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Globalizzazione e immigrazione. L’immigrazione come ‘res politica’: diritti, cittadinanza, sovranità Javier De Lucas 1. L’immigrazione, al centro della politica Vi sono poche questioni la cui presenza in un seminario su globalizzazione, democrazia e diritti dell’uomo sia tanto opportuna quanto quella dei flussi migratori, dell’immigrazione in generale e dell’immigrazione verso i paesi dell’UE. Infatti, come molti altri, anch’io sono convinto della rilevanza politica della questione migratoria, specialmente nel nostro contesto, quello di una UE che pone in discussione la propria identità politica e culturale, di una UE che si compone di società che stanno diventando sempre più multiculturali e che ambisce a diventare uno degli agenti dominanti nel processo di globalizzazione. Ben oltre il dibattito sui modelli di politiche settoriali di gestione dell’immigrazione, i flussi migratori del nostro tempo offrono un’occasione per pensare le condizioni del vincolo sociale e del contratto politico, per rivedere i criteri di ingresso e di appartenenza (membership), e, in definitiva, per prendere in esame le condizioni di una democrazia pluralistica ed inclusiva. In questo intervento mi occuperò in primo luogo (1.1) di alcune caratteristiche elementari del fenomeno migratorio nel nostro tempo. A queste riflessioni seguiranno (1.2, 1.3) due proposte che mirano a determinare le condizioni di ragionevolezza e di legittimità delle nostre risposte in materia, vale a dire, delle nostre politiche migratorie, perché le difficoltà che queste politiche incontrano mettono in crisi le radici della nostra vita politica. In seguito, (2) cercherò di dimostrare che la politica migratoria della UE (e della Spagna) è un esempio della concezione schmittiana (e meschinamente hobbesiana) della politica, che si prefigge di imporre il discorso imperialistico dell’amministrazione di Bush II, particolarmente infelice in termini di legittimità, ma anche di efficacia, in un mondo globalizzato (seppure non nei termini dell’ideologia globalistica dominante). Infine (3 e 4) avanzerò alcune proposte che hanno come scopo quello di giungere ad un modo diverso di pensare l’immigrazione, un modo diverso di gestirla, una politica che possa essere diversa. 1.1. Caratteri dei flussi migratori odierni: globalità, complessità, pluralità. I flussi migratori sono diventati oggi un aspetto strutturale, sistemico, dell’ordine mondiale, imposto dal modello di globalizzazione dominante. In quanto tali, sono un fenomeno nuovo, creano una vera e propria “ricollocazione del mondo” (desplazamiento del mundo) che è il risultato del processo di mondializzazione in atto. Secondo diversi autori, sarebbero addirittura l’esempio paradigmatico — quanto meno, quello più evidente— del suo valore centrale, il valore della mobilità, poiché, come suggerisce Castles, la mobilità sembra essere la parola d’ordine nel panorama culturale della globalizzazione o, per essere esatti, nella suddetta ideologia globalistica.

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Page 1: Globalizzazione e immigrazione. L’immigrazione come ‘res ... TS 212/De Lucas.pdf · Javier De Lucas 1. L’immigrazione, al centro della politica Vi sono poche questioni la cui

Globalizzazione e immigrazione. L’immigrazione come ‘res politica’: diritti, cittadinanza, sovranità Javier De Lucas 1. L’immigrazione, al centro della politica Vi sono poche questioni la cui presenza in un seminario su globalizzazione, democrazia e diritti dell’uomo sia tanto opportuna quanto quella dei flussi migratori, dell’immigrazione in generale e dell’immigrazione verso i paesi dell’UE. Infatti, come molti altri, anch’io sono convinto della rilevanza politica della questione migratoria, specialmente nel nostro contesto, quello di una UE che pone in discussione la propria identità politica e culturale, di una UE che si compone di società che stanno diventando sempre più multiculturali e che ambisce a diventare uno degli agenti dominanti nel processo di globalizzazione. Ben oltre il dibattito sui modelli di politiche settoriali di gestione dell’immigrazione, i flussi migratori del nostro tempo offrono un’occasione per pensare le condizioni del vincolo sociale e del contratto politico, per rivedere i criteri di ingresso e di appartenenza (membership), e, in definitiva, per prendere in esame le condizioni di una democrazia pluralistica ed inclusiva. In questo intervento mi occuperò in primo luogo (1.1) di alcune caratteristiche elementari del fenomeno migratorio nel nostro tempo. A queste riflessioni seguiranno (1.2, 1.3) due proposte che mirano a determinare le condizioni di ragionevolezza e di legittimità delle nostre risposte in materia, vale a dire, delle nostre politiche migratorie, perché le difficoltà che queste politiche incontrano mettono in crisi le radici della nostra vita politica. In seguito, (2) cercherò di dimostrare che la politica migratoria della UE (e della Spagna) è un esempio della concezione schmittiana (e meschinamente hobbesiana) della politica, che si prefigge di imporre il discorso imperialistico dell’amministrazione di Bush II, particolarmente infelice in termini di legittimità, ma anche di efficacia, in un mondo globalizzato (seppure non nei termini dell’ideologia globalistica dominante). Infine (3 e 4) avanzerò alcune proposte che hanno come scopo quello di giungere ad un modo diverso di pensare l’immigrazione, un modo diverso di gestirla, una politica che possa essere diversa. 1.1. Caratteri dei flussi migratori odierni: globalità, complessità, pluralità. I flussi migratori sono diventati oggi un aspetto strutturale, sistemico, dell’ordine mondiale, imposto dal modello di globalizzazione dominante. In quanto tali, sono un fenomeno nuovo, creano una vera e propria “ricollocazione del mondo” (desplazamiento del mundo) che è il risultato del processo di mondializzazione in atto. Secondo diversi autori, sarebbero addirittura l’esempio paradigmatico —quanto meno, quello più evidente— del suo valore centrale, il valore della mobilità, poiché, come suggerisce Castles, la mobilità sembra essere la parola d’ordine nel panorama culturale della globalizzazione o, per essere esatti, nella suddetta ideologia globalistica.

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In questo senso, si potrebbe sostenere che i flussi migratori si presentano come una vera e propria avanguardia della globalizzazione, perché ne annunciano l’arrivo, o, in altre parole, perché la loro crescita accompagna il processo di globalizzazione. Ma si tratta di una strategia costruita sull’inganno. È vero che lo sviluppo della globalizzazione porta maggiori migrazioni, ma si tratta di migrazioni che non sono libere, che sono determinate dalla necessità. Perché la mobilità, il valore della globalizzazione, può essere misurata in due modi diversi_. Si abbattono le barriere che ostacolano un certo tipo di flussi, ma se ne costruiscono di nuove, sempre più salde per altri. Del resto non si tratta di un’invenzione recente, come non lo è neppure, in realtà, il fenomeno della globalizzazione. Si è detto —ed è un’osservazione corretta— che questo, come anche altri aspetti del processo di globalizzazione, fu anticipato in una poesia intitolata “Laissez faire, laissez passer (L’Economie Politique)”, scritta il 20 giugno 1880 da Eugene Pottier, l’autore del testo dell’Internazionale_, che la mandò dall’America ai suoi compagni di lotta. Pottier, come è ovvio, non usa questo concetto, ma fa riferimento all’inarrestabile processo di espansione del capitalismo e del mercato, un processo comandato non dalla libertà di circolazione —condizione della libertà dei flussi (necessaria, ma non sufficiente)— ma dal desiderio di conquistare la libertà di tenerli sotto controllo, di metterli in orbita, poiché per la maggior parte della popolazione mondiale, come ebbe a dire un letterato, il mondo è diventato più grande, ma continua a essere estraneo. Pottier, in ultima analisi, da una nuova conferma di quanto sappiamo già fin dai tempi di Grozio (in contrasto con Vitoria e Suarez), e cioè che la libertà di commercio e non lo ius humanitatis o il ius comunicationis è ciò che si trova all’origine del Diritto Internazionale e governa il suo sviluppo. Quindi, la tesi che trionfa oggi nel modello di globalizzazione più diffuso e contro il quale si alzano tante voci critiche che, non a caso, riprendono alcuni argomenti di una tradizione che risale, fondamentalmente, a Vitoria. Di nuovo, ma in altre parole. Se richiamo l’immagine dell’inganno per descrivere i flussi è perché in realtà nell’odierno processo di mondializzazione i confini sono diventati permeabili per il capitale speculativo, per la tecnologia e l’informazione e per la mano d’opera richiesta occasionalmente a nord, ma sono rimasti inespugnabili per le persone che hanno il desiderio di emigrare verso il centro e non sono utili secondo i criteri del mercato. È il mercato globale a dettare le leggi (per nulla fisiche, poiché non sono naturali) di questi movimenti, e apre le porte del centro ad un piccolo numero di privilegiati, richiamandone però molti altri e traendo profitto dalla sovrabbondanza nell’offerta che si crea e che rimane in un’orbita di precarietà, in cui è lecito accettare qualunque prezzo pur di riuscire ad atterrare, e che è può essere usata anche per destabilizzare il mercato di lavoro interno e come fonte di rilegittimazione. Contemporaneamente, gli agenti del mercato globale spostano la loro attività verso la periferia per abbattere i costi (come nel caso delle maquilas, del lavoro infantile; lo sfruttamento del terzo mondo). In questo modo, la spaccatura si estende al di là del luogo comune nord-sud, perché una parte del sud (le élites) entra a far parte del mercato globale, mentre una parte del nord e la maggior parte del sud resta lontano da esso, eccetto in quanto oggetti, in quanto merci la cui collocazione nello spazio ed, eventualmente, il cui traffico, è regolato secondo la legge del profitto. Questa è la tesi di Saskia Sassen_: una nuova geografia della centralità e della emarginazione.

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Contro questa maschera, questa finzione che l’ideologia globalista ci impone, è necessario rivedere le premesse per organizzare una politica sull’immigrazione che sia efficace, vale a dire, adatta alle condizioni di un mondo globalizzato, e, soprattutto, legittima, vale a dire, coerente con i criteri di legittimità di una democrazia pluralista e inclusiva, come quella che ci si dovrebbe aspettare nel contesto di globalizzazione e di multiculturalità in cui viviamo (e in cui uno degli aspetti essenziali, nelle società europee, assieme a quello delle minoranze —nazionali, linguistiche, culturali—, sono i nuovi flussi migratori), e con i principi di legittimità del diritto internazionale. Per avere successo in questo progetto, è necessario prendere in esame tutti gli aspetti o le dimensioni della politica di immigrazione. In questo intervento mi occuperò soltanto di quelli che collegati più da vicino con l’aspetto internazionale della politica di immigrazione. Per cominciare sarà opportuno ricordare una cosa che, per quanto ovvia, troppo spesso viene trascurata, e cioè che le caratteristiche del fenomeno migratorio nel nostro tempo dimostrano che esso è diventato una costante strutturale, un fattore sistemico del mondo globalizzato. E questo perché i nuovi flussi migratori sono diventati un fenomeno globale, complesso, integrale. Innanzi tutto, globale, per la sua dimensione planetaria, che rende inutile ogni tentativo di analisi legato alla prospettiva dello Stato nazionale. I flussi migratori non sono più soltanto movimenti demografici di dimensione locale, per quanto la maggior parte di questi movimenti riguarda paesi confinanti e non —come si sente dire— quelli che vanno dalla periferia al centro del nord (l’UE, USA, Canada). Più che un fenomeno di geografia umana sono diventati una caratteristica, una costante strutturale che riguarda il mondo intero: come ho già detto, non si tratta di movimenti nel mondo, ma di una vera e propria “ricollocazione del mondo”. Le migrazioni sono globali, inoltre, in un altro senso di cui mi occuperò in seguito e che ho voluto definire integrale. In secondo luogo, si tratta di un fenomeno complesso, in quanto eterogeneo, plurale: non esiste un’immigrazione unica, così come non esiste un tipo omogeneo di “emigranti”. I progetti migratori non sono univoci, ma cambiano a seconda dei loro presupposti, delle vie di trasferimento, degli scopi, ecc. Sono diversi i paesi di origine, ma anche, e soprattutto, gli agenti, i protagonisti. Vi sono immigranti, non l’immigrante, nonostante il dogma che presiede le nostre politiche migratorie, l’esistenza di un modello canonico di immigrazione costruito secondo lo schema del Gastarbeiter, l’unico immigrante che può essere ammesso, il buon lavoratore, quello che occupa un posto di lavoro che a noi fa comodo senza che possa uscirne e per tutto il tempo che noi vogliamo. Un lavoratore docile, che riesca ad integrarsi facilmente, che sia quasi invisibile e facile da inviare al luogo di provenienza. Vale a dire, cambiano i presupposti, i bisogni, le condizioni e le cause delle correnti migratorie, e in questo modo, come si suol dire, i fattori di impulso (dall’origine) e di attrazione (verso la destinazione), i caratteri push/pull. Non sono univoci nemmeno i meccanismi e le caratteristiche dei movimenti migratori, a cominciare dalle rotte e le reti di trasporto, di inserimento o di insediamento. E, in particolare, come ha spiegato soprattutto Antonio Izquierdo, si tratta di fenomeni di flusso, e non di movimenti unidirezionali, in cui ci sono anche movimenti di uscita, e non soltanto di entrata, un fatto che le statistiche (per non parlare della propaganda ufficiale) non rendono visibile. Cambiano anche i progetti migratori, che sono fondamentalmente progetti di gruppo (se non altro, familiari), e questo riporta in primo piano il concetto di rete, ma anche il suo scopo e la durata.

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Infine, si tratta di un fenomeno integrale oppure, in altri termini, globale in un diverso significato del termine, poiché, come ci insegnò Mauss, l’immigrazione è un fenomeno sociale totale, che comprende diversi aspetti (lavorativi, culturali, giuridici, politici) dei rapporti sociali: racchiuderlo in un’unica dimensione, come si fa di solito —quella del lavoro, dell’ordine pubblico, della cultura— è uno sbaglio, come ci ha mostrato lo scrittore svizzero Max Frisch coniando un’espressione che è diventata celebre e che, nella sua semplicità apparente, contiene questo riferimento alla globalità: «chiediamo mano d’opera, ma arrivano persone». Peggio ancora: arrivano gruppi sociali. Tutto ciò richiede che il nostro sguardo diventi sensibile alla complessità: richiede di avere la pazienza necessaria per prendere conoscenza della realtà migratoria, senza lasciarsi trascinare dagli stereotipi che danno una maggiore resa nelle situazioni di conflitto che si incontrano nel processo, e che coinvolgono almeno tre agenti diversi: le società di provenienza, quelle di destinazione e gli stessi immigranti. 1.2. Il significato politico del fenomeno migratorio Non è difficile osservare che, nel caso della UE e degli Stati che ne fanno parte, è andato diffondendosi un modello di gestione dell’immigrazione che può essere definito in termini di politica strumentale e difensiva, di polizia di frontiera e di adattamento alle mutevoli circostanze del mercato di lavoro (comprese anche le esigenze dell’economia sommersa). Una politica di immigrazione che, in analogia a quanto avviene nel caso di alcune politiche di gestione della multiculturalità, si fonda paradossalmente sulla negazione del suo oggetto_, poiché cerca di negare la presenza dell’immigrante in quanto immigrante, ossia, come una persona il cui progetto —plurale— di vita può essere perfettamente quello di rimanere nel paese di accoglienza, almeno per un certo periodo, il che non significa però (e meno ancora nell’età della globalizzazione) che cerchi di rimanere per tutta la vita, come spesso accade nei progetti della prima generazione. Si nega la possibilità di essere emigrante per davvero, vale a dire, libero nel proprio progetto migratorio —qualunque esso sia—, fondato semplicemente sulla libertà di circolazione. Invece di ammettere questa possibilità o, quando meno, di non ostacolarla, si rende straniero l’immigrante, si cerca di stigmatizzarlo, immobilizzandolo nella sua differenza, come diverso/straniero e soltanto come lavoratore utile al nostro mercato formale di lavoro qui ed ora. Per questa ragione, gli vengono imposte condizione forzate di immigrazione, vincolate all’interesse esclusivo e strumentale della società di destinazione, che lo riceve soltanto come mano d’opera e per un periodo limitato. Si tratta di un modello di gestione dell’immigrazione costruito sulla base di alcune distinzioni che hanno la pretesa di essere scientifiche, ma che hanno un enorme contenuto normativo, e, soprattutto, che sono schematiche, come è stato illustrato per esempio da Castles o da Bauböck. Il fatto più grave è che queste categorie, a dispetto della sua presunta oggettività, non hanno alcun riscontro nella realtà e, di conseguenza, difficilmente possono essere strumenti efficaci per gestirla. La cosa più grave è che ignorano la realtà, perché cercano soltanto di negarla, rifiutando di conoscerla. In questo modo arrivano a stabilire una differenza tra immigranti buoni e cattivi, cioè tra quelli che si adeguano al

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modello di ciò che noi riteniamo sia un immigrante necessario (quella che trova spazio nella congiuntura ufficiale del mercato formale di lavoro, che può essere assimilato culturalmente, che è docile), e gli altri, che sono da respingere, sia perché sono delinquenti (compiono atti punibili, tra cui in primo luogo quello di attraversare clandestinamente i nostri confini, il che consente di stabilire subito un collegamento con le mafie), sia perché la loro accettazione risulta impossibile (perché superano la nostra disponibilità lavorativa o perché non possono essere assimilati): quelli che per diverse vie altro entrano a far parte dell’esercito di riserva della delinquenza e, portando l’argomento all’estremo, sono la causa del razzismo e delle manifestazioni di xenofobia contro gli immigranti buoni. Ancora di più. Come ha spiegato Castles, gran parte delle politiche contemporanee in materia di immigrazione hanno elaborato una tipologia ancora più efficace, ancora più “scientifica”, che consente di stabilire la differenza tra immigrazione vera e falsa. Falsa è l’immigrazione “forzata” —come se l’altra fosse invece perfettamente libera—, quella che avviene nelle circostanze classiche di asilo e rifugio, assieme ai fenomeni più recenti che definiamo come movimenti di massa, quelli che riguardano le popolazioni che fuggono da ogni tipo di catastrofi, sia di origine naturale —terremoti, carestie, allagamenti, siccità— o sociale —guerre civili, conflitti etnici, religiosi, ecc.—. Quest’ultima categoria, quella della falsa immigrazione, trova oggi e —per noi occidentali— una redditizia aggiunta: quella dello spirito “umanitario”, per cui diventa possibile scordarsi del fatto che si tratta di un fatto che deve essere gestito nell’ambito delle politiche di immigrazione, eccetto nel caso in cui sia opportuno stabilire meccanismi di sorveglianza per evitare che gli immigranti tout court cerchino di “infilarsi”, utilizzando in modo truffaldino questa via. Invece, per essere certi che effettivamente ci troviamo in presenza di immigrazione del primo tipo, quella vero, quella cioè —non c’è bisogno di dirlo— economica, quella dei lavoratori, gli viene imposto il vecchio schema del Gastarbeiter, del guest worker, del lavoratore di passaggio, che continua a essere, prima di tutto, uno straniero. Questo schema serve a rendere esplicito al di sopra di ogni altra considerazione che la persona non è un immigrante, perché non si vuole ammettere la possibilità che assuma una posizione diversa da quella del lavoratore; ancora di più, di lavoratore che appartiene a una categoria particolare. Nel caso del Gastarbeiter non c’è, non è possibile che ci sia, volontà di integrazione, perché non è ammessa la pretesa di arrivare a radicarsi in modo stabile (anche se non necessariamente definitivo, ci tengo a precisare ancora una volta). Non vi è integrazione, perché l’integrazione richiede di accettare che l’immigrante possa diventare una parte attiva in un processo bidirezionale che porta un cambiamento nella società di destinazione. È per questa ragione che la Bild poteva intitolare l’estate scorsa una notizia su un programma di collocamento nel territorio della Germania Occidentale di tecnici informatici provenienti dalle Università dell’India con le seguenti parole: Inder, nich Kinder! (abbiamo bisogno di indiani, lavoratori indiani specializzati in informatica, ma non se ne parla di rimanere da queste parti per creare una famiglia e vivere dalle nostre parti anche dopo la fine del contratto). Per questo una delle condizioni più elementari del processo di integrazione come è quella dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, non viene riconosciuta come tale, ma come un problema, come una porta indesiderata per l’ingresso di pseudo-immigranti (poiché non sono altro che familiari del lavoratore, l’immigrante vero). Per questo non viene presa in considerazione la priorità

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delle condizioni di residenza permanente o di piena libertà di circolazione nelle due direzioni. Per questo l’insistenza nella pretesa di riconoscere soltanto i diritti umani universali e, persino questi, in modo molto limitato. Per questo diventa inconcepibile l’idea che l’immigrante sia un possibile concittadino_. Questa immagine dell’immigrazione non è né necessaria, né razionale, né l’unica possibile. A mio avviso, è piuttosto il contrario. Dobbiamo mettere da parte quella visione miope, che deforma il fenomeno migratorio. In questo modo, arriveremo a modificare le nostre risposte all’immigrazione, perché di fatto è possibile uno sguardo diverso, un altro concetto d’immigrazione. È arrivata l’ora di scegliere con rigore e serietà tra due immagini opposte dell’immigrazione, in base alle quali sono state costruite anche due diversi tipi di risposta, due modelli di politica migratoria. Infatti, se pensiamo l’immigrazione soltanto come uno strumento del mercato globale, il modello politico si orienta verso una gestione che assicura il contributo che essa da allo sviluppo, al profitto, al nostro profitto. Se, invece, riconosciamo che la realtà consente di arrivare ad un altro modo di vedere i flussi migratori (paradossalmente, con una visione realistica e fondata sul senso comune; dico —non pragmatica— e devo aggiungere subito che la mia idea di ciò che è il senso comune non è molto comune), è probabile che la risposta si orienti verso una politica diversa, costruita sulla base di relazioni internazionali eque e che trova strumento di azione fondamentale in un concetto che non può essere molto diverso da ciò che oggi conosciamo come co-sviluppo (codesarrollo), nel senso di sviluppo mutuo (non solo sviluppo in ambito economico, ma anche umano), secondo quanto cercherò di precisare in seguito. La necessità della scelta diventa estremamente chiara nel momento che si prendono in esame le alternative a disposizione nella configurazione dei due assi portanti in assenza dei quali —secondo quanto affermano in maniera concorde gli esperti, come Sami Naïr— non ci può essere una politica di immigrazione. Il primo di carattere indiscutibilmente internazionale; e l’altro sostanzialmente interno, nazionale (seppure in paesi come quelli della UE è necessario darne una definizione in termini regionali). a) Il fattore internazionale della politica di immigrazione è quello relativo alla gestione dei flussi, del transito o circolazione degli immigranti (mi preme sottolineare l’uso del termine gestione, che non è sinonimo di dominio o di controllo unilaterale). È ovvio che si può ammettere qualunque tipo di gestione dei movimenti migratori. Deve essere necessariamente una gestione efficace, ma soprattutto una gestione legittima, il che significa che deve essere una gestione che rispetti i principi dello Stato di diritto, secondo cui sembra necessario riconoscere la parità nei diritti, una parità che non può essere limitata soltanto alla parità nei diritti fondamentali_. In definitiva, per quanto riguarda questa prima dimensione, la gestione dei flussi migratori, della loro circolazione, chiama in causa il rapporto esistente tra i paesi di destinazione e quelli di origine dei flussi e del transito, ed è qui che si presenta la possibilità di definire la questione in uno di questi due modi alternativi: a.1) Ritenere che la politica di gestione internazionale dei flussi sia un prolungamento dei compiti di polizia di frontiera o di sorveglianza del traffico dei paesi di origine o di transito e, soprattutto, nei paesi che sono disposti a collaborare efficacemente al rimpatrio o espulsione degli immigranti, in modo

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tale che sia possibile impedire l’uscita o il transito di tutti coloro che non saranno ammessi nei paesi di destinazione. a.2) Intendere questa politica nei termini di un’associazione fra i paesi di provenienza, di transito e di destinazione, in modo che i flussi migratori siano benefici per tutti, e al tempo non siano lesivi della libertà. È a questo proposito che diventa esplicito il valore di un ambizioso programma che riesca a creare legami associativi tra i paesi di destinazione e quelli di provenienza e faccia dell’immigrazione uno strumento positivo per entrambe le parti e per gli immigranti stessi, che sono i veri protagonisti del processo, anche se spesso ce ne dimentichiamo. b) Il secondo fattore, quello interno, riguarda la presenza dei movimenti migratori nei paesi di destinazione e, quindi, le vie di entrata, le vie di ingresso, e il regime giuridico di permanenza e di uscita. Ancora una volta possiamo scegliere tra due soluzioni diverse, tra due modi di intendere i diversi aspetti della politica di immigrazione. b.1. Da un lato, la pretesa di ridurre la sfera di applicazione alle operazioni di polizia del traffico e, di conseguenza, il tentativo di ottimizzarne la sorveglianza, le entrate e le uscite, i filtri e i meccanismi di espulsione, per garantire che arrivino soltanto gli immigranti che devono arrivare, che ne rimangono soltanto quanti ne vogliamo, fin a quando vogliamo che rimangano e nelle condizioni che noi vogliamo averli. È ciò che in altri scritti (de Lucas 2002a, de Lucas, 2003) ho definito il modello Blade Runner, di cui abbiamo un buon esempio nel “programma Ulisse”, un’iniziativa europea, fortemente reclamizzata, che è stata lanciata dall’asse Aznar, Blair, Berlusconi, e che ha cominciato a dare i primi passi nel gennaio 2003. b.2. L’altra possibilità, che pur non ignora questi aspetti, sottolinea che non esiste né legittimità né efficacia in queste politiche se non si tiene presente il rispetto dei diritti di quelle persone che pretendono di entrare e di uscire, e, soprattutto, dei meccanismi —le politiche pubbliche— di integrazione degli immigranti o di radicamento, secondo il concetto che preferiscono utilizzare Ricard Zapata e Jeff Halper_. Il dibattito sulle parole (integrazione, assimilazione, radicamento, partecipazione) è interessante, ma spesso anche sterile. Ciò che importa —a mio avviso— è arrivare a ottenere quello che più avanti vorrei chiamare integrazione politica, richiamandomi a una nota terminologia usata da Phillips e che altri autori preferiscono definire come partecipazione degli immigranti alla vita pubblica e alla società civile in condizioni di eguaglianza. Come vedremo in seguito, l’agenda europea non sembra disposta ad avanzare in questi due campi seguendo gli indirizzi che a me sembrano più opportuni in termini di legittimità, ma anche di efficacia. Invece, l’aspetto internazionale (la politica di accordi con i paesi di origine e di transito delle correnti migratorie che hanno come destinazione finale l’UE) sembra essere orientato verso l’obiettivo di stabilire rapporti associativi con questi paesi esclusivamente per quanto riguarda la funzione di polizia di frontiera, secondo le priorità di questa politica in materia di lotta contro l’immigrazione illegale e contro le mafie. Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello della priorità delle politiche di integrazione degli immigranti, non sembra facile avvicinarsi agli obiettivi

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proposti se, come avviene nella UE, si diffonde la visione strumentale dell’immigrante come Gastarbeiter, del lavoratore di passaggio, come risulta evidente dal trattamento della questione del ricongiungimento familiare o della segmentazione dei diritti sociali —e peggio ancora di quelli politici—, o il rifiuto del riconoscimento di uno status di residenza permanente europea, equiparata alla cittadinanza, per gli immigranti radicati in modo stabile. Tutto ciò, rimanda al predominio di un modello poliziesco di gestione dell’immigrazione che istituisce una specie di corsa ad ostacoli, in cui inoltre è sempre aperta la possibilità di regressione, la ricaduta nell’illegalità, a causa del circolo vizioso che si è creato tra la concessione del permesso di residenza e di lavoro, e a causa della finzione secondo cui tutti i flussi migratori dovrebbero essere canalizzati attraverso le procedure contrattuali previste nei paesi di origine. Questo modello è conseguenza —come si diceva prima— del fatto che le politiche di immigrazione (europee, spagnole) ignorano la realtà dei fenomeni migratori a cui dobbiamo far fronte oggi nella UE, perché la sua immagine del fenomeno migratorio non arriva a cogliere le sue caratteristiche reali: continua a essere miope, parziale, unilaterale, semplicistica. Invece, se prendiamo sul serio i fenomeni migratori come elemento strutturale di un tipo di società diverso, che emerge nel nostro tempo, abbiamo bisogno di un tipo di risposte diverse agli interrogativi politici fondamentali. Detto in altri termini, abbiamo bisogno non tanto di una politica diversa per o sull’immigrazione, quanto di un’altra politica. E a me pare che sta cominciando a crearsi un rilevante stato di opinione sulla priorità di questo obiettivo, ad esempio tra gli studiosi delle scienze sociali (direi soprattutto in alcuni settori della scienza e della filosofia politica y della sociologia e le relazioni internazionali). Si pensi al lavoro di Zolberg, Bauböck, Castles o Carens e alle riflessioni che in ambito spagnolo hanno portato avanti Zapata, Rubio Marín o López Sala. La necessità di un serio cambiamento di rotta è avvertita egualmente, ed in misura crescente, da responsabili politici, militanti e persone che fanno parte delle organizzazioni che lavorano nel mondo dell’immigrazione. Sarà opportuno spiegare con precisione il mio obiettivo. Non mi sfugge che quando il discorso si sposta sulle priorità si apre sempre la questione delle interpretazioni. Per questo, non mi azzardo a dire che non sia rilevante —come direbbe un classico— pensare il da farsi nel frattempo. È ovvio che questo è importante. Non disdegno affatto la riflessione sulle politiche di immigrazione e sulla loro attuazione. È ovvio che abbiamo bisogno di pensare soluzione da mettere in pratica subito e anche a medio termine, per dare risposta alle sfide demografiche, culturali, lavorative, economiche, ecc. che i fenomeni migratori oggi ci presentano. Ciò significa che dobbiamo prendere conoscenza della realtà di questi fenomeni, capirne le cause, scoprire che cosa sono, come sono organizzate, quali sono le reti, i progetti e i bisogni. Studiare, ascoltare, imparare a conoscere i protagonisti. Così, dopo aver preso conoscenza della realtà (e non di ciò che vorremmo che fosse la realtà, non dei discorsi sull’immigrazione che la maggior parte delle volte hanno uno scopo diverso da quello della conoscenza, ma dei discorsi che l’immigrazione stessa produce), dovremmo articolare strumenti di gestione dei flussi, e della presenza dell’immigrazione, in settori tanto diversi come quello della prima accoglienza, delle politiche a medio e lungo termine, della scuola, la casa, il ruolo dei sindacati e dell’impresa, quello della pubblica amministrazione, dei media, ecc.

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In questo modo, riusciremo a metterci nelle migliori condizioni per fare fronte alle difficoltà che crea l’immigrazione a breve e medio termine. Tuttavia, sono convinto che dobbiamo fare un passo avanti, oppure, in altri termini, che la questione prioritaria è quella di pensare ciò che prima si presenta alla nostra attenzione, l’idea stessa del politico e il criterio del giusto, o, come forse preferiscono dire i filosofi della morale e della politica, il rapporto tra giustizia e immigrazione in termini diversi da quelli del mercato. È questa la priorità anche se una certa logica politica si sforza di farci credere il contrario, dicendo che si tratta di una questione superflua che si risolverà da sé, alla fine del processo. Ancora di più, penso questa sia la priorità proprio perché l’altra visione è sbagliata o, peggio, perché l’altra visione vuole trarci in inganno. A me pare che sia prioritario trovare nuovi argomenti (perché, ripeto, oggi ce ne sono già diversi in circolazione) per affermare che le questioni preliminari —la concezione di ciò che è politico, il criterio di ciò che è giusto— sono proprio quelle che sono in attesa di un’opera più attenta di revisione critica, nella prospettiva del nostro modello di gestione dei flussi migratori, delle nostre politiche di immigrazione, che in questo modo rappresentano un’occasione privilegiata per passare ad una sfida ancora più ambiziosa, quella di pensare in un modo diverso la politica. 1.3. Migrazioni: Una questione di legittimità internazionale. Questo è il punto. Pensare la politica nel contesto di un mondo in cui è in atto un processo di globalizzazione; nel contesto di società che diventano sempre più dipendenti e, al tempo stesso, sempre più complesse e plurali, sempre più multiculturali. In questo senso, il compito prioritario è quello di rivedere i criteri normativi che consentono l’istituzionalizzazione del politico. Perché la questione non è quella di sistemare le persone che emigrano nel nostro ordine di cose, secondo la logica del mercato, di quella ratio oeconomica che valuta ogni situazione in termini di profitto. La questione è che sono proprio i flussi migratori, diventati ormai un fattore strutturale nel nostro mondo in movimento, quelli che ci consentono di percepire quell’ordine di cose che deve cambiare. Ma, in che modo? Come identificare i cambiamenti necessari? Di fronte a questa rappresentazione della realtà, a questa deformazione dei flussi migratori, abbiamo bisogno —ripeto— di un nuovo sguardo. In queste pagine vorrei dare il mio contributo alla nascita di questo nuovo modo di vedere le cose, di questa nuova riflessione, nel contesto specifico dei paesi della UE, cercando in particolare di cogliere l’occasione (e il rischio) per suggerire la necessità di produrre cambiamenti di fondo nel nostro discorso politico, nell’ambito interno ed in quello internazionale. Uno sguardo diverso che eviti di cadere nella tentazione umanitaria (caritatevole, paternalistica), ma anche nel cinismo strumentale che concepisce l’immigrazione in termini di calcolo, di profitto, che la riduce a operazioni di contabilità, di statistiche, che la ammette come necessità ma in funzione delle esigenze del mercato, così come della demografia. Uno sguardo diverso che si allontani dalla prospettiva settoriale; che superi la distanza nella rappresentazione degli immigranti come qualcosa di estraneo, come una questione periferica che sarebbe bene lasciare così com’è, evitando di creare disagio, di alterare la nostra stabilità, il nostro modello di società, la nostra fetta della torta. Uno sguardo diverso che ci

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consenta di pensare un’altra concezione della politica, in virtù di un altro metodo di analisi e di lavoro. Ovviamente, non ho a disposizione le risposte per costruire un’alternativa, per identificare le trasformazioni necessarie e in che modo realizzarle. Non è questo il mio obiettivo. Mi preme soltanto dare alcune indicazioni, segnalare alcune vie —un metodo, in fin dei conti— che ci consenta di sfruttare l’occasione che ci è offerta dal fenomeno dell’immigrazione per pensare una politica diversa. Si tratta di formulare alcuni quesiti o, meglio, di identificare quali sono i quesiti più rilevanti in materia. Indicherò due tipi di interrogativi che si riferiscono a due aspetti della politica di immigrazione, e rimanderò le mie risposte fino al terzo paragrafo di questo intervento. (A) Innanzitutto, è necessario dare ascolto alle questioni sollevate dai flussi migratori in materia di legittimità delle relazioni internazionali, ossia, alle trasformazioni derivate da ciò che rappresentano questi flussi nel contesto del processo di globalizzazione (e del processo di "dicotomizzazione"). Secondo me, si manifesta in questo modo la necessità di rivedere il ruolo degli Stati nazionali e degli agenti del mercato globale (le società transnazionali) come i soli attori protagonisti. Ancora di più, come hanno affermato fra gli altri da Baumann, Beck, Castells, George, Morin, Santos, Naïr, Petrella, Ramonet o Stiglitz_, sta diventando sempre più urgente la critica —e le alternative— al progetto che alcuni di questi autori hanno definito come fondamentalismo liberista, che si traduce nel monopolio del mercato globale (che equivale, in definitiva, al protagonismo assoluto nella società globale) da parte dei suoi agenti, data l’incapacità dei primi di tenerli forse non più sotto controllo assoluto (con la vecchia sovranità politica, che fu monopolio degli Stati nazionali, ridotta ormai in agonia), ma quando meno sotto alcuna minima forma di controllo. Come scrive Naïr_, «l’anarchia dei flussi è una conseguenza dell’anarchia del processo di mondializzazione economica» (mondializzazione è il termine che egli preferisce usare per parlare di globalizzazione). Naïr sposta così l’accento su di un obiettivo che egli condivide con tutti i critici dell’ideologia global-liberalista, la priorità di governare questo processo di mondializzazione, di sottoporlo a regole. Il problema è che per il momento non è stata prodotta ancora una risposta politica che sia all’altezza delle trasformazioni in corso. Insisto nel nocciolo di questa critica. Ciò che chiamiamo globalizzazione, che non è affatto universalizzazione, si avvicina sempre di più all’ossimoro proposto dal subcomandante Marcos o da John Berger: «La povertà del nostro secolo non può essere paragonata a nessun’altra, perché non è —come una volta— il risultato naturale della scarsità naturale, ma di un insieme di priorità imposte dai paesi ricchi al resto del mondo». Per questo stesso motivo è una «globalizzazione frammentaria» oppure, come sostiene Robertson, una glocalizzazione. Questa è la situazione se prendiamo per vera la descrizione della globalizzazione che è stata proposta da diversi autori. Ad esempio, da J. Estefanía: per globalizzazione si intende «un processo per mezzo del quale le politiche nazionali diventano sempre meno rilevanti, mentre le politiche internazionali, quelle che vengono promosse lontano dai cittadini (da persone che non sono mai state elette e non avranno mai l’obbligo di assumersi le responsabilità, che per altro cercano di evitare con ogni mezzo) lo diventano sempre di più». Il problema è che la globalità, vale a dire, l’interdipendenza, la

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deterritorializzazione, la transnazionalità del capitale, della finanza e del commercio, non comporta la globalizzazione delle risorse né del controllo democratico. Già Weber, come ricorda Baumann, aveva richiamato l’attenzione sull’obiettivo di affrancamento da ogni regola o da ogni strumento di controllo che il progetto di globalizzazione che accompagna il neoliberalismo, ragion per cui mi sembra che siano pienamente giustificati gli aggettivi che ho appena ricordato, neoliberalismo fondamentalista (Stiglitz) o, addirittura, totalitario (Beck)_. In realtà, Weber aveva intravisto questa emancipazione dell’economico da ciò che è domestico, ma —come del resto segnala anche Baumann— oggi dovremmo parlare di una seconda emancipazione, dell’economico dal politico. La globalizzazione è sostanzialmente un processo di interdipendenza, accelerato dalle trasformazioni tecnologiche e informatiche, che comporta alterazioni nel sistema produttivo: delocalizzazione e, per ciò, assenza di controllo. In questo modo, l’ideologia globalista è arrivata a diventare la grande minaccia che illustra Beck con il concetto di “Risikogesellschaft”; la modernità industriale ha creato una società del rischio globale in cui si moltiplicano i pericoli di carattere politico, economico, tecnologico e sociale, che portano al fallimento i sistemi di sicurezza esistenti, e alla fine il concetto stesso di sicurezza, e nella quale il futuro è diventato soprattutto una minaccia. Ramonet ha descritto nei suoi lavori le caratteristiche, l’oggetto e gli esiti dell’attuale processo di globalizzazione, che è uno tra i diversi modelli possibili di questo fenomeno. Del resto, si tratta di un fenomeno che non è per niente nuovo, fino al punto che può essere definito come un nuovo passo avanti —certamente diverso dal punto di vista qualitativo— nello sviluppo del capitalismo contemporaneo verso un modello ultraliberale. Ramonet parla di un modello che si distingue per la grande presenza di nuove tecnologie, per l’egemonia dei mercati finanziari in lotta contro ogni tentativo di regolazione, per il predominio di una concezione dello sviluppo economico di taglio iperproduttivistico, speculativo e suicida, che è completamente indifferente ai costi ecologici che, letteralmente, stanno avvelenando il pianeta (sia le risorse naturali, sia gli esseri viventi). E insiste sul fatto che osservazioni analoghe possono valere anche nei confronti del concetto di sviluppo che ne fa da sfondo, perché non vi è alcuna somiglianza tra l’ideale, incessantemente ripetuto, dello sviluppo “sostenibile” e le proposte per lo sviluppo che il Nord impone al resto del mondo —eccetto all’interno della sua cittadella—, e se ci rivolgiamo agli indicatori di “sviluppo umano” il panorama diventa semplicemente disperato. Le conseguenze dal punto di vista di questa sorta di "dicotomizzazione" del mondo sono altrettanto evidenti, come ricorda il direttore di Le Monde Diplomatique, ed è sufficiente osservare come va scomparendo un intero continente —l’Africa— e come avanza il processo di destrutturazione di buona parte dei paesi di quello che continuiamo a chiamare terzo mondo. Povertà, miseria, malattia, sono la regola; la nostra ricchezza, la nostra comodità, la nostra speranza e qualità di vita, sono invece l’eccezione, a cui possono ambire soltanto gli abitanti delle isole di benessere del Nord, secondo l’immagine del “modello arcipelago” proposto ancora una volta da Ramonet_. È sempre quest'ultimo a suggerire con chiarezza che il problema sta in ciò che hanno visto alcuni sociologi, tra cui Morin, economisti come Beck o Petrella e che filosofi come Habermas potrebbero descrivere come “contaminazione del mondo della vita da parte del sistema economico”:

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l’economico —in realtà una particolare concezione, quella ultraliberale, secondo Ramonet— si è resa autonomo, ed è questo il dogma dell’ideologia neoliberale che, con una battuta non senza qualche ragione, Ramonet stesso definisce paleomarxista: il dogma di questo pensiero unico (un’altra categoria oggi di uso comune, ma che fu inventata dall’autore) è proprio l’egemonia di questa versione della ratio oeconomica rispetto a qualsiasi tentativo di regolazione da parte della politica («i mercati governano, i governi gestiscono», secondo l’affermazione di M. Blondel, parafrasando H. Tietmayer, citata da Ramonet), del diritto, dell’etica, quelli che erano i vecchi strumenti di cui si è servita la cultura per cercare di dominare la forza. Ciò spiega inoltre la crisi della politica, della democrazia, in modo più preciso di quanto non si possa facendo riferimento alla crisi dello Stato e del diritto, e rende un’idea dei dubbi che circondano l’opportunità di seppellirli, lo Stato e il suo diritto, poiché questi sono i soli mezzi che possono tentare di tenere sotto controllo —per quanto inefficaci siano, ovviamente— la capacità planetaria, senza confini, dei nuovi signori del mondo globalizzato che si scostano dal pubblico per affermare il primato di uno spazio privato (ricoperto dalla nobile veste della “società civile”) che sta diventando ancora più privato, in quanto estraneo agli altri, irraggiungibile, senza tener conto del fatto che le scelte —incontrollabili— che avvengono in questo spazio riguardano tutti noi. Abbiamo bisogno di un’alternativa a questo ordine del mondo —un ordine imperiale— che si sforza di costruire il processo di globalizzazione. Un ordine imperiale che, ripeto, è legato a una fase di espansione del capitalismo di mercato e rivela la presenza di un progetto colonialistico, questa volta con ingredienti giuridici e politici relativamente diversi a quelli che avevano accompagnato nell’ottocento la prima espansione coloniale, come è stato opportunamente mostrato da Remiro (Remiro, 1996), in un lavoro che anticipa certi aspetti del dibattito a cui in seguito hanno partecipato Huntington e i suoi ammiratori. E per costruire questo mondo diverso occorre cominciare ancora una volta da una emancipazione. Ora si tratta dell’emancipazione della società civile, della cittadinanza globale, da quel mostro che la tiene in ostaggio, dalla belva feroce —come avrebbe detto il filosofo— che è il mercato senza regole, che cerca di monopolizzare la società globale, di rapirne la voce. In questo modo, costruire un mondo diverso significa imparare a governare il mercato globale, a controllarne gli agenti. È questo il passo che ci consentirà di recuperare il politico. (B) Il secondo tipo di questioni sono quelle che si pongono sull’altro versante delle politiche di immigrazione, quello relativo alla gestione della presenza degli immigranti nelle società di destinazione. Gli interrogativi in questo ambito sono: Quali sono le condizioni (gli strumenti) del riconoscimento effettivo del principio giuridico dell’eguaglianza? E, in secondo luogo, quali gli strumenti per costruire una cittadinanza plurale e inclusiva? In questo secondo contesto, gli interrogativi riguardano, da una parte, la giustificazione della logica della segmentazione giuridica in materia di garanzie dello Stato di diritto e di universalità dei diritti dell’uomo; e, dall’altra, le esigenze di una democrazia plurale e inclusiva. Ormai non è più possibile continuare a ignorare il crollo di legittimità, l’erosione dei principi dello Stato di diritto e della democrazia che deriva dal drammatico contrasto tra il presunto universalismo della nostra cultura giuridica

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e politica, e l’istituzionalizzazione della diseguaglianza giuridica, che si traduce in situazioni quasi aporetiche di istituzionalizzazione dell’esclusione sociale (situazioni che vanno oltre la discriminazione), e che sono addirittura aggravate dalla rivendicazione di principi repubblicani o di patriottismo costituzionale che vorrebbero risolvere le difficoltà che si presentano in un contesto in cui la multiculturalità diventa sempre più visibile. L’evidenza della funzione sociale strumentale, residuale, che svolge l’immigrazione, vale a dire, la riduzione degli immigranti a lavoratori vulnerabili e a termine, se non a semplici strumenti di lavoro, al tempo che —come dimostrano ad ogni occasione ricerche e analisi— le politiche universalistiche dello Stato sociale finanziate in misura non trascurabile dai contributi degli immigranti, richiede una soluzione non parziale, una vera e propria alternativa alle politiche migratorie attuali, che possa essere integrata in una alternativa politica globale. Un’alternativa che non cerchi di sminuire il valore del politico. Perché mi preme sottolineare che il problema rilevante è proprio questo: l’esclusione istituzionale degli immigranti dallo spazio pubblico, giustificata in termini assiomatici o, in ogni caso, per mezzo di argomenti paternalistici come quelli che —secondo me— propone Whitol der Wenden_. Questa esclusione comporta un deficit costitutivo di legittimità, in due dimensioni diverse. In primo luogo, perché non vi può essere integrazione politica se la dimensione etnoculturale diventa condizione di integrazione politica (e se l’unica giustificazione di questa discriminazione è il fatto di essere straniero, di essere una persona estranea alla comunità in virtù della nascita o dell’identità culturale). In secondo luogo, perché si impedisce l’accesso dell’immigrante allo spazio pubblico riducendolo in una posizione atomistica, eccessivamente individualistica. Per questo gli viene negato il riconoscimento dei diritti che consentono l’accesso per mezzo di modalità di azione collettiva: riunione, associazione, sciopero, ecc. È sulla base di queste considerazioni che diventa possibile prendere in esame e comprendere le critiche più frequenti alle politiche di immigrazione dei paesi della UE. Oggi le politiche migratorie a livello globale sono contrassegnate dalla limitazione, totale o parziale, delle migrazioni per ragioni economiche, dal moltiplicarsi delle cause che impediscono di attraversare i confini e che giustificano l’espulsione, dalla sostanziale negazione del diritto di rifugio riconosciuto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dall’incremento dei finanziamenti pubblici per la polizia di frontiera, dall’assenza di politiche pubbliche di accoglienza e di integrazione e dal fallimento di quelle preesistenti, dalla costruzione di quelli che vengono chiamati centri di accoglienza provvisoria ma che sono in realtà “centri di detenzione”: veri e propri campi di concentramento, in cui sono trattenuti gli immigranti, ma anche le persone che chiedono rifugio, che non hanno commesso alcun crimine e che hanno soltanto la “colpa” di non avere il permesso di residenza_. Queste politiche restrittive hanno come obiettivo quello di monopolizzare la libertà di assorbire o di espellere la mano d’opera straniera a basso costo, una libertà che diventa più facile da spendere quando si è riuscito a impedire agli immigranti di entrare legalmente nel territorio e quando gli si nega l’acquisizione dello status giuridico. Ma il punto rilevante è che sono proprio queste politiche, questo tipo di legalità particolarmente avaro, che produce l’illegalità, che spinge gli immigranti all'emarginazione, all’esclusione ed, infine, non di rado, alla illegalità, quello che

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li porta a scendere a patti con le mafie, ad accettare qualunque lavoro, a qualsiasi prezzo. Sono queste politiche quelle che rendono possibile l’esclusione degli immigranti dai sistemi di protezione sociale (comprese le reti private alternative) e che ne giustificano la stigmatizzazione. È da qui che sorge la necessità di domandarsi in quale modo orientare l’edificazione del vincolo sociale, e, su questa base, un nuovo rapporto tra comunità sociale e comunità politica, fra etnos, popolo e demos, che possa evitare questa aporia costitutiva. In altre parole, una riflessione che vada oltre la necessità pratica (e indiscutibile) di giungere ad un accordo di Stato in materia di immigrazione. Non c’è dubbio che ne abbiamo bisogno. In realtà, abbiamo bisogno di qualcosa di più di ciò che si intende comunemente con l’espressione accordo di Stato. Perché non si tratta soltanto di un accordo tra i partiti per mettere l’immigrazione fuori dal campo del confronto elettorale. Si tratta piuttosto di porre le basi di un accordo sociale che coinvolga tutti gli agenti sociali (non soltanto quelli istituzionali, né soltanto quelli politici) che hanno voce in capitolo, tra cui in particolare gli stessi immigranti e gli agenti sociali delle società da cui provengono i flussi migratori. Ma addirittura molto di più, perché il carattere globale delle migrazioni e la nostra situazione locale —quella di paesi membri della UE—, per non parlare ancora una volta del processo di globalizzazione, allargano notevolmente il quadro dei protagonisti. E ancora di più abbiamo bisogno di riflettere sui presupposti di questo patto, sul modo di concepire la politica, i suoi agenti, i suoi strumenti. È questa, secondo me, la grande sfida che si apre in occasione del fenomeno migratorio. Ma torniamo all’argomento che ci interessa più da vicino, l’analisi del versante internazionale delle politiche di immigrazione, e, in quella cornice, il ruolo delle politiche di sviluppo, di cooperazione, e di co-sviluppo. 2. Le politiche di immigrazione nella UE ed in Spagna 2.1. Le conseguenze della strategia nata all’indomani dell’11settembre Il bilancio negativo delle politiche di immigrazione praticate in Spagna negli ultimi 15 anni e lo scarso successo delle iniziative della UE in questa materia nello stesso periodo, è diventato ormai un luogo comune. Le ragioni di questo processo sono complesse e non è opportuno dilungarsi sui particolari_. Mi occuperò soltanto delle cause dell’evidente fallimento di tutte le iniziative prese in ambito internazionale, a cominciare da una che, secondo me, non ha richiamato l’attenzione che merita. Mi riferisco alle conseguenze degli eventi dell’11 settembre del 2001 sulle politiche di immigrazione_, conseguenze che sono tanto evidenti quanto negative. Nelle prossime pagine cercherò di elaborare alcuni argomenti a proposito di questa svolta e, in particolare, a proposito della rinuncia a quelli che si pensava che fossero i principi fondamentali delle politiche internazionali in materia di immigrazione, come

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risulta dall’esperienza dell’UE e di gran parte degli Stati che ne fanno parte, fra gli altri, anche la Spagna. So bene che questa non sembra in questo momento una questione prioritaria dal punto di vista della politica nazionale in Spagna. Ancora una volta la lotta contro il terrorismo continua a monopolizzare l’agenda politica. E ciò ha un rapporto evidente, a mio avviso, con il quadro globale che si è presentato all’indomani dell’11 settembre e con una delle sue conseguenze più nocive (del resto, non nego che ci possano essere state anche conseguenze positive): l’inquinamento —fino al limite della distruzione— del dibattito politico, della politica, che ci riporta alla vecchia concezione schmittiana che riduceva la politica alla dialettica amico/nemico e, per ciò, chiamava in causa il dictum di Klausewitz della politica come continuazione della guerra con altri mezzi. La politica e, in particolare, la concezione della politica che sostiene l’Amministrazione Bush jr., finisce per essere dominata dalla logica della guerra che subordina tutte le ragioni alla logica suprema della ragion di Stato, la stessa logica che regnava sovrana al tempo della guerra fredda_. Questa concezione della politica, delle sue priorità stabilite nella prospettiva di una particolare versione della sicurezza (che rinuncia persino a essere sicurezza nel diritto, certezza giuridica), ha notevoli conseguenze dal punto di vista della cittadinanza, dei diritti, dello statuto giuridico e politico della dissidenza. A differenza di quanto alcuni affermano con tutta tranquillità, il suo obiettivo non è la difesa del principio di legalità, del diritto, perché la prima vittima è stata, ed è ancora, proprio questa: la degradazione di quel contributo fondamentale alla civiltà che è il modello dello Stato di diritto. Di ciò si hanno molteplici esempi in contesti diversi, ma oggi dobbiamo occuparci soltanto di quello dell’immigrazione. Cercherò di descrivere le conseguenze in questo campo e cercherò di dare alcune risposte, che a me sembrano quasi ovvie, ma come ebbe a dire l’artista, sono brutti tempi quelli in cui è necessario combattere per ciò che è ovvio. Oggi, quando sono trascorsi ormai due anni dall'11 settembre, non c’è dubbio che i tempi non sono felici, in particolare per le persone più vulnerabili, quelle di cui la protezione, nella felice interpretazione progressista che Luigi Ferrajoli ha dato del vecchio Hobbes (il diritto non dovrebbe essere altro che la “legge del più debole”), rappresenta la più forte ragion d’essere del diritto e dello Stato, la miglior fonte di legittimità. Sì: la diseguaglianza, la vulnerabilità, le asimmetrie di potere e di posizione economica richiedono risposte come quelle che cerca di dare l’artificio dello Stato di diritto, e in particolar modo, anche se può sembrare demodé ricordarlo oggi, lo Stato sociale e i suoi agenti, tra cui i sindacati che devono avere un ruolo fondamentale, per quanto ciò richieda una ridefinizione dei suoi compiti che sta a cuore a molti di noi. Tra quelli che sopportano in prima persona questi mali (le donne, i bambini, gli anziani, i disoccupati, coloro che non hanno accesso ad un posto di lavoro dignitoso), tra quelli che possono essere identificati dalla loro condizione di vulnerabilità, si trovano proprio gli immigranti: a loro rivolgiamo ancora una volta il nostro sguardo. Ma non per fare della carità o del paternalismo. Non per addolcire lo statuto della nuova schiavitù. Non per riciclare i pregiudizi di una visione neocolonialistica, quella del mercato globale, che istituzionalizza la loro esclusione descrivendola come un costo razionale. Ma per parlare della possibilità reale dell’inclusione, dell’accesso alla cittadinanza e ai diritti, delle garanzie del principio di legalità, dell’eguaglianza. Per parlare di accesso alla

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cittadinanza, dei mezzi e degli ostacoli che si frappongono ad un’integrazione che non sia frutto dell’imposizione. Abbiamo fatto qualche passo avanti in questa direzione negli ultimi due anni? La risposta, senza ombra di dubbio, è no. Ma per arrivare a questa risposta non c’è bisogno che venga nessuno a dircelo. Ciò che conta è capire perché no e in che modo possiamo reagire. Soprattutto, in che modo possiamo reagire di fronte alle persone che sostengono che i fatti dell’11 settembre e quelli a cui abbiamo assistito in seguito sono il miglior argomento per farla finita colle chiacchiere, e, peggio ancora, con l’ipocrisia e con l’irresponsabilità pseudoprogressista che la sinistra ha messo in circolazione a proposito delle politiche di immigrazione (sic). 2.2. Lo svuotamento della cooperazione internazionale nell’ambito delle politiche di immigrazione: Il ritorno del discorso della sicurezza Ripetiamo ancora una volta che di fronte al bivio fondamentale in cui si trova il versante internazionale della politica di immigrazione sembra ragionevole chiedere di dare avvio (o no, ma in ogni caso la decisione deve essere giustificata) all’istituzionalizzazione di programmi che, andando oltre la semplice cooperazione bilaterale o multilaterale nella gestione dei flussi, rendano possibile il co-sviluppo attraverso (in occasione dell’) l’immigrazione, vale a dire, programmi che consentano di stabilire vincoli associativi tra i paesi di destinazione e quelli di origine e trasformino l’immigrazione in uno strumento benefico per entrambe le parti e per gli immigranti stessi, i quali —anche se spesso si dimentica— sono i principali attori di questo processo. Vero è che le difficoltà per costruire una politica di immigrazione europea non sono meno numerose. La prima è di carattere normativo: fino ad oggi è stata la stessa UE a ritenere che questa non sia una politica comunitaria strictu sensu_. In base al capitolo V del Trattato di Amsterdam del 1999, fino al 1 maggio 2004 non entrano in vigore gli strumenti di una politica europea in materia di immigrazione. E poi, anche dopo quella data, soltanto sarà possibile parlare di politiche europee in materia di diritto di asilo, di libera circolazione delle persone e di lotta alla immigrazione illegale. Gli aspetti più importanti di una politica di immigrazione rimangono fuori del Trattato, che inoltre non sarà applicabile in Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Oltre a questa ragione normativa ce ne sono anche altre che non devono essere trascurate: la prima, e decisiva, è che la storia degli Stati della UE rispetto alla questione migratoria è molto diversa: non è paragonabile la situazione dei paesi che hanno alle loro spalle un passato coloniale recente e forte e ancora oggi conservano stretti legami con le loro antiche colonie (Francia, Gran Bretagna, e anche Olanda), con quella dei paesi che questo passato non ce l’hanno. E poi ci sono paesi che questi legami li hanno per ragioni diverse, come nel caso della Spagna e l’America latina. Le esigenze del mercato di lavoro interno sono molto diverse in Italia, Portogallo, Finlandia o Norvegia. La tradizione dell’asilo in Svezia, Olanda, Francia o Germania rende questi paesi diversi dagli altri, e a sua volta tra loro. E cosa dire della differenza tra i flussi migratori che arrivano in Grecia e in Belgio? Come paragonare la situazione dei paesi di transito o di confine esterno con quelli di destinazione finale?

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Ad ogni modo, le ragioni del fallimento della politica europea sono sostanzialmente politiche, se mi è concesso il gioco di parole. Ciò vuol dire che se l’agenda europea più recente non sembra orientarsi ad avanzare in questo settore, e comunque non ritiene che sia una priorità è soprattutto a causa dei fatti dell’11 settembre. Oggi, nella UE, il versante internazionale delle politiche di immigrazione (la politica di accordi con i paesi di origine e di transito dei flussi migratori che hanno come destinazione l’UE) sembra essere rivolta all’obiettivo di condividere con questi paesi nient’altro che la funzione di polizia di frontiera, secondo la priorità assegnata a questa politica, che è quella della lotta all’immigrazione illegale, contro le mafie. È stato recuperato il primato di un modello poliziesco di gestione dell’immigrazione incentrato quasi per intero nella lotta all’immigrazione illegale e che contamina colla logica dell’ordine pubblico tutte le scelte che orientano la politica di immigrazione. E questa valutazione non è frutto di una mia critica puntuale: basta leggere, ad esempio, la Dichiarazione di Quito, approvata in occasione del “Primo Incontro Sudamericano della Società Civile sulle Migrazioni”, a cui parteciparono rappresentanti di ONG e diversi agenti della società civile di Venezuela, Colombia, Ecuador, Peru, Bolivia, Brasile, Paraguay, Cile e Argentina, il 14 e 15 agosto 2002. Infatti, dal 12 settembre in poi, data la priorità assoluta della “guerra” contro il terrorismo_, la sindrome della sicurezza raggiunge le dimensioni di un riflesso condizionato ogni volta che si presenta la questione dei flussi migratori che arrivano dai diversi paesi del continente africano e, in particolare, dal Magreb, e aumenta fino a raggiungere il livello di una vera e propria ossessione nell’incontro con la vecchia tesi dello “scontro di civiltà”. Tutto questo si riassume nel fobotipo dell’immigrante della costa meridionale, identificato in termini acritici e generalizzanti —ma di grande efficacia presso l’opinione pubblica— come fondamentalista islamico e terrorista. Di fronte a questa immagine (Sartori dixit), non serve il discorso della cittadinanza, della democrazia e dei diritti, per il suo carattere non assimilabile e incompatibile (con un ragionamento che travalica l’analisi della differenza culturale —che spesso cela il messaggio del nuovo razzismo— e si trasforma in giustificazione di inaccettabili discriminazioni nello status giuridico e politico). Le politiche di immigrazione hanno cessato di essere una priorità dell’agenda politica europea, a meno che non siano collegate a questioni di home policy, o, se vogliamo, alla dimensione della sicurezza e dell’ordine pubblico. Si tratta di una chiave di lettura del fenomeno migratorio che la UE sembrava aver lasciato alle spalle dopo il vertice di Tampere del 1999, la prima occasione in cui esplicitamente si cerca di dare uno sguardo d’insieme alla questione, e si usa il termine co-sviluppo_. Questa linea di sviluppo sembrava affermarsi dopo l’importante proposta del Commissario Vitorino nella sua Comunicazione 757 (22 novembre 2000), in gran parte ripresa nella Raccomandazione 365/2002 del Consiglio Economico e Sociale Europeo, del 21 marzo 2002 (Consiglio Economico e Sociale Europeo, Raccomandazione su “L’immigrazione, l’integrazione e il ruolo della società civile organizzata”), che propone una svolta nei due componenti della politica di immigrazione: da una parte, nella necessaria collaborazione ravvicinata e benefica con i paesi di origine e di transito, in particolare, nel tentativo di rinsaldare il nesso tra democrazia, diritti dell’uomo e sviluppo in questi paesi; dall’altra, nell’obiettivo

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dell’integrazione fondata sulla parità nei diritti e nell’accesso a uno status omologabile a quello della cittadinanza. Insomma, dal momento dell’accettazione da parte della UE della strategia imposta dall’amministrazione Bush jr._, di immigrazione si parla soltanto in chiave di immigrazione illegale e dei suoi rischi, fino al punto che la dimensione dell’integrazione e quella della cooperazione internazionale (eccetto nelle funzioni di polizia) sono andate scomparendo e sono state sostituite dalla priorità delle priorità, la lotta contro il terrorismo. Elementi fondamentali di questa svolta sono il Libro Verde della Commissione europea, “Una politica comunitaria per il rimpatrio dei residenti illegali”, del 10 aprile 2002, COM (2002) 175, e, soprattutto, gli accordi del Consiglio Europeo di Siviglia del 21 e 22 giugno del 2002, che si occupano di lotta contro l’immigrazione illegale, gestione comune dei confini esterni, coordinamento della politica di immigrazione in ambito esterno e strategia unica di asilo_. Di fatto, la priorità in materia di politica d’immigrazione, secondo quanto sosteneva la presidenza spagnola di quel Consiglio Europeo, era la lotta all’immigrazione illegale e l’efficacia nel controllo dei flussi da parte delle forze dell’ordine, di modo che il peso ricadeva sulla politica comune di espulsione e nel raggiungimento di accordi con le polizie di frontiera dei paesi esterni, per quanto all’ultimo momento si arrivò a sostituire l’incredibile proposta delle sanzioni a questi paesi con un sistema di incentivi economici e l’imposizione di una clausola di cooperazione in materia di forze dell’ordine in ogni accordo futuro. Nessuno si preoccupa più di integrare gli immigranti che arrivano senza che ce ne sia bisogno. Con alcune varianti, queste proposte sono diventate l’asse portante della politica europea. Inoltre, si sono avute in buona parte dei paesi della UE riforme legislative che danno continuità a questa ossessione per la sicurezza che contraddistingue ormai le politiche di immigrazione e che non di rado porta a credere nella fallacia dell’identità tra flussi migratori (specialmente se provengono da paesi arabi o islamici) e minaccia terrorista, che giustificherebbe l’adozione di espedienti per limitare il riconoscimento e la garanzia dei diritti degli immigranti e la subordinazione di ogni genere di collaborazione con i paesi di origine ad una clausola di contenimento efficace della minaccia terrorista, che in ultimo termine coinvolge questi paesi nell’opera di sorveglianza delle frontiere. In questo senso, come ha segnalato Ramón Chornet (Ramón Chornet, 2002), alcune delle decisioni più recenti della UE, nella cornice della presidenza danese nel secondo semestre del 2002, sono significative. La stessa autrice rileva tre esempi: il primo, l’accordo del Consiglio di Ministri di Affari Esteri della UE del 18 novembre 2002 in cui si ribadisce la volontà di inserire l’immigrazione nelle relazioni internazionali della UE e riprende la proposta del Consiglio Europeo di Siviglia, stabilendo una clausola di gestione comune dei flussi migratori che sancisce l'adozione di misure per combattere l’immigrazione illegale e l’obbligo di accettare il rimpatrio e la riammissione di immigranti clandestini, compresi quelli in transito. Il secondo, il Rapporto della Commissione Europea, del 3 dicembre 2002, che contiene la proposta di destinare nel periodo 2003/2006 una somma pari a 934 milioni di Euro a programmi il cui obiettivo sia il controllo dei flussi migratori per mezzo di interventi nei paesi di origine. Tutti questi fondi sono vincolati direttamente ai fondi per gli aiuti esterni della UE, e quindi non dipendono dalle risorse ordinarie destinate alla politica di asilo, immigrazione e rafforzamento dei confini esterni_.

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Non nego che, come altri hanno affermato, sia coerente e persino utile controllare che gli aiuti inviati a questi paesi siano destinati effettivamente ai fini dichiarati. Il problema è che la condizione per ottenere gli aiuti non riguarda il rafforzamento della democrazia o le garanzie nel controllo dei flussi, ma il miglioramento dell’efficacia nei sistemi di controllo da parte delle forze dell'ordine dei paesi d’origine (e di quelli di transito) in tre materie specifiche, la sorveglianza delle frontiere, la lotta all’immigrazione clandestina, e il rimpatrio totale ed effettivo delle persone espulse. Sono state abbandonate le tesi avanzate da Aznar e Blair (l’istituzionalizzazione di sanzioni per i paesi che non diano risposte efficaci), ma si pensa di bloccare o addirittura di ridurre gli aiuti pattuiti nella misura in cui non si raggiunga il livello desiderato di efficacia, e l’esempio più chiaro si ha nel caso del Marocco, che non solo è un paese di origine ma anche di transito. Il terzo esempio riportato da Ramón Chornet è quello delle iniziative di “rimpatrio coordinato” degli irregolari, approvate dai Ministri degli Interni nel Consiglio del 28 novembre 2002, che comprendono la possibilità di rimpatrio coordinato da due o più paesi della UE, o l’approvazione del piano Ulisse, un piano di vigilanza delle frontiere marittime della UE, a cui partecipano le forze navali di Spagna, Francia, Gran Bretagna e Italia, lanciando l’ennesimo messaggio di emergenza di fronte all’invasione o alla minaccia che rappresenta l’immigrazione. 3. Appunti per un nuovo modello di integrazione della politica di immigrazione nella politica estera della UE. Se l’obiettivo è quello di avanzare verso un nuovo modello di politica d’immigrazione sembra evidente la necessità di far fronte alle scelte che abbiamo presentato nel paragrafo precedente in entrambi i versanti, quello delle politiche internazionali e quello delle politiche interne. In queste pagine mi occuperò soltanto del primo e, quindi, delle condizioni per integrare la politica d’immigrazione nella politica internazionale della UE. Innanzi tutto, si tratta di precisare quali sono gli strumenti —___le regole, le istituzioni— che potrebbero garantire la subordinazione delle relazioni internazionali alle esigenze della democrazia e, in questo modo, la riabilitazione dello spazio politico in quelle relazioni. Non parlo dell’obiettivo più ambizioso, quello della democrazia globale, in termini cosmopolitici come quelli proposti da Archibugi o Held, o in quelli di una costituzione mondiale di cui parla Ferrajoli_. Mi riferisco a proposte che consentano di avvicinare il modello di divisione internazionale del lavoro ad una logica diversa da quella del fondamentalismo di mercato di cui parlavo all’inizio; oppure, a strumenti che siano adatti per mantenere le garanzie minime di controllo e di accountability_. In definitiva, la via che cerco di suggerire passa dal riconoscimento dell’errore in cui si cade quando ci si lascia portare dall’ossessione di gestire l’immigrazione nel proprio interesse, un’ossessione che si traduce a sua volta nella riduzione o identificazione di tutta la politica migratoria ai compiti di polizia di frontiera (la priorità di ogni politica recente di immigrazione o, peggio ancora, la sua totale identificazione con la lotta all’immigrazione clandestina, legittimata come lotta contro lo sfruttamento da parte delle mafie). Ancora una volta, la politica di immigrazione come politica di area e persino nazionale. Ma così non

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è. Come sostiene Castles, abbiamo bisogno di pensare gli strumenti adatti per disporre una strategia globale sul piano politico e su quello economico, a medio e a lungo termine_, una strategia che dovrà essere realizzata, come è ovvio, da istituzioni che abbiano capacità per agire in ambito transnazionale e globale, istituzioni alternative, come suggerisce Ramonet e conferma Stiglitz, alle due istituzioni di Washington che hanno il monopolio in questo campo, e non lo usano per soddisfare le esigenze della solidarietà internazionale (FMI e Banca Mondiale). Bisogna cambiare le priorità delle strategie che fino ad oggi hanno avuto la finalità di far scomparire i flussi o di ridurli —per mezzo di imbuti, cioè per mezzo della chiusura delle vie di accesso—, per farli diventare identici ai quantitativi di lavoratori necessari secondo la situazione più o meno favorevole del mercato o per ragioni demografiche. Questo modello, che è quello di una politica di immigrazione intesa come statistica (nonostante che questo genere di statistica in realtà naviga nel regno dell’imprecisato, come segnala Antonio Izquierdo) e che si concreta nell’assioma dei contingenti, assioma che diventa il desideratum, più che non lo spirito delle nostre politiche di immigrazione, ha dimostrato di essere inefficace e illegittimo. Si tratta di trovare strategie alternative che consentano di gestire i flussi secondo criteri di legittimità ed efficacia, il che significa in primo luogo che questi criteri devono essere concordi con i principi fondamentali dei diritti umani. Per ciò, in secondo luogo (anche se in ordine logico questa dovrebbe essere la priorità assoluta), la necessità di rivedere il significato di un concetto fondamentale, il diritto alla libera circolazione, che elimina e ricongiunge la dissociazione fra due diversi diritti che si riscontra oggi nei testi giuridici internazionali, il diritto a emigrare e il diritto a immigrare. In particolare, dobbiamo chiederci se ciò che oggi riteniamo che sia il contenuto di questo diritto conferisce la libertà di fare ciò che sarebbe coerente con la concezione liberale dei diritti (nell’ortodossia della filosofia politica del liberalismo, quella che propone Mill in On Liberty); se questa concezione del diritto non ha come conseguenza quella di fare che il progetto di emigrare continui a essere ancora proprio ciò che oggi è, un privilegio o una necessità, un imperativo a cui non ci si può sottrarre. Che sia una scelta che soltanto alcuni possono fare liberamente, le persone ricche e celebri, e, quindi, che continui a essere soltanto un privilegio. Che sia nemmeno un destino fatale, un’avventura rischiosa e degradante che per tanta gente si presenta come l’unica via di salvezza, per quelli che vorrebbero fuggire dalla miseria, dall’assenza di libertà, di opportunità di vita. Che sia una decisione libera, autonoma. In definitiva, se vogliamo prendere sul serio questo diritto, se vogliamo continuare a dire che si tratta di un diritto umano fondamentale e universale, è necessario prendere atto del suo rapporto non solo con il diritto alla libera uscita (il diritto all’emigrazione, l’unico che fu in realtà inscritto nella Dichiarazione del ’48, dove serviva soprattutto come strumento di critica contro il blocco sovietico nel contesto della guerra fredda), ma anche con il diritto all’immigrazione inteso come diritto di accesso, che non è un semplice diritto di ingresso in un paese, ma il diritto di scegliere la comunità di appartenenza, di avere la possibilità di aggregarsi ad una società politica diversa dalla propria. Questo è un punto che i liberali rivendicano ripetutamente contro gli eccessi olistici del comunitarismo. Di questo si tratta, in ultimo termine, di prendere sul serio l’autonomia individuale, il principio della free choice, il suo valore come trionfo contro la

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maggioranza. Come non vedere che c’è una contraddizione profonda nelle limitazioni imposte al diritto alla libera circolazione nella Dichiarazione del ’48? Non è forse vero che il diritto alla libera circolazione senza il corollario della libertà di accesso non è per i più nient’altro che il diritto o l’aspettativa di “entrare in orbita” per poter essere richiamato sulla terra soltanto nel momento ciò sia in qualche maniera utile al mercato globale, ai suoi agenti, ai veri titolari della libertà di circolazione, ai padroni? So bene che qualcuno risponderà subito richiamando l’obiezione secondo cui questa proposta sfocia in modo inevitabile in una soluzione “irresponsabile” come sarebbe quella di aprire le frontiere. Non è questo, però, il mio argomento. Secondo me, per creare le garanzie di questo diritto non è necessario arrivare all’abolizione delle frontiere, ma cambiare la divisione internazionale del lavoro, cambiare la funzione sociale attribuita ai paesi di provenienza dei flussi e, soprattutto, la funzione degli immigranti stessi, a cui è stato riconosciuto soltanto il diritto alla libera circolazione in quanto lavoratori, se non come strumenti di produzione (sì: nuovi schiavi). In particolar modo, questo richiede di creare nuove regole capaci di cambiare il monopolio che la logica del profitto ha stabilito nelle relazioni nord-sud, richiede di agire sulle cause che portano al sottosviluppo umano nei paesi dove si presenta, e in questo modo richiede di prendere in considerazione l’idea di una politica del co-sviluppo, perché sono queste le finalità a cui tendono le proposte avanzate da Tapinos e S. Naïr, che cercano di associare migrazioni e co-sviluppo sulla base della garanzia della libertà di circolazione (purché a nessuno venga in mente di trasformare questa proposta in un modello di immigrazione di allée et retour). Mi sembra indiscutibile che il cambiamento delle regole dei rapporti asimmetrici tra il nord e il sud equivale fondamentalmente a promuovere la partecipazione dei paesi del nord nella svolta verso l’obiettivo dello sviluppo umano e che, a questo proposito, che è sostanzialmente politico, può essere di aiuto la strategia di co-sviluppo come condizione di interesse reciproco di tutti gli agenti coinvolti nei flussi migratori. Il dibattito sul co-sviluppo è assai ricco e nessuna proposta seria cercherà di presentarlo come una formula magica, di facile applicazione e libera da ogni pericolo_. Mi preme sottolineare soltanto la necessità di evitare quelli che a me sembrano due errori o, forse, due sofismi ricorrenti: il primo, la prospettiva di analisi che associa o condiziona la strategia di co-sviluppo agli interessi geostrategici dei paesi di destinazione, cominciando dal tentativo di condizionare la polizia di frontiera e, in seguito, promuove la penetrazione degli interessi commerciali nei paesi di origine. Il secondo, l’identificazione della strategia di sviluppo per mezzo dell’imposizione di contingenti migratori che ostacolano il progetto di insediamento, anche di quello stabile. Se il costo di ciò che chiamano co-sviluppo è che gli immigranti devono arriva a capire che non potranno mai pretendere di rimanere nel paese di destinazione (se non come guest workers, durante il periodo e nelle condizioni che stabilisce il mercato), questa strategia porterà ad un nuovo fallimento. E sarà così soprattutto perché ancora una volta non ci si pone nella prospettiva giusta: immaginare che la strategia di co-sviluppo possa diventare un espediente per porre freno all’immigrazione è un errore_. Se la tesi del nesso tra politiche d’immigrazione e co-sviluppo ha qualche significato è perché consente di gestire in modo efficace e, soprattutto, legittimo, i flussi migratori, e questo ci mette in condizioni di dare ascolto alle

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voci dei protagonisti (gli immigranti), a riconoscere questo protagonismo e di non perdere di vista le esigenze dei paesi di origine, non il nostro profitto. Vale a dire, la strategia di co-sviluppo non può essere intesa —come avviene spesso— come un nuovo limite o barriera, un freno, magari quello più efficace, perché mette insieme il bastone e la carota. Questo sarebbe un errore. È vero che la soluzione ai problemi che pongono —per tutte le persone che sono coinvolte— i flussi migratori passa necessariamente dalla creazione di ricchezza, lavoro, sviluppo del settore privato e di quello pubblico, ma pensare il co-sviluppo soltanto come uno strumento per frenare l’immigrazione è un errore. Se questa strategia porta a ignorare le due proposte che ho avanzato, i principi di legittimità nell’ambito delle relazioni internazionali, il rispetto ai diritti dell’uomo e, soprattutto, il diritto alla libera circolazione, e se non si tiene conto delle esigenze dei paesi di origine dei flussi, delle loro condizioni, dei progetti delle persone, questa risposta continuerà a essere una sbagliata. Una strategia di immigrazione e co-sviluppo richiede strumenti complementari, a breve, medio e lungo termine, alcuni dei quali sono già stati ricordati in queste pagine sulla scorta degli argomenti di Castles. Ma se vogliamo parlare di immigrazione nella UE, in Spagna, nei Paesi Baschi, forse potremmo aggiungere alcune idee sulla base delle priorità euromediterranee: In primo luogo, la creazione di un Osservatorio Permanente di Immigrazione e Integrazione dei flussi migratori e di sorveglianza delle politiche migratorie, come previsto dalla Conferenza di Barcellona, che dovrebbe avere uno statuto giuridico analogo a quello dell’Osservatorio europeo contro il razzismo e la xenofobia, con sede a Vienna. Questo Osservatorio dovrebbe essere coordinato con l’attività del REM, una Rete il cui sviluppo dovrebbe essere favorito a livello politico e finanziario dalle istituzioni della UE, secondo quanto richiesto dei Fori civili euromediterranei di Marsiglia 2000 e Bruxelles 2001. Inoltre, la ripresa dell’obiettivo della partnership, anche se dovrebbe essere rivisto in profondità, il che ci porta ad avanzare oltre il progetto di Zona di Libero Scambio o di libero commercio con i paesi della costa meridionale del mediterraneo, poiché la priorità dovrebbe essere quella di raggiungere l’obiettivo di una comunità di interessi e l’associazione di tutti i paesi del Mediterraneo, sulla base di un principio fondamentale di trattamento equo in assenza del quale non ha senso avere la condizione di socio. In terzo luogo, la creazione di strumenti finanziari che consentano di raggiungere questo obiettivo, tra cui ci dovrebbe essere anche —come si è detto— la creazione di una Banca Euromediterranea di Investimenti, cioè di un meccanismo più complesso che non quello di stanziare di una linea specifica di credito. 4. Alcune proposte Non vorrei chiudere questo intervento senza tornare sul piano di riflessione da cui ero partito. So bene che può sembrare astratto ma, secondo me, è essenziale. Perché sulla base di quanto ho detto fin’ora, a me pare che sia possibile formulare alcune proposte, o, forse, riformularle, perché ovviamente non sono nuove, anche se possono avere ancora qualche interesse sia dal punto di vista della gestione dell’immigrazione, sia da quello di riuscire a pensare un’altra politica.

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La mia proposta si potrebbe riassumere in due vecchi comandamenti, se è lecito ricorrere a questo termine: avere senso del realismo e usare il senso comune. I richiami al realismo e al senso comune in questioni come quelle della risposta ai flussi migratori sono accolti la maggior parte delle volte con un senso di sollievo —soprattutto se arrivano alla fine di un discorso di carattere filosofico— e sono interpretati come un appello al senso di responsabilità di fronte a tante proposte irresponsabili, utopiche nel senso più negativo del termine. Per quanto mi riguarda, ho cercato di mettere in chiaro che non è possibile essere realisti se non si fa uno sforzo per capire la realtà dei flussi migratori, invece di continuare a costruire artificialmente e a imporre per mezzo delle leggi un’immagine dell’immigrazione che è quella che più favorisce i nostri interessi. Ovviamente, può darsi si arrivi a imporre per un certo periodo il controllo dei flussi senza aver cambiato la nostra immagine dell’immigrazione, ma questo risultato è destinato a non essere stabile, non può durare. Rispetto alla rivendicazione del senso comune devo aggiungere che non intendo questa idea nel modo solito, come un richiamo al pragmatismo, alla logica del profitto, che è anche quella del mercato, ma come un appello alla logica del possibile, che è la logica della politica. Non condivido l’altro senso comune, e tanto meno quando si parla di immigrazione. Non penso che sia questo ciò che ci dice il senso comune, che invece richiede proprio l’opposto di tali ricette. Quando si parla di politica e di flussi migratori il senso comune ci chiede di ricominciare da capo: dall’accettazione della libertà di circolazione come un diritto, che tutti noi, da quando l’umanità è uscita dall’Africa, da quando l’essere umano ha cominciato a camminare (e le orme di Laetoli sono il primo segno di umanità che ci è noto), emigrò in cerca di migliori condizioni di vita, in cerca —come diceva Montesquieu— della via che conduce alla libertà e al benessere. Ciò che dice il senso comune è che, se è vero che siamo convinti dell’essenziale eguaglianza di tutti gli esseri umani, non abbiamo la possibilità di negare a nessuno il diritto fondamentale di autonomia, il diritto all’autodeterminazione sulla propria vita, a esercitare la libertà di decidere. Per questa ragione possiamo dire che le politiche migratorie che conosciamo incorrono in una contraddizione costitutiva con i principi liberali che, in apparenza, dicono di difendere, o, peggio ancora, che queste politiche dimostrano di credere e di difendere questo principio —quello dell’autonomia— quando si tratta di una piccola parte dell’umanità. In definitiva, il senso comune chiama in causa altri principi, criteri diversi da quelli che oggi stanno alla base del nostro sguardo sui flussi migratori, della nostra politica in materia. Richiede una politica di immigrazione intesa come politica globale e integrata in una concezione della politica che presupponga un modello diverso di società civile, nel contesto di una democrazia plurale e inclusiva_. Principi come i seguenti: 1) La garanzia del diritto umano universale all’emigrazione, inteso in primo luogo come diritto alla libera circolazione, e che, per realizzarsi, deve comprendere anche il diritto a immigrare, quindi, il diritto a entrare in un territorio e a insediarsi. Naturalmente, né l’uno né l’altro sono diritti assoluti, ma non c’è nessun diritto che lo sia. 2) Il riconoscimento dello sviluppo umano come un dovere che non riguarda soltanto i singoli Stati o, in generale, le Nazioni Unite, ma che deve essere

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inteso come dovere positivo internazionale, il quale va rispettato da tutti gli Stati e non può essere ignorato nelle relazioni internazionali, bilaterali e multilaterali. 3) La garanzia dell’eguaglianza formale nei diritti fondamentali tra cittadini e persone che hanno residenza stabile nei paesi di destinazione. Questa eguaglianza formale è condizione necessaria, anche se insufficiente, dell’integrazione politica, cioè, di una forma di integrazione che è più ampia delle solite rivendicazioni di integrazione sociale. 4) Il principio di integrazione politica inteso come integrazione civile, nel senso proposto dalla Commissione europea_ e dal Comitato Economico e Sociale Europeo nel Delibera 365/2002_ (Delibera su “Immigrazione, integrazione e società civile organizzata”), del 21 marzo 2002. 5) Il principio di cittadinanza multipla o multilaterale come specificazione della democrazia inclusiva e plurale, in linea con le tesi sostenute da Bauböck o Rubio (riprese da Castles) a proposito di cittadinanza transnazionale_ e con l’idea di cittadinanza o integrazione civile già ricordata. Si tratta di cittadinanza intesa non soltanto nella sua dimensione tecnico-formale, ma sociale, in grado di garantire a tutti coloro che risiedono in modo stabile in un territorio la pienezza dei diritti civili, sociali e politici. La chiave sta nell’evitare il nesso tra cittadinanza e nazionalità (acquisita per nascita o per naturalizzazione), un’identità che pone l’accento sull’incapacità delle proposte liberali di superare il radicamento etnoculturale avvicinandosi ad un presunto modello repubblicano di cittadinanza. La cittadinanza dovrebbe tornare alle sue origini per vincolarsi alla condizione di residenza. In questo senso, può cominciare a essere rilevante il rapporto di vicinanza e il concetto di cittadinanza locale.

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Laissez faire ! laissez passer ! Pour le bien-être des familles Doublons les heures de travail. Venez, enfants, femmes et filles, La fabrique est un grand bercail. Négligez marmots et ménage, Ça presse ! et pour vous délasser Vous aurez des mois de chômage. Laissez faire ! Laissez passer ! Par essaims le Chinois fourmille. Ils ont des moyens bien compris De s'épargner une famille Et travailler à moitié prix. Avis aux ouvriers de France ; Dans leur sens il faut s'exercer, Pour enfoncer... la concurrence... Laissez faire ! laissez passer ! Sous le Siège, dans la famine, J'ai défendu la " liberté " Voulant, fidèle à la Doctrine, Rationner par la cherté. Chaque jour et sans projectiles, Par vingt mille on eût vu baisser Le stock des bouches inutiles. Laissez faire ! Laissez passer ! Qu'on accapare la denrée, Qu'on brûle docks et magasins, Que pour régler les droits d'entrée, On se bombarde entre voisins, Quitte à gémir sur les victimes, Qu'on voit écraser, détrousser ! L'économie a pour maximes Laissez faire ! Laissez passer ! NOTAS _ Castles si è occupato dei flussi “buoni” (di capitale —in particolare, capitale finanziario, speculativo—, di proprietà intellettuale, di lavoratori specializzati e/o necessari per lo sviluppo delle aree lavorative localizzate nel nord, di valori culturali occidentali) e flussi “non desiderati” (di lavoratori non specializzati, di profughi, di rifugiati politici, di modi di vita alternativi, di valori culturali non occidentali o ritenuti, a ragione o no, particolaristici) e il doppio gioco del processo di globalizzazione: i primi circolano liberamente mentre gli altri si scontrano con la chiusura dei confini e la criminalizzazione delle reti transnazionali attraverso cui si muovono. Il problema è che,

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come suggerisce Castles, la complessità dei fattori (economici, politici, demografici, culturali, sociali) che intervengono in questi flussiI migratori è una caratteristica intrinseca del processo di globalizzazione ed è più forte di qualsiasi possibilità di intervento attraverso le politiche doganali. Cfr. Castles, S., “Globalization and Inmigration”, Paper presentato in occasione del International Symposium on Inmigration Policies in Euripe and the Mediterranean, Barcellona, 2002. _ Si trova anche in altre poesie e canzoni rivoluzionarie come Le grand Krak, En avant la classe ouvrière, Droits et devoirs, La Sainte Trinité, La guerre, Leur Bon Dieu. Il testo della poesia citata si trova in appendice, dopo la nota bibliografica. _ Sassen, S., ¿Perdiendo el control? La soberanía en la era de la globalización, Barcelona, Bellaterra, 2001 (prefazione di A. Izquierdo). Cfr,. anche La ciudad global. Nueva York, Londres, Tokio (1991), Migranti, coloni, rifugiati. Dall’immigrazione di massa alla fortezza Europa (1999); Globalization and its Discontents. Essay on the New mobility of People and Money (1998) e il suo recente Contrageografías de la globalización. Género y ciudadanía en los circuitos transfronterizos, Madrid, 2003, Traficantes de sueños _ Ed è per questo —e quindi non soltanto per le sue carenze in termini di efficacia— che la politica di immigrazione in Spagna può essere definita, secondo Subirats (2002), come una non-politica di immigrazione. _ Questo è ciò che sostengono, ad esempio, Bauböck (2001), o Castles e Davidson (2000). _ È difficilmente giustificabile, persino nell’ottica di una concezione della giustizia coerente con i presupposti del liberalismo, la discriminazione degli stranieri nei diritti, se non per mezzo di argomenti di carattere strettamente prudenziale. Questa tesi è incompatibile con la possibilità di prendere sul serio l’universalità dei diritti, la condizione di tutti gli esseri umani come agenti morali che ne hanno la titolarità giuridica. Ciò è stato segnalato, pur nella diversità di posizioni, da Balibar (1992), Carens (2000) o Ferrajoli (1998). Invece, se riuscissimo a superare il pregiudizio liberale, come propongono Benhabib (1996) o Young (1998), sulle orme di Honneth e Taylor e anche Kymlicka, e come sembrano richiedere le circostanze di gestione democratica delle società multiculturali, allora ci renderemmo conto che l’asimmetria tra cittadinanza e diritti è ormai insostenibile: cfr. Requejo (1999), De Lucas (2002). _ Cfr. Zapata (2002), Halper (2002). _ Cfr., per esempio, i lavori del gruppo Observatorio de análisis de tendencias (a cui partecipa la maggior parte degli autori citati), diretto da F. Jarauta, tra cui quelli compresi nel volume Desafíos de la mundialización, Quaderni della Fondazione M. Botín, Madrid, 2002. _ S. Naïr, Le lien social et la globalisation, Quaderni della Cattedra Cañada Blanch, Valencia, 1999, p. 4 e segg. _ L’espressione “liberalismo totalitario” si trova nel volume di interviste intitolato Libertad o capitalismo: conversaciones con Johannes Willms, Paidós, Barcellona, 2002. _ Cfr., ad esempio, Un mundo sin rumbo, Debate, Madrid, 1996, p. 245. Più rcentemente e come manifestazione secondaria di ciò che egli chiama “guerra globale”, Cuerras del siglo XXI. Nuevos miedos, nuevas amenazas, Mondadori (colección Arena Abierta), Barcelona, 2002 (190 pp.). _ Whitol der Wenden, C.; Haergraves, A., The Political Participation of ethnic minorities in Europe. A framework for analysis, New Community, 1, num. 20, 1993. _ L’esempio più recente del fallimento che comporta questa logica della segmentazione lo abbiamo in Spagna con la proposta di riforma della LO 8/2000 che voleva ricorrere al “silenzio giudiziario” (la non risoluzione immediata della procedura da parte del giudice) per dare al giudice la possibilità di espellere gli immigranti processati o imputati di delitti che non avessero una pena superiore a sei anni: un nuovo passo avanti nella negazione dell’elementare diritto alla tutela effettiva, un punto

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di rifererimento fondamentale nello Stato di diritto. Per fortuna, l’alluvioni di opinioni negative sembra aver frenato questo progetto almeno fino ad oggi —febbraio 2003—. _ Basti pensare ad un ragionamento elementare proposto da Castles: rispetto alla logica dei confini, derivata dalla visione settoriale, strumentale della immigrazione, e che concentra ogni sforzo nel controllo dei flussi e nella misurazione dei contingenti, il problema è —afferma Castles— i complessi fattori (economici, politici, democrafici, culturali, sociali) che mettono in movimento questi flussi, sono fattori interni, strutturali, al processo di globalizzazione e sono più forti di qualunque azione di polizia di frontiera. Cfr. Castlas, S., Globalization and Inmigration, Paper presentato nel International Symposium on Inmigration Policies in Europe and the Mediterranean, Barcellona, 2002. _ La Commissione Europea ha riconosciuto il vincolo tra immigrazione e criminalità internazionale nel rapporto su Politica comune sull’immigrazione illegale, COM (2001) 672, del 15 ottobre 2001, ma richiamava l’attenzione sulla necessità di arginare gli effetti negativi dell’11-S sugli immigranti nel suo documento di lavoro sul rapporto tra la salvaguardia della sicurezza interna e l’adempimento degli obblighi assunti e degli strumenti necessari in materia di protezione, COM (2001) 743, del 5 dicembre 2001, in cui si legge: “Le due premesse principali da cui trae origine il presente Documento sono, da un lato, che i rifugiati e le persone che chiedono asilo bona fide non devono essere vittime degli eventi appena accaduti, e, dall’altro, che non si deve consentire per le persone che favoriscono o compiono atti terroristici alcuna facilità di ingresso nel territorio degli Stati appartenenti alla UE”. _ In modo assai specifico, occorre segnalare nel caso spagnolo gli effetti —a mio avviso, perversi per il gioco democratico— di questa contaminazione della politica con una concezione imperialistica dell’ordine internazionale e statalnazionalistica in quello interno, che danno luogo ad una rappresentazione manichea dell’azione politica, in cui quella logica schmittiana arriva ad assumere il monopolio del discorso politico, annullando il pluralismo, la dissidenza, il principio della negoziazione, come punti chiave di una politica democratica. Sempre a mio giudizio, la battaglia politica, legale e giudiziaria in favore dell’illegalizazione di Batasuna, in applicazione di una legge di associazioni politiche che, in realtà, non aveva altro scopo, è contaminata da questi pregiudizi. _ Su questo punto, José Martín y Pérez de Nanclares, La inmigración y el asilo en la Unión Europea, Colex, Madrid, 2002, anche se non si prende in considerazione il tipo di problemi di cui ci stiamo occupando in queste pagine, ma piuttosto quelli della definizione tecnica delle politiche di immigrazione in termini di diritto comunitario. _ _ In questo modo, nelle conclusioni della Presidenza del Consiglio di Laeken, del 14 e 5 dicembre 2001 (Sn 300/1/01 Rev1, p. 42), nel punto in cui si stabiliscono le priorità dei meccanismi di cooperazione tra i servizi incaricati della sorveglianza delle frontiere, si suggerisce lo studio di meccanismi di controllo comune e si sollecita gli Stati a prendere iniziative in materia, come la creazione di un sistema comune per la concessione di visti o di servizi consolari comuni, tutto ciò in base alla tesi secondo cui “una migliore gestione della sorveglianza dei confini esterni dell’Unione sarà utile ai fini della lotta contro il terrorismo, le reti di immigrazione clandestina e il commercio di esseri umani”. _ Conclusioni della Presidenza, Consiglio Europeo di Tampere, 14 e 15 ottobre 1999, Sn/200/1/99, p. 11: “L’UE ha bisogno di uno sguardo d’insieme sull’immigrazione che comprenda i problemi politici, i diritti umani e lo sviluppo dei paesi di origine e di transito. Per questo motivo è necessario lottare contro la povertà, migliorare le condizioni di vita e le opportunità di lavoro, prevenire i conflitti, consolidare gli Stati democratici, garantire il rispetto dei diritti dell’uomo, in particolare i diritti delle minoranze, delle donne e dei bambini. A questo proposito, si invita l’Unione e gli Stati che vi appartengono a dare il proprio contributo, nel contesto delle loro rispettive competenze derivate dai Trattati, a dare un maggior grado di coerenza alle politiche

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interne ed esterne dell’Unione. Un altro aspetto essenziale per avere successo in questa politica sarà la collaborazione con i paesi interessati, allo scopo di promuovere il co-sviluppo”. _ Su questi punti, C. Ramón Chornet, 2002b. Il punto chiave di questa svolta politica, come ho già detto, è il Consiglio Europeo di Laeken, anche se è necessario ricordare anche tutte le iniziative adottate dalla UE e dal Parlamento europeo, che descrive l’autrice nel suo libro. _ Come spiega Ramón Chornet (Ramón Chornet, Paper, I Jornadas de Inmigración y desarrollo. Hacia el codesarrollo, Bilbao, 12 dicembre 2002), la parte destinata al controllo per mezzo delle forze dell’ordine è quella che ha la maggiore dimensione: alla lotta contro l’immigrazione illegale si stanzia un totale di 67,7 milioni e 322 milioni alla sorveglianza di frontiere (per esempio, 23 milioni di Euro per migliorare il SIS e 9,6 milioni per l’Eurodac). La sorveglianza dei confini orientali (nessuno si preoccupa del fatto che questi confini dovranno cambiare in breve) riceve un finanziamento di 117,2 milioni di Euro. Il Fondo Europeo per i rifugiati comprende aiuti per un totale di 40 milioni di Euro per il 2003 e 10 milioni in più per l’eventuale arrivo di flussi di massa imprevisti. _ Cfr., ad esempio, L. Ferrajoli, Derechos y garantías. La ley del más débil, Trotta, Madrid, 1999; D. Held, Democracy and the Global Order, Oxford, Polity Press, 1995; oppure Held; McGrew; Goldblatt; Perraton, Global Transformation: Politics, Economics and Culture, Cambridge, Polity, 1999. _ A questo proposito sarà opportuno prendere in considerazione non soltanto le discussioni sui principi, ma anche questioni molto concrete come, per esempio, quelle dei criteri normativi che assicurino la solidarietà internazionale non come frutto della virtù, della spontaneità, ma come un dovere positivo, quando meno, minimo. Questo è quanto si perse con il cosiddetto “consenso de Monterrey”, ossia, con le conclusioni della Conferenza Internazionale sul Finanziamento per lo Sviluppo di Monterrey (15 a 22 giugno 2002), a proposito dell’imposizione di condizioni alla concessione degli aiuti per lo sviluppo che non sono quelli del consolidamento delle libertà e della democrazia, ma quelli che derivano dagli interessi geostrategici —economici e politici— degli Stati e delle società nazionali e transnazionali che danno i fondi. Per non parlare del co-sviluppo. Ancora un esempio concreto: il condizionamento degli aiuti per i programmi di adozione alla funzione di polizia di frontiera dei paesi di origine e di transito dei flussi. Un condizionamento che si è anche preteso (questa era la pozione spagnola e britannica nel Consiglio Europeo di Siviglia del 2002) che potesse dar luogo a provvedimenti sanzionatori, a politiche coattive per gli Stati che non raggiungessero gli obiettivi proposti. _ Castles suggerisce l’adozione di provvedimenti a breve e medio termine. Tra i primi, l’eliminazione dei rapporti economici che favoriscono i conflitti locali (commercio d’armi, di diamanti, di petrolio). Tra quelli a medio termine, cambiare le regole del gioco degli investimenti, degli accordi commerciali e della proprietà intellettuale che lasciano i paesi del sud in quello stato di “dicotomizzazione”, di sottosviluppo, di miseria. Inoltre, promuovere la cultura dei diritti, gli strumenti di divisione e di controllo del potere, di pubblicità e di responsabilità nei paesi del sud. Cfr. Castles, S. & Davidson, A., Citizenship and Inmigration, London, MacMillan, 2000, e, il lavoro già citato, Castles, Paper presentato in occasione del International Symposium on Inmigration Policies in Euripe and the Mediterranean, Barcellona, 2002. _ Ad esempio, Ramón Chornet (1999, 2001, 2002) si è occupato delle critiche provenienti da posizioni diverse contro le contraddizioni che sarebbero presenti nell’ipotesi di partenza: a maggiore sviluppo, maggiore capacità di circolazione, maggiore integrazione nel mercato globale, ergo il co-sviluppo non chiude le porte, come alcuni in modo ingenuo —oppure cinico— sostengono. Questo è quanto affermano per esempio Whitol der Wenden o Grassa. E ciò senza tener conto di altri aspetti della critica, come quelli segnalati da M. Cisse, la rappresentante del

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movimento dei sans-papiers. Ramón Chornet condivide con queste posizioni critiche la necessità di riformulare il concetto di co-sviluppo. _ Nel lavoro citato nella nota 26 (Ramón Chornet, 2002), la professoressa Ramón Chornet si occupa delle proposte del vicepresidente della BEI (Banca Europea di Investimenti), il francese Francis Meyer, alla vigilia della creazione del FEMIA (Fondo Euromediterraneo di Investimenti e di Associazione), che dispone di 255 milioni di Euro nel periodo 2003-2007, secondo quanto disposto dagli accordi del Consiglio Europeo di Barcellona, di marzo 2003, e che giustificava l’esistenza del progetto affermando che “l’immigrazione si arriva a controllare aiutando i paesi poveri a creare ricchezza e posti di lavoro”. _ Secondo quanto prevede il Documento Preparatorio de la Mesa de Emigración dei Fori Sociali Italiani, Luciano Muhlbauer nel Foro Sociale Europeo di Firenze (6-8 novembre 2002), che a mio parere si trova in accordo con alcune delle conclusioni della Dichiarazione di Quito dell’agosto 2002 (adottata in occasione del Primo Incontro Sudamericano della Società Civile sulle Migrazioni. _ Per esempio, COM (2000) 757 del 12 novembre 2000 (Comunicazione alla Commisione sulla politica europea di immigrazione, del Commissario di Giustizia e Interni, A. Vitorino). _ Raccomandazione CES 365/2002 del 21 marzo 2002 (Comitato Economico e Sociale Europeo, raccomandazione sull’immigrazione, l’integrazione e il ruolo della società civile organizzata, nell’ambito dell’approvazione del Programma Comunitario per la promozione dell’integrazione sociale degli immigranti. _ Cfr. Bauböck, R., How Migrations transforms Citizenship: international, multinational and transnational perspectives, Paper en el International Symposium on Inmigration Policies in Europe and the Mediterranean, Barcellona, 2002. Sulla cittadinanza multilaterale e l’accesso automatico alla cittadinanza in virtù della residenza stabile, senza soddisfare altri criteri di integrazione etnoculturale, cfr. Rubio, R., Inmigration as a Democratic Challenge.Citizenship and Inclusion in Germany and the United States, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. Questa proposta mi sembra che sia più utile di quella di cittadinanza post-nazionale fondata sulla universalità dei diritti, così come è stata avanzata da Soysal (Soysal, Y., “Changing Citizenship in Europe: remarks on postnational Membership and the National State”, en Cesarini/Fullbrok, Citizenship, Nationality and Migration in Europe, London, Routledge, 1996).