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Francesco VILETTI ASTRONAUTI, SUORE, STREGHE, MONACI, MUSSU(L)MANE, CLOWN E PRINCIPESSE: DAL PERSONAGGIO ALLA PERSONA Laboratorio di psicodramma e teatro presso un centro diurno per pazienti psichiatrici Premessa Questo lavoro è il frutto di alcuni anni di esperienza teatrale compendiati da una formazione quadriennale in psicoterapia psicodrammatica classica. “Astronauti, suore, streghe, monaci, clown, mussu(l)mane e principesse” è uno spettacolo teatrale con finalità integrativa scaturito dall’esigenza di coniugare il teatro e lo psicodramma classico in un percorso terapeutico ed artistico rivolto ad una utenza di persone con problemi psichiatrici medio-gravi che frequentano abitualmente un centro diurno. La struttura in questione fa capo ad una nota Fondazione milanese. Non ho condotto il lavoro da solo, ma con una collega psicodrammatista, Irene Riva, con la quale collaboro da qualche anno e con la quale mi trovo in una sintonia professionale tale da poter proporre e impostare dei percorsi continuativi in co-conduzione. Insieme a lei ho avuto modo di utilizzare e promuovere lo psicodramma classico sia in contesti comunitari (comunità di tossicodipendenti, comunità di minori non accompagnati) che formativi (incontri di formazione in scuole di vario ordine e grado). La trattazione in questione è dunque il resoconto di un’esperienza per noi significativa, sviluppatasi all’interno di un contesto comunitario particolarmente favorevole che ci ha dato modo di crescere e di far crescere relazioni, azioni e riflessioni in un’atmosfera protetta, stimolante e creativa. Capitolo 1 CONOSCENZE, CONTATTI E CONTRATTI 1.1 - La Fondazione La Fondazione con cui abbiamo abbiamo lavorato e con la quale ancora oggi collaboriamo, è un ente senza scopo di lucro, riconosciuto a livello regionale (regione Lombardia, n.d.r.) e nazionale, che dal 1991 offre assistenza sanitaria domiciliare (medica, fisioterapica, infermieristica e ausiliaria tutelare) in modo diretto o tramite il Servizio Sanitario Nazionale, a persone malate senza alcuna distinzione: anziani con patologie cronico/degenerative, portatori di handicap, malati oncologici, malati di AIDS o che necessitano di terapie specifiche, anche bambini. Ha realizzato e gestisce strutture residenziali di accoglienza e cura per malati di patologie specifiche, come AIDS, malattie psichiatriche e neurodegenerative. L’esperienza maturata negli anni ha sviluppato anche una preoccupazione educativa, in particolare sulle tematiche proprie dell’assistenza domiciliare, che si è realizzata nell’organizzazione di corsi di aggiornamento e formazione professionale, in collaborazione con Università ed Aziende Ospedaliere. 1.2 - Il Centro residenziale e diurno Il centro residenziale e diurno che fa capo alla fondazione è un edificio ristrutturato secondo moderni criteri architettonici che risulta al primo impatto accogliente e ben tenuto, con uno spazioso orto/giardino esterno ed uno spazio interno sviluppato su tre piani: un piano interrato con cucina e sala mensa; un pian terreno, il più spazioso, con reception, uffici del personale socioeducativo e psicologico , sala tv, servizi, angolo bar, ampia palestra polifunzionale, sala congressi; un primo piano, nel quale si trovano le camere degli ospiti del centro residenziale, uffici del personale medico ed infermieristico e sale per colloqui. 1.3 - Gli operatori Il personale di riferimento con il quale abbiamo avuto modo di collaborare è quello che si occupa della gestione e dell’organizzazione del centro diurno. Come accennato prima, sono operatori di area medica e psicopedagogica con formazioni differenti e ben integrate fra loro (psichiatra, psicologa, educatore, tecnico della riabilitazione psichiatrica). La loro équipe è stata la preziosa interfaccia che ci ha permesso di entrare gradualmente nella realtà comunitaria diurna del centro in maniera omeopatica e non invasiva. 1.4 - Il contatto e il contratto con la committenza Il primo contatto esplorativo è partito dalla responsabile in primis del centro diurno, medico e psichiatra, che ci ha convocati presso la struttura. Il primo colloquio con la dottoressa e l’équipe ci ha dato modo di intercettare i bisogni e le esigenze della cosiddetta committenza. La richiesta che ci veniva fatta era quella di proporre un percorso di terapia di gruppo, rivolto ad una parte degli ospiti del centro diurno che potesse comprendere anche un momento conclusivo di visibilità esterna del lavoro compiuto. Da questa richiesta è nata la nostra proposta di un percorso a cavallo tra l’arte e la terapia che potesse far dialogare teatro e psicodramma sfruttando le loro implicite ed esplicite somiglianze e familiarità. I seguenti colloqui con la psichiatra e l’équipe sono serviti per chiarire e condividere la nostra proposta e si sono svolti in un clima informale che ha permesso ad entrambe le parti di esplicitare bisogni ed esigenze professionali, consentendoci inoltre di respirare, seppur episodicamente, l’atmosfera del centro 1 . In uno di questi, un vero e proprio “pranzo di lavoro” a base di polenta e gorgonzola, abbiamo poi avuto modo di incontrare e conoscere buona parte degli ospiti del centro diurno. 1.5 - Dalla cartella clinica al calendario Non abbiamo preso visione a priori di nessuna delle cartelle cliniche dei possibili futuri membri del gruppo di psicodramma e teatro. Non siamo stati messi al corrente di nessuna delle loro diagnosi e non abbiamo chiesto pareri clinici sulle loro patologie. L’équipe ci ha raccontato di loro e poi, in accordo con la medesima, siamo semplicemente andati per i corridoi e dentro gli spazi del centro per incontrarli. Così abbiamo conosciuto un po’ tutti, residenziali e diurni, e con ognuno di loro abbiamo almeno incrociato lo sguardo. A dire il vero però, il primo incontro con gli ospiti è avvenuto in maniera indiretta e attraverso una serie di ritratti fotografici degli ospiti realizzati dall’équipe del centro. Questi ritratti sono andati a comporre un calendario nel quale ognuno di loro si trova a rappresentare un mese dell’anno. E’ stata una trovata simpatica, grazie alla quale hanno realizzato un materiale che è stato tenuto in considerazione per vedere i volti dei possibili futuri componenti del gruppo. Dalla cartella clinica al calendario, dunque. Un evidente segno del decadimento dei tempi. 1.6 - La formazione degli operatori e la sintesi della proposta Un ulteriore accorgimento che abbiamo adottato e che la letteratura psicodrammatica consiglia caldamente 2 è quello della formazione degli operatori per prepararli ad entrare in sintonia con lo spirito e la filosofia di fondo del metodo moreniano, che punta di più sulle qualità umane che sulle abilità e competenze professionali. In sintesi la nostra proposta ha seguito i seguenti punti: Incontro col gruppo utenti del centro diurno e proposta diretta del laboratorio di psicodramma e teatro Momento formativo dell’équipe psicopedagogica con un duplice intento: Informativo: dare un’idea di cosa sia in pratica lo psicodramma. Formativo/attivo: con l’obiettivo di dare agli operatori dell’équipe il ruolo di io-ausiliari (facilitatori interni al gruppo utenti) indispensabili nel lavoro con persone con problemi psichiatrici medi e medio-gravi 3 . 1) Attivazione del percorso con gli utenti 2) Elaborazione drammaturgica 3) Rappresentazione conclusiva (integrazione pubblica) Punto 1 La selezione delle persone all’interno del gruppo di psicodramma è avvenuta, come accennato poco sopra, a seguito di una serie di incontri informali con gli ospiti del Centro 4 , durante i quali abbiamo sinteticamente specificato di che cosa si trattava e che non era obbligatorio aderire (gruppo aperto). Il nostro obiettivo è stato quello di stimolare negli ospiti la curiosità rispetto al laboratorio e un tele positivo con i conduttori, per facilitare un’adesione spontanea, funzionale al lavoro. Punto 2 La formazione degli operatori era stata inizialmente pensata con un numero di tre incontri. A seguito di problemi organizzativi riguardanti l’impossibilità per l’intera équipe della compresenza, si è deciso di presentare un solo momento formativo di tre ore propedeutico alle tecniche dello psicodramma e all’interpretazione del ruolo di io-ausiliario all’interno del gruppo utenti. 1 Si è trattato di un contratto non semplice, in quanto espressione di un bisogno duplice e potenzialmente conflittuale: un percorso di terapia di gruppo (committenza operativa/centro diurno) che potesse concludersi con qualcosa di visibile all’esterno (committenza finanziatrice/Fondazione). Questo apparente paradosso è stato per noi un’iniziale fonte di preoccupazione deontologica, il cui codice impone il segreto professionale su tutto ciò che avviene all’interno del set(ting). Le nostre rispettive competenze professionali ci hanno fatto decidere di proporre un contratto in cui la cosiddetta “visibilità esterna” del lavoro, in qualunque forma essa si fosse materializzata, si sarebbe dovuta intendere come qualcosa di auspicabile ma non vincolante e la cui decisione sarebbe spettata solo ed unicamente ai due conduttori del laboratorio. Tale contratto ci ha così fatti sentire maggiormente tutelati e di riflesso ha tutelato anche il gruppo nascituro. Col senno di poi e con un pizzico di tono polemico, ci ha anche dato modo di toccare con mano quanto la proverbiale segretezza professionale sia, in alcuni casi, più un’ esigenza di chi cura che di chi è curato… 2 Per esempio Forma e Azione (Dotti, 1998) 3 Utile in tal senso è stato lo scritto “Lo staff di io-ausiliari in una struttura psichiatrica” in “Psicoterapia Psicodrammatica” (Boria, 2005) 4 Non tutti gli ospiti indistintamente, ma quelle persone che ci venivano indicate dall’èquipe 1

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Francesco VILETTI

ASTRONAUTI, SUORE, STREGHE, MONACI, MUSSU(L)MANE, CLOWN E PRINCIPESSE:

DAL PERSONAGGIO ALLA PERSONA Laboratorio di psicodramma e teatro presso un

centro diurno per pazienti psichiatrici

Premessa Questo lavoro è il frutto di alcuni anni di esperienza teatrale

compendiati da una formazione quadriennale in psicoterapia psicodrammatica classica.

“Astronauti, suore, streghe, monaci, clown, mussu(l)mane e principesse” è uno spettacolo teatrale con finalità integrativa scaturito dall’esigenza di coniugare il teatro e lo psicodramma classico in un percorso terapeutico ed artistico rivolto ad una utenza di persone con problemi psichiatrici medio-gravi che frequentano abitualmente un centro diurno.

La struttura in questione fa capo ad una nota Fondazione milanese. Non ho condotto il lavoro da solo, ma con una collega

psicodrammatista, Irene Riva, con la quale collaboro da qualche anno e con la quale mi trovo in una sintonia professionale tale da poter proporre e impostare dei percorsi continuativi in co-conduzione.

Insieme a lei ho avuto modo di utilizzare e promuovere lo psicodramma classico sia in contesti comunitari (comunità di tossicodipendenti, comunità di minori non accompagnati) che formativi (incontri di formazione in scuole di vario ordine e grado).

La trattazione in questione è dunque il resoconto di un’esperienza per noi significativa, sviluppatasi all’interno di un contesto comunitario particolarmente favorevole che ci ha dato modo di crescere e di far crescere relazioni, azioni e riflessioni in un’atmosfera protetta, stimolante e creativa.

Capitolo 1 CONOSCENZE, CONTATTI E CONTRATTI

1.1 - La Fondazione La Fondazione con cui abbiamo abbiamo lavorato e con la quale

ancora oggi collaboriamo, è un ente senza scopo di lucro, riconosciuto a livello regionale (regione Lombardia, n.d.r.) e nazionale, che dal 1991 offre assistenza sanitaria domiciliare (medica, fisioterapica, infermieristica e ausiliaria tutelare) in modo diretto o tramite il Servizio Sanitario Nazionale, a persone malate senza alcuna distinzione:

anziani con patologie cronico/degenerative, portatori di handicap, malati oncologici, malati di AIDS o che necessitano di terapie specifiche, anche bambini. Ha realizzato e gestisce strutture residenziali di accoglienza e cura per malati di patologie specifiche, come AIDS, malattie psichiatriche e neurodegenerative. L’esperienza maturata negli anni ha sviluppato anche una preoccupazione educativa, in particolare sulle tematiche proprie dell’assistenza domiciliare, che si è realizzata nell’organizzazione di corsi di aggiornamento e formazione professionale, in collaborazione con Università ed Aziende Ospedaliere.

1.2 - Il Centro residenziale e diurno Il centro residenziale e diurno che fa capo alla fondazione è un edificio

ristrutturato secondo moderni criteri architettonici che risulta al primo impatto accogliente e ben tenuto, con uno spazioso orto/giardino esterno ed uno spazio interno sviluppato su tre piani: un piano interrato con cucina e sala mensa; un pian terreno, il più spazioso, con reception, uffici del personale socioeducativo e psicologico , sala tv, servizi, angolo bar, ampia palestra polifunzionale, sala congressi; un primo piano, nel quale si trovano le camere degli ospiti del centro residenziale, uffici del personale medico ed infermieristico e sale per colloqui.

1.3 - Gli operatori Il personale di riferimento con il quale abbiamo avuto modo di

collaborare è quello che si occupa della gestione e dell’organizzazione del centro diurno.

Come accennato prima, sono operatori di area medica e psicopedagogica con formazioni differenti e ben integrate fra loro (psichiatra, psicologa, educatore, tecnico della riabilitazione psichiatrica).

La loro équipe è stata la preziosa interfaccia che ci ha permesso di entrare gradualmente nella realtà comunitaria diurna del centro in maniera omeopatica e non invasiva.

1.4 - Il contatto e il contratto con la committenza Il primo contatto esplorativo è partito dalla responsabile in primis del

centro diurno, medico e psichiatra, che ci ha convocati presso la struttura. Il primo colloquio con la dottoressa e l’équipe ci ha dato modo di

intercettare i bisogni e le esigenze della cosiddetta committenza. La richiesta che ci veniva fatta era quella di proporre un percorso di terapia di gruppo, rivolto ad una parte degli ospiti del centro diurno che potesse comprendere anche un momento conclusivo di visibilità esterna del lavoro compiuto.

Da questa richiesta è nata la nostra proposta di un percorso a cavallo tra l’arte e la terapia che potesse far dialogare teatro e psicodramma

sfruttando le loro implicite ed esplicite somiglianze e familiarità. I seguenti colloqui con la psichiatra e l’équipe sono serviti per chiarire e condividere la nostra proposta e si sono svolti in un clima informale che ha permesso ad entrambe le parti di esplicitare bisogni ed esigenze professionali, consentendoci inoltre di respirare, seppur episodicamente, l’atmosfera del centro1. In uno di questi, un vero e proprio “pranzo di lavoro” a base di polenta e gorgonzola, abbiamo poi avuto modo di incontrare e conoscere buona parte degli ospiti del centro diurno.

1.5 - Dalla cartella clinica al calendario Non abbiamo preso visione a priori di nessuna delle cartelle cliniche dei

possibili futuri membri del gruppo di psicodramma e teatro. Non siamo stati messi al corrente di nessuna delle loro diagnosi e non abbiamo chiesto pareri clinici sulle loro patologie. L’équipe ci ha raccontato di loro e poi, in accordo con la medesima, siamo semplicemente andati per i corridoi e dentro gli spazi del centro per incontrarli. Così abbiamo conosciuto un po’ tutti, residenziali e diurni, e con ognuno di loro abbiamo almeno incrociato lo sguardo.

A dire il vero però, il primo incontro con gli ospiti è avvenuto in maniera indiretta e attraverso una serie di ritratti fotografici degli ospiti realizzati dall’équipe del centro. Questi ritratti sono andati a comporre un calendario nel quale ognuno di loro si trova a rappresentare un mese dell’anno. E’ stata una trovata simpatica, grazie alla quale hanno realizzato un materiale che è stato tenuto in considerazione per vedere i volti dei possibili futuri componenti del gruppo. Dalla cartella clinica al calendario, dunque. Un evidente segno del decadimento dei tempi.

1.6 - La formazione degli operatori e la sintesi della proposta Un ulteriore accorgimento che abbiamo adottato e che la letteratura

psicodrammatica consiglia caldamente2 è quello della formazione degli operatori per prepararli ad entrare in sintonia con lo spirito e la filosofia di fondo del metodo moreniano, che punta di più sulle qualità umane che sulle abilità e competenze professionali.

In sintesi la nostra proposta ha seguito i seguenti punti: Incontro col gruppo utenti del centro diurno e proposta diretta del

laboratorio di psicodramma e teatro Momento formativo dell’équipe psicopedagogica con un duplice intento: Informativo: dare un’idea di cosa sia in pratica lo psicodramma. Formativo/attivo: con l’obiettivo di dare agli operatori dell’équipe il ruolo

di io-ausiliari (facilitatori interni al gruppo utenti) indispensabili nel lavoro con persone con problemi psichiatrici medi e medio-gravi3.

1) Attivazione del percorso con gli utenti 2) Elaborazione drammaturgica 3) Rappresentazione conclusiva (integrazione pubblica) Punto 1 La selezione delle persone all’interno del gruppo di psicodramma è

avvenuta, come accennato poco sopra, a seguito di una serie di incontri informali con gli ospiti del Centro4, durante i quali abbiamo sinteticamente specificato di che cosa si trattava e che non era obbligatorio aderire (gruppo aperto).

Il nostro obiettivo è stato quello di stimolare negli ospiti la curiosità rispetto al laboratorio e un tele positivo con i conduttori, per facilitare un’adesione spontanea, funzionale al lavoro.

Punto 2 La formazione degli operatori era stata inizialmente pensata con un

numero di tre incontri. A seguito di problemi organizzativi riguardanti l’impossibilità per l’intera équipe della compresenza, si è deciso di presentare un solo momento formativo di tre ore propedeutico alle tecniche dello psicodramma e all’interpretazione del ruolo di io-ausiliario all’interno del gruppo utenti.

1 Si è trattato di un contratto non semplice, in quanto espressione di un bisogno duplice e potenzialmente conflittuale: un percorso di terapia di gruppo (committenza operativa/centro diurno) che potesse concludersi con qualcosa di visibile all’esterno (committenza finanziatrice/Fondazione). Questo apparente paradosso è stato per noi un’iniziale fonte di preoccupazione deontologica, il cui codice impone il segreto professionale su tutto ciò che avviene all’interno del set(ting). Le nostre rispettive competenze professionali ci hanno fatto decidere di proporre un contratto in cui la cosiddetta “visibilità esterna” del lavoro, in qualunque forma essa si fosse materializzata, si sarebbe dovuta intendere come qualcosa di auspicabile ma non vincolante e la cui decisione sarebbe spettata solo ed unicamente ai due conduttori del laboratorio. Tale contratto ci ha così fatti sentire maggiormente tutelati e di riflesso ha tutelato anche il gruppo nascituro. Col senno di poi e con un pizzico di tono polemico, ci ha anche dato modo di toccare con mano quanto la proverbiale segretezza professionale sia, in alcuni casi, più un’ esigenza di chi cura che di chi è curato… 2 Per esempio Forma e Azione (Dotti, 1998) 3 Utile in tal senso è stato lo scritto “Lo staff di io-ausiliari in una struttura psichiatrica” in “Psicoterapia Psicodrammatica” (Boria, 2005) 4 Non tutti gli ospiti indistintamente, ma quelle persone che ci venivano indicate dall’èquipe

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Punto 3 Il laboratorio di psicodramma classico e teatro è stato ovviamente il

cuore del percorso. Da esso sono scaturite tutte le situazioni psicodrammatiche che sono state poi gestite, con le dovute precauzioni, in chiave teatrale per la rappresentazione finale.

In tal senso il laboratorio ha seguito due fasi distinte: • Laboratorio di psicodramma classico e teatro: dove si è lavorato

più sul livello privato, personale e relazionale (livello psicodrammatico e sociodrammatico)

• Laboratorio di teatro : dove si è lavorato sull’elaborazione teatrale e simbolica del materiale emerso (livello teatrale e drammaturgico)

Punto 4 L’elaborazione drammaturgica del materiale è una variabile che

dipende dal lavoro Può essere libera, mista, vincolata, a seconda di quanto emerge nel corso delle sessioni.

Punto 5 Momento integrativo finale nel quale i partecipanti hanno potuto

mostrare a parenti, amici, altri utenti e ad un ristretto pubblico selezionato5 il loro lavoro.

1.7 - Il contagio relazionale Il contagio della formula relazionale è uno degli obiettivi del laboratorio

stesso. A cerchi concentrici le modalità relazionali acquisite e la filosofia intrinseca del laboratorio si dovrebbero allargare non solo ai partecipanti/utenti, ma anche al nucleo di persone che si occupa professionalmente dell’utenza ed infine ad una cerchia sociale più ampia possibile.

In questo senso le competenze dei due conduttori sono mirate a “coprire” le differenti aree relazionali sui differenti livelli del sé, attraverso le tecniche e i metodi specifici. Per semplificare:

- livello psicodrammatico conosco me stesso - livello sociodrammatico conosco gli altri - livello teatrale mi faccio vedere In tal senso è stato molto importante per i conduttori riuscire a

coinvolgere operatori e responsabili istituzionali nell’arco di tutto il progetto. 1.8 - Presentazione e sintesi del percorso Qui di seguito riporto i passaggi chiave della relazione scritta al termine

del lavoro. 1.8.1 - Introduzione e finalità “Lo psicodramma classico si configura come una metodologia

terapeutica di gruppo che predilige l’azione, offrendo la possibilità, all’interno della situazione terapeutica, di esternare bisogni, sentimenti e conflitti difficilmente esprimibili nella vita reale; questo permette al soggetto di sperimentarsi in nuovi ruoli, di provare nuovi modi di essere. Esso è in un certo senso assimilabile ad una palestra realazionale in cui i partecipanti si allenano a conoscere meglio se stessi e gli altri e a stabilire rapporti maggiormente soddisfacenti grazie anche all’ausilio di tecniche specifiche (es: doppio, specchio, inversione di ruolo) che consentono alle persone di immedesimarsi nell’altro e sentirlo attivando un senso di ascolto, empatia e comprensione necessari per interagire nelle relazioni. Il conduttore del gruppo propone delle situazioni-stimolo entro cui i partecipanti sono invitati ad agire, ad entrare in rapporto con gli altri, a cui seguono momenti di riflessione in cui si esprime e condivide ciò si è sperimentato e il nuovo che è emerso ed è stato evocato dal lavoro di gruppo (emozioni, difficoltà, ricordi etc.), al fine di creare nuovi nessi e collegamenti di aspetti di sé atti a formare una diversa percezione della propria persona che tenga conto tanto degli aspetti comportamentali quanto di quelli emotivi e cognitivi. Durante il lavoro, il gruppo diventa contenitore e testimone dei vari passaggi evolutivi nei quali i partecipanti sono coinvolti, attivando un senso di appartenenza e solidarietà in cui l’individuo non si sente solo nelle sue difficoltà e nel cammino della vita. Oltre ad attività in cui tutti i membri del gruppo sono egualmente coinvolti, esistono momenti in cui un solo partecipante è chiamato a mettere in scena una parte di sé (un ricordo, emozioni, desideri, un conflitto, una situazione di vita reale che ritiene significativa); anche in questo caso possiamo intendere il lavoro psicodrammatico nei termini di un allenamento: il protagonista (così viene chiamato chi mette in scena una propria situazione), guidato dal conduttore e accompagnato in taluni contesti da io-ausiliari professionisti, cerca di trovare modalità relazionali maggiormente funzionali, questa volta non con gli altri partecipanti del gruppo bensì con le persone significative della sua vita (impersonificate dagli altri componenti del gruppo)” 6. Lo psicodramma è di fatto un metodo

5 La rappresentazione teatrale è sempre un atto pubblico, ma con sfumature differenti a seconda del tipo di pubblico presente e del luogo della rappresentazione. Un conto è andare in scena nel Teatro Comunale di fronte ad un pubblico in larga misura composto, per chi è in scena, da sconosciuti; un altro conto è rappresentare qualcosa all’interno dello stesso spazio nel quale il laboratorio si è svolto, rivolgendosi ad un pubblico di parenti e amici, una comunità familiare. In questo secondo caso il lavoro assume davvero il sapore di una condivisone intimamente pubblica. 6 Andrea Vanni

d’azione. Il luogo fisico adibito allo svolgimento delle sessioni è il teatro (in questo caso una sala da noi debitamente allestita con luci ed oggetti scenici) poiché in esso si svolgono azioni destinate ad essere oggetto di una serie di sguardi. In tal senso la sua integrazione con questa forma d’arte e le sue tecniche, mutuate dall’animazione e dall’antropologia teatrale, dal teatro di ricerca e sperimentale diventa un processo naturale e quasi osmotico che riporta lo psicodramma alle sue origini (Stegreiftheatre). Questo tipo di intervento prevede dunque, per la riuscita stessa dell’intenzione terapeutica, formativa e artistica la partecipazione attiva del gruppo, che viene considerato la risorsa primaria per ottenere il massimo sviluppo degli obiettivi del singolo.

1.8.2 - Numero Incontri La proposta iniziale prevedeva un numero minimo di 14 incontri più tre

incontri di formazione con operatori. Il progetto si è poi realizzato con un numero complessivo di 22 incontri

(21 incontri di laboratorio con gli utenti e uno con gli operatori). 1.8.3 - Tipologie diagnostiche e criterio di inclusione/esclusione Uno dei criteri di inclusione è stato quello dell'eterogeneità diagnostica

che mira ad avere un gruppo costituito da utenti con patologie varie per gravità ed eziologia.

L'unico criterio di esclusione di pazienti dal gruppo è costituito da una grave compromissione delle capacità cognitive, motorie, narrative.

1.8.4 - Numero partecipanti Il numero max utenti consentito era 8. Nel gruppo era sempre garantita

la presenza di almeno due operatori in qualità di io-ausiliari 1.8.5 - Organizzazione Ogni sessione aveva una durata di 1,5 h ed era preceduta da un breve

aggiornamento da parte degli operatori. Al termine della sessione era inoltre previsto un breve momento di restituzione/riflessione tra i conduttori e gli operatori presenti nel gruppo.

1.8.6 - Tempo Le sessioni di psicodramma e teatro hanno avuto una cadenza

settimanale. Il mercoledì mattina dalle 10.30 alle 12.00 in un arco di tempo di sette mesi circa, pausa estiva compresa.

Il primo incontro si è svolto in data 10/4/2007, la rappresentazione ha avuto invece luogo sabato 17/11/2007, alle ore 16.00, presso il centro.

1.8.7. - Spazio Lo spazio destinato alla sessione (set/setting) era la palestra per la

riabilitazione debitamente allestita e predisposta dai conduttori. Palestra e sala TV sono state poi messe a disposizione dal centro per

la rappresentazione conclusiva, che si è pertanto svolta in due spazi differenti.

1.8.8. - Il percorso in sintesi Il laboratorio è stato per i partecipanti un modo per creare nuove e più

significative relazioni all’interno del gruppo. Tale unione ha favorito l’emergere immediato di fattori terapeutici quali la condivisione, l’universalità e l’infusione della speranza7.

L’atmosfera giocosa e il clima di fiducia hanno poi dato ad ognuno la possibilità di affrontare le problematiche esistenziali individuali (responsabilità, lutto, depressione ecc.) attraverso le pratiche e le tecniche tipiche dei metodi attivi, atte a stimolare un’azione ed una consequenziale riflessione dell’azione prodotta.

Questa disponibilità a mettersi in gioco e ad entrare in relazione ha poi favorito, seppur nel rispetto delle differenze individuali, l’emergere di qualità espressive originali e stili comunicativi particolari, che sono poi state valorizzate in fase di rielaborazione teatrale.

Tale passaggio, dal livello psicodrammatico e dunque privato a quello teatrale e dunque pubblico non è stato ne brusco ne imposto, ma condiviso collegialmente attraverso una sorta di contratto con il gruppo.

Pertanto il percorso psicodrammatico e quello teatrale non si sono contrapposti, ed hanno anzi contribuito entrambi all’ottimizzazione delle risorse emerse in corso d’opera.

La rappresentazione che ne è scaturita, che aveva come sottotitolo dal personaggio alla persona8 è stato il frutto di un percorso che ha voluto porre l’accento sul significativo, prolifico e circolare rapporto tra la persona e il personaggio, tra la realtà e la semirealtà, punto focale di tutto il lavoro.

7 Yalom, 1974 8 “…è fondamentale l’essere riconosciuti come persona, cioè soggetto avente valore, perché le patologie con cui oggi più frequentemente ci dobbiamo confrontare sono disturbi di personalità e patologie narcisistiche che hanno la loro origine in fasi molto arcaiche dello sviluppo in cui spesso non è stato riconosciuto all’infante, dalle figure parentali e dal contesto ambientale, proprio il suddetto diritto ad essere soggetto-persona (…) il piccolo gruppo appare lo strumento privilegiato per comprendere al meglio il formarsi dell’identità anche patologica nei suoi elmenti costitutivi interpersonali”. (Corbella 2003)

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Capitolo 2: LE PRIME DODICI SESSIONI

Quanto descritto nel capitolo introduttivo ci è servito dunque per creare le premesse all’inizio dei lavori. Al termine degli incontri informali con gli ospiti e degli incontri organizzativi con l’équipe siamo riusciti a creare con entrambi i gruppi una familiarità positiva ed un adeguato livello di curiosità nei confronti dell’attività proposta.

L’incontro formativo con gli operatori ci ha poi dato l’opportunità di eliminare possibili malintesi e fantasie professionali nei confronti dello psicodramma9.

In questo capitolo passerò in rassegna le prime dodici sessioni, per ognuna delle quali riporterò le attività che ho ritenuto essere le più significative per la comprensione del lavoro nella sua globalità. La fonte delle riflessioni sono gli appunti presi al termine di ogni sessione di lavoro.

2.1 - Una premessa sullo spazio Prima di entrare nel merito del lavoro, mi sta a cuore porre l’attenzione

su un aspetto del metodo psicodrammatico, forse poco considerato ma sicuramente importantissimo: lo spazio.

Una quantità innumerevole di autorevoli personalità del teatro e dello psicodramma ci mostrano quanto fondamentale sia la gestione, la strutturazione e la disposizione dello spazio di lavoro.

Apparirà ovvio, ma c’è spazio e spazio: uno scantinato è diverso da una cucina, che a sua volta è diversa da una palestra, da una sala mensa e via discorrendo...

In questo senso mi permetto di esprimere il mio rammarico per la totale o parziale assenza di cultura dello spazio nelle strutture sanitarie, comunitarie e aggregative nel nostro bel paese.

La mia breve esperienza mi ha invece insegnato che la creatività e la spontaneità, gli ingredienti base dello psicodramma, hanno bisogno di un buon luogo per esprimersi così come il nostro corpo ha bisogno di ossigeno per respirare.

Nel centro diurno è stata messa a nostra disposizione una palestra normalmente utilizzata per la riabilitazione, con parquet, ottimo isolamento e climatizzazione sia d’estate che d’inverno. Un posticino niente male, insomma.

Teatranti e psicodrammatisti hanno in comune anche questo, che ovunque si trovino a lavorare, loro primario compito è sempre quello di trasformare l’ambiente per renderlo il più “psicodrammatico” e “teatrale” possibile10, portando sempre con sé il proprio armamentario di base11.

2.2 - Il primo incontro: un messa psicodrammatica con battesimo Per il primo incontro abbiamo pensato di utilizzare un piccolo

stratagemma: utilizzare il calendario. Abbiamo ricavato da ogni mese, ritagliandolo, il ritratto fotografico di

ognuno di loro e lo abbiamo adagiato su di una sedia disposta in cerchio dentro il tappeto circolare. Il nostro intento era quello di dare alle persone che sarebbero arrivate un’ impressione di forte familiarità, un messaggio nella bottiglia che suonasse come: voi arrivate adesso, ma per noi eravate già qua da un po’….vi pensavamo già12.

Questo primo incontro, inoltre, ci ha dato una dimostrazione pratica dell’importanza intrinseca dell’aspetto rituale in qualsiasi attività di gruppo, e di quanto il rito sia direttamente collegato alle strutture culturali individuali e collettive di ogni società, in una parola, al suo immaginario. La narrazione per attività della sessione può forse esemplificare quanto esposto sopra; riporto quasi interamente gli appunti dell’incontro perché la ritengo un momento di fondamentale importanza che ha dato un’impronta significativa a tutto il lavoro successivo.

1° attività: presentazione formale dei due conduttori, al di fuori del tappeto blu.

La presentazione dei due conduttori ci è sembrata utile per rompere il ghiaccio, formalizzare la regola del tu, dare loro un modello di presentazione

9 In effetti spiegare il proprio mestiere non è sempre una cosa semplice e immediata come si potrebbe pensare. Dire sono psicodrammatista e dire sono idraulico non genera in chi ascolta le medesime reazioni. Un idraulico è un idraulico (così mi hanno detto mio padre e mio fratello, che fanno questo mestiere), uno psicodrammatista è un punto interrogativo curioso, e talvolta venato di un pizzico di ironia stampato negli occhi della persona con la quale hai provato a fare, come sono solite dire alcune minoranze, outing. 10 E per far questo non chiediamo molto; “ posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio” (P. Brook, 1968) 11 Nel nostro caso, un tappeto blu di moquette circolare di 5 m di diametro, un’alogena con diffusore di luce da 500w, cuscini, gelatine, cappelli, maschere, oggettistica di vario genere e natura, anche non ben precisata. 12 Questo mi porta a fare riflessioni sul processo di genesi di un gruppo. Quando nasce? Quale è il vero momento in cui prende forma e vita? “Il gruppo, dunque, prima ancora di essere nella realtà, si costituisce come oggetto immaginario sia nella mente del conduttore sia in quella dei pazienti” (Corbella, 2003).

(exemplum), infine dare un tempo di decompressione prima dell’ingresso vero e proprio (rituale) dentro il tappeto.13

2° attività: ingresso rituale nel tappeto Una volta entrati in maniera piuttosto solenne dentro il tappeto14

ognuno, a turno, deve dire il suo nome e sedersi sulla sedia sulla quale è stata es-posta la propria fotografia. A questo punto si fa un altro giro di nomi con indicazione che al nome singolo risponde il gruppo in coro.

3° attività: qualcosa di me I partecipanti si tirano la palla e a turno ognuno dice qualcosa di sé 4° attività: Il colore dell’emozione Scegliere il telo colorato che rispecchia l’emozione dominante e dire il

colore del proprio stato emotivo al gruppo N.B: In questo frangente Clementina chiede di uscire perché si sente

soffocare 6° attività: verbalizzazione con metafora Ognuno mette in parole il proprio sentire attraverso una metafora che

viene trascritta su di un cartellone. Metafore prodotte

Teresa Gialla come un limone aspro Gino Come un pesce fuor d’acqua Cleofe Come un elefante che andava “a passo a passo” come “Jumbo-Dumbo” Susanna Come se stessi correndo in un prato Direttore Come un pittore caduto in una tavolozza di colori Susanna Come se fossi a messa Cleofe Come se stessi facendo ginnastica Susanna Come se fossi una ballerina Marco Come una farfalla Ottavio Come un uccello in montagna

7° attività: scelta della metafora che più è piaciuta Viene scelta la metafora della messa 8° attività: gioco di ruolo e intervista Ognuno si sceglie un ruolo inerente al tema della messa e gli dà forma

con teli e oggetti Ruoli creati 15

Teresa Suora di clausura Gino Fedele burlone rompiscatole che disturba il normale andamento della funzione Cleofe Suora volontaria che va negli ospedali e nei manicomi ad aiutare i casi più gravi Susanna La Madonna, felice anche se il figlio è crocefisso. Si lamenta un po’ di dover fare le pulizie di casa Marco Questuante di elemosine Ottavio Monaco benedettino in crisi Monica (aux) Il candelabro che sta sull’altare Matteo (aux) L’aspersore

Le interviste in inversione di ruolo con il personaggio che sono seguite sono state condotte in un clima leggero ma attento e sono state vissute come un momento di espressione di sé protetto, che ha dato ad ognuno l’occasione di presentarsi attraverso il velo dell’immaginazione.

È stato importante perché ha velocizzato enormemente il processo conoscitivo tra i direttori e i membri del gruppo e tra i membri stessi che potevano così vedersi con occhi differenti.

Le interviste hanno inoltre sancito implicitamente il contratto della verità soggettiva: se tu mi dici di essere la balena bianca io ti tratto come se fossi la balena bianca….

Il set ha assunto poi una forma piuttosto mediatico-teatrale sottolineata dall’utilizzo di un microfono semireale per le interviste. Il conduttore in questo

13 Normalmente si porta il tappeto perché ci si trova a lavorare su pavimenti poco caldi e accoglienti. Ma il tappeto ha anche questa funzione rituale di sancire uno spazio “altro” diverso, “contenitivo” per usare un termine psicodrammatico ed “extraquotidiano” per usare un termine tipicamente teatrale. 14 L’attenzione è stata posta sulla polarità dentro/fuori per sottolineare l’extraquotidianità del nuovo spazio, che diventa così un tempio. Nel primitivo significato, indicato per esempio da Varrone, tempio indicava una porzione separata; specialmente lo spazio immaginario, che l’augure segnava nei cieli con la sua bacchetta, al fine di circoscrivere un dato limite, dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli. Significava pure una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi e particolarmente per prendere gli auguri. In effetti il termine latino templum non indicava ab origine l’edificio, ma un luogo consacrato, appunto, orientato secondo i punti cardinali secondo il rito dell’inaugurazione corrispondente allo spazio sacro del cielo. 15 I ruoli, dunque, sono particolarmente funzionali nella fase di trasformazione e si situano lungo quel crinale, a volte sottile, che divide la fantasia dalla realtà. In particolare nel gruppo sembrano essere al servizio delle fantasie infantili, in quanto rappresentano il mondo adulto visto con gli occhi dei bambini, con distinzioni molto nette, con significati certi, senza sfumature (Corbella, 2003).

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caso diventa uno show-man (in senso antropologico16) che non mira all’audience ma alla compliance (tanto per fare un po’ gli anglofili).

I saluti finali sono stati molto caldi ed intensi, segno che il gruppo è nato, e nel migliore dei modi.

Sensazioni a posteriori In quel primo incontro ho pensato che la nostra attenzione all’aspetto

rituale aveva rimandato al loro co-conscio l’immagine di un altro rituale alla portata di tutti i presenti e socialmente condiviso ed accettato: la messa cattolica.

All’interno di questo nuovo spazio semireale condiviso ognuno ha avuto così modo di travasare sé stesso.

Mentre intervistavo questi personaggi avevo la reale percezione che essi mi si stessero rivelando per quello che realmente erano, dicendomi che avevano capito il gioco e che avrebbero giocato con me17. I nostri inconsci stavano comunicando, ognuna di quelle interviste ci riservava un sottotesto chiarissimo che si sarebbe rivelato più nitidamente con il prosieguo del percorso18.

In quei momenti ci siamo affidati l’un l’altro in un terreno che non prevedeva più verità o menzogna, ma solo accettazione. Un terreno di coltura e di cultura dal quale sarebbero sbocciate idee, emozioni, riflessioni… e personaggi per la rappresentazione finale.

Considerazioni a posteriori Durante i quattro anni di scuola di specializzazione circolava, e penso

circoli ancora, una credenza professionale, difficilmente dimostrabile, ma molto accattivante: la prima sessione di psicodramma può offrire al direttore attento una molteplice quantità di utili informazioni diagnostiche e prognostiche.

Riconoscendomi uno scarso valore di diagnosta e prognosta, non azzardo grandi considerazioni in tal senso (ma non mi esimerò). Il teatrante che alberga in me però è rimasto folgorato.

In effetti, la prima cosa che balza agli occhi è quanto questo primo incontro abbia colpito il nostro immaginario e retroagito anche a lungo termine sul lavoro finale (rappresentazione integrativa) nel quale saranno presenti buona parte dei personaggi/persone che qui hanno incominciato a fare capolino.

Qui di seguito indico per ogni individuo il personaggio corrispondente ed altre essenziali annotazioni:

Angelo Monaco benedettino in crisi

Angelo è un ex studente di filosofia. Appare cordiale e sorridente, sebbene mantenga sempre un certo distacco dalle cose e dalle persone. Si presenta come un monaco benedettino inizialmente ben saldo nelle sue convinzioni e poi sempre meno convinto della sua fede. Un personaggio in crisi, che ha messo in discussione i valori ereditati dalla sua religione.

Gino Fedele burlone che disturba il normale andamento della funzione

Gino è un chiacchierone gioviale e spiritoso, che non sa stare al suo posto. Interrompe spesso gli altri per introdurre il suo punto di vista o una sua battuta. E’ una persona fuori dalle righe così come il suo personaggio, il fedele rompiscatole, che lo rispecchia assolutamente.

Teresa Suora di clausura

La sua disponibilità sulla metafora “Gialla come un limone aspro” ha spiazzato tutti. Anche il suo personaggio ci è parso molto sintonico alla persona.

Cleofe Suora volontaria che va nei manicomi ad aiutare i casi più gravi

Al termine di questo incontro gli operatori si stupiranno della disponibilità a mettersi in gioco mostrata da Cleofe, normalmente molto

16 “Lo SRAMAN coincide con l’uomo-magia o con l’uomo medicina o, più semplicemente, con il terapone (colui che esercita la THERAPEIA). Tuttavia questo termine sembra presentare connotazioni sospette per non pochi autori moderni. Lo sciamano appare infatti strano a chi lo pre-giudica tale (a chi ne subisce la superstizione). E’ quindi diffuso un atteggiamento di diffidenza nei suoi confronti (come della magia, dello spiritismo, della chiaroveggenza endoscopica ecc.), soprattutto da parte di chi pratica professionalmente queste arti sotto denominazioni più scientifiche. Lo sciamano è dunque un tabù, di cui molti studiosi secondativi conoscono ben poco, al di fuori del fatto che è meglio lasciarlo stare” (Perussia, 2003)”. Quindi coi tempi che corrono è forse meglio farsi ispirare da Bonolis piuttosto che da Castaneda o da qualche altra testa calda. Così i secondativi vanno meno in ansia è gli sono molto più facili la critica e il sorrisetto compiacente e generosamente tollerante nei confronti dei primitivi. 17 “I riti di accoglimento si fondano sul concetto che lo psicodramma è azione e quindi, in senso lato, gioco; la partecipazione al gruppo è perciò subordinata alla disponibilità a giocare” (De Leonardis, 1994) 18 “I riti di iniziazione hanno tempi e modi diversi, secondo la personalità del nuovo membro. Questi però, prima o poi, dovrà forzare le proprie resistenze e donare la propria partecipazione sotto forma di comunicazione intima o come estroiezione drammatica del suo mondo interno”.(ibidem)

chiusa e riservata e poco disponibile a mostrarsi e a mettersi in gioco. Evidentemente i legami telici e l’ambiente predisposto e contenuto hanno dato buoni esiti consentendole di percepire un clima di fiducia e di empatia.

Susanna La Madonna, felice anche se il figlio è crocefisso. Si lamenta un po’ di dover fare le pulizie di casa.

Susanna si colloca a mezza via tra due grandi categorie moreniane: creatori disarmati VS deficienti spontanei. Ha limitate risorse cognitive che non le permettono di elaborare adeguatamente l’informazione. Anche le sue capacità narrative sono limitate e tendenti alla produzione stereotipica di pensiero. Di contro accede in maniera più efficace all’area emotiva e posturale e alla rielaborazione fantastica. Il suo personaggio “gumpista” (da Forrest Gump ndr) appare spiazzante e surreale: una Madonna felice malgrado la crocefissione del figlio, ma con tante pulizie arretrate.

Marco Questuante di elemosine

Marco fa il questuante di elemosine, quello che “fa il lavoro sporco”, a contatto con la materia. Non è facile creare un ponte con lui.

Clementina Clementina in questa prima sessione esce prima di arrivare alla

creazione di un personaggio per un probabile leggero attacco di ansia generato dal primo impatto col gruppo e con la nuova situazione. Fortunatamente avrà modo di rielaborare positivamente, anche grazie al supporto esterno della psicologa del centro, questo “battesimo”.

Monica, aux Il candelabro che sta sull’altare

Monica, la psicologa del centro diurno, mostra fin da subito a livello simbolico il suo complesso ruolo portatore di al meno tre istanze: - ausiliaria, dentro il gruppo; - psicologica, fuori dal gruppo; - organizzativa, essendo il tramite principale tra i conduttori e il centro diurno.

Matteo, aux Aspersore

Anche Matteo sembra trasporre a livello simbolico il suo ruolo di operatore che somministra la sua “dose” di incenso quotidiana facendosi garante del delicato equilibrio degli umori dei frequentatori del centro.

2.3 - Seconda sessione: Il tappeto magico Per il secondo incontro decidiamo di esplorare il filone fantastico

simbolico e di lavorare su una fantasia guidata. Portiamo con noi un tappeto orientale, e dopo una breve attivazione psicomotoria ed un lavoro di reciproca conoscenza, li facciamo distendere supini. Cerchiamo insomma di creare le condizioni ambientali più adeguate per stimolare in loro una fantasia di viaggio. Ognuno dei partecipanti porta le sue immagini, infine il gruppo e non il direttore sceglie un protagonista: è Clementina, che porta un ricordo di un viaggio fatto con i genitori venti anni fa circa a Venezia.

Lavoro con la protagonista Presa in carico Costruzione della scena C’è il canal grande, tre gondole, la stazione dei treni come sfondo, un

pozzo al lati del quale ci sono i genitori di Clementina (20 anni fa circa). Clementina sta scattando una foto.

Azione scenica: Clementina va alle spalle di ognuno dei due genitori e fa un doppio

fumetto, poi doppia anche se stessa. Integrazione Clementina attuale guarda la scena dalla balconata e poi va dai genitori

e li congeda con un saluto. Sharing Lo sharing di questo lavoro è molto sentito e partecipato. Clementina,

che nella sessione precedente se ne era uscita anticipatamente, ci ha sorpresi tutti, operatori/aux compresi.

Anche questa è stata una sessione/matrice molto significativa perché ha toccato le corde intime e personali di tutti i presenti, essendo il tema il rapporto con i genitori 19.

2.4 - Terza sessione: Un nuovo ingresso Di questa sessione la parte più significativa riguarda l’ingresso di un

nuovo membro: Piero. Piero non era stato inserito dall’équipe nella rosa dei possibili candidati

a far parte del gruppo di psicodramma e teatro. In effetti la sua lesione post traumatica (incidente stradale) al lobo frontale non lo ha restituito al mondo totalmente integro. Pur essendo costituzionalmente sano, Piero mostra alcuni evidenti limiti relazionali di origine organica. Ha delle movenze piuttosto lente ed un andatura meccanica alternata a momenti di staticità e fissità durante i quali sembra assorbito da un buco nero, o inserito dentro una piccola porzione di vuoto.

La sua limitata mobilità e la difficoltà di accesso ad un pensiero narrativo adeguato hanno fatto propendere gli operatori per una sua esclusione dal gruppo. A Piero però non manca la curiosità; è quella, suppo-

19 In particolare l’aspetto dell’elaborazione del lutto sarà un importante collante di gruppo.

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niamo, che l’ha condotto da noi.

Nome Oggetto Motivazione Piero La sua moto Piero è un appassionato di motori, la moto per lui è sinonimo di

libertà e di viaggio. Clementina Pepucia, una bambola ricordo della sua infanzia Pepucia ha fatto compagnia a Clementina in un ambulatorio in

Argentina, quando, all’età di quattro anni, venne operata da un medico di origine ebrea al quale associa un vissuto persecutorio.

Cleofe Il suo stereo Cleofe ci dice che ama molto la musica, che è una parte importante della sua vita.

Susanna La patente, un’auto (Susanna non riesce a portare un oggetto reale, porta un oggetto desiderato)

Susanna mostra di avere desideri autonomici che la portano ad oggettivare un auto come sinonimo di indipendenza.

Ottavio Il suo letto Ottavio mostra un aspetto della sua depressione attraverso l’oggetto-letto, al quale dice di essere molto affezionato.

Marco Il pianeta Marte (anche Marco fa fatica a stare sul piano di realtà)

Marco porta un mondo nuovo, un nuovo pianeta: Marte, il pianeta rosso.

Per concludere, Piero ha dimostrato subito “qualità” probabilmente poco spendibili a livello psicodrammatico (anche se non sarà così) ma sorprendentemente intriganti a livello teatrale. La sua fissità e la sua staticità lo hanno reso fortissimo dal punto di vista scenico: un mimo a-mimico, capace di mantenere la sua posizione, il suo centro, come, se non meglio, di una guardia vaticana, un vero maestro del passo neutro20. Con lui il gruppo ha chiuso il cerchio.

2.5 - Quarta sessione: Contratti e Botteghe Un buon contratto si fa quando le due parti hanno incominciato a

conoscersi. Diversamente si rischia troppo, e ci si può far male. Questa sessione è servita per sondare e capire se c’era la possibilità di spingersi un po’ oltre lo steccato, tastare gli umori 21 per capire se c’era davvero un reale desiderio non solo introspettivo , ma anche espressivo.

Dopo aver avuto modo di affinare i nostri tele, trasformarli in movimenti empatici e simpatici, di mettere i primi tasselli alla costruzione del co-conscio e co-inconscio, abbiamo pensato di dare a questa sessione una base contrattuale ed una progettuale. Nella fattispecie nella prima parte con l’ausilio dell’immancabile cartellone abbiamo siglato una sorta di “contratto col/del gruppo” (del dare e del ricevere). In pratica cosa posso dare a questo gruppo e cosa mi aspetto (tabella 1).

Tabella 1: Il contratto del dare e del ricevere

Da questa tabella/contratto, che in alcuni punti colpisce per il suo candore e spontaneità (do la mia felicità e mi aspetto tanti bacetti) emerge un gruppo che ha voglia di conoscersi e farsi conoscere.

La conclusione della sessione, attraverso l’attività “la bottega delle qualità” garantisce un ulteriore approfondimento attraverso il riconoscimento, la condivisione e lo scambio delle qualità di ognuno dei partecipanti.

20 È un esercizio teatrale, è l’uno, il primo passo. Trovare il centro/fare l’appello/fare un passo avanti/Stop/tornare indietro/stop/finito. (Madia, 2003). Sembra facile, non è così. Questo esercizio, che arriva dalla pedagogia teatrale novecentesca e che ho ritrovato in un simpatico manuale di teatro per bambini, ti spalanca letteralmente un mondo: quello del corpo e della corporeità. Non è un caso probabilmente che sia stata proprio la pratica teatrale di ricerca, sperimentale, antiaccademica e laboratoriale del ‘900 quella che per prima ha accettato di affrontare con coraggio e generosità uno dei più importanti problemi della nostra cultura moderna occidentale: la scissione tra mente e corpo. Si può ben dire che è proprio grazie a questi gruppi di persone talvolta isolate (si pensi al Teatr Laboratorium di J. Grotowsky ), ostracizzate (si pensi al Living theatre di J. Beck e J. Malina), autoesiliate (si pensi all’Odin Teatret di Barba) nella cerchia delle quali mi verrebbe istintivo collocare prima lo Stegreiftheater di Vienna, poi Sanatorium di Beacon di Moreno (quest’ultimo insieme alla sua musa Zerka Toeman), e grazie a singoli pensatori talvolta considerati dall’opinione del tempo dei folli o, nella migliore delle ipotesi, dei visionari (si pensi ad Antonin Artaud o a W. Reich) che il corpo/gesto ha incominciato ad uscire dal cono d’ombra proiettato su di lui dalla mente/parola. 21 Psicodramma e teatro sono due parole che scatenano fantasie, desideri, paure, ansie ecc. Volevamo dare una forma a questa pentola di umori.

2.6 - Quinta sessione: La scatola magica La scatola magica è un’idea che abbiamo ricavato dall’attività intitolata

“Il sacco” (Pitruzzella, 2004): “Il gruppo sta seduto in semicerchio. Al centro, una sedia vuota con

accanto un sacco. I partecipanti vengono invitati a sedersi a turno sulla sedia, prendere il sacco e immaginare di tirarne fuori un oggetto reale, legato ad un ricordo personale, e raccontare di quel ricordo.”

Volevamo dare ai ricordi che emergevano in corso d’opera un contenitore, qualcosa che li potesse raccogliere simbolicamente e realmente22.

Così abbiamo pensato di sostituire una scatola al sacco e di impostare il lavoro così come indicato, sfumando un po’ la consegna: non dovevano tirar fuori necessariamente un oggetto abbinato ad un ricordo, sarebbe bastato un oggetto significativo per loro.

La scatola magica Al termine dell’attività specifica abbiamo poi regalato una scatola

magica (una scatola dei ricordi) ad ognuno dei partecipanti. Queste scatole avrebbero avuto la stessa funzione di una casella di

posta, se qualcuno avesse voluto portare un suo oggetto significativo e magari un ricordo ad esso associato lo avrebbe potuto fare, ad ogni inizio sessione, utilizzando la sua scatola personale.

Gli operatori poi, insieme al gruppo ma in uno spazio/tempo diversi,

avrebbero aiutato i partecipanti a personalizzarla creativamente.

Cosa posso dare a questa esperienza Cosa mi aspetto da questa esperienza do la mia responsabilità (Cleofe) tanti applausi do a tutti la mia felicità (Susanna) tanti complimenti dare tanto affetto a loro (M.Luisa) bacetti dare responsabilità e fare teatro (Demetrio) complimenti e applausi dare la mia voglia di recitare facendo un teatro creativo (Gino) la serenità la mia creatività (Piero) unione dare affetto (Piero) affetto la mia disponibilità (Greta, aux) imitazione (personalizzazione) dare aiuto (Monica) ricevere un’ esperienza nutriente

2.7 - Sesta sessione: Oggetti, ricordi e riflessi In questa sessione, grazie alla scatola dei ricordi, emergono i seguenti

oggetti/ricordo (in corsivo riporto gli appunti): Susanna: una bellissima bambola di pizzo Susanna fa vedere il suo lato infantile portando questa bambola che le

fa venire in mente la sua infanzia e, scopriremo poi, anche la sua giovinezza di ragazza madre 23. In particolare Susanna riporta di essere stata sempre investita, fin da piccola, di incarichi di responsabilità e fatica da parte dei suoi genitori. Tant’è vero che le viene in mente la favola di Cenerentola.

Clementina: Duffy Duck Clementina porta invece qualcosa di sorprendentemente recente: il

momento dei cartoni animati visti con sua madre quando lei aveva 47 anni a casa loro.

Anche lei mostra un suo aspetto molto infantile attratto da questo papero nero, un po’ sfortunato al quale scoppiava sempre il sigaro in faccia. Stimolata ad animare il pupazzo (come fosse una marionetta) e decentrata Clementina da un giudizio poco lusinghiero su questa donna di 47 anni poco snodata e molto rigida (al contrario della mamma) che ancora guarda i cartoni animati.

Ottavio: la pila scarica Ottavio porta una pila scarica come segno di un suo trascorso

depressivo. Il letto e la pila scarica saranno in effetti i simboli che andranno ad effigiare lo stemma del suo momentaneo “casato”, e che lo accompagneranno durante il percorso.

22 La scatola, o valigia della memoria/Il cassetto segreto sono dei classici della pedagogia autobiografica. 23 Nella sessione 7 Susanna porterà una foto di sua figlia appena nata in braccio alla madre (la nonna della piccola).

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Mario (aggiornato dai compagni anche Mario può pescare dal suo scatolone magico un oggetto che, nel suo caso, essendo stato assente la volta precedente, è ancora immaginario): il collier di perle della madre

Mario fa fatica a trovare un oggetto e solo dopo varie circonlocuzioni che fanno parte comunque del suo stile comunicativo, arriviamo al collier di perle regalato alla mamma, nei confronti della quale Mario nutre un forte affetto.

2.8 - Settima Sessione: Personaggi della fantasia Dopo un ulteriore lavoro sugli oggetti/ricordi della scatola, impostiamo

un’attività incentrata sulla creazione di nuovi personaggi/ruoli che, una volta creati, si devono presentare ai compagni.

Ottavio: Topolino Sembra molto divertito, non trattiene in certi momenti il riso, poi

stimolato dalle domande parla dei Bassotti e di Paperon de Paperoni, delle due città Paperopoli e Topolinia. Ottavio assume il ruolo del più intelligente, di colui che svela ogni trucco e mistero.

Susanna: “Musu(l)mana” la danzatrice del ventre Susanna, che nella vita di tutti i giorni ama andare a ballare, si presenta

nei panni di una danzatrice del ventre, è velata, alla fine improvvisa una danza, danzando però alle spalle del pubblico.

Quando il direttore le chiede di poterla rifare davanti al pubblico con una musica adatta lei acconsente. I compagni applaudono.

Clementina: la principessa di ghiaccio Il suo personaggio è un ricordo della sua infanzia, una favola che le

raccontavano quando era piccola: la principessa di ghiaccio, con la quale Clementina si identifica, un’antieroina dal cuore freddo, incapace di provare sentimenti, e in grado di fare fatture. Nella verbalizzazione Clementina dirà di sentirsi molto simile a lei, soprattutto per quanto riguarda l’abilità nel congelare ogni sentimento umano.

Marco: Tex accompagnato da Willer e dal fedele cavallo Marco si è messo nei panni di Tex, in effetti sembra avere le phisique

du role, in una versione più comica. Marco non chiacchiera molto. E’ meno “creativo” degli altri compagni. E’ molto mimetico e poco poietico, tende sempre a riproporre o rivisitare qualcosa di già detto dai compagni, un po’ come i bambini molto timidi e insicuri. Ma Tex è davvero una sua trovata. Si scoprirà poi che era un fumetto che leggeva sempre suo padre.

Piero: Cenerentola con la faccia da cane E’un personaggio piuttosto inquietante. Non si capisce se sia il frutto di

una sua elaborazione simbolica, o di un cortocircuito. Sembra veramente uscito da non si sa quale piega cerebellare.

Monica (io-ausiliario): il gabbiano Jonathan Livingstone La scelta dell’ausiliario è degna di questo ruolo. Porta la storia del

gabbiano Jonathan perché gliela raccontava il padre quando era piccola. Mary sente che questa storia può far bene e servire al gruppo.

Greta (io-ausiliario): La bella addormentata nel bosco Porta un personaggio che sente molto lontano da sé (l’altro da sé):

Biancaneve alle prese con i sette nani. 2.9 - Ottava sessione: La teatralità In questa sessione lavoriamo sulla coesione di gruppo attraverso

attività di matrice più marcatamente teatrale che non psicodrammatica. Una sorta di lunga “attivazione psicomotoria” con finalità espressiva. Un training per abituarsi alla presenza scenica, che tradotto in termini psicodrammatici significa una maggiore attenzione all’area posturale/motoria ed emotiva.

Il gruppo si diverte e partecipa attivamente al lavoro. Dalla scatola dei ricordi emergono i seguenti oggetti: • Gino porta la cornice senza foto24 di suo padre • Piero un braccialetto di metallo regalo di una persona del centro • Clementina la foto, rappresentata come P, dei suoi genitori a

Venezia 2.10 - Nona sessione: Lavori col protagonista e cuore del gruppo Si ritorna al lavoro psicodrammatico con due lavori con il Protagonista

emersi grazie alla scatola dei ricordi: Clementina: Il basco nero Clementina ha portato un basco nero appartenuto a suo padre. In inversione di ruolo con il padre ritorna sull’episodio dell’operazione

affrontata all’età di quattro anni in Argentina. Il padre dà un messaggio alla figlia che sembra voler esorcizzare la sfortuna rappresentata dal povero papero nero Duffy Duck della sesta sessione : “ti auguro di avere d’ora in avanti meno sfortuna”. Clementina sembra davvero la rappresentazione del brutto anatroccolo nella terza età.

Gino: l’orologio del padre . Gino porta l’orologio regalatogli da suo padre ad un compleanno. Gino fa il P : il pranzo di compleanno con il padre un anno fa Il tema è la casa, in scena ci sono la madre (Irene, direttore/aux. prof.),

il padre (Marco) e Gino (Ottavio).

24 Questa cornice senza foto è un oggetto che ci ha profondamente toccati. Un oggetto proiettivo che ha colpito l’immaginario di tutti e che infatti è finito nella rappresentazione finale come un segno del percorso compiuto: l’elaborazione del lutto, il dare senso all’assenza e alla mancanza. In questo caso l’oggetto sembra quasi la magia di un genius loci.

Gino ascolta un breve scambio di battute fra la madre (vorrei cambiare casa) e il padre (pensiamo a mangiar e a goderci il pranzo), poi sale in balconata e fa un soliloquio (conferma le ragioni del padre), scende e dà un messaggio a ciascuno, infine li congeda in maniera non verbale.

Gino in un soliloquio verbalizza la sua difficoltà attuale nella gestione dell’eredità familiare, bollette, spese, responsabilità che lo fanno stare in grande apprensione.

Specchi e cuore del gruppo In questa sessione ritagliamo anche un momento per far fare al gruppo

degli specchi (ognuno va da un compagno di gruppo per dirgli come lo ha visto) e per una sociometria (il cuore del gruppo) che viene così rappresentata:

- vicini al cuore: Clementina, Demetrio; Monica, Susanna, Cleofe; - un po’ più lontani: Matteo/aux (mi sento un pollice) , Gino (non tutti

stanno dando il massimo), Ottavio. 2.11 - Decima sessione: Inventa un personaggio Ritorniamo ai personaggi simbolici. Questa volta però in modo diverso:

in cerchio ognuno doveva dare al compagno alla sua destra un personaggio suggeritogli dalla sua fantasia:

• Monica (aux) trasforma Cleofe in una strega chimera medievale, una strega buona che se ne sta nell’ombra e che aiuta le persone che hanno bisogno

• Cleofe (strega/chimera) trasforma Ottavio in Topolino superboy, una specie di topo supereroe che mangia il formaggio e che sa volare

• Ottavio (Topolino superboy) trasforma Clementina in una mucca che produce lattepiù, un latte supersostanzioso; è una mucca bianca con il campanaccio.

• Clementina (Mucca lattepiù) trasforma Gino in Ele, un elefante indiano che porta in giro i turisti e a tutti dà un ombrello per proteggersi dal sole. E’ molto simpatico e ha un naso rosso. Anche questo animale è bianco.

• Gino trasforma Piero in un astronauta che dopo una bella chiacchierata lo esorta ad andare a fare un viaggio sulla luna per mostrargli quant’è bella. E’ un astronauta esperto che conosce lo spazio e sa dove andare.

• Piero trasforma Monica (aux) in Mary Poppins • Il due direttori trasformano Franca (che è arrivata in ritardo) in

una laboriosa formica (Z la formica25) che raccoglie il pane. 2.12 - Undicesima sessione: Africa Bellissima! In questa sessione viene scelta dal gruppo Susanna come P, la quale

porta un suo sogno (Africa Bellissima!). Il sogno di Susanna Susanna porta il sogno di essere andata in un posto in Africa dove

c’erano molti animali e molti pericoli. In particolare riporta la scena di lei che viene avvertita di non addentrarsi dentro le sabbie mobili e verso i coccodrilli, che la possono azzannare. Ad avvertirla è il padrone e signore dell’Africa insieme al buon elefante e alla scimmia dispettosa, mentre il serpente è pronto ad iniettarle il suo veleno mortale.

Lavoro col protagonista Susanna costruisce la scena, dà i ruoli e doppia ciascuno: alter ego: Clementina sabbie mobili: Monica (se ti avvicini sprofondi!) coccodrillo: Greta (ti voglio mangiare!) Padrone dell’Africa: Ottavio (Vai via, vai via che se no ti fai male, è

pericoloso!) Elefante buono: Cleofe (a me piace stare qui, guarda però che è

pericoloso) Scimmietta: Gino (io qui in questa foresta mi diverto, sto bene insieme a

tutti gli altri animali) Serpente. Piero (vorrei iniettarti il veleno fin sotto alla pelle!)

25 I due direttori qui presi in contropiede dal ritardo introducono Susanna nel gruppo vestendola e facendole uno specchio che vorrebbe far prendere coscienza su di una posizione normalmente e naturalmente assunta da Susanna fuori dal gruppo e che non vorrebbero portasse anche dentro al gruppo. Nella stessa sessione in una scenetta improvvisata Cleofe/Strega buona con la sua bacchetta magica trasformerà Susanna/Z la formica in una bellissima donna. Il gruppo in questo modo sembra voler scongiurare simbolicamente un pericolo che uno dei suoi membri stava vivendo, dimostrando così un grande forza coesiva ed un incredibile sintonizzazione . In effetti Z La formica è un’abile lavoratrice, ma è anche l’ultima ruota del carro, è un Omega. Che cos’è un omega? Gli omega, gli ultimi, i deboli, gli sfigati. Quelli che all’interno del branco occupano l’ultima posizione, quelli che mangiano solo se avanza qualcosa, quelli che non possono mai accoppiarsi perché la femmina spetta solo al capobranco, all’Alfa. Devono sopportare tutto e alla fine qualche volta li cacciano anche (D’Adamo F. 1999). Ma nella plusrealtà può diventare una donna da sogno.

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Susanna ascolta tutto e fa un soliloquio Incontro di Susanna con una sua amica e congedo Verbalizzazione Susanna è più emozionata del solito, ma la sua verbalizzazione

emotiva è stereotipia Sharing “Monica e Greta si sono sentite in difficoltà nell’interpretare ruoli

connotati negativamente e che presentavano tratti aggressivi e minacciosi. In realtà hanno intuito la loro funzione ausiliaria, che è anche quella di assumere su di sé ruoli che altri membri del gruppo non sarebbero in grado di assumere o tollerare.

Piero si è sentito come al solito bene, anche se anche il suo era un ruolo “cattivo e seduttivo” (tra Susanna e Piero corre in effetti un certo feeling)

Stefania è stata molto contenta di aver potuto interpretare un ruolo che le ha permesso di sdrammatizzare la sua importante fisicità. Nel verbalizzare si mostra sinceramente felice.

Gino con lungo giro di parole dice di essersi trovato bene ad interpretare una scimmia che si esprimeva molto con l’istintività.

Ottavio si e sentito in sintonia con il suo ruolo, non ha avuto problemi e il “potere” non lo ha scombussolato, tanto più che il padrone dell’africa sembrava comunque un P. positivo. Clementina non ha verbalizzato molto26”.

Considerazioni sulla sessione Il gruppo mette in scena una storia del suo membro più “estemporaneo”

e quest’ultimo, pieno di risorse inaspettate, tira in ballo tutti quanti in questa metafora della giungla e del pericolo.

Una scena in cui Susanna rappresenta la sua lettura fantasiosa (e fantasmatica) del gruppo e del centro diurno. Ha cementato così la coesione e ha dato ad ognuno la possibilità di sperimentarsi in nuovi ruoli. In particolare Cleofe sembra aver tratto giovamento da questa rappresentazione che le ha dato modo di esorcizzare la sua mole sdrammatizzandola.

2.13 - Dodicesima sessione: Consulto con regali E’ l’ultima sessione prima della pausa estiva e decidiamo di predisporre

un consulto al termine del quale ogni membro del gruppo oggetto di consulto riceverà un regalo da parte degli altri membri.

I regali del gruppo (tipo consulto) Il gruppo su Gino: il gruppo ricorda alcuni suoi personaggi e la sua

disponibilità. Gino interrompe più volte il “consulto” . Infine il gruppo concorda con il regalargli un orologio speciale che gli serve per prendere tempo prima di straparlare e di interrompere.

Consegna Cleofe. Il gruppo su Cleofe: il gruppo sottolinea la capacità di Cleofe di

prendersi cura degli altri nell’ombra, con una presenza quasi magica. Regalo: bacchetta magica a forma di fiore. Consegna: Gino Il gruppo su Clementina: il gruppo da rimandi forti, che riguardano

anche la sua solitudine, la mancanza della mamma, la disperazione, la sua capacità di ricordare, la sua apparente glacialità.

Regalo: macchina fotografica magica che può vedere tutte le foto che non ha mai fatto.

Consegna: Matteo Il gruppo su Susanna: il gruppo dice di aver apprezzato la sua

creatività e la sua fantasia Regalo: le chiavi passe partout Il gruppo su Piero: il gruppo parla del “genio” visionario di Piero, in

grado di aprire mondi sconosciuti. Alcuni ricordano anche la sua aggressività “latente” espressa dal serpente che morde.

Regalo: un casco magico per andare dove vuole. Il gruppo su Matteo: emerge l’immagine di un operatore molto umano

che si “difende” con l’ironia e un apparente e sottile cinismo di facciate, che nasconde un grande calore.

Il gruppo su Monica: Tutti sono rimasti sorpresi dall’immagine di Mary Poppins. Con un poco di zucchero la pillola va giù.

2.14 - Punto di vista di una psicologa non psicodrammatista sui primi dodici incontri

Penso possa essere utile inserire all’interno del lavoro, così come accennato al termine del primo capitolo, le considerazioni e le riflessioni prodotte dalla dott.ssa Z. (alias ausiliario “Monica”) sul percorso fin qui compiuto, estrapolate dal suo lavoro di tesi. Il punto di vista di una psicologo non psicodrammatista ricavate dalla sperimentazione attiva del metodo è sicuramente interessante:

“Si può chiaramente denotare come dal primo incontro27 si sia reso momento indispensabile, oltre alla presentazione di ciascuno agli altri elementi del gruppo , il rituale d’ingresso visto proprio nei termini di una transizione fisica sul tappeto degli psicodrammatisti elemento essenziale,

26 Dagli appunti 27 Griglia di osservazione del primo incontro di psicodramma

finalizzato all’assunzione di ruolo da parti di tutti i partecipanti io ausiliari compresi.

Il laboratorio, sin dalle prime battute ha previsto degli elementi più ludici legati ad una minore strutturazione dell’identità psicodrammatica di ciascuno degli utenti, all’interno dei quali, (vd Gioco della palla del primo incontro) transitoriamente, i pazienti hanno potuto sentire su di loro, per brevi tratti, la tensione dell’attenzione del gruppo senza eccedere all’interno di un quadro di attivazione emotiva insostenibile, tutto ciò attraverso la capacità di saper tollerare ansia e angoscia per qualcosa in cui è essenziale essere precisi, che diventa via via un temporaneo rilevante traguardo che si prepara per i partecipanti.28

Già possibile sperimentare all’interno di un setting protetto la possibilità di cominciare con un seppur minimo accenno al lavoro teatrale, ad esempio nel nominare il proprio nome e nel dire qualcosa di sé, all’interno del quale il gruppo, apparentemente futile, slegato, e incapace di cooperare, si manifesta via via compatto ed efficacemente cooperativo nella sua azione verso il lavoro terapeutico29.

La funzione della metafora si è mostrata essenziale per la definizione del clima emotivo del lavoro e delle sedute, al fine di poter capire quasi come per libera associazione cosa tale esperienza potesse evocare nei pazienti e cosa potesse sviluppare a livello teatrale; a tal proposito le somiglianze e le complementarietà fra le esperienze dei pazienti hanno permesso di costruire un tema comune, dove ciò che è comune ha neutralizzato le diversità delle esperienze psicopatologiche30.

Nel corso del lavoro, ma già sin dalle prime battute, si è potuto notare come la presa in carico si sia strutturata attraverso gli psicodrammatisti e la vera e propria azione scenica, come catalizzatore dei vissuti emotivi attraverso il ricordo evocato dai pazienti e riguardante la propria storia. La partecipazione al setting scenico da parte degli io ausiliari e da parte degli altri pazienti ha consentito, sin da subito, di condividere insieme a colui che evocava i vissuti emotivi, riconoscendo ciascuno se stesso attraverso un meccanismo proiettivo-introiettivo; in tal senso la psicologia dell’individuo e quella del gruppo non hanno potuto assolutamente essere differenziate, e la stessa psicologia di ogni singolo partecipante ha rappresentato funzione di un rapporto dell’individuo con un’ altra persona o con un altro oggetto31. In questo senso i partecipanti al laboratorio hanno potuto facilitare il recupero di quegli elementi scotomizzati che rischiavano di rappresentare una macchia cieca nella composizione della comprensione emozionale degli eventi portati32

Sin dai primi incontri si può osservare come tramite l’evocazione di ricordi metafore immagini si sono ricomposti frammenti di vita personale e si è favorita la coesione del gruppo che ha funzionato da supporto dei vissuti emotivi altrui attraverso un ricircolo ed una rielaborazione a più livelli.33

Attraverso un attento lavoro sulle qualità e tipicità ritenute importanti dai partecipanti34, ogni partecipante ha esposto sul campo ciò che riteneva importante portare al gruppo, ma anche ciò che intendeva ricevere e portare a casa dopo l’esperienza comune.

Proprio attraverso il lavoro del doppio, gli utenti hanno potuto elaborare ed essere elaborati, all’interno della condivisione di ruoli comuni, ricordi, ruoli diversificati e scelti, come quelli di un oggetto della realtà che circonda.

E’ stato proprio attraverso la creazione di una valigia/scatola dei ricordi35, contenitore personale ma condiviso degli oggetti significativi e importanti, che i pazienti hanno cominciato a vivere l’esperienza di psicodramma come un contenitore all’interno del quale esprimere qualcosa di loro stessi, che poteva in un certo senso essere rielaborato dalla realtà del gruppo. Tale valigia è rimasta contenitore stabile di una presenza viva della storia personale e psicopatologica del soggetto o testimonianza della “vuotezza” dell’esperienza di malattia.

Attraverso la messa in scena dei personaggi portati all’interno della valigia, i pazienti hanno potuto rievocare attraverso la catalizzazione di un personaggio per loro importante la loro storia all’interno della quale l’empatia da concezione puramente affettiva, si è arricchita di una dimensione cognitiva, che ha collegato la percezione degli stati emotivi a scenari in qualche modo più vasti ed articolati36 .

28 Marcoli F. Wifred Bion e le “Esperienze nei gruppi”, Armando , Roma, 1968. 29 Marcoli F. Wifred Bion e le “Esperienze nei gruppi”, Armando , Roma, 1968. 30 Puget J., La mente dello psicoanalista nelle configurazioni vincolari,in Rugi G. e Gaburri e. a cura di Il campo gruppale, Borla, Roma, 1998 31 Bion W. R., Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971. 32 Nissim S., L’oservatore e il gruppo di discussione: la neutralità come capacità negativa, Cresti L., Farneti P., Pratesi C., Osservazione e trasformazione, Borla, Roma, 2001. 33 Terzo incontro, protocollo di osservazione degli psicodrammatisti. 34 Quarto incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti. 35 Quinto incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti. 36 Di Chiara G., La formazione e le evoluzioni in campo psicoanalitico, in Gaburri e. a cura di emozione e interpretazione, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

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Gli oggetti rievocati ed estratti dalla valigia hanno espresso la connessione fra oggetto, corpo e parola, fra rappresentazione verbale, contenuto mentale e quantum affettivo ad essi originariamente legato37; in tal senso è stato possibile mettere in scena e ricostruire il romanzo familiare dei pazienti, che hanno potuto rievocarsi all’interno dei ruoli della madre , del padre, dei fratelli.38

Tali contenuti hanno reso possibile la costruzione dei personaggi di scena, personaggi teatrali ma anche personaggi che rievocano la storia psicopatologica e gli spunti terapeutici legati ad ognuno.39

Attraverso la strutturazione della scena40 come contenitore costruttivo dell’esperienza di ciascuno all’interno di ogni personaggio, i partecipanti hanno potuto rappresentare un particolare della storia psicopatologica di ciascuno, esercitando ed esplicando la possibilità del poter vedere qualcosa che rappresenta angosce non elaborate, lutti, vissuti angosciosi.

Alla conclusione del laboratorio41ogni paziente ha portato con sé un regalo affidatogli dal gruppo che ha rappresentato un rimando del lavoro terapeutico di questa esperienza.

Capitolo 3 LA PSICODRAMMATURGIA DEI PERSONAGGI/PERSONA

La pausa estiva ci ha lasciato tempo per riflettere e per sistematizzare il materiale emerso in previsione del lavoro finale.

Alla fine di questi primi dodici incontri con gli ospiti del centro diurno, ci siamo trovati con una discreta galleria di personaggi, situazioni, vissuti ed emozioni, frutto di un lavoro schiettamente psicodrammatico. Il nostro compito diventava ora particolarmente interessante: trovare una struttura drammaturgica che potesse contenere questo materiale e darle una forma

espressiva di senso compiuto. Con un pizzico di compiacenza e di indulgenza, abbiamo incominciato

insomma a sentirci un pò meno psico e un pò più dramma-turghi intenti a trovare il filo del discorso, il bandolo della matassa, un canovaccio.

37 Giaconia G., Racalbuto A., I precursori del simbolo, 38 Nono incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti. 39 Decimo incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti. 40 Undicesimo incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti. 41 Dodicesimo incontro griglia di osservazione degli psicodrammatisti. 42 Gaia Piccolo

Poiché non esiste un ruolo senza un adeguato controruolo, abbiamo pensato di considerare ognuno di loro come un artista43 che in qualche modo voleva comunicare qualcosa su di un determinato tema o su più temi.

3.1 - Psicoterapia psicodrammatica e drammaturgia: la psicodram-maturgia

Ci rendiamo ben conto di quanti sfasamenti e travisamenti abbiamo prodotto: psicodrammatisti che giocano a fare i drammaturghi, pazienti psichiatrici che diventano artisti, palestre e sale TV trasformate in teatri...a nostra difesa diciamo che la creatività, o meglio quel qualcosa che noi presuntuosamente definiamo come tale, porta davvero in territori non certo nuovi, ma sicuramente diversi da quelli inizialmente immaginati. La creatività a volte sorprende la nostra stessa immaginazione.

Lavorare su materiale psicodrammatico per tradurlo teatralmente non è una cosa semplice, è altresì un’operazione molto delicata che può sconfinare nella manipolazione.

In tal senso, essendo questo un lavoro di tesi che presume una valutazione finale del lavoro svolto, rimandiamo a chi è più esperto di noi il giudizio.

Nel frattempo mi limito ad osservare, anche a seguito di questa esperienza, quanto il mestiere di psicoterapeuta psicodrammatico, alias direttore di psicodramma, sia inevitabilmente e sorprendentemente vicino e prossimo a quello di drammaturgo.

Tale prossimità è visibile ogniqualvolta ci si trovi a dover raccogliere, gestire ed integrare il materiale emerso nel corso delle sessioni. E’ un lavoro di decodifica e di ricomposizione molto simile alla ricomposizione delle tessere di un puzzle un po’ particolare, digitale e non analogico.

Persone personaggi Temi/suggestioni Teatro interno/altri significativi Oggetti/presenze Clementina

La mucca che produce lattepiù La principessa di ghiaccio

Dell’eterna infanzia Madre Padre Medico ebreo

La bambola Pepucia Duffy Duck Basco nero del padre La foto di una gita a Venezia con i genitori

Susanna

la Madonna, felice anche se il figlio è crocefisso, che si lamenta un po’ di dover fare le pulizie di casa. Musu(l)mana, la danzatrice del ventre italiana Z la formica che raccoglie le briciole Cenerentola

Della femminilità Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande

La figlia Pierina I suoi genitori

L’auto (il desiderio di avere la patente) Una bellissima bambola vestita di pizzo (ricordo di lei da bambina, un po’ Cenerentola) La fotografia della nascita della figlia Pierina

Ottavio

Monaco benedettino “in crisi” Topolino Topolino superboy Il padrone dell’Africa

Dell’ironia Il suo letto Una pila scarica

Gino

Il fedele buontempone Ele l’elefante indiano un po’ clownesco La scimmietta istintiva e compagnona

Della clowneria Il padre La madre

Il collier di perle regalato alla madre La cornice senza foto di suo padre L’orologio regalo del padre

Piero

Cenerentola con la faccia di cane L’astronauta Il serpente minaccioso

Del viaggio Una persona del centro Uno cognato che vive con lui e con il quale entra spesso in conflitto

La sua moto Il braccialetto regalo di una persona cara

Marco

Questuante di elemosine Tex, Willer e il fedele cavallo

Del surreale Marte

Stefania

Suora volontaria La strega/chimera medievale che cura la gente L’elefante buono che dà consigli

Della cura Lo stereo

Teresa Suora di clausura Del silenzio Monica Io-ausiliario

Candelabro che sta sull’altare Il gabbiano Jonathan Livingstone Mary Poppins Le sabbie mobili

Il padre

Matteo Io-ausiliario

L’aspersore

Greta42

Io-ausiliario Biancaneve e i sette nani Il coccodrillo (La fotoreporter-giornalista)

43In questo senso un utente psichiatrico è molto simile a quell’artista che non è sempre completamente consapevole delle corde che va a toccare. “Per molte persone l’attività teatrale è qualcosa che succede solo su di un palcoscenico il quale separa gli attori dal pubblico e riconosce come “artisti” le persone che presentano gli eventi alla genete che li guarda….E’ questa idea erronea condivisa da molte persone, ossia che il dramma sia solo una rappresentazione su di un palco e quindi appannaggio esclusivo di individui dotati di talento ed esperienza, che ha ostacolato il tentativo di molte persone di raggiungere il loro pieno potenziale creativo e che, in certi casi, impedisce alla stessa immaginazione di entrare in azione. E’ proprio questa barriera, spesso autoimposta, che gli operatori nel campo del dramma in età

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L’armonizzazione e l’integrazione delle tessere è il senso e l’obiettivo del lavoro. Il quadro che ne esce, lungi dall’essere definitivo, è anzi un istantanea del gruppo in quel momento. In questo senso più che di tessere si può parlare di pixel, più che di quadro, di fotografia digitale.

Il vero drammaturgo si cimenta con le tessere/pixel, ma non lavora sulla sua scrivania ma in teatro, crea per e con gli attori, respira la loro stessa aria, vive le loro stesse situazioni ed emozioni e per loro ne sviluppa altre. Stanislavskij lavorava sempre con il drammaturgo in sala, non c’era scarto tra l’atto creativo letterario e l’atto creativo teatrale. Il risultato era, con tutta probabilità, una sorprendente organicità tra quanto scritto e quanto detto; organicità che così tanto è mancata e manca in molto del cosiddetto teatro tradizionale, sempre così dipendente dall’attore istrione, e così tanto cercata dal terzo teatro.

In questo senso nell’affrontare il materiale emerso in corso d’opera abbiamo sentito una maggiore affinità con la drammaturgia che con la psicoterapia e percepito anche che questo sfasamento dei piani, pur avendo una innegabile matrice narcisistica e personalistica, poteva avere, e soprattutto dare, un senso.

Abbiamo lavorato creativamente (ma se fossi un artista direi speculativamente) e, si spera, rispettivamente sui materiali emersi, tenendoli celati dietro un segno o un simbolo laddove lo ritenevamo opportuno, svelandoli qualora percepissimo in loro una disponibilità in tal senso. Non abbiamo forzato. Nessuno si è tirato indietro. Il gruppo aveva una forza costruttiva, e l’ha sfruttata.

Qui di seguito si può vedere la tabella dalla quale siamo partiti per costruire il lavoro.

3.1.1 - L’idea drammaturgica L’idea drammaturgica che è scaturita dallo studio dei loro “materiali” è

molto semplice: Un regista pseudo-avanguardista un po’ naif e la sua sbadata

assistente convocano un provino per imbastire un lavoro teatrale sperimentale, che ricorda involontariamente il pirandelliano “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Il provino diventa però una prova aperta, perché la sbadata assistente convoca anche un pubblico raccogliticcio. Si imbastisce allora una rappresentazione durante la quale i provinandi costruiscono in scena un loro personaggio, utilizzando costumi e oggetti buttati là dal regista avanguardista, il quale alla fine, vedendo i loro lavori singolarmente, decide di assegnare “d’ufficio” i ruoli da interpretare.

Gli attori però, anche grazie alla comprensione dell’assistente alla regia che prende a cuore la loro causa, si ribellano perchè vogliono essere fedeli al loro personaggio ed anzi spiegare al pubblico come sono arrivati ad esso.

Il regista avanguardista abdica in favore dell’assistente ed il pubblico può così accedere al “dietro le quinte di un personaggio”: la persona.

3.2 - I personaggi / persona Ciascun “artista” aveva elaborato ed attraversato uno o più

persone/personaggi nel corso del lavoro. Di ognuno abbiamo cercato la sintesi, ovvero quel personaggio che riassumeva in sé le caratteristiche più evidenti della persona. Se il personaggio “di sintesi” non emergeva, ne tenevamo in considerazione più di uno.

Per completezza ho pensato di inserire anche i commenti e le riflessioni della dott.ssa Zucchella (in corsivo nel testo) e un breve quadro diagnostico

di ciascun paziente ricostruito al termine del laboratorio44 a partire dall’analisi delle loro cartelle cliniche.

Ho voluto inserire i tre commenti per ciascuna persona/personaggio con un intento caleidoscopico, per evidenziare i molti modo possibili di raccontare la malattia mentale e i suoi percorsi.

3.2.1 - Clementina / dell’eterna infanzia Clementina sembra vivere davvero nei ricordi della sua infanzia e

giovinezza, ognuno dei quali è indissolubilmente legato ai suoi genitori (il basco nero ricordo del padre, la bambola pepucia, la foto dei genitori a Venezia) e alla sua storia di vita, che l’ha vista crescere e vivere per molti anni fuori dall’Italia, in Argentina per la precisione. I suoi modi e movenze ricordano quelli di una bambola di porcellana, molto delicata, in netto contrasto con la sua sembianza di donna anziana.

E alla sua infanzia risale la storia della principessa di Ghiaccio, che le veniva raccontata dai suoi genitori nella patria del tango, del pensiero triste che si balla. Clementina sembra una donna a cavallo tra due culture, un’italiana d’argentina che vive nella nostalgia e nel ricordo. Emergono in questo senso i suoi aspetti depressivi e malinconici che la portano ad autosvalutarsi. In termini psicodrammatici il suo io-attore sembra messo sotto scacco dall’io-osservatore. Quando si concede all’azione però Clementina appare spontanea e ricca di simpatica umanità e calore, qualità

evolutiva, della creatività personale e della terapia dell’attività drammatica hanno cercato di intaccare per più di due decenni”. (Warren, 1993) 44 Ci tengo a sottolineare che abbiamo preferito non avere informazioni cliniche a priori ma a posteriori. Personalmente riesco a lavorare molto meglio e con maggiore libertà, spontaneità e creatività se non sono appesantito da diagnosi ed etichette.

bellissime che però non si riconosce nel momento in cui si osserva e si descrive.

In effetti si è più volte dipinta come una persona dal cuore freddo e insensibile alle emozioni.

E’ per questa ragione che abbiamo pensato di darle il ruolo di narratrice di questa favola, la Principessa di Ghiaccio.

Da questo contrasto emerge un personaggio-narratore che narrando si narra e si svela. Da vera narratrice poi, non racconterà mai la storia allo stesso modo, ogni volta variandola e modificandola a seconda degli umori del momento45.

Clementina e l’infanzia “data via” Clementina viveva in Argentina coi genitori. Il padre, un musicista che

viveva di espedienti, morì molto giovane; la madre, con la quale ha vissuto per molti anni dopo il ritorno in Italia, tratteneva Clementina in un rapporto simbiotico, all’interno del quale la paziente, molto sofferente dal punto di vista psichico, alternava momenti di estrema aggressività, nei quali picchiava ripetutamente la madre, a momenti di estrema passività nei quali si rinchiudeva nella propria camera. Attualmente Clementina vive con la zia, con la quale cerca di rimettere in scena lo stesso rapporto avuto con la madre. Sostiene che la sua vita le sia stata data via dai parenti i quali “…hanno dato via tutte le mie cose…”.

Clementina ha utilizzato il lavoro di psicodramma per mettere in scena un personaggio a lei caro che viene dall’infanzia. E’proprio attraverso il ricordo che funziona il lavoro terapeutico della paziente; attraverso il ricordo, infatti, può far riemergere quegli aspetti del sé che, persi all’interno del vuoto della fusionalità familiare, apparivano aver perso di significati. Proprio attraverso i personaggi Clementina può identificare delle parti di sé significandole all’interno di un quadro emotivo delimitato. Ha così potuto capire l’importanza della traccia del ricordo dei genitori e non tanto del caos di oggetti che popolavano la sua stanza e la sua vita; il far spazio a significati emotivi ha potuto quindi portare la paziente ad una significazione del fare spazio anche nel suo mondo esterno e ad una caduta dell’angoscia per la perdita di tutti i suoi oggetti.

3.2.1.1 - Clementina (quadro clinico) Clementina ha vissuto in Argentina fino all’età di 8 anni, quindi è

rientrata in Italia con la famiglia. Ha sempre vissuto a stretto contatto con la

45 Per rasserenarla e tenere a bada i livelli di ansia abbiamo sfruttato il tele positivo tra Clementina e Irene (co-conduttrice). Anche Irene infatti, essendo italo-tedesca conosce molto bene i problemi inter-culturali, di chi vive o è vissuto a cavallo di due culture. Anche per questa ragione è stata scelta da Clementina come suggeritrice in scena. Tale decisione l’ha notevolmente rasserenata e ha facilitato i suoi processi mnemonici.

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madre, con la quale ha instaurato un rapporto di dipendenza fortemente regressivo. Dopo la sua morte si è trasferita da una zia acquisita di 71 anni.

L’esordio psicopatologico risale al 1980 con conseguente ricovero in OP. E’ pertanto seguita da un CPS.

Clementina, licenza media, ha lavorato come parrucchiera per tre anni. Attualmente è invalida civile al 100%. Arriva al centro con diagnosi di schizofrenia simplex. L’eloquio è semplice, presenta dispercezioni uditive (voci denigratorie) diminuite di intensità negli ultimi mesi. L’ideazione è allo stato attuale priva di contenuti patologici, seppur caratterizzata da infantilismo ideativo ed affettivo. In primo piano emerge una condizione di marcato ritiro sociale ed incapacità di gestirsi autonomamente anche nelle attività più semplici della vita quotidiana.

3.2.2 – Susanna / della femminilità Susanna vive nell’azione, un po’ meno nella riflessione. Il suo

linguaggio presenta una certa stereotipia ed ecolalia. Malgrado le difficoltà, Susanna è stata per il gruppo una vera risorsa, un motore ed un promotore di azione, un condimento davvero importante e funzionale ai movimenti del gruppo stesso.

Bruciando molta azione, Susanna ha “bruciato” e messo i panni di molti personaggi, ognuno dei quali sembrava andare a comporre un aspetto della sua persona. Per questa ragione, quando si è trattato di vedere quale delle sue creazioni le appartenesse di più, non abbiamo saputo scegliere ed anzi ci siamo resi conto di quanto ognuna si integrasse con l’altra: Mussu(l)mana46, la Madonna, la Formica, Cenerentola.

Da questi personaggi è nata la suggestione che Susanna volesse parlarci della femminilità della donna e della sua unica e splendida capacità di poter coniugare insieme l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.

La sua performance tocca davvero molti degli aspetti peculiari del “gentil sesso”: la donna che lavora e come una formica raccoglie e mette via per l’inverno, la donna sensuale e misteriosa che danza una musica orientale, la ma-donna spirituale che si sacrifica per il figlio che verrà crocefisso ma che lei preferisce ricordare infante tra le sue braccia intenta a farlo addormentare, seppur a fatica, ed infine la donna serva eternata nella favola di Cenerentola, la donna oggetto, sfruttata e costretta ai lavori più umili, ma segretamente ed intimamente sicura che il riscatto è dietro l’angolo.

Susanna ha parlato poco, la sua esibizione prevedeva dei passaggi da un personaggio all’altro scanditi da musiche e danze diverse per ognuno e dalla sua voce che li introduceva. Ma ha toccato davvero il cuore.

3.2.2.1 - Susanna e le figure della femminilità. Susanna è madre di G. una ragazza ormai ventenne con cui la paziente

non ha potuto vivere perché la figlia le è stata sottratta. Inoltre Susanna, reduce da una storia di abusi e maltrattamenti subiti da parte del marito all’interno di un quadro di estrema deprivazione psico-emotiva e sussistenziale, è riuscita a separarsi dall’uomo che l’abusava e maltrattava. Grazie all’aiuto dei servizi territoriali, tuttora vive con l’anziana madre e il compagno di lei, il quale mostra un atteggiamento irrispettoso e a sua volta maltrattante nei confronti della figliastra, che soffre molto per questa

46 “Mussumana” è proprio il nome che Susanna ha dato al suo personaggio.

situazione. Il rapporto con la madre è improntato ad un’estrema fusionalità, la paziente si mostra spesso e volentieri visibilmente angosciata in relazione allo stato di salute della madre ormai anziana e di salute precaria, sostenendo di non poter pensare una vita senza di lei. Per quanto riguarda il suo rapporto con gli uomini, Susanna appare improntata ad una modalità isterico-seduttiva che talvolta si mostra così abnorme da apparire estremamente inadeguata. Le sue relazioni con l’altro sesso sembrano inizialmente amicali, condivise all’interno di organizzazioni a stampo sociale, centri di aggregazione, tuttavia in breve tempo si trasformano in rapporti perversi e sbilanciati, all’interno dei quali la paziente si sente strumentalizzata anche dal punto di vista sessuale, evacuando l’angoscia di suddette modalità in maniera isteriforme, con crisi di pianto dimostrative, finalizzate a richiamare su di sé l’attenzione degli operatori del servizio.

I personaggi portati da Susanna. all’interno del lavoro psicodrammatico sono quindi relativi alla femminilità e al suo modo di far uso di questa.

La donna madonna (vedi foto) “…Susanna entra sulla scena con un mantello azzurro cullando il suo

fagotto al ritmo della musica e lo deposita nella mangiatoia…” Il primo personaggio portato dalla paziente si snoda come

un’incarnazione della donna madonna e madre, Susanna entra infatti con un mantello azzurro sul capo tenendo in braccio un “fagotto” che altri non è che il piccolo Gesù, lo culla come trasognata all’interno di una danza rituale, un po’ ninna nanna un po’ litania, in realtà il mantello le sta un po’ goffo in testa, appare imbarazzata, ma contenta di incarnare quel ruolo.

La donna mussu-mana danzatrice del ventre “…Susanna con un rapido colpo si gira il suo mantello attorno ai fianchi

e comincia una turbinosa danza del ventre…”. E’ proprio all’interno di questa figura-personaggio portato dalla paziente

che si incarna la sua pervasiva femminilità. Si “lancia” in una danza del ventre utilizzando il suo mantello turchino che precedentemente le serviva per essere madre.

La figura creatasi è una figura che si allea con le parti patologiche della paziente improntata ad una seduttività scarsamente decodificabile, motivo isterico del suo rapporto con l’altro maschile.

La donna cenerentola “…improvvisamente il mantello diventa straccio e Susanna comincia a

lavare i pavimenti…”. Emerge in questo personaggio portato nella rappresentazione, la figura

di una donna volta alla cura del focolare e dell’ambiente domestico, ma non solo. Ad un livello più sottile la cura del focolare è intesa come ciò che la tiene legata alla madre in maniera agglutinata e indissolubile e che non le consente di fare chiarezza nel suo ruolo di donna. La madre incarna la figura di una madre cattiva che costringe la paziente a mansioni domestiche quotidiane pesantissime, a causa delle quali la paziente non ha la possibilità di uscire dall’ambiente e cercare un lavoro che la possa rendere indipendente.

La donna-formica “…Susanna comincia a raccogliere tozzi di pane all’interno del suo

grembiule…” All’interno della figura della donna-formica la paziente riporta la

necessità di raccogliere le briciole di quanto rimasto per lei, le briciole della sua esistenza, le briciole del rapporto con la figlia, le briciole della sua identità di donna.

3.2.2.1 - Susanna (quadro clinico) Susanna viene inviata al centro diurno con una diagnosi di ritardo

mentale medio. E’ lei stessa a riferire di un suo pregresso abuso etilico e un ricovero in seguito a scompenso depressivo.

In passato ha lavorato come collaboratrice domestica, è attualmente invalida civile all’80% e presenta una sintomatologia ansiosa con lieve flessione del tono dell’umore reattivamente alle ultime vicende coniugali che l’hanno portata a chiedere la separazione dal marito. Dopo tale separazione vive con la madre e il suo convivente. Il linguaggio è molto semplice, la paziente presenta inoltre a tratti difficoltà di comprensione e di espressione.

3.2.3. - Ottavio / dell’ironia Ottavio è stato il filosofo del gruppo, una specie di punto di riferimento

silenzioso il cui giudizio era tenuto in tacita considerazione. Persona di poche parole, più portata al pensiero che all’azione, con una

visione delle cose e del mondo piuttosto ironica ma che in gruppo non si è mai trasformata in sarcasmo od ostilità.

Anche gli oggetti, le cose personali di sé sono state poche, essenziali ma anche esiziali: un letto ed una pila scarica. Ottavio è passato attraverso un periodo di depressione sicuramente molto pesante che lo ha segnato parecchio.

La personalità ironica è molto spesso depressa ed utilizza proprio lo strumento ironico per guardare il mondo con un certo distacco, perché sa che solo così può tenersi lontano dalla sofferenza (non a caso il verbo greco uranòs significa, se non sbaglio, guardare dall’alto).

Tra le persone del gruppo appare quello apparentemente meno compromesso e con le maggiori risorse cognitive. Il versante emotivo è invece più “congelato” , stenta ad uscire, se non tramite il meccanismo

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ironico, teso a volgere in ridicolo o a negare ogni costruttivo movimento emotivo.

Il suo personaggio, il monaco benedettino in crisi, è uscito fin dal primo incontro ed anche in seguito ci è sembrato quello che meglio degli altri potesse rappresentare l’Ottavio-persona. La resa teatrale è stata molto semplice: un monaco con tanto di saio e pulpito “portatile” va da un posto all’altro per salmodiare, predicare e convertire, ma spesso e volentieri nel bel mezzo del discorso spirituale viene colto da forti colpi di sonno che lo fanno accasciare sul suo pulpito-letto. Si ride e si pensa.

Ottavio, il monaco benedettino “…Ottavio entra col suo banchetto da predicatore e comincia a leggere

una predica 47durante la quale tende ad assopirsi; il fischio del regista lo sveglia…”

Proprio attraverso questo personaggio Ottavio appare integrare due versioni del suo sé, quella che ha perso le speranze e che tende ad assopirsi nel letto, anche alla mattina nella fatica di venire al servizio dice: “…mi sento come un pila scarica…” e quella più attiva ma sofferente, angosciata, alla costante ricerca di significati, il monaco benedettino che legge una sorta di poetica apologia del sonno48. Tale personaggio ha consentito di fondere all’interno della azione terapeutica dapprima e scenica poi, una rottura che il paziente viveva fra un aspetto, nel senso psicopatologico , più freddo dei suoi sintomi, anedonia disinteresse, apatia, e un aspetto più florido, angosciato, rischioso, di ricerca di significati, fuso ancor di più all’interno dell’azione scenica da espedienti di natura comica come i fischi del regista per risvegliarlo.

3.2.3.1 - Ottavio (quadro clinico) Ottavio, nato e cresciuto in una grande città dove ha conseguito la

maturità classica e ha intrapreso senza portarli a termine gli studi di filosofia, si è trasferito da qualche anno, insieme ai genitori (padre lombardo e madre pugliese) in un piccolo paese. Tale trasferimento, da lui vissuto come un’imposizione, non è stato condiviso e lo ha portato ad interrompere i già scarsi rapporti interpersonali con gli amici della città, con i quali condivideva interessi filosofici.

Si è progressivamente delineata in lui una condizione di marcato ritiro sociale, con difficoltà ad intraprendere un’attività lavorativa. Al domicilio si sono verificate frequentemente anomalie comportamentali in un contesto ideico a contenuto persecutorio, che lo hanno portato ad un primo ricovero

47 Per Ottavio abbiamo dovuto fare un intervento di drammaturgia d’autore. Dovevamo dargli una ragione per la sua rappresentazione che potesse ironizzare e metacomunicare proprio sulla la sua tendenza a contrastare l’azione (anche verbale). Per la cronaca Ottavio e Marco sono stati gli unici ad avere un testo autorale di riferimento. Nel caso di Marco ci rifaremo ad un meno colto ma sempreverde e popolare Tex Willer in chiave surreale. 48Una poesia di Philip Sidney

in un CRT dal quale è probabilmente scaturita la diagnosi con la quale è stato poi inviato al centro diurno Villa Rondo (disturbo di personalità paranoide).

Nei primi giorni di ingresso nel centro, Ottavio si è presentato cupo, con un atteggiamento chiuso, sospettoso e a tratti diffidente, senza però mai mostrare turbe della sfera ideo-percettiva. Dalle prime osservazioni emerge una persona in condizione di isolamento, disoccupazione, ritiro sociale, sicuramente accentuatasi negli ultimi anni e accompagnata da difficoltà relazionali.

3.2.4 - Gino / della clowneria Gino è un acrobata della parola, salta di palo in frasca, interrompe

quando non dovrebbe, non ascolta quando dovrebbe ed è molto spiritoso, energico, ha una fisicità esuberante e una sua elementare ed innata comicità.

Gino è così esuberante che ha bisogno di essere contenuto, così come i suoi personaggi (Il fedele buontempone, Ele, l’elefante indiano un po’ clownesco e la scimmietta istintiva e compagnona) che non ha caso sono stati sintetizzati in uno solo: il clown.

Gino è un clown vero, bianco e nero, ride e fa ridere per esorcizzare la tristezza che ha dentro: il lutto per la morte del padre con tutto quello che ne è conseguito.

Anche durante lo spettacolo abbiamo mantenuto e potenziato la sua spontaneità che lo ha portato ad essere diretto ed istrionico con il pubblico come un’ape con il miele. Gino capisce roma per toma (trasforma il maestro Lecoq in un uovo alla coc e il pedagogo teatrale Decroux in una crudità di stagione), prende fischi per fiaschi , giocola con palline, clavette e una cornice senza foto che usa per fare una gag sui grandi quadri: “Gino mi faccia la Gioconda” , “Gino provi con Guernica!” ecc. ecc.

Nel momento del disvelamento, nello spazio-persona, Gino però si contiene, spiega al pubblico-comunità una parte della sua vita e della sua filosofia minima: “la cornice senza foto è in memoria di mio padre, bisogna ridere per non piangere”.

Gino e un vuoto incolmabile Gino, paziente con problematiche psichiatriche, esiti di un accidente

vascolare che risale all’età di diciannove anni, vive da solo con la madre la quale, ormai anziana, soffre di salute precaria. Ha un fratello che vive lontano dalla famiglia di origine e che si mostra ormai quasi totalmente disinteressato alla condizione di difficoltà del fratello invalido e della madre, costantemente impegnata nell’accudimento di Gino, sempre più difficile a causa delle problematiche e dell’ingravescenza della condizione psicopatologica del figlio.

Gino ha perso suo padre nell’estate che precede l’inizio dell’esperienza di psicodramma. Il padre fungeva per lui da supporto in tutto; l’esperienza di lutto per il paziente ha assunto un’importanza “catastrofica”, tanto da causare un forte ritiro associato ad una sempre maggiore ingravescenza del suo stato di disinibizione, il tutto gravato sulle spalle dell’equipe che è riuscita solo lentamente, e grazie all’esperienza di psicodramma, a cogliere la reale esigenza di Gino e il suo bisogno, celato dietro a necessità talvolta insensate, di contenimento, di punti di riferimento forti, di “basi sicure” dalle quali muoversi per poter scoprire il mondo senza la figura forte di suo padre.

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Il senso di inadeguatezza cronico, associato ad un’inautentica ipervalutazione del sé, si è affiancato al vuoto incolmabile di significazione esercitato dalla figura paterna. Proprio per questo quello di Gino si può definire un vuoto incolmabile, ben lontano dal senso del lutto e della perdita, ma simile ad un’incapacità di significazione di ciò che accade.

Gino si mostra quindi all’interno del lavoro di psicodramma, incapace di significare la perdita ed il dolore ad essa associato come un dolore autentico, ma elabora la mancanza attraverso un “mi manca un punto di riferimento” oppure “mia madre è a casa da sola ha bisogno di me”. Il bisogno legato alla mancanza appare sempre come “esternalizzato” e mai emotivamente elaborato, autentico, sentito.

“…M. entra nella scena vestito da clown…compie numerosi numeri di giocoleria per divertire il pubblico…” (vedi foto sopra)

Da questo stralcio dello spettacolo si può osservare come il paziente ha potuto “dar sfogo” mettendo in scena, alla parte più disinibita del sé; la scena si è infatti snodata attraverso numeri di giocolerie, imitazioni insensate, che ricordano la scarsa significazione del lutto per il paziente, veramente divertenti e colorate, che hanno saputo contrapporsi all’immagine di vuoto portata; “…M. impugna la cornice vuota portata come cornice vuota della presenza del padre…” in questo senso il paziente tenta di interpretare quadri richiesti dal regista “…mi faccia La primavera di Botticelli…mi faccia Guernica di Picasso…” quadri che altro non fanno che interpretare e riempire una cornice vuota di una presenza importante e significante; tutto ciò esercita la funzione presentificante dello stato di angoscia del paziente al quale solo la nuova azione significante dell’esperienza terapeutica ha saputo ridare colore.

3.2.4.1 - Gino (quadro clinico) Gino, pensionato invalido al 100%, vive dal 2002 in un piccolo paese

con la madre vedova. Nel 1980 si sottopone a due interventi neurochirurgici successivi. Il

primo in seguito ad un aneurisma dell’arteria comunicante anteriore, il secondo, a distanza di 20 giorni in seguito ad un evento accidentale, per ematoma extradurale temporo-parietale-occipitale sx. Prima degli interventi neurochirurgici, ha lavorato come guardia giurata e elettricista.

Dopo gli interventi inizia a presentare un deterioramento progressivo della personalità con perdita di interessi, apatia, anedonia, impulsività, disturbi mnesici e, saltuariamente, abusi alcolici con tendenza a comportamenti impulsivi.

Il quadro clinico assume decorso cronico e ingravescente (diabete insipido) con progressiva compromissione della capacità lavorativa.

Il comportamento di Gino ha sostanzialmente confermato la diagnosi di invio al centro diurno (sindrome ansioso depressiva con anomalie comportamentali) e ha mostrato fin da subito una condizione di ipomaniacalità cronica: subeccitazione, logorrea, vischiosità, scarsa capacità critica, con concomitanti quote d’ansia e disturbi del sonno; difficoltà notevoli di concentrazione che non gli consentono di iniziare e portare a termine un compito. Presenta disturbi mnesici ascrivibili ad una condizione di deterioramento cognitivo di verosimile natura organica. Riferisce occasionale assunzione di alcolici (birra). La morte del padre nel luglio del 2006 ha poi complicato il suo quadro clinico. La problematica del lutto e della responsabilità ereditaria emergerà in maniera evidente nel gruppo di psicodramma.

3.2.5 - Piero / del viaggio Secondo Sergio Leone, Clint Eastwood aveva due espressioni

recitative: una a piedi… e una a cavallo. Eppure funzionava alla grande. Piero ha meno espressività di Eastwood, forse perché non ha il cavallo,

però in compenso ha una grande passione: la moto. E anche lui funziona alla grande.

E’ stato il gruppo ad attribuirgli il ruolo di astronauta, perché, sempre secondo il gruppo, Piero ti può portare a vedere mondi sconosciuti. In effetti quando va in scena e fa il suo pezzo - entra in scena, si presenta, invita tutti sulla luna, sta fermo, va dal pubblico, stringe la mano ai maschietti e fa il baciamano alle femminucce, riguadagna il centro scena, fa un gesto di esultanza, esce - sembra davvero attirare tutti dentro di sé in uno spazio cosmico interiore. Forse un buco nero?

La cosa più bella di Piero è proprio questa: moderno Orlando furioso, ti fa viaggiare stando fermo.

Piero e la gioia di un viaggio fantasticato. Piero, reduce di un gravissimo trauma cranico con conseguente esito

psichiatrico, vive con la sorella e la sua famiglia; soffre di gravissimi disturbi, fra cui il più grave è un generale rallentamento motorio, ideativo, emotivo. Piero fantastica avventure e viaggi nelle più svariate parti del mondo, quasi come per compensare il vuoto esperienziale in cui versa dall’età di tredici anni; il paziente è alla continua ricerca di un contatto fisico, a causa della disinibizione di cui soffre e della necessità di comunicare attraverso un canale differente da quello verbale.

“…Piero entra in scena e quando la musica si abbassa dice: ‘Sono un astronauta, sono venuto per portarvi sulla Luna, dopodichè fa il baciamano a tutti…”

Piero fantastica di essere un astronauta e di portare tutti quanti sulla Luna;, tutto nasce dalla sua necessità di uscire da una fissità paralizzante

che causa quotidianamente difficoltà enormi, delle quali appare in parte avere una consapevolezza; la sua giornata è costellata da frequenti umiliazioni e litigi coi familiari che lo spingono a “muoversi” e lo spronano paradossalmete alla velocità; in questo senso l’esperienza terapeutica dello psicodramma ha consentito di strutturare all’interno del setting uno spazio in cui Piero sentisse di potersi “muovere molto” e “di andare molto lontano”; attraverso il flusso ideativo e immaginifico che ancora gli consente di muoversi come vorrebbe, tale esperienza di compensazione delle reali limitazioni sentite appare aver dimostrato al paziente quanto sia possibile ancora che investa su quelle che sono le sue possibilità residue.

3.2.5.1 - Piero (quadro clinico) Piero vive con la sorella. Entrambi i suoi genitori sono deceduti. Ha alle

spalle una lunga storia di epilessia post-traumatica insorta successivamente a trauma cranico per un incidente stradale nel 1968. Viene seguito dai servizi psichiatrici dal maggio del 2005 in seguito ad insorgenza di modificazioni del comportamento con aggressività.

Alla TAC encefalo del 14-02 non vengono segnalate anomalie epilettiformi.

Invalido civile al 100% con indennità di accompagnamento. 3.2.6 - Cleofe / della cura Il comportamento di Cleofe all’interno del laboratorio ha sorpreso un po’

tutti, ma soprattutto gli operatori che di lei avevano l’immagine di una persona piuttosto introversa e riservata e probabilmente mai si sarebbero aspettati di vederla addirittura arrivare a ballare in scena davanti ad un pubblico.

Per noi conduttori è stato un po’ diverso, perché di lei non avevamo conoscenze pregresse.

L’esperienza con Cleofe ci ha fatto capire quanto sia veramente importante la costruzione del luogo, dello spazio e del gruppo adatti perché si possano realizzare azioni e riflessioni spontanee e creative.

Cleofe non ha comunque stravolto la sua personalità all’interno del laboratorio, non si è certo trasformata in un istrionica trascinatrice, ha mantenuto i tratti che la contraddistinguono anche fuori dallo spazio psicodrammatico, riservatezza e timidezza. Lo psicodramma gli ha dato una grande opportunità; sdrammatizzare la sua mole essendo più spontanea. Sicuramente si è concessa di più e si è spinta fin dove sentiva di poter andare e ci ha rimandato un’immagine di sé molto forte e precisa: una persona che preferisce stare un po’ nell’ombra ma che sa di poter dare il suo contributo al momento giusto e quando è necessario dare una mano, aiutare, prendersi cura.

E’ lo stesso gruppo nella sessione 12 (l’ultima prima della pausa estiva) a riconoscerle questa abilità, “il gruppo sottolinea la capacità di Stefania di prendersi cura degli altri nell’ombra, con una presenza quasi magica”49.

Per questo di lei abbiamo deciso di tenere un personaggio assegnatole in una sessione dall’io-ausiliario: la strega chimera che cura la gente.

Del resto il parallelismo tra la stregoneria e la malattia mentale sta nei manuali di antropologia culturale e di psicologia. Il suo messaggio sembra essere proprio questo: la cura è spesso nascosta dentro la malattia.

Cleofe, la strega buona Cleofe ha una lunga storia di psicopatologia il cui esordio risale ormai a

quasi dieci anni fa. L’inizio del suo disagio si può riportare alla morte del padre, in seguito alla quale la paziente, che già soffriva di numerose problematiche di salute e di un preoccupante ritiro sociale, ha sviluppato una sintomatologia caratterizzata da gravi deliri a contenuto mistico. Il problema più serio resta comunque quello del peso; Cleofe soffre infatti di una condizione di gravissima obesità in seguito alla quale è stato anche difficile potersi muovere per alcuni periodi della sua vita. Vive con la madre e il compagno di lei in un contesto patologico, caratterizzato da molestie da parte dell’uomo ed estremo impoverimento mentale della madre.

49 Appunti

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Cleofe è molto taciturna, fatica a partecipare al lavoro di gruppo, tende a stare “nel buio” e ad osservare.

Il personaggio portato è molto particolare; con esso Cleofe sembra voler compiere un tentativo di sublimazione della propria patologia: è infatti una strega chimera che compie magie buone, tali magie buone sono riferite a persone che stanno male “…sono quelle dei manicomi…” che riesce anche a far volare. La “strega chimera” è una strega che opera nel buio, di nascosto, non ama farsi vedere ma ama far star bene gli altri.

Con questo personaggio rimandatogli dall’io-ausiliario e da lei fatto proprio, appare quindi essere riuscita a fondere due aspetti di sé, quello meno “sano” di lei, che a causa del peso non ama farsi vedere, trasformato tuttavia in un personaggio fantasico che può operare nel buio, e quello promotore di salute che fa magie per guarire gli altri. Questo tentativo di integrazione appare molto importante, poiché consente alla paziente di integrare parti di sé che fino alla nascita del personaggio si mostravano come meno integrate.

3.2.6.1 - Cleofe (quadro clinico) Cleofe vive presso un piccolo comune con la madre, il compagno di lei

e il fratello maggiore, impiegato in una azienda agricola; il fratello minore vive da solo ed ha una figlia di 4 anni.

Il clima familiare è piuttosto conflittuale e teso, soprattutto nel rapporto madre-figlia (è stato ribadito dalla paziente che la madre in passato abusasse di sostanze alcoliche).

Ha preso contatti con il CPS di M. in seguito al decesso del padre (per un K epatico), che ha causato scompenso.

E’stata quindi seguita dal servizio territoriale per una schizofrenia indifferenziata. Oltre ad una sintomatologia delirante e allucinatoria (tenuta sotto controllo con l’ausilio di farmaci), é presente in maniera importante una sintomatologia negativa caratterizzata da appiattimento affettivo, immutabilità dell’espressione facciale, scarsità di movimenti spontanei, gestualità espressiva, partecipazione affettiva indifferenti. È pensionata invalida al 100% con indennità di accompagnamento.

In anamnesi è stata poi segnalata una sintomatologia premorbosa caratterizzata da irrequietezza, isolamento sociale e depressione durante l’infanzia e nell’adolescenza una sintomatologia più marcata di tipo psicotico con allucinazioni uditive. Ha sofferto fino all’età di 18 anni di enuresi notturna. A complicare la sua situazione è la sua condizione di obesa, che la limita molto nella mobilità e la porta a vissuti di autosvalutazione e inadeguatezza.

3.2.7 - Marco / del surreale Marco ha partecipato al laboratorio a spizzichi e bocconi, non è stato

uno dei fedelissimi, ma ha sempre mantenuto il contatto con il gruppo. Non avevamo molti dati, se così si può dire, per poter creare un

personaggio a ragion veduta, così il suo è stato costruito un po’ istintivamente. Ci siamo rifatti ad un suo personaggio significativo emerso nel corso della sessione 7: il mitico Tex Willer, da lui scisso in due persone in comunicazione l’una con l’altra ed accompagnate dal fedele cavallo.

Difficile trovare con lui una comunicazione di senso. Per questo Marco entra in scena con una dolce musica vagamente western (The Willies, Bill Frisell ndr) e risponde alle domande del regista avanguardista strappando a casaccio pagine del fumetto appiccicate al suo corpo. Non sappiamo cosa l’evidente riferimento al teatro dell’assurdo abbia lasciato in lui.

Marco, il non sense significante Marco, paziente oligofrenico noto ai servizi ormai da anni per la sua

condizione di estrema deprivazione sociale, vive da solo in un quadro di estremo degrado e deprivazione.

Vive di espedienti, frequentando le varie organizzazioni sociali della zona; la presa in carico da parte della struttura ha per Marco un significato di custodia e accudimento, di creazione di una rete simil-familiare che possa essergli supportiva, sia emotivamente che praticamente, poiché appare talvolta non essere in grado di badare a sé stesso.

“…Marco entra in scena con le pagine del fumetto Tex Willer e risponde al regista leggendo a casaccio stralci del fumetto che strappa dal suo maglione…”.

Proprio attraverso l’espediente del non-sense, si arriva ad una significazione dell’esperienza di Marco che ricorda la figura del padre, per lui di grande sostegno, attraverso la figura di Tex e del suo cavallo. La confusione e la poca chiarezza di Marco, lo scarso spazio per la sua condizione patologica, scarsamente compresa e significata, trovano contenimento nello spazio del non sense, che sdrammatizza e interpreta all’interno della turnazione “botta e risposta” con il regista, il non senso fino ad ora angosciantemente destrutturato.

3.2.7.1 - Marco (quadro clinico) L’infanzia di Marco è stata caratterizzata da un problema di grave

dislalia con difficoltà di inserimento scolastico. Dal 1984 è seguito dal CPS con la diagnosi di ritardo mentale di grado medio, ritardo psicomotorio e macrocefalia dalla nascita, associato ad un quadro epilettiforme ed accompagnato da tematiche di riferimento e discontrollo degli impulsi.

Allo stato attuale il paziente presenta un buon contenimento della sintomatologia grazie alla regolare compliance farmacologia. Invalido civile al 100%.

Vive solo e stante il basso grado di autonomia nella gestione del quotidiano, è stato attivato un servizio di assistenza domiciliare quotidiana.

3.2.8 - Teresa / del silenzio Teresa frequenta poco il centro diurno. Nel laboratorio di psicodramma

e teatro è stata una meteora. Il contapresenze si è fermato a tre con lei. Ma son bastate perché il suo passaggio si imprimesse nella nostra memoria e in quella del gruppo.

Così abbiamo deciso di portarla con noi fino in fondo, anche in scena. Il suo personaggio è diventato così quello da lei creato durante il primo

incontro: una suora di clausura.

Teresa, l’assenza e l’esperienza del lutto Teresa, paziente psichiatrica gravissima nota ai servizi da svariati anni,

vive in una condizione di estrema deprivazione e disagio, ha tre figlie delle quali le è stato tolto l’affidamento da alcuni anni. Teresa è caratterizzata da una chiusura estrema e da una scarsità di abilità comunicative che non le consentono di esprimere la tangibile sofferenza per la distanza dalle figlie. Frequenta sporadicamente il servizio e ancor meno il gruppo di psicodramma, dentro al quale riesce però a far emergere il suo personaggio: nel primo incontro decide infatti di interpretare la monaca di clausura, personaggio emblematico che sta a rappresentare la sua difficoltà di contatto col mondo esterno.

“…M. e I. entrano portando con loro la finestra vuota recante il crocefisso, si fermano e la scena è dominata dal silenzio rotto poi da una musica misticheggiante”. La scena sta a rappresentare il fallimento terapeutico. Teresa infatti se ne va e si allontana dal servizio quasi a voler dimostrare quanto sia difficile poter entrare in contatto col suo mondo fantasmatico di psicotica grave.

3.2.8.1 - Teresa (quadro clinico) Teresa è la settima di undici fratelli. Una sorella, un fratello e il padre

sono stati utenti di un CPS territoriale, mentre lei entra in contatto con i

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servizi psichiatrici a partire dal 1999 in maniera sporadica e d irregolare. In anamnesi, presenta due ricoveri in SPDC, nel 2000 e nel 2004. Nel dicembre 2003 il Tribunale dei minori dispone nei suoi confronti l’allontanamento delle quattro figlie, avute dall’attuale convivente con il quale vive in condizioni di svantaggio socio-culturale. Viene inviata al centro diurno con diagnosi di psicosi non specificata.

Il quadro clinico attuale è caratterizzato dalla presenza di sintomatologia negativa, pensiero povero, linguaggio semplice, insieme a marcato ritiro sociale, apatia e abulia. Teresa fa fatica a parlare di sé e a ricostruire la sua storia personale. Non vengono espresse tematiche deliranti, ma una bassa tolleranza alla frustrazione, impulsività e povertà relazionale.

3.2.9 - Brevi considerazioni A posteriori e speculativamente mi vien da dire che ognuno di loro ci ha

parlato di un aspetto della malattia mentale, lo ha mostrato attraverso il filtro dello psicodramma e del teatro, rendendolo vivido e pulsante:

l’eterna infanzia, la femminilità, la cura, la clowneria, la surrealtà, il silenzio, il viaggio, la beffarda ironia.

Questi temi sembrano delle fughe, delle elaborazioni di mancanze, vuoti, lontananze, assenze. E’ la mancanza dell’istanza genitoriale, in particolar modo paterna, il grande tema del gruppo. Ce lo hanno mostrato due emergenti gruppali, due singoli genius loci, Clementina e Gino nei loro lavori come protagonisti.

Leonardo da Vinci ha definito la struttura architettonica dell’arco come “due debolezze che cadendo si sostengono”. Eugenio Barba ha applicato la definizione al gruppo sintetizzando quello che avviene in ogni processo di aggregazione costruttiva. E’ quello che è accaduto anche in questa breve ma intensa esperienza.

Ognuno dei partecipanti si è appoggiato all’altro sostenendosi e facendoci vedere un pezzo del meccanismo che ci tiene a galla, del grande ingranaggio e ci ha detto quanto sia delicato il suo funzionamento e che basta un niente per romperlo, per danneggiarlo, per comprometterlo.

Ognuno di loro, attraverso l’elaborazione creativa di questi temi, insomma, ci ha rammentato e rammendato la nostra (precaria) umanità.

Capitolo 4 GLI ULTIMI INCONTRI E LA CONCLUSIONE

Il rientro dopo la pausa estiva ci ha consegnato un gruppo compatto e desideroso di proseguire il lavoro lasciato poco più di un mese prima.

La nostra prima preoccupazione è stata allora quella di sottoporre all’équipe del centro la nostra idea drammaturgica per poter pianificare gli incontri che ci avrebbero portato alla rappresentazione.

4.1 - Il titolo e il ruolo degli operatori Non abbiamo fatto nessuna fatica a trovare un titolo che desse un

senso al lavoro, abbiamo semplicemente messo insieme i loro personaggi. Da questa unione è nato “Astronauti, suore, streghe, monaci, clown, mussu(l)mane e principesse - dal personaggio alla persona”.

Il fatto poi che la nostra proposta incontrasse il gradimento dell’équipe ci ha naturalmente rasserenato.

Una questione che però i tre operatori/io-ausiliari ci hanno subito posto ha riguardato il loro ruolo durante la rappresentazione: dentro o fuori?

A questo quesito non abbiamo dato una risposta univoca, abbiamo lasciato a loro l’ultima parola, dicendo che potevano scegliere se prendersi anche loro un personaggio, che solo al momento finale, nello spazio-persona, si sarebbe svelato e avrebbe rivelato (alle poche persone che non lo sapessero) il suo mandato istituzionale, o se invece preferivano rimanere fedeli al loro ruolo ufficiale50.

Alla fine si è deciso insieme di “giocare fino in fondo” ; così due degli operatori, quelli che più assiduamente prendevano parte alle sessioni in qualità di ausiliari, Monica e Matteo, sarebbero andati in scena nei panni rispettivamente del gabbiano Jonathan Livingstone e dell’aspersore, mentre Greta, meno presente durante l’arco degli incontri, avrebbe preso il ruolo inventato, questo sì a tavolino, della fotoreporter-giornalista che ci consentiva, tra l’altro, di documentare senza risultare intrusivi, essendo Greta presenza nota e familiare al gruppo.

Con un conduttore/regista avanguardista e con una conduttrice/sbadata e sensibile assistente la galleria dei personaggi era completa. Si poteva cominciare.

50 Sappiamo bene quanto sia difficile per l’operatore che lavora all’interno di una struttura istituzionale gestire la declinazione del proprio ruolo in tutte le sue funzioni: educativa, contenitiva, restrittiva, coscrittiva, permissiva ecc. e quanto questo stesso ruolo, soprattutto in contesti psichiatrici, sia funzionale all’operatore stesso per definire il limite con l’utenza. Per questo abbiamo chiesto loro di seguire il proprio sentire. Sicuramente la loro presenza in scena a fianco degli ospiti-artisti sarebbe parsa ai nostri occhi un forte segnale di umanità professionale e l’indice di un’avvenuta assimilazione ed elaborazione della filosofia psicodrammatica, poco incline a favorire l’istituzionalizzazione e la conservazione rigida del ruolo.

4.2 - Gli ultimi incontri Avevamo a disposizione ancora nove incontri compresa la

rappresentazione. Ci siamo mossi in questo modo: 2 sessioni di rientro a carattere psicodrammatico per • sondare l’umore del gruppo a seguito della pausa estiva • riportare alla memoria il “materiale” emerso negli incontri

precedenti • presentare la proposta di lavoro al gruppo e condividerla 4 sessioni per • lavorare teatralmente sul “materiale prodotto” 2 sessioni: • prove generali 1 sessione • spettacolo integrativo finale 4.3 - A proposito di conserve: repetita iuvant! La prima riflessione critica che è nata dal lavoro così come l’avevamo

impostato è stata la seguente: il cosiddetto “materiale prodotto” , frutto di un breve percorso psicodrammatico, ripreso e rielaborato teatralmente non rischiava di diventare un qualcosa senz’anima, un puro esercizio di stile, in una parola una “conserva”?

Quest’idea ci ha più volte sfiorati e fatti sentire insicuri e inadeguati, molto simili ad Icaro quando con le sue ali di cera vola troppo vicino al Sole.

Lo psicodramma fugge dal teatro stabile ed è amico del theatron, del teatro attuale, “si realizza nell’azione di non essere andati-a teatro, ma di esserlo diventati” (Perussia, 2004).

Di fatto non si creava più niente ma si riproduceva un già fatto e un già detto; seppur senza l’utilizzo di un copione scritto, ognuno ritornava come poteva sui propri passi. La poiesi era diventata mimesi.

Una cosa accadeva, in questo andirivieni, che ogni volta le andate ed i ritorni mostravano nuove cose (emozioni, gesti, pensieri, parole), consolidavano ciò che era utile, eliminavano l’inutile, definivano i contorni, aggiungevano, aggiustavano. Repetita iuvant!

Forse allora anche le conserve possono servire. La mimesi è collegata alla poiesi non dall’aut ma dall’et. Come per il sogno.

4.4 - Ricordo degli ultimi incontri e ambiziose citazioni Un buona pratica per una buona regia è la pulizia degli occhi.

Un buon pedagogo teatrale quando si siede per lavorare pensa a pulire lo sguardo affinché ogni cosa ritorni nuova. Per farsi colpire, sorprendere.

Ogni volta come la prima volta. Nin Scolari

Regista e direttore artistico di Teatrocontinuo (Pd)

Non abbiamo diari degli ultimi incontri, pochi appunti sparsi, qualche riflessione. Eravamo occhi e non solo.

Eravamo per esempio felicemente sorpresi dal constatare che la pausa estiva non aveva fatto “né morti né feriti” il gruppo c’era ancora tutto e aveva voglia di continuare. Del resto solo qualcuno di loro aveva fatto davvero vacanza…

Eravamo anche un po’ intimoriti anche al pensiero di come avrebbero accolto la nostra proposta di lavoro associata alla prospettiva che di lì a poco sarebbero andati in scena ufficialmente davanti ad un piccolo pubblico “familiare ed allargato”.

Eravamo arrivati al livello teatrale, insomma, dopo aver conosciuto e approfondito la conoscenza dei compagni e di se stessi, si preparava il momento dell’Alterità, dello sguardo esterno, del pubblico, della socialità. (l’Io-il Noi-gli Altri).

“Il processo della Formazione Personale si esercita infatti attraverso uno scorrere in profondità a diversi livelli di realtà-interiorità, per cui si può proseguire all’infinito nella risalita del fiume verso la fonte.

Il ruolo potenziale non si realizza mai completamente, poiché si tratta di una astrazione e non di un’azione. Il ruolo attuale è la mediazione fra ruoli potenziali diversi, che necessariamente ne rappresentano solo qualche parte. Questa mediazione, nei particolari della sua inevitabile incongruità, denuncia se stessa, ovvero offre continuamente occasioni evolutive, se si facilita il moltiplicarsi dei ruoli coinvolti, invece di frenarlo.

Il teatro Attuale consiste nel produrre direttamente l’interazione-peripezia delle parti, ovvero nell’essere autore-attore-spettatore del proprio sotto-testo espresso. Tramite questa forma di emergenza, il soggetto prende coscienza, di volta in volta, di alcune delle proprie parti sottotestuali. L’obiettivo è quello di essere il più a contatto possibile con se stessi” (Perussia 2004).

Nel giorno della rappresentazione i personaggi avrebbero mostrato se stessi, le persone; avrebbero detto quale era il seme, l’evento, la situazione che li aveva prodotti e generati.

E’ presuntuoso citare il processo creativo che ha portato Grotowsky e Cieslak alla messa in scena del Principe Costante, ma lo faccio lo stesso:

“…Il testo parla di torture, dolori, di agonia. Il testo parla di un martire che rifiuta di sottomettersi a leggi che egli non accetta. […] Ma nel mio lavoro di regista con Ryszard Cieslak, non abbiamo mai toccato niente che

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fosse triste. Tutta la parte è stata fondata su un tempo molto preciso della sua memoria personale (si può dire sulle azioni fisiche nel senso di Stanislavskij) legata al periodo in cui era adolescente ed ebbe la grande esperienza amorosa. Tutto era legato a quell’esperienza. […] E a quel punto, la prima cosa che abbiamo fatto è stata di creare le condizioni nelle quali potesse, il più letteralmente possibile, mettere questo flusso di parole sul fiume del ricordo, del ricordo degli impulsi del suo corpo, del ricordo delle piccole azioni, e con i due prendere il volo, prendere il volo, come nella sua esperienza prima, dico prima nel senso di esperienza di base.”(T. Richards, ”Al lavoro sulle azioni fisiche con Grotowsky”, 1993)

Al di là di queste speculative citazioni un poco ambiziose, gli ultimi mesi di lavoro sono corsi via velocemente. Eravamo consapevoli di aver attivato e di essere entrati dentro ad un processo che chiedeva di essere portato a compimento.

Il gruppo ha mostrato interesse per la proposta di lavoro e, devo essere sincero, i livelli d’ansia sono rimasti sorprendentemente bassi.

L’équipe ha fatto un ottimo lavoro di contenimento e di stimolazione motivazionale anche al di fuori del contesto laboratoriale. Si aveva davvero l’impressione di remar tutti nella stessa direzione, ognuno in base alla sua disponibilità; e in queste condizioni è difficile sbagliare. Anzi, l’errore non viene neanche contemplato, diventa motore di un’azione ulteriore, o viene assorbito.

4.5 - Ancora qualcosa sul lavoro d’équipe Un buon lavoro d’èquipe può davvero fare la differenza. Dopo qualche

anno di esperienze e tirocini in centri sconclusionati, approssimativi, improbabili, neonati, malaticci, pubblicamente privati, cooperative sociali che di sociale hanno giusto la facciata che gli serve per vincere appalti sempre al ribasso, comunità molto esplosive e poco contenitive, scuole sempre più sgarrupate con insegnanti sempre più rassegnati, questa esperienza ha riequilibrato il mio umore e la mia speranza di poter credere che senza troppi strombazzamenti e rulli di tamburo si possa lavorare con relativa tranquillità e serenità per arrivare a produrre “una risposta adeguata ad una situazione nuova o a una risposta nuova ad una situazione già conosciuta” (Moreno, 1953, pag. 42).

4.6 - Lo spazio del teatro e dello psicodramma: una sala TV e la palestra

L’edificio teatrale, nel Novecento [il secolo scorso, ndr], non è più un monumento ma il luogo funzionale alla rappresentazione e lo spazio interno

è definito di volta in volta (tendenzialmente) dai modi rappresentativi; lo spazio dell’azione drammatica non appartiene più a una tipologia da

attualizzare e individualizzare, non è più un dato autonomo in cui collocare il dramma, ma è creato anch’esso di volta in volta. Il Novecento ha usato spazi

diversi dal “teatro” , all’aperto e al chiuso e ha continuato ad usare, deformandone i valori, la sala all’italiana, il teatro per il repertorio del Teatro.

Fabrizio Cruciani Anche noi nel nostro piccolo, in questo non certo entusiasmante inizio

di terzo millennio, abbiamo fatto nostre alcune aperture illuminanti sullo spazio teatrale derivate dalle avanguardie del Novecento.

Tali teorie e pratiche hanno ridato vigore al Teatro e lo hanno fatto uscire dalle logiche stabili, monumentali, museali.

Noi raccogliamo i frutti di tutte quelle persone che non hanno accettato di rendere il teatro una mera conserva, un dato, ma lo hanno trasformato in un problema, in qualcosa di vivo su cui riflettere e ragionare continuamente. E con esso il suo spazio.

Moreno è stato uno di questi. Per questo penso sia nato lo psicodramma. Da una riflessione sull’essenza del teatro e del suo spazio. Meglio non dimenticarsene.

Per questa ragione oggi abbiamo potuto trasformare una sala TV e una palestra per la riabilitazione in due luoghi per l’azione e la riflessione, in due spazi teatrali nei quali mostrare qualcosa che all’occhio dello spettatore è sembrato così vicino e allo stesso tempo così lontano dal teatro immaginato.

Perché due luoghi differenti? Perché abbiamo dato un luogo al personaggio ed uno alla persona.

Il personaggio agiva in uno spazio teatrale, ed abbiamo scelto la sala TV perché aveva una specie di sipario naturale, una grande porta scorrevole (un vero colpo di fortuna…e di teatro).

La persona agiva nello spazio psicodrammatico, la palestra dove lo psicodramma ha sempre avuto luogo per tutti e ventidue gli incontri, prove comprese.

Il personaggio era illuminato dalla luce artificiale, della ribalta. Nel tardo pomeriggio invernale.

La persona dalla luce “naturale” delle candele, dell’intimità. Al crepuscolo.

4.7 - Lo spettacolo integrativo finale: 14 bocche ed un solo soffio “A questo punto, in cui il vago sentimento iniziale, che faceva da

collante all’immagine, si è strutturato nella peripezia, ovvero in una serie di suoi componenti: si realizza una soluzione-conclusione (una nuova chiusura). Quello che a prima vista pareva un composto stabile, e che invece si è rivelato sulla scena come una emulsione, trova un proprio nuovo equilibrio in una composizione la quale fa un passo avanti nel risolvere (sciogliere fra loro) i diversi elementi del composto stesso, invece che

lasciarli casualmente accosti-frapposti l’uno presso l’altro (situazione in cui si era al punto di partenza).

Il backstage si è in qualche modo rovesciato in stage. L’incosciente ha sviluppato un modo per emergere. L’oscuro ha trovato una via per manifestarsi. Qualche spirito ha soffiato. Qualche angolo buio si è illuminato. Qualche interiora ha potuto essere studiata. Le pallide forme sullo sfondo di quell’idea hanno acquisito una loro sostanza in primo piano.

La crisi, nell’ambito di una teoria (di un racconto) è una rottura che da luogo a un aggiustamento. Una frattura che produce una reintegrazione(…)

I fatti-dati oggettivi si sono rivelati nella loro veste di persone personaggi soggettivi, disgelando la propria natura, che si è quindi dimostrata diversa da come appariva in un primo tempo. E’ stato messo almeno un piede nella porta dell’al-di-là. Almeno un angolo del velo di Maja è caduto” . (Perussia, 2004).

Alle 16.00 del 17/11/2007 in un bellissimo sabato di novembre siamo andati in scena.

Nel momento più bello e delicato del pomeriggio, il passaggio dalla luce al buio. Avevamo bisogno anche di loro.

Sono stati tutti impeccabili e non ci sono stati intoppi di rilievo. La rappresentazione, come già accennato, è stata suddivisa in tre

momenti definiti spazialmente: sala personaggio – corridoio per il passaggio del pubblico – sala persona.

Del primo momento, quello corrispondente alla sala personaggio, ho già abbondantemente riferito; del secondo, quello corrispondente al traghettamento del pubblico da uno spazio all’altro non c’è molto da dire, è stato un passaggio che ha creato un momento di sorpresa che ha riattivato la curiosità dell’uditorio, se mai si fosse assopita.

Dell’ultimo momento, quello corrispondente alla sala-persona ancora non ho detto, o forse ho detto senza dire.

Le sedie degli artisti erano disposte in semicerchio, ognuna aveva alle sue spalle gli abiti smessi dei personaggi e accanto a sé una candela; ogni volta che accendevo la candela la persona, aiutata e sostenuta dalle domande e da qualche sussurrato doppio del direttore (anche il personaggio della sbadata assistente ha potuto mostrare la sua persona diventando quella che è, una psicodrammatista) si raccontava.

Raccontava l’origine del suo personaggio, il perché di questo o di quell’oggetto, che cosa aveva significato questa esperienza per lei o per lui, il suo stato d’animo del momento, quello che voleva.

Quando è arrivato il turno della sedia vuota, quella di Teresa, il direttore si è seduto, ha preso i suoi panni e gli ha dato voce.

Anche gli operatori/io-ausiliari, Monica, Greta, Matteo51 hanno condiviso il loro stato d’animo e il loro pensiero con il pubblico-comunità.

Poi ho acceso una candela al centro della scena, il gruppo ha fatto cerchio stringendosi intorno ad essa, ognuno ha espresso un saluto, ed infine un solo soffio, prodotto all’unisono da quattordici bocche, ha spento l’ultima fiammella.

Ombre, spiriti e fantasmi hanno così potuto far ritorno alle loro case. 4.8 - Narcisismi Non voglio però terminare in maniera velatamente e poeticamente

apologetica. Più volte mi sono interrogato su quali tracce questa breve ed insolita esperienza abbia o possa aver lasciato in questo drappello di sofferenti. Sarà servita a qualcosa?

La mia indole un po’ambivalente mi ha fatto riflettere sul narcisismo, personale ed istituzionale.

Anche loro sono stati sicuramente gratificati da questo percorso. Probabilmente è giusto che abbiano la loro parte di soddisfazione.

Ma ogni tanto mi capita di ripassare per il centro, di incrociare gli sguardi di questi astronauti, monaci, suore, streghe, clown, musulmane e principesse ritornati nei loro panni, dentro i loro pensieri ed azioni, e di pormi sempre e comunque la domanda.

Postfazione

“…fino a che sono stato chiamato da un medico del reparto il quale si è avvicinato ad una lavagna dove già c’erano scritti diversi nomi, ha aggiunto

anche il nome mio e io ho capito che quello era l’elenco dei pazienti che dovevano essere sottoposti a elettroshock-terapia.

E’ venuto il turno mio io, io ero l’ultimo perché ero stato iscritto per l’ultimo, sono entrato in questa sala, la sala era in penombra e spiccavano le

luci di questa macchina dell’elettroshock che m’ hanno impressionato, m’ hanno messo sul letto a forza, m’hanno bagnato le tempie con dei tamponi di acqua …e sale credo che era, poi la suora ha premuto due elettrodi alle

tempie, ho sentito il medico che diceva “pronto?” la suora ha risposto “pronto” e poi ho perso conoscenza, non ho sentito più niente…”

“Fino a che sono cambiato”52

“Parole sante” traccia 8

Ascanio Celestini

51 Matteo/Paride in realtà non era presente il giorno della rappresentazione perché si era fratturato un dito qualche giorno prima. 52 Testimonianza di un ex paziente manicomiale

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Non è passato poi molto tempo dacchè i matti venivano curati così. Sembra ieri.

Mio zio Vincenzo Viletti adesso ha settant’anni. Anche lui gli elettroshock se li ricorda bene: le “applicazioni” le chiama lui, le poche volte che mi racconta qualcosa. Se le ricorda talmente bene ste applicazioni che gli facevano che dopo di allora, dopo che dalla casa di cura se n’è uscito perché lo hanno riportato a casa sua, non ha più voluto vedere un medico per molti anni. S’è lasciato marcire tutti i denti in bocca pur di non vedere un camice bianco. S’è messo a stecchetto, che manco un monaco…

Glieli metteva anche a lui una suora gli elettrodi alle tempie. Una volta a sta suora, che io mi figuro come quella suora nana in Amarcord, mio zio Vincenzo gli ha tirato un pugno. Così poi gli hanno fatto ancora più applicazioni, come li chiama lui gli elettroshock.

Ogni tanto mi capita di pensarci a sta suora, me la immagino vecchia e decrepita, ma ancora viva e vegeta, sempre con il sale e gli elettrodi in mano sempre pronta a far partire la scarica; io allora, in questa specie di sogno, m’avvicino e le tiro anch’io un bel pugno, anche se è vecchia e decrepita, gli tiro un bel pugno come quello che le ha tirato mio zio. E poi mi sento meglio.

Non è passato poi molto tempo dacchè i matti venivano curati così. Sembra ieri.

Adesso tutto è cambiato. C’è stato Basaglia, l’antipsichiatria, la legge 180, sono arrivati i farmaci, non si shocca più, si seda.

Adesso accade che un uomo infuriato entra in manicomio e con poche pasticche, già il secondo o il terzo giorno, si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua, che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio. E può accadere – non sempre con discreta frequenza – che presto si ricostituisce, si stabilizza, ritorna ritto in piedi e esce come un uomo dal cancello dell’ospedale. Questo è uno dei fortunati, che ha incontrato il suo preciso psicofarmaco53.

I matti li han rimessi in libertà. A volte non si sa dove, ma liberi. “L’oggetto chiamato malattia mentale si è modificato da quando è cambiato il luogo che conteneva i malati”54 .

Nuovi modi di curare e di approcciarsi alla malattia si sono affacciati. Nuove strutture, nuove teorie e visioni della malattia stessa. Ma l’interrogativo resta:

Per domandare ai (cosidetti ndr) sani se non sia giunto il tempo di aiutare chi è sulla soglia, in bilico se rientrare nel mondo o invece ripiombare nella caverna. Per i sani è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli. E, per aiutarli, è semplicemente necessario costruire piccoli ospedali per modo che ogni malato sia una persona e non un numero pressoché anonimo, è necessario e obbligatorio innanzitutto non dare soltanto il denaro ma partecipare, sorvegliare, criticare, appassionarsi a ogni passaggio di questa meravigliosa impresa contro la pazzia, la più misteriosa dea che esista al mondo55.

Questo scritto sopra citato oggi ha 44 anni, ma neanche lui pare aver sentito troppo il passare del tempo. Sembra ieri.

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53 Tobino, 1964 54 Celestini, 2006 55 Tobino, 1964

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Per un contatto con l’autore, scrivere a: [email protected]

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