gibellina. laboratorio di sperimentazione sociale autore: giovanni robustelli

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La piccola città di Gibellina, di origine medievale, fu completamente distrutta durante il terremoto del Belice del 1968. La sua ricostruzione però non fu come quella di tutti gli altri borghi colpiti: fu infatti affidata agli artisti, e oggi Gibellina è uno dei centri italiani più importanti per l'arte contemporanea, dal momento che oltre alle sculture all'aperto che vi si possono ammirare (realizzate da artisti come Pietro Consagra, Alberto Burri, Mimmo Rotella e molti altri) sono stati realizzati anche musei dedicati. Giovanni Robustelli ripercorre la storia di Gibellina dal 15 gennaio del 1968 fino ai giorni nostri, conducendo un'analisi non priva di critiche, volta a comprendere quali furono le idee alla base della ricostruzione della città e come Gibellina potrà svilupparsi in futuro. Il libro contiene anche un dialogo inedito con Ludovico Corrao, ex sindaco di Gibellina nonché tra i maggiori artefici della ricostruzione: l'ebook è dedicato alla sua memoria.

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Page 1: Gibellina. Laboratorio di sperimentazione sociale Autore: Giovanni Robustelli
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Giovanni Robustelli

GibellinaLaboratorio di sperimentazione sociale

eBook per l'arte

un'iniziativa

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© 2011 eBook per l'Arte – Giovanni RobustelliPrima Edizione 2011

LicenzaCreative Commons 3.0 – Attribuzione - Non commerciale – No opere derivatehttp://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/

In copertinaBozzetto di Fausto Melotti per il monumento Contrappunto del 1983Fotografia di Giovanni Robustelli

I titoli di opere d'arte sottolineati e colorati in blu sono cliccabili: si aprirà l'immagine dell'opera (necessaria connessione a internet).

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Dedico questo testo al Senatore Ludovico Corrao, al suono delle sue parole piene di passione e di ricordi, che riempirono quella stanza bianca e austera, seduto su una poltrona rossa imponente come un trono in un caldo e lieto pomeriggio di Settembre del 2009, elegante, disponibile e gentile come si conveniva ad un uomo

che ha vissuto nell'arte e per la cultura.

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Premessa

Non avevo mai dedicato, fino a poco tempo fa, molta attenzione a Gibellina; ne avevo sentito parlare, certo, ma poco e male: una citta-dina semi-deserta, dove campeggiano qua e là degli orrori strutturali, incomprensibili e desolanti, almeno secondo il giudizio di parenti ed amici che casualmente vi erano “incappati”. Sennonché un giorno, durante le lezioni di Arte Contemporanea della specializzazione in storia dell’arte all’università di Genova, vidi scorrere sul proiettore una diapositiva con l’immagine di un grosso cretto in cemento, diste-so su una collina del trapanese... dove? A Gibellina. Analizzai a pelle l’operazione del cretto come qualcosa di superficiale, dando svoglia-tamente un giudizio simile a tante altre operazioni di Land Art.

Da qui è iniziato il mio interesse verso questa sconosciuta cittadina siciliana, forse sfortunata, perché attorniata da una zona troppo intri-sa di storia e di cultura come Palermo, Segesta, Mazara del Vallo, Trapani, Selinunte per attirare l’attenzione di una rete turistica che mira ad enfatizzare principalmente la “patina dei secoli”, “il fascino del mito”, “la tradizione” e “l’ospitalità gastronomica”. Naturalmente, a causa di ciò, si capisce il giudizio negativo dei non addetti ai lavori: Gibellina rimane purtroppo fuori da qualsiasi “tradizione”. Con la storia passata non ha nulla a che vedere: è una città ricostruita nuo-vamente, dopo un terribile terremoto, non solo senza poter riprende-re nulla di quello che era crollato, ma lasciando proprio le macerie sulla collina dove sorgeva per rinascere su un altro posto, più distan-te, a valle.

Anche se i turisti venissero martellati dai media, giorno e notte, sulla possibilità di visitarla, non troverebbero alberghi per ospitare i loro pullman: a Gibellina si va magari con una multifamiliare, perché le stradine non permettono di raggiungere agevolmente il Grande Cretto di Burri, o la Fondazione delle Orestiadi, che ospita, oltre ad una ricca esposizione di Arte Applicata del Mediterraneo, una delle più importanti collezioni di Arte Contemporanea del meridione d’Ita-lia.

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Al massimo si alloggia nei B&B “domestici”, dove l’accoglienza del-la gente non fa rimpiangere la propria casa.

Mi sono recato quindi a Gibellina con l’intenzione di occuparmene, conoscerla e scrivere una ricerca su questo importante “fenomeno” culturale, non avendo però ancora chiara l’idea su quale aspetto do-ver esattamente focalizzare il mio studio. Soltanto dopo aver visto le opere, e la loro storia, ho capito cosa voleva dire quel fenomeno di dialogo e di confronto che si era venuto a creare durante i convegni organizzati negli anni Ottanta a Gibellina, tra le tendopoli, nelle strutture di accoglienza, tra architetti, artisti, letterati o semplici cit-tadini che avevano voglia di rinascere dalle macerie.

A Gibellina esistono dei linguaggi unici, inusuali, che esistono per-ché sono stati creati là e per quella precisa destinazione o funzionali-tà. Quante sculture abbiamo mai visto di Rotella? Quante architetture abbiamo mai potuto incontrare di Consagra? E qual è l’ultimo gonfa-lone disegnato da un artista per una processione (che non sia Anto-nello da Messina), se non quello di Boetti, Accardi o Isgrò? Questi nomi ci sono familiari, fanno parte della più importante storia cultu-rale del nostro paese (e non solo) degli ultimi decenni, e siamo abi-tuati a conoscerli per altro. Ma a Gibellina sono come rinati, cioè si sono immedesimati, hanno sentito, provato e calpestato questa terra per poi rimescolarsi e rinascere per un’idea unica, per un’utopia che non fosse legata al mercato, al circuito della cultura “ufficiale”.

Come dice Ludovico Corrao, nell’intervista che riporto alla fine di questa ricerca, gli artisti e gli architetti invitati a Gibellina per la rico-struzione della città, si sono recati sul posto, ascoltando e vivendo la realtà sociale, culturale e spirituale; si sono espressi per la cultura ma anche per la gente, che oltre all’esigenza materiale di un tetto, aveva bisogno di storia, di memoria: è questo ciò di cui voglio parlare nella mia ricerca, degli interventi in cui l’artista è riuscito ad immergersi nel sociale, nella necessità immediata di un’idea di libertà analizzan-done soprattutto la riuscita contestuale e storica dell’opera.

La ricerca sarà così strutturata in una prima parte che esporrà le vicende di Gibellina, dal terremoto al periodo di ricostruzione e poi di assestamento, nonché l’attuale condizione di Gibellina a vent’anni dalla ricostruzione e le realtà culturali presenti sul territorio. In que-

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sta prima parte si cercherà quindi di inquadrare una storia, una pre-messa al nostro discorso, per contestualizzare meglio l’analisi sui pro-cessi creativi degli artisti accorsi all’appello di Corrao.

La seconda parte della ricerca, che inizia con l’esporre i diversi esempi di interventi artistici sparsi per la rete urbana di Gibellina, comprese alcune opere all’interno ormai dei musei (sia quello civico che quello del Granaio della Fondazione Orestiadi), continuerà con un approfondimento su tre esperienze in particolare, interessanti so-prattutto per l’attività laboratoriale che ha caratterizzato i processi creativi in un dialogo tra artisti e artigiani locali.

L’aspetto principale della ricerca è proprio quest’ultimo tema, il ri-contestualizzarsi dell’artista non solo dal punto di vista linguistico, ma anche secondo un diverso procedere dal punto di vista progettua-le e realizzativo.

Gibellina viene studiata quindi come fenomeno sociale, precisa-mente come “laboratorio sociale” (per utilizzare un’espressione di Achille Bonito Oliva), da cui hanno visto la luce opere inusuali, tassel-li unici all’interno di illustri ricerche di altrettanti autori internazio-nali.

La ricerca si chiude con il dialogo avvenuto con Ludovico Corrao durante il mio soggiorno a Gibellina, in cui si percorre un’interessan-te parabola socio-culturale, dal terremoto alla ricostruzione e in cui affiorano ulteriori spunti per ulteriori ricerche e studi. Un dialogo che oltre a riportare i fatti, ormai studiati e ancora dibattuti in numerosi testi specializzati, rispolvera episodi intimi, della politica e della cul-tura; una faccia più genuina e sincera per una storia, quella di Gibelli-na, che ha dovuto scontrarsi spesso e volentieri con le critiche più aspre e velenose.

Questa ricerca espone quindi un modello culturale, quello di Gibel-lina, basato sul valore e sull’importanza dell’arte, con lo scopo di no-bilitare la nuova storia di una comunità o di una società intera; ne ve-dremo i risultati che si possono ottenere dalla creatività se si lascia un artista nella libertà espressiva più assoluta, nel rischio sempre latente di creare oasi nel deserto.

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Indice

I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova 11

L’appello del 1970: un appello di solidarietà 15 II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi 27 III. L'artista si mette in gioco 39 IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura 51

Consagra e le architetture 53Boetti e il Prisenti di San Rocco 57Paladino e la scenografia per La Sposa di Messina 61

V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina 66

VI. Dialogo con Ludovico Corrao 69

Conclusione 83

Bibliografia 88

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Il terremoto, cieca forza d’una maligna na-tura, è un doppio disastro, fisico e umano. Spazza via in pochi secondi secoli di storia, cultura, civiltà. Là dove erano focolorai, rifugi per soste e riposo, coaguli di tenerezze, trame d’amore, dolore, eventi di vita e morte, accu-muli di memoria, di colpo si fa il deserto, ter-reno nudo e vago. E puntualmente spuntano, su questi luoghi azzerati dalla malasorte, dalle selve della violenza e del disumano, dall’anti-storia dell’opportunismo e del cinismo, spun-tano i lupi e gli sciacalli. Ma è anche il mo-mento, dopo il terremoto, di non perdersi nel mare della disperazione e dell’annientamento. È il momento di ricominciare a costruire la storia. Ricostruire sulle pietre della consape-volezza e della ragione, e anche, perché no? sulle pietre della bellezza. Niente è più entusia-smante della costruzione di una nuova città.

Vincenzo Consolo1

1 Consolo V., Il drappo rosso con le spighe d’oro, in “Labirinti” anno II n.3, pp.22-25, 1989.

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I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova

I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova

Su Roccatonda, lo sperone roccioso più prominente nel versante destro della valle del Belice, sorgeva Gibellina, un piccolo villaggio ru-rale di origine medievale a 400 metri circa di altitudine.

Il centro era un agglomerato di case basse fittamente disposte su un pendio molto ripido.

“Chi, venendo da Partanna, alla svolta dello stradale, in contrada dell’ex feudo della Carcia, fissa verso oriente lo sguardo, scorge un bel panorama: una larga e più lunga estensione di fabbricati, come addossati uno sull’altro, che vanno da mezzogiorno sul torrente Gebbia, verso mezzanotte, ove li sormonta il piacevole colle, Mulino del Vento. Così, nel 1915, lo storico locale, il sacerdote Baldassarre In-goglia, descriveva la topografia di Gibellina, che presentava un im-pianto urbano di tipo policentrico sviluppatosi lungo le linee direttri-ci dei due assi principali. Di questa struttura i ruderi del castello chia-ramontano da un lato e la Chiesa Madre dall’altro rappresentavano i poli di riferimento spaziale e i nuclei di agglomerazione della vita cit-tadina, fulcri generatori di una planimetria che nella sua lenta e natu-rale espansione non aveva subito nel tempo sostanziali cambiamenti.

Ogni corpo edilizio si addossava all’altro con le irregolarità impo-ste dal pendio del terreno, talvolta collegati da grandi arcate che sca-valcavano il tracciato viario. Gli stessi palazzetti patrizi e i complessi ecclesiastici non avevano masse monumentali né prospetti aulici, non essendo isolati o separati dall’intrensicabile e minuto ordito delle abi-tazioni popolari.

Del paese contadino tradizionale Gibellina conservava l’identità architettonica, tutta giocata sul rapporto funzionale tra casa e strada, dimensionata l’una e l’altra sul declivio del suolo e sul passo dell’uo-mo e dell’animale. La strada non era che il prolungamento della casa, uno spazio frastagliato da scale esterne e sogli prospicienti, un’appen-dice pubblica dell’abitazione privata, uno slargo in cui si risiedeva, si

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I. Gibellina: storia dalla vecchia alla nuova

lavorava, si intesseva la fitta rete delle relazioni, si conservava e si giocava, più che non si transitasse fugacemente e semplicemente.

Le case, arroccate lungo svolte e pendii, secondo le curve di livello altimetrico, avevano la muratura in pietrame informe o in conci squa-drati. Le facciate erano, a volte, imbiancate di calce. Più spesso nella loro scarna nudità lasciavano in più punti allo scoperto la tessitura delle pietre di tufo connesse dalla malta di gesso.

La povertà dei materiali lapidei si associava alle tonalità dell’argil-la, alla terracotta dei laterizi e dei vari elementi di raccolta, drenaggio e canalizzazione delle acque piovane. Embrici, doccioni e pluviali di creta disegnavano sulle facciate geometrie sobrie.

[...]Un’accentuata uniformità caratterizzava la tipologia delle abitazio-

ni, essenzialmente dovuta all’omogeneità dei modi di produzione ma anche evidentemente condizionata dalla necessità di utilizzare i ma-teriali naturali di costruzione a disposizione: tufo, canne, gesso.

Unità pluricellulari sovrapposte erano aggregate lungo le strade secondo moduli nastriformi, con rampe di scale esterne che rendeva-no indipendente l’ingresso alla stalla del piano terra a quello ai locali superiori.

A sostenere i soffitti dell’interno era una sapiente orditura di canne tenute insieme da legacci vegetali e “rinzaffate” di gesso. Il solaio era generalmente destinato a granaio. Focolare e forno, sempre vicini, costituivano il fulcro domestico attorno al quale si articolava la vita quotidiana delle famiglie contadine.

La maggior parte delle strade erano strette e piccole, quasi tutte asfaltate quelle in pianura, pavimentate con acciottolati o lastre di pietra quelle costruite in pendio, sulla dorsale della collina.

Gradinate e selciati di ghiaia favorivano il passaggio degli animali sui percorsi dove i dislivelli erano più accentuati. La via principale era una, “la strada grande”, via Umberto: un asse più o meno regolare della lunghezza non superiore ai 150 metri, che tagliava il paese in due, secondo la direzione nord – sud, separando i quartieri più anti-chi, che si addensavano a oriente attorno ai ruderi del castello, da quelli di più recente costruzione, nelle zone di nuova espansione del-l’abitato.

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[…]Così si presentava il paese quando le scosse di terremoto, nella

notte del 15 Gennaio 1968, lo rasero definitivamente al suolo. Era un centro di circa 6.000 abitanti, per lo più braccianti, mezzadri, piccoli e medi proprietari”2.

La storia si è divorata Gibellina, uno dei centri più importanti, ma isolati, della Valle del Belice. Il terremoto del 15 Gennaio del 1968 fu provocato da un movimento lungo la faglia del Belice.

Almeno quattrocento i morti. Cinque i comuni maggiormente col-piti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago e Santa Margheri-ta. I primi quattro rasi al suolo.

“La catastrofe nella notte fra domenica e lunedi. Il ministro Tavia-ni è giunto sul posto, oggi arriva il Presidente della Repubblica, si riu-nirà al Consiglio dei Ministri. Gibellina, un paese di 6410 abitanti, è stata quasi cancellata dal terremoto; il novanta per cento delle case è crollato. È uno spettacolo desolante, incredibile. Vista dall’elicottero appare colorata di rosa e azzurro. Quando si è più vicini ci si accorge che queste tonalità sono date dai muri interni che, crollate le facciate, sono rimasti in piedi: erano stati tutti dipinti con questi due colori. Nell’unica piazza del paese ancora riconoscibile si è salvata una co-struzione, la sola che, per essere moderna e in cemento armato, ha resistito”3.

La necessità di un riparo è stato il primo problema da risolvere per circa cinquantamila senzatetto del Belice; nei primi mesi la cifra era doppia, poiché la totalità degli abitanti, anche con case leggermente lesionate, abitava all’aperto. Questo aspetto non era però presente a Gibellina dove le 1980 abitazioni erano tutte distrutte completamen-te. La prima attività si è diretta a creare dei villaggi di tende, in attesa

2 Cusumano A., Gibellina nella memoria in Pes. A., Bonifacio T., Gibellina dalla A alla Z, cat. del Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina, Edizioni Comune di Gibellina e Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2003.3 Furno L., Tra le macerie a Gibelina, in “La Stampa”, martedì 15 Gennaio 1968.

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della costruzione di più duraturi ricoveri o baracche unifamiliari, do-tate di servizi necessari a una più prolungata permanenza, in previ-sione del periodo necessario per la ricostruzione definitiva.

Già la scelta delle baraccopoli e l’appalto delle opere ha implicato una perdita di tempo e uno spreco di energie e di denaro. A Gibellina la costruzione degli alloggi precari non terminò prima del 1971 (ben 3 anni dopo la sciagura); il costo per mq. costruito è almeno triplicato, con l’inserimento di interessi clientelari e mafiosi nel campo dei ter-reni e degli appalti. I lavori vengono dati prima in appalto e poi in su-b-appalti successivi, fino a tre, quattro passaggi, delegando la costru-zione dal grosso appaltatore fino a piccoli gruppi di muratori improv-visati.

Le aree (prescindendo dagli interessi privati) sono state scelte in due forme principali: o nei pressi delle rovine o a distanza notevole dal centro distrutto.

Gibellina fu temporaneamente trasferita in due diversi villaggi: uno più piccolo, a Santa Maria delle Grazie, a est dei ruderi da cui di-sta solo un chilometro, mentre l’altro a ovest, Rampinzeri, che dista ben sette chilometri. Quest’ultima baraccopoli ospitava la quasi tota-lità degli abitanti: qui c’era anche la sede comunale provvisoria, an-che se il villaggio ricadeva nei confini comunali di Santa Ninfa.

Nel periodo successivo a quello dei primi soccorsi, ossia nel 1969, iniziò un piano di trasferimento e ricostruzione (totale o parziale) dei quattordici comuni maggiormente colpiti. Così la nuova Gibellina venne ricostruita in contrada Salinella, su di un’area pressoché pia-neggiante, a un’altitudine di 220-240 metri.

La località si trova presso la stazione di Salemi e al confine dei ter-ritori di Salemi e di Santa Ninfa, ai quali, per la costruzione del cen-tro, venne sottratta una parte dell’area comunale. Si determinò così un exclave contenente il centro principale e la sede comunale, mentre il rimanente del territorio gibellinese sarebbe stato un’isola ammini-strativa. La scelta del sito di Gibellina fi in relazione con la vicinanza dello svincolo autostradale e delle stazioni ferroviarie, a cui si aggiun-se la presenza di ampi spazi pianeggianti.

Per la nuova Gibellina, in località Salinella, i lavori sono stati av-viati nel 1971 e solo nel 1976 è stata portata a termine l’urbanizzazio-

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ne primaria. Una delle cause del ritardo (qui come altrove) è stata l’incertezza sulle soluzioni da adottare: il piano primitivo dall’ISESS (Istituto per l’Edilizia Sociale, uno dei tanti “Enti Pubblici” operanti nel territorio) prescindeva dalle esigenze della popolazione e calava dall’alto un progetto per una conurbazione del Belice in cui si doveva-no raggruppare circa 30-40 mila abitanti dei vari centri distrutti.

Grazie alle forti manifestazioni di disapprovazione del progetto da parte dei gibellinesi, Gibellina riuscì a mantenere la propria identità.

La nuova Gibellina, dunque, non è il risultato desiderato e voluto da tale piano; al contrario, essa nasce dall’incontro appassionato di un gruppo di uomini, coordinati da Ludovico Corrao (eletto Sindaco di Gibellina proprio nell’anno seguente al terremoto), i quali intuiro-no con anticipo che gli antichi modelli crollavano ed era alle porte un terremoto molto più grande di quello del Belice, con la mobilitazione e l’intervento diretto della popolazione, per un’elaborazione propria e democratica di base.

L’appello del 1970: un appello di solidarietà4

“Nella notte del 15 gennaio 1968 un terremoto sconvolse la Valle del Belice, al confine della provincia di Palermo, Trapani e Agrigento, distruggendo totalmente sei paesi popolosi e poveri e danneggiando-ne altri. Le vittime furono 1150 (compresi i morti per mancanza di pronto intervento), 98000 persone rimasero senza casa, 100000 per-sone con case cadenti.

Ci vollero parecchi giorni prima che tutte fossero ricoverate sotto le tende; e parecchi mesi prima che tutte fossero alloggiate in barac-che. Gli uomini politici, che a gara si precipitarono sul luogo del disa-stro, sottraendo ore di più urgenti e utili servizi ai pochi elicotteri di-

4 Testo firmato da Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Domiani, Zavoli, Corrao ed altri Sindaci della Valle del Belice e pubblicato e divulgato nel 1970 attraverso tutti i media; recapitato anche individualmente a tutte le personalità di spicco nel mondo della cultura.

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sponibili, promisero tutti l’immediata ricostruzione dei paesi distrutti e parve allora che, al di là della provata demagogia e inefficienza della classe al potere, almeno e soltanto sulla promessa di ricostruire gli abitati, si potesse contare.

E diciamo soltanto perché altre ne furono fatte: di una ricostruzio-ne economica ella zona, di radicali interventi strutturali ed infrastrut-turali, nel contesto di una visione e di una volontà che tenesse pre-sente la situazione siciliana nell’insieme, quale il terremoto l’aveva ri-velata agli uomini politici e agli inviati speciali dei giornali del nord e stranieri.

Ma passato il momento emotivo e demagogico, passate le elezioni politiche che si ebbero qualche mese dopo, ad altro non si pensò che alla costruzione delle baracche, e con molta improvvisazione disordi-ne: come ad un atto di definitiva solidarietà, come ad una soluzione finale del problema. Ed in un certo senso lo era: per il costo finanzia-rio dell’operazione, che ad un’amministrazione più avveduta e sagace pare sarebbe bastato per ricostruire davvero i paesi, e per gli effetti che le baraccopoli avrebbero avuto su quelle popolazioni, non dissi-mili da quelli di una vera e propria “soluzione finale” in cui a una condizione di inedia e promiscuità e agli eventi naturali, particolar-mente inclementi in quella zona e in questi ultimi anni, veniva lascia-to il compito, più lungo ma ugualmente sicuro, dell'annientamento psicologico, morale e fisico che i lager nazisti più direttamente e sbri-gativamente esplicavano.

Di fronte a questo stato di cose che da due anni si protrae e si ag-grava, sentiamo, come uomini e come siciliani, il dovere di rivolgere all’opinione pubblica mondiale e, per essa, agli uomini che la rappre-sentano, l’invito di una riunione a Gibellina nella notte tra il 14 e il 15 Gennaio 1970, nel secondo anniversario del terremoto; perché veda-no, perché si rendano conto, perché uniscano la loro proposta e de-nuncia a quella dei cittadini relegati nei lager della Valle del Belice, alla nostra.

In un paese e con una classe di potere soltanto sensibile alla retori-ca, abbiamo bisogno di questa solidarietà, forse retorica, anche se vo-gliamo che alla riunione di Gibellina venga fuori un atto di accusa da

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cui lo Stato Italiano, il Governo, siano chiamati a discolparsi di fronte al mondo civile e ad uscirne.

Perché ci sono tanti modi di conculcare la libertà, di opprimere, di destituire l’uomo dal diritto e dalla dignità: e uno di questi modi è quello che lo Stato e il Governo della Repubblica Italiana attuano nel-la Valle del Belice”.

Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Domiani, Zavoli, Corrao ed altri Sindaci della Valle del Belice

Quindi l’attuale ricostruzione, risultato di un programma comun-que curato dall’ISES5, ha comportato il trasferimento totale della po-polazione nella contrada salinella, in una lieve conca alla confluenza delle principali infrastrutture viarie, dove si estendevano le terre col-tivate dai contadini di Gibellina. Dalle Case Di Stefano (l’antica fami-glia proprietaria dei feudi e attuale sede della Fondazione delle Ore-stiadi), poste in alto, si ha una vista di insieme della nuova città, di-stesa a ventaglio con il tracciato dei viali, mostra il senso geografico della sua recente storia urbana in progress: l’estensione della piazze e il taglio delle strade; i nomi di siciliani illustri, scolpiti su cippi di tra-vertino, formano un unico grande libro di storia. Il sistema urbano è articolato in due grandi blocchi planimetrici disposti, in linee di mas-sima, in maniera simmetrica rispetto all’asse longitudinale est-ovest che intervalla zone residenziali a schiera con attrezzature pubbliche. Le arterie urbane principali e gli spazi di raccordo, cardini della città, convergono idealmente verso il punto più alto del colle.

Un progetto, quello di urbanizzazione molto lento, travagliato e di-scusso attraverso i diversi convegni e incontri avvenuti dal Settamta agli anni Ottanta, nelle tendopoli, tra le baracche provvisorie degli abitanti. Si organizzarono anche mostre (come quella della città fron-tale di Consagra), proprio dentro le tende, per permettere a tutti di

5 La ricostruzione inizia con i programmi di trasferimento dell’ISES del 1968, approvati dieci anni dopo dal comitato tecnico amministrativo del provveditorato alle opere pubbliche, senza alcun piano editoriale di coordinamento.

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interagire con i progetti, con le idee, con quell’utopia tanto condanna-ta oggi, ma che ha dato lo spunto e l’entusiasmo per la ricostruzione.

Dirà Corrao, in un suo intervento del 1979 intitolato “L’Arte non è superflua”, durante un convegno pubblico tenutosi a Gibellina il 15 Gennaio, in cui si discusse sui progetti in attuazione di alcune strut-ture architettoniche (come quelle di Quaroni, Venezia e altri): “[…] Il disordinato crescere della nuova città comporta il rischio della perdi-ta assoluta di identità e potrebbe farla apparire come il quartiere di periferia di una qualsiasi città. Da ciò la necessità di un ancoraggio alle proprie radici storiche e culturali. Il primo problema che ci po-niamo è quello di recuperare quanto è possibile della memoria della vecchia città distrutta per conservarne non il documento, ma la me-moria come fonte alla quale ci si possa richiamare perché l’uomo e la donna di Gibellina sentano che non sono nati improvvisamente in un deserto, che non vengano dal nulla o da una città calata dal cielo, sen-za una loro ragione e senza una loro propria collocazione storica e culturale. […]”.6

Le decisioni prese da Ludovico Corrao negli anni immediatamente successivi al terremoto risultano caratterizzate da un estremo reali-smo, da un’asciutta consapevolezza delle iniziative possibili e neces-sarie per interpretare ed indirizzare il sentire della gente di Gibellina senza tradirne attese e nuovi bisogni. Il realismo di Corrao si connet-teva ad una tensione allo stesso tempo etica ed estetica; un luogo dav-vero anomalo (Gibellina) rispetto alla sostanziale anonimia degli altri luoghi del Belice, o delle superfetazioni “in puro stile geometra” (se-condo l’irridente ma terribile definizione di Federico Zeri) di innume-revoli paesi e città, in Sicilia come nel resto d’Europa. Il problema cruciale a Gibellina è quello della Città, affrontando simultaneamente questioni come quelle dell’appartenenza ad un luogo e ad una cultu-ra, del progetto, del rapporto con il passato e col futuro. Perché la cit-tà può rendere liberi, in quanto “toglie la nostalgia”. Strana verità, ri-cordata da Consagra in un’intervista del 1967: “Avendo perduto l’ani-

6 Corrao L., L’arte non è superflua, in “Gibellina, ideologia e utopia” di La Monica G., ed. La Palma Renzo Mazzone, Palermo 1981, pp. 44-49.

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malità, la vita spontanea, non c’è altro che la città come possibilità di riprendere contatti con la naturalezza dentro se stessi. Dentro se stes-si che significa? Che tu ti rifletti con tutti i contatti umani che hai. Ora, la città dà il massimo di questi rapporti, la città ti toglie la no-stalgia, assorbe al completo la tua intelligenza, te la sfoga, te la ado-pera…”.

A tal proposito Giuseppe Frazzetto racconta un importante episo-dio: “Di cosa avrebbero dovuto avere nostalgia, le due bambine che vidi una mattina del 1987 al Museo d’Arte Contemporanea di Gibelli-na? In un giorno qualunque, lontano dall’ufficialità delle inaugurazio-ni, visitavo una rassegna dedicata a Scialoja: una pittura che quasi tutti definirebbero difficile per i non esperti, priva di dati referenziali, mescolata di polvere di marmo o sabbia. Eppure, quella mattina nel Museo c’erano alcuni ragazzi, della Prima o Seconda Media di Gibelli-na; e sentii due di loro commentare liberamente i quadri. Una, con la goffa grazia dell’età, seguiva nell’aria, con la mano, le curve delle pen-nellate. Certo, quei commenti erano ingenui, e mischiati di lingua e di dialetto e di termini inventati o distorti: ma pensai, quella mattina, ed ancora lo penso, che le due bambine manifestavano un senso di ap-partenenza a quei quadri, una familiarità ed infine una comprensione che probabilmente anche molti miei studenti, e non pochi artisti adulti (per non parlare di qualche sedicente critico…) stentano ad avere. Quel genere di familiarità che può formarsi solo come risultato d’un permanere accanto a qualcosa con cui s’acquisisce Erfahrung, consuetudine, allenamento, e perfino identificazione – ed allora dav-vero sfumano i confini tra oggetto e soggetto, e le cose con cui ci si misura diventano anche la nostra misura, e della nostra misura”.7

La città viene ricreata seguendo questa “utopia necessaria”, rical-cando forse le ideologie illuministe, soprattutto nella volontà di ac-compagnare il cammino di una società con i lumi dell’arte e della cul-tura del suo tempo.

7 Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, Ed. Fondazione Orestiadi, Alcamo (Tp) 2007, pag.5.

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In un certo senso Gibellina non si discosta dalla tradizione, dalla storia. La Sicilia annovera tantissimi esempi di ricostruzioni radicali di intere città, come Grammichele, Avola, importantissimi esempi di “città ideale” settecentesca; la pianta urbanistica idealizzata e visibile soltanto da un ipotetico punto di vista sovraumano, dall’alto o a volo d’uccello. Per non parlare di tutta la Val di Noto, completamente di-strutta con il terremoto del 1693 e ricostruita secondo l’ideologia estetica di allora, rifacendola completamente nei palazzi, nelle chiese e nella concezione urbanistica funzionale ai bisogni dell’epoca; ma questo non ha sicuramente evitato di regalarci oggi uno dei luoghi più inusuali del barocco europeo. I “giardini di pietra”, usando la defini-zione di Cesare Brandi.

Si instaura così questa “fabbrica civica”8 che vedrà coinvolti non soltanto gli artisti e gli intellettuali che risposero all’appello del ‘70, ma anche le maestranze artigianali locali e gli stessi cittadini: “[…] Pagine di luce e frammenti di bellezza creati dagli artisti con i giova-ni, gli studenti, gli abitanti della città, dando vita a veri e propri labo-ratori a partecipazione collettiva […]”.9

“A Gibellina come sono stato attratto io così diversi artisti sono stati attratti per partecipare e rispondere a quella voglia di oltrepas-sare le soluzioni pratiche: l’estraniante oggetto utile delle necessità impellenti.” Pietro Consagra10

La pianta urbana fu chiaramente il primo intervento, ragionato in-sieme agli ingegneri dell’ISES, curato principalmente da Marcello Fabbri. Richiama una figura a forma di farfalla, dove al centro trovia-mo i luoghi e i servizi pubblici e da cui si snodano le residenze dei cit-tadini. La Monica, nel suo testo “Gibellina, Ideologia e Utopia”, ricon-duce l’idealizzazione della pianta ai concetti espressi nel libro di Ebe-

8 Cit. Bonito Oliva.9 Pes A. - Bonifacio T., Gibellina dalla A alla Z, cat. del Museo d’Arte Contemporanea di Gibellina, Edizioni Comune di Gibellina e Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2003, pag. 20.

10 Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 53.

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nezer Howard, “L’idea della città giardino”11, come deduzione di mo-delli anglosassoni scandinavi, presentando (e non senza qualche pun-ta di dissenso, soprattutto quando cita, come preambolo al discorso, una frase di Le Corbusier: “…l’architetto è un inventore, non un de-duttore…”) evidenti ed eclatanti esempi molto simili alla conforma-zione gibellinese.

La pianta della città fu poi caratterizzata dagli innumerevoli inter-venti degli artisti, sia attraverso opere architettoniche sia attraverso sculture che crearono un preciso assetto spaziale: “[…] le sculture di Gibellina ovviamente non sono decorative; ma soprattutto, non sono preposte come forme da contemplare, piuttosto appaiono tappe d’una meditazione che allo stesso tempo vuole essere produzione dello spa-zio civico. Le sculture tentano (e certo non sempre riescono) di farsi spazio, di avere un luogo, a partire da un luogo e da uno spazio non ancora precisati, e la cui storicizzazione è in corso d’opera […]”12.

In effetti Frazzetto vede bene, attraversando Gibellina si attraversa uno spazio creato da evidenti fulcri che sono proprio le installazioni urbane, le sculture-spazio. Molti artisti interpretarono veramente il gioco della scultura come vettore di ulteriori movimenti “da e per” il luogo in cui intervenivano: l’installazione scultorea doveva creare dei contesti e degli spazi, anche futuri, che acquistassero dinamicità ed energia dalle opere stesse. La struttura scultorea diviene anche il punto di riferimento: mentre nella vecchia Gibellina le poche grandi strutture, insieme alle fontane e alle piazze diventavano il mezzo di orientamento non solo geografico ma anche civile e storico, nella nuova Gibellina sono gli interventi degli artisti a creare un flusso sto-rico, uno spazio in divenire, un riferimento che non incornicia nulla se non le azioni degli abitanti e il loro naturale divenire.

Così come in un certo senso afferma Marcella Aprile riferendosi alle case di Gibellina: “Qui, nel nuovo paese, la casa esaurisce in sé tutte le componenti urbane, sia pubbliche che private; è l’unico ogget-

11 G. La Monica, Gibellina, Ideologia e utopia, pag. 10.

12 Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, pag. 18.

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to capace di polarizzare l’attenzione degli abitanti. È la casa a stabilire le regole del gioco.”13

L’attuale aspetto di Gibellina è chiaramente l’evoluzione di un lun-go percorso di interventi e progetti che, come abbiamo detto prima, provengono da numerosi convegni e tavole rotonde.

La prima urbanizzazione, quella che va dal 1971 al 1975 circa, vede sorgere già le prime architetture che caratterizzeranno lo skyline del-la nuova Gibellina come la Chiesa Madre di Ludovico Quaroni. La struttura viene costruita nella parte più alta della città, e funge da ele-mento culminante, da punto di riferimento spirituale degli abitanti. Un aspetto tradizionale della cultura siciliana viene esposto nell’uso delle forme, la sfera e il cubo, che (oltre ad essere intrise di evidenti significati metaforici come la materialità e l’aere, la razionalità e la fede) riportano alla memoria l’architettura arabo normanna, tanto diffusa nella Sicilia Occidentale e che diventano il simbolo di unione e scambio culturale tra diverse etnie (così come i presupposti di Gibel-lina, che vuole diventare una fornace Europea della cultura). Oltre la Chiesa viene costruito l’altro fulcro sociale, il Municipio, la sede dello stato. Gli architetti, Alberto Samonà, Giuseppe Samonà e Vittorio Gregotti, formulano una struttura che risente di un originale linguag-gio architettonico riconducibile all’architettura brutalista, nella ver-sione tutta italiana di quegli anni: un calibrato gioco di pieni e di vuo-ti, di luci e di ombre rimanda ad un’architettura che, pur nel suo ruo-lo di edificio emergente, dichiaratamente si oppone al monumentalismo che l’occasione progettuale avrebbe potuto richie-dere.

Nel 1976 iniziano i lavori del Meeting e del Cimitero Comunale di Pietro Consagra, dove l’anno dopo verranno installate le porte e nel 1979 collocata la scultura di Mirko.

13 Oddo M., Gibellina la nuova, Attraverso la città di transizione, coll. Universale di architettura, a cura di Lorenzo Spagnoli, ed. Testo e Immagine, Chieri (TO) 2003, pag. 29.

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Nel 1978 Nanda Vigo, con la sua Tracce Antropomorfe, realizzerà un interessante luogo in cui si mescola il presente con la memoria: un’architettura a se stante, che crea uno spazio contemplativo ma nello stesso tempo dinamico, che raccoglie in sé l’azione contempora-nea ma anche la materia del ricordo, della storia. Nanda Vigo inseri-sce nel corpo della struttura elementi architettonici presi nella vec-chia Gibellina e ricontestualizzati in una nuova funzionalità comme-morativa. L’anno dopo, nel 1979, oltre ad altre numerose installazioni scultoree come quelle di Cappello, Messina e altre soluzioni originali come quella di Emilio Isgrò, Gibellina vede nascere il Museo Civico d’Arte Contemporanea, che raccoglie numerose opere d’arte contem-poranea di importanti nomi della cultura italiana e internazionale e la Chiesa di Gesù e Maria di Nanda Vigo, essenziale ma nello stesso tempo costellata da simboli che rispecchiano un lato molto arcaico e tradizionale della religione, come triangoli e quadrati che formano stilizzate icone bibliche come l’Albero della vita.

Il 1980 vede a Gibellina la presenza di altre grandi figure intellet-tuali come Alberto Burri, che realizzerà una delle opere più emblema-tiche dell’arte contemporanea degli ultimi decenni, e Franco Purini con Laura Thermes che con la Casa del Farmacista apriranno la stra-da ad un progetto architettonico molto sperimentale e aperto all’a-vanguardia contemporanea: “L’Architettura è eminentemente costru-zione. È costruzione dell’idea, costruzione del progetto, costruzione dell’edificio, costruzione della città”14. Un’architettura che condensa combinazioni generative che si presentano contemporaneamente sia come principi teorici che riguardano l’oggetto architettonico e l’ambi-to insediativo sia come dispositivo formale, capace di essere declinato a varie scale.

Nel 1981 sorge a Gibellina la scultura che poi diverrà il simbolo della città, ovvero la Stella di Consagra, l’Ingresso al Belice. Ed è pro-prio la stella di Consagra che Frazzetto prende come punto di riferi-mento per iniziare il suo libro, “Gibellina, la mano e la stella”, argo-mentando un riferimento romantico alla Stella Polare di Goethe, che

14 Purini F., Le opere, gli scritti, la critica, Electa, Milano 2000, pag.101.

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in un suo appunto datato 21 Aprile 1787, racconta di esserne stato il-luminato durante una sosta proprio qui, nel trapanese15. Consagra concepisce la stella come insegna luminosa della città e della valle in-tera, e ispirandosi proprio alle luminarie tradizionali montate per le stradine dei paesi durante le feste e le ricorrenze.

Nello stesso anno, avviene anche il recupero delle Case Di Stefano che, da un esemplare progetto di Marcella Aprile, Roberto Collovà e Fulvio La Rocca, da uno stato di rudere vengono trasformate in uno spazio espositivo, inserendo una serie di soluzioni strutturali là dove la fabbrica era completamente distrutta. Del 1981 è il progetto per il centro di Gibellina di Oswald Mathias Ungers. Un altro importante edificio è Palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia che, come Nanda Vigo, recupera delle architetture della vecchia Gibellina per fonderle in una nuova concezione spaziale. Il palazzo diventa, attraverso un geniale incastro di piani e spazi, un percorso cronologico che va dalla memoria, dal passato, il cortile con la vecchia facciata recuperata dal-la vecchia Gibellina, al presente, verso aperture sulla valle e il paesag-gio contemporaneo che muta e si evolve in continuazione, trasfor-mandosi e apparendo sempre nella sua attualità allo spettatore che arriva a conclusione di questo percorso. Al suo interno, le sculture di diversi autori, collocate strategicamente in un rapporto funzionale con l’architettura, caricano ulteriormente il percorso di simboli e sug-gestioni che fanno parte della tradizione e del mito.

Nel 1982 inizia il progetto Il Sistema delle Piazze di Purini e Ther-mes che verrà completato nel 1990, ma mai utilizzato, e nel 1984 il teatro di Consagra, che vedrà una costruzione a più riprese e ad uno stato attuale, a 28 anni di distanza, ancora incompiuto (ma si spera, ormai in via di ultimazione).

Nel 1987 sorge la Torre Civica di Mendini, altro simbolo ormai della città che ne scandisce il tempo e lo spazio oltre a creare un altro punto di riferimento per l’orientamento nel nuovo tessuto urbano.

15 Frazzetto G., Gibellina, La mano e la stella, Ed. Fondazione Orestiadi, Alcamo (Tp) 2007, pag. 7.

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Si arriva quindi al 1990 con una delle ultime importanti strutture architettoniche di Purini e Thermes, ovvero Casa Pirello, che chiudo-no un primo intervento architettonico importante e massiccio nella città.

Oltre a questo breve elenco che riporta gli esempi architettonici più eclatanti, dobbiamo aggiungere le innumerevoli installazioni scultoreo-spaziali che hanno contribuito, insieme all’architettura, a determinare lo spazio di Gibellina e la sua coordinazione tra funzio-nalità e fruizione sociale.

I gibellinesi usano le sculture, se ne sono appropriati con quella fa-miliarità ingenua ma profonda che prima citavamo dal libro di Fraz-zetto. Come dice Purini: “L’interesse dell’esperimento di Gibellina, tenacemente voluto dal sindaco Ludovico Corrao, sta non tanto nella percentuale “statistica” di opere per abitante, superiore di gran lunga a quella di qualsiasi altra nuova città o parte di città e già di per sè se-gno di grande civiltà urbana, né nell’aver messo l’una accanto all’al-tra, e qualche volta l’una contro l’altra, differenti vicende della ricerca plastica contemporanea in Italia, come in un grande museo “en plen air”, ma di aver riproposto a scala di un intero insediamento il pro-blema del possibile “ruolo” dell’opera d’arte nella configurazione del-lo spaio urbano, riprendendo, evidentemente con alcune visibili ma ineliminabili incertezze, un filo spezzato dalle avanguardie”16.

16 La Monica G., Gibellina, Ideologia e utopia, pag. 96.

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“È uno scenario piuttosto straordinario questo abbozzo di città abbandonata ai bordi di un villaggio e al margine dei secoli. Ho per-corso una metà dell’emiciclo, salito la gradi-nata del padiglione centrale, e per un pezzo sono rimasta a contemplare questi edifici co-struiti per fini utilitari e che non sono mai ser-viti a niente.sono solidi, esistono, eppure il fat-to di essere abbandonati li trasforma in un si-mulacro fantastico; di che cosa, non si sa.”

Simone De Beauvoir17

17 De Beauvoir S., Una donna spezzata, ed. Einaudi, Torino 1999.

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II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi

II. Le realtà di oggi e la Fondazione Orestiadi

“L’iniziativa di Ludovico Corrao non ha riscosso solo consensi, ma anche una serie di critiche rivolte soprattutto a due aspetti dell’opera-zione: una presunta estraneità delle opere d’arte e delle architetture alla cultura degli abitanti della città (secondo questa critica oggetti passivi di una volontà pedagogica e contraddittoriamente estetizzante calata dall’alto) e una mancata integrazione tra spazi urbani, edifici e opere d’arte. Sono critiche sulle quali occorre senza dubbio soffer-marsi, perché toccano in effetti questioni reali.” Franco Purini18

Gibellina si presenta al visitatore come una realtà sospesa: è una sensazione comune che si prova non appena si entra nel tessuto urba-no; anche se si è preparati e si conosce bene la sua storia, si rimane ugualmente “intimoriti” e nello stesso tempo eccitati dal complesso di sculture e strutture “inusuali” che si incontrano ad ogni traversa, ad ogni piazza.

Nonostante si avverta un sentimento laboratoriale, del fare, che traspare dalle installazioni artistiche, esiste un sentimento di inquie-tudine dato non tanto dall’impatto delle opere sulla persona o sul luo-go, più o meno desolato, ma soprattutto sulla consapevolezza di un mancato divenire.

Le opere studiate soprattutto per realizzare eventuali percorsi, probabili vettori non solo di spazi e soluzioni “vivibili” ma di tutta una società in via di sviluppo, generano quest’energia propulsiva che si sente, ma che ci spinge verso una dinamica sociale e urbana che non riscontriamo.

Purtroppo non esiste una risposta diretta alla propulsione spaziale che queste opere si auguravano. Sembra quasi che le opere siano troppe, sprecate, in confronto alla reale necessità degli spazi e della

18 Oddo M., Gibellina la nuova, Attraverso la città di transizione, pag. 6.

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società stessa; sembra quasi che le sculture siano come grandi attori di un importante cast, ma che il film non sia mai stato girato.

C’è da chiedersi perché, nonostante la città annoveri importanti in-terventi artistici, che vanno dall’architettura alla scultura, ci si senta all’interno di uno spazio povero, inquietante, desolato. Le risposte possono essere tante e si rischia di soggettivare troppo l’analisi, o ad-dirittura si rischia di cadere in una visione troppo breve in confronto a un argomento che deve essere visto in un arco di tempo molto lun-go, in quanto parliamo di una città in via di sviluppo e non di una scultura, per esempio, circoscrivibile e analizzabile nell’immediato.

Di sicuro è importante riscontrare e dedurre le cause di questo sentimento comune, non solo nella gente comune ma anche tra gli addetti ai lavori.

Le cause sono tante ma principalmente possiamo esporre i proble-mi riguardanti dati fondamentali di una città (come di un’opera d’ar-te): gli spazi e i tempi di fruizione.

Si possono immaginare per esempio i ritmi di vita, di lavoro o di opportunità sociale, che potevamo trovare nella vecchia Gibellina, e che per forza di cose, in quanto gli abitanti sono rimasti gli stessi, ri-troviamo qui: la differenza di queste dinamiche è che qui si deconte-stualizzano; mentre il paesino della vecchia Gibellina, arroccato sulla collina di Roccatonda, poteva “giustificare” i tempi di una società prettamente agricola ed esclusa dai ritmi spazio-temporali delle città e della società moderna a loro contemporanea, cui questi ritmi sono come paralleli, sospesi nei confronti di un linguaggio imperante, quello delle opere d’arte contemporanea, un linguaggio che si espone nel nuovo tessuto urbano.

Una pianta urbanistica rispecchia la storia, lo sviluppo della socie-tà, delle politiche e di tutto quello che riguarda la memoria di una co-munità all’interno di uno spazio e un tempo che la modifica ma che si relaziona lentamente e in modo contestuale ad essa. La città diventa quindi la parte integrante di una vita, di un modo di rapportarsi e di vedere le cose.

Questo naturale scorrere del tempo e dello spazio è stato raso al suolo dal terremoto, e qualsiasi tentativo di ripeterlo non esiste più.

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Se Gibellina fosse stata ricostruita mantenendo gli stessi spazi per accogliere le stesse esigenze dinamiche della popolazione, oggi il pro-blema potrebbe essere indubbiamente differente. Potremmo avere una comunissima città come se ne vedono a migliaia in tutta Italia, o avremmo una città simile a Ragusa Ibla; infatti nel capoluogo ragusa-no il terremoto distrusse interamente la città medievale di Ibla, ma la differenza consistette nel fatto che, contrariamente a Gibellina, si mantenne lo stesso tessuto urbano ricostruendo sulle rovine dei pa-lazzi medievali le architetture nuove del barocco. Un po’ come se, a Gibellina, Purini e altri architetti avessero progettato i nuovi palazzi sulle fondamenta delle vecchie abitazioni, mantenendo gli stessi spazi vitali, ma mostrando un aspetto della storia contemporaneo a quello del terremoto.

La cosa che provoca desolazione forse è proprio questa netta de-contestualizzazione tra esigenza e spazio, tra società e monumento internazionale.

Mentre la Chiesa di Quaroni potrebbe rientrare attraverso le sue forme, la sfera e il cubo, in una tradizione figurativa siciliana, come la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, la Torre Civica di Mendini è assolutamente altro: un enorme obelisco di cemento che rispecchia le forme, gli spazi e le inquietudini o le certezze di una so-cietà comunque lontana da quella dove sorge.

Gli artisti e gli architetti che sono intervenuti a Gibellina sono pun-tuali testimoni del tempo contemporaneo che si esprimono attraverso un altrettanto puntuale linguaggio artistico. Ma gli artisti provengono da altre realtà, da altri punti di vista che manifestano problematiche internazionali, e non strettamente connesse al luogo.

La presenza dell’arte contemporanea a Gibellina è uno squarcio improvviso nella realtà intellettuale internazionale, con i suoi pro e i suoi contro: da un punto di vista culturale la città è un incredibile la-boratorio di sperimentazione e colloquio tra le diverse esperienze cul-turali internazionali, dall’atro è un mondo parallelo alla società che lo abita; da un lato abbiamo le considerazioni e i dibattiti sull’importan-za o meno dell’utopia, dell’eccesso o del superfluo artistico, dall’atro la necessità di “ritrovarsi” da parte della popolazione; se esistono pro-getti e argomentazioni su come “pianificare” la nuova realtà urbani-

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stica e di conseguenza della società, dall’altra esiste la possibilità di crescere spontaneamente lungo percorsi fatti di avvenimenti che al-l’occorrenza del caso e degli avvenimenti si alternano nella storia. Perché c’è da dire che Gibellina oggi è il frutto di decisioni, di pianifi-cazioni a tavolino. La storia è quella decisa, non avvenuta per caso.

Quando si parla di monumento, si intende nella sua specificità qualcosa che con la sua presenza espone la memoria di una realtà storica o di una data “scelta”. Qui è tutto monumento, l’intera città è una scelta a priori ed espone di conseguenza una storia decisa, impo-sta in ogni punto.

Col terremoto l’abitante di Gibellina ha perso nelle case una me-moria spaziale, oggettiva, perché ogni struttura crollata, anche se fos-se stata ricostruita dov’era, mantenendo lo stesso identico aspetto, avrebbe espresso comunque un senso di apparenza, di falso, perden-do quella patina di storia e di ricordi che ogni abitante ne ha intriso le mura; le costruzioni non sarebbero mai state i testimoni della storia, ma delle quinte, dei fantasmi di esse stesse.

Il problema quindi non sarebbe stato rifare le case uguali o ripro-porre Gibellina vecchia, per attuare una condizione morale, etica e culturale più giusta; la soluzione esatta, forse, si sarebbe potuta tro-vare applicando una concezione di ripristino degli spazi vitali della vecchia Gibellina, almeno per il centro della nuova città. Le nuove ge-nerazioni non avrebbero avuto difficoltà ad ambientarsi o a vivere i nuovi quartieri che si sarebbero sviluppati in periferia. Oggi Gibellina appare come la grande periferia di una qualsiasi città italiana, perché essendo state realizzate nello stesso periodo, hanno un concetto di sviluppo identico. Strade ampie e scorrevoli, distribuzione dei centri amministrativi e pubblici in spazi funzionali con le case abitative pri-vate...

Una periferia è tollerabile nel momento in cui la si vede in un con-testo più ampio, come escrescenza attuale di una storia, di un vissuto cittadino ormai ben configurato nella comunità che lo abita.

La strutturazione urbanistica contemporanea può apparire più o meno bella, più o meno funzionale, ma comunque rispecchia le esi-genze della società contemporanea. La periferia e le sue costruzioni comportano anche le inquietudini, i malesseri e le necessità spesso

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troppo povere della società contemporanea. Sicuramente non sta a noi giudicare, noi che viviamo nel presente e siamo attaccati al passa-to, alle nostre basi culturali e architettoniche, che comunque, a loro volta, apparivano ai nostri genitori altrettanto nuove come ci appaio-no le nostre periferie, dove siamo nati e cresciuti.

Quindi Gibellina è necessariamente la traccia puntuale della nostra concezione contemporanea, il testimone di una cultura sempre più massificante, che non conosce luogo o storia locale, ma soltanto pro-blematiche relative ad una storia culturale universale, ideale, funzio-nale a priori, calata dal cielo all’improvviso, senza guardare le specifi-che esigenze.

Gli abitanti di Gibellina non hanno accolto tutto questo, ma ne sono stati travolti, come una diga che cede e inonda intere valli; molti sono stati fiduciosi di non annegare ma di poter aggrapparsi a nuove prospettive. Altri hanno preferito abbandonare il paesaggio sommer-so da una nuova realtà, da un nuovo coinvolgimento non più locale, ma extraterritoriale, che andava ben oltre i limiti geografici delle col-line.

Rimane quindi questo importante patrimonio culturale che deve essere vissuto, che sicuramente col tempo sarà fruito in maniera più intensiva, ma con i suoi tempi, quelli che richiedono la formazione di una città.

Le architetture, le installazioni e tutto quel corredo intellettuale che in questi quarant’anni ha stabilito le vie di sviluppo della nuova città, sono il giusto perno per prospettive ben auguranti. Analizzare la situazione da un punto di vista del presente significa soltanto asse-condare paradossalmente la vera Utopia, che è quella di andare a ri-proporre la vecchia Gibellina, che non esiste più, decontestualizzata dal presente e dalle dinamiche culturali contemporanee.

Se riusciamo ad accettare la realtà urbanistica di Gibellina, possia-mo allora poter vedere meglio perché persiste questo senso di inquie-tudine.

Gibellina è un paese che ospita poche migliaia di abitanti, appena cinquemila, ed è facile passeggiare quindi anche per strade deserte; ma quello che ci aspettiamo è anche il turismo che una situazione ar-tistica come questa meriterebbe. Il turismo (e andrebbe bene anche

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quello di massa) movimenterebbe il paesaggio urbanistico e nello stesso tempo aiuterebbe in qualche modo a sviluppare l’economia lo-cale. Gibellina merita un riconoscimento turistico, culturale, ma manca completamente da parte degli abitanti la propensione ad un tipo di investimento in questo settore: un atteggiamento che frene-rebbe la migrazione verso altre città per favorire l’economia e l’urba-nizzazione locale.

Le ragioni dell’assenza di una rete turistica sono dovute alla man-canza di alberghi, di zone ricettive per numerose comitive, ma soprat-tutto alla difficoltà di rientrare negli itinerari costituiti da centri mol-to vicini come Selinunte, Segesta, Palermo, Monreale, Trapani, Mar-sala, Mazara del Vallo, San Vito Lo Capo e altri ancora.

Il turismo di Gibellina è cosiddetto di “nicchia”: di addetti ai lavori, di studenti, di ricercatori, di appassionati d’arte contemporanea o di gente che comunque è venuta a conoscenza del fenomeno e che per vero interesse o semplice curiosità si viene a sedere sotto la Torre Ci-vica di Mendini.

Gibellina offre per conto suo molte soluzioni culturali: decine e de-cine di interventi artistici site specific, strutture di importanti archi-tetti contemporanei e un Museo Civico d’Arte Moderna e Contempo-ranea. Un’offerta molto ricca, ma oggettiva, perché Gibellina è “fatta ad arte”, e comunque particolarmente statica.

Il Museo Civico, ad esempio, vede la sua raccolta allestita all’inter-no di una struttura che avrebbe dovuto accogliere una scuola media, a un piano con spazi funzionali alla vita scolastica ma sicuramente non a un allestimento museale. Questo problema strutturale influisce molto dal punto di vista scientifico e fruitivo. Il Museo assomiglia molto di più a una raccolta alla rinfusa di opere d’arte, decontestua-lizzate da un percorso critico di qualsiasi genere; una sorta di riposti-glio di opere d’arte. Nonostante tutto, non si può rimanere impassibi-li davanti all’importanza delle opere che comunque affiorano dal di-sordine espositivo: opere di Mimmo Rotella, Boetti, Vedova, Guttuso e una grande aula (la palestra) dedicata alle grandi tele realizzate da Mario Schifano a Gibellina.

Un altro deficit del museo consiste nel fatto che difficilmente si al-lestiscono mostre temporanee, che movimenterebbero l’offerta scien-

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tifica e di ricerca culturale. Il problema è derivato anche da involonta-ri ostracismi tra la struttura museale e le istituzioni pubbliche più in-teressate a investimenti di breve termine.

Il Museo Civico di Gibellina ha nella sua collezione d’arte contem-poranea delle enormi potenzialità culturali ed economiche: difficil-mente si riesce a visitare un luogo con una così alta concentrazione di opere d’arte contemporanea di questa caratura. La politica del Museo dovrebbe basare tutte le forze sulla curatela dell’allestimento (visto che un’altra struttura significa parlare solo di “utopie”), sulla qualità del servizio informativo e su un programma di mostre e collaborazio-ni con artisti contemporanei come i workshop a tema (come a ricrea-re una situazione concettuale molto simile ai presupposti collaborati-vi tra gli artisti e Gibellina nuova).

L’istituzione che invece riesce in qualche modo a trainare il pano-rama culturale di Gibellina è la Fondazione Orestiadi.

L’“Istituto di Alta Cultura Fondazione Orestiadi Onlus” fu costitui-to nel 1992 con la donazione Corrao, nel tempo arricchita da ulteriori donazioni e acquisizioni e ha proseguito in un certo senso l’esperien-za culturale iniziata nel 1968 proprio dal Senatore Corrao, con gli ar-tisti chiamati a Gibellina dopo il terremoto.

Nella sede della Fondazione Orestiadi, il Baglio Di Stefano (ex struttura baronale e ristrutturato dopo il sisma del 1968 su progetto di Marcella D’Aprile, Roberto Collovà e Teresa La Rocca), sono rap-presentati anche la Regione Siciliana, la Provincia Regionale di Tra-pani e il Comune di Gibellina.

Dal 26 Giugno 2000, la Fondazione ha nel palazzo Dar Bach Ham-ba, nel cuore della medina di Tunisi, un ulteriore spazio in cui svolge-re le proprie attività. Dar Bach Hamba ospita un’esposizione perma-nente improntata alle linee guida del Museo delle Trame Mediterra-nee di Gibellina e frequenti iniziative, nell’ottica di un confronto fra artisti di diverse culture.

Il Baglio Di Stefano ospita nella casa baronale il “Museo delle Tra-me Mediterranee”, istituito nel 1996 e che raccoglie nelle sue sale co-stumi, gioielli, tessuti d’arte, ceramiche e oggetti d’arte di popoli e culture dell’area mediterranea: Sicilia, Egitto, Tunisia, Palestina, Ma-

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rocco, Spagna, Algeria, Albania e tutte le la nazioni comprese nel ba-cino.

Il direttore del museo, Enzo Fiammetta, descrive così l’esposizione del museo: “Il museo/officina è l’approdo di anni di ricerche, incon-tri, dibattiti, studi e seminari promossi dalla Fondazione Orestiadi, ma è tuttora un’idea guida, un’idea limite, la cui forza risiede nel suo carattere transnazionale e interdisciplinare”.

Il “segno” e la “forma” caratterizzano due delle sezioni del percorso espositivo. Nella prima è possibile leggere attraverso l’accostamento degli oggetti di diversa provenienza e di differenti periodi, l’evoluzio-ne dei principali motivi decorativi che hanno caratterizzato lo svilup-po dell’arte e dell’artigianato mediterraneo. I motivi dell’arabesco, della scrittura e della pseudo scrittura, delle geometrie intrecciate, rielaborati e diffusi in Occidente dagli arabi, sono utilizzati come ele-menti per una lettura comparata.

Nel confronto tra oggetti di differente provenienza, periodo ed uso, si sono cercati i tratti comuni e i percorsi storico artistici paralleli, con la possibilità di leggerne la permanenza dei motivi decorativi nel tempo e le varianti.

La sezione delle “forme” conserva ceramiche arabe, siciliane e spa-gnole del XIX secolo, che confrontate con brocche, idrie, vasi preisto-rici e medievali dichiarano la comune origine e permanenza di mo-dello.

“La Sicilia è sempre stata luogo di incontro di popoli, di sperimen-tazione di linguaggi. Questa peculiarità ha sempre caratterizzato la sua storia economica e artistica. Sembra a noi che oggi, l’attuale si-tuazione, caratterizzata da profonde migrazioni, possa presentare ca-ratteri simili; la Sicilia e l’Italia possono tornare a essere luogo di in-contro, di passaggio di popoli, di sedimentazione e rielaborazione di elementi” Enzo Fiammetta19

L’attività culturale della fondazione “Orestiadi” di Gibellina non si risolve soltanto nell’esposizione di mostre d’arte figurativa e arte ap-

19 Parole tratte dall’intervista ad Enzo Fiammetta durante la mia visita alla fondazione delle Orestiadi nel mese di Settembre 2009.

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plicata del mediterraneo, ma anche nell’organizzazione di eventi tea-trali o musicali.

Ogni anno vengono invitati dalla fondazione importanti registi e compagnie di spettacolo per esibirsi a Gibellina. Come scenario viene spesso usato il Teatro del Grande Cretto, ovvero lo spazio attiguo al-l’opera di Alberto Burri o, spesso e volentieri, anche le placche di ce-mento usate come veri e propri palcoscenici.

Il concetto è quello di creare un collegamento forte tra la tragedia umana, reale, e quella della finzione, dell’idea, del dramma. In occa-sione degli spettacoli teatrali e musicali vengono allestite di volta in volta scenografie nate dalla collaborazione di altrettanti artisti con-temporanei con i registi e gli sceneggiatori.

Si vengono a creare in questo modo opere inusuali, emblematiche, che nella maggior parte dei casi rimangono come opere in se, a pre-scindere dalla loro funzionalità scenica. Così ad esempio rimane la montagna di sale di Mimmo Paladino (adesso installata nel Baglio Di Stefano e sostituendo il sale ad una colata di cemento bianco), le macchine teatrali di Pomodoro (autore di diverse scenografie a Gibel-lina), e tutto quel comparto artistico come manifesti, schizzi e proget-ti che accompagnano le opere teatrali o musicali per diventare poi og-getto di esposizione nel museo della fondazione.

Lo sconfinamento e lo scambio, la conferma di un’ attitudine so-cratica che trova il proprio valore nel dialogo, lo si ha negli Atelier del Baglio Di Stefano.

Atelier risponde a un progetto di sensibilizzazione territoriale sul-l’intera geografia mediterranea, con la possibilità di soggiorno creati-vo per artisti di diversi paesi a Gibellina, Tunisi o in altri luoghi gesti-ti dalle Orestiadi.

Attraverso gli atelier, l’artista ha la possibilità di soggiornare a Gi-bellina e lavorare a stretto contatto con la terra e i luoghi con cui do-vrà dialogare; perché il concetto che si vuole focalizzare è quello del dialogo tra artista e società locale, tra le problematiche contempora-nee, che vanno dall’estetica alla politica, dalla semiotica alla religione, al confronto con i giovani e le generazioni future di Gibellina. La fon-dazione ospita esplicitamente un’officina non solo culturale e artisti-ca, ma anche sociale. Il processo creativo dell’artista subisce e in-

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fluenza il luogo in cui si viene a determinare, contamina e viene con-taminato dal genius loci: un’ampia dialettica tra l’antropologia esi-stenziale dell’artista e quella riguardante la geografia del posto.

Per una maggiore apertura e un autentico pluralismo culturale non esistono fasce generazionali protette e nemmeno poetiche di artisti privilegiati. Ancora una volta le Orestiadi promuovono un’attività che gioca sul doppio versante della presenza operativa dell’artista e la permanenza finale di opere che testimoniano il suo passaggio.

Emerge chiaramente un ulteriore valore, quello di un multicultura-lismo che ha sempre sostenuto la strategia diffusiva della Fondazione Orestiadi: un ventaglio di stili, tecniche e materiali, portatori tutti di una creatività tesa a cogliere anche lo spirito del nostro tempo.

Prevale alla fine un nomadismo culturale che da fertilità alla pre-senza di opere per nulla statiche, capaci invece di bucare il territorio, aprirlo a sorprendenti corto-circuiti che arricchiscono la conoscenza dell’arte e della problematica realtà che ci circonda.

“Ecco un modo di far parlare una lingua universale a un’arte con-temporanea che, attraverso il processo creativo, trova la possibilità di sviluppare nuove lunghezze d’onda di conoscenza e una ulteriore spe-ranza per le ultime fasce generazionali di giovani aperti all’arte, che sembra rappresentare l’unica apertura sul futuro.” Achille Bonito Oli-va 20

La fondazione delle Orestiadi rimane quindi, oltre a un importante museo d’arte contemporanea (appunto la donazione Corrao, costella-ta da importanti e numerose opere di altrettanti artisti moderni e contemporanei e allestita tra il Granaio e il Museo di Arte Applicata) e un importante centro di scambio culturale col Museo delle Trame Mediterranee, anche una interessante “officina artistica”, unica nel suo genere, che dinamizza il panorama culturale non solo regionale ma anche a livello internazionale. Le opere che vengono create negli atelier, con i laboratori e quindi gli scambi tra artista e luogo, artista e giovani generazioni, sono il frutto di un importante dialogo e di un processo intellettuale molto importante e stimolante; in generale, un

20 Oliva A.B., Ateliers, catalogo della Fondazione Orestiadi, Gibellina 2006, pag. 12.

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esempio di museo dinamico e all’avanguardia che propone soprattut-to il processo creativo vero e proprio, con la possibilità non solo di entrare all’interno delle dinamiche intellettuali che creano l’oggetto artistico, ma anche di esserne coinvolti nella strutturazione del suo linguaggio. Allo spettatore si dà quindi l’opportunità di studiare il fe-nomeno creativo in relazione a un tema e a un’idea relativa al luogo, allo spirito geografico in cui si trova e con tutte le problematiche rela-tive, dall’etica alla morale, dalla politica alla religione, dall’estetica al mito...

Gibellina oggi è quindi una realtà ancora dinamica, sia dal punto di vista critico che da quello artistico vero e proprio. Esiste una situa-zione artistico-architettonica importante, con altrettante collezioni d’arte contemporanea, ma soprattutto con un fenomeno dinamico come quella della Fondazione delle Orestiadi, che traina le vicende culturali di Gibellina e di un interessante aspetto dell’arte contempo-ranea, ponendosi come luogo d’accoglienza alla sperimentazione e al dialogo.

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[…] A Gibelina esiste l’unico esempio in Ita-lia in cui l’arte contemporanea si confronta con la società. Mentre altrove, fra le opere nei musei si svolge un rapporto istituzionale, qui partecipa direttamente, perché non manda (l’artista) il quadro e lo “mettiamo”, no, lo fa qui, lo realizza qui, ascoltando sentendo, pas-so per passo, la terra, le persone, gli umori, il teatro…[…]

Ludovico Corrao21

21 Tratto dall’intervista a Ludovico Corrao in occasione della mia visita alla Fondazione Orestiadi a Gibellina nel mese di Settembre 2009.

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III. L'artista si mette in gioco

III. L'artista si mette in gioco

La ricostruzione di Gibellina è stata di per sé un fenomeno raro: la possibilità per l’amministrazione di pianificare un’intera città, medi-tando sulla pianta e sulla sua funzionalità, sulla possibilità di avere a disposizione vari intellettuali tra artisti e architetti è stata una situa-zione ideale, una possibilità che ogni singolo attore del panorama cul-turale ha sempre ipotizzato e sognato.

Gibellina ci appare quindi come un progetto aperto, un cantiere in via di sviluppo, con i presupposti lungimiranti che si rivolgono al dia-logo tra artista e società, con un antico rapporto socio-culturale risco-perto e ancora se possibile più diretto; l’idea di Ludovico Corrao è stata quella di calare la cultura tra la gente, con tutte le sue proble-matiche del sociale e per il sociale.

Ma a Gibellina un altro fenomeno unico è anche quello dell’atteg-giamento dell’artista nei confronti di una problematica linguistica più attenta ad un effettivo aspetto funzionale dell’opera d’arte. L’oggetto artistico per Gibellina non nasce con, all’interno del processo creati-vo, aspetti riguardanti il mercato o la fruizione d’élite, ma secondo esigenze narrative più generali, più “utopiche”, ma paradossalmente più vicine a una larga schiera di fruitori su più livelli; in poche parole, l’artista si cimenta nella realizzazione di un oggetto che sia di imme-diato impatto emotivo, linguistico e metaforico, e che riesca ad arri-vare a qualsiasi individuo, a prescindere dal bagaglio culturale che esso ha.

Non sempre il risultato riesce a soddisfare questa idea, ma perlo-meno il prodotto artistico suggerisce sempre questa analisi dell’arti-sta attraverso l’uso di un linguaggio inusuale rispetto al proprio ope-rato tradizionale.

L’autore che sviluppa il suo linguaggio artistico e lo divulga attra-verso una rete espositiva più o meno pubblica, ma che rimane preva-lentemente esposto in una rete (soprattutto commerciale) che è co-munque d’élite, di un pubblico che è già preparato a ricevere un lin-guaggio sperimentale più o meno efficace, si trova a dover creare

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invece a Gibellina un oggetto “a priori”, che non tenga conto fonda-mentalmente né del mercato, né di un pubblico privilegiato o interes-sato.

Gli artisti che hanno risposto all’appello di solidarietà di Corrao & Co. vennero man mano a Gibellina, girando il neo tessuto urbano e scegliendo il punto in cui avrebbero voluto installare il loro interven-to artistico. Una scelta basata sicuramente su un proprio bisogno di fondere la funzionalità linguistica di espressione in rapporto allo spa-zio scelto. Un rapporto, un dialogo tra spazio e linguaggio che per-metta lo sviluppo di ulteriori spazi e problematiche estetiche e vetto-riali su cui riflettere e ragionare.

Per Alberto Burri per esempio, il bisogno fu quello di andare oltre la Gibellina Nuova; prima gli fecero visitare la nuova cittadina, dove già esistevano importanti installazioni e architetture, come quelle di Quaroni e Consagra, ma decise che lì non c’era spazio per lui: “Qui non ci faccio niente di sicuro”. Non riusciva a immedesimare la sua idea in quel luogo. Fu portato allora nella vecchia Gibellina e guar-dando i ruderi capì come doveva intervenire. La sua idea fu quella che poi lo portò a realizzare il Grande Cretto: “Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea”22.

L’opera di Alberto Burri, realizzata in collaborazione con l’architet-to Alberto Zanmatti, è ancora oggi una delle opere più grandi al mon-do: dodici ettari di cemento che si estende sul vecchio sito distrutto di Gibellina. Le placche di cemento bianco, che si mantengono su un li-vello non più alto di due metri, inglobano le masse di detriti ricavati dai ruderi delle case distrutte, simulando con la loro forma la materia dei cretti, le superfici secche, screpolate, come se ne possono trovare in natura o nelle craquelure delle superfici pittoriche. In questo caso, i solchi del Grande Cretto, che dividono le placche di cemento deli-neandone le sagome, coincidono per buona parte con le vecchie stra-de di Gibellina.

22 Zorzi S., Parola di Burri, ed. Allemandi, 1995.

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Una sorta di enorme sudario, in cui all’interno delle placche di ce-mento riposano i ruderi, le macerie della vecchia Gibellina, percorri-bile all’interno come un labirinto.

È innegabile l’incredibile impatto emotivo che un’opera del genere riesce ad imprimere nello spettatore: chiunque arrivi davanti al Gran-de Cretto prova una sensazione di profonda inquietudine, di silenzio e di riflessione. Si è immersi all’interno della collina, in mezzo al nul-la, ma di fronte ad un segno così imponente che difficilmente lascia indifferenti. Una cosa molto importante di questa operazione artisti-ca di Alberto Burri è proprio l’unanimità comportamentale nei sui confronti. Nel bene o nel male il Grande Cretto ottiene un importante reazione; sicuramente conseguenza di qualcosa che comunque arriva dai tanti significati etici, morali e linguistici contenuti nell’opera.

È un segno, al di fuori da qualsiasi referenza commerciale o propa-gandistica: il grande cretto è quindi una presa di coscienza dell’artista che insegue un livello di comprensione delle cose al di sopra di qual-siasi dinamica estetica.

“[…] esso (il cretto) è fuori dal sistema (e dal sistema artistico), dalla certezza di appartenere ad un’estetica. Innesca piuttosto la refe-renza trascendentale dell’arte senza immaginarsi nell’imbuto polifun-zionale della comunicazione svalutando l’angolazione moderna intesa come estetica e progetto estetico di intervento sul mondo.[…]” Italo Tomassoni23

Nell’ambito della sua lunga produzione artistica, Alberto Burri ha ricercato sempre di più il dialogo tra materia e spazio, ovvero la for-ma come icona di una concezione spaziale ben definita, o che comun-que richiamasse ulteriori problemi relativi al rapporto tra questi due elementi. Una sorta di meditazione profonda sull’ontologia formale e sui suoi significanti attraverso opere sempre più grandi, laconiche e austere. Il Grande Cretto, diventa un atto finale, il capolinea se vo-gliamo di un lungo percorso, un magistrale esempio della ricerca di

23 De Simone G., Farina G., Fazzi S., Alberto Burri nel panorama della Land Art internazionale, atti del convegno, Gibellina 9 e 10 Ottobre 1998, Edizioni Museo Civico d’Arte Contemporanea, Gibellina 2004, pag. 93.

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Alberto Burri. Ma l’opera presente sui ruderi di Gibellina è un plauso alla sua opera all’interno della società, dei suoi drammi e della sua stessa spiritualità etica. Una prova finale che si immerge nella realtà del caos acquistando un valore artistico universale. Il Grande Cretto non sarebbe quello che è se non esistesse sui ruderi di Gibellina.

Non a caso il Cretto è stato indicato come un culmine dell’epoca; il cretto è un “sudario che normalizza in uno spasmo raggelato la trage-dia di un popolo e di una terra”, ha scritto Carlo Pirovano, opera “quasi insostenibile nella sua secca laconicità”.

L’opera di Burri offre sicuramente analisi critiche trasversali, come quelle che vanno dalla Land Art (involontariamente sorte e rifiutate dall’artista stesso), e quindi il rapporto tra artista e spazio e la modifi-cazione di quest’ultimo come “antropologizzazione semantica del luo-go”, a ingenui riferimenti linguistici con le opere precedenti di Burri, ma Il Grande Cretto non si limita a problematiche autoreferenziali, come opera a se stante, estrapolabile dal luogo, ma anzi il luogo ne determina ulteriori concetti e il suo stesso motivo di essere.

Il Grande Cretto, ragionando per assurdo, non potrebbe essere esposto in un museo, in una struttura neutra adibita alla fruizione e allo studio.

Le placche del cretto, sudari di una realtà materiale, contengono al loro interno la memoria tangibile della storia: i ruderi della vecchia Gibellina. Il colore bianco, della grande superficie in cemento, rispec-chia la luce, segno oggettivo del tempo; la luce, a sua volta, rivelando le cose ne incide il tempo, usurandole. I solchi del grande cretto di-ventano quindi la rivelazione del tempo, della storia, la traccia della memoria. Sono i percorsi del cretto i testimoni della memoria che coincidono con le vere strade della vecchia Gibellina. Le ombre della luce, il labirinto di segni che delineano le placche del grande cretto, decidono il tempo della storia e l’impatto monumentale che Burri ha deciso di registrare ai posteri.

Così come la luce e il suo calore attua un processo corrosivo sulla terra (e non a caso molti territori della Sicilia sono caratterizzati da questi fenomeni climatici), che si spacca e si crepa mostrandoci le sue viscere, la sua sedimentazione, la sua storia, Burri decide di presen-tarci il cretto, ovvero la luce (come presente), simboleggiato dalla su-

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perficie di cemento bianco (segno di conoscenza culturale dell’artista, contenitore consapevole delle rovine, testimonianze a sua volta della tragedia storica), rivela le ombre dei solchi (il passato, il ricordo della tragedia), l’entità dell’azione temporale sulla materia. La superficie di cemento bianco si spacca mostrando dei solchi che si fermano nel momento in cui coincidono con la larghezza stessa delle vecchie stra-de di Gibellina, il simbolo della civilizzazione, linee che fanno riemer-gere i percorsi tangibili di una società; un “labirinto della storia” da percorrere non solo mentalmente ma fisicamente.

L’azione corrosiva della luce, congelata consapevolmente da Burri col cemento, rivela il tempo di quella memoria, quella di Gibellina.

Il Cretto di Burri diventa un monumento emblematico in cui dialo-gano il tempo e lo spazio, entrambi elementi esposti come icone reali, nella loro veridicità tangibile. La luce reale, che viene “esposta” dal ri-flesso bianco del cemento, simbolo del presente, del tempo che conti-nua inesorabile, e l’evidenziazione del suo negativo, l’ombra, l’usura, il passato che poi è la traccia della luce stessa; come a dire che il pre-sente è continuo figlio del passato, della memoria.

E a cosa serve un monumento se non a ricordare la storia, quello che si decide di conservare di una vecchia civiltà da parte di quella contemporanea? Così il Cretto di Burri si impadronisce, oltre che del-la luce e, quindi, del tempo, anche dello spazio, quello storico della vecchia Gibellina, in tutta la sua estensione: uno spazio che contem-pla materialmente quello che è stato e che non sarà più. Il cemento non poteva contenere solo una parte delle macerie, perché non avreb-be ottenuto lo stesso principio universale avuto con la luce e il tempo; non avrebbe ottenuto lo stesso dialogo linguistico e semantico tra gli elementi estetici e storici.

Esiste quindi una relazione tra spazio e tempo elaborata su più li-velli: ogni elemento che costituisce il grande cretto, dagli effetti della luce, alla dimensione dello spazio su cui si estende, dal colore al con-tenuto delle placche di cemento, diventa complice di una complessa ma chiara trama di concetti e simboli, metafore o semplici segni mo-numentali.

Il Grande Cretto diventa un’opera che ha un contesto ben preciso, una natura e una storia unica; l’opera di Burri è un punto preciso del-

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l’universo in cui diverse esperienze e diversi vettori si sono interseca-ti.

Così come Alberto Burri, altri artisti a Gibellina si sono immedesi-mati in opere pienamente contestuali o addirittura inusuali al loro linguaggio espressivo comunemente esposto in musei e gallerie. Uno di questi è il calabrese Mimmo Rotella, il cui intervento gibellinese ne risulta un valido esempio.

Forse si può accertare come un vanto, per Gibellina, quello di an-noverare la grande scultura in pietra di travertino, dipinta ad acrili-co, intitolata Omaggio a Tommaso Campanella, come un exploit più unico che raro da parte dell’italianissimo esponente del Nouveau Realisme.

Nel 1987 Mimmo Rotella, famoso già per la sua ricerca sul concet-to di sedimentazione temporale, sul ready made “informale”, sul ge-sto che svela la casualità dell’azione e della forma stessa, rintraccian-dola ed esponendola dal caos del contemporaneo, come gli oggetti di comunicazione prettamente commerciale come i manifesti pubblici-tari, espone una scultura, spostandosi nettamente da un linguaggio che a priori si argomentava nelle due dimensioni, a una realtà materi-ca ben evidente come quella tridimensionale della scultura. Mentre Rotella ci ha abituati ai suoi ready made, ovvero strati di manifesti incorniciati, il cui aspetto formale e cromatico è la conseguenza di un gesto che “trova”, che “strappa” le sedimentazioni in modo casuale e caotico, qui lui elabora una forma, un monolite circolare che riporta un fregio piatto, scavato.

Diventa quindi un’operazione inusuale se si pensa che la concezio-ne artistica di Mimmo Rotella nasce da concezioni informali e cioè del libero arbitrio casuale della materia in relazione con lo spazio che la contiene, quando esponeva cioè il retro dei manifesti la cui superfi-cie riportava la densità cromatica e fisica della colla che intrappolava materia organica e intonaco dei muri da cui era stato strappato il ma-nifesto. Una “casualità scelta” che diventa il segno di una consapevo-lezza del tempo ben definita, un ready made del contemporaneo più esposto a problematiche classiche e poetiche; un segno che comun-que si connota nell’azione del levare e dello scoprire.

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Qui Mimmo Rotella toglie, perché si tratta di una scultura nel sen-so classico, ma la forma del blocco e la forma del bassorilievo è una scelta a priori ben studiata: non si espone cioè la casualità del “ready made trovato”.

Persino le pennellate di acrilico che colorano la scultura non sono conseguenza di una casualità trovata, ma di un insistente gesto che definisce e materializza definitivamente le superfici del bassorilievo.

Sul monolito di travertino, rotondo, di un diametro di circa tre me-tri con uno spessore di sessanta centimetri, è scolpito, attraverso sca-nalature di superfici piatte, un sole, e tutta la sua superficie è dipinta con pennellate puntiformi di colore giallo e pennellate azzurre e ocra bruciata marcano le linee circolari e perimetrali del bassorilievo.

Un grande sole giallo, ocra e azzurro, simbolo della Sicilia e del Mediterraneo, che diventa l’astro da seguire per un’idea, un’utopia di città ideale.

Infatti il simbolo astronomico del grande sole è un esplicito riferi-mento all’opera filosofica scritta nel 1602 da Tommaso Campanella, “La Città del Sole”.

“Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor dalle radici del monte […] dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo”24. Così, nelle prime battute del suo testo, il filosofo calabrese descrive la città ideale che agli occhi di Mimmo Rotella (ed è difficile biasimarlo) assomiglia molto a Gibellina, non solo per le realtà artistiche che lui trova nella nuova città, visto che nel 1987 erano state già installate diverse opere d’arte e architetture importanti, ma soprattutto per gli intenti cosid-detti “utopici” portati avanti da Ludovico Corrao e da tutti quelli che hanno aderito all’iniziativa culturale.

Il testo di Campanella rappresenta il grande fermento culturale, politico e sociale di quegli anni: è il risultato concreto di una grande aspirazione al cambiamento, al rinnovamento della società dell’epo-ca. Gibellina viene affiancata ideologicamente a questa aspirazione di

24 Tommaso Campanella, La Città del Sole, 1602.

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cambiamento, di rinnovamento, di prospettive verso nuovi presuppo-sti culturali e sociali.

Ulteriore elemento concettuale che Mimmo Rotella esprime attra-verso il riferimento all’opera di Tommaso Campanella è anche la ri-valsa culturale, politica e sociale di cui il testo si fece carico e per cui lo steso filosofo fu condannato a morte e incarcerato a vita; pochi mesi prima della stesura del libro, Campanella organizzò una congiu-ra che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo, all’abolizione della proprietà, all’instaurazione di una democrazia di tipo comunistico e teocratico, proprio come esposta nelle pagine della Città del Sole e sostanzialmente molto simile alla storia delle lotte contadine di Gibellina, dalla liberazione del latifondo e delle proprie-tà baronali.

L’omaggio a Tommaso Campanella diventa quindi la stessa Gibel-lina vista come idea utopica concretizzata, la nuova città siciliana che per Rotella si candida come potenziale esempio reale della filosofia del Metafisico.

Anche in questo caso, come in quello di Burri, Rotella crea un’ope-ra d’arte specifica, spiegabile soltanto in quel determinato contesto geografico, culturale e politico, come il risultato di diverse somme av-venute tra formulazioni concettuali, filosofiche ed esperienze indivi-duali lontane nella storia e nei secoli, che coincidono, collimano e sfo-ciano a Gibellina, per diventare punti fermi, unici, isolati, di un lin-guaggio universale e, appunto, utopico.

Mimmo Rotella si sente di dare il suo contributo attraverso uno studio linguistico e poetico che non ha mai espresso nella sua opera e che ritiene necessario in quel luogo, in quella condizione sociale, per esprimere puntualmente un ennesimo prodotto della cultura, neces-sità etica e morale e mai superficialmente utopica.

Un altro esempio importante è dato dalla scultura urbana, l’Ara-tro, di Arnaldo Pomodoro, posizionata vicino la Chiesa Madre di Quaroni: un grande aratro di dodici metri di lunghezza per un’altezza massima di sei metri e quattro di larghezza, realizzata in tre materiali diversi, rame, ferro e tufo. Sullo sfondo della scultura un campo arato che si perde in lontananza, sicuramente elemento involontariamente scenografico ma comunque scelto dall’artista.

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Una scultura archetipica, che si sviluppa su forme estremamente stilizzate ed essenziali, che si liberano di tutti gli orpelli superficiali per mostrare la propria evidente funzionalità strutturale e concettua-le, che richiama alla mente continui rimandi con associazioni seman-tiche e linguistiche che qui a Gibellina trovano radici profonde e coin-cidenze storiche molto importanti.

Come prima lettura esiste infatti un evidente richiamo alla storia economica e sociale dei gibellinesi, all’agricoltura, e quindi alle origi-ni, alla memoria. L’aratro come monumento di una società basata sui ritmi e sulle esigenze della terra, sugli avvicendamenti delle stagioni, che diventa icona della memoria di una popolazione, delle sue origini e, se vogliamo, delle loro tradizioni.

Nel processo di stilizzazione ed esposizione monumentale dell’ara-tro si crea di conseguenza un’argomentazione metaforica e semantica della pratica agricola.

L’aratro diventa il simbolo dell’intelligenza umana, della conoscen-za che modifica la terra, la natura, intervenendo nel cosmo della ca-sualità per adoperarla alle proprie esigenze e necessità. L’aratro come simbolo di modificazione e conoscenza del mondo e quindi come sim-bolo di cultura. Non a caso coltura e cultura sono come sinonimi che hanno la stessa genesi linguistica.

L’aratro diventa quindi la figura in cui si rispecchia la voglia di Gi-bellina, quella di ritornare al lavoro sui campi, quelli della società, at-traverso un essenziale strumento di ricerca e di conoscenza.

Una forma costituita da elementi simbolo dell’industria, dell’arti-gianato e dell’architettura; il ferro, il rame e il tufo, sono elementi che richiamano anche la terra in cui sorge la scultura, in quanto i mate-riali, così come tutti quelli usati dagli altri artisti per le loro opere, sono autoctoni, provengono dalle diverse parti della Sicilia. Sono an-che gli stessi materiali che caratterizzando le opere archeologiche che popolano la regione del trapanese.

Infine, la scultura rivendica la memoria delle continue lotte per la proprietà terriera da parte dei contadini di Gibellina, diventando mo-numento delle rivolte antifeudali, proprio in quelle pianure su cui si installa adesso l’opera di Pomodoro.

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Ma la scultura di Arnaldo Pomodoro è anch’esso un unicum nella sua produzione artistica. Forme figurative ma essenziali come l’aratro di Gibellina si ritrovano soltanto in alcune scenografie curate dall’ar-tista.

A Gibellina Pomodoro ha realizzato un’opera di sicuro impatto so-ciale, in cui convergono la storia economica, culturale e politica. A differenza di Burri e Rotella, che presentano un lavoro che ha a che fare maggiormente con una referenza etica ed estetica universale, Po-modoro insiste prettamente sulla memoria sociale limitandosi, dicia-mo così, a presentare un monumento della storia.

Non avrebbe potuto presentare con la stessa austerità e “presenza” le sue solite architetture astratte: qui la scultura si immedesima nel contesto geografico e dialoga con lo spazio circostante come se fosse un elemento scenografico o semantico dell’opera stessa, una voluta protuberanza vettoriale.

Nomi come quelli di Alberto Burri, Mimmo Rotella e Arnaldo Po-modoro, sono gli esempi più eclatanti tra i molti altri artisti che han-no deciso di mettersi in gioco a Gibellina, di abbandonarsi al luogo per sperimentare altro, qualcosa che non avesse riferimento con le strutture sociali ed economiche in cui il loro linguaggio si articolava in modo funzionale; gli artisti hanno ascoltato diverse necessità espressive, assorbendo completamente la storia della città, della terra che avrebbe ospitato le loro opere. Da questo atteggiamento sono nate sculture e architetture che suggeriscono nuovi strumenti per Gi-bellina, che ne manifestano l’idea non solo con il linguaggio ma anche attraverso i materiali stessi con cui sono costituite, elementi della ter-ra che le ospitano e testimoni di una risorsa che ha sempre accompa-gnato gli avvicendamenti culturali di Gibellina e della Sicilia tutta.

Gibellina come fornace di atteggiamenti culturali unici e isolati non solo dal punto di vista degli artisti, architetti e intellettuali, ma anche in relazione al panorama artistico in generale, che permette di rivalutare il linguaggio di un autore in chiave sociale.

A capo di tutti i discorsi sulla crisi dell’arte e sul problema di con-fronto tra cultura e società, utopia ed esigenza, Gibellina diventa un evidente esempio in cui gli intellettuali si sono slacciati dallo studio di

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III. L'artista si mette in gioco

problematiche artistiche, autoreferenziali, per lavorare su linguaggi universali, diretti ad un pubblico che esige un’icona, un’idea su cui ri-flettere.

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“A Gibellina come sono stato attratto io così diversi artisti sono stati attratti per partecipa-re e rispondere a quella voglia di oltrepassare le soluzioni pratiche: l’estraniante oggetto uti-le delle necessità impellenti”.

Pietro Consagra25

25 Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 53.

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IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura

IV. Artista e realtà sociali: stato, religione e cultura

Gibellina è stata l’occasione propizia per inventarsi nuove prospet-tive, per ricostruire identità perdute, per ridare un’etica più vicina alle esperienze contemporanee, sicure del passato e prossime alla no-vità.

Gli intellettuali hanno seguito un atteggiamento puro, a priori da qualsiasi coinvolgimento funzionale al mercato: ogni progetto è stato la conseguenza di un’idea universale della cultura, che nonostante tutto guardava al territorio e alla sua tradizione. Ha ipotizzato un’esi-genza culturale della gente, di una Gibellina che doveva muovere i primi passi affacciandosi sulle realtà linguistiche contemporanee. Gli autori si sono mossi quindi attraverso mondi inesplorati, che hanno permesso di sperimentare e sperimentarsi in condizioni assoluta-mente inusuali.

La meta funzionale di ogni progetto ha così dovuto tener conto di molti aspetti, soprattutto sociali, che hanno influito sull’aspetto finale di ogni oggetto. La forma e la sua struttura, il linguaggio semantico e concettuale, l’aderenza al luogo e alla tradizione della gente.

Un atteggiamento che ha auspicato il meglio, un’utopia sociale perfetta, comandata da idee e ritmi astratti e che ha comportato sicu-ramente aspetti negativi quanto positivi.

Tra gli aspetti positivi troviamo sicuramente soluzioni artistiche che hanno fatto riflettere, e tuttora lo fanno, sul panorama più gene-rale del mondo culturale, sulle figure che ne sono state coinvolte e sull’idea di città ideale come problema socio-culturale che si è dimo-strata di non facile attuazione e interpretazione.

La storia è fatta però di fatti, e quello che ci rimane in contrada Sa-linella è un problema presente, reale, esistente a prescindere da qual-siasi considerazione che si argomenti da ideali probabilità o ipotetici sviluppi. Gibellina e il suo sublime contenuto, nell’accezione settecen-tesca del termine estetico, esiste ed è una realtà artistico – architetto-nica da affrontare criticamente, tenendo presente del futuro e dei possibili sviluppi.

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Gli aspetti negativi posso riscontrarsi nella sottovalutazione da parte dei progettisti e degli artisti di soppiantare completamente un contesto spaziale per un altro, più vicino sicuramente alle esperienze della città che a quelle di una piccola comunità.

Sicuramente Gibellina ha esposto un fenomeno importante, che ri-mane latente in qualsiasi operazione effettuata nella cittadina che è quella dell’officina sociale, per riprendere un’espressione di Achille Bonito Oliva, ma che si dimostra lampante studiando le opere e il loro processo creativo.

Un concetto che ha fatto sì che esistesse Gibellina e che continua ancora oggi a rinnovarsi e riapplicarsi negli Ateliers della Fondazione Orestiadi.

Gli artisti hanno lavorato a Gibellina e vivendo il contesto hanno creato opere uniche, come unico è stato il loro linguaggio, riadattato e riformulato in base alla condizione che si ponevano in quel determi-nato luogo. Il processo creativo non lo è stato da meno, coinvolgendo non solo i materiali autoctoni, ma anche le maestranze e gli aiuti de-gli abitanti locali.

Ogni opera è frutto di una collaborazione intensa che nasce da uno spirito comune, sociale.

Come ci ricorda Ludovico Corrao in numerosi interventi, Gibellina è proprio nata da un confronto continuo non solo fra intellettuali ma anche con la stessa gente, tra le tendopoli, con le mostre e i convegni allestiti all’interno dei rifugi temporanei, costruendo quell’idea di Utopia, di morale e di etica.

Nascono così numerose opere che riescono per questo a emanare un forte impatto emotivo che coinvolge tutti a prescindere dall’espe-rienza culturale soggettiva; vengono create delle opere d’arte che ri-marranno punti luminosi di costellazioni lontane, di sistemi creativi rari e irripetibili.

Si rigenera quel rapporto collaborativo tra artista e istituzione, tra funzionalità comunicativa ed esigenza culturale e stilistica. In questo modo vengono alla luce importanti esempi di opere d’arte e architet-ture per la religione e la spiritualità dei fedeli, per eventi culturali e di spettacolo e per luoghi pubblici e amministrativi.

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Oggetti che creano uno spazio sociale e che si rapportano come punto di riferimento culturale e demagogico di una società. È impen-sabile negare la funzione dello stile linguistico e della sua idea di spa-zio e di tempo sulla gente, sul suo modo di pensare e di agire.

Mai come a Gibellina c’è stata fra la gente una così importante pre-senza di diversi linguaggi stilistici, soprattutto per l’alta concentrazio-ne di opere e per l’importanza data a queste ultime in relazione alle esigenze materiali degli abitanti.

Corrao ha preferito far rinascere Gibellina da uno spazio artistica-mente valido, fondare un fulcro estetico, che potesse dare le fonda-menta morali, culturali ed etiche ad un’intera società; un impegno difficile, azzardato, ma sicuramente prolifico di suggerimenti, stru-menti e ricchezze.

Consagra e le architetture

Pietro Consagra, nel 1976, vide iniziare a Gibellina i lavori di co-struzione del Meeting, la concretizzazione delle sue idee spaziali in quella prima architettura.

Proveniente da un lungo percorso di ricerca, costellato da numero-si riconoscimenti, l’artista siciliano è nato a pochi chilometri di di-stanza da Gibellina, a Mazara del Vallo, nel 1920. Lavorò tra Roma e Milano e fu fondatore nel 1947, insieme ad altri importanti protago-nisti dell’astrattismo e costruttivismo italiano (come Turcato, Accar-di, Sanfilippo e altri), del gruppo e rivista “Forma1”. Ebbe la possibili-tà di provare con mano, a Gibellina, quelle idee cosiddette utopistiche che avevano caratterizzato il testo della “Città Frontale”, scritto anni prima nel 1969; il testo in cui redige le condizioni favorevoli per vive-re in una città costruita attraverso architetture fatte a misura d’uomo, che rispecchino l’unicità dell’individuo dimostrandosi esse stesse inu-suali, fuori dagli schemi precisi e standardizzanti del senso comune.

Ogni architettura deve essere vista frontalmente, mostrando un solo punto di vista, esaltando l’unicità che corrisponde ad una purez-za ideale della forma. Lo spessore diventa soltanto funzionale all’abi-

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tabilità di queste forme astratte, matematicamente equilibrate in un proprio assetto universale.

Uno spessore architettonico che permette di avere un’ulteriore su-perficie plastica, liscia, che instaura nello spazio un netto confine tra interno ed esterno senza incastri o geometrie macchinose. Una linea netta tra involucro e contenitore, tra vuoto e pieno.

Nella maggior parte delle architetture Consagra ricerca la traspa-renza dell’edificio, soprattutto della facciata, come massimo assotti-gliamento della forma, per raggiungere un sottilissimo confine che esiste tra l’involucro della forma, il suo equilibrio strutturale, e l’e-sterno, il vuoto inteso come contenitore della forma. Edifici che si muovono indipendentemente dall’altro, creando così una città di sculture, di forme che si bilanciano in modo proprio, secondo equili-bri di un microcosmo unico, ma che combacia con l’equilibrio più ge-nerale dell’intero universo. Una città creata da architetture che accol-gono l’esigenza unica, soggettiva, di chi le abita o più semplicemente in armonia con il bisogno spaziale all’interno di una forma.

Il Meeting risponde a queste idee. L’edificio a nastro proietta sui due fronti paralleli il suo schema trasparente. La facciata viene arti-colata in modo tale da risultare leggera, senza una struttura precisa, ma riportando soltanto le forme piene, in muratura, contrapposte a quelle ricavate dai vuoti e coperte con superfici di vetro. Una sorta di grande scultura fluida, che richiama ovviamente l’impronta formale di Consagra, che assume una densità, uno spessore misurabile, equi-valente scientemente alla necessità spaziale, funzionale alla destina-zione della scultura edificio.

“L’interno ha una sua spazialità fluida che fa sentire nell’insieme da qualsiasi punto ci si trovi” Consagra26

“[…]gli elementi plastici dovrebbero essere la sintesi formale delle azioni dell’uomo, a contatto con gli ingranaggi di questa società dove sono necessarie volontà, forza, ottimismo, semplicità, chiarezza[…]”, ed è in queste parole di Consagra, riprese da Maurizio Calvesi in un suo articolo sul Corriere della Sera del 1973, che si riesce a sintetizza-

26 Consagra P. in Gibellina, Ideologia e utopia, La Monica G., pag. 54.

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re l’idea dell’artista siciliano nel dare vigore alle forme come puro strumento di analisi immediata, genuina, delle cose. La ricerca di un equilibrio vano, fine a se stesso, ma che rende l’idea di una concezio-ne di equilibrio e della sua continua ricerca. “Consagra rifiuta l’astrat-tismo di ripiego, quello che continua a desumere le sue forme attra-verso una riduzione schematica della realtà naturale o meccanica: l’a-strattismo di derivazione cubista o futurista. Egli vuol basare invece il suo lavoro sulla possibilità di uscire dalle forme – oggetto per sugge-rire, per comunicare delle idee attraverso la materia della scultura” Mario De Micheli27

Pietro Consagra fu entusiasta del progetto, e si sentì in dovere di dover dare una “necessità impellente” alla società. Dalle sue parole, espresse nel convegno tenuto a Gibellina nel 1981, si avverte la paura per la gente di doversi “accontentarsi” di un tetto e tralasciare il biso-gno di una dignità culturale: “[…]L’attrazione è irresistibile oltre la necessità impellenti, verso il superfluo, il lusso, la smaniosa presenza dell’arte con tutta la sua enorme carica di palpitazioni, foghe e trava-gli, tra il divertimento plastico e il coinvolgimento dell’incomprensi-bile che supera fuoco, acque, foreste e deserti come il mitico mamma drago che insegue chi non raggiungerà mai.[…] La presenza dell’arte esalta tutti allo stesso modo, sposta qualsiasi fatica dalla banalità e quella voglia si afferma come un diritto. Se gli artisti non fossero stati chiamati per precedere quel terribile “necessario” impellente della casa, le voglie sarebbero state soffocate come peccati, neutralizzate da sensi di colpa”.

Per Consagra Gibellina fu quindi un importante banco di prova. Con lui collaborarono anche l’architetto Zanmatti, lo stesso che aiutò Burri nell’impresa del Grande Cretto, l’ingegnere Valenzi e l’architet-to Bianchi.

Pietro Consagra vide quindi la possibilità per una società di poter riscattare la propria storia, la propria dignità, attraverso un’architet-tura che rispecchiasse la propria unicità, il proprio equilibrio con la

27 M. De Micheli, Scultura italiana del dopoguerra, ed. Schwarz, Milano, 1958.

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natura e i suoi elementi. Un progetto, quello della Città Utopica, come la Città del Sole di Campanella, che trovava riscontro negli au-spici culturali di Gibellina voluti non solo da Corrao, ma dalla sua po-polazione stessa.

Oltre che nei confronti della comunità gibellinese e del suo futuro, Consagra si espresse anche nei confronti di un’architettura che in quegli anni reputò in decadenza, soprattutto nei risultati e nelle pro-poste esposte alla Biennale di Venezia di quegli anni, con il tema delle facciate, “povero spettacolo del postmoderno”.

Oltre al Meeting Consagra realizzò a Gibellina tantissime installa-zioni scultoree come le Porte del Cimitero, la Città di Tebe, ma so-prattutto la Stella, ovvero l’Ingresso al Belice, una scultura “frontale”, un’insegna alta 26 metri in acciaio inox che sovrasta la strada di in-gresso alla città.

La Stella funge così come elemento simbolico della città frontale, in cui la forma visibile sui due lati ha uno spessore che richiama quel-lo delle architetture progettate dallo stesso artista. “Una stella come una porta di città, richiama le luminarie delle feste di paese” e indica da lontano la città dell’utopia, il luogo in cui si riparte dall’arte, dalla cultura. Architettura dell’apparizione che, attraverso la sua marcata frontalità, diventa emblema visivo e testimonianza dell’atto fondativo anche per chi, distrattamente e ad alta velocità, attraversa il territorio servendosi dell’autostrada. La sua materialità, infatti, martellata dalla luce del sole, risplende nella collina e risponde sonoramente; essa di-venta anticipazione della sfera pura della chiesa madre di Quaroni. La Stella come simbolo monumentale di ricostruzione nella frontalità del rapporto tra l’uomo e l’opera.

Per aiutare la realizzazione della Stella furono prodotte duecento paia di orecchini in oro, che riportavano la stessa forma della scultu-ra, e venduti a chiunque volesse contribuirne economicamente alla costruzione.

Infine rimane il teatro come architettura della città frontale. Pur-troppo la struttura è ancora in via di realizzazione ed è difficile riusci-re a trarne ancora delle conclusioni. Sicuramente possiamo dedurre il suo impatto nella città, che da teatro diventa esso stesso quinta pro-spettica del lungo corso principale. Il teatro è situato infatti vicino la

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chiesa di Quaroni nella parte più alta della città, come ulteriore ele-mento della società di Gibellina insieme alla chiesa e al municipio.

Il rapporto di Consagra con Gibellina diventa quindi molto duro, netto, inseguendo un’idea di ricostruzione attraverso ulteriori idee già impostate e riadattate al contesto, ma sicuramente non come esempio rimasticato e forzato in un determinato luogo geografico, in quanto l’idea è quella di adattare comunque una forma in un dialogo continuo con la funzione abitativa richiesta e al contesto culturale preciso. Consagra crea così delle sculture abitabili, dei simboli di mo-dernità, di utopia culturale, che segnano incredibilmente il paesaggio naturale (con la Stella) e quello urbano con le architetture, che non si discostano molto dalle installazioni plastiche distribuite per Gibelli-na. Il Meeting e il Teatro sono segni che creano importanti vettori spaziali su larga scala, che determinano profondamente lo slancio ur-bano circostante.

Sono architetture ideali che provengono dall’alto, da una conside-razione a priori dell’artista e da un’incredibile coincidenza di avveni-menti che ha fatto si che l’utopica Città Frontale vedesse dei suoi frammenti proprio a Gibellina, in quel luogo in cui di utopie si conti-nua a parlarne ancora oggi.

Boetti e il Prisenti di San Rocco

“[…] Ho visto di recente a Gibellina, esposto nel nuovo municipio, una preziosa reliquia di quella che si chiama civiltà contadina: un lunghissimo drappo di seta color porpora, ricamato a grappoli d’uva e spighe d’oro, un drappo che si portava in processione durante le feste religiose. Quella seta rossa e quei grappoli e spighe d’oro diventano ora simbolo della rinascita dal sangue e dalla sofferenza. Simbolo di cultura, d’armonia e di pace. Simbolo, ma forse anche indicazione: nel terremoto, nel malessere della nostra civiltà detta industriale, in cui siamo minacciati da disastri, da massacri, non più della natura,

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ma della storia, in quella dimensione l’uomo forse può ancora ritro-varsi, riconoscersi ancora uomo umano, uomo civile. […]”28.

A Gibellina viene festeggiato, il 16 Agosto di ogni anno, il patrono san Rocco. Per l’occasione sfila in processione, insieme all’effige del santo, la bella gioventù di Gibellina, reggendo un lungo drappo rica-mato, il Prisenti29.

Negli anni in cui i festeggiamenti del santo coincisero con la rico-struzione di Gibellina e con il via vai dei tanti artisti che ne contribui-vano con le loro opere, si creò un prevedibile contagio della cultura contemporanea con la tradizione popolare folkloristica.

Accadde che diversi artisti si succedettero nella realizzazione di un prisenti, ognuno con uno stile proprio, affrontando tematiche diverse e animando una cultura antica e religiosa attraverso un linguaggio se-mantico moderno, innovativo.

A questo interessantissimo esperimento parteciparono artisti come Carla Accardi (1987), Renata Boero (1992), Sami Burhan (1986), Giuseppe Santomaso (1988), Carlo Ciussi (1990), e tanti altri artisti come Pietro Consagra e Alighiero Boetti.

Proprio Alighiero Boetti realizzò un lunghissimo Prisenti nel 1985 , largo due metri e dieci centimetri e lungo dieci metri e ottanta centi-metri.

L’operazione di Boetti diventa forse la più probabile nel contesto della sua opera. L’artista torinese, nato nel 1940, diverrà, dopo la pri-ma mostra avvenuta alla galleria Stein di Torino nel 1967, uno dei rappresentanti dell’arte povera italiana insieme a Mario Merz, Jannis Kounellis, Anselmo, Pier Paolo Calzolari e molti altri. Le sue opere più famose rientreranno proprio nella sfera delle tele ricamate, e so-prattutto attraverso l’iconografia di planisferi che rappresentano le nazioni attraverso i colori della propria bandiera.

Quando Boetti nel 1985 progetta il suo prisenti, il suo gonfalone processionale, non fa altro che prolungare il suo famoso linguaggio in

28 Testimonianza di Vincenzo Consolo in Gibellina Utopia e Realtà, di Nicola Cattedra, ed. Artemide, Roma, 1993.29 Nel link, i “prisenti” si trovano alla pagina 2 / 4.

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un contesto che deve dialogare con un sentimento spirituale e sociale. Realizza così un drappo diviso nella sua lunghezza sostanzialmente in due colori, il rosso e il verde, incorniciato da una scritta che riporta da un lato “REALIZZATO DALLA COOPERATIVA ARTIGIANALE PROMOZIONE DELLA DONNA SICILIA GIBELLINA” e dall’altro lato “ALIGHIERO BOETTI PER SAN ROCCO A GIBELLINA 16 AGO-STO MILLENOVECENTO OTTANTACINQUE”. All’altezza dei due capi del drappo sono ricamati due quadrati con inscritte le lettere della parola Gibellina, tutte in bianco e nero. Al centro del drappo un cerchio con al centro la sagoma della Sicilia colorata con le tre strisce verde, bianco e rosso della bandiera italiana e con un bottoncino ap-plicato proprio sul punto in cui sorge Gibellina. Intorno al cerchio centrale sono ricamate delle sagome colorate di delfini, tra il centro e i capi del drappo delle sagome di cammelli e attorno ai quarati delle sagome di scimmiette. Sopra i cammelli gruppi di tre sagome che ri-portano le forme slanciate delle gazzelle.

Come riporta una delle due scritte a stampatello del drappo, il pri-senti fu realizzato da una cooperativa di ricamatrici di Gibellina; come in altre occasioni, in cui l’artista veniva a Gibellina per poi farsi aiutare dalle maestranze locali durante la realizzazione dell’opera, anche in questo caso Boetti delega le ricamatrici a realizzare il gonfa-lone. Un aspetto molto interessante, soprattutto dal punto di vista della formazione sociale, in cui si viene a creare un diretto confronto tra artigianato e linguaggio artistico. Sicuramente l’aspetto creativo delle opere d’arte a Gibellina è stato un altro elemento fondamentale di ricostruzione etica della comunità: la presenza dell’artista e le sue indicazioni per le varie procedure nell’iter creativo dell’opera, hanno reso possibile uno scambio di esperienze culturali altrimenti impossi-bile. Non si tratta di una normale procedura di routine, per esempio tra scultore e azienda lapidea o tra pittore e incisore calcografico: qui l’artista ha coinvolto la gente, gli artigiani, in un discorso partecipato, in uno studio collettivo per trovare le soluzioni formali, tecniche e so-prattutto sulle condizioni funzionali al contesto dell’oggetto artistico.

Boetti ha studiato il valore simbolico del drappo processionale, ha studiato la realtà sociale e culturale di Gibellina, ne ha previsto le sue funzioni culturali e spirituali, producendo infine un oggetto linguisti-

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co familiare al suo bagaglio semantico e concettuale, ma attinente e immerso in una realtà ben precisa e geograficamente collocata.

Nel drappo si riconosce infatti il legame della Sicilia e di Gibellina non solo con le sorti italiane, visto che la sagoma della Sicilia rivendi-ca nei suoi colori un’identità nazionale, ma anche con il Mediterraneo e soprattutto con i paesi nordafricani. Le sagome dei delfini che attor-niano la coroncina azzurra, la striscia delle correnti che gira attorno alla Sicilia, sono il simbolo di quell’esperienza che si vive quando si arriva dal mare verso le coste siciliane. I cammelli sono il simbolo del viaggio, della resistenza ma anche l’animale del deserto e quindi di quelle terre come Tunisi, il Marocco e tutte quelle nazioni con cui an-cora oggi si hanno non solo rapporti commerciali ma anche relativi alle tradizioni e alla cultura.

Tra gli introvabili scritti e documenti sul Prisenti di Boetti riporto queste parole scritte da Fulvio Abbate: “Ha ritagliato nel raso le icone e le lettere da comporre poi sul “presente” per San Rocco, disponen-dole nel campo dell’arazzo troncato di rosso e di verde. Al centro, po-sta in verticale, la Sicilia quasi ruba all’Africa le sembianze. I delfini le tengono compagnia assieme a una carovana di cammelli e una gazzel-la che spicca il salto come marchio di chissà quale air line. Chi ha det-to che l’araldica ormai è scienza desueta? A guardar bene l’arazzo di Alighiero sembra proprio di no. Certo non serve a segnalare la testa di alcuna battaglia ma è utilissimo nel mobilitare lo stupore ludico della festa. Anche perché possiede tutto ciò che ogni persona, almeno una volta, ha sognato di travasare dalla propria fantasia sul rigore geometrico delle bandiere. Nel senso più immediato l’opera che Ali-ghiero ha realizzato a Gibellina è tutta qui. Assieme al piccolo bestia-rio – contrappunto figurale – passeggia o naviga di recente nei suoi rompicapi di artista, nelle sue mappe e in ogni altro quesito da lui po-sto ai codici del linguaggio.

L’arazzo, il “presente” – anche grazie all’aiuto delle ricamatrici gi-bellinesi – il 15 agosto del 1985 ha attraversato quasi ogni via della città, come stendardo che segna il compimento dell’evento ecceziona-le, così come in antropologia è definita la festa. Ma io, tra le possibili risonanze esistenziali, penso anche alle bandiere in cima a un edificio ancora fresco di calce. Luogo annuale della devozione religiosa il rito

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del “presente” in Sicilia è giunto attraverso la cultura dell’Islam, dove un drappo di tela verde copre le tombe dei suoi custodi. Ne ha avuto sentore Alighiero, decidendo così di capovolgere la forma dell’isola? È probabile.

Una volta ha scritto: “In quel mese le immagini erano milioni. Oggi forse qualche centinaio. Poi rimarrà solo questa copia sbiadita di un tempo coloratissimo”. Forse, fidando in questa profezia intellettuale, ha deciso che nel “presente” di San Rocco andasse coltivato il senti-mento di un tempo milionario di colori e destini”30.

L’opera di Boetti può essere considerata come testimone e simbolo di un confronto multirazziale, tra aspetti religiosi e politici del medi-terraneo e di una sembianza tradizionale come causa di una radicata esperienza di avvicendamenti storici e culturali; tutto in un contesto religioso che nei suoi propositi e riti va oltre il semplice luogo geogra-fico. Il “presente” come idea di una sacra realtà culturale, come ban-diera di libertà creativa e, quindi, di speranza.

Paladino e la scenografia per La Sposa di Messina

Gibellina diventa anche promotrice non solo di esperimenti di arte figurativa e di architettura, ma anche di importanti rappresentazioni teatrali, molte volte di aria sperimentale, (come le Orestea di Emilio Isgrò, da cui prenderanno il nome il festival teatrale e la fondazione di Corrao), interpellando importanti registi italiani e stranieri. Buona parte delle manifestazioni teatrali verranno rappresentate sulle su-perfici del Grande Cretto di Burri, come simbolo della drammaticità classica che continua ad avvicendarsi nei tempi nelle terre di Sicilia, come fenomeno del caos e delle forze mitiche, ma soprattutto come rinascita culturale collegata alla memoria del passato.

30 F. Abbate in, Alighiero e Boetti per San Rocco a Gibellina, 1985, ed. del Museo d’Arte Contemporanea, Gibellina, 1985.

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Nei vari testi teatrali rappresentati alle Orestiadi hanno partecipa-to anche inediti scenografi dell’arte figurativa come Arnaldo Pomodo-ro, nelle scenografie per La passione di Cleopatra di Ahmad Shawqi, Regia di Cherif nel 1989, nella Villa Eumènidi di Emilio Isgrò, da Eschilo, del 1983 con la regia di Filippo Crivelli, o la memorabile Agamènnuni, sempre di Isgrò, presentata nel 1983 e di cui uno degli elementi scenici (la ruota con le lettere geroglifiche dell’artista) è poi diventato un simbolo ridondante di Gibellina.

Tra le varie scenografie, quella di Mimmo Paladino è sicuramente l’opera che verrà individuata maggiormente in modo emblematico tanto da essere riproposta, anche senza il contesto dell’opera teatrale, ed esposta nel 1995 in Piazza Plebiscito a Napoli in occasione di una sua mostra.

Il linguaggio di Paladino usufruisce con disinvoltura di medium pittorici, grafici e scultorei, medium che l'artista riesce a fondere nei suoi progetti scenografici.

Un linguaggio che si oppone ad ogni interpretazione simbolica e narrativa: “Lo spazio è una circostanza non determinante. Le dimen-sioni di un tavolino possono esser sufficienti a provocare tensioni e strategie degne del più vasto affresco” Mimmo Paladino

Nel 1990 Gibellina diventa quindi la prima occasione di confronto con il teatro per Mimmo Paladino, che viene chiamato per la sceno-grafia de La sposa di Messina di Schiller per la regia di Elio De Capi-tani (rappresentata al festival Orestiadi); per questa occasione l’arti-sta realizza una scultura ambientata, una grande montagna di sale dalla quale emergono trenta forme di cavalli di legno, illuminata dalla luce naturale della luna, alle pendici della quale si svolge la maggior parte del dramma, mettendo in scena la compenetrazione tra scultura e testo teatrale in un giardino Zen.

Il modo diretto con cui Paldino espone i simboli primordiali, vividi nel paesaggio e nella cultura siciliana, si rafforza maggiormente espli-citando in modo eclatante una parte cruciale del testo teatrale de La Sposa di Messina:

“[…] E non si stende come pietà

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il sale a nascondere dei nostri corpil’orrore,e a ricordare la bellezza della battagliagli agili destrieri poggiati esommersi e sollevatineri del fuocodella battaglia e del terrorebruciati dall’ardoredei cavalierineri sui fianchibianchi della montagna.

Quanti eravamo,un attimo ancora,che inizia almenola battagliache non sia solofuoco e acquaincendio e gelo,foresta e lago,che non sia solofuga e paura.

Eppure noi già orasappiamo quel che non saremo,dopo la morte,che ora,vivi, vediamonascosti ad altri sguardiche noi non sapremo,non resta il fuocodella battaglianel suo recinto perfettoe nessun silenzionessun ammonimento,sulla tua giostra tragica

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torneremo a salire,sui tuoi cavalliaffaticati e stanchi,per affondare ancoranel nostro stessoannientamento,dove l’ammonimentodella bianca montagna

nessuno ti libereràdei tuoi cavalliimprigionatidi ghiaccioné il salecoprirà il grassofiato bestialedella morte. […]”.

La scenografia diventa quindi uno spazio in cui il testo interagisce continuamente, si esprime attraverso elementi diretti, concreti, anche se apparentemente simbolici, significanti di parole cruciali che rie-scono ad esprimersi in un linguaggio comprensibile a tutti.

La montagna si presta non solo ad una lettura allegorica, ma anche a rappresentare una memoria “infantile”: la tomba precoce di due ra-gazzi che, per dei cavalli arabi, hanno innestato una lotta fatale. Con-cepita per una notte di luna piena, la scena – scultura diviene l’ideale sfondo di una fiaba romantica, grazie alla figuratività ingenua, sem-plice, che riunisce in se una grafia elementare della natura (come ci ha abituati Paladino con la sua dialettica); ci appare come un imprati-cabile cocuzzolo centrale di un finto giardino zen.

La montagna di sale, come simbolo di morte o di conservazione della vita, in cui affondano o riemergono i cavalli neri, in un continuo gioco ambiguo tra vita e morte, si erge sulla collina della vecchia Gi-bellina, su quella città che deve la sua radice alla parola araba gibel, montagna. Ritorna così lo spirito del luogo, la contaminazione del contesto geografico, storico e culturale: la monagna di sale, emblema

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ricorrente nelle saline della vicina trapani, del biancore delle coste si-ciliane, nella calce delle architetture mediterranee, nella montagna contenuta nel nome della stessa Gibellina; i cavalli neri, il cavallo, simbolo arcaico della Sicilia, presente nella mitologia del mediterra-neo e simbolo della tradizione araba in Sicilia, e di nuovo il richiamo alla genesi araba del nome di Gibellina. Coincidenze storiche e cultu-rali, in operazioni che trovano di nuovo l’esclusiva a Gibellina.

Una scenografia – ambiente, una scultura a se stante, che diventa essa stessa dramma; tutta la terra circostante la scenografia, che per essere annerita viene bruciata, creando un ulteriore contrasto tra bianco e nero, contrasto esposto su più livelli (nel dramma, nella cul-tura siciliana, in una poetica più generale di vita e di morte), crea un ulteriore segno drammatico che si ricollega al concetto di aridità e di morte presente nel sale della montagna, ma che riconduce ulterior-mente al contesto del luogo, perché la terra arida e bruciata richiama le campagne estive siciliane.

La montagna di sale di Paladino si trova oggi installata nel Baglio Di Stefano, sede della Fondazione Orestiadi, sostituendo al sale il ce-mento bianco.

Insieme alla scultura-ambiente, Paladino realizzò anche numerosi esempi per il manifesto dell’opera teatrale31, anch’essi esposti nel Granaio, struttura che accoglie la maggior parte della collezione Cor-rao, della Fondazione Orestiadi.

Ancora oggi la Fondazione Orestiadi combina importanti espri-menti di interazione tra le diverse arti, cercando di coinvolgere il pubblico in un’esperienza multiculturale, non solo come spettatori, ma anche nelle operazioni di costruzione, allestimento e interpreta-zione stessa; in molte rappresentazioni teatrali infatti, vengono coin-volti preferibilmente gli abitanti di Gibellina, dai bambini agli adulti, facendo vivere in prima persona l’esperienza culturale e sociale del-l’arte, facendo respirare e declamare dal basso, dalle fondamenta del-la città, che è la popolazione, l’idea di Gibellina, l’utopia della cultura.

31 Nel link, i manifesti si Paladino si trovano alla pagina 6 / 10.

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V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina

V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina

1972Chiesa Madre di Ludovico Quaroni e Luisa Anversa, Municipio

di Alberto Samonà, Giuseppe Samonà e Vittorio Gregotti.

1974Senza Titolo di Giuseppe Spagnulo.

1976Meeting, cimitero, di Pietro Consagra.

1978Tracce antropomorfe di Nanda Vigo.

1979Museo civico d’arte contemporanea, Tensioni di Salvatore

Messina, La freccia indica l’ombra di una freccia di Emilio Isgrò, Ritmi spaziali di Carmelo Cappello, Impronta di Turi Sime-ti, Senza titolo di Mirko, Chiesa di Gesù e Maria e centro so-ciale di Nanda Vigo.

1980Senza titolo di Moncada, Casa del farmacista di Franco Purini

e Laura Thermes, Tavolo dell’alleanza Igino Legnaghi, Per Gibel-lina di Mauro Staccioli, Il grande Cretto di Alberto Burri.

1981Casa Di Stefano e il suo progetto di recupero effettuato da Mar-

cella Aprile, Roberto Collovà e Teresa la Rocca, La Stella-ingresso al Belice di Consagra, Palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia, Progetto per il centro di Gibellina di Oswald Mathias Ungers.

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V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina

1982Il Sistema delle piazze di franco Purini e Laura Thermes, Fre-

quenza d’onde di Carlo Ciussi.

1983Labirinto di Nino Franchina, Contrappunto di Fausto Melotti.

1984Teatro Consagra, Sequenze di Fausto Melotti.

1985Giardino Segreto 1 di Francesco Venezia.

1986 Fontana di Cascella, Aratro di Arnaldo Pomodoro, Sacrario ai

caduti di Giuseppe Uncini.

1987 Una piazza per Gibellina e Doppia spirale di Paolo Schiavo-

campo, Ellittica e Meridiana di Ettore Colla, Omaggio a Tom-maso campanella di Mimmo Rotella, Torre Civica di Alessandro Mendini.

1988De Oedipus Rex-la città di Tebe di Consagra, Tris di Consa-

gra.

1989Senza Titolo di Carla Accardi, Il tempo del sole di Mimmo di

Cesare.

1990Grande Area 85 di Marcello De Filippo, Casa Pirrello di Fran-

co Purini e Laura Thermes, Senza Titolo di Milton Machado.

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V. Elenco dei progetti artistici a Gibellina

1991Completamento del centro città di Pierluigi Nicolin con Giu-

seppe Marinoni.

1992Giardino segreto 2 di Francesco Venezia con opere di Mimmo

Rotella e Daniel Spoerri, L’Infinito della memoria di Costas Varo-tsos, Scultura sdraiata di Salvatore Cuschera, Montagna di sale di Mimmo Paladino.

1996Portale di ingresso all’Orto Botanico di Consagra, Qalat-le

rotte del cielo Medhat Shafik.

2001Lo spazio della parola di Marco Nereo Rotelli.

2002Meteoriti della memoria di Alfonso Leto.

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VI. Dialogo con Ludovico Corrao

VI. Dialogo con Ludovico Corrao

Il seguente testo riporta la trascrizione del dialogo avvenuto tra l'autore e il Senatore Ludovico Corrao alla Fondazione Orestiadi, du-rante il mio soggiorno di studio a Gibellina, nel mese di Settembre 2009.

Robustelli: Cos’è Gibellina?

Corrao: A Gibellina esiste l’unico esempio in Italia in cui l’arte contemporanea si confronta con la società. Mentre altrove, fra le ope-re nei musei si svolge un rapporto istituzionale, qui partecipa diretta-mente, perché (l'artista) non manda il quadro e noi lo “mettiamo”... no, lo fa qui, lo realizza qui, ascoltando sentendo, passo per passo, della terra, delle persone, gli umori, il teatro…

R.: Infatti una cosa straordinaria era il concetto (ne parlavo prima con la guida all’interno del “Granaio”), come per esempio l’opera di Alighiero Boetti (Corrao: Esatto!) sia assolutamente immersa in una funzionalità storica, culturale, spirituale, così come Pomodoro per il teatro; cioè, non sono soltanto opere importanti dal punto di vista concettuale, ma proprio (a me piace usare la parola funzionalità, in quanto un oggetto che serva semplicemente a qualcosa) un qualcosa che non si conclude nell’autoreferenzialità.

C: L’arte non è decorativa qui, è inquietante e inquieta essa stessa, come inquieto il mondo in cui quest’arte si è sviluppata in quel perio-do, nel ’68. Una frase molto bella di Consagra dice: “…l’arte non di-mentica a Gibellina il diritto a fantasticare…”, quindi l’arte, l’utopia diciamo, va oltre il pretesto dell’uso immediato, del manufatto... ha una carica, una spinta progettuale che può essere fantastica, utopica, emotiva o emozionale, per cui se parti dal presupposto che l’uomo ha bisogno anche di questo aspetto il ruolo dell’arte diventa “altro”, che è questa spinta. Ma l’arte oggi cosa è?

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R: Esattamente, questo è un nodo importantissimo…

C: Fra l’altro oggi può essere un prodotto del mercato o un genera-tore di mercato…

R: Ricordo di aver parlato tempo fa a riguardo con alcuni colleghi del mondo accademico su alcuni aspetti dell’arte contemporanea, come quello del mercato e quindi delle gallerie e del loro stretto rap-porto con gli artisti, o sul “tipo” di committenza; ad esempio si diceva se esistono ancora chiese che deleghino agli artisti la realizzazione di pale d’altare che poi serviranno alla pratica votiva dei fedeli, piuttosto che amministrazioni che commissionano opere contestuali alle strut-ture urbanistiche di una città. Si veniva a capo che oggi è moto diffici-le per un artista immedesimarsi in ulteriori linguaggi che possano es-sere contestuali ad un tipo di funzionalità ben precisa o estranea co-munque agli ambienti che ospitano normalmente le sue creazioni. Qui invece è successo e continua a succedere…

C: …fino all’altro ieri, che abbiamo fatto una processione, nel vec-chio centro della città, portando in giro una Madonna di cartapesta, con le tecniche antiche dei paesi poveri, che non avevano il bronzo perché costava molto; oggi invece credo che costi di più la cartapesta, perché il processo di lavorazione è così complicato e i costi sono così alti (perché prima la creta, poi il gesso, la carta…due mesi di lavoro!) per creare quella madonnina con quel bambino, che uno dice con l’artista “portala in fonderia e con centomila euro hai risolto tutto”…ma per dire, no? (ridacchiando sul paradosso)

C’è questa commistione, per cui l’arte non è che servita alla religio-ne, o alla religiosità del popolo, no? Ma il popolo ha bisogno di sim-boli alti, e allora l’artista si presta (“si presta” è un termine usurato…), SEGUE questa spinta che viene dall’animo popolare di avere un’utopia, di avere un mito, di avere qualcosa, no? È come le edicole votive sacre, che ci sono lungo le strade di campagna, che già furono portate dai Fenici… queste cose, poi riprese dai Romani, e poi riprese dai Cristiani… si capisce… come cappelle votive nelle strade,

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che noi ripiglieremo qui, dove, appunto, è l’artista contemporaneo che ricrea questa tradizione e si riallaccia a qualche motivo profondo di cui la gente sente il bisogno nel cammino, che non è soltanto il cammino della fede ma il cammino della vita, verso un destino che non sai qual è, è quindi avere ogni tanto un punto di appoggio, di luce, di riflessione, dove accendi una candela che ti sostiene per il re-sto del viaggio... di cui poi resta misterioso comunque sempre il fine, come il fine della vita. Questo è molto importante.

R: Assolutamente…

C: E, ripeto, l’entusiasmo degli artisti chiamati, non è in coesione con principi estetici o principi di corrente qua, no! Qua, ecco, se vo-gliamo creare… un concetto… di selezione, il concetto è quello della solidarietà, e quindi dell’artista impegnato nella solidarietà verso una popolazione che vuole risorgere e verso una città che deve essere ri-fondata con “un ordine nuovo”. In una zona dove, non essendoci pro-prio… nulla, perché erano terre salmastre queste (la chiamavano Sali-nella…e non produceva pure nulla)… si andava a fondare una città, quindi senza storia, senza memoria, senza null’altro che il bisogno di avere un tetto e avere un lavoro. Un passaggio così profondo, che la-scia un vuoto e ancora si sente indubbiamente, doveva comportare una stratificazione storica che vi era in ogni città per il passare dei se-coli. Quindi l’arte doveva assumere la funzione della stratificazione della memoria storica, e non c’era altro strumento per ricreare, dicia-mo, lo spirito di una città, che non poteva essere affidato solo al co-struttore o all’architetto, ben poca cosa... troppo facile fare delle “case”, dare un tetto alla gente senza casa.

L’artista quindi, chiamato da un appello, di Sciascia, mio, e di altri intellettuali, come Carlo Levi, Zevi, Damiano Damiani, e altri, (R: che lista… !), viene a cogliere l’invito; così si spiega anche un’attrazione direi quasi “magnetica” di tanti artisti che non avevano certo bisogno di Gibellina per diventare celebri, no? E che sapevano che per tutto quello che realizzavano qui, non è che davano forza al loro mercato! Per nulla! È tutto fuori scala (ridacchia), non è che venivano con i loro quadretti che poi andavano a vendere, con il loro gallerista che li

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sosteneva! Impegnavano tutto se stesso, tutta la loro forza, tutta la loro visione del mondo, e tutte le loro inquietudini, e tutte le loro do-mande, non dando una risposta ma lasciando libera la risposta.

E quindi la selezione era di questo tipo: viene Beuys e viene facil-mente (tutti dicevano è impossibile che Beuys venga!); viene Burri e tutti dicevano: “È impossibile, un uomo così burbero, così alieno, così distaccato…tu sei pazzo a dirgli di venire”… non ho avuto il tempo di dirglielo che si è precipitato!

R: li ha invitati Lei?

C: Beh sì! Poi mi sono rivolto ad alcuni di loro e molti, i più impor-tanti, mi hanno risposto in senso positivo. Altri invece cercavano l’af-faruzzo, come Emilio Vedova, per essere chiari no? Che voleva cento milioni…“No guardi, non è il nostro caso”, dico, “Ma io…”, “Ma lei è importantissimo, per carità, non lo metto in dubbio, ma io non devo comprare le sue opere, quindi… non mi interessa; se lei vuole parteci-pare… cioè a dire purché lei non si senta escluso…”.

E pur partendo io da una mia posizione politica legata alla sinistra, diciamo (e quindi anche Guttuso che fece quel grande gruppo), mi feci forte delle ragioni del rinnovamento anche dell’arte sia pure in senso marxista sociale, ma di libertà; quindi si formò un gruppo pre-valente. A parte che tanti di questi artisti erano siciliani: da Carla Ac-cardi a Pietro Consagra, al marito di Carla, Partanna, molti altri, come lo stesso Turcato, che era solidale con tutti questi, Schifano che era figlio di tradizioni siciliane, perché suo padre era di Trapani, e lui seguì il padre in Libia come restauratore (il padre era restauratore e lui da bambino seguiva queste cose…), quindi conosceva la Sicilia… dunque il richiamo ha agito sulla loro psiche anzitutto, e sul loro bi-sogno di mostrare un punto di “funzione” dell’arte, al di là dei bla bla, di tutte le storie, le discussioni. Quindi non l’arte per l’arte, per se stessa, ma l’arte come espressione di un sogno, appunto come diceva Consagra: “Perché a Torino si possono fare i monumenti con i Re a cavallo e in Sicilia non può venire nemmeno un pelo di quel cavallo, per cui si grida subito allo scandalo perché ai contadini dai un pelo del cavallo di Umberto o di Vittorio Emanuele?”

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Ed è uno scandalo qua in Sicilia! Una negazione della tradizione… tutt'altro! Questa non era solo una terra desolata, era abbattuta da mille sentimenti di disperazione e povertà, ma era anche una terra su cui erano passate, e quindi nella memoria radicate, civiltà diverse del mondo: dagli Elimi, che si trovavano proprio in questa collina qui di fronte (ancora non hanno fatto delle ricerche archeologiche vere, ma in campagna si notano pezzi di terrecotte, di vasi… noi nel museo ne abbiamo una piccola raccolta), e quindi dagli Elimi, che sono gli ante-signani dei troiani venuti dopo la disfatta di Troia (torna sempre que-sto legame con la “disgrazia” della guerra, non solo del terremoto), quindi Enea che poi fonda Erice, che co-fonda Segesta, dove già c’era-no delle colonie di indoeuropei chiamati Elimi che già si erano inse-diati qua, prima ancora dei greci, in tutta questa fascia: una storia complessa.

Non è una storia di una città, di una identità legata a un periodo, periodo che è soltanto una parentesi di tutti i millenni, a cominciare dal periodo storico della feudalità, dei Naselli, dei Conti di Modica, di tanti altri…no? Quello fu un periodo in cui gli Spagnoli dettero la ter-ra su cui bonificare. Ma era un popolo nomade esso stesso, appunto perché erano nient'altro che gli Elimi giunti qua, poi gli arabi che si erano insediati (il nome stesso della città è arabo: gebel, che significa “collina”), per cui c’è un avvicendamento tale di culture che non può non lasciare segmenti.

E noi l’abbiamo visto, provato e sentito questo avvicendamento, quando abbiamo rappresentato l’Orestea di Serakis, in greco classico antico: la gente era emozionata come se capisse le parole, perché nel loro inconscio riaffioravano questi ritmi affidati alla parola, ma più che la parola erano i ritmi; lo stesso con le Troiane, fatte da quel grande regista poi morto giovanissimo, Thierry Salmon, fatte in gre-co. La gente piangeva e si commuoveva come se fosse la lingua di oggi! Poi la stessa Orestea di Emilio Isgrò, in parte tradotta in sicilia-no… è andato a trovare tutti i detti, i modi di figurare e di parlare de-gli antichi greci ancora vivi nel linguaggio comune della gente, come, che so, il proverbio “Lu voi nun poti parlari”, che dichiara proprio una lingua nostra, e proviene da Eschilo questa cosa, no? E in sicilia-

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no esiste proprio il proverbio che dice questo. Tanto è vero che Eschi-lo è sepolto proprio qua, in Sicilia, a due passi (a Gela).

Quindi non è che noi abbiamo rotto chissà quale incantesimo o ab-biamo sradicato una civiltà per imporre l’arte contemporanea: l’arte si è sempre imposta da sé, è nel contemporaneo; perché anche l’arte barocca delle chiese povere di questa nostra zona, evidentemente, che cosa rifletteva? Rifletteva un’ideologia, mentre l’arte di oggi non ri-flette nessuna ideologia! È frantumata in qualche modo come è fran-tumata la società. Mentre il potere unico fa risorgere Noto, la Val di Noto e quindi tutto il Ragusano, ma è un potere unico, oggi il potere unico viene contestato, non c’è più, e quindi c’è la molteplicità dei lin-guaggi, la confusione, la babele dei linguaggi. Allora quando mi dico-no a Gibellina: “non si capisce perché non c’è armonia”… ma che ar-monia vai cercando? È la società che si esprime in modo non armoni-co, l’inquietitudine è essa stessa bellezza e in qualche modo creatrice o precorritrice di una nuova armonia. Questo è il punto fondamenta-le!

Scialoja, che viene qui chiamato a fare i teatro con i bambini, dise-gna i costumi, fa il Ratto di Proserpina, e così via, sempre una ricerca dei miti del Mediterraneo che erano profondamente radicati con un linguaggio comprensibile anche oggi: perché non fai la finzione della lingua antica di Siracusa? Perché è una finzione, perché non corri-sponde più al rapporto tra il teatro e le persone, vive come l’opera delle marionette in Sicilia… oggi è un fatto turistico, mentre prima era un fatto che accalorava la gente, tant’è che in certi teatrini del no-stro paese il Gano di Maganza veniva “sparato” perché tradiva, si im-medesimavano tanto si entusiasmavano… E allora è inutile che oggi si proponga il greco classico più o meno rivisitato (gesticola come a imitare pose tragiche del teatro greco)… ma che cazzo dici? Bisogna tentare questa via rischiosa, pericolosa per quanto si voglia, della continuità “dinamica”, ecco! Non una continuità statica! Un dinami-smo che portato al cambiamento dei fatti, della storia, della società. L’identità di un popolo è una somma di caratteri che si sono andati accumulando, di esperienze che si sono andate accumulando; in que-sto senso l’arte contemporanea è la più adatta, è la più proficua per creare, per fare emergere il cuore delle persone.

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VI. Dialogo con Ludovico Corrao

R: Il modo e le parole che ha usato per descrivere i suoi intenti, ri-specchiano Gibellina, questa concezione…

C: Certo, anche se non tutti i cinquemila abitanti di Gibellina pos-sono essere naturalmente al “di dentro” di tutto il movimento, però come sempre ci sono delle avanguardie, ma qui c’è stato invece un movimento “popolare”, nel senso della costruzione, perché? Per dire, Gibellina era un paese di contadini e poveri culturalmente anche nel-la coltivazione perché al di là del grano, del maggese, non c’era nien-te. Quindi non c’era il vigneto, non c’erano ulivi… nulla! Erano sol-tanto dei poveri… sciagurati, sfruttati indegnamente. Ebbene, questi contadini, attraverso questo stimolo di energia, si trasformano in braccianti edili e costruiscono le loro case, nonostante nessuno abbia mai fatto il muratore, e con la presenza degli artisti diventano artigia-ni: tutte le opere che voi vedete sono realizzate da artigiani locali, con materiali della Sicilia evidentemente, come l’opera di Unicini con la pietra lavica di Catania, o l’opera di Consagra con il travertino di Al-camo, o le altre opere con il tufo delle zone qua vicine, di Mazara, di Burgio, e così via.

Quindi c’è stato un rimpasto e naturalmente una trasformazione antropologica, che non è dettata dalla notte al giorno, ha i suoi tempi di maturazione, di appropriazione che va venendo lentamente, anche inconsapevolmente, su cui oggi si innescano anche i fenomeni econo-mici… non dimentichiamolo! Perché se a Gibellina, dove non c’era nessuna attività economica, sorgono tre o quattro cantine di grande valore e di grande capacità di esportazione ad altissimi livelli, tant’è che uno ha voluto la nostra sigla “Orestiadi” e fare il vino Orestiadi e vende… benissimo, sono tre aziende di vino fantastiche… c’è un’a-zienda che fa formaggi ed esporta in tutto il mondo, compresa l’Ame-rica, c’è un’azienda che fa dolci ed esporta in tutto il mondo con gran-de successo;,c’è una fattoria zootecnica, un allevamento di più di qua-rantamila suini, che era impensabile prima! C’è una zona artigiana, e un artigianato prima non esisteva.

Noi abbiamo costruito con il progetto di Hungers, e qui la funzione dell’architettura moderna, questo stile di capannoni per cui al di là

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della grossa confusione che c’è nelle altre periferie, ognuno fa il ca-pannone a uso suo, noi abbiamo dato degli spazi necessari ma con un ordine pre-designato ma lasciando all’interno grande libertà di muo-versi ognuno come vuole; nasce qui una cooperativa di ceramisti; na-sce una cooperativa fondata da donne, di ricamatrici che basano i de-cori sui disegni dei grandi maestri, tra cui anche il lavoro di Boetti, ma anche tutti gli altri drappi che riprendono l’antica tradizione ara-ba, quando in processione andavano alla Mecca, portando un drappo ricamato, da mettere sulla pietra nera della tomba, e quindi si porta-vano appresso al santo questi drappi (prisenti) sui cavalli, dalla gio-ventù più bella maschile e femminile della città, e sfilavano con que-ste cose e il Santo dietro. Ecco come l’arte reinterpreta questi senti-menti, dà loro respiro, futuro, sostegno in qualche modo; naturalmente tutto questo collide con quelli che del mondo contadino hanno una visione statica, per controllarlo, per dominarlo, e da ciò deriva il grande attacco violento che fu fatto da alcuni dirigenti politi-ci dell’opposizione, nell’amministrazione di allora, con dei manifesti: “LA FOLLIA DELIRANTE DI CORRAO”, capisci! Oggi però sono tutti orgogliosi!

Devo dire una cosa, e cioè che la popolazione comprese profonda-mente: infatti quando Burri, dopo tante situazioni (perché lui aveva un pudore, era scontroso), finì col dirmi quello che voleva fare, ebbi un attimo di terrore. Lui mi disse: “Che fa, non le piace l’idea?”, “No, no, no, io già la vedo! Solo che ho un problema grosso, anzi due pro-blemi grossi davanti: il primo, di capire nel sentimento della gente come viene accolta ‘sta cosa; il secondo, è della entità finanziaria del-l’intervento, perché mica è una cosa da poco”! Lui come tutti gli arti-sti: “Ma no! Ma lì bastano qualche volontario, un po’ di cemento, (R: un po’ di cemento!!!), e poi non bisogna fare delle cose di chissà quale entità! Come nelle strade no? Come nelle zone dove c’è il rischio di frane, con queste reti di metallo che tengono e poi sopra passarci un po’ di calce…”, è ‘na parola (ride)! E poi siamo andati insieme con lui dall’architetto, che ci ha aiutato a costruire qualcosa che corrispon-desse al suo desiderio, al suo bisogno. E ripeto una lotta che era seco-lare qui a Gibellina, una lotta per la conquista della terra; quindi non fu un azzardo quello di passare dalla vecchia città nella nuova zona,

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perché nella nuova zona c’erano stati già insediamenti di diverse de-cine di famiglie per la l’azione della riforma agraria degli anni Cin-quanta, dove furono costruiti i borghi rurali.

Dunque c’era già un inserimento, era naturale che la gente si spo-stasse qui. Ché la città nasce per qualche ragione, e la ragione innan-zitutto è il lavoro, perché dove c’è il lavoro c’è la tua città; ma se il tuo lavoro è qui e non è nelle montagne, dove non c’è niente da coltivare… ? L’ottanta per cento della proprietà è nella vallata, nel vecchio paese non si trovava neanche il venti per cento dell’agricoltu-ra diciamo, al massimo l’agricoltura da pascolo, non quella produtti-va evidentemente. Affrontare anche, nella scelta di tutta la zona, il problema dell’insediamento preciso, ponendo come obiettivo la di-struzione del feudo; qui siamo nella zona del feudo dei baroni De Ste-fano, che a loro volta erano scomparsi per via dei sistemi nuovi e per via soprattutto della classica azione della mafia, che era stata la spalla come custode fedele del sistema feudale, ma che poi se ne era impos-sessata e poi aveva levato tutto.

Quindi questa era diventata proprietà dei Salvo Corleo di Salemi. Allora la battaglia della ricostruzione si innesta su una causa di inizio principalmente; anche perché l’ottanta percento di proprietà delle case di Gibellina, i genitori le intestavano alle figlie e non agli uomini. Agli uomini davano il carretto e il mulo, quando l’avevano, ma alla donna la casa. Quindi il motore della ricostruzione, della rifondazione della città, la mia forza per realizzare il progetto sono state le donne. Avevano l’interesse di rifarsi una casa loro, di tornare ad essere le proprietarie della casa. È un po’ la concezione africana: il marito ser-ve per fare i figli alla fine, poi se ne può anche andare… hai capito… ma la casa è mia! Quindi in queste battaglie ho avuto le donne in pri-ma fila; c’era il movimento socialista, ma innescò anche il movimento dei cattolici popolari di Sturzo, dell’immediato dopo guerra del ’18, e il prete per, evidentemente, per murare e contrapporsi ai socialisti, fondò il movimento delle cooperative cattoliche per occupare con lui i feudi. E ci riuscì, ma ci riuscì a spese della pelle! Perché lo ammazza-rono per la strada, l’arciprete della città, e ti parlo di un popolo defi-nito ultra religioso!

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R: Quando gli artisti iniziarono ad operare, ai loro progetti, la gen-te come rispondeva?

C: Beh intanto c’è il classico stato d’animo di grande ospitalità del-la gente, verso lo straniero o comunque verso l’altro che viene, e poi perché vi era stato tutto il movimento dei giovani volontari, che ave-vano aiutato la gente qui, dall’indomani del terremoto. Che avevano fatto i graffiti nelle baracche, col gruppo degli uccelli di Roma, degli architetti che avevano costruito la casa del popolo dipingendo tutte le scene delle lotte dei fasci siciliani… gli spettacoli teatrali fatti da Da-rio Fo qui, nelle baracche, o la mostra di Consagra sulla città frontale fatta nelle baracche, dove ogni sera si discuteva di questi progetti, della città sognata, della terra promessa in definitiva. Quattordici anni di vita… chiamiamola vita, nelle baracche, quattordici anni di lotte, di maturazione e di approfondimento di idee per i concetti di come doveva essere la città.

R: Aveva pure lei casa nella vecchia Gibellina?

C: Mai! Io non ho avuto nulla, io non possiedo nulla! A tutti dice-vo: “Io in qualsiasi momento non ho neanche bisogno di fare una va-ligia, non ho niente qua…”.

R: Ha iniziato a fare il sindaco in un momento complicatissimo (C: non ne parliamo), tutto in salita no?

C: … senza mezzi, perché amministrava tutto lo stato, quindi an-che quando si parla di “errori”. E vabbé, mi potrei associare anche io alla critica degli errori, ma i piani chi li faceva? I comuni non avevano nemmeno il potere di rilasciare le licenze di edilizia normale; tutto nelle mani dell’ispettorato delle zone terremotate: sia i piani di trasfe-rimento, sia i piani cosiddetti di fabbricazione, che corrispondevano un po’ ai piani regolatori, sia tutte le altre attività, come la costruzio-ne delle scuole… tutti con tecnici organizzati dall’ispettorato delle zone terremotate (che poi affidarono il compito all’ISESS). Come sor-ge Gibellina diversamente dagli altri paesi? Per il semplice motivo

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VI. Dialogo con Ludovico Corrao

che il discorso era sempre lo stesso: “Se avete qualche ingegnere da raccomandare…”, “Io non ne conosco e anche quando, mi rifiuto; fa schifo questa domanda che voi mi fate, ma che discorsi sono?”.

Intanto quale competenza si poteva avere? A parte io che, bene o male, ero “semi-analfabeta”, tutti gli altri sindaci che preparazione avevano? Alcuni erano stati eletti contadini, perché conosciuti dal partito… come puoi pretendere che questi diano una qualsiasi opi-nion su un progetto edilizio… allora dico, se dovete fare delle scelte architettoniche, urbanistiche o altro, affidatevi alla sapienza dell’e-spressione del mondo contemporaneo, di tutto ciò che il mondo con-temporaneo esprime, del rinnovamento nell’architettura e nell’urba-nistica. Quindi i nomi di Quaroni, di Samonà, abbiamo invitato Vigo, Hungers e tutte le università di tutta Europa, con i loro studenti ve-nuti qua per un mese, a studiare come modificare i piani proposti. È chiaro che è sorta una contraddizione tra una forma di piano e quello che poi è avvenuto successivamente, ma non potevamo pensare di ab-battere tutto quello che aveva fatto l’ISESS e ricostruire dopo un se-condo terremoto a Gibellina. Quindi abbiamo scelto la via della modi-fica, lenta, profonda, che avviasse il processo. Del resto una città non si crea in dieci anni, quindici… queste critiche mi fanno ridere insom-ma…

R: Però magari c’era il rischio che tutta la popolazione di Gibellina si “perdesse” in comuni vicini.

C: E c’è stato! Infatti la cosa più difficile era richiamare tutti questi “dispersi”. Perché non avevano avuto nessuna guida dove andare. Vennero fatte delle tendopoli, prima fatte dall’esercito poi dai carabi-nieri, anche nei paesi vicini; quindi gente sparpagliata a Castelvetra-no, Campobello, Mazara… con tende terrificanti. Il problema più grosso era dare fiducia alla gente che poteva trovare nel terremoto l’occasione di scappare per sempre e non tornare più. Quindi invo-gliarli a ritornare, cioè a farsi forza con la tenacia propria del contadi-no siciliano.

Io ricordo la prima festa del primo maggio celebrata lì, sulle rovine di Gibellina, che li richiamò tutti e li impegnò tutti a riprendere la

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vita lì. Questi sono i fatti che mi interessano di più; poi la critica al-l’architetto, “questo non mi piace”… la rifondazione di una città è una cosa così complessa che non può essere affidata agli architetti bravi-ni…

R: Quando gli artisti iniziarono a realizzare le loro opere, che opi-nione aveva la politica del momento?

C: La politica del momento come maggioranza era nelle nostre mani. Per quindici anni sono stato sindaco io. Ma anche l’opposizione era minima. La popolazione era però tutta coinvolta; nei grandi spet-tacoli teatrali c’erano più di seicento cittadini di Gibellina che faceva-no parte del teatro: le costumiste, le bande musicali, gli artigiani… è nata una categoria di artigiani che hanno ripetuto l’esempio mirabile delle officine artigiane del Rinascimento italiano, quando l’artista e l’artigiano realizzavano insieme l’opera e comunicavano; infatti stia-mo realizzando una pubblicazione, spero di averla a gennaio, sul rap-porto tra artisti e artigiani locali.

R: Questa è una cosa molto interessante!

C: Perché c’è stata una scuola… molto importante. Poi il resto è riuscito o non è riuscito, si può criticare, per carità di Dio, ma io non sono interamente soddisfatto di quello che c’è. Non sono soddisfatto perché soprattutto il progetto non è ancora completo! Dopo quaranta anni, come voi vedete, il centro sociale è in aria… questo di Consagra è bellissimo perché unisce la vecchia città con la nuova, fa da ponte, col Sistema delle piazze di Purini, con la chiesa di Quaroni (la chiesa di Quaroni finalmente ad Ottobre l’avremo in consegna, ma adesso il problema è come arredarla dentro con lo stile di come si commenta).

R: Chiamerete giustamente artisti contemporanei per allestire la chiesa di Quaroni?

C: Certo! Ma anche, per dire, la Via Crucis, e ne abbiamo parlato col Vescovo che fortunatamente è d’accordo, un Vescovo intelligente,

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non è che ci saranno i quattordici quadretti dove la gente si inginoc-chiava e passava da una stazione all’altra, ma facciamo un grande trittico dove si mettono i simboli della Via Crucis e lì tu hai la memo-ria, i ricordi un fatto, diciamo, visivo. Il problema della religione è l’invisibile, che sia visibile all’animo.

R: Ma anche perché l’arte contemporanea, rispecchiando un tem-po e uno spazio nostro, deve avere un linguaggio che lo rappresenta.

C: Con tutti gli errori e gli orrori dell’arte contemporanea! Questo è il tempo (batte le mani), cosa vuoi? Sbagliato o giusto che sia, archi-tettura, arte eccetera, è il prodotto della nostra società… l’incertezza, della crisi, dei fallimenti, della politica, del ’68… tutto! E però qualco-sa è rimasto! E poi germinano le cose, lentamente.

R: Di cosa non è rimasto esattamente soddisfatto?

C: Ma anzitutto la mancanza di previsione da parte dello stato del sistema idrico: come fai a pensare di ricostruire quattordici paesi sen-za pensare alla dotazione dell’acqua?

R: Davvero?

C: Tutti senz’acqua!

R: Ma quindi vengono le autobotti a rifornire di acqua gli abitanti?

C: No, c’è la diga, poi si rompono le tubature e l’acqua si perde nel tragitto, poi non piove e l’acqua non è sufficiente… una cosa indegna, primo! Secondo: la mancanza di un progetto, quello sì di vera rifor-ma, di vera rivoluzione, della scuola. In questi paesi al di là della scuola media non c’è niente; poi devi andare a Castelvetrano o a Sale-mi per studiare agli istituti di perito aziendale, come se qua fosse pie-no di aziende. Quindi ai ragazzi questo titolo serve da posteggio, e ba-sta! I più bravi hanno infatti scelto la via dell’università, con facoltà

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anche molto impegnative (scienze biologiche), ragazzi veramente con uno stimolo dentro che si è espresso in mille modi diversi.

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Conclusione

Conclusione

Gibellina adesso è una realtà, esiste nelle sue strutture architetto-niche e nelle sue numerose opere d’arte contemporanea. È uno spazio che si è avviato con tutte le sue problematiche di tipo etico e cultura-le. Gibellina è nata da un pensiero utopico, dall’idea di volere a tutti i costi un riscatto storico da parte della popolazione. Con il terremoto si è perso tutto, le case, la storia, la memoria, abbandonando un’inte-ra comunità a un destino comune, come la conurbazione con altri piccoli comuni limitrofi, o la semplice riedificazione di un piccolo centro di case popolari. Gibellina, grazie alle tanto criticate iniziative di Corrao e degli intellettuali accorsi alla sua idea, è adesso un centro in cui discutere, su cui confrontarsi. Non ha una storia antecedente alla sua creazione, ma ha un’idea da sviluppare, un concetto da porta-re avanti, soprattutto dalle generazioni future. Così come le sculture e le architetture hanno creato situazioni concettuali, spaziali e cultura-li, per aprire piste verso ulteriori sviluppi, non solo urbanistici, così l’aria che si respira a Gibellina suscita un’inconscia voglia di fare, di dialogare con quegli spazi che aspettano un confronto, o almeno una riflessione.

Gibellina non è uno spazio passivo. Semmai è un centro che aspet-ta la stessa voglia di fare degli intellettuali: è una città che accoglie la cultura e tute le sue sperimentazioni, a prescindere dal mercato e dal-le convenzioni a sua volta consequenziali. Gibellina rispecchia non solo lo stato culturale di un determinato periodo storico, quello che ne costituì, a partire dalla fine degli anni Settanta fino a buona parte degli anni Novanta, il centro urbano, ma anche l’attuale e continuo avvicendamento dei fenomeni culturali contemporanei, sociali e poli-tici.

Criticare Gibellina vuol dire non capire le dinamiche che hanno portato alla sua nascita, al suo sviluppo; significa non tener conto dei possibili destini a cui vanno incontro simili situazioni disastrose, pensando poi che le amministrazioni avrebbero potuto tenere d’oc-

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Conclusione

chio il coinvolgimento di grandi interpreti della cultura contempora-nea. A Gibellina è avvenuto questo: un sindaco che nel nulla ha prefe-rito creare qualcosa, che facesse discutere, ma auspicando dialoghi più costruttivi e meno rivolti a pesanti critiche sull’utopia o su altri discorsi di uguale estrazione teorica.

Gibellina è il simbolo dell’utopia, negli intenti e nella sua pianifica-zione urbana e culturale, ma è diventata qualcosa di tangibile, di pos-sibile. Un fenomeno culturale unico, che ha portato alla realizzazione di importanti esiti artistici, inusuali e irripetibili. Non è criticabile lo spirito di Ludovico Corrao che al di là degli ideali etici, di esaltazione della cultura e del genio contemporaneo, ha sicuramente creato i pre-supposti per una potenziale attività economica, rivolta al turismo e alla promozione. Gli stessi abitanti si sono affacciati sulle nuove real-tà imprenditoriali, buttandosi su nuove possibilità lavorative che non fossero strettamente riconnesse all’agricoltura.

Ma allora questa perfezione di Gibellina con questo suo aspetto così gioioso della cultura e della sperimentazione felice, perché non si riscontra? Perché riesce a dare adito alla critica più feroce nei con-fronti dell’utopia, dello spreco, degli equivoci etici e morali? Perché quando si entra Gibellina si viene colpiti da un sentimento di strania-mento, di inquietudine? Perché aleggia nella città un presentimento quasi “mafiogeno” come ipotesi deduttiva sull’operato, conseguenza di pesanti luoghi comuni che affiorano in modo fastidiosamente scontato (solo perché il tutto è avvenuto in Sicilia)?

Le risposte sono molte, e complesse, come del resto rispecchiano nella loro complessità la non facile impresa di ricostruire una città (cosa che non accade tutti i giorni). Penso che sia giusto analizzare ogni intervento a Gibellina in modo approfondito, analitico, cercando di sentirne la storia e le motivazioni, evitando di aggredire l’intero paesaggio della città afferrandolo in un unico discorso critico, come pluri-risultato di un unico farneticamento concettuale. A Gibellina è avvenuto proprio il contrario: è il risultato unico, la conseguenza di un insieme di idee e concetti espressi da più intellettuali. Grazie alle varie storie artistiche, ai vari linguaggi espressi nella città, Gibellina appare come il simbolo di un’idea unica, quella di issare la cultura come bandiera di una nuova storia, di una nuova memoria. Analizza-

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Conclusione

re Gibellina in questo modo, approfondendo singolarmente ogni fe-nomeno creativo, aiuta a vederne la bellezza etica ed estetica, a capire l’idea a cui aspira la città e, forse, i sintomi che invece eventualmente non ne permettono la riuscita.

Indubbiamente manca qualcosa a Gibellina. Manca la politica im-prenditoriale che esiste al nord e che per motivi misteriosi continua-no a persistere in modo fiorente solo in quel contesto geografico. Sono convinto che Gibellina in Lombardia sarebbe già un incredibile laboratorio artistico, dove ogni abitazione sarebbe il sogno per qual-siasi giovane intellettuale.

A Gibellina mancano le strutture ricettive, l’imprenditoria basata sul turismo a tutti i livelli, da quello di massa a quello già esistente d’elite. Manca una vera e forte propaganda critica, pubblicitaria, pro-positiva e martellante sotto ogni aspetto. Nessuno conosce Gibellina: è nota solo gli addetti ai lavori e a un ristretto pubblico di élite. Ci sarà un motivo. Sono sicuro che come ogni forma di arte contempo-ranea Gibellina diventa ostica nel farsi piacere: non stiamo parlando dei templi greci di Agrigento che esercitano il loro fascino di storia malgrado il turista non conosca una virgola sulla cultura greca. Con questo esempio non sto giustificando il fatto di muoversi secondo le esigenze mediocri del turista di massa, ma espongo una causa deter-minante che allontana Gibellina della rete turistica della Sicilia occi-dentale.

Bisogna fare i conti con una città che suo malgrado non è riuscita ancora a pubblicizzarsi nel modo migliore. Un “rimprovero” va anche alla Fondazione Orestiadi che, nonostante faccia cose estremamente interessanti e coinvolgenti, ponendosi a tutti gli effetti come ente cul-turalmente trainante della città, non riesce a dare una risonanza al-meno nazionale in occasione del lungo programma del festival da lei organizzato (e nonostante tutto, richiama centinaia di spettatori ogni anno, a confermare un interesse concreto da parte degli esperti e del-la gente assiduamente presente alle iniziative culturali di un certo spessore).

L’ assenza turistica è quindi un elemento che sicuramente influisce sul sentimento desolante della città e sulle prospettive economiche e sociali, nonché di urbanizzazione e prosperità della comunità stessa.

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Conclusione

Un altro elemento criticabile di Gibellina è il contrasto tra ritmi so-ciali e spazi architettonici, tra esigenze abitative e piano urbanistico ideale.

Nella ricerca abbiamo potuto evidenziare, negli esempi, come in effetti la popolazione di Gibellina ha dovuto rimettere in discussione i propri atteggiamenti nei confronti dello spazio urbano: strade larghe che sostituiscono i vicoli medievali, architetture a più piani che rim-piazzano le abitazioni contadine in pietra, la piccola piazza con la chiesa che viene dimenticata a scapito di sistemi urbanistici tali da accogliere una popolazione molto più numerosa di quella effettiva.

Una comunità che vede le proprie esigenze vitali e spaziali decon-testualizzate da una Gibellina che, nonostante si dimostri come un puntuale esempio della cultura architettonica e urbanistica contem-poranea, non la rispecchia.

Un contrasto tra esigenza e possibilità che si evince dalle strade quasi sempre vuote, dalle case sempre chiuse e dai pochi negozi; dalle architetture e dalle sculture poco vissute e a volte semi abbandonate, ma abbandonate non sono se non apparentemente.

L’unico errore che forse si può dedurre dalle concezioni degli arti-sti e degli architetti è stato obbligare la vita dei gibellinesi in spazi che non rispecchiavano troppo le loro abitudini vitali, abitative, spaziali. Il tutto sarebbe dovuto diventare più a misura d’uomo, a misura di popolazione. Risalta troppo il contrasto tra una città da quarantamila abitanti e una comunità effettiva di quattromila individui; vediamo un regime pari solo al dieci per cento delle sue potenzialità.

Gibellina è quindi una realtà che deve essere ancora scoperta del tutto, anche se forse non si riuscirà mai a farlo: ancora questa città si presta a sperimentazioni, a proposte culturali sempre più affascinan-ti, ardue, internazionali. Gibellina è ancora un centro di sperimenta-zione, di dialogo e di confronto; un’oasi non solo nella Sicilia Occi-dentale, ma in quasi tutta l’Italia e forse in Europa.

A Gibellina vengono ancora gli artisti, invitati a collaborare nel produrre oggetti di storia, di idea, icone di libertà e di espressione; ancora arrivano artisti a produrre opere urbane in un continuo arric-chimento dello spazio non solo fisico, urbano, ma anche spirituale. Gibellina è quindi la realtà in cui chi ama la cultura vorrebbe vivere.

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Conclusione

Gibellina è un fatto, un’utopia “reale”, e bisogna accettarla nei suoi pro e nei suoi contro se vogliamo che questa realtà culturalmente ideale si perpetui nel tempo e abbia la sua giusta risonanza, nella so-cietà e nel tempo.

La città del sole che ancora sogna un’idea e la insegue quotidiana-mente nell’arte.

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