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Studi e documenti Gli Stati Uniti e la questione istituzionale in Italia (1943-1946) Considerazioni introduttive È un’acquisizione ormai consolidata della non scarsa storiografia sul passaggio dell’Italia dal fascismo al post-fascismo che la lotta politica e sociale in Italia si sia svolta in condizioni di «sovranità limitata», sia nel senso formale dell’assenza di un preciso status internazionale, sia in quello sostanziale dell’ingerenza straniera nelle scelte politiche italiane, anche al di là dei limiti che, a partire dall’8 settem- bre 1943, la reale condizione dell’Italia come paese sconfitto in una guerra rovinosa avrebbe comportato. Altrettanto acquisita, anche se il decorso del tempo ha pesantemente contribuito ad offuscare il rilievo dell’evento *, è la consapevolezza che il passaggio dalla mo- narchia alla repubblica fu uno dei risultati più importanti cui condussero le soffe- renze e le lotte degli italiani nel corso della seconda guerra mondiale. Il proposito di queste pagine è quello di stabilire un rapporto il più possibile preciso e dettagliato tra i due enunciati precedenti, in modo da valutare il peso che i condizionamenti internazionali esercitarono, in un senso o nell’altro, nel dilemma tra la conservazione dell’istituto monarchico e il passaggio alla forma repubblicana, che fu posto agli elettori italiani il 2 giugno 1946. È però necessario, a questo punto, fare alcune precisazioni metodologiche. La storia delle relazioni internazionali è forse il terreno più difficile sul quale gli storici d’ispirazione marxista possano cimentarsi, dato che il rischio della superficialità della storia diplomatica di vecchio tipo è continuamente presente. D’altra parte, la politica estera degli stati è il momento in cui gli effetti dei dati strutturali delle singole società nazionali sono più mediati e rarefatti, per cui è estremamente diffi- cile individuare i temi di fondo che sono alla base delle diverse scelte. Inoltre, per il caso che qui c’interessa, v’è da rilevare che la questione istituzionale italiana investe un aspetto particolare della politica americana verso l’Italia, la quale, a sua volta, è un aspetto particolare della politica estera globale degli Stati Uniti. Da qui la consapevolezza che il tema trattato è estremamente limitato e monografico, che il rischio della minuziosità superficiale della storia diplomatica tradizionale è particolarmente massiccio e che potrà essere evitato solo mantenendo un costante collegamento col più generale contesto delle relazioni internazionali degli anni 1943-46. Ciò non sminuisce peraltro l’interesse del problema, soprattutto per la1 1 Cfr. ernesto ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia Einaudi, voi. V, t. 3, Torino, 1976, pp. 2442-43.

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Studi e documenti

Gli Stati Uniti e la questione istituzionale in Italia (1943-1946)

Considerazioni introduttive

È un’acquisizione ormai consolidata della non scarsa storiografia sul passaggio dell’Italia dal fascismo al post-fascismo che la lotta politica e sociale in Italia si sia svolta in condizioni di «sovranità limitata», sia nel senso formale dell’assenza di un preciso status internazionale, sia in quello sostanziale dell’ingerenza straniera nelle scelte politiche italiane, anche al di là dei limiti che, a partire dall’8 settem­bre 1943, la reale condizione dell’Italia come paese sconfitto in una guerra rovinosa avrebbe comportato.Altrettanto acquisita, anche se il decorso del tempo ha pesantemente contribuito ad offuscare il rilievo dell’evento *, è la consapevolezza che il passaggio dalla mo­narchia alla repubblica fu uno dei risultati più importanti cui condussero le soffe­renze e le lotte degli italiani nel corso della seconda guerra mondiale.Il proposito di queste pagine è quello di stabilire un rapporto il più possibile preciso e dettagliato tra i due enunciati precedenti, in modo da valutare il peso che i condizionamenti internazionali esercitarono, in un senso o nell’altro, nel dilemma tra la conservazione dell’istituto monarchico e il passaggio alla forma repubblicana, che fu posto agli elettori italiani il 2 giugno 1946.È però necessario, a questo punto, fare alcune precisazioni metodologiche. La storia delle relazioni internazionali è forse il terreno più difficile sul quale gli storici d’ispirazione marxista possano cimentarsi, dato che il rischio della superficialità della storia diplomatica di vecchio tipo è continuamente presente. D’altra parte, la politica estera degli stati è il momento in cui gli effetti dei dati strutturali delle singole società nazionali sono più mediati e rarefatti, per cui è estremamente diffi­cile individuare i temi di fondo che sono alla base delle diverse scelte. Inoltre, per il caso che qui c’interessa, v’è da rilevare che la questione istituzionale italiana investe un aspetto particolare della politica americana verso l’Italia, la quale, a sua volta, è un aspetto particolare della politica estera globale degli Stati Uniti.Da qui la consapevolezza che il tema trattato è estremamente limitato e monografico, che il rischio della minuziosità superficiale della storia diplomatica tradizionale è particolarmente massiccio e che potrà essere evitato solo mantenendo un costante collegamento col più generale contesto delle relazioni internazionali degli anni 1943-46. Ciò non sminuisce peraltro l’interesse del problema, soprattutto per la 1

1 Cfr. ernesto ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia Einaudi, voi. V, t. 3, Torino, 1976, pp. 2442-43.

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storia italiana, dal momento che nella pur ricca messe di studi sul periodo2 esso non è mai stato affrontato espressamente e, ancor più, perché riguarda una vicenda in cui l’intreccio tra momenti e spinte interne italiane e condizionamenti interna­zionali è particolarmente fitto e significativo.Bisogna, inoltre, avere ben presente il fatto che se la « questione istituzionale » aveva un contenuto ben preciso, è anche vero che essa era tale da condizionare la politica italiana in tutte le sue implicazioni. D’altra parte, parlare di una politica degli Stati Uniti nei confronti non solo dell’assetto istituzionale, ma in generale dell’Italia significa giungere ad un livello di astrazione notevole, oltre che per il motivo accennato riguardante la storia delle relazioni internazionali, anche per un aspetto più specifico dipendente dalla pluralità dei centri di decisione che si occu­pavano a vario titolo delle questioni italiane3. Ne consegue una particolare com­plessità delle risultanze di questo processo, reso ancor più articolato dal fatto che i diversi schieramenti politici italiani, addirittura fino dai primissimi tentativi di uscire dal conflitto mondiale, tendevano a sollecitare qualcuno di quei centri decisionali in senso favorevole alle proprie aspirazioni.

Gii antecedenti

Che la « questione istituzionale » fosse destinata a sorgere all’indomani della guerra era apparso chiaro fino dal momento in cui, con la sconfitta di E1 Alamein, e, soprattutto, con il blocco della seconda offensiva estiva tedesca a Stalingrado, le sorti del conflitto mondiale avevano subito un brusco rovesciamento, subito confermato dallo sbarco anglo-americano nel Nord Africa. Non per nulla, fino dai primissimi e maldestri approcci dei gruppi dirigenti italiani per giungere ad una pace separata, una delle condizioni che da parte italiana si intendeva porre era quella della « conservazione della monarchia » 4.D’altro canto la coscienza del fatto che la monarchia italiana avrebbe rappresentato comunque un problema era presente anche nello schieramento alleato: inizialmente la posizione americana sembra ispirata alla massima cautela e si precisa, nel corso di uno scambio di opinioni con il Foreign Office a proposito della definizione di una politica generale nei confronti dell’Italia. È nota •— a questo riguardo -— la posizione di estrema durezza assunta dal gabinetto di guerra inglese nei confronti dell’Italia, che doveva essere sottoposta alla pressione dei bombardamenti aerei e abbandonata all’invasione tedesca e al caos: in questo quadro, anche la monarchia appare del tutto screditata ed inutile, anche come interlocutore per la pace sepa­rata: « Il re è considerato un giocattolo consenziente del fascismo e non sembra

2 Per una ricognizione degli studi sul periodo si rinvia a aa.w ., Il dopoguerra italiano - Gui­da bibliografica, Milano, Feltrinelli, 1975.1 È questo un rilievo abbastanza diffuso, anche se prevalentemente viene limitato alla distin­zione tra centri di decisione militari e civili, per il periodo della guerra. Le distinzioni sono in realtà assai più complesse, come bene ha affermato elena aga rossi nel suo saggio La politica de­gli alleati verso l’Italia nel voi. a cura di Renzo de felice , L ’Italia fra tedeschi e alleati. La poli­tica estera fascista e la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1973, e nel suo intervento al seminario di Abano Terme su Italia e Stati Uniti durante l’Amministrazione Truman, Milano, Angeli, 1975.4 Cfr. la lettera con cui il ministro degli esteri inglese Eden informa l’ambasciatore USA a Londra Winant delle avances per una pace separata fatte dal console italiano a Ginevra a nome del duca D’Aosta in Foreign Relations of thè United States, 1943, voi. II, Europe, p. 316, (d’ora in poi fr u s). Circa l’insistenza italiana sulla garanzia monarchica in tutti gli approcci cfr. Mario toscano, Dal 25 luglio all’8 settembre, Firenze, Le Monnier, 1966, pp. 142-188 e ivan Palermo, Storia di un armistizio, Milano, Mondadori, 1967, pp. 11-39.

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che il popolo italiano possa continuare a considerarlo un leader [...] Noi siamo estremamente dubbiosi circa la volontà e la capacità di qualsiasi membro di Casa Savoia di guidare una rivolta contro il fascismo » 5.Ed è noto, altresì, l’atteggiamento assai più moderato del Dipartimento di stato e, in genere, degli Stati Uniti su questo problema: « Relativamente alla Casa Savoia, considerata a prescindere da Vittorio Emanuele III, le informazioni in nostro pos­sesso ci inducono a ritenere che essa può avere il sostegno degli elementi conser­vatori in Italia, compresa l’aristocrazia, l’esercito, i contadini in misura sufficiente, per mantenere il potere, almeno nel periodo transitorio tra il regime fascista e il suo definitivo successore » 6.È veramente difficile valutare il senso di questi giudizi così nettamente contrastanti sulla posizione e sul possibile ruolo di Casa Savoia nell’uscita dell’Italia dalla guerra, senza introdurre un discorso più generale sulle finalità strategiche e politiche per­seguite dai due alleati atlantici nel conflitto. Non si deve dimenticare, anzitutto, che il dibattito nel quale i due giudizi si inseriscono si svolge a cavallo della Confe­renza di Casablanca, cioè in un momento in cui, pur continuando ad essere pre­valente quantitativamente l’impegno militare inglese, l’enorme potenziale bellico degli Stati Uniti comincia a dispiegare i propri effetti in modo chiaramente visibile. Le discussioni strategiche di Casablanca rispecchiarono questa condizione: mentre fu facile giungere ad un accordo sui compiti essenziali del 1943, una volta accan­tonata per quell’anno l’invasione attraverso la Manica, gli americani si trovarono scoperti di fronte alla proposta inglese di sfruttare il successo in Nord Africa con l’invasione della Sicilia con lo scopo — che non rientrava tra quelli iniziali — di provocare il collasso dell’Italia.D’altra parte, se dal piano strategico si passa a quello politico generale, la conclu­sione della mancanza di un interesse politico primario da parte degli Stati Uniti allo scacchiere mediterraneo nel 1943 è confermata. A questa data, anzi, è possibile affermare che anche l’elaborazione di una visione generale del ruolo degli Stati Uniti nell’assetto mondiale post-bellico era ancora in una fase iniziale, anche se già erano evidenti sia la ripresa dei temi wilsoniani di una organizzazione mondiale a tutela della pace, sia la volontà di approfondire l’intesa bipartitica nella politica estera americana al fine di evitare la ripetizione della frattura sull’isolazionismo7. Al di là, poi, delle motivazioni ideologiche progressiste, F.D. Roosevelt si stava rivelando nella concreta condotta della guerra un Realpolitiker di prima grandezza: nonostante tutte le polemiche suscitate dalla collaborazione con Darlan e con gli ambienti vichysti nell’imbroglio nord-africano, il presidente degli Stati Uniti si manteneva su un piano di spregiudicato realismo, scevro da ogni implicazione ideologica8.

5 Cfr. fr u s , 1943, voi. II cit., p. 319. e . aga ro ssi, (La politica degli Alleati, cit., pp. 178-179) testimonia di un contrasto tra Churchill, molto più possibilista, e il gabinetto inglese a proposito del modo migliore per far uscire l’Italia dalla guerra, contrasto confermato anche a proposito del­l’inserimento dell’Italia tra i paesi con i quali non si doveva trattare se non sulla base della resa incondizionata. La questione fu unilateralmente risolta da Roosevelt alla fine della conferenza di Casablanca, quando — contro l’avviso di molti esponenti deU’amministrazione e del Segretario di stato Hull — annunciò pubblicamente il principio della resa incondizionata, comprendendovi l’Italia, come voleva il gabinetto inglese (ibid., pp. 182-186).6 Cfr. le istruzioni inviate dal Segretario di Stato Hull all’ambasciatore Winant (fr u s , 1943, voi. II cit., p. 322).7 Per una convincente e lucida ricostruzione della evoluzione della politica di F.D. Roosevelt nel 1942, con il tentativo di conciliare l’Ideologia wilsoniana con il realismo della politica di in­fluenza si veda il bel libro di d. yergin, Shattered Peace. The Origins of thè Cold War and thè National Security Stale, Boston, 1977, pp. 41 e sgg.8 Al primo accendersi delle polemiche sui contatti con Darlan, Roosevelt aveva scritto a Chur-

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In questo contesto diviene più agevole cercare di spiegare il contrasto di giudizio fra inglesi ed americani sulla monarchia italiana, pur se rimane una contraddizione con i ruoli normalmente attribuiti dalla storiografia rispettivamente alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, anche in quello che appare il più equilibrato ed ag­giornato dei bilanci storiografici in questo settore 9. È chiaro che il giudizio sprez­zante del Foreign Office nei confronti di Casa Savoia non diminuisce il sostanziale conservatorismo della politica italiana della Gran Bretagna, come il relativo favore di Cordell Hull nei confronti della dinastia italiana non vale a cancellare il giudizio globale sull’impostazione decisamente più progressista della politica americana verso l’Italia rispetto a quella inglese 10. Il fatto è che, in questa fase, come anche successivamente, le preoccupazioni ideologiche hanno un limite ben preciso rappre­sentato dalle esigenze belliche. Queste, a loro volta, debbono, nei limiti del possibile, evitare di pregiudicare soluzioni definitive, che potranno essere adottate soltanto alla fine del conflitto: non per niente, nel giudizio americano vi è la chiara indica­zione che la funzione potenzialmente positiva della monarchia potrà dispiegarsi soltanto nel periodo transitorio.

Nella primavera del 1943, dunque, l’indeterminatezza sembra essere la caratteri­stica prevalente in tutta la problematica italiana degli Alleati: sul piano strategico, nel quadro della più generale incertezza circa lo sbarco attraverso la Manica, permaneva una specifica indecisione sulle operazioni da compiere una volta occu­pata la Sicilia n. Vero è che, per questo aspetto, l’indeterminatezza dipendeva in gran parte dal comportamento italiano e tedesco in risposta alle pressioni che veni-

chill, il 19 novembre 1942, « Ieri ho riferito alla stampa, in via riservata, un vecchio proverbio della Chiesa ortodossa, che mi pare si possa applicare al problema attuale Darlan-De Gaulle:< Ragazzi miei, in tempi di grave pericolo vi è permesso di accompagnarvi col diavolo finché non avrete attraversato il ponte > » (f .d. Roosevelt-w . Chu rch ill , Carteggio segreto di guerra, a cura di f .l . loew enheim , h .d. lanoley, m . jonas, Milano, Mondadori, 1977, pp. 323-24). Non è affatto az­zardato ritenere che a questo proverbio il Presidente degli Stati Uniti si sia attenuto anche per quanto riguarda l’Italia, tanto più che il coinvolgimento americano con gli ambienti filofascisti francesi di Nord Africa era veramente massiccio. Cfr. robert o. paxton Vichy France: Old Guarà and New Order, 1940-1944, New York, 1972.5 Cfr. e . collotti, Collocazione internazionale dell'Italia dall’armistizio alle premesse dell’al­leanza atlantica (1943-1947), aa.vv., L ’Italia dalla liberazione alla Repubblica, Milano, Feltrinelli, s.d. (ma 1976) p. 36.10 Tra le informazioni di cui il Dipartimento di stato disponeva sull’Italia erano quelle pro­venienti dal Vaticano, tramite Tittmann, il sostituto dell’inviato speciale del Presidente Myron Taylor presso la Santa Sede. Questo osservatorio aveva una connotazione particolarmente mode­rata: anche dopo il 25 luglio è evidente l’appoggio al governo Badoglio (Cfr. fr u s , 1943, voi. II cit., pp. 340-352).Sui rapporti tra Stati Uniti e Vaticano durante la guerra cfr. e . aga rossi, La politici degli alleati, cit., pp. 202-204, la quale, peraltro, sembra sopravvalutarne l’importanza, sulla base delie polemi­che che alcuni esuli italiani progressisti negli Stati Uniti, capeggiati da Salvemini, condussero con l’amministrazione Roosevelt.11 II 19 maggio 1943 i Combined Chiefs of Staff — nonostante le pressioni di Churchill durante la conferenza tenutasi a Washington (denominata Trident) — rinunciarono a fissare una precisa strategia mediterranea.Si legge in proposito sulla storia ufficiale americana del secondo conflitto mondiale: « Il piano strategico per il Mediterraneo trasmesso dai CCS al generale Eisenhower ordinava al comandante alleato <di programmare, al fine di sfruttare i risultati dell’operazione Husky [l’invasione della Sicilia], ogni operazione atta ad eliminare l’Italia dalla guerra e da impegnare il massimo numero di forze tedesche >. I CCS si riservavano di decidere ulteriormente quale scegliere dei possibili piani dopo la Sicilia e fino a che punto dovessero spingersi gli sforzi alleati nello schacchiere me­ridionale ». Cfr. a.n. GARLAND, H. Me gaw sm it h , m . blumenson - Sicily and thè Surrender of Italy, nella serie Ij.S. Army in World War 11, The Mediterranean Theater of Operations, Washing­ton, 1965, p. 23.Sempre nello stesso arco di mesi i pianificatori alleati predisposero ben 8 piani strategici alterna­tivi per sbarchi marittimi o aerei nell’Italia continentale o nelle isole, nessuno dei quali fu poi attuato.

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vano esercitate per conseguire il tracollo dell’Italia: resta però il fatto che gli obiettivi presi in considerazione erano esclusivamente militari.Questa tesi è confermata se si considera la programmazione dell’amministrazione militare dei territori italiani destinati a cadere in mano alleata. La questione è già stata ottimamente trattata sia sul piano dei rapporti anglo-americani sia su quello delle conseguenze che le scelte su questo terreno avrebbero avuto per l’Italia12: sarà quindi sufficiente accennare a un punto particolarmente interessante. In un documento del giugno 1943, il Dipartimento di stato aveva prospettato al presidente uno schema di politica italiana sul quale lo stesso Roosevelt aveva apportato delle correzioni che tendevano a rendere assai più radicale l’epurazione dei fascisti ed a negare ogni speciale considerazione per la Corona, che doveva vedere sospese le proprie prerogative: questo episodio, più che di un contrasto specifico sulla politica italiana, sembra essere l’espressione di una contraddizione più generale all’interno dell’amministrazione Roosevelt, quella fra il generico progressismo del presidente e del ristretto gruppo di Newdealers intorno a lui e il sostanziale conservatorismo della burocrazia sia diplomatica che militare 13. Inoltre, le correzioni di Roosevelt non contraddicevano certo alla linea generale di dare la prevalenza alle considera­zioni militari, senza pregiudizio delle soluzioni definitive.È quindi possibile, a questo punto, trarre alcune conclusioni che sembrano suffi­cientemente consolidate in ordine all’atteggiamento degli Stati Uniti sulla questione istituzionale italiana prima della caduta del fascismo e dell’armistizio. Anzitutto, la mancanza di un orientamento netto e predeterminato sul piano politico generale: qui, il solo criterio valido è quello, genericissimo, del diritto dei popoli all’autode­terminazione, che opera soprattutto negativamente nel senso di impedire ogni im­pegno definitivo a favore o contro la monarchia.In secondo luogo, la più volte rilevata preminenza degli obiettivi militari su quelli politici rende anche assai meno rilevante di quanto si sia sin qui ritenuto la que­stione del peso rispettivo degli interessi inglesi ed americani all’interno dello schie­ramento alleato dal momento che, quando la guerra sarà finita, la Gran Bretagna non sarà più in grado di esercitare, nel Mediterraneo come altrove, la propria influenza.In questa fase gli Stati Uniti vengono elaborando una strategia complessiva assai articolata, nella quale le zone d’influenza di tipo tradizionale hanno uno spazio limitato, lasciando il posto ad un’organizzazione mondiale capace di eliminare i rischi di guerra e di garantire un assetto degli scambi internazionali fondato sul­l’assenza di ogni ostacolo al libero commercio, nella fiducia che il loro potenziale economico garantisca un’egemonia sufficientemente ampia, nella quale può avere un ruolo anche l’Unione Sovietica.Da qui la sostanziale indeterminatezza degli scopi della politica italiana degli Stati Uniti, l’accettazione indiscussa della preminenza degli aspetti militari, appena temperata da un progressismo generico e da un altrettanto generico antifascismo. È su queste basi che gli Alleati affrontano la fase cruciale dell’uscita italiana dalla guerra, che è già nella sostanza un’impresa prevalentemente americana, pur se la coscienza di questa realtà doveva tardare notevolmente a imporsi ai contemporanei14.

12 Cfr. E. aga rossi, La politica degli Alleati, cit., pp. 191-207 e G. Warner, L'Italia e le poteri- alleate in Italia 1943-1950; la ricostruzione, a cura di s.J. woolf, Bari, Laterza, 1974, pp. 51-53.13 Cfr. D. yergin, Shattered Peace, cit., p. 68.14 Questa conclusione è solo apparentemente in contrasto con la storiografia più accreditata che fa risalire ad un momento posteriore (in genere al 1945) l’emergere del declino generale inglese, e del trapasso in Italia, alla leadership americana. Cfr. d.w . ellwood, La politica anglo-americana

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8 Carlo Pinzanl

I mesi che vanno dalla caduta del fascismo alla liberazione di Roma hanno un peso determinante per tutta l’evoluzione successiva della storia italiana, e in parti­colare per la questione istituzionale. La fase iniziale, quella dei 45 giorni del go­verno Badoglio, è però, in genere, considerata a parte dall’abbondante storiografia sull’argomento, quasi che le trattative armistiziali avessero un significato esclusiva- mente militare ls: in realtà, tali trattative scioglievano la incognita fondamentale della politica e della strategia anglo-americana relativa al modo in cui l’Italia sarebbe uscita dalla guerra.Da questo punto di vista, già la sostituzione di Mussolini con Badoglio forniva ai dirigenti anglosassoni indicazioni preziose: tra il 25 e il 30 luglio 1943 si registra uno scambio di messaggi tra Churchill e Roosevelt, nel quale si possono rilevare elementi di estremo interesse. Il 26 luglio, il primo ministro britannico esponeva, in un dettagliato messaggio, i vantaggi (che egli definiva crudamente «la merce») ottenibili in chiave antitedesca da una resa italiana. E Churchill premetteva al suo elenco un discorso assai chiaro: « Non ritengo che dovremmo essere troppo schiz­zinosi nel trattare con qualsiasi governo non fascista, anche se esso non è proprio quello che vorremmo. Ora che Mussolini se n’è andato, tratterei con qualsiasi go­verno non fascista che possa consegnare la merce » 16. Il 30 luglio Roosevelt accetta, senza sostanziali varianti, le proposte di Churchill, anche sul punto dell’individua­zione dell’interlocutore, che è quello che qui ci interessa: « Ho dichiarato oggi alla stampa che noi dobbiamo trattare con qualunque persona o gruppo di persone che meglio possa garantirci, primo il disarmo, poi l’ordine e credo anche che Lei e io, dopo l’armistizio, potremmo dire qualcosa in merito all’autodecisione dell’Italia al momento opportuno » n. Il giorno successivo il primo ministro precisa ancor meglio l’impostazione globale:

Non ho affatto paura, a questo scopo, di aver l’aria di riconoscere Casa Savoia o Badoglio, sempre che essi siano capaci di far fare agli italiani ciò di cui abbiamo bisogno per i nostri scopi militari, che certamente sarebbero ostacolati dal caos, dalla bolscevizzazione o dalla guerra civile. Non abbiamo il diritto di imporre fardelli non necessari alle nostre truppe. Può darsi benissimo che, una volta accettate le condizioni di armistizio, sia il re che Badoglio siano travolti dall’odio provocato dalla resa e che possano essere scelti il principe ereditario e un nuovo primo ministro I8.

Con questa intesa, ben prima che concretamente i dirigenti italiani si decidessero a prendere iniziative di pace, l’atteggiamento anglo-americano era già sufficiente­

La questione istituzionale e l’armistizio

verso l’Italia. 1945: l’anno del trapasso del potere, in aa.vv., L ’Italia dalla liberazione alla Repub­blica, cit., pp. 119-132.In realtà, non v’è dubbio che, fino al 1945, gli inglesi abbiano mantenuto un peso determinante nelle decisioni concernenti l’Italia: ma è anche evidente che gli Stati Uniti perseguivano una stra­tegia globale più vasta, in cui rientrava anche un relativo disimpegno in singoli schacchieri che lasciava margini alle iniziative inglesi, salvo che queste incidessero sulle scelte strategiche di fondo o sui disegni globali che l’Amministrazione Roosevelt veniva elaborando. Questa conclusione coin­cide sostanzialmente con quella di E. Collotti, Collocazione internazionale dell’Italia, cit., p. 37.15 L’eccezione più rilevante a questo modo di procedere è senz’altro quella di D.w. ellwood, L ’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo-americana in Italia, 1943-1946, Milano, Fel­trinelli, 1977, pp. 48-63.16 Cfr. fr u s , 1943, voi. II cit., pp. 332-334. È interessante osservare — a proposito di queste espressioni — come Churchill segua un procedimento logico e psicologico del tutto conforme al proverbio slavo citato da Roosevelt a proposito dei contatti con Darlan e sopra riportato.17 Cfr. f .d. ROOSEVELT - w. Ch urchill , Carteggio segreto, cit. p. 407.18 Cfr. fr u s , 1943, voi. II cit., p. 339. Buona parte di questo scambio di messaggi era già stato pubblicato in w. Ch urchill , La seconda guerra mondiale, parte V, voi. I, La campagna d’Italia, Verona, Mondadori, 1951, p. 78.

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Gli Stati Uniti e la questione istituzionale in Italia 9

mente delineato: trattare circa il riconoscimento della monarchia o di Badoglio, al fine di giungere — come si era espresso Roosevelt nel primo dei messaggi sopra riportati — «il più vicino possibile alla resa incondizionata», col solo limite del­l’autodeterminazione al momento opportuno, limite che Churchill interpreta ridut- tivamente come semplice sostituzione di persona al vertice dello stato italiano.Queste conclusioni sono pienamente confermate in tutta la complessa discussione anglo-americana sui termini di armistizio, conclusasi durante la Conferenza di Quebec; da qui fu trasmesso ad Eisenhower un memorandum nel quale, in buona sostanza, si graduava il riconoscimento del governo Badoglio e della monarchia in funzione dell’entità del contributo antitedesco che essi avrebbero dato 19.Da questo punto di vista, l’ottimismo churchilliano sulla volontà e sulla capacità dei dirigenti italiani di opporsi ai tedeschi doveva essere completamente deluso e doveva essere invece pienamente verificato l’iniziale pessimismo del Foreign Office. E se il solo vantaggio reale conseguito fu il trasferimento della flotta italiana a Malta, il prezzo pagato fu quello di avere come interlocutori il re e Badoglio, quale che fosse il grado del riconoscimento da questi ottenuto20.È abbastanza singolare come la storiografia su questo periodo tenda a trascurare il grande significato dell’armistizio, del completo sfasciamento dell’apparato mi­litare dello stato e del temporaneo, ma evidente, affievolimento di tutte le funzioni statali, del modo in cui i dirigenti italiani interpretarono l’armistizio stesso. Feno­meni, tutti, dei quali gli italiani, per una volta senza distinzioni di classe o di opinioni politiche, ebbero una diffusa coscienza, dolorosamente sentita nei con­servatori, speranzosa nei progressisti e sbigottita e impotente nella grande massa della popolazione appena uscita dalla ventennale diseducazione politica operata dal fascismo 21.È però evidente che la risorsa di gran lunga più importante di cui disponevano i fuggiaschi di Brindisi era il contatto con gli alleati e la trattativa con essi condotta. Nonostante che sul piano militare la resa italiana non avesse portato risultati ap­prezzabili, i capi militari alleati continuavano a mantenere una certa speranza di trarre dei vantaggi dalla utilizzazione dei loro interlocutori italiani, anche perché, per una decina di giorni dopo l’armistizio, l’esito della battaglia di Salerno era tutt’altro che chiaro, per cui l’opportunità di un aiuto italiano era ancora plausibile22.

19 Sulla questione del memorandum di Quebec e della formulazione dei due armistizi cfr. a .n . garland, H. MC gaw s m it h , M. blum enson , Sicily and thè Surrender of Italy, cit., pp. 268-278. e . aga ro ssi, (La politica degli Alleati cit. p. 221) nel valutare il problema, insiste molto sulle limi­tazioni che Roosevelt poneva alla trattativa, intendendo limitarla al piano militare ed opponendosi all’armistizio lungo che avrebbe implicato un maggior riconoscimento dei governanti italiani. Sembra che un tale atteggiamento sia da ricondursi più alla volontà di evitare il più possibile impegni precisi, che non ad una chiara impostazione antimonarchica: il memorandum di Quebec lascia pochi dubbi in proposito.20 Per un’analisi delle trattative e per una valutazione dei risultati dell’armistizio si rinvia a Carlo pinza n i, L ’8 settembre 1943: elementi ed ipotesi per un giudizio storico, in « Studi storici », 1972, n. 2, pp. 289-337.21 Anche quegli storici che sottolineano l’importanza della cesura registratasi l’8 settembre 1943 (come Claudio pavone nell’ottimo saggio Sulla continuità dello stato nell'Italia 1943-45, in « Storia contemporanea », 1974, n. 2, pp. 172-205) non traggono da essa tutte le conseguenze necessarie.22 Questa ambiguità è presente anche nel primo, immediato giudizio di Eisenhower sul signifi­cato militare della resa italiana. Scrivendo a Marshall il 13 settembre 1943 affermava: « AH’interno gli italiani sono stati così deboli e acquiescenti che non ne abbiamo avuto praticamente alcun aiuto. Comunque, sulla base di un puro bluff, abbiamo ricevuto la flotta italiana a Malta e, grazie alla resa italiana, siamo stati in grado di sbarcare a Taranto e Brindisi ove non c’erano tedeschi... La situazione in Sardegna e in Corsica mostra quanto incapaci ed incerti siano in realtà gli Italia­ni. In entrambe le isole avevano forze sufficienti per gettare in mare i tedeschi. Invece non sem­bra che abbiano fatto qualcosa, pur occupando qua e là un porto o due... Poche unità di artiglie-

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Tuttavia, anche questo aspetto doveva rapidamente venir meno: il 15 settembre, inviata da Eisenhower su sollecitazione di Badoglio, giungeva a Brindisi una mis­sione capeggiata dal comandante di Gibilterra, l’inglese Mason Mac Farlane, assi­stito sul piano politico dai consiglieri di Eisenhower, Murphy e Mac Millan. L’impressione fornita dai resti del governo italiano ai rappresentanti alleati fu pe­nosa, ma ad essi non sfuggì la sostanza politica della situazione, che il 18 set­tembre Eisenhower così riassumeva per i Combined Chiefs of Staff (Capi di stato maggiore combinati e congiunti): « L’importanza dell’amministrazione diBadoglio risiede nel suo incontestato richiamo alla legalità » 23. Quali che ne fossero le motivazioni, questa impostazione fu decisiva nell’orientare il quadro trasmesso da Eisenhower ai Combined Chiefs of Staff. Le alternative che il comandante alleato prospetta sono: una qualche forma di riconoscimento de facto dell’amministra­zione Badoglio come cobelligerante o associato militare, subordinato a determinate condizioni; oppure

m ettere da parte questo governo, impiantare un Governo militare alleato dell’Italia occu­pata, accettando i gravi impegni che ne conseguono. Di queste due alternative, per motivi militari, raccomando vivamente la prima. Dal momento che, come cobelligerante, il go­verno Badoglio dovrebbe necessariamente dichiarar guerra alla Germania e al governo fascista repubblicano, esso diventerebbe il naturale punto di aggregazione di tu tti gli elementi che in Italia desiderano battersi contro il fascismo 24.

Eisenhower propone di assortire il riconoscimento del governo di Brindisi come cobelligerante o associato militare con talune condizioni, tra le quali l’immissione nel governo di rappresentanti dei partiti politici e « un decreto che restaurasse la costituzione precedente e promettesse libere elezioni per un’assemblea costituente ».Per la prima volta, in questo messaggio, il principio generale dell’autodetermina­zione si precisa con l’accenno all’elezione di un’assemblea costituente, pur se il contesto in cui è formulato permane assai confuso, dal momento che il ritorno alla costituzione precedente era, almeno parzialmente, avvenuto all’indomani del 25 lu­glio, con i diversi regi decreti legislativi che eliminavano le più vistose incrosta­zioni fasciste dal sistema dello statuto albertino.Le proposte di Eisenhower vengono accolte tanto a Londra quanto a Washington in termini sostanzialmente analoghi: il 21 settembre alla Camera dei Comuni, in un discorso sulla situazione bellica, Churchill afferma che il governo britannico è deciso a sostenere « col massimo vigore » una politica che favorisca la raccolta intorno aH’amministrazione di Brindisi di tutte le forze che intendono battersi contro il fascismo. « Ciò naturalmente senza il minimo pregiudizio all’assoluto

ria italiane stanno aiutando la divisione aviotrasportata a Taranto. A parte questo, ci sono stati scontri isolati nella penisola. Ciò, naturalmente, è valso a tener desta la preoccupazione tedesca, ma gli effetti prodotti non sono comparabili con quelli anche facilmente possibili ». (Cfr. a.n . gar­bano, H. MC gaw sm y th , M. blum enson , Sicily and thè surrender of Italy, cit., p. 541). Il bilancio di Eisenhower non è certo brillante, ma i pochissimi elementi positivi varranno ancora a giustifi­care la prosecuzione sulla linea precedente.23 Cfr. il messaggio di Eisenhower ai CCS del 18 settembre 1943 in fr u s , 1943, voi. II cit. p. 368. « Il governo del re e di Badoglio, formato da un gruppo di ufficiali e alti funzionari della corte, era tutt’altro che imponente. Ma Vittorio Emanuele costituiva il nucleo di un governo le­gale, come nessun altro italiano in quel momento, e Mac Millan e io pensammo che il piccolo seguito riunito fedelmente intorno al monarca sarebbe potuto essere il solo governo italiano in grado di rendersi utile agli scopi militari anglo-americani in quel momento ». Cfr. robert m u r ph y , Un diplomatico in prima linea, Verona, Mondadori, 1967, p. 289. Lo stesso diplomatico ameri­cano continua a mostrare nelle sue memorie una viva simpatia per Badoglio e il Re.24 Cfr. fr u s , 1943, voi. II, cit., pp. 369-370. I messaggi di Eisenhower sono discussi e corretta- mente interpretati da d.w . ellwood, L ’alleato nemico, cit., pp. 58-62, il quale insiste molto sulle considerazioni militari che determinarono la posizione alleata. Tra queste, è considerata premi­nente la volontà di evitare l’occupazione diretta di tutto il territorio italiano liberato.

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diritto della nazione italiana di elaborare qualsiasi schema essa scelga per il futuro governo del paese su basi democratiche, una volta tornate la pace e la tranquillità ». Sempre il 21/10, questa politica è proposta a Roosevelt, che l’accetta in pieno il 24/10, trasmettendo ad Eisenhower un messaggio nel quale si afferma che

a condizione che esso dichiari guerra alla Germania, all’attuale governo italiano è con­sentito di comportarsi come governo dell’Italia e [sarà] tra tta to come cobelligerante nella guerra contro la Germania. Questo rapporto deve essere basato sulla chiara intesa che esso non può in alcun modo pregiudicare l’assoluto diritto del popolo italiano di decidere sulla forma di governo che esso vorrà in definitiva avere e che la forma definitiva di governo dell’Italia non verrà decisa fino a quando i tedeschi non saranno stati cacciati dal territorio italiano 25.

È appena il caso di sottolineare l’importanza di questo accordo interalleato nel quale le reali divergenze sul destino della monarchia italiana sono ridotte a semplici sfumature, con una maggiore sottolineatura americana della provvisorietà e inde­terminatezza dell’assetto così delineato.Ma — come hanno notato gli storici ufficiali americani dell’amministrazione mi­litare alleata26 * — « politics will not wait » e i contrasti interni italiani cominciano ad operare immediatamente: anzitutto, vi è un tentativo del re e di Badoglio di respingere tutte le condizioni poste da Eisenhower per il riconoscimento della cobelligeranza. Ricevendo a Brindisi il 27 settembre il capo di stato maggiore di Eisenhower Bedell-Smith, accompagnato dai dioscuri diplomatici Murphy e Mac Millan, Badoglio rifiuta la dichiarazione di guerra alla Germania, chiede di rinviare l’allargamento del governo dopo il rientro a Roma, e, soprattutto, « riguardo al­l’espressione < Si intende che il diritto del popolo italiano a scegliere il proprio sistema di governo dopo la guerra >, compresa nei termini armistiziali, il maresciallo Badoglio desidera che essa sia così modificata: < Si intende che libere elezioni saranno tenute dopo la guerra >. In altri termini — prosegue il messaggio di Murphy che descrive il colloquio — Badoglio non intende impegnare il re ed il Governo ad aprire il problema della monarchia di loro iniziativa » 21.Di fronte a queste resistenze, Eisenhower richiede una dichiarazione che riconosca solennemente la cobelligeranza, in modo da scambiarla con la dichiarazione di guerra alla Germania. Concordandola anche con Stalin, Churchill e Roosevelt sono in grado di pubblicarla l’i l ottobre, quando si è già profilata la decisione tedesca di resistere a sud di Roma e, quindi, è chiaro che l’impegno alleato sul fronte italiano dovrà essere maggiore del previsto. Nella dichiarazione si afferma che « i tre Governi prendono atto dell’impegno del governo italiano di accettare la volontà del popolo italiano una volta cacciati i tedeschi dall’Italia e resta inteso che nulla è tolto all’assoluto (< untrammeled and absolute >) diritto del popolo italiano di decidere con mezzi costituzionali la forma democratica di governo che esso vorrà in ultima analisi scegliere » 28.Nonostante la sua debolezza il gruppo dinastico-militare di Brindisi riesce, in

25 Per il discorso di Churchill cfr. House of Commons - Parliamentary Debates, 21st September 1943, pp. 95-96. Lo stesso concetto è espresso in questi termini nel messaggio a Roosevelt: « Va però chiaramente inteso che nessuno di questi accomodamenti provvisori (riconoscimento della cobelligeranza, allargamento del governo Badoglio), dettati da necessità belliche, dovrà opporsi alla libera scelta, da parte del popolo italiano, della forma di governo che esso preferisce » (Cfr. w. Chu rch ill , La campagna d’Italia, cit., p. 205). Per il messaggio di Roosevelt a Eisenhower cfr. fr u s , 1943, voi. II, cit., p. 374.26 Cfr. u.s. States Army in the Wold War II, Special Studies, H.c. coles, a.k . Weinberg, Civil affairs: Soldiers Become Governors, Washington, 1964, p. 423.22 Ibid., p. 429.

fr u s , 1943, voi. II cit., p. 384-387.

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questa trattativa in cui l’interesse della conservazione prevale clamorosamente su quello nazionale29, ad ottenere che l’impegno all’esercizio dell’autodeterminazione non sia contenuto nelle clausole dell’armistizio. Pur essendo quella del re e di Badoglio una battaglia di retroguardia, senza reali possibilità di successo, è certo che i margini di azione del gruppo dinastico-militare sono aumentati dalla voluta indeterminatezza della politica alleata, sempre dipendente dalle esigenze militari e dalla volontà di mantenersi aperta la più vasta possibile gamma di alternative30.Questa volontà, particolarmente statunitense, di non impegnarsi nelle vicende ita­liane una volta acquisito il principio dell’autodeterminazione subisce una prima, rilevante limitazione alla Conferenza di Mosca che apre i suoi lavori il 22 ottobre: qui, per iniziativa sovietica, vengono stabilite una serie di misure concrete volte a rilanciare in Italia la defascistizzazione e la ripresa di una lotta politica democratica.A torto trascurata dalla storiografia, la Conferenza di Mosca — che doveva se­gnare, assieme all’incontro al vertice di Teheran immediatamente successivo, il vertice della collaborazione tra anglo-americani e sovietici •— relativamente all’Italia ebbe soprattutto il significato di riconoscere espressamente che, oltre ai depositari dei vincoli armistiziali, esistevano forze politiche più chiaramente antifasciste31.È sintomatico, poi, che Roosevelt nell’autorizzare Hull ad accettare le proposte sovietiche sull’Italia, ribadisca che la loro attuazione « deve essere regolata dalla situazione militare in Italia » e che, in particolare, la restaurazione delle autonomie locali elettive non deve pregiudicare in senso repubblicano la questione istituzio­nale 32: è un’evidente riprova che il generico e troppo conclamato progressismo rooseveltiano nella politica italiana aveva limiti assai ristretti.Il riconoscimento ottenuto a Mosca doveva contribuire al conseguimento, da parte delle forze antifasciste, di un importante risultato connesso con la questione istitu­zionale. Nella prima metà di ottobre, a Roma, si definisce faticosamente una linea che in mezzo a molte resistenze e riserve prevede la provvisoria accettazione del­l’invito anglo-americano a stringersi attorno al governo Badoglio del quale, peraltro, si anticipa espressamente il ripudio al momento della liberazione di Roma; si an­nuncia poi la decisione «[...] di convocare il popolo appena redento il territorio nazionale, perché liberamente decida fra monarchia e repubblica, accantonando per tal modo una questione che divide gli italiani » 33.

29 Sì veda in proposito l’equilibrato giudizio sul comportamento del Re in norman kogan, Italy and thè Alìies, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1956, pp. 44-45. Cfr. anche agostino degli espinosa , Il Regno del sud, Roma, Editori Riuniti, 1973, (ma l’opera è del 1946) pp. 118-119, che documenta il tentativo di Badoglio di sminuire la portata innovatrice della dichiarazione Tripartita.30 In questa prospettiva deve essere considerato anche l’invio in Italia del conte Sforza ad opera del Dipartimento di stato, appoggiato da Roosevelt (cfr. Sicily and thè Surrender of Italy, cit., p. 549) e contrastato dal Foreign Office.I documenti diplomatici americani sono ricchi di dati circa i rapporti tra lo State Depar- tement e Sforza, al punto da rendere credibile il duro giudizio di gabriel kolko, Politics of war, The World and United States Foreign Policy, 1943-1945, New York 1958, che lo qualifica come« funzionario americano » (cfr. ennio di nolfo, Perché Sforza non fu premier di un governoall’estero in « Corriere della sera » del 16 novembre 1975 e idem , Problemi della politica estera italiana in « Storia e politica », 1975, nn. 1-2, pp. 300-301). Una lettera di Cordell Hull a Murphy dell’8 ottobre 1943 mostra come non si avessero idee precise, in questa fase, sull’utilizzazione di Sforza (fr u s , 1943, voi. II, cit., p. 407).31 Per il testo della dichiarazione di Mosca cfr. la raccolta United States and Italy 1936-1946, Documentary Records, Washington, 1946. Sulla politica sovietica alla conferenza di Mosca, cfr. Carlo pinzani, Togliatti e PUnione Sovietica, in « Rinascita » dell’ 11 aprile 1975, n. 15.32 Cfr. fr u s , 1943, voi. I, Washington, 1963, p. 646.33 Così suona l’o.d.g. approvato dal Cln romano il 16 ottobre 1943. Si veda il testo in ivanoebonomi, Diario di un anno (2 giugno 1943-10 giugno 1944), Milano, Garzanti, 1947, p. 121.

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Era questo, in buona sostanza, il principio della tregua istituzionale che, accettando 1 impostazione degli alleati, rinviava alla fine della guerra la soluzione del problema della monarchia che, peraltro, era ormai posto in modo irrevocabile.Non è questa la sede per trattare neppure sommariamente il dibattito assai vivace che si svolse tra le forze politiche all’indomani dell’8 settembre sui problemi del futuro assetto costituzionale. Nel richiamarne la conclusione, basti notare che essa risultò da un primo, laborioso compromesso di cui fu artefice principale Ivanoe Bonomi. Commentando la dichiarazione tripartita dell’ 11 ottobre 1943, lo stesso Bonomi scriveva che, con la solenne riaffermazione del diritto all’autodetermina­zione, « [...] il problema della monarchia e della repubblica sarà rimesso alla futura costituente, e la monarchia — riconosciuta soltanto come un segno tradizionale sotto il quale si deve ora combattere — sarà di fatto messa sub judice fino alla sua nuova consacrazione o alla sua definitiva liquidazione » 34.Più rilevante della coincidenza di idee tra Bonomi e Eisenhower a proposito del modo di soluzione della questione istituzionale attraverso un’assemblea costituente, appare l’anticipazione dello schema giuridico entro il quale sarà racchiusa la que­stione istituzionale all’indomani della liberazione di Roma. E, ancor più rilevante è il fatto che ai primi del novembre 1943 la soluzione finisce per imporsi anche in quello che si avvia a divenire il « Regno del sud » collegandosi con le manovre per dare attuazione alla dichiarazione di Mosca sull’allargamento del governo Badoglio. In questa vicenda — che smentisce la tesi, abbastanza diffusa, di una totale separatezza tra le due parti d’Italia divise dal fronte35 — sono da sottolineare due aspetti: anzitutto, i termini del rinvio sono esattamente quelli della successiva formalizzazione della tregua istituzionale36. In secondo luogo, lo stesso Badoglio, nella dichiarazione con cui presentava il «governo dei sottosegretari», riconoscere per la prima volta che, alla fine della guerra il popolo italiano possa scegliere « quale forma di governo più aggradisca » 37.

34 Ibid., p. 119. Purtroppo, sulla figura di Bonomi gli studi sono assai carenti. Il quadro che lo dipinge « come un vecchio e stanco sopravvissuto dei mondo liberale, indifferente o ignaro della esistenza di un’altra realtà, quale il fenomeno partigiano, al di là dei ristretti confini delle sue relazioni personali, sorretto dalla sola convinzione di essere appunto una delle poche personalità di primo piano del prefascismo rimaste a raccoglierne l’eredità » appare del tutto riduttivo. (Cfr. elena aga-rossi siTZiA, La situazione politica ed economica dell’Italia nel periodo 1944-45: i governi Bonomi, in « Quaderni dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza », 1971, n. 2, p. 15). Fin da prima della caduta del fascismo Bonomi è al centro del ristretto gioco politico condotto dalla Corona, sempre in posizione ambigua, di collegamento tra fiancheggiatori e antifascismo moderato. Più che un isolato revenant, egli è l’espressione organica dell’alta burocrazia, che giungerà anche a fornirgli la parvenza di un partito (la Democrazia del lavoro) che ha l’obiettivo principale di garantire la continuità della burocrazia medesima e delle sue strutture di potere, fin quando non si saranno delineate nuove egemonie.35 Cfr., ad es., Antonio gambino, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere De, II ed., Bari, Laterza, 1978, p. 7.36 Riferendo ad Eisenhower la lettera con la quale Bonomi ha fatto pervenire a Badoglio la risoluzione del CIn romano, Mason Mac Farlane scrive che tra le condizioni poste v’è la seguente: « Dev’essere inteso che un’assemblea elettiva nel territorio liberato determinerà alla fine la forma di governo. Pertanto i membri del governo debbono impegnarsi ad astenersi da ogni atto che possa compromettere la libera espressione del popolo su questo problema ». V’è qui un’ulteriore preci­sazione relativa all’impegno dei ministri di non pregiudicare il problema; cfr. h .c. coles-a.k . weinberg , Civil Affairs, cit., p. 433.37 Cfr. A. degli espinosa , Il regno del sud, cit., p. 234.

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Da Brindisi a Roma

Alla metà del novembre del 1943, dunque, i termini della questione istituzionale sono posti in un modo che non subirà variazioni sostanziali fino alla decisione del referendum preventivo assunta dal Primo governo De Gasperi nel febbraio del 1946. A questo risultato si è giunti per il concorso di fattori internazionali e interni: la sopravvivenza della monarchia è messa in discussione dagli Alleati ancor prima dell’armistizio, ma la conclusione di esso impedisce che si possa procedere oltre la generica affermazione del principio di autodeterminazione alla fine della guerra.Le modalità e i tempi attraverso le quali tale principio potrà essere attuato sono fissate dagli italiani, e in particolare dal Cln romano e, per il momento, su di esse gli anglo-americani non prendono posizione.Tuttavia, in modo apparentemente paradossale, la questione istituzionale resterà al centro della lotta politica italiana nel Mezzogiorno, in un groviglio inestricabile di polemiche e di veti incrociati nei quali continuamente vengono coinvolti a tutti i livelli gli Alleati, nonostante le ripetute direttive in contrario provenienti dai vertici38. Dal novembre 1943 fino aH’aprile 1944 la questione assolutamente domi­nante è quella dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III, alla quale viene subordi­nato l’allargamento del governo Badoglio e, quindi, il grado di partecipazione italiana alla guerra. In realtà, l’accordo raggiunto sull’autodeterminazione e sulla tregua istituzionale faceva sì che i veri termini della questione fossero sin da allora quelli di precostituire, a favore di ciascuno dei due schieramenti che si venivano delineando, le posizioni migliori per lo scontro rinviato alla fine delle ostilità e, da questo punto di vista, non si può fare a meno di notare che i sostenitori più accesi dell’abdicazione erano i monarchici illuminati, mossi dalla giusta convinzione che l’istituto valesse assai di più della persona39.Pur non essendo questa la sede per ricostruire analiticamente le vicende della politica anglo-americana nel Regno del sud è necessario cercare di stabilire alcune linee direttrici. La tesi storiograficamente più accreditata è quella che contrappone netta­mente, in questa fase, la politica inglese a quella americana. La prima viene con­siderata come rigorosamente conservatrice e filomonarchica, nel quadro della vi­sione tradizionale dell’influenza che animava certamente i dirigenti britannici, nei quali inoltre continuava ad operare il ricordo della velleitaria sfida dell’Italia fascista all’egemonia mediterranea. La linea americana viene invece considerata progressista e chiaramente antimonarchica, ed anche apparentemente svincolata da considera­zioni connesse con la sistemazione postbellica. Inoltre, si tende a sottolineare la

3! Già prima della formazione del governo dei sottosegretari, il 2 novembre 1943 Eisenhower aveva ordinato a Mac Farlane « di evitare accuratamente ogni intervento » nelle polemiche tra il gruppo di Brindisi e quello di Napoli, salvo a far presente che gli Alleati gradiscono il governo « più largo e più schiettamente antifascista possibile ». (Cfr. h .c. coles-a.k. weinberg, Civil Affairs, cit., pp. 432-433).Il 27 novembre 1943 Hull chiarisce a Murphy, a proposito di Sforza, che l’Amministrazione « ...non ha seguito la pratica dei prolegés o dei candidati favoriti » (fr u s , 1943, voi. II, cit., p. 432). Più in generale, poi, il Quartier generale alleato nel Mediterraneo ribadisce, il 29 gennaio 1944, che « l’inquieta situazione politica nell’Italia occupata rende necessario che il personale militare alleato mantenga un atteggiamento rigorosamente neutrale verso i problemi italiani » (h .c. coles- a.k. weinberg, Civil Affairs, cit., p. 441).33 Già il 3 ottobre 1943 uno dei più autorevoli sostenitori di questo orientamento annotava sul suo diario, riferendosi a Vittorio Emanuele III: « Perché mai questo sventurato non ha, almeno, abdicato cedendo la corona al figlio, che non è così direttamente responsabile e compromesso come lui? » (Cfr. benedetto croce, Quando l'Italia era tagliata in due. Estratto di un diario (luglio 1943-giugno 1944), Bari, Laterza, 1948, p. 18.

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diminuita influenza, per entrambi gli Alleati, delle considerazioni di carattere mi­litare 40.Il quadro così sommariamente delineato necessita peraltro di alcune precisazioni in ordine a ciascuna delle sue tre componenti. Anche se, alla fine del 1943, il fronte italiano è riconosciuto ufficialmente come secondario, il fatto che l’Italia sia un campo di battaglia continua ad essere fondamentale ai fini della lotta politica: la stessa ripresa veemente delle mai sopite polemiche interne e internazionali sul­l’abdicazione del re è legata allo sbarco di Anzio e alle prospettive di un’imminente liberazione di Roma. È sintomatico, da questo punto di vista, che Vittorio Ema­nuele III accetti la proposta di De Nicola sulla luogotenenza il giorno prima dello sbarco alleato ad Anzio, e che, con la sua richiesta di recarsi a Roma, inneschi tutto il dibattito nel quale il Dipartimento di stato esprime la conclusione secondo la quale « sotto l’attuale re non è possibile alcuna ricostruzione politica » 41. Tuttavia, nonostante che alla fine di gennaio 1944, il Congresso di Bari faccia aumentare le pressioni per l’abdicazione, le esigenze militari continuano a prevalere: il generale Wilson, successore inglese di Eisenhower, chiede ai Combined Chiefs of Staff, il 9 febbraio, di soprassedere ad ogni cambiamento politico in Italia finché la battaglia di Anzio è in corso42. Tre giorni dopo, il Dipartimento di stato fa macchina indietro, avvertendo i suoi rappresentanti sul campo che la sostituzione del re « non è così urgente come in precedenza » 43 e recependo così la direttiva di Roosevelt di con­cedere una « ultima proroga » al re e a Badoglio. Anche nel discorso tenuto da Churchill ai Comuni il 22 febbraio 1944, che suscitò grande delusione nell’antifa­scismo italiano, la motivazione principale del rifiuto del cambiamento è prevalen­temente militare44.D’altra parte, non si può nemmeno ritenere che le preoccupazioni militari siano a senso unico e costituiscano sempre e necessariamente un paravento per le soluzioni conservatrici: il 18 febbraio il generale Wilson espone dettagliatamente la situazione italiana ai Combined Chiefs of Staff, concludendo che, di fronte al ritardo nella liberazione di Roma, è opportuno, per la tranquillità nelle retrovie, promuovere l’abdicazione del re in favore del principe ereditarlo, che ottenga la collaborazione dell’opposizione per un nuovo governo che continui ad ottemperare agli impegni armistiziali45. Vero è che Churchill ignora disinvoltamente nel suo discorso ai Co­muni la proposta di Wilson. Ma è anche vero che questa rilancia l’iniziativa ame­ricana per un cambiamento, che culmina nel contrasto del marzo 1944, interrotto dall’improvviso riconoscimento sovietico del governo Badoglio. Fatto, questo, certa­mente rilevante ma non sufficiente a sbloccare la situazione senza la rinuncia da parte del Partito comunista alla pregiudiziale sull’abdicazione di Vittorio Ema­nuele I I I 46, pregiudiziale promossa dai conservatori e nella quale erano rimaste invischiate anche le sinistre. Come è stato giustamente osservato, « l’errore delle sinistre, in realtà, non fu quello di intraprendere una campagna contro il governo

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10 Vedi in tal senso d.w . ellwood, L ’alleato nemico, cit., pp. 64-85; E. COI.TOTTI, Collocazione internazionale dell’Italia, cit., pp. 40-49 e, più precisamente, Nicola gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse contadine, in AA.vv., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, prefazione di G. quazza, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 462-468.41 Cfr. f r u s , 1944, voi. Ili, Washington, 1965, p. 1007. Lettera di Hull al sostituto di Murphy, Reinhardt, del 25 gennaio 1944.42 Cfr. H.c. coles-a.k . weinberg, Civil Affairs, cit., p. 442.43 fr u s , 1944, cit., p. 1019 e w. churchill-f .d. Roosevelt, Carteggio segreto, cit., p. 486.44 Cfr. House of Commons - Parliamentary Debates, 22nd february 1944, p. 694.45 Cfr. h .c. coles-a.k. weinberg, Civil Affairs, cit., pp. 442-443.46 Anche questa volta, infatti, Roosevelt finisce, il 17 marzo 1944, per aderire alle tesi britan­niche rinviando la questione; cfr. Carteggio segreto, cit., p. 526.

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ma di averlo fatto ponendo al centro del dibattito politico la questione istituzionale, un problema cioè che non poteva, nel contesto drammatico del Mezzogiorno di quei mesi, mobilitare vaste masse popolari » 47.Riguardo alla politica inglese, dunque, c’è da osservare che in essa il conservatorismo ideologico ha un ruolo sostanzialmente trascurabile rispetto alle esigenze connesse con la convinzione di poter conservare un’influenza prevalente in Italia. È certa­mente vero che Churchill e il Gabinetto di guerra sconfessarono il generale Wilson, ma significherebbe veramente far torto all’intelligenza politica del premier britannico considerarlo assolutamente legato a Vittorio Emanuele III, quando conservatori di livello assai inferiore avevano ben compreso come la permanenza del re rappresen­tasse un pesante elemento negativo per l’istituto monarchico. D’altra parte, a ben guardare, la sostanza del contrasto anglo-americano innescato dalle proposte di Wilson ai Combined Chiefs of Staff si riduceva all’affidamento dell’esercizio dei poteri della luogotenenza a soggetti estranei a Casa Savoia, anziché al loro titolare formale che sarebbe stato comunque il principe ereditario, secondo le proposte della Giunta dei partiti antifascisti. Il vero problema, tanto per gli inglesi come per gli americani, era quello di individuare gli interlocutori più adatti per l’esercizio del tipo di influenza che ciascuno pensava di esercitare: quello che gli inglesi inten­dono evitare è che la situazione italiana passi sotto il controllo di uomini chiara­mente filoamericani come Sforza o diffìcilmente controllabili come Croce, almeno prima che il panorama politico italiano si sia definitivamente chiarito con la libe­razione di Roma e del nord48.Occorre tener presente — poi —- che il contrasto sull’Italia avviene in una fase in cui è già avviata la programmazione dell’assetto postbellico generale, terreno sul quale i generali rapporti di forza tra i due paesi hanno un peso decisivo, che non sfugge ai principali protagonisti.L’avvicinarsi dello sbarco attraverso la Manica e le vittorie sovietiche nell’Europa orientale rendono più urgenti i problemi postbellici, per i quali le idee rooseveltiane cominciano a precisarsi: accanto all’organizzazione mondiale per la sicurezza si delineano progetti per la pianificazione della collaborazione economica, già avanzati nelle Conferenze tripartite di Mosca e Teheran, e si respinge già categoricamente l’idea di una permanenza di forze americane in Europa, come invece gli inglesi con i loro minuziosi piani di occupazione prevedono49.Si comincia così a spiegare anche il favore americano per una soluzione più vicina a quella sostenuta dagli antifascisti: l’influenza americana si svolgerà nel quadro di un disegno globale in cui l’elemento essenziale sarà di tipo economico, mentre dal punto di vista politico essa potrà essere compatibile con qualsiasi assetto che garantisca un minimo di omogeneità. Non per niente Hull si preoccupa di smentire gli interessati timori espressi da Badoglio di un disimpegno americano dall’Italia e del Mediterraneo istruendo Reinhardt a riaffermare l’interesse degli USA per l’Italia

47 Cfr. N. gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno, cit., p. 492. Gallerano fa peraltro seguire questo giudizio dal rilievo critico secondo il quale la « svolta di Salerno » favorì la riaggregazione sociale del blocco conservatore attorno alle riemer­genti strutture statali tradizionali: ma questo era appunto il risultato ottenuto dal gruppo dina- stico-militare dei 45 giorni con l’armistizio.48 Cfr. history of thè second World war, United Kingdom mililary series, edited by j .r.m .butler , c.R .s. harris, Allied Administration of Italy, 1943-1945, London 1957, p. 141. Cfr. il telegramma di Churchill a Roosevelt del 15 marzo 1944 in Carteggio segreto, cit., pp. 523-524. 44 Ibid., p, 509 e 559. Da notare che l’Italia è espressamente compresa nelle zone che Roosevelt rifiuta di presidiare e lascia alla « vigilanza » inglese.

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e « la speranza che il popolo italiano sia libero, non appena lo consentano le esigenze militari, di scegliersi i propri leaders e il proprio governo » 50.Tuttavia, proprio a partire dal marzo del 1944 e dal riconoscimento sovietico del governo Badoglio, un nuovo elemento, quello deH’anticomunismo e del timore dell’influenza sovietica, compare ad orientare la politica alleata e segnatamente americana. È certamente vero che Roosevelt continua ancora a rifiutare di essere invischiato da Churchill nelle questioni balcaniche che l’avanzata russa cominciava a far sorgere, ma la documentazione inviata dallltalia al Dipartimento di stato a partire da questo periodo mostra che il « pericolo comunista » era fortemente sentito51. E se può essere casuale la scelta di Reinhardt come temporaneo sostituto di Murphy per le questioni italiane, non lo fu certo quella di Alexander Kirk, come suo successore: entrambi questi diplomatici appartenevano a quello che è stato definito « il gruppo di Riga » del Dipartimento di stato, cioè di quella équipe di esperti di cose sovietiche, violentemente anticomunisti e che — sotto la guida di Charles Bohlen e di George F. Kennan — avranno un peso decisivo nell’orientare in senso decisamente antisovietico la diplomazia postbellica americana con impli­cazioni abbastanza rilevanti anche per quanto riguarda l’Italia52.Il giudizio complessivo su questa fase della questione istituzionale legata all’abdi­cazione di Vittorio Emanuele III deve dunque tener presente la persistente relativa indeterminatezza della politica americana verso l’Italia, caratteristica in parte co­mune alla politica inglese, peraltro molto più rigida ed anche legata al retaggio del passato che si esprime in una volontà punitiva verso gli italiani, nella convinzione che un paese così rudemente sconfitto non può pretendere di risolvere autonoma­mente i propri problemi politici. La novità più rilevante in questa fase è rappre­sentata dal fatto che il margine di autonomia lasciato dalla politica alleata alle forze politiche italiane tende sempre più ad essere sfruttato dalla maggiore parte di queste nel senso non già di elaborare soluzioni unitarie che possano aumentare il pressoché inesistente peso contrattuale italiano, bensì in quello di ottenere il ruolo di interlocutore privilegiato prima che avvenga la liberazione di Rom a53.Ciò è confermato anche dal modo in cui la vicenda si chiuse: l’opposizione inglese vietò che la soluzione della luogotenenza uscisse dall’ambito rigorosamente dina­stico, ma bastò l’ostinazione del re a far accettare a Murphy e Mac Millan il diffe-

50 fr u s , 1944, cit., p. 1089. Badoglio, in questo periodo, mostra di avere un’approfondita consapevolezza dell’importanza dei condizionamenti internazionali, anche se si muove nei senso di cercare appoggi in tutte le direzioni sfruttando ogni divisione tra gli alleati. Secondo d.w . ellwood, (L ’alleato nemico, cit., pp. 80 sgg.) l’orientamento di Badoglio è indice di una « scelta strategica » della borghesia italiana in senso filoamericano e antlnglese: in realtà, per quanto riguarda Badoglio, è probabile che si sia trattato di una mossa con obiettivi più limitati.51 Ibid., pp. 1090-1092, 1098, 1102-1103, 1112-1114.52 Su questo aspetto della diplomazia americana cfr. D. yergin, Shattered peace, cit., pp. 20 e sgg. e anche Charles bohlen, Witness lo History, New York, 1973, passim. La denominazione del gruppo (« di Riga ») derivava dal fatto che molti dei suoi componenti avevano raggiunto nella capitale lettone la propria specializzazione in affari sovietici, prima del riconoscimento americano dell’URSS. In seguito, tanto Kirk che Reinhardt avevano soggiornato in Unione Sovietica.53 Sotto questo profilo appare ancora oggi sostanzialmente valido, nonostante la sua forzatura polemica, il giudizio espresso quasi trent’anni orsono, da Togliatti: « Chi è stato in Italia negli ultimi mesi del ’43 e nel ’44, sa che ciò che più faceva piacere agii alleati anglosassoni era che tra italiani si esasperasse il dibattito istituzionale, in modo che fosse impedito l’accordo, anzi fosse impedita anche solo la presa di posizione sui problemi concreti della partecipazione dell’Italia alla guerra, della ricostituzione di un esercito nazionale, dei diritti del nostro paese come < cobel­ligerante... > » (cfr. «Rinascita», 1950, n. 3). Vedi anche paolo spriano, 1 riferimenti interna­zionali della svolta, in « Rinascita », 29 marzo 1974, pp. 21-23.

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rimento dell’entrata in vigore ufficiale della luogotenenza alla liberazione di Roma 54. Risolta la questione del re, Badoglio può finalmente formare un governo di unità nazionale, al quale subito viene fatto obbligo di mantenere gli impegni armistiziali. Il generale Wilson ordina anche a Mac Farlane, quale capo dell’Allied Control Commission (Commissione alleata di controllo) di informare Badoglio che « quali che siano gli accordi tra il nuovo governo ed il re, essi devono essere considerati vincolanti fin quando il popolo italiano potrà esprimere liberamente il suo pen­siero». Mac Farlane nel comunicare di aver eseguito l’ordine, riporta l’assenso dei partiti italiani « a condizione che il governo ribadisca l’impegno che il popolo italiano stabilirà la futura forma dello stato attraverso un’assemblea costituente alla fine delle ostilità » 55.In questo modo, attraverso decisioni di funzionari civili e militari presenti sul campo, ratificate dai rispettivi governi, le modalità di soluzione della questione istituzionale elaborate dal Cln romano nell’ottobre 1943 vengono approvate dagli Alleati che fanno proprio espressamente il principio della « tregua » e nulla obiet­tano allo strumento dell’Assemblea costituente56.Questa conclusione si presta ad un’osservazione di carattere generale circa la mol­teplicità dei centri decisionali alleati in relazione alla politica italiana, che raggiunge in questo periodo le dimensioni massime, con l’affiancamento alle organizzazioni militari e politiche esistenti (la Commissione di controllo alleata e il Comitato consultivo per l’Italia) anche dei rappresentanti politici americano e inglese presso il governo italiano, scelti nelle persone di Kirk e di Sir Noel Charles, il quale ultimo si aggiunge a Mac Millan57.È certo che il sistema organizzativo alleato non fu estraneo al rinnovato contrasto anglo-americano sulla sostituzione di Badoglio con Bonomi e sul veto inglese alla nomina di Sforza a ministro degli Esteri58. Il contrasto si conclude con la rinuncia inglese ad insistere su Badoglio e con l’accettazione di riconoscere come nuovi interlocutori i partiti del Cln dei quali il nuovo governo appare l’espressione; fra l’altro, Churchill appare del tutto isolato nel suo attaccamento a Badoglio, dal momento che il suo veto all’entrata in funzione del nuovo governo è espresso senza consultare il Gabinetto di guerra e che i rappresentanti inglesi sul campo non secondano la sua iniziativa. Questa si risolve in una breve sospensione dell’en­trata in funzione del nuovo governo. V’è, semmai, da osservare che la difesa del­l’accordo raggiunto a Roma da parte di Roosevelt è in questa occasione particolar­mente ferma. Non sembra azzardato ritenere che ciò, ben più che al generico favore

54 Cfr. f e u s , 1944, cit., p. 1100 e paolo puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Milano, Palazzi, 1958, pp. 218-220.55 Per lo scambio di messaggi tra Wilson e Mac Farlane, cfr. h .c. coles-a.k . weinberg, Civil Affairs, cit., p. 451.

56 La decisione del generale Wilson di sottoporre al nuovo governo Badoglio l’obbligo del rispetto, oltre che delle clausole armistiziali, anche della tregua istituzionale era stata sollecitata a quanto sembra, da Mac Millan (cfr. harold Mac millan , Ventanni di pace e di guerra, Verona, Mondadori, 1969, p. 588).51 Sugli aspetti negativi di questo eccesso di organizzazione che si protrae dall’inizio della campagna d’Italia fornisce ampi ragguagli (e spesso gustosi particolari) lo stesso Mac Millan (op. cit., passim).5> Mac Farlane, che segue personalmente la vicenda e che in seguito ad essa sarà costretto alle dimissioni, riesce a scontentare sia il governo inglese che l’amministrazione americana: il primo per aver acconsentito alla sostituzione di Badoglio, la seconda per aver impedito, per giunta a nome dei governi alleati, la nomina di Sforza. Su questo aspetto, appare notevole quanto Murphy scrive al Dipartimento di stato in difesa di Sforza: « Da quando è entrato al Governo ci ha tenuti informati e le informazioni che ci ha dato sul ruolo dei comunisti nel governo e del partito comunista in Italia sono state di valore inestimabile » (cfr. fr u s , 1944, cit., p. 1126).

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verso i partiti antifascisti italiani, sia dovuto alla volontà di non secondare Churchill nella sua visione rigida delle sfere di influenza, visione che stava dando luogo ai primi contrasti con i sovietici in Grecia e in Romania. D’altra parte, la sostituzione di Badoglio con Bonomi si conclude con la solenne riaffermazione sia degli impegni armistiziali sia della tregua istituzionale.Questa riceve la sua definitiva sanzione da parte italiana con uno dei primi atti del nuovo governo, il Decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 151 che regola l’assetto costituzionale provvisorio, quale risulta dagli accordi interni italiani e dall’assenso alleato, che siamo venuti sin qui delineando. Nel ribadire che mi­nistri e sottosegretari di stato debbono impegnarsi ad astenersi da ogni atto che possa pregiudicare la questione istituzionale, e nel conferire al Consiglio dei ministri il potere di emanare atti aventi forza di legge, il decreto ribadisce il principio che la decisione sarà presa dall’Assemblea Costituente. Pur se non del tutto privo di ambiguità59, che dovranno assumere un rilievo crescente, il DII 151 segna un momento fondamentale nello sviluppo della questione istituzionale. Se, da un lato, esso costituiva una vittoria delle forze del rinnovamento in quanto sanzione defi­nitiva del riconoscimento da parte della monarchia e delle forze che la sostenevano del fatto che essa aveva perduto la propria legittimazione, dall’altro, la giuridiciz- zazione di un processo per sua natura intrinsecamente politico non era priva di rischi. È questo un fatto solitamente trascurato dalla storiografia, che ha notevol­mente contribuito a dare una impostazione abbastanza deformata alla questione della continuità dello stato: ci sembra invece che proprio la giuridicizzazione dei mutamenti costituzionali e, ancor più, del processo di epurazione dell’apparato statale sia alla base del mancato rinnovamento60 e sia essenziale per stabilire che la continuità non fu mai messa in discussione, se non nelle aspirazioni di coloro che, lottando contro il nazifascismo, si proponevano la meta di una Italia diversa, pur se — come è stato giustamente osservato — « la continuità non è sinonimo d’im­mobilismo » 61. La codificazione degli accordi politici interni e internazionali fino a quel momento raggiunti sulla questione istituzionale aggiungerà allo scontro politico successivo un nuovo terreno di contrasto, quello dell’interpretazione giu­ridica, in sé sostanzialmente neutro, ma che, nelle condizioni date, doveva rivelarsi favorevole alle tesi conservatrici.

59 II DII 151 recitava, all’art. 1: « Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato. I modi e le procedure saranno stabiliti con successivo provvedimento ».Inoltre, per non lasciare equivoci sulla sua portata innovativa il decreto abrogava espressamente quello emesso all’indomani del 25 luglio 1943, che indiceva le elezioni per la Camera dei Deputati entro quattro mesi dalla fine delle ostilità. Nonostante ciò, un minimo di ambiguità persisteva, se non altro per il fatto che il decreto, per la propria attuazione, richiedeva un successivo prov­vedimento.60 Da questo punto di vista appaiono particolarmente acute le osservazioni di guido quazza (Resistenza e Storia d’Italia - Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 204-206) sia sull’importanza degli sviluppi della primavera 1944 a Salerno e a Roma, sia sul ruolo di Bonomi. V’è semmai da osservare che Quazza insiste eccessivamente sull’aspetto « restauratore » di tali sviluppi, assumendo che in precedenza vi fosse stata un’autentica rottura. Purtroppo man­cano ancora adeguati studi sull’epurazione che facciano seguito al bello studio di Achille battaglia. Giustizia e politica nella giurisprudenza, in aa.vv., Dieci anni dopo, Bari, Laterza, 1955, spin­gendosi anche sul piano dell’analisi quantitativa. Si vedano però gli interessanti spunti di N. gal- lerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno, cit.41 Cfr. c. pavone, Sulla continuità dello stato, cit., p. 179.

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Le origini della soluzione referendaria

Con la liberazione di Roma e col DII 151 la questione della monarchia e della repubblica sembra, ed è in effetti, pienamente regolata: lo scontro si sposta ora sulle modalità e sui tempi di soluzione e, in particolare, sulla questione del refe­rendum, cioè se la scelta della forma istituzionale spettasse (come la lettera del DII 151 lasciava intendere con sufficiente chiarezza) all’Assemblea costituente o direttamente al popolo.Su questo aspetto la storiografia è concorde nel ritenere che il DII 151 escludesse ogni referendum e che l’idea di questo fosse sostenuta dalla monarchia e dai suoi sostenitori, con il decisivo appoggio di Bonomi: e su questa tesi, come ormai soleva avvenire in tutte le questioni di un certo rilievo, si cercava l’appoggio alleato. Lo stesso Bonomi, all’indomani dell’approvazione del decreto, chiariva al capitano Stone, successore di Mac Farlane nella guida delYAllied Control Commission, che la soluzione adottata non escludeva il referendum: da qui si conclude che, fin dall’inizio, il presidente del Consiglio tendeva a minare il potere decisionale del­l’Assemblea costituente in violazione di un accordo ben preciso tra i partiti62.In realtà, le cose furono assai più complesse. Se gli antecedenti remoti del DII 151 sono sufficientemente chiariti, su quelli immediati l’assenza dei verbali del Con­siglio dei ministri italiano presso l’Archivio centrale dello stato fino al 30 giugno 1944 impedisce di avere elementi precisi. Si può tuttavia cercare d’inquadrare meglio il colloquio tra Bonomi e il sottosegretario agli Esteri Visconti-Venosta, da un lato, e Stone, dall’altro, riferito da quest’ultimo in un messaggio del 2 lu­glio 1944. Anzitutto, occorre ricordare che l’opposizione di Churchill al governo Bonomi aveva determinato una decisa riaffermazione del controllo alleato, al punto che Stone aveva richiesto al governo italiano di essere consultato « prima dell’ado­zione di ogni decisione importante » 63 64: e non vi è traccia alcuna di consultazione sul DII 151, che era certamente una decisione importante. In secondo luogo, sul­l’andamento del Consiglio dei ministri in cui il decreto venne approvato, c’è la testimonianza di De Gasperi che, rivolto a Sturzo, scrive:

Tu sai ch’io nella prima seduta del ministero Bonomi a Salerno, ho proposto, d’accordo con Bonomi e Ruini, che la legge fondamentale per la Costituente non escludesse il referendum. Allora i socialcomunisti e Sforza con gli azionisti opposero una tenace resi­stenza, obiettando che il popolo italiano non è m aturo per un tale voto. Si finì col deli­berare un testo che riserva la decisione all’assemblea senza di per sé escludere, ma anche senza am m ettere un referendum con referendum d’inchiesta [...] Esso corrisponde anche all’attesa degli alleati che a tale consultazione diretta pensavano a Mosca e Teheran, e ce lo fecero dire ufficialmente M.

Questa testimonianza è fondamentale per diversi aspetti; per ora, basti osservare che quando Stone interpella Bonomi sul DII 151, l’uomo politico italiano si limita a difendere l’autonoma decisione adottata dal governo, in termini che — secondo la testimonianza di De Gasperi — rispondono alla sostanza dell’accordo raggiunto

62 Cfr. A. gambino, Storia del dopoguerra, cit-, p. 16 che riportando il colloquio Bonomi-Stone sulla base dei frus (1945, voi. IV, p. 976) ha problemi nell’identificazione dell’interlocutore, pre­sentando inoltre l’iniziativa come italiana. Più correttamente, e . aga rossi sitzia , La situazione politica ed economica nell’Italia nel periodo 1944-45: i governi Bonomi, cit., p. 18, riferisce che l’iniziativa fu di Stone, anche se attribuisce all’intervento di Bonomi un valore « determinante anche sulla finale adozione del referendum ».63 c.h . coles-a.k. weinberg, Civil Affairs, cit., p. 446.64 Lettera di De Gasperi a Sturzo del 12 novembre 1944, in De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di m .r. de gasperi, Brescia, 1974, Morcelliana, voi. II, p. 30. Lo stesso De Gasperi accennò sia pure in termini assai sfumati alla possibilità di un referendum nel suo discorso tenuto a Roma il 23 luglio 1944.

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nel Consiglio dei ministri. Questo non significa certo che Bonomi non fosse favo­revole al referendum65, ma soltanto che la sua azione in tal senso presso gli Alleati non è la sola né la più influente, come vedremo, e che essa rientra nello schema ormai consueto di ottenere l’appoggio alleato su ogni questione di rilievo. Quanto poi alla posizione alleata, nonostante le affermazioni di De Gasperi, nei verbali delle Conferenze di Mosca e di Teheran non vi è traccia di preferenze per il refe­rendum; queste furono espresse, invece, e subito, da Stone:

È chiaro per me e per i miei consiglieri che le maggiori possibilità di una decisione onesta del dilemma tra monarchia e repubblica sarebbe un referendum o plebiscito — preferibil­mente sotto controllo alleato [...] Il motivo è semplice. In paesi come l’Italia, con una recente, lim itata esperienza di governo democratico e nelle circostanze attuali, non è realistico attendersi che non vi siano tentativi di interessi interni o esterni di ottenere il risultato da esso desiderato. Sarebbe certo molto più difficile manipolare un referendum in tutto il paese che coartare e manipolare i membri di un’Assemblea costituente 66.

È questa la prima presa di posizione alleata sul referendum, espressa sulla base di motivazioni generiche che rientrano negli schemi del buon senso conservatore, che sembra essere stato la fonte prevalente dei comportamenti dei militari anglo-ame­ricani. È anche assai verosimile che la soluzione referendaria fosse la migliore anche agli occhi di Roosevelt e di Cordell Hull in quanto più vicina storicamente allo schema wilsoniano dell’autodeterminazione67 68; ma, sotto questo profilo, l’indi­cazione di De Gasperi sulla volontà degli Alleati è certamente una forzatura, almeno nel senso che dà al giudizio di Stone un valore decisamente superiore a quello reale, nell’evidente intento — che sarà in seguito ampiamente confermato — di fare apparire la scelta referendaria come fermamente voluta dagli Alleati e di com­plicare il più possibile la scelta tra monarchia e repubblica.Come aveva lucidamente previsto Vittorio Emanuele III — che si era strenua­mente anche se invano battuto per rimanere sulla scena politica fino a quel mo­mento — il ritorno del governo a Roma doveva tradursi in un notevole raffor­zamento dello schieramento conservatore, nel quale può finalmente refluire l’ap­parato centrale dello stato.È nella seconda metà del 1944 che il processo di epurazione, del resto mai risoluta- mente avviato, subisce battute d’arresto decisive e, con la crisi di governo del no­vembre ’44, prevale l’interpretazione moderata del compromesso istituzionale; d’altra parte, per quanto ancora largamente insufficiente, specialmente per quanto riguarda l’Italia a sud della linea gotica, la storiografia lascia pochi dubbi sul deteriorarsi della situazione economica, alimentare e sociale del paese in questo periodo6S.In questo contesto, la questione istituzionale non subisce variazioni sostanziali,

65 Da questo punto di vista, la documentazione citata da d.w . ellwood {L'alleato nemico, cit., p. 268) è solo apparentemente chiara: il presidente del Consiglio, al di fuori dei canali ufficiali (ma non era il solo: anche Sforza e Sturzo nell’estate-autunno ’44, prendevano riservati contatti con i governi alleati) suggerisce di lasciare nell’ombra la questione del referendum nella con­vinzione che il decorso del tempo e il silenzio avrebbero favorito i sostenitori della monarchia. Non si può peraltro non rilevare che il passo di Bonomi avviene in risposta a sollecitazioni del- l’Acc per sottoporre il DII 151 a\YAdvisory Council for Italy, e quindi — almeno formalmente — si giustifica come tentativo di difesa dell’autonomia del governo italiano.66 c.h . coles-a.k . weinberg, Civil Affairs, cit., p. 466.67 Sul peso della tradizione nella politica internazionale degli Stati Uniti si vedano le osser­vazioni di E. aga-rossi (La politica estera americana e l'Italia nella seconda guerra mondiale, in Giorgio s p in i, GIAN Giacomo m igone, massim o teodori, Italia e America dalla grande guerra a oggi, Padova, Marsilio, 1976, pp. 159-163) con però un’eccessiva accentuazione degli elementi isolazionistici.68 Cfr. E. aga-rossi sitzia , La situazione politica, cit., e aa.w ., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, cit.

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nonostante il clamore suscitato dall’intervista rilasciata il 31 ottobre 1944 da Um­berto di Savoia al « New York Times » nella quale viene clamorosamente rilanciata l’idea del referendum. L’iniziativa del luogotenente, subito condannata dal Con­siglio dei ministri, appare in contraddizione con la linea attribuita dagli storici a Bonomi di lasciar sotto silenzio la questione: in realtà, non è affatto provato che la politica del presidente del Consiglio andasse chiaramente in quella direzione 69. Assai più certo è invece l’orientamento filo-americano del vecchio uomo politico padano che, nel luglio e nel settembre, fa giungere a Washington espliciti messaggi secondo i quali « l’Italia si attende una guida dagli Stati Uniti più che da ogni altro paese » 70. Queste iniziative si inquadrano nel tentativo di migliorare la situa­zione internazionale dell’Italia, di ridurre il peso delle conseguenze del duro armi­stizio, e di ottenere un aiuto economico maggiore per far fronte alle enormi diffi­coltà del paese.Per quanto sia assai probabile che si tratti di una coincidenza, è innegabile che le iniziative di Bonomi siano molto tempestive. L’estate del 1944 segna per molti aspetti un periodo cruciale nella politica estera degli Stati Uniti: dopo la decisione di sollecitare un quarto mandato, Roosevelt mostra una molto maggiore attenzione ai problemi dell’assetto post-bellico. Anche se permane l’incognita decisiva relativa alla guerra in Estremo Oriente, la sconfitta dell’Asse, e specialmente della Germania, è segnata. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, lo sbarco in Normandia rende meno vincolanti che per il passato le considerazioni militari. Inoltre, ravvi­cinarsi delle scadenze elettorali pone per l’équipe rooseveltiana il problema del­l’elettorato italo-americano, un problema che peraltro non deve essere sopravva­lutato non solo perché la politica estera era ormai da tempo « bipartitica », ma anche e soprattutto perché le pressioni dell’elettorato italo-americano andavano specialmente nel senso della politica degli aiuti71 e non si ponevano, almeno fin quando l’anticomunismo non divenne negli Stati Uniti un fenomeno di massa, pro­blemi di influenza.Almeno altrettanto rilevante delle preoccupazioni elettorali nel nuovo atteggiamento americano, culminato nella dichiarazione di Hyde Park della fine del settembre 1944, fu la maggiore apertura verso i problemi dell’assetto postbellico. Sia nella elabora­zione della dichiarazione, sia nella attuazione di quello che, dopo Hyde Park, venne propagandisticamente definito il « New Deal » per l’Italia, emerse l’ormai consueto contrasto anglo-americano a proposito della concezione dell’influenza e dei modi per esercitarla. Non si deve dimenticare che, nell’autunno del 1944, l’avanzata sovietica nei Balcani e la situazione in Grecia rendevano acutissimi i problemi dell’influenza in Europa orientale, tanto da indurre Churchill a volare a Mosca

69 La dichiarazione del Consiglio dei ministri ribadiva l’impegno che la decisione doveva avvenire « attraverso il voto di un’Assemblea costituente, così come stabilito in una legge dello stato » (cfr. acs, Verbali del Consiglio dei ministri, busta 3, fase. XVII, del 7 novembre 1944). Immediatamente, Stone convoca Bonomi e Visconti-Venosta che ribadiscono che il referendum non è incompatibile con il sistema del DII 151 (cfr. H.c. coles-a.k. weinberg, Civil Affairs, cit., pp. 629-630). Anche questa rinnovata assicurazione non può essere valutata semplicemente come « tradimento » degli accordi raggiunti in seno al Consiglio dei ministri, tanto più che gli italiani espongono francamente a Stone le posizioni dei diversi partiti e affermano espressamente che il riferimento del comunicato al DII 151 lascia la questione nei termini originari.70 Cfr. fr u s , 1944, cit., pp. 1155 e 1143-1144.71 Cfr. r.a. divine, Foreign Policy and U.S. Presidential Elections, 1940-1948, New York, 1974, pp. 144-145. Si veda anche in questo senso la determinazione con la quale Roosevelt si batte per dare attuazione, prima delle elezioni, alla sua promessa del 4 ottobre 1944 di portare a 300 g. la razione di pane in Italia, promessa che non riesce a mantenere per difficoltà logistiche (cfr. C.H. coles-a.k . weinberg, Civil Affairs, cit., pp. 501 e sgg.).

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per accordarsi in proposito con Stalin72: Roosevelt accolse con estremo riserbo l’iniziativa churchilliana, sempre nell’intento di mantenersi libero da coinvolgimenti troppo impegnativi in Europa.Non sembra però azzardato ritenere che la trattativa anglo-sovietica di Mosca abbia finito con l’influire sull’atteggiamento americano nei confronti dell’Italia, assai più intransigente nei confronti degli inglesi, come si rivelerà nel contrasto sulla formazione del secondo Governo Bonomi, essendo gli Stati Uniti sempre più fermamente orientati a passare a forme di controllo meno rigide, ad evitare inge­renze troppo evidenti e continue nella politica italiana, come presupposto di una duratura collaborazione postbellica73.Un’altra conseguenza dei colloqui moscoviti dell’ottobre del ’44 fu quella metodo- logica di affrontare globalmente i problemi dell’influenza in Europa, secondo un principio che doveva risultare assai dannoso per l’Italia a partire dalla Conferenza di Potsdam.Il contrasto anglo-americano doveva farsi ancora più netto a proposito della attua­zione della dichiarazione di Hyde Park: a Washington in seno al Combined Civil Affairs Committee (Comitato congiunto degli Affari civili) gli americani sostengono una dura polemica per elaborare una direttiva che dia reale sostanza all’impegno di un miglioramento della situazione italiana e che era stata richiesta da Mac Millan, senza peraltro ottenere risultati sostanziali74, anche se la prevalenza delle tesi inglesi diviene sempre più contrastata e sporadica.Nel frattempo, la pianificazione per il dopoguerra prosegue: su richiesta di Kirk che il 7 dicembre, nella fase finale della crisi di governo, aveva domandato istruzioni, il Dipartimento di stato trasmette un documento, proposto alla decisione degli organi politici e non ancora approvato, nel quale si afferma che « studi preliminari condotti in seno al Dipartimento per l’attuazione dell’impegno che il popolo italiano decida senza limitazioni sulla questione istituzionale, hanno portato alla conclusione che un referendum adeguatamente controllato garantirebbe una espressione della volontà popolare più sicura di una assemblea costituente » 75. A livello burocratico,

72 Nell’incontro di Mosca dell’ottobre ’44, in cui si giunse a parlare espressamente di per­centuali d’influenza sui Balcani, si parlò anche dell’Italia, con un invito di Churchill a Stalin di « tener buoni » i comunisti italiani e una risposta del leader sovietico che sottolineava la mode­razione di Togliatti. Cfr. d.w . ellwood, L ’alleato nemico, cit., pp. 108-109.73 Oltre ad una nuova ed ancor più dura polemica sul rinnovato veto inglese alla nomina di Sforza a ministro degli Esteri, la formazione del secondo governo Bonomi portò alla prevalenza della tesi americana, secondo la quale il giudizio sulla composizione dei governi spettava soltanto al Comandante alleato nel Mediterraneo che poteva intervenire solo per motivi militari. Gli inglesi sostenevano invece il diritto a un controllo molto più minuto e alla scelta del presidente del Consiglio (cfr. fr u s , 1944, cit., pp. 1158-1164; llewellyn woodward, British Foreign Policy in thè Second World War, voi. II, London, 1971, pp. 453-468). Da notare anche l’irrigidimento di Roosevelt a proposito del caso Sforza (cfr. Carteggio segreto, cit., p. 682). Ovviamente, a Bonomi viene richiesto nuovamente l’impegno al rispetto dell’armistizio e della tregua istituzionale.74 II 22 gennaio 1945 i componenti americani del comitato verbalizzano il loro dissenso dalla direttiva come è stata elaborata per le pressioni inglesi: « Siamo fermamente convinti che sia opportuna una maggiore libertà di azione politica ed economica del governo italiano. Non dimen­tichiamo che l’Italia era nemica fino a poco tempo fà, ma riteniamo che questo passo sia conforme, e in larga misura opportuno per considerazioni militari. Pertanto abbiamo accolto con favore la richiesta di Mac Millan come un passo sulla giusta direzione, ma la direttiva, nel testo attuale, resta così lontana da ciò che riteniamo possibile fare attualmente che essa equivale ad un gesto debole, provvisorio e insignificante. La approviamo solo perché rappresenta un minimo miglio­ramento nelle relazioni alleate con il governo italiano » (cfr. h .c. coles-a.k . weinberg, Civil Affairs, cit., pp. 514-515).75 fr u s , 1945, voi. IV, Europe, Washington, 1968, pp. 963 e 967. Del resto, che questa con­clusione fosse limitata e provvisoria risulta anche dal fatto che, il 6 ottobre 1944, la sottocom-

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dunque, la soluzione referendaria continua a farsi strada: ma, prima che il problema divenga maturo, la politica americana dovrà subire importanti mutamenti.L’ultima fase della guerra è caratterizzata da una numerosa serie di contrasti tra anglo-americani, da un lato, e sovietici dall’altro, alternati a momenti di schiarita e di accordo, il più importante dei quali fu certamente la Conferenza di Yalta. Non è certo possibile, in questa sede, esaminare, neppure per sommarissimi capi, il processo che dalla grande alleanza antifascista condusse alla guerra fredda né, tanto meno, accennare alle diverse interpretazioni cui esso ha dato luogo in sede storiografica. Non si può tuttavia fare a meno di richiamare alcuni punti abbastanza consolidati: i contrasti anglo-sovietici nei Balcani, la spinosa questione polacca e, in generale, il problema del riconoscimento del bisogno di sicurezza dell’URSS per i suoi confini occidentali furono alla base di un graduale e complesso mutamento della politica americana, la quale doveva anche contemporaneamente affrontare le drammatiche conseguenze del declino della potenza inglese, già intuibili alla luce della vicenda greca del dicembre 1944. La solidarietà generata dal pericolo rappresentato dal nazi-fascismo era bastata ad affievolire, non certo a cancellare, la diffidenza occidentale nei confronti dell’URSS, e, gradualmente, l’impostazione anticomunista cominciò a riprendere il sopravvento, prima nella politica inglese e successivamente in quella americana.Per quanto riguarda quest’ultima, è importante sottolineare due aspetti. Il disegno di un’organizzazione politica mondiale che attraverso il controllo esercitato di comune accordo tra le grandi potenze potesse conciliare le aspirazioni alla pace con il realismo della politica di potenza e il parallelo programma di un sistema di scambi internazionali fondato sulla assenza di ogni restrizione ai commerci e sulla stabilità dei cambi, sistema nel quale la potenza economica degli Stati Uniti doveva consapevolmente esercitare un ruolo egemonico, si veniva compiutamente delineando nell’ultimo anno di vita di F.D. Roosevelt. In questo quadro, che peraltro era ancora patrimonio specifico del presidente e di alcune delle grandi personalità che con lui collaboravano, i contrasti con l’Unione Sovietica erano tutti risolvibili in termini di negoziato (e la riprova si avrà con la breve esperienza, sia pure negativa ed osteggiata compiuta nel 1945-1946 da uno dei rooseveltiani più eminenti, James Byrnes, come Segretario di stato). Viceversa, tanto nella politica inglese quanto in quella dell’apparato dell’esecutivo statunitense, la diffidenza nei confronti dei so­vietici assumeva caratteri generali ed ideologici: la morte di Roosevelt e l’ascesa di Truman, con la graduale scomparsa dell’équipe dirigente rooseveltiana doveva massicciamente contribuire all’acuirsi della tensione e alla rottura della grande alleanza.Il secondo aspetto da sottolineare riguarda il ruolo che le singole realtà nazionali oggetto dei contrasti tra le grandi potenze esercitarono sui contrasti medesimi. Era da queste realtà, che esprimevano profondi ed aspri conflitti di classe, che partivano forti impulsi alla ideologizzazione ed alla globalizzazione del conflitto: recependo di buon grado o, addirittura invocando il patrocinio delle grandi potenze, le diverse forze politiche e sociali dei singoli paesi tendevano a premere sui rispettivi protettori, servendosi in genere dei loro rappresentanti sul campo, che assumono spesso un rilievo notevole, secondo uno schema che è abbastanza comune in tutta l’Europa post-bellica.

missione giuridica dell’Acc aveva raggiunto la conclusione che il Dii 151 escludesse il referendum (cfr. f e u s , 1945, voi. IV, cit., pp. 965 e 975).

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La questione istituzionale durante il governo Parri

È in questo quadro di riferimento globale che devono essere considerati gli sviluppi della situazione italiana e in particolare anche della questione istituzionale. Come le forze moderate e conservatrici avevano atteso la liberazione di Roma, traendone poi molti dei vantaggi che si ripromettevano, così, nei primi mesi del 1945, le forze progressiste attendevano l’imminente liberazione del nord e, pur riconoscendo la complessità dei problemi che da essa sarebbero derivati76, erano passate chiaramente all’offensiva. Se i termini della questione istituzionale restano invariati nei loro contenuti, il fattore che viene radicalmente ad essere mutato con la liberazione del nord è quello temporale: per i fautori della monarchia si tratta ora di guadagnar tempo, di far riassorbire la spinta che sorge dalla lotta partigiana, rinviando le elezioni per l’Assemblea costituente, che divengono, invece, l’obiettivo principale delle forze di sinistra.Ed è proprio sulla questione dei tempi che la sinistra rilancia il problema: è To­gliatti che, nella sua relazione del 7 aprile 1945 al II Consiglio nazionale del Pei, afferma che occorre tenere le elezioni per la Costituente subito dopo la completa liberazione del paese, ponendo fine alla tregua istituzionale; altrimenti, se ci doves­sero essere dei ritardi, occorrerebbe rivedere gli accordi adottati e, in proposito, il leader comunista suggerisce il passaggio dalla luogotenenza ad una reggenza composta da persone estranee alla dinastia. Togliatti, avanzando questa proposta ha in mente il modello jugoslavo, elaborato negli accordi Tito-Subasie e ratificato dietro pressioni dai Tre Grandi a Yalta: una proposta, dunque, che si inserisce pienamente nella politica comunista di secondare l’unità tra gli alleati antifascisti77.La mossa di Togliatti, rientra pienamente nelle prospettive di quei giorni anteriori alla liberazione e, soprattutto in quanto non seguita da alcuna iniziativa politica concreta, sembra avere, più che altro, un valore propagandistico e di assaggio, pur se basta ad innescare un processo assai interessante78. L’iniziativa togliattiana desta gravi preoccupazioni nello schieramento conservatore, che tende a drammatizzarla interpretandola recisamente nel senso di una volontà dei comunisti di riaprire subito la questione istituzionale; subito De Gasperi ne parla con Stone, chiedendo l’opinione alleata in proposito e affermando che l’iniziativa del leader comunista equivale alla cessazione della tregua istituzionale con la fine delle ostilità. L’ufficiale americano (cui si unisce il giorno dopo l’ambasciatore Kirk) risponde a titolo personale in senso negativo e commenta per i suoi superiori: « È possibile che, attraverso Togliatti, il governo russo stia preparando il terreno per richiedere una consultazione sull’Italia con i governi inglesi ed americano, secondo gli accordi Crimea a proposito delle consultazioni sui paesi liberati, in modo da riprodurre le situazioni rumena e polacca » 79.

76 Si veda, ad esempio, per quanto riguarda il Pei, paolo spriano, Storia del Partito comu­nista italiano, voi. V. La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 502-515.77 Del resto la Conferenza di Yalta, in Italia come altrove, aveva dato l’impressione che l’accordo tra i tre Grandi poteva risolvere le questioni interne ai diversi paesi: si spiega così come Bonomi, subito dopo la Conferenza, suggerisca a Stone l’idea che la previsione del referendum fosse inserita nel trattato di pace (fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 976). Questo passo viene reiterato il 3 maggio 1945 (cfr. l . woodward, British Foreign Policy, cit., p. 181) ed ha più il senso di un tentativo di rinvio che di una vera pressione per il referendum. Bonomi, infatti, non poteva farsi illusioni né sui tempi necessari per la redazione del trattato di pace, né sulla difficoltà di associare l’URSS alla tesi referendaria.78 È interessante rilevare come A. cambino (Storia del dopoguerra, cit.), coerente assertore in sede storiografica delle tesi del Partito d’azione sull’atteggiamento rinunciatario dei comunisti anche nella questione istituzionale, trascura completamente tutta la vicenda. Vi accenna invece D.w. ellwood (L ’alleato nemico, cit., p. 270) senza però darvi adeguato rilievo.78 fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 965.

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In questa iniziativa di De Gasperi e nel colloquio con Stone, c’è da notare, oltre all’aperta forzatura dell’iniziativa comunista80, anche l’espressa introduzione di un elemento di preoccupazione, quello dell’ingerenza sovietica — e, da questo punto di vista, è significativo il collegamento con situazioni scottanti come quelle rumena e polacca — tale da sollecitare il Dipartimento di stato a prendere posi­zione sulla questione del referendum. La sollecitazione è espressamente avanzata da Kirk che, il 12 aprile 1945, dopo aver illustrato le posizioni dei diversi partiti italiani (sottolineando che soltanto quella della Democrazia cristiana è ispirata alla « sincera convinzione » che il referendum è la soluzione più democratica), chiede di essere autorizzato a parlare a favore della tesi referendaria a nome del governo americano 81.Le attese di chi, italiano o americano, tendeva a forzare il Dipartimento di stato dovevano ricevere di li a poco un’amara delusione: il 1° maggio 1945 il Sottose­gretario di stato Grew, tutt’altro che un progressista, non solo rifiutava di prendere posizione a favore del referendum, ma, in una lunga nota, elencava le ragioni favorevoli al mantenimento integrale del sistema del DII 151: dopo aver ricordato che il deferimento della questione istituzionale all’Assemblea costituente era un impegno assunto con i partiti italiani al momento della formazione del governo Badoglio a Salerno, Grew affermava: « un’unica elezione nazionale dell’Assemblea Costituente, adeguatamente controllata e organizzata, può approssimativamente considerarsi una forma di decisione del problema istituzionale altrettanto libera ed onesta di un referendum o plebiscito ». Questa soluzione, aggiunge Grew, « sarebbe perfettamente coerente con la nostra politica di affidare al governo italiano un sempre maggiore controllo sulle questioni interne [e] eviterebbe i rischi di una crisi all’interno del governo italiano o tra questo e alcuni partiti anti­fascisti [...] »; tuttavia, prima di assumere una posizione definitiva e di riconoscere ufficialmente con una dichiarazione alleata il sistema del DII 151 si attende il parere di K irk82.La valutazione di questo documento, sin qui quasi ignorato dagli storici83, appare difficile proprio per la decisa opposizione al referendum in esso contenuta: esso rientra certamente nella linea rooseveltiana di evitare le interferenze dirette nella politica italiana quale presupposto per una duratura influenza ed è assai verosimile che, a pochissimi giorni daH’insediamento di Truman, il Dipartimento di stato voglia evitare ogni mutamento nella situazione esistente, tanto più che l’Italia ha già un posto di rilievo tra le preoccupazioni del nuovo presidente per la questione di Trieste84. D’altra parte, è anche pienamente comprensibile che, mentre gli

80 Togliatti, in realtà, aveva molto più insistito sull’urgenza di convocare le elezioni e di chiamare il popolo a decidere la questione istituzionale; soltanto in caso di ritardo egli aveva suggerito la soluzione della reggenza (« L’Unità » del 9 aprile 1945). Presentare questo discorso come « tentativo di riaprire la questione istituzionale » è decisamente eccessivo; semmai, alla luce di posteriori iniziative di De Gasperi, v’è da avanzare l’ipotesi che si tratti di un modo per forzare la mano agli Alleati.!1 f e u s , 1945, voi. IV, cit., p. 967.82 Cfr. fr u s , cit., p. 970.83 È citato da E. collotti, Collocazione internazionale dell’Italia, cit., pp. 74-75, ma è con­siderato scarsamente influente, perché contrastato da più numerosi pronunciamenti favorevoli al referendum, i quali peraltro provengono tutti da livelli inferiori.84 II 13 aprile 1945, il giorno dopo la morte di Roosevelt, Truman riceve dal Dipartimento di stato, un panorama della situazione diplomatica generale; per quanto riguarda ITtalia in esso si afferma che, oltre alla grave situazione economica, il problema dominante è quello dell’occu­pazione jugoslava delle zone di confine (cfr. harry truman, Memoirs, voi. I, Years of decision, New York, 1955, pp. 16-17).La questione di Trieste tien deste le preoccupazioni del nuovo presidente per tutto il maggio

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uomini sul campo sono molto più facilmente manovrabili dalle forze politiche italiane più influenti, a livello centrale, in assenza di precisi interessi nazionali, si sia più favorevoli al mantenimento dello status quo. Del resto, questa forza delle decisioni già prese aveva ampiamente operato anche nel passato, sia pure sempre a favore delle forze più conservatrici.Ma il processo innescato da Togliatti non doveva esaurirsi qui: sollecitati dall’am- basciatore italiano a Londra Carandini (che, fra l’altro, riferisce più correttamente di De Gasperi il senso della richiesta di Togliatti) il 15 maggio 1945 gli inglesi chiedono a Washington la conferma della tregua istituzionale. Il 26 maggio il Dipartimento di stato risponde positivamente e aggiunge la proposta di una dichia­razione congiunta dei due governi al fine di « dichiarare pubblicamente e con precisione il modo in cui le potenze occupanti intendono attuare i loro impegni ». La dichiarazione dovrebbe contenere un esplicito riconoscimento del DII 151 e un invito al governo italiano a far tenere prima dell’elezione della Costituente una serie di elezioni locali; altrimenti, si conclude « [...] i governi inglese ed americano saranno accusati di mantenere in vita la monarchia italiana per propri fini attra­verso l’occupazione militare » 85.La proposta appare assai equilibrata: da un lato si dovrebbe escludere il referendum, come vogliono i partiti di sinistra, dall’altro, si propone la precedenza delle elezioni amministrative ritardando la Costituente: è evidente, in questa impostazione, il desiderio di evitare lacerazioni nel quadro politico italiano.Gli inglesi declinano la proposta americana, osservando, nel merito, che la questione del referendum è secondaria: « la vera questione — si afferma nelle istruzioni inviate in giugno all’ambasciatore a Washington Lord Halifax — cioè una democrazia parlamentare invece di uno stato totalitario, non può essere risolta con la scheda elettorale » 86. In un altro documento, del 9 luglio, la posizione inglese è espressa ancora più chiaramente:

Parri ha assunto il solito impegno a non risollevare la questione e, in queste condizioni, il governo di Sua M aestà ritiene che una dichiarazione anglo-americana servirebbe soltanto a sollevare un inutile clamore. Se il D ipartim ento di stato insiste, il governo di Sua Maestà aderirebbe ad una breve dichiarazione da rilasciare dopo l’incontro dei Tre Grandi [a Potsdam ].È da deplorare che la questione istituzionale sia tra tta ta come se fosse una semplice scelta tra monarchia e repubblica. Il governo di Sua M aestà non è affatto attaccato a Casa Savoia: esso desidera soltanto vedere l’istituzione di una democrazia parlam entare in Italia e ritiene che tu tta la questione istituzionale consista nello stabilire se un governo di questo tipo possa essere istituito e fatto funzionare effettivamente, anche contro la possibilità di qualche forma di governo totalitaria. M entre esistono evidenti difficoltà circa il modo in cui i governi alleati potrebbero suggerire che la questione istituzionale sia affidata a un plebiscito, se il governo italiano prendesse l’iniziativa di far decidere direttamente la questione istituzionale da un plebiscito o di farla rim ettere al plebiscito dall’Assemblea costituente, il governo di Sua M aestà accoglierebbe con favore e appog-

del ’45 e contribuisce a rafforzare in lui la convinzione dell’opportunità di una politica dura nei confronti dell’URSS; in questo senso spingevano anche le allarmate comunicazioni di Kirk (cfr. D. yergin, Shattered Peace, cit., pp. 89-90).85 Cfr. fr u s , 1945, voi. IV, cit., pp. 972-974. Il problema appare urgente al Dipartimento di stato in quanto la crisi di governo apertasi a Roma pone la questione del rinnovo dell’impegno, da parte della nuova compagine governativa, di mantenere la tregua istituzionale. Ma già due giorni prima, il 24 maggio 1945, il Comandante nel Mediterraneo Alexander aveva ribadito l’ordine di ottenere dal nuovo governo italiano la proroga della tregua istituzionale (cfr. l. wood- ward, British Foreign Policy, cit., p. 482). Il governo Parri accetta l’impegno senza polemiche, in modo del resto del tutto conforme alla impostazione delle sinistre che puntano soprattutto alla rapida elezione della Costituente. Questi sviluppi tolgono molta forza alle argomentazioni del Dipartimento di stato.86 Cfr. l . woodward, ibid.

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gerebbe tale proposta, tanto più che ritiene che la vera volontà del popolo italiano sia meglio accertata con un plebiscito che dall’Assemblea costituente87 88.Questo documento — di fronte al quale cade l’iniziativa del Dipartimento di stato, rinviando l’intera problematica italiana all’incontro di Potsdam — richiede alcuni commenti. Nel merito gli inglesi mostrano chiaramente di appoggiare come al solito le aspirazioni referendarie dei moderati italiani8S, non ancora chiaramente definite circa la forma del referendum (preventivo, intermedio o successivo, come si vedrà in seguito); tuttavia, appaiono molto meno decisi ad intervenire che non in passato, al punto che suggeriscono la linea che si affermerà come definitiva, di lasciare cioè la responsabilità della decisione agli italiani. È evidente che questa nuova linea inglese risente non solo dell’ovvia conseguenza del venir meno delle esigenze militari con la fine del conflitto, ma anche della graduale presa di coscienza dei limiti delle proprie capacità: non a caso Churchill, approvando le istruzioni inviate a lord Halifax commenta sconsolatamente: « Non vedo che cosa possiamo fare senza gli americani. Il loro desiderio di trarsi fuori dall’Europa li porterà a scegliere la via più facile, sia verso l’Italia sia verso la Russia » 89 *. Tuttavia, nonostante questa inusitata remissività, il confronto finisce ancora una volta col prevalere delle posi­zioni inglesi; questo fatto porta ad una considerazione di carattere generale su un problema nel quale ci si è più volte soffermati e che contrasta, almeno in parte, con le tesi prevalenti nella storiografia, secondo le quali l’Italia è fino al 1945 soggetta alla prevalente influenza ingleseso. In realtà, fino dall’inizio, gli orientamenti bri­tannici prevalgono soltanto nella misura in cui non contrastano con le concezioni che dell’influenza hanno gli Stati Uniti, che si vengono precisando proprio in questo periodo. In altri termini, in Italia come altrove, le posizioni inglesi prevalgono non solo in virtù dei rapporti globali di forza tra i due paesi, ma anche per la relativa indifferenza degli Stati Uniti, o meglio degli organi decisionali americani, alle singole soluzioni: anche nel momento in cui comincia ad essere evidente il declino della potenza inglese, gli Stati Uniti rinunciano alle loro proposte in quanto le ritengono non essenziali rispetto ai fini che essi perseguono in Italia e nel mondo.Anche da questo punto di vista, la successione di Truman a Roosevelt costituisce un momento di primaria importanza nel processo di disgregazione della grande alleanza antihitleriana: nella nuova amministrazione, che si viene gradualmente costituendo, l’anticomunismo, la convinzione che l’URSS è uno stato totalitario e, come tale, necessariamente aggressivo ed espansionista, cominciano a riprendere il sopravvento sul realismo rooseveltiano. Conseguentemente, la relativa indifferenza degli Stati Uniti si riduce.In questo quadro, l’Italia, dove, secondo una espressione churchilliana, gli anglo- americani « hanno fatto tutto il lavoro » e dove gli uomini sul campo non cessano

87 fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 977.88 D’accordo, in questo, ancora una volta con gli uomini sul campo: Kirk, Noel Charles e Stone, sono chiaramente a favore del referendum. Quest’ultimo (cfr. fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 975) critica espressamente la posizione del Dipartimento di stato favorevole al DII 151 e ricorda addirittura che esso fu adottato senza preventiva consultazione dei governi alleati, i quali po­trebbero quindi tranquillamente chiederne la modifica. Diversa sembra essere stata la posizione di Mac Millan (l. woodward, British Foreign Policy, cit., p. 482) che appare come il vero ispira­tore della linea britannica in questa occasione.85 Cfr. L. woodward, British Foreign Policy, cit., p. 485.80 II più deciso assertore di questa tesi, pur mostrando sempre i margini di velleitarismo della politica inglese, è d.w . ellwood (in L'alleato nemico, cit., passim e più espressamente nel saggio La politica anglo-americana verso l’Italia-1945: l’anno del trapasso del potere, in aa.vv., L ’Italia dalla liberazione alla Repubblica, cit., pp. 119-132). Più sfumato, ma sostanzialmente concorde, E. collctti (Collocazione internazionale dell’Italia, cit., p. 63).

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di lanciare allarmanti appelli sulla penetrazione comunista91, assume il valore di un caso emblematico. Nell’intensivo corso di aggiornamento sulla situazione inter­nazionale impartito al neo-presidente Truman dal Dipartimento di stato in vista della Conferenza di Potsdam, l’Italia ha un posto di rilievo, al punto che è fra i primi argomenti che egli solleva all’apertura della Conferenza92. La linea è sostan­zialmente quella concordata con gli inglesi: una breve dichiarazione che migliori10 status internazionale dell’Italia, riconoscendone il contributo alla guerra anti­nazista e modificando i termini dell’armistizio, senza peraltro fornire indicazioni sulle questioni interne, eccezion fatta per la riaffermazione del principio dell’auto­determinazione 93. Si tratta, in sostanza, del recepimento delle pressioni italiane e dei funzionari alleati in Italia, in base alle quali il governo italiano — che è già quello di Parri — dev’essere aiutato e rafforzato di fronte alla minaccia comunista, elemento, quest’ultimo, che non può certo essere presentato alla Conferenza, ma che è evidente nei lavori preparatori94.Questa linea non doveva passare alla Conferenza: accanto all’atteggiamento riservato degli inglesi, compare l’opposizione assai più dura dei sovietici. Questi, riprendendo direttamente il metodo inaugurato da Churchill nei suoi colloqui moscoviti con Stalin, introducono la questione italiana nella trattativa globale, rifiutando ogni modificazione della situazione italiana se non accompagnata dal riconoscimento e dall’uguale trattamento dei governi di Romania, Bulgaria, Ungheria e Finlandia, nella loro qualità di ex satelliti della Germania. In quello che Truman definisce, nelle sue memorie, « il più acceso dibattito della Conferenza », i sovietici sollevano un argomento strettamente collegato con la questione istituzionale, quello secondo11 quale in Italia non si è ancora tenuta alcuna elezione e che, quindi, il governo italiano non ha maggiori titoli democratici di quelli degli altri paesi ex satelliti95 96. L’argomentazione sovietica ha un effetto immediato: il 31 luglio il Dipartimento di stato comincia a premere su Kirk perché inciti il governo italiano a indire le elezioni amministrative al più presto. La pressione si esercita per tutta l’estate e culmina nei due colloqui di Kirk con Parri e De Gasperi del 25 e 26 agosto 1945, entrambi assai sfruttati dagli storici, come prova dell’appoggio americano alle forze conservatrici che lo sollecitano per ottenere la priorità delle elezioni amministrative rispetto a quelle per l’Assemblea costituente.La questione merita di essere approfondita: alla formazione del Governo Parri la dichiarazione programmatica puntava tutto sulla rapida effettuazione delle elezioni per l’Assemblea costituente che, ancora alla metà di luglio, Pietro Nenni riteneva possibile entro novembre tuttavia, il problema delle elezioni amministrative era ben presente, tanto che Parri, nel Consiglio dei ministri del 27 luglio 1945, ricorda

91 Particolarmente interessante, da questo punto di vista, è il memorandum di Stone cheAlexander trasmette ai Combined Chiejs of Staff il 27 luglio 1945, nell’intento di promuovereuna politica di « attivo interesse » verso l’Italia, eliminando le « incongruenze » esistenti nella politica italiana degli Alleati. Nel memorandum Stone aveva chiaramente posto l’alternativa che si delineava, a suo avviso, per l’Italia: se essa « non riceverà aiuto e guida dalle democrazie e particolarmente dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, si rivolgerà inevitabilmente verso l’URSS per unirsi al gruppo degli stati < di polizia >, uniti dal comuniSmo, che si sta estendendo dalla Russia verso occidente » (cfr. h .c. coles-a.k . weinberg, Civil Affairs, cit., p. 622).92 Cfr. f r u s , 1945, voi. II, The Conference of Berlin (The Potsdam Conference), Washington,1950, pp. 53-54.93 Ibid., pp. 1080-1081.99 Cfr. fr u s , voi. IV, cit., pp. 1009-1010. Vedi anche e . collotti, Collocazione internazionale dellTtalia, cit., p. 66. Anche uno dei rooseveltiani più influenti, il Segretario alla Difesa Stimson, esprime a Truman, il 16 maggio, gli stessi concetti (cfr. h .s. trum an , Memoirs, cit., p. 236).95 Cfr. f r u s , 1945, voi. IV, cit., pp. 357 e sgg.96 acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 5/XI.

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la necessità di « esaminare il problema politico generale in ordine alla convenienza di far precedere le elezioni amministrative a quelle politiche » 97.V’erano, dunque, una notevole incertezza e larghi margini di dissenso tra le forze politiche italiane, quando si inserisce l’intervento americano, recisamente espresso dal sottosegretario Dunn in un messaggio del 22 agosto a Kirk: « Il Dipartimento di stato desidera che le elezioni locali vengano tenute non appena possibile », ag­giungendo che si devono superare anche le obiezioni che la Commissione alleata veniva ponendo sulle modalità di votazione previste dalla legge elettorale del 1915, alla quale gli italiani avevano fatto riferimento come testo di base per disciplinare la consultazione98 99 100. Mentre Parri si mostra sconcertato per l’intervento americano, De Gasperi risponde positivamente esprimendo l’avviso che « le elezioni locali do­vrebbero essere tenute prima di quelle nazionali » e che « non vedeva il motivo per cui in certi comuni non si potesse votare molto presto » La posizione del ministro degli Esteri contribuì certamente a rafforzare la richiesta americana che, accompagnata da un analogo invito inglese e ribadita ai primi di settembre, viene accolta dagli italiani, dopo un animato dibattito tra i partiti e nel Consiglio dei ministri, il 12 settembre 10°, con un comunicato che, nonostante le ambiguità, non può nascondere la sconfitta delle sinistre. Questa, per quanto di rilievo, sembra avere assunto nella storiografia un’importanza maggiore di quanto non abbia avuto nella realtà, forse perché su di essa si verificò una non irrilevante lacerazione nel Partito d’azione, che indebolì ulteriormente la non forte posizione politica del pre­sidente del Consiglio 101. Ma, in sé, la questione non doveva determinare conseguenze rilevanti, tanto più che le sinistre riuscirono ad evitare il rischio di una consulta­zione elettorale amministrativa esclusivamente meridionale, come avrebbe desiderato lo schieramento monarchico.Certo, la pressione americana fu determinante nell’imporre che, prima dell’Assemblea costituente, si tenessero elezioni amministrative parziali: ma è indimostrato sia che ciò abbia considerevolmente ritardato la decisione definitiva sulla questione istitu­zionale, sia che la pressione sia avvenuta su sollecitazioni italiane. Da questo punto di vista sembra pienamente condivisibile il giudizio espresso più in generale da

97 acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 5/XII.9! Cfr. fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 983. a. cambino (Storia del dopoguerra, cit., p. 83) e r. faenza e m . fin i (Gli americani in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 125-126) attribuiscono al passo di Dunnad un’iniziativa di Tarchiani « evidentemente in visita in Italia » e collegato con De Gasperi; il supporto documentario di questa tesi è assai labile e sembra molto più in linea con la politica americana il fatto che alla base di questa iniziativa vi sia l’esigenza di porsi in regola per la trattativa con i sovietici circa la sistemazione globale postbellica in Europa. A favore di questa tesi milita anche il fatto che il Dipartimento di stato insiste inizialmente non sul rinvio delle elezioni politiche ma sulla effettuazione immediata di quelle amministrative. Quanto all’ingerenza alleata nella formulazione delle leggi elettorali italiane, la direttiva del Dipartimento di stato dovette rimanere inattuata se, ancora al 30 ottobre 1945, Parri poteva lamentare la minuzia del controllo della Commissione alleata (cfr. acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 6/XV).99 Cfr. fr u s , 1945, cit., p. 984.100 Nel messaggio inviato a Kirk il 6 settembre, il Dipartimento di stato precisa la priorità delle elezioni amministrative su quelle politiche, giusto il suggerimento di De Gasperi (fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 987). Nel Consiglio dei ministri De Gasperi ricorda i colloqui di Tarchiani con Truman e con Byrnes che spiegano l’iniziativa con il desiderio di « [...] poter dimostrare che in Italia vi è realizzazione di democrazia anche di fronte al possibile appunto relativo ai Balcani » (acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 6/VI).101 Oltre a quanto riferisce a. oambino (Storie del dopoguerra, cit., p. 83), si deve ricordare anche che ad accendere il dibattito in Consiglio dei ministri furono soprattutto Lussu e La Malfa, ai quali venne in soccorso Nenni, tentando di evitare una risposta precisa alle richieste ame­ricane. Cfr. anche Enzo pisc ite ll i, Da Parri a De Gasperi, Storia del dopoguerra, 1945-1948, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 82-83.

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D.W. Ellwood a proposito del logoramento del governo Farri e della crisi conse­guente, giudizio che ridimensiona notevolmente le influenze straniere su questo significativo evento della politica italiana, caricato poi dalla storiografia di sugge­stioni che hanno finito per dilatarne la pur rilevante portata reale 102 103 104.Assai più grave della questione della priorità delle elezioni amministrative su quelle politiche è — sia sul piano politico generale sia su quello della questione istituzio­nale — la manovra di coinvolgimento degli Stati Uniti avviata da De Gasperi nel colloquio del 26 agosto con Kirk a proposito dei poteri della Costituente, problema sul quale il ministro degli Esteri italiano esprime al suo interlocutore la massima preoccupazione. De Gasperi agita lo spauracchio di una Assemblea costituente- convenzione, che

porrebbe fine ad ogni governo in Italia compresi il luogotenente generale del Regno, il Consiglio dei ministri e gli attuali presidenti del Senato e della Camera e il potere sarebbe concentrato in un presidente nominato dalla Costituente che formerebbe un « governo provvisorio » simile a quello francese. Questa situazione — secondo De Gasperi — por­rebbe le premesse di una dittatura con Nenni o Togliatti come probabili candidati. In considerazione di questo — conclude K irk — qualsiasi opinione che i consulenti giuridici del D ipartim ento possano avere sulla legge che indice la Costituente mi parrebbe utile 1(B.

Mentre, in questa prima fase Kirk si limita a chiedere conforto tecnico, qualche giorno dopo (il 6 settembre) trasmette un memorandum della sezione giuridica della Commissione alleata nel quale lo spauracchio della Costituente-convenzione è nuovamente agitato, ed ammantato della scientificità derivante dal parere « di quattro eminenti giuristi italiani»: «L ’Assemblea potrebbe immediatamente ri­muovere ogni limitazione che potrebbe derivare dalle norme del DII 151 modifi­candolo » m.

De Gasperi e la soluzione definitiva

Prima di procedere oltre nell’esame degli sviluppi finali della questione istitu­zionale e della manovra iniziata da De Gasperi — che su di essi ha un valore deter­minante — occorre cercare di impostare correttamente il problema che, anche in sede storiografica, continua ad essere definito come quello dei poteri dell’Assemblea costituente. Quello che in realtà stava di fronte alle forze politiche italiane era il problema di dare attuazione alla disposizione generale contenuta nell’articolo 1

102 Scrive d.m . ellwood (L ’alleato nemico, cit., pp. 188-189): « Nella storiografia italiana è inevitabilmente rimasto il sospetto che la crisi sia stata manovrata dagli Alleati per ottenere un governo più fortemente spostato a destra. La transizione da Parri a De Gasperi giovò invece al conservatorismo alleato solo in senso oggettivo: che le cose stavano così si comprese solo alcuni mesi più tardi, quando i temuti colpi di stato della destra e della sinistra non si verificarono e il doloroso processo della ricostruzione si mise in moto sotto la guida degli ancora incerti demo- cristiani. In questo contesto sarebbe più legittimo domandarsi fino a che punto la presenza e il vantato favore degli anglo-americani siano stati sfruttati come forma di garanzia o di copertura da parte di quelle forze che fecero cadere Parri, nella speranza — più o meno cosciente — che gli inglesi o gli americani, o entrambi, sarebbero intervenuti per salvarli nel caso la manovra fosse naufragata nel caos o nel disordine ». L’orientamento storiografico che ha portato ad una dilatazione del significato della crisi Parri è stato iniziato da LEO valiani, L ’avvento di De Ga­speri - Tre anni di politica italiana, Torino, Einaudi, 1949, un’opera peraltro assai pregevole, vista anche l’ottica ravvicinata in cui fu scritta.103 fr u s , 1945, voi. IV, cit., pp. 984-985. a. cambino (Storia del dopoguerra, cit., p. 153), analizza egregiamente questo passo di De Gasperi, pur in una prospettiva, come vedremo, insod­disfacente dell’intera questione dei poteri della Costituente, che echeggia le impostazioni storio­grafiche di derivazione azionistica di cui alla nota precedente.104 fr u s , 1945, voi. IV, cit., p. 985.

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del DII 151 sui « modi e le procedure » con le quali l’Assemblea costituente, non solo avrebbe dovuto venire eletta, ma anche avrebbe dovuto procedere alla decisione sulle «forme istituzionali»; in altri termini, si trattava di stabilire in qual misura l’elezione della Costituente avrebbe inciso sull’assetto costituzionale provvisorio stabilito nel giugno del 1944. La questione presentava aspetti decisamente più gravi per lo schieramento monarchico che non per quello repubblicano. Una volta orien­tatesi decisamente, dopo l’intervista di Umberto di Savoia al «New York Times», per il referendum le forze monarchiche dovevano necessariamente ottenere la modifica del DII 151. Questo era il punto cruciale della controversia e, in una certa misura, quello dei poteri della Costituente era —- almeno per tutto il 1945 — uno pseudo-problema sollevato da chi voleva discostarsi dal sistema del DII 151, che prevedeva chiaramente l’attribuzione del potere legislativo al governo, fino a quando « non sarà entrato in funzione il nuovo Parlamento », cioè anche per tutto il periodo della Costituente. Questo aspetto rimane prevalente anche considerando la relativa fragilità dell’assetto costituzionale provvisorio, che, in misura non certo dramma­tica, abbisognava soltanto di ritocchi, quali finirono per essere, in definitiva e salvo la decisione di tenere un referendum preventivo, quelli apportati alla fine del febbraio 1946.V’è inoltre da sottolineare, in tutta questa complessa vicenda, l’importanza essen­ziale assunta dal fattore temporale: il rapido deteriorarsi dell’unità antifascista che, alla fine del novembre conduce alla crisi del governo Parri, rende sempre più urgente per lo schieramento di sinistra la rapida convocazione dei comizi elettorali, mentre le forze monarchiche si battono con tutti i mezzi per ritardare la decisione, frapponendo ogni tipo di ostacoli e di rinvii, al punto che l’effettuazione delle elezioni diviene il nodo essenziale di tutta la situazione politica italiana, al quale le sinistre sono costrette a sacrificare più di uno dei loro obiettivi (dal mantenimento dei prefetti politici al cambio della moneta).In perfetta sintonia con questi sviluppi italiani, la seconda metà del 1945 segna l’accelerazione del processo di disgregazione dell’alleanza antinazista, l’inizio della diplomazia atomica degli Stati U niti105, e, parallelamente, lo sviluppo di un acceso dibattito in seno aH’amministrazione Truman, che doveva condurre all’isolamento di chi, come il Segretario di stato Byrnes, insisteva ancora per negoziare con i sovietici anziché usare la politica forte 106.Poste queste premesse, proviamo a delineare il complesso gioco che condusse, alla fine di febbraio 1946, alla decisione definitiva sui modi di soluzione della questione istituzionale. La richiesta di conforto tecnico avanzata da Kirk ai primi di settembre riceve da Byrnes una risposta assai dettagliata il 22 ottobre 1945: anzitutto, si con­testa l’opinione della sezione giuridica Commissione alleata e dei giuristi italiani sul fatto che la Costituente possa essere assolutamente sovrana, come sarebbe

los In generale, sugli effetti dell’arma atomica sulla diplomazia americana dopo Potsdam cfr. Martin J. sherw in , A World Destroyed. The Atomic Bomb and thè Grand Alliance, New York, Knopf, 1975, pp. 220-238.106 Su questa fase della politica americana e sui tentativi di Byrnes, culminati nella Conferenza di Mosca del dicembre 1945, nella quale si raggiunsero accordi sui trattati di pace, scrive acuta­mente D. yergin (Shattered Peace, cit., p. 162): « L’eredità rooseveltiana si era praticamente consumata. Come per simbolizzare il cambiamento il più influente collaboratore del defunto Presidente, Harry Hopkins moriva nel gennaio 1946. Ora, ai più alti livelli di governo, Yalta non era più un simbolo di accordi realistici fondati su fattori di potenza, ma sempre di più significava, ingenuità, debolezza e cedimento. Byrnes a Mosca aveva dimostrato che i principi di Yalta erano ancora validi, ma essi non erano più accettati in seno al governo america­no. » Da notare, incidentalmente, che tra gli avversari di Byrnes nella diplomazia americana, si distingueva Kirk, che ebbe a definire « penosa » la politica del segretario di stato {ibid., p. 152).

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tradizione in Europa. In secondo luogo, si ribadisce la linea consueta di difesa del sistema del DII 151, con il potere legislativo affidato al governo, con i soli limiti derivanti dall’armistizio: « avendo il potere di deliberare sull’Assemblea, l’attuale governo ha anche il potere di deliberare sulle procedure, compreso quello di limitare l’Assemblea al compito di redigere la nuova costituzione, come fu effettivamente fatto col decreto legislativo 151 [...]». Dopo aver affermato che il caso dell’Italia è diverso dai precedenti europei di costituenti rivoluzionarie in quanto « [...] esiste un regime legale che ha obbligazioni verso gli Alleati ed è competente ad ammi­nistrare il paese durante la Costituente », Byrnes ricorda la lettera del DII 151 con il riferimento alla durata del potere legislativo del governo fino all’elezione del nuovo parlamento ed aggiunge un riferimento alla Dichiarazione di Mosca del­l’ottobre 1943 che « prevede il diritto del popolo italiano di scegliere la forma di governo con mezzi costituzionali, ciò che implica il rispetto della continuità giuri­dica». Infine, il Segretario di stato invita Kirk a informare la Commissione alleata della posizione del Dipartimento di stato e annuncia l’invio di un più approfondito dispaccio I07.In sostanza, il documento esprime un notevole grado di riservatezza: il Diparti­mento di stato afferma chiaramente che il governo italiano ha già fissato dei limiti ai poteri della Costituente con il DII 151 e si limita a contestare la tesi della Co­stituente-convenzione, che — in questa fase — non era certo quella delle sinistre ma che veniva usata come intralcio e come spauracchio dai monarchici e dai loro alleati.Che questa interpretazione sia corretta risulta chiaramente dal dibattito che si svolge il 30 ottobre nel Consiglio dei ministri sulla legge elettorale politica nel quale, De Gasperi accenna ad una richiesta alleata perché gli italiani precisino « ...se ver­ranno emanate disposizioni integrative sulla Costituente», aggiungendo che la cosa dovrebbe restare riservata. In realtà, gli alleati hanno sostanzialmente decli­nato una richiesta d’intervento, pur se il problema di precisare i termini del DII 151 era reale. E su tale problema il Consiglio dei ministri deve registrare un dissenso, che però riguarda soprattutto il referendum del quale parla espressamente il liberale Brosio; sui poteri della Costituente, Nenni è esplicito nel riferirsi « alla legge di Salerno» (il DII 151), limitandosi ad accennare ad una sua «interpretazione esten­siva», mentre La Malfa esprime chiaramente la vera posta in gioco, quando afferma che « il passaggio da un capo dello stato all’altro dovrà essere oggetto d’accordo ». Il Consiglio dei ministri si conclude con la fissazione del termine per le elezioni della Costituente entro l’aprile 1946, con l’impegno a iniziare entro il 1945 le elezioni amministrative e con un rinvio sui problemi dell’assetto costituzio­nale provvisorio 108.

107 fr u s , 1945, cit., p. 990. L’interpretazione che a. gambino (Storia del dopoguerra, cit., p. 153), fornisce di questo documento è decisamente parziale, nel senso che esso viene considerato comeun appoggio alle tesi di De Gasperi e dei giuristi italiani, come se questi fossero favorevoli ad una Costituente sovrana. In realtà, come vedremo, lo schieramento conservatore voleva andare oltre i limiti del DII 151, smantellandolo sia col referendum sia con ulteriori vincoli dell’assetto costituzionale favorevoli alla monarchia. Quanto all’ulteriore dispaccio esso è il famoso « parere dei giuristi americani » che De Gasperi utilizzerà spregiudicatamente nella fase finale dello scontro. Nei FRUS il documento non è pubblicato; è noto però che esso — col titolo di Poteri del governo italiano nei confronti dell'Assemblea costituente — fu trasmesso a Roma come « Istruzione n. 812 del 16 novembre 1945 ». Ma « l’essenziale dell’argomentazione era compresa nel telegramma del Dipartimento [di stato] del 22 ottobre 1945 » (quello di Byrnes citato nel testo). Cfr. f r u s , 1947, voi. Ili, The British Commonwealth; Europe, Washington, 1972, p. 879, n. 97. 101 acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 6/XVII. Il comunicato del Consiglio dei ministri così conclude su questo punto: « Correlativamente alla convocazione dei comizi elettorali verranno precisati i modi di soluzione dei problemi politici connessi con la Costituente ».

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Le sinistre sono molto più preoccupate, in questa fase, dei tempi che non dei contenuti, sentendosi evidentemente su questo piano abbastanza garantite dal DII 151. È solo retrospettivamente che la questione dei poteri della costituente si è caricata di un grande significato attribuendosi ad essa il rinvio di « ogni riforma di strut­tura... all’Assemblea legislativa eletta dopo che la Costituente avesse ultimato i suoi lavori » 109 110 111. In realtà, se vi fossero state le condizioni politiche, le riforme di struttura avrebbe potuto farle il governo, nel quale erano rappresentati gli stessi partiti che avrebbero formato l’Assemblea costituente, per di più in una composi­zione paritaria che, rispetto a quella proporzionale, favoriva lo schieramento pro­gressista.Il rinvio dei « problemi politici connessi alla Costituente », deciso il 30 ottobre, doveva rivelarsi maggiore del previsto per la crisi del governo Parri e la formazione del primo governo De Gasperi; tuttavia, i reali termini del problema non sono mutati. Si tratta sempre di stabilire se ci si debba allontanare dallo schema del DII 151 e quale debba essere, in caso positivo, la sorte del luogotenente durante la Costi­tuente: e la questione è assai imbarazzante per i sostenitori del referendum, dal momento che essi devono modificare a tal fine il sistema deciso nel giugno 1944 che, invece, avrebbe consentito il perdurare della luogotenenza per tutto il periodo costituente fino al momento in cui l’Assemblea costituente avesse risolto la que­stione istituzionale no.Di fronte a questa complessa situazione, il nuovo presidente del Consiglio non esita a ricorrere nuovamente agli americani: il 5 gennaio ha con Stone un colloquio dal quale risultano chiaramente sia i termini del problema sia la soluzione che egli intende ottenere. Il colloquio è riferito da Kirk al Dipartimento di stato in un modo che non lascia dubbi sulla volontà del premier italiano di provocare un intervento alleato:

De Gasperi ha insistito più volte con l’ammiraglio Stone che è giunto il momento, per i governi alleati, di prendere una decisione sull’Assemblea costituente e sulle procedure da seguire per risolvere la questione istituzionale, se mai intendono farlo [...] Infine De Gasperi si riferì a diverse lettere scritte a Parri, nelle quali si chiedevano opinioni del governo italiano circa i poteri dell’Assemblea costituente. De Gasperi ha chiesto a Stone di scrivergli di nuovo, ciò che l’ammiraglio farà, nell’intesa che il primo ministro si avvarrà di questo per far risolvere la questione nelle prossime riunioni del governo m .

Fino a questo punto, la richiesta di De Gasperi può apparire del tutto corretta, anche perché sembra orientata soprattutto ad accelerare i tempi di una soluzione: ma egli si spinge largamente anche nel merito. C’è una notevole difficoltà a variare il DII 151 da parte dell’attuale governo — afferma De Gasperi — aggiungendo che « nell’opinione di Nenni la legge vigente è soddisfacente e che gli Alleati non in­terverranno a cambiarla [...] Come il Dipartimento sa, Nenni e i socialisti, d’accordo con i comunisti, sono per una Costituente sovrana appena eletta, che governi il

109 Cfr. L. valiani, L ’avvento di De Gasperi, cit., p. 68. Anche A. gambino (Storia del dopo­guerra, cit., p. 153) riprende questa argomentazione aggiungendo che l’Assemblea costituente sarebbe stata più aperta alle istanze del rinnovamento: ma l’assunto continua a rimanere indi- mostrato, come osserva Pietro scoppola (La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 218-219). D’altra parte questo autore giustifica eccessivamente il « garantismo » di De Gasperi ed anche il suo conseguente tentativo di coinvolgere gli Stati Uniti.110 È assai probabile che a questo imbarazzo, più che a un plateale doppio giuoco, siano dovute le esitazioni di De Gasperi sul referendum durante la crisi Parri e da lui comunicate a Lussu, che poi le rese pubbliche (cfr. a. gambino, Storia del dopoguerra, cit., p. 151).111 Cfr. fr u s , 1946, voi. V, The British commonwealth, Western and Central Europe, Washington, 1969, p. 875. Le lettere cui De Gasperi si riferisce risalgono al settembre 1945 e riguardano soltanto la discussione teorica sulla tradizione della sovranità delle costituenti europee, che è asserita dai « giuristi italiani ».

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paese, regoli la questione istituzionale e detti la nuova Costituzione » : con questo è sufficientemente chiaro che Costituente sovrana per la sinistra significa soltanto che il governo non può più essere responsabile solo verso il luogotenente, mentre per De Gasperi luogotenenza e assemblea possono coesistere mantenendo la prima la sua forma esistente, come del resto prevedeva lo stesso DII 151. Ma il problema nasce proprio per chi, come De Gasperi, voleva introdurre il referendum, che « si augurava, gli Alleati avrebbero richiesto, come era loro diritto secondo la dichiara­zione di Mosca del 1943 ». Tuttavia, l’uomo politico italiano ha anche la soluzione per questa contraddizione, suggerendo un referendum « per stabilire la vita e i poteri dell’Assemblea costituente e un referendum sulla questione istituzionale, che po­trebbe essere anche <indicativo>, cioè non vincolante per la Costituente». Da no­tare come, a questo punto, De Gasperi chieda due referendum, il primo dei quali riguarda la permanenza del luogotenente come capo dello stato anche dopo le elezioni. Kirk appoggia in pieno le richieste degasperiane: chiede istruzioni precise e domanda che le posizioni espresse nel telegramma del 22 ottobre 1945 siano comunicate dalla Commissione alleata al governo italiano come quelle ufficiali dei governi alleati, anche se, personalmente, non le ritiene ancora soddisfacentim.Anche la nuova risposta del Dipartimento è destinata a deludere le aspettative di coloro che a Roma volevano imporre le loro soluzioni con l’appoggio alleato; il sottosegretario Acheson replica ribadendo il principio dell’autodeterminazione, ed esprimendo la certezza che

le leggi che sappiamo essere ora in discussione garantiranno la libera e piena espressione della volontà del popolo italiano. È questa una responsabilità più volte assunta dagli Stati Uniti: [...] ed è con questa responsabilità in mente che Ella è stata istruito di richiamare l’attenzione di De Gasperi sul telegramma del 22 ottobre [...] Infine, Ella dovrebbe dire a De Gasperi che ci attendiamo che il Governo italiano assolva i suoi obblighi nel porre le fondam enta di uno stato fondato sulla volontà sovrana del popolo, che sarà degna delle migliori tradizioni italiane e o tterrà il rispetto mondiale U3.

Si tratta anche in questo caso di un rifiuto abbastanza netto di intervenire, ribadito alla metà di gennaio 1946, quando la Consulta sta per esaminare la legge elettorale, dibattito in cui, per iniziativa liberale, si cerca di inserire anche le questioni dei poteri della Costituente e del referendum. Il Dipartimento di stato si attesta sulla posizione già assunta nel giugno-luglio ’45: nessuna preclusione nei confronti di un referendum, ma la decisione deve essere italiana, e tanto più ora che, in seguito a quella decisione, altre questioni si profilano sul regime costituzionale transitorio in pendenza dell’Assemblea costituente.La risposta del Dipartimento di stato non scoraggia il tenace ambasciatore a Roma. Il 21 gennaio, ignorando la risposta di Acheson, che, come vedremo, giudica del tutto negativamente, Kirk scrive a Washington che « fin quando non riceveremo definite istruzioni in senso contrario [...] ritengo dovremo continuare a far pres­sioni qui e presso il Comando alleato perché la questione istituzionale sia risolta con un referendum indetto direttamente dal governo o dall’Assemblea costituente una volta eletta ». Inoltre, Kirk riferisce che Noel-Charles, l’ambasciatore inglese,

1,2 Ibid. Da notare come Kirk non ritenga dei tutto soddisfacente questa soluzione accennando (p. 876) ad una formula elaborata a Washington « più adatta a soddisfare la condizione che il popolo italiano scelga la propria forma di governo ». Si può avanzare l’ipotesi che Kirk si riferisca al documento elaborato nell’autunno del 1944 (cfr. nota 84). Dalle richieste di Kirk, poi, si evince che « il parere dei giuristi americani » (o, che è lo stesso, il telegramma del 22 ot­tobre 1945) è stato trasmesso agli italiani soltanto in via ufficiosa e informale.113 Cfr. f r u s , 1946, cit., p. 877. La risposta di Acheson è portata da Kirk a conoscenza di De Gasperi il 25 gennaio 1946 (ibid., p. 881, n. 99).

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ha privatamente espresso a De Gasperi il convincimento che, in una qualche fase, la questione istituzionale debba essere soggetta a referendum114.Tuttavia, l’appoggio ufficioso sulla sua soluzione preferita di un referendum inter­locutorio non è sufficiente a De Gasperi: ai primi di febbraio la Consulta esamina in seduta plenaria la legge elettorale, senza occuparsi del problema, dei poteri della Costituente, che invece sembra angosciare il presidente del Consiglio, ormai da diversi mesills; e, subito dopo, iniziano i contatti tra le delegazioni dei partiti in sede di Consiglio di gabinetto per risolvere i « problemi politici connessi con la Costituente». Per quanto drammaticamente presentato il «parere dei giuristi americani » — coincidente con quello trasmesso dal Dipartimento di stato il 22 ot­tobre —, non è sufficiente a risolvere i dissensi tra i partiti, tanto più che le soluzioni proposte dai monarchici si moltiplicano, nel trasparente intento di com­plicare il regime transitorio e di frapporre ostacoli alla decisione definitiva116. Il dibattito di quei giorni è assai serrato e confuso e De Gasperi, il 21 febbraio, torna alla carica con l’ambasciatore americano per ottenere finalmente l’avallo di Washington su un compromesso che preveda la responsabilità del presidente del Consiglio verso la Costituente, la conservazione del luogotenente e un doppio refe­rendum sia sulla scelta tra monarchia e repubblica sia sull’assetto provvisorio; in subordine, viene presentata l’idea — che è quella dichiaratamente preferita dal leader democratico-cristiano 117 — di un referendum interlocutorio. Narra Kirk:A conclusione De Gasperi mi ha fatto due quesiti:1. Ritengono gli esperti americani che la diretta consultazione del popolo (referendum) è una procedura più democratica di quella autorizzata dalla legge del 1944 e che il referen­dum ben si adatta alla politica generale degli alleati?2. Inoltre, ritengono che la conservazione del luogotenente fino alle decisioni finali, anche con poteri ridotti, è prova sufficiente di continuità giuridica?Una risposta affermativa a questi due quesiti rafforzerebbe la posizione dei partiti moderati e faciliterebbe il compromesso che essi ricercano.Dopo aver ricordato che la risposta deve essere fornita entro pochi giorni, Kirk fa seguire le proprie considerazioni, che sono vivacemente polemiche nei confronti del riserbo mantenuto dal Dipartimento di stato di fronte alle precedenti richieste italiane: « In generale, vorrei dire che, ammettendo pienamente il principio della non interferenza nella politica interna di un altro paese, ritengo che poiché abbiamo assunto delle responsabilità per l’introduzione di una forma di governo democratico, dovremmo ritenere possibile facilitare lo sforzo di elementi che tendono a quello scopo con strumenti più efficaci delle affermazioni banali e della emissione di pii desideri » 118.

1H fr u s , 1946, cit., p. 878.115 Scrive De Gasperi a Tarchiani il 10 ottobre 1945: « In realtà la legge di Salerno del ’44 non è chiara né logica. L’art. 4 prevede la continuazione del regime luogotenenziale anche dopo la Costituente fino al nuovo Parlamento: e così, per dire la verità, la intendemmo allora noi e gli alleati. Poi la Costituente assunse < un significato più preciso >. Ma se il luogotenente si richiama alla legge, come a un fatto (che tale si può interpretare) sarà bene necessario pensare ad un nuovo provvedimento legislativo, onde evitare conflitti ». (Cfr. De Gasperi scrive, voi. II, cit., p. 121). In realtà, anche in questa lettera De Gasperi inverte le responsabilità: chi vuole uscire dallo schema di Salerno è chi vuole il referendum, non chi richiede soltanto che si precisino i rapporti tra luogotenenza e Assemblea costituente.116 Tanto « L’Avanti! » (del 24 febbraio 1946) quanto « L’Unità » respingono il « parere dei giuristi americani » più in quanto ingerenza esterna che non nel merito. Da quest’ultimo punto di vista è sintomatico quanto scrive « L’Unità » del 22 febbraio 1946, che attribuisce addirittura ai sostenitori della tesi restrittiva dei poteri della Costituente la volontà di farla coesistere con la Consulta, segno evidente di un intento ostruzionistico e volto a confondere le acque.117 La preferenza di De Gasperi per il referendum durante il periodo costituente è espressa apertamente in una lettera a Sturzo {De Gasperi scrive, voi. II, cit., p. 42), ampiamente com­mentata da p . scoppola {La proposta politica di De Gasperi, cit., p. 221) sulla quale torneremo.118 fr u s , 1946, cit., pp. 880-881.

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Questo dispaccio inviato da Kirk a Washington consente di stabilire con sufficiente certezza che l’intento perseguito da De Gasperi era non solo quello, universalmente noto, della effettuazione di un referendum durante il periodo costituente o alla fine di esso, ma anche quello di mantenere in carica il luogotenente durante tale periodo — eventualmente anche con poteri ridotti —, consentendo alla monarchia di conservare, nonostante l’introduzione del referendum, il vantaggio della propria presenza. Inoltre, la precisione delle richieste avanzate ed i commenti dell’amba- sciatore americano tolgono ogni dubbio circa la volontà degasperiana di coinvolgere massicciamente gli Stati Uniti nella politica interna italiana, per fondare su tale coinvolgimento parte della fortuna politica propria e del proprio partito 119, pur se questa evoluzione viene a compimento soltanto in un momento successivo, sulla scia della divisione del mondo in blocchi contrapposti. È certo poi che, in questa prospettiva, il ruolo giocato dalPambasciatore Kirk è tutt’altro che irrilevante, anche se — per quanto riguarda la questione istituzionale — non riesce ad otte­nere da Washington piena soddisfazione: la risposta di Byrnes, che perviene a Roma il 28 febbraio, quando cioè il dibattito sui problemi connessi con la Co­stituente è già in buona parte definito, è abbastanza dura nei confronti del Pre­sidente del Consiglio italiano che « non comprende appieno la posizione di questo governo in relazione alle elezioni italiane ». Kirk viene quindi invitato a ricordare a De Gasperi che la posizione degli Stati Uniti

[...] era motivata, anzitutto, dalla preoccupazione che i diritti del popolo italiano fossero esercitati attraverso libere elezioni e, in secondo luogo, dalla preoccupazione che fosse tu telata la continuità giuridica del governo italiano. Il governo degli Stati Uniti non ha dato suggerimenti circa il modo in cui questi principi dovessero essere tradotti in legge e l’assunzione di De Gasperi che le tesi del nostro governo richiedessero la prosecuzione della luogotenenza è scorretta.

La risposta è molto articolata e ribadisce la tesi che

il governo italiano avendo il potere di regolare l’Assemblea costituente, ha anche quello di porre limiti alle funzioni dell’Assemblea: così può, se lo desidera, garantire il potere dell’Assemblea di por fine alla luogotenenza. Parimenti, il governo degli Stati Uniti ritiene che, se l’attuale governo italiano lo desidera, può affidare poteri di governo all’Assemblea.

In ogni modo, prosegue Byrnes, gli Stati Uniti hanno consigliato che la Costituente «si dedichi prioritariamente al compito di redigere la costituzione», come del resto prevede il DII 151. Quanto al quesito sul referendum, si osserva che il governo americano non ha mai ritenuto che esso fosse escluso dal DII 151:

è pacifico che l’Assemblea debba con pieno diritto agire per decidere in ultima istanza la questione istituzionale e deliberare in proposito le leggi fondamentali. Peraltro, è difficile rendersi conto su quali basi diverse dal desiderio degli elettori l’Assemblea possa prendere la sua decisione [...] Il desiderio della maggioranza può essere determinato prima che l’Assemblea si riunisca, durante la sua esistenza e sottoponendo il suo operato agli elettori per una ratifica successiva allo scioglimento dell’Assemblea. Ciascuno di questi metodi di consultazione diretta del popolo è una procedura democratica; tuttavia, nel caso di specie, le ultime due soluzioni determinerebbero difficoltà pratiche nell’istituzione della repubblica o nel mantenimento della monarchia, difficoltà che non sorgerebbero se il desiderio dell’elettorato fosse noto prima della decisione dell’Assemblea.

Col referendum preventivo, a favore del quale Byrnes finisce per pronunciarsi, si rende più agevole il regime transitorio, soprattutto con l’eliminazione del luogote-

115 Esce dunque pienamente confermato, da questo punto di vista, il giudizio secondo il quale, proprio sulla questione istituzionale, De Gasperi « [...] utilizzò la posizione di ministro degli Esteri nei gabinetti Bonomi e Parri per divenire l’interlocutore privilegiato del Dipartimento di stato » e per favorire « il coinvolgimento degli Stati Uniti nella politica italiana ancor più mas­siccia di quanto non derivasse dalla loro autonoma iniziativa ». Cfr. E. ragionieri, La storia politica e sociale, cit., p. 2419.

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nenie e l’assunzione dei poteri da parte di un capo provvisorio dello stato in caso di vittoria repubblicana (una soluzione, questa, che sarà recepita alla lettera nel Decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98). Il messaggio del Segre­tario di stato si chiude peraltro, sul tono di riserbo col quale si era aperto: « Per finire, Ella dovrebbe dire a De Gasperi che il principio al quale questo governo si attiene nella questione istituzionale è il diritto assoluto (free and untrammeled righi: le parole usate per la prima volta da Roosevelt nel settembre 1943) del popolo italiano di scegliere la forma di governo democratico che esso desidera » 12°.Come si è visto, la risposta di Byrnes alle pressanti richieste di De Gasperi e di Kirk giunge il 28 febbraio, quando la polemica tra i partiti già vede delinearsi degli sbocchi e il dibattito si è spostato in sede di Consiglio dei ministri. Nelle brevi ricostruzioni storiografiche di questi giorni cruciali, il momento decisivo viene individuato nella decisione di Nenni, che, il 25 febbraio, dopo un giro eletto­rale in Romagna, ritiene opportuno rinunciare alla battaglia sui poteri della Co­stituente e sul referendum, considerando troppo grosso il rischio di una crisi: e, si afferma su questa base che « la situazione si sblocca, a favore della destra » m.In realtà, anche in questo caso, le cose furono più complesse e con ogni proba­bilità la vittoria della destra fu assai meno rilevante di quanto non si sia accre­ditato in sede storiografica. Quel che lo schieramento filomonarchico voleva era certamente il referendum, e lo voleva mantenendo invariato il sistema luogote­nenziale, possibilmente fino ad una ratifica popolare dell’operato della Costituente in modo da farne un’edizione aggiornata dei plebisciti risorgimentali; e, in questa posizione le forze monarchice ricevono, al di là di ogni motivazione soggettiva, il massiccio appoggio di De Gasperi, nella misura in cui egli si batte per il referendum intermedio. Il punto chiave del contrasto tra i partiti è il momento del processo decisionale nel quale il luogotenente deve vedere sanzionato il proprio potere o abbandonarlo: e questo è anche il vero contenuto della questione dei poteri della Costituente, non certo quello relativo alle sue funzioni legislative, punto sul quale si raggiunge facilmente tra i partiti un accordo che ricalca l’ipotesi avanzata da Nenni di « un’interpretazione estensiva » del sistema del DII 151 120 * 122.La sostanza del problema, se è finora sfuggita agli storici, non sfuggiva ai con­temporanei: già il 24 febbraio, prima, cioè, del ripensamento di Nenni, il comunista Ottavio Pastore delineava chiaramente la soluzione destinata a prevalere: « Ma se al referendum si dovesse arrivare, esso dovrebbe almeno avere valore decisivo; dopo che il popolo si sarà pronunciato a maggioranza per la repubblica [...] non c’è alcuna possibilità per la monarchia di continuare a vivacchiare. L’Assemblea costituente dovrà senz’altro prendere atto e proclamare la repubblica nel primo articolo della nuova costituzione » 123.

120 fr u s , 1946, cit., pp. 881-883.m Così si esprime A. gambino (Storia del dopoguerra, cit., p. 158). In modo del tutto analogo argomenta e . piscitellt (Da Porri a De Gasperi, cit., p. 151) il quale introduce l’ipotesi che su Nenni abbia influito un intervento di Bevin. Questo era stato sollecitato da De Gasperi a Kirk nel colloquio del 22 febbraio, quando aveva affermato « [...] che se Bevin avesse accettato di dire a Nenni che un referendum o plebiscito era opportuno, il cammino sarebbe stato più facile » (fr u s , 1946, cit., p. 881). Manca ogni elemento che confermi l’esaudimento della richiesta di De Gasperi: visto il tono della risposta del Segretario di stato, è assai dubbio che la richiesta di provocare un intervento inglese su Nenni abbia avuto un seguito, almeno per il tramite di Washington.122 L’accordo tra i partiti prevede l’attribuzione all’Assemblea costituente delle leggi di ratifica dei trattati internazionali: cosi riferisce De Gasepri nella sua relazione al Consiglio dei ministri del 27 febbraio 1975. Su proposta di Togliatti, vengono deferite alla Costituente anche le leggi di approvazione del bilancio e senza alcun dibattito (acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 7/XIII).123 « L’Unità » del 24 febbraio 1946.

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Più che sottolineare la sostanziale coincidenza del ragionamento del dirigente co­munista con le argomentazioni di Byrnes, coincidenza che del resto si fonda sul semplice buon senso e sulla effettiva volontà di realizzare il principio dell’autode­terminazione 124, importa mettere in luce come effettivamente la decisione di pun­tare sul referendum istituzionale preventivo rendesse sostanzialmente irrilevante la questione della posizione del luogotenente nella fase costituente; appare quindi pienamente confermata, anche nella fase finale, la deformazione storiografica che vede nella rinuncia alla Costituente sovrana un capitale cedimento delle sinistre 125.Gli storici che, come Scoppola e Cambino, hanno esaminato i verbali del Consiglio dei ministri del 27 e 28 febbraio 1945, hanno sottolineato la difficoltà di evincerne uno sviluppo coerente per l’accavallarsi degli argomenti e per il riferimento a testi o compromessi non noti nei loro dettagli. Senza negare tale difficoltà, sembra pos­sibile delineare schematicamente le posizioni: quando il Consiglio inizia, i partiti hanno raggiunto l’accordo soltanto sul referendum istituzionale preventivo e con­testuale all’elezione della Costituente.Su tale accordo permane una riserva del Partito d’azione, che è per la prima volta rappresentato nel Consiglio dei ministri da Cianca e Bracci, in sostituzione dei dimissionari La Malfa e Lussu: la riserva riguarda sia il referendum preventivo, sia la permanenza del luogotenente al momento delle elezioni, punto sul quale secondo quanto riferisce De Gasperi, anche il Partito repubblicano, estraneo al governo, è contrario. Entrambe le riserve vengono mantenute e ribadite dai rap­presentanti azionisti, in modo che ad ogni momento rischia di riaprirsi il dibattito generale; in particolare, tanto Nenni che Togliatti concordano, in via di principio, sulla validità dell’istanza azionista dell’incompatibilità della luogotenenza con lo svolgimento del referendum126, ma riconoscono che l’allontanamento preventivo di Umberto di Savoia costituirebbe una rottura unilaterale della tregua istituzionale. Peraltro, sia nel dibattito del 27 sia in quello del 28 febbraio, i liberali e De Gasperi ripropongono più voite un secondo referendum, sia in base allo schema delineato nelle richieste al Dipartimento di stato sia — da parte liberale — con la variante di un giudizio popolare confirmatorio dell’operato della Costituente: queste pro­poste vengono discusse soprattutto il 28 febbraio al mattino, per iniziativa dei liberali Brosio e Cattani e del presidente del Consiglio, che torna ancora una volta sul doppio referendum, secondo lo schema proposto a Kirk. La questione resta

m È interessante notare come Togliatti, nel Consiglio dei ministri del 27 febbraio dichiara di ritenere che « il referendum sui poteri della Costituente possa essere evitato perché la prima risposta assorbe la seconda » (acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 7/XIII, cit.). Nel messaggio di Byrnes del 28 febbraio, sopra citato, si afferma che « al secondo quesito di De Gasperi [quello sui poteri della Costituente] si è risposto con le argomentazioni che precedono » [quelle relative al referendum istituzionale preventivo],125 Si veda su questo punto la tesi di A. gambino (Storia del dopoguerra, cit., p. 161) che parla di una lucida rinuncia del gruppo dirigente comunista ai poteri legislativi della Costituente. Inoltre, viene contestata anche la tesi di Giorgio Amendola (« Rinascita » del 28 maggio 1956, n. 23, p. 22) che esprime meraviglia per lo scarso rilievo che nel dibattito politico ebbe la questione dei poteri della Costituente, intesa come attribuzione ad essa di poteri legislativi: in realtà il problema non era questo. Più vicino alla realtà va, in questo caso, p. scoppola (La proposta politica di De Gasperi, cit., pp. 228-229) che nega vi sia stata sulla questione una sconfitta delle sinistre. Ma anche questo autore desume dall’atteggiamento di Nenni e Togliatti sul tema dei poteri della Costituente la « carenza di una precisa visione dei problemi dello stato »: la « ca­renza » c’era, indubbiamente, ma non si manifesta su questo terreno.126 In realtà, le difficoltà di lettura dei verbali del Consiglio dei ministri di questi giorni sussistono soltanto se si continua ad accettare l’idea della « Costituente sovrana » come problema omnias- sorbente. Così, gli interventi di Nenni e Togliatti divengono chiarissimi se riferiti alla riserva azionista sulla permanenza del luogotenente durante le elezioni, anche in relazione alla libertà di voto dei pubblici dipendenti legati dal giuramento alla monarchia, alla quale si riferisce Nenni nel suo intervento.

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impregiudicata, mentre si accende vivacissimo il dibattito sulle sanzioni che do­vrebbero accompagnare l’obbligatorietà del voto punto sul quale le sinistre otten­gono soddisfazione; questa discussione riprende brevemente nella seduta pomeri­diana, durante la quale De Gasperi si allontana « per firmare il Trattato con la Repubblica di San Marino ». Poco dopo, il dibattito termina su queste basi: « resta approvato il voto obbligatorio e abbandonato il secondo referendum » I27 128.La conclusione rappresenta dunque solo parzialmente una vittoria dello schiera­mento conservatore, dal momento che la permanenza del luogotenente anche du­rante il periodo costituente — che, oltre al referendum, era il vero obiettivo dei conservatori — era scongiurata. Manca ogni elemento documentario sui rapporti che possono essere intercorsi tra le decisioni adottate in Consiglio dei ministri il 27 e 28 febbraio e le soluzioni delineate nella risposta di Byrnes dello stesso 28 febbraio m : si può pertanto concludere, insieme con lo storico inglese dell’am- ministrazione militare alleata in Italia, che « la decisione di risolvere la questione istituzionale sul referendum fu presa dal governo italiano nel 1946 » 129 130.Tuttavia, se la sostanza della decisione fu autonoma almeno rispetto agli organi dirigenti degli Stati Uniti, dal momento che a livello locale l’interferenza nella vicenda fu palese e massiccia, questa conclusione merita alcune precisazioni, sia in relazione alla politica italiana sia in relazione a quella degli Stati Uniti.Sul primo terreno è essenziale il ruolo svolto da De Gasperi, prima come ministro degli Esteri nei governi Bonomi e Parri e poi come presidente del Consiglio. E, a proposito di tale ruolo, De Gasperi ha teso a presentarsi come semplice mediatore tra le diverse tesi in conflitto sulla questione istituzionale, come ad avallare formalmente l’agnosticismo che, non senza contrasti, aveva imposto al partito della Democrazia cristiana nonostante fosse consapevole del prevalente orientamento repubblicano, nell’intento di evitare una frattura nel movimento cattolico m. Sulla base di questa testimonianza, si è sostenuto, in sede storiografica, che

il referendum istituzionale, voluto dai liberali nella speranza di confermare la monarchia e il potere delle vecchie classi dirigenti ad essa legate, fu voluto invece da De Gasperi con l’obiettivo opposto di assicurare alla repubblica, della quale prevedeva il successo, un ampio compenso che la ponesse al di sopra di ogni contestazione.

Altrimenti — prosegue Scoppola — si allinea indebitamente De Gasperi contro le sue intenzioni e contro l’obiettiva realtà della sua politica, a posizioni con-

127 acs, Verbali del Consiglio dei ministri, 7/XIV. Già la sera del 7 febbraio Brosio aveva lanciato l’idea del referendum confirmatorio dell’opera della Costituente, ricevendo da Togliatti e Nenni la risposta che, se si insiste su questa linea, essi chiederanno il ritorno al sistema del DII 151. Il 28 febbraio, nella seduta antimeridiana, Cattani ribadisce che « ciò che preoccupa i liberali è che possa formarsi un’assemblea dittatoriale. Noi temiamo che una volta eletta questa unica camera senza limiti e senza controllo essa voglia legiferare su qualunque argomento e restare in carica all’infinito [...] ». A ciò Nenni obietta « Cattani non vuole un’assemblea ditta­toriale, rivoluzionaria, che vada oltre certi limiti. Su questo siamo tutti d’accordo [...] ». De Gasperi, a sua volta, ripropone il doppio referendum, aggiungendo che con esso si poteva « chiarire che la facoltà legislativa rimane al governo e che si [teneva] conto della proposta americana » (cioè del famoso « parere dei giuristi americani »).128 II telegramma urgente di Byrnes venne rilasciato a Washington nel pomeriggio del 28 feb­braio: è quindi verosimile che non sia stato conosciuto a Roma prima della notte sul Io marzo, quando l’accordo era raggiunto. Il fatto, peraltro, è scarsamente rilevante in quanto il dibattito sulla legge per la Costituente continuò il T e il 2 marzo, incentrandosi sugli aspetti più stretta- mente elettorali.125 c.R.s. Harris, Allied Administration of Italy, cit., p. 362.130 Si veda soprattutto la citata lettera scritta da De Gasperi a Sturzo il 3 marzo 1946 in De Gasperi scrive, voi. II, cit., pp. 41-43.

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servatrici e più esattamente restauratrici ben presenti nella politica italiana del secondo dopoguerra m.Se il giudizio globale sull’opera di De Gasperi è certamente assai più complesso di quanto non sia possibile esprimere in questa sede e se, in termini generali, la ricostruzione fornita da Scoppola presenta aspetti per più di un verso convincenti, è veramente arduo, alla luce della documentazione fornita, sostenere che, nella questione istituzionale, De Gasepri abbia operato per la repubblica 131 132. Quel che conta, per il politico trentino è — come per lo schieramento monarchico — rin­viare il più possibile il momento della scelta definitiva; e, quel che appare più grave, è che anche una questione così essenziale venga strumentalizzata ai fini di un altro obiettivo fondamentale della politica degasperiana di questo periodo, quello di divenire l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Fin dall’agosto del 1945, prima che il problema delle elezioni venga concretamente affrontato, egli agita il « drappo rosso » della minaccia comunista che si realizzerebbe attraverso l’As­semblea costituente e una soluzione repubblicana della questione istituzionale da parte di essa, al fine di indurre gli USA ad aiutarlo nel frapporre indugi ed ostacoli (come il referendum sui poteri della Costituente) alla scelta finale; il disegno non si realizza compiutamente perché gli Stati Uniti non hanno ancora pienamente riconvertito la loro politica in senso antisovietico e sono ancora parzialmente legati alla concezione rooseveltiana dell’influenza che prescinde dall’ingerenza puntuale e minuta. Non ottenendo l’avallo del Dipartimento di stato, De Gasperi deve accon­tentarsi del referendum preventivo e rinunciare a quello sull’assetto costituzionale provvisorio, che avrebbe potuto consentire la permanenza del luogotenente, com­binando per lo schieramento monarchico i vantaggi di rimettere la decisione al popolo e quelli del sistema del DII 151. Assai più fondate delle argomentazioni sociologiche sulla tecnica referendaria fatte in sede storiografica, per chiedersi « quanti [voti] furono guadagnati alla repubblica dal rassicurante e cauto pronun­ciamento degasperiano » appaiono le critiche che, in sede politica, vennero rivolte da Dossetti a De Gasperi sia sul piano del merito sia su quello del metodo; sul primo terreno il giovane esponente cattolico rimproverava al suo leader di aver voluto la monarchia, mentre sul secondo denunciava apertamente il carattere di astuta manovra, di reale doppiezza del comportamento degasperiano nei confronti delle forze politiche italiane 133. È questo secondo aspetto della critica dossettiana che colpisce maggiormente, in quanto trova un puntuale riscontro nei risvolti interna-

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131 Cfr. p. scoppola, L ’opera politica di De Gasperi, cit., p. 230.132 Né si fa qui — come invece sostiene a. gambino, Storia del dopoguerra, cit., p. 156 — una questione di oggettiva convergenza di ogni forma di « garantismo » con gli interessi monarchici.133 Scrive dunque Dossetti, il cruciale 28 febbraio 1945, annunciando le proprie dimissioni dalla Segreteria, dalla Direzione e dal Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana in segno di protesta per le decisioni del Consiglio dei Ministri: « ...tu hai voluto la monarchia e hai di tua iniziativa e coscientemente gettato tutto il peso politico del Partito a favore della Monarchia. Posso ancora una volta comprendere le tue ragioni. Tu stesso mi hai dato modo, con frasi indirette e accidentali, di intravvedere il tuo pensiero e di capire che cosa ti muove: l’altra mattina, mi hai fatto cenno della < forza conservativa > insita in ogni monarchia e della connessione inevitabile che ne scaturisce, a presidio e a garanzia della religione, fra monarchia e clero. Potrei però obiettare molte cose... Ma non voglio insistere sul merito. Io faccio ora una questione di principio. Da molti elementi, soprattutto le tue ammissioni incidentali e indirette, ho acquisito la certezza che tu, mentre da un voto deH’ultimo consiglio nazionale e le dichiarazioni esplicite da te fatte di fronte all’opinione prevalente nella Direzione, eri impegnato per Io meno a non prendere iniziative a favore del referendum preventivo, in realtà nulla hai tanto remotamente predisposto, inflessibilmente voluto e abilmente determinato, insieme e d’accordo coi liberali, quanto lo stato di cose in cui apparisse, agli altri partiti come al tuo, a Pietro Nenni come ai tuoi collaboratori della Direzione, inevitabile tuo malgrado la decisione istituzionale per via di un vero e proprio plebiscito » (De Gasperi scrive, cit., voi. I, pp. 289-90). p . scoppola (L ’opera

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zionali dell’attività di De Gasperi, come si è cercato di dimostrare sin qui e come confermano anche gli estremi sviluppi della questione istituzionale.Ai primi di aprile, De Gasperi viene portato a conoscenza da Stone dell’orienta- mento maturato al Quirinale di por fine alla luogotenenza con l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e, nonostante la sorpresa, si affretta ad affermare che « a suo avviso, che credeva sarebbe stato quello del suo governo, l’abdicazione di Vittorio Emanuele III non avrebbe costituito violazione della tregua istituzionale » 134: in questo caso l’aspetto della manovra è evidente, ed è evidente altresì che essa è orientata in senso filomonarchico. Dopo le accese e intricate discussioni che si erano svolte sulla posizione del luogotenente e dopo l’accordo faticosamente rag­giunto era assolutamente impensabile esprimere, a nome del governo, un parere come quello fornito da De Gasperi; e infatti, quando l’8 maggio la notizia diviene ufficiale, il Consiglio dei ministri e le forze politiche sono poste di fronte al fatto compiuto e, nonostante la veemente reazione di Togliatti, non possono rischiare una crisi di governo con il conseguente rinvio delle elezioni. L’atteggiamento am­biguo di De Gasperi prosegue anche di fronte alle avances di Stone circa un’ini­ziativa alleata per porre fine alla tregua istituzionale: il premier italiano insiste perché la tregua venga mantenuta, in quanto « la sua cessazione sarebbe mal in­terpretata e sfruttata dagli elementi più violentemente repubblicani nel governo » : in realtà, a quel punto, la conservazione della tregua era un fatto puramente for­male, e tale la considerano gli alleati che ne liberano formalmente il governo italiano soltanto il 29 maggio 1946 135. Con l’ambiguità filomonarchica di De Ga­speri prima del referendum è da collegare anche la smaccata opera di captatio benevolentiae effettuata da Tarchiani su Byrnes, ed evidentemente concordata con De Gasperi, che offre al Segretario di stato americano un quadro della situazione italiana, sottolineando « l’opportunità che gli alleati, ed in particolare gli Stati Uniti facciano il massimo possibile per dare calma, serenità, matura consapevolezza democratica al popolo italiano, giacché essi possono agire beneficamente sulle decisioni italiane ». D’altra parte, Tarchiani non manca di agitare la « minaccia rossa», al punto che, nel corso del colloquio, Byrnes accenna alla possibilità di un rinvio delle elezioni per evitare che cadano in un momento sfavorevole « sia per la situazione alimentare sia per le discussioni sulla pace»; l’ambasciatore italiano

politica di De Gasperi, cit., pp. 231-233) attribuisce la critica di Dossetti a disinformazione, facendo valere che De Gasperi subì il referendum preventivo e che, in fondo, la Repubblica prevalse. Ma l’ostacolo che De Gasperi intendeva porre alla Repubblica era ancora maggiore di quello attribuitogli da Dossetti; quanto poi alla vittoria repubblicana, meriti o responsabilità di De Gasperi son tutti da dimostrare.134 fr u s , 1946, cit., p. 884. Che il giudizio fosse strumentale è confermato dal fatto che anche Vittorio Emanuele III, per quanto fosse cocciutamente attaccato alla sua posizione, si rendeva conto che l’abdicazione sarebbe equivalsa a una rottura della tregua istituzionale (cfr. p. puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, cit., p. 323). È propabile che questo parere di De Gasperi sia stato decisivo nel determinare il consenso anglo-americano all’abdicazione che dovette giungere assai presto (cfr. f . Garofalo, Un anno al Quirinale, Milano, 1947, p. 147. Questo collaboratore di Umberto di Savoia testimonia anche della preoccupazione di De Gasperi per l’assenza di un leader monarchico di sufficiente prestigio.135 A. cambino (Storia del dopoguerra, cit., pp. 216-217) sottolinea giustamente l’ambiguità degasperiana, sempre fìlomonarchica, anche in questa occasione; incorre, tuttavia, in un lieve infortunio in quanto attribuisce a De Gasperi un ritardo nel rendere nota la dichiarazione anglo- americana-sovietica che svincolava il governo italiano dalla tregua istituzionale. Tale ritardo non vi fu: gli inglesi, il 12 aprile 1945, prendono l’iniziativa e il 29 dello stesso mese il Dipartimento di stato concorda; l’8 maggio viene informata Mosca che aderisce il 12 maggio e infine da Washington, tramite i Combined Chiefs of Staff il 27 maggio, si ordina a Stone di informare il governo italiano. Gambino assume erroneamente che il messaggio dell’8 maggio sia inviato a Roma anziché a Mosca e sia tenuto nascosto dal ministro degli Esteri italiano. Cfr. fr u s , 1946, cit., pp. 886-888 e c.H. coles-a.k. weinberg, Civil Affairs, cit., p. 633.

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lascia cadere il discorso perché — dice — De Gasperi si troverebbe « in gravi difficoltà a trovare il modo di un rinvio dati gli impegni esistenti tra i partiti, senza una causa nuova veramente imperiosa » 136.In apparente contrasto con tutta l’ambiguità prereferendaria sta l’atteggiamento fermo, anche se estremamente cauto, tenuto da De Gasperi di fronte alle manovre della Corte successive al 2 giugno: ma, a quel punto, un atteggiamento diverso avrebbe significato un’aperta rottura con le sinistre, che anche indipendentemente dal rischio di una guerra civile, appariva prematura al presidente del Consiglio 137 138. Non vi è dubbio, dunque, che la questione istituzionale abbia rappresentato uno dei tramiti fondamentali attraverso i quali De Gasperi come leader del movimento cattolico, si sia imposto come interlocutore privilegiato degli Stati Uniti; è del pari certo che il terreno di principale incontro sia stato quello dell’anticomunismo e della « minaccia rossa », che trova crescente audizione a Washington, pur se è un tasto che viene utilizzato fino dal 1943 13S.Cionondimeno, la fase finale del dilemma tra monarchia e repubblica in Italia sembra essersi svolta senza ingerenze minute da parte degli Stati Uniti, che, a livello centrale, restano in definitiva fedeli alla linea scelta fin dall’inizio di attuare il principio dell’autodeterminazione lasciando, implicitamente prima, ed espressa- mente a partire dal luglio 1945, che la decisione sulle modalità di attuazione di esso sia adottata dagli italiani medesimi139.Questo poté ancora avvenire perché la fase finale della questione istituzionale si svolse ancora alle soglie della guerra fredda, che proprio in questi mesi emerge dal crollo della grande alleanza. Mentre sul piano propagandistico Winston Churchill forniva, col discorso di Fulton dei primi di marzo, il manifesto ideologico della lotta al comunismo, sul piano politico la crisi iraniana doveva rafforzare massiccia­mente in seno all’amministrazione Truman le tendenze alla politica dura verso l’Unione Sovietica e al rafforzamento della sicurezza nazionale, invertendo la tendenza alla smobilitazione. Anche James Byrnes, l’ultimo tenace negoziatore rooseveltiano, subisce, a partire dal marzo 1946, notevoli pressioni nel senso della durezza antisovietica: non per nulla, aderisce prontamente alla proposta del sotto- segretario alla Marina Forrestal di inviare nel Mediterraneo la corazzata Missouri, certo per rafforzare le posizioni statunitensi nel Medio Oriente, ma con un occhio anche all’Italia 14°.Il Segretario di stato, ancora influente pur se già isolato in seno all’amministra­zione, era dunque particolarmente ricettivo a sollecitazioni del tipo di quelle rivol­tegli da Tarchiani a nome di De Gasperi: sarebbe, anzi, di estremo interesse uno

136 Lettera di Tarchiani a De Gasperi del 17 aprile 1946, in De Gasperi scrive, voi. II, cit., p. 125. Col che è implicitamente confermata la convergenza di De Gasperi con lo schieramento monarchico che, fino all’ultimo, si adopra per un rinvio.137 Sulle vicende successive al 2 giugno si veda la testimonianza di M. bracci, Storia di una settimana (7-12 giugno 1946) in « Il Ponte », luglio-agosto 1946, nn. 7-8. Precisa e convincente, su questi aspetti, è anche la ricostruzione di a. cambino, Storia del dopoguerra, cit., pp. 222-248.138 Sull’utilizzazione di questo strumento si vedano le osservazioni di sari gilbert, La politica italiana degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, in aa.vv., Italia e Stati Uniti durante l’amministrazione Truman, cit., pp. 23-24.139 I supporti documentari circa interventi americani nell’ultima fase anteriore al 2 giugno e nei giorni successivi indicano tutti azioni a livello di rappresentanti locali, che già da tempo abbiamo visto essere i più corrivi verso i conservatori italiani. Si veda R. faenza-m . f in i , Gli americani in Italia, cit., pp. 163-170. Anche A. gambino, Storia del dopoguerra, cit., pp. 216-217, può accennare soltanto a colloqui di Storie e Noel-Charles dopo il referendum in cui, a titolo personale, dichiarano di non poter considerare definitiva la proclamazione dei risultati del refe­rendum fatta dalla Cassazione.1,0 Cfr. james F. byrnes, All in one Lifetime, New York, 1951, pp. 351 e 362-363.

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studio che, rovesciando la prospettiva a giusto titolo prevalente nella storiografia nutritissima sulle origini della guerra fredda, esaminasse il peso che sulla politica americana esercitavano le pressioni e le richieste di ingerenza e di aiuto del tipo di quelle esercitate e trasmesse da De Gasperi, che dovevano pervenire da diversi paesi d’Europa.Da questa evoluzione della politica americana nell’ultima fase della questione istituzionale emerge anche con sufficiente chiarezza come, nella sostanza, fosse giustificata la politica delle sinistre di puntare tutto su una rapida effettuazione delle elezioni, e quanto, per converso, fosse fondato il calcolo dilatorio delle forze monarchiche e conservatrici. In definitiva, fu una fortuna per le sorti repubblicane che la conversione definitiva dell’amministrazione Truman alla teoria del containment antisovietico abbia incontrato alcune resistenze di derivazione rooseveltiana, le sole che abbiano impedito alle manovre degli italiani e dei rappresentanti statu­nitensi in Italia di ottenere il risultato di salvare la monarchia, e che abbiano consentito alla resistenza antinazista di conseguire uno dei grandi obiettivi di trasformazione da essa perseguiti.La vittoria repubblicana si inserì dunque negli ultimi margini offerti dalla conce­zione rooseveltiana della influenza statunitense nell’Europa sconvolta dalla guerra: ad essa stavano subentrando, ad est come ad ovest, concezioni di egemonia molto più rigorose e onnipervadenti alle quali, certo, l’Italia non avrebbe potuto in alcun caso sottrarsi. Ma ci sembra importante sottolineare, con Enzo Collotti141, non solo che del modello bloccato di relazioni internazionali che doveva instaurarsi a partire dal 1947 si erano registrate vistose anticipazioni fino dal 1943, ma che di esse, per quanto concerne l’Italia, furono in gran parte responsabili le forze politiche conservatrici; la « cupidigia di servilismo » di cui parlò all’Assemblea costituente sin occasione della ratifica del trattato di pace, Vittorio Emanuele Orlando (che non ne era affatto immune), sembra essere stata uno dei più amari frutti della catastrofe nazionale provocata dal fascismo e, al tempo stesso, uno degli strumenti principali attraverso il quale si venne costituendo, ad opera dei gruppi tradizional­mente dirigenti, il nuovo blocco di potere incentrato sul partito della Democrazia cristiana.

CARLO PINZANI

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1,1 Cfr. E. COLLCTTI, Collocazione internazionale dell’Italia, cit., p. 79.