere a lei e ai figli, e non dà agli amici. Oh, dice il diavolo, io ti farò salire! E gli pone in animo di mettersi coi grandi signori, per averne benefici, ecc. E quando sono in alto, vengono fatti precipitare dal diavolo. « Li facesti precipitare, ecc. ». Ciò vale anche per voi laici. Quando un artigiano o un lavoratore vive semplicemente del suo lavoro o del suo ufficio, va diritto in paradiso o sulla retta via. Ma il diavolo entra nel suo animo: Perché tu non dovresti far parte del Consiglio ed essere negli uffici della città come il tale, ecc.? E quando sono lì, non cercano altro se non il guadagno temporale. « Li facesti precipitare », ecc. E ancora, delle donne. Quando infatti una donna vive semplicemente, ha cura della casa e dei figli, ama suo marito e gli obbedisce in tutte le cose lecite e oneste: una donna siffatta va diritta in paradiso. Ma il diavolo le mette in animo di diventare signora, di fare in modo di sostituirsi al marito e di fargli fare solo ciò che ella vuole, dicendo: Perché io non devo fare come fa la tale? Perché non devo andar vestita come la tale? ecc. Oh quanti muoiono precipitati! Perciò dice Giobbe, parlando in nome del diavolo precipitato: « Mi hai innalzato ponendomi quasi in balia del vento, e mi hai validamente annientato: so che mi condurrai a morte» (Giobbe, 30, 22)...

Perché gli piacque questo modo di morire (la croce) a preferenza di altri? Ecco la risposta: già sapete che tutto il male, sia dell'anima, come il peccato di ignoranza e le cattive inclinazioni, sia anche del corpo, come le infermità, i dolori, i travagli, e finalmente la morte, tutto questo deriva del peccato di Adamo e di Eva, onde il peccato trae origine dall'accettazione di quel frutto proibito. Cristo perciò venne per porre riparo a tutti i mali, sia dell'anima che del corpo. Egli stesso infatti è quel frutto del quale si dice alla Vergine Maria: « Benedetto il frutto del ventre tuo ». Il frutto è ritornato all'albero, per cui le antiche storie

(12) Per quanto riguarda l'attrattiva esercitata allora dalle Università, e il ruolo che queste giocavano nel far salire i più elevati gradini gerarchici e di prestigio, cfr. Cap. II, prg. 1.

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dei Greci dicono che l'albero della croce era del medesimo legno di quello dal quale Adamo colse il frutto (13). Perciò, allorquando Cristo fu sull'albero della croce, il frutto fu restituito all'albero, e pose riparo a tutti i mali che derivarono dal peccato di Adamo, conservandone l'ordine. E infatti, come vennero prima i mali dell'anima e poi quelli del corpo, cosí Cristo, nel porre riparo, dapprima provvide ai mali dell'anima, rimediando per mezzo del battesimo, dal quale vengono rimessi tutti i peccati, e rimediò alla scienza facendoci conoscere la gloria del paradiso. Quando poi ritornerà, presto, e ben presto, per il giudizio universale, allora metterà riparo ai mali del corpo, perché allora risorgeremo immuni da sofferenze e immortali, ecc. Ecco la ragione per cui volle morire in croce.

Circa il secondo aspetto, il tema sarà trattato nella persona di S. Elena alla ricerca della Croce. Infatti, dopo la passione, la resurrezione e l'ascensione di Cristo, la santa Croce operava infiniti miracoli, a seguito dei quali molti si convertivano alla fede di Cristo. Oh, dissero i Giudei, questa croce ci distruggerebbe: perciò sia nascosta, affinché non venga trovata dai cristiani ! E scavarono nel monte del Calvario per circa venti passi sotto terra e vi nascosero la santa Croce, che rimase nascosta per duecento anni e più, finché una santa donna, Elena, la madre dell'imperatore Costantino, la ritrovò: e di nuovo essa fu esposta alla fede per i molti miracoli ivi avvenuti. Perciò quella santa donna venne a Gerusalemme a cercarvi la Croce di Cristo, e convocò alla sua presenza tutti i sapienti dei Giudei. Avendoli la regina interrogati circa la Croce e il luogo dove il Signore era stato crocifisso, poiché essi si rifiutavano assolutamente di dare indicazioni, comandò che tutti fossero bruciati. Allora quelli spaventati consegnarono Giuda dicendo: « Costui ti indicherà tutto ciò che chiedi: infatti egli sa tutto ». La regina disse a costui: « ti farò morire di fame crocifisso, se non mi dirai la verità ». Poi ordinò che fosse gettato in un pozzo asciutto e che ivi fosse tormentato dagli stimoli della fame. Dopo sette giorni fu tirato fuori di là, ed essendo venuto nel luogo dov'era la santa Croce e messosi a pregare, il luogo improvvisamente si mosse, e si avverti un profumo di aromi di odore meraviglioso. Allora Giuda si meravigliò e a mani giunte disse: « In verità, o Cristo, tu sei il salvatore del mondo ! » E tiratasi su la veste, cominciò a scavare con foga, e dopo avere scavato per venti passi, trovò tre croci nascoste. Ma, non sapendo essi distinguere dalle altre la Croce di Cristo, le posero al centro della città; e poiché verso le tre pomeridiane veniva trasportato il cadavere

(l3) Gesú Cristo è addirittura identificato al frutto dell'albero della croce, come il frutto colto da Adamo dall'albero del Paradiso (cfr. Cap. V, prg. 3).

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di un giovane, Giuda trattenne il feretro e pose la prima e la seconda croce sul corpo del morto, ma esso non risuscitò affatto. Postavi sopra invece la terza croce, il morto ritornò in vita. E molti altri miracoli sugli infermi si verificarono nello stesso luogo. Il diavolo allora parlando nell'aria gridava dicendo: « O Giuda che hai fatto? Hai agito in modo contrario al mio Giuda. Infatti egli, convinto da me, operò il tradimento, tu invece contro la mia volontà hai trovato la croce di Cristo. Per mezzo di quello ho guadagnato le anime di molti; invece ad opera tua mi sembra di perdere quelle già guadagnate. Per mezzo di quello regnavo sul popolo, a causa tua ormai sono cacciato dal regno ». E Giuda rispose: « Cristo ti dannerà nell'abisso del fuoco eterno ». È fu battezzato, e molti Giudei, visti tanti miracoli, si convertirono e furono battezzati in gloria di Dio. Di questo ritrovamento ricorre oggi la festività, e S. Elena potè allora dire: Non sia mai che io mi glorii d'altro, se non della Croce di nostro Signore Gesú Cristo. Si dica a questo punto quanta sia stata la virtù della Croce nel curare tutte le infermità, e quanta è anche al giorno d'oggi, a meno che non contrasti il fatto che la sanità del corpo sarebbe dannosa all'anima: infatti Dio non è occasione di peccato. È molto meglio per l'anima che i corpi siano infermi, piuttosto che essere sani. Non ricorrete dunque ai diavoli o ai congiurati, ma applicate sull'infermità l'impiastro della Croce di Cristo col nome di Gesú, col calore della devozione e della santità: cosí grande è la virtù della Croce di Cristo, che avrete la guarigione. Perciò ora si canta: Salve, o Croce santa, vera gloria del mondo, vera speranza nostra, vera dispensiera di gioia, segno di salvezza, salvezza nei pericoli.

La virtù della Croce è riconosciuta in sommo grado dappertutto, anche presso gli infedeli. Infatti narra S. Gregorio nel terzo Libro dei Dialoghi che una volta un giudeo, venuto a Roma, poiché il giorno era ormai sul finire ed egli non aveva assolutamente trovato dove albergare, si rifugiò in un tempio pagano per dormirvi. E temendo di profanare quel luogo, sebbene non seguisse la fede di Cristo, volle premunirsi col segno della Croce. Durante la notte, poi, svegliandosi, vide una gran folla di diavoli che faceva corona intorno a Satana seduto. Uno di essi, accostatosi a lui, lo adorò, ed egli chiese: «Da dove vieni?» e quello: «Sono stato nella tale provincia e vi ho provocato moltissime guerre ». Considera bene la leggenda fino a questo punto. Un vaso vuoto, ma col segno della Croce. A queste parole quella moltitudine di diavoli scomparve. Il giudeo allora se ne andò dal vescovo e gli narrò tutto per filo e per segno: e ricevette il battesimo... (14).

(14) Erano questi raccontini che rendevano estremamente concreta per gli ascoltatori la presenza dei demoni nella vita di tutti i giorni. Vincenzo Ferrer, in ogni modo, è stato forse il predicatore che più di

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Dalla Predica I « Per il Lunedí di Pasqua ».

«Tu sei il solo pellegrino in Gerusalemme» (15). Sebbene Cristo sia venuto nel proprio regno e sia padrone di tutte le cose, tuttavia nel mondo volle aggirarsi come un pellegrino (16). Perciò non volle avere alcuna cosa in questo mondo. Se qualcuno nascesse durante un pellegrinaggio, sarebbe d'uopo che fosse nutrito in casa d'altri, e dopo esser cresciuto, dovrebbe vivere in casa d'altri; e se morisse, dovrebbe essere seppellito in una tomba altrui. Allo stesso modo Cristo fu pellegrino. Infatti nacque in una casa non sua, visse in una casa non sua, e fu sepolto in un sepolcro che non era suo. Perciò fu veramente un pellegrino. Dice infatti lo stesso Luca (9, 58): « Le volpi hanno le tane, e gli uccelli del cielo i nidi: invece il figlio dell'uomo non ha dove reclinare il capo ». È come se dicesse: Io non ho avuto in vita un nido, cioè una casa come gli uccelli, dove potessi abitare. Alla mia nascita non ebbi un cuscino su cui poter appoggiare il mio orecchio, e anche in morte non ebbi una fossa, ma fui sepolto in un sepolcro altrui.

Affinché tuttavia vediamo meglio in che modo Cristo fu pellegrino, bisogna dire che fu pellegrino:

per l'abito che indossò;per i viaggi che fece;per gli ospizi nei quali entrò;per i pericoli che affrontò;per i segni che riportò.

Ordunque, anzitutto è detto pellegrino per l'abito che indossò. Cristo infatti ebbe la schiavina (l7), la borsa, il bastone e il berretto di feltro. Con schiavina si vuole significare la sua carne, che la Beata Vergine gli diede nell'utero. Dice infatti S. Tommaso (18) che la beata Vergine agi attivamente nella preparazione della materia, ma non nella concezione di Cristo; perché come egli stesso dice nel testo citato la concezione di Cristo viene giustamente attribuita allo Spirito Santo, sebbene sia opera di

tutti riusciva a popolare i suoi discorsi di una realistica folla di diavoli, ed è infatti raffigurato, molto spesso, con schiere di diavoli che gli volteggiano intorno.

(15) Luca, 24, 18.(16) Il tema del pellegrinaggio trova qui la sua più evidente

esemplificazione. Il pellegrinaggio era un « valore », ed era perciò necessario dimostrare che Cristo era stato lui stesso un pellegrino.

(17) Il particolare mantello che portavano i pellegrini.(18) Summa, III parte, Quest. XXXIII, art. 4, e Script, diss. III,

quest. 2, art. 1.

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tutta la Trinità e delle singole Persone. Codesta schiavina dapprima fu bianchissima, cioè costituita da gocce purissime di sangue della Beata Vergine senza alcun peccato. Perciò Cristo dice di sé e degli altri che portano le schiavine, cioè i loro corpi puri (Apocalisse, 3): «Camminarono insieme a me in abito bianco, perché sono degni, ecc. ». Inoltre codesta schiavina divenne tutta rossa nella croce, perché fu interamente aspersa di sangue, onde meravigliati gli angioli dissero (ISAIA, 63,2-3): « Perché il tuo vestito è rosso, e i tuoi indumenti sono come quelli di coloro che pigiano nello strettoio?». Rispose: «ho pigiato nello strettoio da solo, ecc. ». In ultimo codesta schiavina divenne tutta nera, quando Egli rimase morto in croce e pieno di lividi (Apo., 6, Sol. 1): « Cristo divenne nero come un sacco cilicio » (l9).

Per scarsella s'intende la sua anima. I pellegrini infatti nella scarsella sono soliti portare il denaro. Ma l'anima di Cristo fu piena di tre specie di denaro, cioè il denaro della gloria, quello della grazia e quello della sapienza (Giov., 1, 14): « vedemmo la sua gloria (ecco il primo denaro), pieno di grazie (ecco il secondo), pieno di verità (ecco il terzo). Cristo infatti nel primo momento della sua concezione ebbe la pienezza della grazia, come dice S. Tommaso (20). Infatti gli uomini erano esclusi dal regno celeste; perciò Cristo portò il denaro della gloria e della grazia, affinché per mezzo di esso li riconciliasse con il Padre. Erano ciechi e avvolti dalle tenebre, non sapendo trovare la via che conduce alla vita: perciò portò il denaro della sapienza, per indicare mediante questo la via della patria celeste.

In terzo luogo portò il berretto o cappello, cioè, la corona di spine (21). In effetti i pellegrini sono soliti portare un copricapo contro il caldo, il vento e la pioggia. Cosí la considerazione della corona di spine si suol dire che è per noi come un pergolato durante il giorno, affinché troviamo refrigerio contro la voluttà carnale. Infatti, come dice Agostino, non si addicono a un capo di spine delle membra delicate. Deve essere di protezione contro la pioggia delle tribolazioni, perché ne siamo alleviati; infatti, come dice Gregorio, se si pensa alla passione di Cristo, non c'è assolutamente nulla che non si possa tollerare di buon animo. Deve ripararci dal vento delle tentazioni, perché queste siano tenute lontane. Questo si vuol dire nei Numeri (21, 9), quando si legge che alla vista dei serpente di bronzo appeso all'antenna

(l9) Ritroviamo qui il simbolismo e l'importanza dei colori che sono caratteristici del periodo penitenziale (cfr. Cap. VI, prg. 2). L'arte del tempo raffigura spesso il corpo di Cristo ricoperto di sangue.

(20) Summa, p. III, questio VII, artt. 3 e 4, e III Script, diss., 13 e 14.

(21) Per quanto riguarda l'importanza data alla corona di spine e i significati simbolici che assumeva, cfr. Cap. V, prg. 1.

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guarivano coloro che erano morsi dai serpenti. Di queste tre cose si parla in Isaia (4,6): « Sarà come un padiglione per far ombra di giorno contro l'ardore del sole e a rifugio e protezione dalla tempesta e dalla pioggia ».

Per il bastone s'intende la croce (22). Infatti i pellegrini si servono del bastone per appoggiarsi, per attraversare un fiume e per difendersi dalle bestie nocive. Allo stesso modo Cristo col bastone della sua croce sostentò gli uomini tribolati, perché non si stancassero. « Considerate Colui che ha sopportato tanta ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, e non vi lascerete abbattere né perdere d'animo ». (Agli Ebrei, 12, 3). Anche lo stesso Cristo per mezzo del bastone della sua croce attraversò il fiume di questo mondo e giunse alla sua patria. « In compagnia del mio bastone attraversai questo Giordano » (Genesi, 32, 11). « Era necessario che Cristo patisse e cosí entrasse nella sua gloria » (LUCA, 24, 26). In terzo luogo, col bastone della croce colpi il diavolo. « Dalla voce del Signore Assur sarà spaventato (23), percosso col bastone» (ISAIA, 30, 31), vale a dire il diavolo. E infatti, i diavoli temono troppo il bastone della croce: onde, dovunque essi vedono il bastone della croce, fuggono atterriti, temendo il bastone col quale hanno ricevuto le battiture.

In secondo luogo è detto pellegrino per i viaggi che fece. I pellegrini sono soliti preferire le vie pianeggianti e pulite, e odiare le salite e le discese. Invece questo pellegrino non ebbe evidentemente niente di pianura, ma tutto il suo viaggio fu salita e discesa. Infatti, anzitutto egli fece una grande discesa e un salto, cioè quando venne dal cielo in questo mondo. « Uscii dal Padre e venni nel mondo » (GIOVANNI, 16, 28). Poi fece una grande salita, quando dal mondo sali al patibolo della croce. « Come Mosé innalzò il serpente nel deserto, cosí è necessario che sia innalzato il Figlio dell'uomo » (GIOVANNI, 3, 14). Fece ancora una grande discesa quando dalla croce discese nella tomba e nel limbo. E di lí fece una grande salita, quando cioè, tornando dal limbo e dal sepolcro e risorgendo, sali al cielo. « Colui che discese è lo stesso che è salito al di sopra di tutti i cieli (Agli Efesii, 4, 10). Notate: la vita presente è una via (24), nella quale nessuno vuole sopportare alcuna difficoltà nel salire a qualche altezza, né nel discendere e nell'affrontare qualche avversità, ma vuole andare soltanto in pianura, cioè avere ogni cosa prospera e dilettevole

(22) Il bastone del pellegrino era, più che un oggetto funzionale, un simbolo e un «oggetto potente» (cfr. Cap. V, prg. 1). È la «potenza» implicita in certi oggetti che ne rende possibile il passaggio a significati simbolici.

(23) Assuero e Serse erano identificati nel medioevo col grande Nemico.

(24) È qui ormai esplicita l'immagine della vita come itinerario.

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Ma chiunque va dietro Cristo non erra, poiché Egli stesso è la via, la verità, la vita (GIOVANNI, 14, 6). Quattro sono le cose che non consentono ad alcuno di errare lungo la via, cioè indicazioni in ferro, onde comunemente si dice: segui la via ferrata, se vuoi tenerti nella via buona. La seconda è l'erezione di croci, poiché le croci vengono erette sulla via retta. La terza è il piegamento di rami e di piante. La quarta è costituita da cumuli di pietre. Proprio questi quattro segni volle avere Cristo. Ebbe le impressioni di ferro, cioè le ferite inferte sul suo corpo col ferro. Ebbe la Croce che portò sulle sue spalle, e sulla quale sali. Ebbe il piegamento di piante, cioè la corona di spine. Ebbe il cumulo di pietre, perché i Giudei più volte vollero lapidarlo (GIOVANNI, 8, 59 e 10, 31). Chi dunque non vuole sbagliare, segua questi quattro segni, che Cristo pose sulla via affinché non errassimo. E ciò fu necessario, perché le sue vie non furono piane, ma aspre. Chi dunque non vuole affrontare alcuna asperità e vuole avere ogni cosa prospera, è evidente che molto erra dal retto cammino. In terzo luogo Cristo è detto pellegrino per gli ospizi nei quali entrò. I pellegrini sono soliti cercare ospitalità tre volte al giorno, cioè all'ora terza per far colazione; a mezzogiorno per bere e riposarsi; la sera per cenare e per dormire. Analogamente, questo Pellegrino ebbe tre ospizi. Il primo fu il seno della Vergine, e vi entrò nella terza, cioè in marzo, che è il terzo mese a partire da gennaio, oppure nella terza, come a dire nel terzo periodo, quello della grazia (25). Erano trascorsi infatti due periodi, cioè quello della natura e quello della legge scritta. Nel terzo periodo, cioè quello della grazia: in questo ospizio Cristo fece colazione, avendo carne verginale per cibo e sangue per bevanda; e questo cibo e bevanda dà anche a noi. «La mia carne è veramente cibo» ecc. (GIOVANNI, 6, 55). Il secondo ospizio fu il patibolo della croce, ed Egli entrò in questo ospizio a mezzogiorno. Ivi bevve, quando disse « Ho sete ». Ma tuttavia, poiché i Giudei gli offrirono dell'aceto, avendolo assaggiato, non volle bere, come si legge in MATTEO, 27, 34. Ivi anche si riposò, e reclinato il capo, esalò lo spirito (LUCA, 23, 46). Anzi, dice la sposa (Cantico dei Cantici, 1, 7): «Mostrami dove ti cibi, dove riposi a mezzogiorno». Il terzo ospizio fu il sepolcro, dove dormi. « Io ho dormito e mi sono assopito» (Salmi, 3, 6). Successivamente l'anima di Cristo tre giorni dopo la morte fu nel limbo, dove Cristo fece anche la cena

(25) A questo punto può sembrarci addirittura stupefacente la capacità di trovare sempre nuovi significati ed analogie nei fatti, nelle parole, nelle idee più diverse; e in realtà la fantasia del Ferrer sembra qui veramente fare « salti » incredibili. Ma l'identificazione al Cristo, alla vita e alla Passione del Cristo, era diventato per l'uomo della penitenza un esercizio cosí continuo ed assillante, da rendere ovvie e naturali le immagini e i simbolismi apparentemente più assurdi.

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con tutti i Santi. ESTER (I, 3-3): «Assuero (Serse) nel terzo anno del suo impero », cioè nel tempo della grazia, « imbandi un grandioso convito a tutti i principi », cioè ai patriarchi, ai profeti, e agli apostoli, nonché ai suoi figli, cioè a coloro che conservavano la verginità e la purezza, « ai più forti dei Persiani », cioè ai martiri, « ai più illustri dei Medi », cioè ai confessori, « ai prefetti delle provincie », cioè agli angeli.

In quarto luogo Cristo è detto pellegrino per i pericoli. I pellegrini sono infatti esposti a molti pericoli, talvolta ad opera dei compagni, che li tradiscono, talvolta ad opera degli ospiti, che li uccidono, talvolta ad opera dei ladroni, che li spogliano. Allo stesso modo Cristo fu tradito da un suo compagno, cioè da Giuda. « In verità vi dico che uno di voi mi tradirà » (MATTEO, 26, 21). Dai Giudei in mezzo ai quali fu ospitato, fu ferito e ucciso. « Cosa sono codeste ferite in mezzo alle tue mani »? E dirà: «Le ho ricevute in casa dei miei amici » (ZACCARIA, 13, 6). Fu spogliato dai soldati dai quali era stato vestito. « I soldati dopo che l'ebbero crocifisso, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, come sta scritto nel Salmo: So divisero le mie vesti» (GIOVANNI, 19, 23-34).

In quinto luogo Cristo è detto pellegrino per i segni che riportò. I pellegrini nella loro bisaccia sono soliti riportare alcuni segni (26), per dimostrare che hanno compiuto il loro pellegrinaggio, e affinché gli uomini più prontamente si inducano a benefii carli, in modo che possano procedere per la via più sicuramente. Allo stesso modo Cristo, ritornando nella sua patria, conservò le cicatrici che ebbe in croce, per tre ragioni. Anzitutto, come dimostrazione dell'obbedienza al Padre: infatti il Padre gli diede incarico di riscattare il genere umano con la sua Passione, e dunque egli conservò le cicatrici per dimostrare al Padre che aveva portato a termine l'opera che gli era stata imposta. « Ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare » (27). Secondariamente, come provocazione della misericordia paterna, affinché, mostrate queste al Padre, potesse indurlo a misericordia, si da beneficarci e da concederci la sua misericordia. «Abbiamo presso il Padre un avvocato, Gesú Cristo il Giusto, ed Egli è la vittima espiatrice per i nostri peccati » (I Giov., 2, 1-2). Infine, come segno per noi dell'acquisita salvezza, cioè, affinché in futuro non temiamo i nemici sul nostro cammino, come i nemici temono e fuggono, quando

(26) Le insegne dei pellegrinaggi compiuti divennero cosí importanti, che alcuni non se le toglievano più, servendosene come di «onorificenze» (cfr. Tav. 25).

(27) Giov., 17, 4.

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do vedono il segno della croce. « Sopra un monte brullo », cioè il diavolo, « alzate uno stendardo » (ISAIA, 13, 2). (28) *

BERNARDINO DA SIENADalla Predica III ai Senesi « nella quale tratta delle farti vuole avere

il predicatore e l'uditore » (29).Declaratio sermonum tuorum illuminat, et intellectum dat

parvulis. (Salmo Davidis centesimo ottavo). Le parole preallegate, dilettissimi, so' di Davit profeta al salmo 118, parlando inverso Idio, dicendo cosí: — La dichiarazione de' tuoi sermoni illumina, e lo intelletto dà a' parvoli. — E tutto questo che esso ha detto, ha detto a nostra utilità per dirizare le menti si del predicatore, il quale parla il sermone di Dio, e si di coloro che vogliono stare a udire e inténdare e operare. E chi andasse cercando quante cose si richiedarebbe a volere dichiarare la parola di Dio, assai se ne trovarrebbero; ma pigliaremone solamente tre.

Primo, il dicitore.Sicondo, la materia.Terzo, l'auditore.Primo, il dicitore; e qui dico che colui che dice, si conviene che

abbi l'ofizio del potere o dovere dire.Secondo, anco die avere il dicitore la materia del suo dire, e

debaia tanto ben dichiarare, che ella sia atta a dichiarare la mente, e none a turbarla o oscurarla.

Terzo, anco bisogna l'uditore; e che tale uditore sia atto a potere inténdare, e anco sia disposto a volere imparare. De' quali tre ofizi nascono le intelligenzie dell'anima. Prima dico che bisogna che l'dicitore abbi l'ofizio come del predicare: declaratio sermonum tuorum. Anco bisogna l'ofizio del dichiarare, el quale apartiene pure al dicitore: illuminat. Anco bisogna il terzo ofizio, cioè chi oda; per lo quale udire la mente s'amplia, e viene in alteza d'intelletto: là dove non cognosceva, viene a l'inténdare; e però dice: et intellectum dat parvulis.

Adunque, di questi tre ofizi parlaremo: istamane de' due, e

(28) Lo stendardo è la Croce. Ferrer interpreta simbolicamente il brano di Isaia che dà inizio alle profezie contro le nazioni nemiche d'Israele.

(29) Detta a Siena nell'agosto del 1427. È esposta qui semplicemente una teoria della comunicazione. Tutto il sermone testimonia la consapevolezza ormai raggiunta dai predicatori popolari dell'importanza sociale della predicazione.

(*) I testi di questi due Sermoni sono stati tradotti per la prima volta in italiano, in collaborazione col Prof. Vincenzo Licitra.

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dell'altro parlaremo domane. O donne, domani vi voglio fare tutte predicatrici. E questo perché adiverrà? Perché stamane udirete da me la dichiarazione, e da questo ârete la mente illuminata, e poi potrete veramente èssare predicatori e predicatrici. Prima vediamo il dicitore: declaratio sermonum tuorum; vediamo quello che die fare il predicatore. Dico che queste so' tre parole, e ogni parola vorrebbe una predica; considerato che noi predicatori aviamo ammaestrare giovani e vechi, fanciulli grassi e magri; chi è involto in una ragione di peccati, chi in un'altra; chi in molte ragioni (30). Elli ci conviene dire con modi, con ordini, con gesti, si che la dottrina abbi quello effetto per lo quale ella è detta; recandoci alla memoria quello che disse Cristo a santo Pietro quando elli pescava: Volo vos facere piscatores hominum. — Io voglio voi fare piscatori d'uomini. — Questo non significa niuna cosa, altro che colui che predica la parola di Dio. Chi meno intende la predica, talvolta più loda il predicatore; che quando sarà domandato uno che non intenda molto, el quale abbi udita la predica, — che disse il predicatore? — la sua risposta sarà che dirà: — elli ha detto di buone e bellissime cose. Buono per noi se non il faremo come intervenne a uno frate di nostro Ordine. Elli fu un frate di nostro Ordine, il quale fu valentissimo in predicazione, e diceva tanto sottile, tanto sottile, che era una maraviglia: più sottile che il filato delle vostre figliuole. E questo frate aveva uno fratello opposito a lui; tanto grosso, di quelli grossolani, che era una confusione, tanto era grosso; el quale andava a udire le prediche di questo suo fratello. Advenne che, una volta fra l'altre, avendo udita la predica di questo suo fratello, elli si misse un di in uno cerchio degli altri frati, e disse: — o voi, fuste voi stamane alla predica del mio fratello, che disse cosí nobile cosa? — Costoro li dissero: — o che disse? — O ! elli disse le più nobili cose che voi udiste mai. — Ma dici di quello che egli disse. — E elli: — disse le più nobili cose di cielo, più che tu l'udisti. Elli disse... doh, perché non vi veniste voi? che mai non credo che elli dicesse le più nobili cose ! — Doh, dicci di quello che elli disse. — E costui pure: Doh, voi avete perduta la più bella predica che voi poteste mai udire! — Infine, avendo costui detto molte volte in questo modo, pure e' disse: — Elli parlò pure le più alte cose e le più nobili cose che io mai udisse! Elli parlò tanto alto, che io none intesi nulla. — Or costui era di quelli, tu mi intendi ! Io dico che a voi bisogna dire e predicare la dottrina di Cristo per modo che ognuno la intenda; e però dico: Declaratio sermonum tuorum. Elli bisogna che il nostro dire sia inteso. Sai come? Dirlo chiarozo chiarozo, acciò che chi ode, ne

(30) Bernardino tiene conto della diversità del pubblico cui si rivolge la predicazione.

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vada contento e illuminato, e none imbarbagliato (31). Come avete quando santo Pietro era in sulla nave e pescava: che, perché esso mettesse le reti in mare, non pigliava però nulla. E Cristo gli disse: due in altum, et lassate retia vestra in captura. Et respondens Simon, dixit illi: preaceptor, per totam noctem laborantes nihil cepimus: in verbo autem tuo lassabo rete. Et cum hoc fecissent, concluserunt piscium multitudinem copiosam; rumpebatur autem rete eorum (LUCA, cap. V). — Ducete dove è alta l'acqua, e lassate le reti vostre nella pescagione. Rispuose Pietro e disse: tutta notte abiamo pescato, e nulla aviamo preso. Ma poi che tu mei dici, io manderò giù la rete. E come ebbero fatto questo, presero d: pesci grande quantità: tanti che rompevano la rete loro per la gravezza de' pesci. — Simile voglio dirti, che vuol essere il pescatore atto a pescare, e tenga modi da pigliare; che se avesse la rete e facessene uno viluppo e mettessela nell'acqua, non pigliarebbe mai nulla. Se tu la distendi molto bene, tu pigliarai de' pesci, e tanto quanto più la distenderai, più pesci pigliarai.

So' dimolti che diranno: — El difetto è suo, però che elli non ne sa pigliare; — E di questi cotali fu santo Pietro, al quale disse Cristo, come hai in Matteo al quarto capitolo: Venite post me, et faciam vos fieri piscatores hominum. At illi continuo, relictis retibus in mari, secuti sunt eum. — Venite doppo me, e faròvi diventare pescatori d'uomini. E subito essi lassaro le reti loro nel mare, e seguitaro Gesú, e cosí lassarono il mondo.

— E però fa' che tu vada dirietro a Cristo, tu che vuoi essere predicatore. E questo è detto a tutti noi predicatori, che noi andiamo in alto col nostro operare, cioè sicondo Idio. E siamo obbligati a tre cose:

Prima, alteza di vita.Siconda, chiarezza di dottrina.Terza, onore di Dio.Prima, alteza di vita; cioè che la tua nave tu la meni in alto, acciò

che nel tuo predicare tu vada dalla lònga, e che non sia compreso che tu il dica a persona propia; se none in genere, e che la vita tua sia anco buona. E così essendo in alto, e tu gitta la rete giù nel mare dei peccati de' populi, e viene poi nella siconda.

La siconda poi è chiareza di dottrina, cioè lassare la eresia e tenere quello che tiene la Santa Chiesa e i santi dottori, e non dare mai contra a quello che è stato ordinato. E però disse Cristo che seguitassero lui, e ellino lassaro le reti e seguitarlo.

Terza, onore di Dio, con salute dell'anima sua, e con dichiaramento e salute della anima delli auditori; sempre stare in sul

(31) Tutto il brano allude alla differenza fra predicazione ufficiale, accademica, e predicazione popolare.

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saldo, non andare dietro a calunnie, né a chi raporta male; ma sempre dire quello che sia onore di Dio; e in quel modo piglierà l'anima degli auditori col buono ammaestramento. E questo basterà in quanto alla prima di quello che si richiede al dicitore: Declaratio sermonum tuorum.

Vedi la siconda, e promettoti che la róca si lagnarà di te, però che tu la lassarai stare du' ore in là (32). Tu hai veduti tre offizî nel mio fondamento: primo, predicare; sicondo, dichiarare; terzo, inluminare. Come ha il sole tre cose, cosí ha la predicazione del Vangelo. Ella illumina la mente per modo che essa ci cognosce quello che poi essa mette in opera, cioè la sua salute a loda di Dio. Indi disse Iddio per lo evangelista Giovanni: Ego sum lux mundi: — io so' la luce del mondo. — Per similitudine pigliaremo il sole, il quale è la più splendida cosa che noi possiamo dire. Il quale sole ha in sé tre cose, cioè: elli ha in sé lo splendore, e ha il calore, e ha il vigore; simile alla parola di Dio, la quale è predicata a voi. Ella ha lo splendore, ella ha il calore, e ha il vigore. E se tu starai atento a volere udire e inténdare quelle cose che fa la parola di Dio nelle menti nostre, tu vedrai quatro splendori. O tu che non udisti mai predica, sécci venuto? — Si. — O pon mente a questi quatro splendori, acciò che tu sia illuminato e dichiarato per li tempi a venire, e perché ti venga voglia d'andare a udire la predica e parola di Dio da ora inanzi.

Primo splendore si chiama illuminante.Sicondo, dimostrante.Terzo, dichiarante.Quarto, decorante. Vedili tutti a uno a uno.Primo splendore è illuminante. Piglia per essemplo del sole. Che

fa in noi il sole? La prima cosa vedi che prima dà il lume suo a noi, e dacci chiareza di quelle cose che prima noi non vedavamo, e questo sole ha opera alle cose corporee. Ma dimmi: quale è il lume dell'anima?

— A chi dico io? Io vego dormire due donne allato, allato, e l'una fa capezzale all'altra. Non posso soffrire che voi facciate cosí; imperò che io so' di schiatta d'avaro, il quale vede versare il vino che corre, dicendo: oh, oimé questo si perde ! imperò che di questo non ne beccano le galline. Cosí vo' dire io: questa non è cosa da dirla a chi dorme. — A casa.

(32) Allude a quello che il giorno avanti suppone sia stato detto da una delle sue ascoltatrici: « o, io arei già filato uno fuso » mentre ho udito questa predica. E Bernardino le aveva risposto « torna dimane a udire, e io ti dirò cose che ti faranno venire la voglia di scagliare la rocca in sul fuoco ».

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Dimmi: che cosa è il lume dell'anima? Sai che è? È la fede la quale consiste in crédare in quello che tu non vedi, cioè crédare la parola la quale t'é predicata e dichiarata: la quale è del vangelio di Cristo e delle profezie dei profeti, i quali di lui hanno pariato. E questo fu l'offizio delli Apostoli, i quali per tutti il mondo andarono predicando e dichiarando. Inde Paulo ad Romanos, X cap.: Hoc est verbum fidei, quod predicamus. Quia si confitearis in ore tuo Dominum Iesum, et in corde tuo credideris, quod Deus illum suscitavit a mortuis, salvus eris. Corde enim creditur ad iustitiam: ore autem confessio fìt ad salutem. — Questa è la fede, la parola la quale si predica (33); la quale per lo udire subito entra dentro per l'orechia e passa al cuore, e riposasi Gesú Cristo nel cuor tuo per la fede che tu hai a crédare. Che se credarai che elli risuscitasse da morte a vita, sarai salvo: però che col cuore si crede la giustizia, e la salute è in confessione. — Hai veduto che per l'udire dell'orechia andò al cuore, e confessilo colla boca, e poi vai predicando per lo mondo, si che per l'udire della boce all’orecchia e poi con fede andò al cuore e per questo si salva l'anima. E com'è nel corpo l'udire, el vedere, el tocare, el gustare e l'odorare; cosí ha l'anima similmente ma halli più perfetti. Ergo fides ex auditu, auditus autem Verbum Cristi.— Adunque, la fede è l'udire; e quello che è da udire, è la parola di Cristo. — Odi David se egli lo 'ntese, lui a 118 salmi: Lucerna pedibus meis verbum tuum, et lumen semitis meis. — La tua parola è mia lucerna, e illuminami e' piei miei nelle mie vie; — cioè, la tua parola mi fa vedere lume in tutte l'operazioni mie.

Oh! quanti saranno stamane che diranno: io non sapevo quello che io mi facevo; io mi credevo far bene, et io facevo male; — e ricordandosi di questa predica, dirà in sé; — Oh ! io so' ora dichiarato di quello che io debbo fare, — riferendo a Dio queste parole: Verbum tuum lucerna mea est. — La tua parola è la mia dichiarazione. — E quando tu anderai a fare uno contratto, tu vi pensarai prima dicendo; — Che disse frate Bernardino? Elli mi disse cosí e cosí: questo è male, non si conviene fare: questo è bene, questo vo' fare (34). E questo t'averrà solo per la parola che tu odi nella predica. Ma ditemi: che sarebbe elli il mondo, cioè la fede cristiana, se elli non si predicasse? In poco tempo la fede nostra sarebbe venuta meno, che non credaremo a nulla di quello che noi crediamo. E per questo ha ordinato la santa Chiesa che ogni domenica si predichi, o poco o assai, pure che si predichi (33).

(33) La parola intesa in senso profetico è identificata all'azione della conversione e all'avvento del regno di Dio (cfr. cap. I).

(34) Importanza dell'attività commerciale alla ribalta della morale.(35) Conferma l'insistenza con cui la Chiesa sollecitava la

predicazione (cfr. cap. I).

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E a te ha comandato che tu vada a udire la messa. E se di queste due cose tu non potessi fare altro che l'una, o udire la messa o udire la predica, tu debbi piuttosto lassare la messa che la predica (36); imperò che la ragione ci è espressa, che non è tanto pericolo dell'anima tua a non udire la messa, quanto è a non udire la predica. Nol puoi tu vedere e cognòsciare senza altra ragione. Ma dimmi: che crederesti tu nel santo Sacramento dell'altare, se non fusse stata la santa predicazione che tu hai udita? Tu avaresti la fede della Messa solo per la predicazione. Più: che sapresti tu che cosa fusse peccato, se non per mezzo della predicazione? Che sapresti tu d'inferno, se non fusse la predica? Che sapresti tu di niuna buona operazione, come tu la debbi fare, se non per mezzo della predica? Che sapresti tu della gloria, se non per la predica? Tutte le cose che tu sai, vengono dalla parola udita dall'orecchia tua: e inde vieni dalla cognizione alla fede. E ciò che tu hai e sai, tutto è dalla parola di Dio; e questa si è regola generale, che ciò che si tiene della fede di Gesú Cristo, è solo per la predicazione (37); né mai questa fede verrà meno, mentre che sarà predicata. Che volse dire Giovanni nel suo Apocalisse nell'80 capitolo? Cum aperuisset sigillum septimum, factum est silentium in coelo, quasi media hora. Dice che — Quando aperse il settimo suggello, fu fatto silenzio in cielo, quasi ora di mezzo. — Non dice, fu fatto silenzio mezza ora, ma ora di mezzo. E questo significa, quando non si parlarà più della fede di Cristo, nel tempo che Anticristo andarà per lo mondo predicando, e facendo occultare la fede di Cristo, e allora sarà che questo silenzio si farà (38). Et factum est silentium in caelo, quasi media hora. Puoi considerare che il silenzio sta in mezzo di due stremità:

Prima, innanzi al tempo precedente: factum est.Siconda, amezante: silentium.Terzo, la falsità della dottrina: in fine, quasi media ora.Prima, factum est, e questo tempo il quale era, è ora ih questa

fede.Sicondo, sarà quando Anticristo mettarà manzi la fede sua, e

allora sarà il silenzio.Terzo, infine per la falsità della sua fede e dottrina, che poi per la

venuta di Enoch e d'Elia sarà la chiarezza della verità.

(36) Teoria abbastanza ardita, ma che documenta l'importanza data allora alla predicazione.

(37) Tutto il passo conferma l'interpretazione sacramentale e profetica della predicazione, cosí come abbiamo tentato di metterla in luce nel cap. I.

(38) Praticamente Bernardino fa coincidere l'epoca dell'Anticristo con la mancanza della predicazione.

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El quale Anticristo, amaestrato da Lucifero, darà la legge sua, e mandarà per tutto il mondo che sia predicata e messa inanzi. E cosí fece Cristo, che in prima illuminò e' discepoli suoi, e confermolli nella dottrina santa; e poi li mandò per lo mondo predicando la sua santa fede. E questo profetò David a salmo XVIII: In omnem terram exivit sonus eorum, et in fìnes orbis terrae verba eorum. — In ogni parte del mondo è sentito il suo nome: per insino alla stremità della terra è stata la fede sua santissima. — E che questo sia vero, odi pure di Pavolo quello che fece pur lui. Tu sai ch'elli converti li Romani; elli converti quelli di Galazia; elli converti delli Ebrei, e a quello tempo per le predicazioni le quali si facevano da tanti apostoli e discepoli di lesu Cristo, i quali erano tanto fermi nella fede e illuminati che non si sentiva quasi altro per lo mondo, se non che — il tale è battezato; el tale signore è convertito con tutta la sua provincia, e anco il tale re e la tale reina. — E questo perché era? Solo per le predicazioni, e tanto crebbe che quasi tutto il mondo era a romore; e allora non era silenzio, ma tutte grida; e l'oposito sarà quando Anticristo mettarà la fede sua innanzi: allora sarà silenzio, e la fede cristiana sarà venuta meno. Cosí puoi vedere come Cristo ampliava la fede a poco a poco, e facevala grande, e al tempo dei grandi predicatori era maggiore che mai fusse. Ora vien mancando a poco a poco, e tanto mancarà in questo modo, che sarà quello grande silenzio della sua parola, che nulla di lui si predicara. E questo sarà per una ora dall'uno lato, e una da un altro, e una in mezzo; e questo s'intende per l'ora. E dove s'intende ora di mezo, si sarà sei mesi, cioè per quaranta mesi, mentre che esso e i suoi predicatori convertiranno la gente del mondo. E questo puoi vedere chiarissimamente, che mai Anticristo non verrà, se non quando il silenzio sarà nella fede nostra (39). Doh! elli accade a dire questo. Tu sai che molte volte è stato detto, insino quando era fanciullo udii che Anticristo era nato. Ma che dico io? Insino al tempo delli Apostoli si disse che elli era nato, e anco al tempo di santo Bernardo. E cosí anco oggi si dice, e poco tempo è che si diceva fermamente. Doh, che pazzia è questa di coloro che vogliono sapere più che Iddio non vuole che si sappia? Chi è colui che il sa? Non è creatura al mondo che il possa sapere, imperò che Iddio Cristo Gesú non volse dire alli discepoli, né

(39) Insiste sul concetto precedente e conferma che la predicazione che profetizzava l'avvento dell'Anticristo era nella sua essenza di carattere « non predittivo ». Vedi anche poco più sotto l'affermazione alquanto rischiosa sul piano teologico che nemmeno Cristo conosceva il tempo della fine. Le stesse affermazioni si trovano in Savonarola. (Per tutto questo tema, cfr. cap. I).

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Cristo, in quanto uomo, noi seppe mai. E però dico che sarà silenzio a quel tempo per ora di mezzo, e in fine mostrando di salire al cielo, sarà cacciato a terra per la forza e virtù di Dio. E però al Villi capitolo dello Apocalisse: Et vidi stelìam de coelo cecidisse in ferrarci, et data estìlli eia vis putei abyssi. — E cadde in terra una stella, e fulli data la chiave del pozo dell'abisso. — E questo basti in quanto al primo lume.

Sicondo lume è dimostrante, cioè che ti dichiara per modo la mente che tu cognosci apertamente la cosa, come cogli ochi e col lume tu cognosci quello che è rosso da quello che è nero, e quello che è bianco da quello che è verde: e questo dimostra il lume del sole al corpo nostro....

Dalla Predica XXXVII« Come ogni cosa di questo mondo è vanità » (39b)

El sicondo segno e peccato che dispiace a Dio, si chiama curiosità. Curiosità è quella di colui o colei che usa ogi con vergati a' 'imbratti. Or pur piano. Che credi che dimostrano questi vergati e adogati e listrati? Non dimostrano altro che segno di divisioni. Rade volte vedrai cotali segni, che non seguiti poi e' fatti. Avete voi a memoria, o antichi, vedeste mai e' fanciullini quando fanno e' balestrucci, e vanno a cavallo in su e' cavalli de la canna co la spada di canna? Che significano poi? Vedeste lo' mai? Simile, udisti mai i fanciulli, quando eglino vanno dicendo tutto di: — pane e candelle; — tutto di: — candelle e pane? — E talvolta si ponevano in terra distesi come morti, co le croci de le canne? Ecci niuno che se ne ricordi? Questo è stato già al mio tempo; e '1 significato si è stato guerre e mortalità. Che credi che significhi il troppo ben vestire? Aspettarai, aspettarai, e saperàlo per prova. Ode Sofonia al primo capitolo: Visitabo super habentes vestem peregrinam: — Dice che come sarà veduto questi che saranno vestiti di vesti tanto nobili e peregrine (40), che saranno visitati quelli luoghi. — Sai chi sarà? Sarà frate Bastone e frate

(39b) Questo sermone, che fa parte, come il precedente, del ciclo delle Prediche volgari, pronunciate a Siena nell'agosto del 1427, testimonia del tono semplice e diretto che caratterizzava la predicazione popolare; e del rapporto, affettuoso e al tempo stesso pieno di autorità, che si era instaurato fra i predicatori e il loro pubblico.

(40) Il tema della ricchezza nel vestire è uno dei temi ricorrenti nelle invettive dei predicatori.

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Mazica (41) e' quali âranno molto più forza che non ha âuto frate Bernardino. Sai che faranno? Non predicaranno no, ma e' faranno de' fatti. Oimmé, ch'io vego bene qualche cosa io, non la vede ognuno di voi ! (42) Se voi sapeste quanto male seguirà per questi vostri vestimenti, forse voi gli guastereste. E però, se niuna ne guasta niuno, mandimelo a dire, che io orarò per lei, che Idio la guardi da quelli stermini ch'io vego aparechiati per voi. Io vorrò misurare i vestimenti di frate Bastone co' miei. — Oh dice colei che non se ne cura: costui ci mette tanta paura, che se noi gli credessimo, noi gli guastaremmo tutti quanti. — Sai che ti vo' dire? Pone mente quando egli è una grande nebbia, uno che sia in alto e miri a basso, egli vede ogni cosa a modo d'uno mare. A proposito. Noi che siamo spiccati dal mondo, quando noi ci spechiamo in queste cotali cose, subito vediamo il pericolo dietro. Noi vedi già tu che vi se' dentro in questa nebbia. Già so' stato in luogo dove io viddi simili vestimenta, e subito lo' disse, che se non provedessero loro, frate Bastone provedarebbe lui; e non credendomi lo' intervenne come io lo' dissi. Eimmé, che voi séte pieni di nebia, e non vedete nulla ! Io vego bene io i pericoli che vi vengono adosso ! Io dico, che quando una città si veste in questo modo, ella può aspettare il giudicio di Dio. O città vestita di vestimenta peregrine, aspetta, aspetta il fragello degli angioli di Dio: se la Scrittura non mente, tu non ne potrai campare. Terzo peccato si chiama novità. Questa è buona per coloro che usano di fare i Consigli (43), i quali so' atti e potrebbero forse pònare rimedio e ordinare, ma con fatiga, che non si possi portare se non tanto ariento addosso; e che non si possa méttare se non tanto panno per vistire; e che non si facci tanto le maniche grandi, e ale, che ti faranno anco volare a lo' 'nferno. E questa legge in fine si farà per quegli che non hanno bisogno di legge, e non per chi n'ha bisogno, che non v'avedete, che questo è uno disertamento de' pòvari. Vuoi vedere come la cosa andarà? Tu farai l'ordine che non si possa fare se non tal cosa e tale: — oh, io posso fare la tale spesa, che non ne va pena niuna ! Lo Statuto concede che si metta tanti taglieri, e io cosí vo' fare; dice che si metta tanto panno in uno vestire; cosí vo' fare: dice anco di tanto ariento;

(41) I flagelli di Dio.(42) Allusione alla sua capacità profetica.(43) Leggi e prescrizioni suntuarie erano già state promulgate

molte volte inutilmente (nel 1274, per esempio, il 2° concilio di Lione aveva interdetto alle donne gli smoderati ornamenti; e due anni dopo: «di volontà del papa fur tolte alle donne le perle... vietate fregiature d'oro e d'ariento; fu imposto di accorciare « la coda » e di portare il velo al posto di altri copricapi »).

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cosí vo' fare. — E però questa legge non vi farà regolare; che cosí vorrà fare uno come un altro. Unde io vi dico, ch'io non vi saprei già dar modo io: datevelo voi; fate da voi.

Quarta, si chiama malignità; che come ci verrà una forgia nuova, come ci verrà una meretrice vestita a la franciosa, subito sarà impresa. Ecci niuna fanciulla a maritare, o maritata, che si a vestita a la moderna? Come vedranno quel vestire, subito faranno guastare i loro, per recargli a nuova forgia. Sai che si vorrebbe fare? Egli si vorrebbe prima bruciare la donna che si veste, e poi la madre che il consente, e dopo loro el sarto che le fa. Per certo, s'io l'avesse a fare, egli non si farebbe niuna forgia nuova; che non v'avedete che gli è uno guastamento de la vostra città ! E vòvi dare questa codetta; che chi gli fa, e chi li porta, e chi gli fa portare, peca ogni volta mortalmente; ma molto più il sarto, il quale reca tale usanza; che col suo assottigliare lo intelletto è cagione di molto male: e questo fanno pure per guadagnare.

Dannosità, ell'é l'ultima. Quanta robba tenete voi oggi morta in casa vostra, e quanti so' di quegli che, con tutto che n'abbino assai, anco ne comprano più? Meglio ti sarebbe che quelli danari tu gli mettesse ne la tua bottiga in mercanzia, che tenerli morti come tu fai. Dimmi ancora. Hai dei pegni al giudeo, che costano cotanto il mese: oh, quanta ne potresti menovare, se tu ti sapesse regolare! Tu hai dei pegni al giudeo, e vuoi tenere i gòffani pieni di panni, che non ne fai nulla, e continuamente l'usura ti rode l'ossa. Quando io pongo mente pure a' vostri fanciulli, quanto oro, quanto ariento, quante perle, quanti racami lo' fate portare ! Tutte queste cose tenete morte, e potreste riempire le bottighe vostre, e' fondachi vostri di mercanzie, e far buona la città e voi medesimi.

E qui hai veduto dieci malignità e dannosità de la vostra città per lo vostro superchio vestire del busto. E voglio che basti per lo busto. Diciamo ora del capo. Non volere avere il capo come la gatta, che è malagevole a scorticare. Vediamo in quanto a la colpa, e poi vedremo in quanto a la pena, quello che debba seguire a quelle che hanno il capo vuoto; che si può dire capo di gatta, cioè capo leggero, sai. Perché il capo de la gatta è cosí malagevole a scorticare, però ti do questa similitudine: la donna che ha preso quasi per costumo di portare nel capo o in sul capo molte vanità, e tutte di peccato, per la sua mala usanza le sarà più malagevole a rimanersene (44), che in tutto l'altro busto. E cosí vo' dire anco a te, uomo: leva via tanta vanità de' cappucci con tanti viluppi, che ben significa che tu hai avilupata assai de

(44) Ad astenersene.

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la roba altrui. E per certo io non so che, dappoi ch'io ci verini, niuno abbi renduto niuno denaio, di quelli che voi avete mal guadagnati. Diciamo un poco di voi, donne, che è di nostro proposito. Io v'amonisco prima, che voi andiate oneste, e che voi andiate per modo, che voi non dispiaciate a Dio, né anco a' vostri mariti sodomitti. E sapete perché dico questo? Perché voi dimostrate che e' ci è più sodomiti a Siena, che in niun altro paese; però che dove più si lisciano le donne, più v'è sodomitti e voi vi lisciate più che donne ch'io sappi. A Roma, d'onde io so' venuto ora, io non ne vidi mai niuna lisciata. E voi, pazzarelle, vi credete per lo vostro lisciare che vostri mariti non sieno sodomiti? E io vi dico che talvolta voi ne séte cagione voi, per lo vostro lisciarvi (45). Voi non v'avedeteche voi guastate voi medesime, e fatevi odiare agli uomini. A chi puzza la bòca per lo lisciare; chi s'insolfa: che s'imbratta con una cosa e chi con un'altra (46); e date tanta puza a' vostri mariti, che voi gli fate diventare sodomiti. Quanti ci so' di quelle che hanno guasti i denti per lo tanto lisciare? Sai che ti vo' dire? Tiene a mente che questa è operazione del diavolo, per fare fiacare il collo a te e a lui, e per aver l'anima dell'uno e dell'altro. Non ti maravigliare se '1 tuo marito non ti vuole vedere; tu n'hai colpa. Doh, io non dico che tu non stia dilicata, anco te ne conforto; ma state oneste e pulite, che voi lo piaciate. Non ridete, che voi avete da piagnere. Egli mi pare vedere ne' capi vostri tanta vanità, che mi pare un orrore: chi 1' porta a merli, chi a' càssari, chi a torri trasportate in fuore, come questa torre (47). Io vego i merli dove si rizzano le bandiere

(45) Bernardino era acerrimo nemico delle donne e si rifiutò sempre di avere con loro qualsiasi contatto, al punto che non volle mai confessarle. Il trovarle colpevoli della sodomia dei loro mariti è una buona esemplificazione della paura e dell'odio che aveva nei confronti del sesso femminile.

(46) La pulizia non era di moda, ma sulla toilette femminile facevano bella mostra flaconi d'oro e d'argento per i cosmetici e le creme, cura-orecchi e cura-denti, cura-unghie e gratta lingua: bastoncini di legno o in metallo prezioso (cfr. La moda nei secoli, a cura di M. CONTINI, Mondadori, Milano, 1965, pg. 94).

(47) La moda del copricapo detto hennin, lanciata in Francia all'inizio del quattrocento, dilagò per tutta l'Italia. Era una specie di cono a forma di pan di zucchero, dal cui vertice pendeva un velo leggero, spesso intessuto d'oro. Le dimensioni dell'hennin raggiunsero proporzioni tali che fu necessario emanare una legge per regolarne la misura in ragione del grado di dignità di chi lo portava. La molteplicità e la bizzarria delle acconciature erano veramente giunte al limite: «cuffie ed hennins in garza multicolore o in mussolina profumata allo zafferano; in tela d'Olanda inamidata, con guarnizioni pieghettate o

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del diavolo: e tali hanno le balestriere atte a poter percuotere altrui, e cosí da essere percossi: dove si fa sempre battaglia, come se fusse una de le vostre terre, la quale fusse combattuta. Che vi parebbe se egli fusse posta altra insegna che la vostra ne le vostre terre sopra de le mura, e levassino la vostra? Io mi credo che prima voi v'ingegnareste di sapere che fusse stato, e quello il nemicareste quanto voi poteste, e inde apresso v'ingegnareste che le vostre insegne vi tornassero su. E questo dico per la vanità del capo de le donne.

Non cognoscete voi che quelle vanità che voi portate, so' insegne del diavolo? Non se' tu criatura di Dio? Oh, come ti ribelli tu da lui ! Deh, non fare; e se l'hai fatto, ritorna a l'amenda. Pone in sulla testa tua el segno di Dio: del quale segno parla Ieremia al Villi cap.: Signa Thau super frontem gementium et dolentium. Pone il segno del Thau nella fronte tua, che è la croce di Iesu Cristo benedetto; e fa' che ne levi il segno del diavolo, che sono le vanità che tu vi porti; e non ne levare mai più. El diavolo che è nemico di Dio, sempre s'ingegna di fargli guerra, e di tòllargli

con un velo fissato da una spilla d'oro; a forma di turbante tempestato di gemme, a forma di mitra in broccato » (cfr. La moda nei secoli, cit., p. 87-88).

E di un certo interesse rilevare qui come anche le continue ed eccessive trasformazioni della moda negli ultimi due secoli che ci interessano (« che di quello ch'io mi ricordo, tante mode, tante forgie, ch'io trasecolo » dice poco più in là Bernardino) stiano a testimoniare (secondo le tesi di Kroeber-Richardson, Flugel) il desiderio e la tendenza verso il mutamento dei gruppi sociali più bassi, come pure la tendenza ad uniformarsi ai gruppi più alti (« Three centuries of women's dress fashions », Hogart, London, 1930, pg. 111-154, e « Psychology of clothes », pg. 140). Il conformismo tuttavia non può nascere se non là dove si è già formata una certa coscienza di essere o di voler essere un gruppo; quindi anche l'elemento « moda » testimonia della formazione, nel nostro periodo, di gruppi caratterizzati non tanto da uniformità esteriori, catalogabili socialmente, quanto da aspirazioni interiori, che si identificano con una prima presa di coscienza del proprio « essere un gruppo ».

Abbiamo già visto (cfr. cap. IV) come abbia contribuito e partecipato a questa presa di coscienza la predicazione popolare. È anche interessante sottolineare, a conferma delle tesi sull'essenza della moda, come addirittura l'altezza dell'hennin sia stata stabilita per legge in rapporto al grado sociale.

Un'ultima osservazione va fatta sulla corrispondenza fra i copricapi: « a merli, a cassari, a torri trasportate in fuori come questa torre » (la torre di Piazza del Campo) e il gotico, secondo l'interessante ipotesi, già affacciata dal Flugel, di F. KIENER, Kleidung, Mode und Mensch, Reinhardt, Basel, sulle analogie ed affinità di stile fra l'architettura e il costume.

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l'anime le quali egli ha criate per averle ne la gloria sua. E dice, quando egli vede una anima ben disposta: — io m'ingegnarò di levar via quel segno che tu porti in fronte, e s'io potrò vi mettarò el mio. — E allora ti mostrarà ghirlande di perle fatte a ghiande e a more e a chiocciole, e cosí anco dell'altre vanità. Inde santo Iacomo: Per quae peccaverit homo, per haec emendabitur. Tu non hai tanto in casa che vagli l'ornamento che tu porti in fronte, se tu se' di quelle di Dio. A che si cognosce dove si presta a usura? Al segno de la tenduccia. A che cognosci dove si vende il vino? Pure al segno. Simile, a che si cognosce uno albergo? Pure al segno suo. O se tu vai al taverniere per avere del vino, perché tu vedi il segno tu gli dici: — dammi del vino: — non è cosí? Or mi di: chi andasse a una donna che porta i vestimenti, o in capo vanità per modo che porta el segno d'una meretrice, e cosí pare; chi la richiedesse... tu m'intendi, come si richiede una meretrice, o vuoi come si richiede del vino al taverniere; che credi che ne fusse? Hai tu mai udito che il taverniere vende di due vini a uno tempo, che l'uno è migliore che l'altro; e '1 migliore sempre il dà a cotagli che vi vanno spesso, o a cotagli amici; e '1 peggiore il dà a cotagli pecoroni? Cosí fa propio la donna vana. Ella vende il vino migliore in vescovado, al Duomo, a coloro che la mirano: e l'altro vende al suo marito pecorone. Quando va alla chiesa, ella vi va ornata, lillata, inghiandata (48), che pare che la sia madonna Smiraldina, e in casa sta come una zambraca (49). Per certo voi ve ne dovareste vergognare in voi medesime, non che fra tanto popolo: che dovareste stare meglio e più in pònto in camara col tuo marito, che in Vescovado fra tanta gente. E talvolta ti mostri d'éssare uno lione di fuore, e in casa una pecoruccia mansueta...

(48) Ornata come un giglio, adorna di perle a ghianda.(49) O zambracca, femmina di mondo, o vile e di poco pregio. (Cfr.

Dizionario della lingua italiana, tomo VII, Bologna, Masi, 1826).

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BERNARDINO DA FELTRE

Lo scatenamento dei diavoli (50).

« È uscito quello che semina », ... (LUCA, 8, 5) (51); e San Paolo (Cor. II, 11, 26) (52); «Perciò, nei pericoli, nei pericoli», ... Il Vangelo propone una similitudine utile: come il lavoratore della

(50) I codici dei Sermoni di Bernardino, pronunciati a Pavia e a Brescia nel 1493, sono stati scoperti nel 1937 dal P. C. Varischi di Milano, e sono stati stampati integralmente nel 1964. Il testo è dovuto ad un compagno di viaggio, Bernardino Bulgarino, che era incaricato di mettere per iscritto ciò che il famoso predicatore andava dicendo. Il problema dell'autenticità e il problema linguistico dei Sermoni di Bernardino da Feltre, è il problema di tutti i sermoni di cui ci occupiamo; essi infatti non sono stati scritti dai predicatori, e la loro intelligibilità è quindi condizionata dallo stile di lavoro dei rispettivi tra scrittori. Per quanto riguarda i Sermoni di Bernardino da Feltre, il problema è indubbiamente aggravato dal fatto che il Bulgarino riassumeva e sottintendeva con numerosi etcetera tutto ciò che riteneva ovvio e risaputo del discorso del Predicatore, contrariamente a quanto ha fatto, per es., il trascrittore di Bernardino da Siena, che non ha tralasciato di annotare nulla di ciò che veniva detto. Siamo perciò di fronte ad un testo estremamente difficile da comprendere, e che non è tale da renderci conto di come il Beato riuscisse a commuovere le masse popolari e al tempo stesso ad interessare i dottori e gli studenti dell'Università di Pavia, in pieno umanesimo, dato che ci riferisce il Guslino, suo primo biografo, che: « Ad udirlo veniva tutta la città e tutto lo Studio; e con cosí gran concorso di popolo, essendo bisogno di predicar in piazza, dove li fu fatto un pulpito nel muro ». ( Vita B. Bernardini, scripta per BERNARDINUM GUSLINUM, de anno 1523). Nel testo che qui presentiamo, per la prima volta tradotto in italiano (*), i numerosi etc. sono indicati dai puntini, mentre si troverà in nota qualche integrazione, che abbiamo ritenuta indispensabile alla comprensione del discorso.

(51) Prende come base del discorso la parabola del Seminatore. Tutto il Sermone, pur trattando il solito tema dell' Apocalisse, e del l'avvento dell'Anticristo, è impostato in modo molto originale, perché lo scatenamento dei diavoli vi appare, con molta semplicità, la conseguenza di singoli, ben individuati e concreti peccati, e assume una dimensione forse meno terrificante, ma in fondo più realistica ed immediatamente efficace.

(52) Allude ai pericoli che circondano il cristiano, proponendo il testo di Paolo: « Spesso fui in viaggi, in pericoli di fiumi, in pericoli dovuti ai briganti, in pericoli da parte di quei della mia stirpe, in pericoli da parte di pagani, in pericoli nelle città, in pericoli nel deserto, in pericoli sul mare, in pericoli tra i falsi fratelli ». Naturalmente Bernardino usa il testo in senso traslato, alludendo ai pericoli del peccato e del demonio.

(*) In collaborazione col Prof. Vincenzo Licitra.

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terra va fuori, e col suo cestone (53) al braccio etc. Una parte (54) lungo la strada, e calpestandola la gente etc, non fruttificò. Un altro pò restando allo scoperto ... viene l'uccellino e beccalo su ... Un'altra parte « sopra la roccia », e pur vedendosi nascere un pò, tuttavia, al venire di un pò di sole, bassa le ale ...E la quarta parte « fruttò il cento per uno », come se dovesse compensare le altre tre parti. Cosí parlava il Signore, come è costume di Palestina (55), al dire di Crisostomo, non sulle cime degli alberi, ma in modo che le brigate sentissero meglio e i futuri maestri avessero che pensare e scrivere, dicendo queste cose gridava: « Chi ha orecchie »..., come a dire: Quanti hanno orecchie e non intendono !

« La semente è la parola di Dio »: ogni parola di Dio è buona. Una parte cade tra le genti travagliate, cioè coloro che riscuotono il dazio dei bagagli: non è uscito dalla chiesa, e ha già dimenticato tutto. Gente siffatta ha soltanto l'amore della roba, della moglie, ecc.: sono spine che lacerano i calzari. Ma pur a venire traggono frutto. Ci sarebbe da dire altro, ma, dice Paolo: Ne vo’ tu lassar de fora? Iersera le campane chiamavano alla parola di Dio, e il diavolo piazzò flautisti, ballerini e ballerine.

« È uscito quello che semina »: anche il diavolo, e vedrai nato il seme prima di Pasqua. Farò un sermone sullo scatenamento dei diavoli. « L'abisso chiama l'abisso col fragore delle cataratte », ... (Salmi, 41, 8); come dei tuoni lontani, per ricavarne frutto: devono essere temuti, evitati, fuggiti... Il nostro tema è: « E dunque uscí; nei pericoli, nei pericoli », etc. Oh quanto è pericoloso vivere, e soprattutto privi della carne! Perciò Paolo (A Timoteo, II, 3, 1): «Nei giorni estremi incomberanno tempi pericolosi ». Molti vorrebbero agir bene, e non sono liberi di farlo. Ho trovato nell'Apocalisse (9, 13-18) (56), che ho preso in mano proprio questa notte: « Libera, libera quattro angeli, che si trovano legati nel gran fiume Eufrate...», «la terza parte degli uomini » e « il numero dell'esercito equestre è di duecento milioni », etc. E ho udito una voce gridare: Desliga quelli quattro diavolini dal fiume Eufrate, cioè la Chiesa, il cui corso è sopra in Paradiso, e un altro va all'inferno... «E vidi sciolti»: cioè nel tempo della Chiesa; « pronti con le armi »: ed erano pronti a dare la malannata, il brutto giorno e la brutta ora, ... Oh, vi sembra che debba tacere? «Nei pericoli, nei pericoli, nei pericoli ». Ho sentito preamboli terribili: il reclamo universale, l'ordine del giudice, la dichiarazione effettuale.

(53) Sono trascritte in corsivo le parole in volgare nel testo.(54) Sottinteso: della semente cadde.(55) Cioè in parabole che potevano essere capite dal volgo (le

brigate).(56) L'Apocalisse era, come sappiamo, uno dei libri più letti e più

commentati nell'ultimo medioevo.

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Anzitutto: il reclamo universale. Apri la porta e libera dalla pena e dalla colpa, e non poteva essere liberato. Che vuol dire questa voce? Nient'altro che quello che dice il testo di Agostino (Sulla Genesi) della morte di Abele; e il Porretano nel Decretale, libro V, dal titolo Delle accuse: L'evidenza del crimine commesso non ha bisogno del clamore dell'accusatore. Quando i peccati sono notorii ed evidenti, che bisogno c'è di accusare? (Cap. I: Dell'accusa). Genesi, 18, 20: «Il clamore di Sodoma»...; e 2, 1: « Dio (completò) l'opera sua, cap. In che modo e quando si debba accusare, e Luca, 16, 1: « Un uomo aveva un contadino », ... (57).

Prima ci fu la lamentela, l'ammonizione caritatevole e l'insinuazione delle dicerie. Se nessuno mi dice niente, vuoi che vada a chiedere? Libro IV, frammenti Del danno arrecato: il giudice peraltro non è tenuto a un tale giudizio. Dice Iddio: non sono richiesto. Perciò vengono questi clamori, cioè dal fondo dell'inferno fino al cielo. Vedi cinque accuse: nel fondo dell'inferno i demoni premono, i dannati gridano. Oh quanti dicono «Maledetti i genitori, che non si presero cura di farmi confessare. Traditore lui, che cosí mi uccise, lui che mi fece imporre la chierica con la forza; traditrice la madre, che mi condusse ai balli: siano maledette la sua anima e le sue viscere». O Dio, che sta tu a fare? Ogni giorno mi cresce la pena...

Voci del Limbo e di fanciulli, perché vivete contro chi lavora col fuso contorto. Oh quanti muoiono e gridano contro coloro che dopo il giudizio saranno in questo mondo. Non capisci che il mondo verrà giocondo come prima? Saranno passibili o no? Voci del Purgatorio, di genitori e di amici che godono delle testimonianze, come dice l'Apocalisse (6, 9-11): « Vidi sotto l'altare di Dio le anime degli uccisi per la parola di Dio e per le testimonianze che avevano dato, e gridavano a gran voce dicendo: fino a quando, Dio giusto e vero, non giudichi e non vendichi il sangue nostro su costoro che abitano sulla terra? ». O Dio, quelli godono della mia fatica e del mio sudore, delle case, dei beni, etc. Dormi, o Signore?

Voci del mondo. Grida fino al cielo la voce del sangue e di Sodoma, la voce degli oppressi, il compenso sottratto delle fatiche. Dice Gregorio (Moralia, V, 7): Infatti ogni iniquità nei secreti giudizi di Dio ha le sue voci. Onde (Genesi, 18, 20): « I1 clamore di Sodoma», ... (58). Parimenti Agostino (Agli eremiti): Signore, Signore, costui non pensa che ha da venire nelle tue mani,

(57) È la nota parabola del cattivo amministratore.(58) « Il grido contro Sodoma e Gomorra si è fatto più forte e il

loro peccato è diventato troppo enorme. Discenderò a vedere se realmente le loro opere uguaglino il grido che n'è giunto fino a me, per ben saperlo ».

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e tuttavia sente il cane dentro. Aah manegolde, che hai da capitare dove saranno aperti i libri! Non ti sei vergognato di far del male, e ti vergogni di liberartene. Ma sebbene tutte queste voci gridino, tuttavia le quattro predette, ir. verso, non con voce, ma gridano a piena gola, sforzandosi al massimo.

«Un giudice» etc. (LUCA, 18, 2) (59). Stentiamo, non abbiamo nulla, se chiedo aiuto; dice quella giovane vedova; mangia lacrime col pane, e se ne partono etc. Sono bombarde presso Dio. O Dio, non si avrà mai ragione? Tristo chi più pò, dice Dio, per la miseria dei poveri etc. I poveri non hanno alcun indumento, e quella vestita di frivolezze, e quel ribaldo vede e scherza. Oh, quanti piangono per il freddo? Aspetta, dice, il Signore, non è ancora tempo. «Il contadino accusato di avergli dissipato i beni» (LUCA, 16, 1) (60). O, como, tu spendi a sto modo ah? Chi ti ha dato queste cose, mentre tu mi contendi il mio? Fuori, non starai in Padova né nel Padovano. Il maestro Iacopo (Dell'uso dei feudi): Il fratello è tenuto ad aiutare il fratello. E non siamo tutti fratelli? Perciò viene creato il Monte di Pietà, perché i ricchi che non danno ai poveri siano esonerati.

«La voce del sangue», cioè dell'innocente, «e il clamore di Sodoma giunge a me». O ribaldo, o maledetto, la terra si dovrebbe aprire; sono scoperti gli scandali e nessuno provvede. Tu non senti perché non vuoi sentire. Se di notte ti accostassi con le orecchie alle finestre, sentiresti: Vendetta, vendetta; rovina, rovina; peste, peste; foco, foco. O vecchio, tu ricordi bene che non era cosí. Anche nel matrimonio avvengono turpitudini di tal fatta. Vattene ora con le vanità, le danze e le ombre, non con l'offesa di Dio, del prossimo e dell'anima. Credi tu che il Dominio di San Marco vorrebbe che ci fosse astinenza della carne con suo disonore, e vuoi metterti contro Dio? La potenza di San Marco o il Duca di Milano non valgono il calcio di una mosca, rispetto a Dio.

Ambrogio (Su Luca, cap. 5): Grida la Barbaria e la Tartari a, ... Non ci sono qui quelle stranezze come presso i cristiani lí dove ci sono le reliquie dei Santi e la santificazione del Battesimo. O Dio, distruggi questa gente, affinché si formi una gente nuova. Oggi non si ascoltano le prediche; ma, se viene fra Baccolo, guai a voi ...

Gridano i Santi in Paradiso, perché non si rispettano le feste. In quel giorno alla taverna, a ballare, a giocare. O Dio, liberaci, liberaci; verrà fra Baccolo, scherzando alla muta, ... Le nostre reliquie sull'altare, fare spergiuri davanti alla chiesa. Ballare. « Si presenti al tuo cospetto il gemito degli schiavi in ceppi ». E costoro davanti a noi, con tante vanità, vendono lenocini davanti

(58) È la parabola del giudice e della vedova. (60) È la parabola del fattore disonesto.

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alla chiesa. Si lamentano Cristo e Maria: Come siamo bestemmiati,... Se riguardo al Duca di Milano etc. (61), e se un cane di quel nobile fosse percosso, non lo sopporterebbe. O Dio, che sta tu a fare? Fuori, chi non crede alla verità. Immettigli lo spirito dell'errore. Vieni pure avanti (anche sul pulpito), o heretico, o nuncio dell'Anticristo. San Pietro (I, 4, 18): «Se il giusto a stento si salverà »,... (62). I santi temono di dannarsi, e tu, donna, dici: non ho cattiva intenzione? Non lasciare andare, o uomo, la moglie cosí scollata davanti, perché forse le piace farsi vedere cosí. Ora vi sono molti anticristi contrari a Cristo. I Santi tremano, e quel ribaldo lascia fare. — Oh, si fa come fanno gli altri. — E si dannano come gli altri. Oh, quanti si dannano! Il tale non era un galantuomo? E tuttavia lasciò fare. E chi può lasciar fare il male? Tutte quelle voci gridano sotto l'altare di Dio,... (63). Dice l'onnipotenza di Dio: Che stiamo a fare? Saggiamente dice quel versetto di Isaia (26, 10): «Anche ad avere compassione dell'empio, egli non apprenderà la giustizia ». E dice agli Angeli: Come sta il mondo? Come stanno le anime che custodite? Risponde Geremia (51, 9): «Ci siamo presa cura di Babilonia e non è guarita»,... Abbiamo perduto il tempo e la fatica, e dunque abbandoniamola. Dice adunque la giustizia: Liberaci, liberaci,... Hai dunque gli accusatori e i reclamanti. E questo per quanto riguarda la prima parte,...

« È uscito quello che semina » etc. Venne fuori seminando. Donde vene mai, che havendo per aiuto tanta malìtia, che mai cessa a mille dolci modi? (Iacopone, ...) (64). Le cose di Dio in un tratto vengono abbattute (Cfr. Intorno alle cose corporali, La transazione dei prelati). Le cose del diavolo vengono difese con la spada in mano, cose di Dio; che si', che si voi far? Ricorderanno i miei padovani che il Frate oggi predica: «Nei pericoli, nei pericoli», ... (Agli Efesii, 5,15), o mio Paolo, dice Girolamo (All'Oceano): Potrei citare Paolo, tutte le volte che leggo il quale..., non la voce di un uomo, ma un tuono ... «Vedete dunque come dovete camminare cautamente, giacché i giorni sono tristi». Guardatevi da questa astinenza della carne e sempre. — Hai di fronte uomini onesti; non dire male dei galantuomini. — Io non dico male, bensí riferisco la parola di Cristo (LUCA, II, 46): «Guai a voi esperti di legge, che avete preso la chiave della scienza, e voi

(61) Ritorna sul concetto precedente: il potere di uno stato è nulla in confronto a Dio.

(62) « Se il giusto a stento si salva, l'empio e il peccatore dove finiranno? »

(63) Ritorna al versetto dell'Apocalisse di cui ha parlato prima. Si sente ancora vibrare nello stile di questa parte della predica, un tono concitato e violento, cui le iterazioni danno forza quasi profetica.

(64) È un detto di Iacopone da Todi.

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stessi non siete entrati, e avete impedito coloro che volevano entrare; etc. E alcuni saprebbero fare con la loro scienza un nuovo mondo, e tuttavia non sanno provvedere alle cose dell'anima. Qualora tu sia in dubbio se ti trovi di fronte al bene o al male, lo Scoto (nella II questione, prologo del I° libro delle Sentenze): Nel dubbio tieni la via sicura. Se non si trova nel canone della Sacra Scrittura, questa è la regola generale: Volto andar sul bel e chiaro. In questa seconda parte che si deve dire? Tre punti: la distinzione, la cognizione e la conclusione.

Primo punto: la distinzione. Tutta la Scrittura lo dimostra: nel tempo della Passione il diavolo fu legato (GIOVANNI, 12, 11): « Ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori ». Legò Satana, in che modo si scioglie? Come in tutta la prima settimana: in sei giorni fece il mondo, e nel settimo si riposò; cosí i sei periodi (65) o età dell'intera durata della fede di Gesù Cristo, cioè il tempo: primo, della giustizia; secondo, della pazienza; il terzo, della sapienza; il quarto, della grazia; il quinto, dell'innocenza; il sesto, della profonda umiltà; il settimo, dell'ultima prova.

Il primo: della giustizia. Finché ci fu Cristo sulla terra, culmine della vita e della dottrina. Dopo, quello della pazienza, e vennero i Martiri (12, questione 1): La futura ... Terzo: della sapienza, cioè, i grandi dottori: Come le stelle (38 dist.). Quarto: dei Padri delle Religioni, cioè, Basilio, Benedetto, Agostino, pioveva la rugiada delle grazie. Dopo venne San Gregorio, moltiplicò il culto divino, le chiese etc, e Carlo Magno fece tante abbazie etc. Poi ecco il periodo della profonda umiltà: Domenico e Francesco, compagni fedeli e leali, come prima il Santo Mosé e Aron, Pietro e Paolo. Dopo costoro c'è il sesto periodo, nel quale siamo ora. Un'altra età sarà dell'Anticristo, quando Dio vorrà. — Dove si trova una tale divisione in periodi? — Nell'Apocalisse: sette chiese; sette trombe suonanti: Guardatevi etc. Poi sette cavalli: il primo bianco, il secondo fulvo, il terzo nero, cioè l'eresia, il quarto pallido etc. E ancora, le sette fiale dell'ira di Dio, ... Qui ampia etc. Dov'è la vera testimonianza della profezia? Ogni giorno m chiesa si canta: « La sua verità ti proteggerà con lo scudo » (Salmi, 90, 5). Starà presso continuamente con lo scudo, cioè con la Scrittura che ci circonda. L'età di Cristo: « Io sono la via, la verità » della dottrina. « Con lo scudo »: Giovanni, San Paolo: « Prendendo lo scudo della Fede ». La Sacra Scrittura è quella che difende tutto: « Non sarai contagiato dal timore notturno ». Quando è notte, si teme anche il fruscio di un topo. Ahimé, dice la donna, che è? E non teme di notte etc.

(65) Il tenia delle varie età del mondo era uno dei più diffusi, e si prestava a varie interpretazioni simboliche da parte dei predicatori.

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Prima di Cristo si temeva la morte; venne Cristo, luce e giorno (84). Ora Cristo dice: Non moro jo per tuti? Non c'è più timore della morte. Perfino lì putti correvano, come Agata gioiva etc. Verrà il tempo in cui non temerai la morte. «Dalla saetta volante nel giorno», cioè: non temere gli eretici, manderò Girolamo, Ambrogio, Agostino etc. Ed ecco il tempo dell'avarizia del mondo: vennero quei Santi che costruirono le abbazie e vi fecero stare i servi di Dio, senza ubbriacarsi, senza mantenere concubine etc. «Contro le incursioni e il demonio» etc. Oh, è la brutta bestia. Dice uno: — Me farò mascharo, se ritorna il predicatore. — Un tale crede di far Pasqua, ...

Una donna indiavolata dice: — Deh, lassa dir questo predicator, e va' come sei usata, è tanto tempo che qui c'è la consuetudine, ... Il diavolo fa alla donna come accade all'uccellatore. La donna è la civetta del diavolo. O, la zuga ben quella civetta: te par che l'habba de li ucelli intorno? Quando è al ballo, nel palazzo, non si sottrae alcuno che non sia irretito. Se ci fosse San Girolamo (67): Ero in mezzo a cori di fanciulle. Le sue carni erano bruciacchiate, il sacco marcio, mangiava erbe, e tuttavia il diavolo attizzava tanto fuoco, ... Ora, come si comporta una raffinata? Se egli ogni giorno con una disciplina, a causa della quale era quasi lebbroso, ... — Ahimé, è forse tempo di ridere? — Donne, preparatevi a lutto.

«E dal demonio meridiano». Ora siamo in quel tempo, i peccati sono alla vista di tutti. Un tempo, chi avesse raccontato simili disonestà di uomini e di donne avrebbe sputato, ... Se vedessi un tipo di tal fatta: oh, come è sempre lo stesso; o, corno el baia ! Porre in maschera gli abiti dei religiosi, anche nei palazzi, e nessuno ha sentito lo sdegno di Finees (Numeri, 25, 7) e di Matatia Maccabeo (Maccabei, I, 2, 14), ... O vituperio della Fede di Gesù Cristo !

Quando il contadino affila la falce, non perde tempo, no. Quando talvolta si appoggia al manico della falce, l'erba crede che egli non la taglierà più, e invece egli medita dove el faza el primo tratto. O Padua, guardati! Dio sta considerando dove deve dare il primo colpo: el menarà a fracasso. Cosa potresti dire di peggio del fatto che le donne vadano in questo modo? Vai in un luogo pubblico perché portano più .... e le conduci a casa. Dov'è la pudicizia delle donne? Prendi le faccende familiari degli uomini

(66) Il Cristo è invocato come luce nel periodo penitenziale (cfr. Cap. VI, prg. 2).

(67) Le tentazioni di S. Girolamo nel deserto erano uno dei racconti preferiti dai predicatori, ed erano quindi conosciutissime dal pubblico. Erano anche uno dei temi ai quali si sono maggiormente ispirati gli artisti dell'ultimo medioevo. La a disciplina » era naturalmente l'arma prediletta di Gerolamo penitente.

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etc. Non parlo dei contratti; perché, se anche i preti, i religiosi e i galantuomini sono brave persone, vi sono molte ipocrisie. Interroga la coscienza, mettiti nelle mani di Dio. Ahimé, non se sa de chi fidare? Una chiede consiglio e si lamenta; e l'altro: Colpa tua, vieni con me. Attento, la pecora consiglia il lupo.

Viene fuori l'Anticristo. «Cadranno dal tuo fianco mille», etc. (68). Tenete saldo, non ti faranno niente. Uno allarga, un altro stringe, non sappiamo di chi fidarci. Tanto il Vecchio quanto il Nuovo Testamento questo dicono: «Sei tu colui che verrà»?, ... Cosí dice Giovanni; egli stesso capirà, ...: «I ciechi vedono», ... È il tempo dei Martiri. Finora il mondo era zoppo: chi andava s« un fie', chi su un altro, zoppicavano; non dicevano chiaramente dell'altra vita, tranne nel Nuovo Testamento. Viene Giovanni Battista e dice: 'Si avvicinerà' etc. Ma Cristo: 'È giunto. I lebbrosi si purificano'. Al tempo di Costantino, e vedi come cade a proposito, poiché la lebbra purifica, i lebbrosi sono gli eretici etc. «I sordi odono». Gregorio converte gli Angli etc. «I morti risorgono». Al tempo di Claudio Ampiniano, i Cristiani fuggivano nelle spelonche dei deserti per paura della morte, i corpi dei morti risorsero, poiché tutti uscirono, e Dio suscitò tanto fervore che le chiese, i monasteri e le reliquie furono venerati. Vedi quante belle chiese sono state costruite, quante abbazie ! « I poveri vengono evangelizzati». Manderò i Santi Domenico e Francesco. Come nel giorno del Venerdì Santo sesta feria, io ho subito la passione, cosí Francesco vive la vita di Cristo, giacché tutta la vita dei Frati Minori è la vita di Cristo etc. 'Beati' etc. Dopo costoro verrà l'Anticristo etc. «Beato colui che non si sarà scandalizzato» etc.

Dice una donna: — Non capisco queste cose, ... — Volete che vi dia il libro nel quale leggerete ogni giorno questi periodi? Ce l'ho, di grazia. Quando andremo in Paradiso, guarda l'orologio, ... Quando dici 'Padre nostro', leggi tutti questi periodi; infatti il 'Padre nostro' contiene sette preghiere, e cioè: 'Padre nostro' etc, è il proemio. Dunque, la prima preghiera è: 'Sia santificato il tuo nome', vale a dire, il nome di Gesù (GIOVANNI, 10, 36: 'Colui che il Padre santificò' etc). 'Venga il tuo regno': nel tempo dei Martiri, nel tal giorno i morti sono cento, nel tal'altro duecento, nel tal'altro mille, nel tal'altro mille e settecento; te par che aprisse el Paradiso? 'Sia fatta la tua volontà':

(68) È sempre il Salmo 90. Prosegue facendo una storia del mondo a grandi tratti, secondo i segni dati da Cristo al Battista per riconoscere che il Regno è giunto: « I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, ai poveri è annunziata la buona novella » (Matteo, II, 5). Al tempo di Costantino gli eretici (i lebbrosi) si convertono; al tempo di Gregorio, gli Angli (i sordi) si convertono; al tempo di Domenico e di Francesco i poveri vengono evangelizzati

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questo è il tempo della sapienza; un uomo è tanto sapiente quanto si accorda con Dio, l'altro te chioca la zuccha.

'Dacci oggi il nostro pane': è il tempo dell'innocenza, quando furono fatte tante abbazie, e il tempo dell'abbondanza etc. 4E non indurci': i Santi religiosi; 'e non indurci in tentazione': all'arrivo di Francesco, quante persecuzioni ! Ogniuno gli dava a dosso. Andare scalzo, mendicando ! Fu necessario incorporare la Regola nel testo del Diritto.

San Francesco per aiutarsi creò tre eserciti: fece gente da cavallo: i Frati; e da pede: il Terz'Ordine. Ma dal fianco di Cristo etc. (Cap.: Il mandato del principe). Ecco la bolla. Asoldàtive col mio capitano, perché mando dal lato del cuore etc. «Ma liberaci», ... Quando verrà l'Anticristo, ...

La cognizione e la conclusione. Se il diavolo sa quando viene sciolto, sai a che cosa pensa? Vede che ora non c'è cura delle anime (Cap. Le leggi, Legge: Sacratissimo: Le leggi legano le vite degli uomini). Vede che ora non legano, non c'è austerità. Tutti i Religiosi: vestir bene, pacare bene, nessuno che tollererebbe uno schiaffo per amor di Dio, dice il diavolo. E dice ancora: Non si recitano preghiere, non ho nessuno che mi opprima. I predicatori, basta che abbiano la loro paga alla fine del quadragesimale: ha parlato bene, è un brav'uomo. E cosa ha fatto di utile? Vede rotto il timor di Dio, non si crede, non si ha più timore. Quando una donna vede un uomo, dovrebbe chiudere gli occhi: invece, essa li sgrana di più. A la stalla, bestia. Manca l'amor di Dio; perciò il diavolo vede giusto, riunendo il gran consiglio. O voi tutti de casa calda, voi tutti che state con me nell'abisso, ... Quel Dio che ci ha scaraventato giù, dopoché noi cacciammo Adamo, ha mandato Noè, Abramo, ... che ci ha sottratto il popolo. Questo Signore Iddio ci fa la guerra: la faremo anche noi a lui. Ha mandato suo Figlio, che io feci uccidere, ...; ma, quando credevo che fosse morto, egli è risorto, ... Ha mandato i discepoli: io ho mandato gli eretici. Non è maggiore il fervore dei Martiri, né quello dei Religiosi o degli eremiti etc. Vedi unghie quando vedono che godono di essere visitati etc. Non ha fatto di più Francesco né Domenico. Che dobbiamo fare? Consigliatemi !

Saltò fuori Asmodeo: Se mi fate ambasciatore, andrò da Dio, farò ben che vi liberi. Dirò: O Dio, che fanno i vostri cristiani? Sono come asini a Messa, ingratissimi tutti, ... Credo che Dio acconsentirà a liberarci. Andò, dunque, costui. Nel frattempo posero fine al consiglio. O ben, se viene, che faremo? «Nei pericoli, nei pericoli», ... Girolamo (Sui Salmi): Tutto ciò che diciamo, lo comproviamo con la testimonianza della Scrittura. Arrossiamo, quando parliamo illegalmente.

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Venne fuori Behemot, il diavolo dei balli, e disse: Signor, lassa pur far a mi; te so dir che farò di fatti, ... — Che farai? —Farò innamorare, e la madre rufianare i figli e le figlie dei Sodomiti. Ma dammi come compagno Baiuth il diavolo delle ombre cosí che prenderemo con gli occhi, e faremo venir fuori frati e monache. Faremo in modo che non ci sarà Pasqua, perché ci saranno molte gravide; faremo si che le ombre andranno a vendere merci. Farò si che uno che abbia la moglie onesta, si innamorerà di una monaca anche zoppa e strabica. Li farò agire in modo tale che non oseranno confessarsi, né quello oserà interrogare; e se pur parlassero, dovrebbero dire delle cose cosí sporche e intricate, che non riuscirebbe a venirne a capo. Neppure i predicatori oseranno predicare. Indurrò l'uomo ad amare la donna in modo che egli stesso la farà sua, e poi: cu, cu. Gli Ebrei poi si daranno a rubare, e le Ebree saranno ruffiane, andando per le case coi belletti, ... Lassa dir gli altri. O, tu me ha datto la bona matina, tu me ha fatto tremar el cor in corpo (69).

Dice un altro: E io farò di più. Sapeti chi son, corno mi chiamo? Son Abadon, ossia Apollo, sono lo sterminatore. Manderò la discordia per le case e nel contado. I contadini prendono moglie, e poi vanno a combattere. Creerò mercanti in ogni vendita, nelle parole e negli spergiuri, con menzogne ... Farò falsificare i pesi. Conosco contratti, riguardo ai quali nessun maestro saprà cavarne li pedi.

Poi viene Mammona. Che farai? Procurerò ogni godimento nel mangiare in mano al ragazzo ignaro, cosicché né Dio né i Santi, ... Fa pur robare, corno li ha datto de le ungie, non restituirà giammai. Belzebù, vecchia, mangiando mosche, quella che dovrebbe dare la luce dà le tenebre. Incanti di cose, di corpi, di anime etc. «Paga, paga» etc. «Duecento milioni» etc. Mille, secondo Agostino (La città di Dio e La dottrina cristiana): Gli anni nella Sacra Scrittura significano mille.

La cognizione etc. Cioè, se Dio permettesse quanto sa, può e vuole. Guai al mondo! Grazie a Dio, dà il castigo. «Questa è la vostra ora e la potestà» etc, cioè il consenso del peccato: il giorno, dare il consenso nell'opera; il mese, dal mancare in umiltà verso il bene; il cattivo anno, la cattiva consuetudine. Guai a quella città, a quella casa etc. ! «La terza parte»: alcuni non sono mai caduti, altri che solevano essere la luce etc. Guai a quella casa ! Siano rese grazie a Dio, che gli ha toccato il cuore e la mente. Dice: Dove vai? Se ho ben fatto del male, non più. Tale è chi

(69) Introduce nel discorso le proteste di quelli che ascoltavano, atterriti.

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non si corregge. Questa è la terza parte del diavolo che ci colpirà. Al tempo di San" Francesco e San Domenico la moltitudine fu liberata, al tempo di San Vincenzo c'è una moltitudine di diavoli (70). Dio ha mandato San Bernardino e San Vincenzo. Da Canova del Veneto, da una nave carica di diavoli etc? Lasciamo andare etc, degli altri. San Giovanni da Capistrano, nella piazza dell'Aquila: O capitano tal dei tali, e nell'aria risponderanno attraverso lo spazio venticinquemila, e si udivano voci di diavoli come lupi e leoni, e tutti gridavano: Misericordia, misericordia. Li c'era allora San Giacomo di Orvieto, ... Amen.

GEROLAMO SAVONAROLA

Dalla Predica n. I sopra Aggeo (7l) « Agite poenitentiam ».

Ognuno che vuole cercare la sua beatitudine si deve sforzare di fare penitenza in questa vita, ed io non resto di esclamare: agite poenitentiam, fate penitenza, che in voi s'appropinquerà il regno de' deh' (72); ed ho chiamato ognuno che entri nell'Arca. E nei sermoni precedenti ho detto i segni che hanno coloro che hanno fatto vera penitenza. Il primo segno è la letizia di esultazione nella mente: vedesi sempre il vero penitente stare allegro in ogni cosa e paziente. Il secondo segno è la illuminazione, che ei conosce che la semplicità e vita di Cristo e dei veri cristiani è la somma felicità, e ha tanto lume il vero penitente, che conosce tutto il mondo e ogni suo piacere esser vani. Il terzo segno è la laudazione, perché sempre si vede in lui laude di Dio, e il suo parlare è sempre di cose divine e in laude e gloria di Dio. Il quarto segno è la conversazione coi buoni: non vedi il vero penitente più conversare con le male compagnie né con persone mondane, ma con modesti e temperati e devoti.

(70) Allude alla moltitudine di diavoli che si libravano, irosi e maledicenti, durante le prediche di Vincenzo Ferrer.

(7l) Questo Sermone è stato detto il I° Novembre 1494 nel Duomo di Firenze. Tutti i sermoni del Savonarola sono importanti come documentazione delle nostre ipotesi; ma noi ci siamo limitati a dare rilievo a quei passi che si riferiscono soprattutto alla vocazione profetica del Savonarola, cosí come essa era da lui vissuta e interpretata, nel suo duplice aspetto di parola detta direttamente da Dio, anche se per bocca del profeta, e di parola « potente », e cioè tale da provocare l'avvenimento di cui tratta (cfr. Cap. I, prg. 3).

(72) Il legame fra lo stato di penitenza e il Regno di Dio è sentito soprattutto nella predicazione profetica (cfr. Cap. III, prg. 1).

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Orsù, dilettissimi sapete che abbiamo fatto l'Arca (73), e che molti penitenti e buoni vi sono entrati. Volevo questa mattina dare altri documenti a quelli che sono entrati, e non pare ancora mi sia permesso: io ti dichiarerò la causa.

Ma prima mi volto a te, Signore mio onnipotente. Io confesso la mia ignoranza. Veramente, Signore, tu m'hai vinto, e resto confuso dinanzi al tuo cospetto. Io credevo bene, Signore, che tu fossi sommamente buono, e infinita fosse la tua misericordia; ma la mia immaginazione non andava tanto alto quanto veramente tu sei misericordioso. Io vedevo i peccati di molti tanto grandi e tanto gravi; vedevo e consideravo l'ostinazione tanto fissa nei cuori loro, che io m'immaginavo che non potessero avere da te, Signor mio, più misericordia alcuna, ma solamente aspettassero la loro gastigazione (74); e mi pareva che ci fosse solo da attendere a quelli che sono convertiti ed entrati nell'Arca del ben vivere, e volevo dar loro quei documenti che fossero necessari per la conservazione loro; e immaginavomi che a questi cattivi ed ostinati dovesse quasi aprirsi la terra e inghiottirli, e che non avessero più misericordia appresso di te. Ma mi fu detto: « aspetta; parla ancora loro, e chiama a penitenza quelli che sono pieni di ruggine e di peccati».

E però, Signore mio, io ho detto che m'hai vinto e che la mia immaginazione non andava tanto alto.

E però, dilettissimi miei, non predicherò questa mattina, ma parleremo e chiameremo ognuno a penitenza, se vorranno tornare (75).

O peccatori, o ostinati, o tepidi, o tutti quelli che s'indugiano all'ultimo pentirsi, agite poenitentiam, fate penitenza; fatela ora, non indugiate più, che il Signore ancora v'aspetta e si vi chiama. Udite le mie parole, non come da me ma come da Dio venute. Io non posso fare altro che non dica: agite poenitentiam. Vedete quanto Dio è buono e quanto è misericordioso, e che vorrebbe condurvi nell'Arca e salvarvi! Venite, peccatori, venite, che Dio vi chiama. Io ho gran dolore e gran compassione di voi. Venite in questa solennità di tutti i Santi che è oggi; la quale quando io la considero, accresce assai il mio dolore, perché,

(73) L'Arca mistica che aveva idealmente costruito durante la predicazione della Quaresima nel 1492, simbolo della salvezza nella penitenza.

(74) La tentazione più grave e continua di un profeta è quella di sentire l'inutilità della sua parola, e il lasciar cadere, perciò, più parole di condanna che parole di salvezza.

(75) Accentua ancor più il carattere profetico della sua parola: non darà spiegazioni, né teologiche, né morali, ma chiamerà a penitenza, e il richiamo profetico sarà una forza che agisce su coloro che vengono chiamati (cfr. Cap. I, prg. 3).

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quando io considero il gaudio e la beatitudine loro nella quale oggi in questa solennità si ritrovano comparando poi quella con la miseria vostra in che voi vi trovate, non posso se non cordialmente per carità dolermi. La loro beatitudine e contento è tanto grande che non si può immaginarlo, nonché dirlo... (76).

O uomini insensati, che peccando volete perdere tanta quiete e tanto riposo, agite poenitentiam; fate penitenza, ritornate a Dio e troverete ogni riposo; pentitevi degli errori vostri, confessatevi, fermate il proposito vostro di non più peccare, comunicatevi con quel santo sacramento, il quale vi farà ancor voi essere beati ! Quando io guardo quelli che sono convertiti e che sono nella via del ben vivere cristiano e che si confessano e spesso si comunicano, e' ci si vede in loro quasi una divinità, una modestia, un gaudio spirituale, hanno quasi mutata la faccia loro in forma angelica. Ed e converso, guardando nella faccia de' cattivi e perversi ostinati, e massime in alcuni religiosi quando sono sfrenati ne' vizi loro, li vedrai come demoni e peggiori che quelli del secolo. E tamen, questi religiosi usano ogni giorno questo sacramento ! Vedi quanta disparità di effetto nasce tra costoro: ai buoni questo sacramento indolcisce i cuori e causa in loro ogni modestia; il contrario si vede nascere ne' cattivi. E però consideravo io e dicevo: se questo sacramento, nel quale si crede quello che non si vede, dà tanta letizia a chi, ben disposto, lo piglia e lo riceve, oh quanta sarà ed è maggiore questa letizia in quegli spiriti beati che facie ad faciem lo veggono, godono e fruiscono ! O cuore umano, perché non ti struggi e liquefai in tanta dolcezza ed in tanto amore?....

Super flumina Babylonis, illic sedimus, flevimus (77). Quegl'Israeliti, lamentandosi e ricordandosi della loro cattività babilonica, dicevano: « Sopra i fiumi di Babilonia, quivi abbiamo seduto, quivi abbiamo pianto »; e ricordavansi della patria loro donde erano stati cavati, e però si lamentavano e piangevano e dicevano: « applieavimus organa salicibus », cioè, « noi non stiamo più in canti e in suoni, anzi abbiamo appiccato i nostri strumenti musicali ai salici, e stiamo sopra i fiumi di Babilonia sempre in pianto ». O Firenze, siedi sopra i fiumi de' tuoi peccati ! Fa' un fiume di lagrime per lavarli; ricordati della patria tua celeste donde è venuta l'anima tua; cerca con la penitenza tornare a quella patria, come facevano quegl'Israeliti! Non si può cantare

(76) Il tema della beatitudine dei Santi in Paradiso era uno dei più ricorrenti nella cultura penitenziale, in contrapposto alle tremende sofferenze dei dannati.

(77) Salmi, CXXXVI, I.

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ma piangere in terra aliena, cioè in te che sei alienata e discostata da Dio per i tuoi peccati... Cosí tu, guarda queste tribolazioni che si veggono preparate e cercane la causa; ... e cosí conoscerai che Dio manda queste tribolazioni, e che Dio è il capo di questi eserciti (7S) e che li conduce: e però farai penitenza dei tuoi peccati, se sarai savia e vorrai che Dio ti aiuti in queste angustie. E perché te l'ho detto tante volte innanzi che le tribolazioni venissero, e che Dio le manderà per purgare la Chiesa sua di tanti mali, però dovresti credere oramai, vedendone l'effetto...

Le tue sceleratezze adunque, o Italia, o Roma, o Firenze, le tue empietà, le tue fornicazioni, le tue crudeltà, le tue scelleratezze fanno venire queste tribolazioni. Ecco la causa ! E se tu hai trovato la causa di questo male, cercane la medicina. Rimuovi il peccato che è causa di questo male e sarai medicata: quia remota causa, removetur effectus. Leva via i peccati e non ti noceranno le tribolazioni; e se non fai questo, credi a me che nulla altro ti gioverà. Tu t'inganni Italia e Firenze, se non credi questo che ti dico. Null'altro ti può giovare se non la penitenza; fa' quanto vuoi, tutto sarà invano senza questa: tu lo vedrai.

O ricchi, o poveri, fate penitenza; e, ricchi, date ai poveri delle limosine. Peccata tua elemosinis redime. O voi, che temete Dio fate bene e non abbiate paura delle tribolazioni, perché Dio vi darà in quelle ben assai consolazione. La penitenza è unico rimedio; e se voi soli farete vera penitenza, rimoverete una parte delle tribolazioni. Agite foenitentiam, e rimovete i peccati che sono la causa delle tribolazioni.

D'altra parte, ancora l'ingratitudine tua, o Firenze, è causa delle tue tribolazioni: ingratitudo extinguit fontem divinae pietatis. O ingrata Firenze ! e ha parlato Dio (79) e non l'hai voluto intendere. Se i Turchi avessero udito quello che hai udito tu, sarebbero venuti a penitenza dei loro peccati. Io ho tanto gridato e tanto vociferato, che non so più che mi dire...

O Firenze, il Signore t'ha parlato in molti modi, e se Dio non avesse illuminato me, non saresti illuminata tu: per molte predicazioni, e più specialmente che altro luogo, sei stata illuminata.

Non ti ricordi, Firenze, (che non sono molti anni !) come tu stavi nelle cose di Dio e della fede? non eri tu in molte cose eretica? Non sai tu che t'ha fatto toccare la fede, si può dire con mano? Tu ti stavi là in quelle tue cerimonie estrinseche, e parevati essere santa; Dio t'ha dimostrato quanto tu erravi, e che

(78) Allude agli eserciti di Carlo Vili, che erano fin dal settembre in territorio italiano.

(79) Dio parla attraverso il Profeta con una identificazione perfetta (cfr. cap. I).

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quelle non valgono cosa alcuna senza la purità del cuore, e che la vita cristiana consiste in altro che cerimonie! (80). Né ancora questo benefizio l'avresti cavato dalle tenebre dell'ignoranza. È stato assai a Dio che t'ha voluto rivelare i suoi decreti e ti ha fatto predicare tanto tempo innanzi le cose future. Tu sai che più anni fa prima che si sentisse rumore, e rumore alcuno di queste guerre che si veggono ora mosse dagli Oltramontani, ti furono annunziate gran tribolazioni. Sai ancora che non sono passati intieramente due anni che io ti dissi: ecce gladius Domini super terram cito et velociter. Non io, ma Dio te l'ha fatto predire. Ed ecco ch'esso è venuto e viene !

Tu sai, quando ti dicevo: haec dicii Dominus, tu non lo credevi. Ora tu sei pur costretta a crederlo perché lo vedi. Non ti ricordi tu, Firenze, quando più anni sono, io ti dicevo queste parole venute da Dio: Ego Dominus, loquor in zelo sanato meo, quod venient dies in quibus evaginabo ensem super te. Convertimini antequam compleat furor meus\ navi superveniet tribulatio, et voles pacem, et non invenies (81). Cioè che Dio diceva a ciascuno: « Io vi parlo nello zelo santo mio; ecco che verranno di nei quali caverò la spada mia sopra di te. Convertitevi, diceva Dio, convertitevi innanzi che s'adempia l'ira mia; perché sopravverrà la tribolazione, e tu allora cercherai pace e non la troverai ! » E cosí molte altre cose ti dissi, o Firenze. Quando io ti dissi: haec dicit Dominus Deus, agite poenitentiam, fate penitenza, che non c'è altro rimedio. Ma chi aveva serrato gli orecchi, non ha potuto e non ha voluto udire. Ecco ora che tu vedi che la tribolazione ne viene contro molti che non hanno voluto emendarsi! Ecco, ecco il di del Signore che ne viene ! Ma tu, altro che lo vorresti ! Non desiderare il di del Signore, perché egli è scritto: Vae desiderantibus diem Domini! (82) guai a chi desidera il di del Signore! Ad quid eam vobis? a che speri tu che ti possa giovare? Tu ti inganni: dies Domini tenebrae et non lux; cioè, il di del Signore è tenebre e non luce, come tu t'immagini. O quanti ne saranno ingannati ! Agite poenitentiam, fate penitenza, e non attendete ad altro, perché altro che questo non vi può giovare. Credete a questo frate, che ogni altra cosa è vana.

Forse tu mi dirai: « Padre, io non consideravo queste parole, quando tu le dicevi, come cosa a Dio ». Ed io rispondo che tu dovevi molto bene considerarle e pensarle, perché delle parole di

(80) La, predicazione penitenziale era rivolta ad un cambiamento tutto interiore (cfr. cap. III).

(8l) Non si tratta di una citazione ma, come spesso nel Savonarola, di una fusione di varie frasi bibliche, che gli sgorgavano spontaneamente dalle labbra quando, nell'impeto profetico, perdeva il rapporto diretto con gli ascoltatori.

(82) AMOS, V, 18.

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Dio non se ne debbe tenere si poco conto come hai fatto tu. Tu sai che egli è scritto prophetias nolite spemere (83), non si voglion disprezzare le profezie ma provare e pigliare quel che vi è buono. Se io t'ho detto: fa' penitenza che viene la spada, che perdi tu a far questo bene? Nulla; anzi ne guadagni a scancellare i tuoi peccati. Però non avrai scusa alcuna della tua ingratitudine di non aver voluto conoscere questo beneficio d'esser stato aiutato a poter fuggire il tuo pericolo. Sai che io ti dicevo: verrà tempo che tu non potrai fare se tu ben volessi. E se tu dicessi: « Io dubitavo che tu non fossi ingannato», io ti rispondo che tutte queste obiezioni ti levai via, e ti mostravo con efficacissime ragioni che qui non poteva essere inganno.

E tu dici che ancora c'era chi diceva il contrario. Sai che io ti mostravo che questi tepidi ti ingannano, e ti dicevo che farebbe più per te credere che non credere queste cose, e che farebbe più per te aver creduto quando tu vedresti poi venire le tribolazioni e che non saresti, poi, a tempo. Sai che io ti dicevo; Iddio ti torrà poi l'animo e il cervello; e parrete come ebbri e non saprete che vi fare. O Firenze, quante cose t'ha fatte annunziare Dio, che, beata te, se tu le avessi credute ! Praeterea, non ti ricordi tu quando io t'ho detto che Dio vuole rinnovare la Chiesa sua e il suo popolo cristiano, e con la spada e presto? e che a Dio non piacevano questi governi? (84) Ecco che tu vedi ogni cosa procede secondo l'ordine, che di tutto quello che io ho detto in verbo Domini non ne fallirà una iota. Sai quanta contraddizione io avevo in questo che io pronunciavo della rinnovazione della Chiesa; e che, benché mi fossero fatte molte opposizioni, io non volli mai tacere. E non ostante che io mi provocassi molti nemici per questo, nondimeno sempre ci sono stato saldo e fermo, e cosí sto, e non potevo né posso fare altrimenti, perché ne ero certo e più che certo. E tu allora, anzi i tiepidi dicevano che io mi fuggirei; ed io ti dissi che volevo star saldo per questa verità e mettervi ancora la vita quando bisognasse per amore di Cristo e per questa verità. Tu sai ancora che quando dicevo: ecce gladius Domini super terram cito et velociter, tu ti facevi beffe di me e dicevi che io ero semplice; e se io ti dicessi ora citissime et velocissime, ancora che si veggano le cose in fatto, diresti il medesimo, tanto sei ostinata e perversa. Io ti dico: Haec dicit Dominus: convertimini ad me in toto corde vestro, in ieiunio fletu et plantu (85). Convertitevi al Signore che ancora vi aspetta; fate

(83) Ad Thessalonicenses, I, cap. V, 20.(84) Nel Compendium Revelationis dice che la rivoluzione dello

Stato di Firenze era stata da lui profetizzata fin dal 1492. Di fatto Piero de' Medici fu espulso dalla città solo otto giorni dopo questa predica.

(85) JOEL., 11, 12.

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una vera penitenza, e non finta e non per timore umano, ma con tutto il cuore, per amor di Dio, il quale vi potrebbe ancora perdonare e farvi misericordia de' vostri peccati; altrimenti vi annunzio che vi punirà nell'anima e nel corpo e nella vita...

Voi dovreste conoscer oramai che io vi parlo da padre come ai suoi figliuoli, per il vostro bene, e dovreste vedere che Dio in questa vostra afflizione mi ha dato a voi per padre, e per mostrarvi la via di correggervi de' vostri errori, acciocché meritiate qualche venia appresso del Signore.

Dove, Firenze, è l'onore mio e dei miei superiori? L'onore e la corona del padre e la buona unità dei figliuoli? Almanco, facessi tu bene, Firenze! Questo vorrei da te, figliuola mia, e questa sarebbe la mia e la tua corona e non altro.

Almanco, mi avessi tu compassione, che per te e per la salute tua io sia tanto addolorato ! Che voglio io da te Firenze, se non che tu sia salva e tu facci bene, e non altro? Mi è detto da altre città che se io avessi detto e fatto quello che ho detto e fatto in te, sarebbero loro diventate d'altra qualità che non sei tu. Però vi prego tutti che oramai non siate più ostinati, ma convertitevi al Signore e fate penitenza e presto; che non ve lo dico senza fondamento

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NOTA BIBLIOGRAFICA

In questa nota bibliografica vengono indicati soltanto alcuni dei libri cui si è fatto più diretto riferimento nel nostro lavoro, e che ci sembra possano servire per un orientamento di base al lettore o allo studioso interessato al nostro problema, oltre naturalmente a quelli citati nel testo.

Sarebbe infatti molto difficile dare una bibliografia, anche soltanto essenziale, di un periodo storico cosí vasto, tanto più che un lavoro antropologico presuppone la conoscenza del molteplice manifestarsi della vita in un determinato contesto culturale; e quindi, nel nostro discorso sulla cultura penitenziale, sono impliciti i riferimenti a numerosi fenomeni politici, letterari, sociali, trattati di sfuggita, o addirittura sottintesi. D'altra parte, il carattere globale di uno studio antropologico rende possibile l'ampliarsi e l'approfondirsi in diverse direzioni di ciò che in un primo momento viene proposto soltanto come ipotesi; in questo senso la presente bibliografia vuol essere soltanto indicativa di alcune possibili strade, su cui potrebbero essere avviate successive ricerche, o rintracciate altre trame dell'ordito penitenziale.

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202 Ida Magli

Page 231: Ida Magli Uomini Penitenza

INDICE DELLE TAVOLE

p. 128 1. Crocifissione. Portale occidentale della Basilica di S. Zeno (finito nel 1187)

2. Deposizione, di BENEDETTO ANTELAMI, Cattedrale di Parma, 11783. Crocifissione (part.) di MATHIS NITHART, 1512-1515 e, Museo di

Colmar4. Deposizione dalla Croce, di SIMONE MARTINI, 1340 e, Museo

delle Belle Arti, Anversa5. Il crocifisso e santi, di ANDREA DEL CASTAGNO, 1456-57 e,

Cenacolo di Santa Apollonia, Firenze Crocifissione, di MATTEO DI GIOVANNI, Predella di S. Caterina, 1460, Museo di Arte sacra, Asciano

6. Strumenti della Passione, di BARTOLOMEO DA CAMOGLI, Predella dell'umiltà, 1346, Galleria Nazionale della Sicilia, Palermo

7. La sepoltura, di LORENZO MONACO (part.), Uffizi, Firenze8. Cattedrale di S. Stefano, navata estrema sud, fine del XII sec,

Bourges9. S. Cristoforo che porta il bambino Gesù, affresco, 1275 e, Tour

Ferrande, Pernes, Vancluse10. S. Cristoforo (particolare)11. Le mani del diavolo, di GISLEBERT (part.), XII

sec, Cattedrale di Autun12. L'impiccagione di Giuda (part.), 1120-1146C, Cattedrale di

Saint-Lazare, Autun13. L'inferno (part.), Scuola Pisana, XIV sec, Camposanto di Pisa14. Angelo con strumenti della Passione, di VINCENZO FOPPA,

Predella delle Grazie, 1476, Pinacoteca di Brera, Milano15. Lotta del cielo e dell'inferno per l'anima dell'Imperatore

Enrico II, di A. ORCAGNA, Predella della pala Strozzi, 1357, S. Maria Novella, Firenze

16. Martirio di S. Savino e S. Cipriano (particolare dell'affresco), 1023 e, Abbazia di Saint-Savin

17. Il crocifisso parla a S. Tommaso, di SASSETTA, Predella dell'arte della lana, 1423-1426, Pinacoteca Vaticana, Roma

Gli uomini della penitenza 205

Page 232: Ida Magli Uomini Penitenza

p. 128 18. La morte del cristiano e il giudizio dell'anima, miniatura dalle « Grand Heures de Rohan », 1418-1425 e, Parigi, Biblioteca Nazionale, cod. lat. 9471

19. Tomba del Cardinal Lagrange (part.), 1402, Museo Cal-vet, Avignone

20. Fedeli in adorazione dei simboli della passione (part.) di BARTOLOMEO DA CAMOGLI, Predella dell'umiltà, 1346

21. Processione di disciplinati (part.), miniatura del privilegio d'indulgenza della Fraternità di S. Maria in Cividale, Biblioteca comunale di Udine

22. Stendardo della Fraternità dei Disciplinati di S. Francescuccio, Assisi23. Il povero viandante (part.), Cattedrale di Treguier24. Insegne di pellegrinaggio, Museo delle Belle Arti, Lione25. Hieronimus Savonarola, medaglia attr. a FRA MATTEO e

AMBROGIO DELLA ROBBIA, 1497 e, Museo Civico, Bologna26. Predica di S. Giovanni da Capestrano, attr. a SEBASTIANO DI

COLA da Casentino (part.), XV sec, Museo Aquilano

206 Ida Magli

Page 233: Ida Magli Uomini Penitenza

INDICE

Il problema della « penitenza » come problema antropologico del medioevo

5 1. Antropologia e storia12 2. Storia e « tradizione »15 3. Il problema del metodo19 4. Antropologia e psicologia

Cap. I25 1. La predicazione: funzione ufficiale della Chiesa27 2. La « pessima tacitumitas » del clero medioevale33 3. « Potenza » della parola38 4. Primi tentativi di predicazione popolare

Cap. II45 1. La concentrazione dei cervelli nei grandi centri universitari 51 2. Il « lavoro » intellettuale55 3. L'Ordo Praedicatorum

Cap. III59 1. La « penitenza » come atteggiamento culturale66 2. Un « uomo » della penitenza: Francesco79 3. I «valori»: la povertà, pietra di paragone della cultura penitenziale

Cap. IV87 1. Il veicolo della cultura penitenziale: la predicazione popolare94 2. I « divi » della penitenza96 3. La nascita del « pubblico » e la nuova istituzionalizzazione della

parola

Cap. V99 1. Il processo d'identificazione: la vita è una Passione113 2. La cattiva coscienza: il diavolo può apparire118 3. L'albero sacro: la Croce

Gli uomini della penitenza 207

Page 234: Ida Magli Uomini Penitenza

Cap. VI. 125 1. La comunicazione del sacro

130 2. L'immagine dell'uomo della penitenza: il pellegrino141 3. Trasformazione e superamento di una cultura

Appendice151 Alcuni esempi di terni culturali nei Sermoni dei predicatori popolari

152 GIORDANO DA RIVALTO

Dalla Predica XXXVIII « Crucifixus etiam pro nobis »Dalla Predica XXXVI « Sul Credo»

155 VINCENZO FERRER

Da « Il ritrovamento della Santa Croce »Dalla Predica I « Per il Lunedí di Pasqua »

164 BERNARDINO DA SIENA

Dalla Predica III ai Senesi « nella quale tratta delle parti avere il predicatore e l'uditore »Dalla Predica XXXVII « Come ogni cosa di questo mondo è vanità »

177 BERNARDINO DA FELTRE

Lo scatenamento dei diavoli

187 GEROLAMO SAVONAROLA

Dalla Predica I sopra Aggeo « Agite poenitentiam »

195 Nota bibliografica 205 Indice delle tavole 207 Indice

208 Ida Magli

Page 235: Ida Magli Uomini Penitenza

Finito di stampare il 30 dicembre 1967presso lo Stabilimento Tipografico di Rocca San Cascianodella Casa Editrice Licinio Cappelli S.p.A.

Page 236: Ida Magli Uomini Penitenza

Ida Busacca Magli è Docente di Psicologia Sociale e di Antropologia Culturale presso la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali. Laureata in Filosofia e Psicologia, è stata sempre maggiormente indotta ad occuparsi di problemi di psicologia sociale, anche in rapporto alla problematica religiosa di oggi (è Direttrice di un Centro di consultazione psicologica per le vocazioni religiose). Studiando le varie istanze che concorrono al formarsi di una società e di una cultura, la Magli ha ravvisato nell'antropologia culturale la scienza che meglio corrisponde al vero senso della sua ricerca. Attraverso questa scienza ha compreso di poter indagare in un quadro globale, il problema dell’« esserci » dell'uomo nel mondo, e del suo manifestarsi; e non soltanto del suo « esserci » nella nostra epoca. Varie questioni storico-culturali possono infatti essere riesaminate in base alle prospettive dell'antropologia culturale; e la Magli ha voluto offrirne qui una dimostrazione, attraverso una indagine condotta su alcuni aspetti di uno dei periodi storici che ebbero maggiori conseguenze nella formazione della società moderna.

Page 237: Ida Magli Uomini Penitenza

collana diStudi Sociologicidiretta daFranco Crespi

La conoscenza dei problemi della vita sociale è divenuta oggi parte essenziale della esperienza di ogni persona colta. Questa collana di testi sociologici si propone di contribuire con studi di elevato livello scientifico allo sviluppo dell'informazione nelle scienze sociali che, negli ultimi anni, sono venute acquistando sempre maggiore importanza anche nel nostro Paese.La ricerca sociale costituisce una imprescindibile fonte di conoscenza dell'uomo, essa infatti va ampliando le fonti e il materiale di indagine attraverso l'assunzione, nella prospettiva storica, di un indirizzo interdisciplinare nel quale le diverse forme di ricerca confluiscono verso una interpretazione globale dell'uomo e del senso della sua azione.La presente collana intende pubblicare testi che non trascurino le fonti storiche ed il materiale documentario diverso dall'inchiesta e dall'intervista, ampliando l'analisi a campi sinora non sufficientemente coltivati della documentazione storica o sociologica. Verranno altresì presi in considerazione testi di analisi dottrinale e di filosofia sociale, che permettano il migliore approfondimento delle forme sociali e del rapporto tra queste forme e la cultura, nonché la storia della cultura. In questo senso si vogliono superare le preclusioni non giustificate da parte dei metodi empirici nei confronti dei vecchi metodi e delle discipline tradizionalmente affermate, e soprattutto superare radicalmente le vecchie antitesi o le vecchie prospettive per pervenire a una visione dell'uomo come soggetto dinamico aperto a un ampio sistema di esperienze, da quella biologica a quella economica a quella sociale, estetica e religiosa, in uno schema di riferimento non riduttivo rispetto alla ricchezza dell'esistenza e della libertà umana.

in preparazione:OTTO KLINEBERG, TULLIO TENTORI, FRANCO CRESPI, VINCENZO FILIPPONE, Religione e pregiudizio - analisi di contenuto dei libri cattolici di insegnamento religioso in Italia e in Spagna.