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IL FOGLIO ANNO XX NUMERO 49 DIRETTORE CLAUDIO CERASA VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015 - 1,50 quotidiano Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO Roma. Un decreto o un disegno di legge? Quelli di Matteo Renzi non sono amletismi, né ondeggiamenti della volontà, forma e na- tura del bisturi legislativo con il quale inci- dere nella carne della Rai sono molto più d’un dettaglio, di un’opzione di gusto, di una trascurabile tecnicalità. E a Palazzo Chigi sanno che la televisione di stato può essere un osso ben duro da mordere, perché c’è il partito Rai e ci sono i partiti politici, c’è la nera pozza della Vigilanza e ci sono le tan- te mani sul carrozzone, dunque meglio un decreto, meglio entrare nello squallore cal- ligrafico di Saxa Rubra e di Viale Mazzini con la spontaneità dell’ariete che tutto tra- volge, con lo stampo imperioso e letale del principe che con la carta e la penna, con il sigillo in ceralacca sull’editto, può demoli- re e creare mondi e sistemi. “O così, o non si potrà fare niente”, dicono, in altalena, Lu- ca Lotti e Maria Elena Boschi. Ma proprio quando il presidente del Consiglio sembra sicuro di voler agire con l’agile durezza dei suoi quarant’anni, con disinvoltura brutale, con la spavalderia del suo passo, ecco che tutt’intorno a lui, i suoi consiglieri – e i mes- si del Quirinale – gli versano nell’orecchio parole di dubbio e di cautela: il decreto for- se non ha i necessari requisiti di necessità e d’urgenza previsti dalla Costituzione, “hai sentito la Boldrini?”, e un decreto, inoltre, equivarrebbe a dichiarare sul proscenio che “la Rai c’est moi”, forse una contraddi- zione, chissà, per il novatore e rottamatore che ha detto “fuori i partiti dalla Rai”. Dunque, è forse meglio un disegno di leg- ge parlamentare. E così la bussola si riorien- ta, per qualche ora, per qualche giorno, con i cassetti che già traboccano di disegni di leg- ge: Anzaldi, Gentiloni, e poi ancora il piano di riassetto complessivo del servizio pubbli- co che Giovanni Minoli sottopose anni fa a Romano Prodi. Ma ecco che improvvisamen- te, attorno al presidente del Consiglio, si con- densano ancora una volta altri dubbi, feroci interrogativi: Renzi ha bonificato la palude parlamentare sul Jobs Act, e ha navigato spavaldo tra correnti e sottocorrenti, lobby e fazioni di corridoio e Transatlantico, labu- rismi e veterosindacalismi, ma con la Rai? La Rai è forse un mare più infido persino della Cgil e del mercato del lavoro. La Rai è un’altra storia, è molto peggio di Bersani e di Fassina, di Damiano e di Landini, e il Parla- mento, con le sue commissioni e i suoi rego- lamenti, i suoi codici e i suoi riti, i suoi inte- ressi di sottobottega televisiva, di marchetta in onda media, quando vuole sa assumere un andamento tortuoso, accanitamente dilato- rio. La politica, in Rai, va al pascolo, ed è un mondo corruttibile nell’anima ma non nello stile: non si possono tratteggiare linee per- fettamente dritte, linee renziane, in un co- smo obliquo, in cui si gioca per rendere ogni parola ancora meglio revocabile. Luigi Gubitosi, il direttore generale, ha appena annunciato in gran pompa la sua piccola riforma dei telegiornali, e già nel Palazzo tutti sono in preda a una sovrecci- tazione simile a quella che si respira a tea- tro dopo il primo atto di una prova genera- le, “quanto avvenuto con l’elezione del ca- po dello stato e con le riforme rappresenta un precedente che non si ripeterà con la riforma della Rai”, dice per esempio Stefa- nia Prestigiacomo. E comincia così il bruli- came chiassoso dei giuramenti, delle minac- ce, del ringhio e del pissi pissi. “Renzi non può pensare di mettere le mani sulla Rai e di asservirla al governo”, dice Raffaele Fit- to. E persino nel Pd, tra quelli in disaccor- do e sempre appostati nell’ombra, tra quel- li che preferiscono tacere in pubblico per sogghignare in privato, in tanti pregustano il piacere tutto ritorto dei trabocchetti e del- le trappole, di quel labirinto appiccicoso chiamato disegno di legge parlamentare, in cui perdersi e perdere la riforma della Rai. E così, mai come prima, Renzi si trova in bi- lico, sospeso, da una parte c’è la sicurezza di poter riformare la Rai (Quirinale permet- tendo), ma da bullo, dall’altra c’è invece la lenta anestesia del Parlamento, la palude dove tutto affoga. Twitter @SalvatoreMerlo La Rai di Renzi tra bisturi e palude Rai, antenne e banche. Ilva ed energia. Privatizzazioni e grandi newco. Riuscirà o no il governo a muoversi libero dalle catene delle ideologie sui dossier economici più sensibili? Cosa c’è sul tavolo di Palazzo Chigi Roma. Ci sono voluti due anni, ma alla fine il Parlamento di Vienna ha approvato la nuova legge che regola i rapporti con le 450 organizzazioni islamiche presenti sul suolo nazionale. La vec- chia, del 1912, era stata firmata dall’ottuagenario Kaiser Cecco Beppe quando ancora esisteva l’impero e gli Asburgo erano i pa- droni di mezzo continente. A velocizzare l’iter, forse, è stata anche la presa d’atto che il Centro per il dialogo interreligioso inaugu- rato tre anni fa a Vienna (e finanziariamente sostenuto dalla fa- miglia reale saudita) ha evitato di esprimersi sulla condanna a mille frustate del blogger Raif Badawi, colpevole “d’aver creato un sito liberale”. L’estrema destra ha votato contro quello che de- finisce un placebo: “L’islam non appartiene all’Austria, né sul pia- no culturale né su quello storico”, ha detto il suo leader, Heinz- Christian Strache. “Andavano messi al bando burqa e minareti”, qui invece “c’è perfino il menù halal per i carcerati”, hanno ag- giunto in coro i suoi più autorevoli esponenti. Per il ventottenne ministro degli Esteri, il popolare Sebastian Kurz – convinto che ora le organizzazioni musulmane saranno chiamate a “dimostra- re un positivo approccio verso la società e lo stato” – “potrà nasce- re un islam in stile austriaco”. Ma a tanti membri della fiorente comunità musulmana del paese alpino – rappresenta il sette per cento della popolazione – la legge non va proprio giù. Due sono i punti contestati: l’obbligo per gli imam di saper parlare tedesco e, soprattutto, lo stop ai finanziamenti provenienti dall’estero. “Il tentativo di creare un ‘islam austrian-style’ ignora la necessità di promuovere la diversità religiosa e il mutuo rispetto”, ha denun- ciato l’Unione turco-islamica che ha base a due passi dal Ring viennese: “La legge sull’islam è stata trasformata in una legge sul- la sicurezza”. Sfumatura, questa, che pare essere però apprezza- ta dai cittadini austriaci visto che, stando a un sondaggio della tv pubblica, ben il 58 per cento di loro coglie una certa radicalizza- zione tra i vicini di casa musulmani. Ma è dall’estero che sono ar- rivate le critiche più dure, e in particolare dalla Turchia. Il re- sponsabile per gli Affari religiosi, Mehmet Görmez – colui che lo scorso agosto aveva chiesto al Papa di denunciare gli attacchi al- le moschee in Europa – ha ammonito i governanti europei: “Gli sforzi dei leader nazionali di creare la loro versione di islam so- no vani, visto che la religione non è una questione d’ingegneria. Questi sforzi porteranno l’Europa in un vicolo cieco, mentre do- vrebbero concentrarsi di più sui problemi che scaturiscono dal- le politiche di integrazione, sull’indebolimento della cultura del- la convivenza e prendere precauzioni più serie contro l’avanza- re dell’islamofobia”. Il fatto è che, come ha scritto il quotidiano Daily Sabah, “la legge mette al bando il dipartimento per gli Af- fari religiosi di Ankara, visto che non potrà più fornire assisten- za finanziaria, inviare pubblicazioni ai musulmani al di fuori del paese e formare in patria gli imam” da spedire tra Klagenfurt, Graz e Salisburgo. E questo, chiarisce il Daily Sabah, è “una bom- ba a orologeria messa nel cuore d’Europa”, dopo che “negli ulti- mi quarant’anni la Turchia ha mandato imam moderati a condur- re le preghiere in duecento moschee d’Austria”. Twitter @matteomatzuzzi Come si mette in regola l’islam? La storia della legge austriaca,il ruolo degli imam e la bomba culturale nel cuore dell’Europa Roma. “Trovo positivo, bello, che il presi- dente del Consiglio Renzi citi su Twitter En- zo Tortora per celebrare l’approvazione del- la legge sulla responsabilità civile dei magi- strati. Ma, allo stesso tempo, quanto è succes- so dal 1987 a oggi non mi consente di essere così ottimista sul futuro di questa svolta”. Lo dice al Foglio Giandomenico Caiazza, l’avvo- cato che insieme al collega Vincenzo Zeno Zencovich ebbe nel 1988 il mandato da Torto- ra (che in quell’anno poi scomparve) per cita- re in giudizio i magistrati napoletani che ave- vano ingiustamente condannato il presentato- re. La vicenda di allora contiene insegnamen- ti per l’oggi, sostiene Caiazza. Il referendum radical-socialista del 1987 aveva abrogato il sistema che anestetizzava la possibilità di ri- valersi su magistrati fallaci; il Parlamento poi approvò la legge Vassalli, senza tener troppo conto dell’esito referendario, reintroducendo pro futuro un severo filtro di ammissibilità per la possibilità di rivalersi sui giudici; così Caiazza e Zencovich, nel vuoto legislativo, ci- tarono direttamente in giudizio i magistrati, ma la Corte costituzionale intervenne con vi- gore, sostenendo che il filtro era un principio costituzionale, doveva valere anche retroatti- vamente. E addio giustizia (postuma) per En- zo Tortora. Ieri l’Associazione nazionale magistrati ha messo in guardia dal tentativo del governo di “normalizzare” la magistratura stessa. “Una polemica pretestuosa”, replica Caiazza. “Non sono stati creati ‘tribunali popolari’. Saranno sempre i magistrati a giudicare i magistrati. Non si fidano di loro stessi, forse?”. Messa co- sì, sembra che non sia cambiato nulla: “Un tentativo c’è. Il governo si adegua alle denun- ce della Corte europea dei diritti umani (Ce- du) che aveva giudicato inaccettabile che la possibile responsabilità di un funzionario pubblico si configurasse solo nei casi di dolo e colpa grave”. Per un giurista “non italiano”, osserva Caiazza, è “inconcepibile” che il giu- dice non sia responsabile pure quando “inter- preta” leggi e fatti: “E’ quella la sua attività principale!”. Perciò l’esecutivo ha introdotto la responsabilità anche in caso di “travisa- mento del fatto o delle prove”. Qui torna però la lezione del caso Tortora:“Così come allora la Cassazione reintrodusse creativamente e retroattivamente il filtro di ammissibilità, ne- gli anni successivi la stessa giurisprudenza ha ristretto sempre più la nozione di ‘colpa gra- ve’ del giudice. In Italia, per invocare la re- sponsabilità del giudice non bastava più di- mostrare la violazione manifesta del diritto vigente, ha fatto notare la Cedu, era necessa- rio provare ‘un’interpretazione manifesta- mente aberrante’”. Detto in altre parole: il giudice in Italia è responsabile solo in casi abnormi. Ecco spiegate le cinque (5) condan- ne per responsabilità civile dei magistrati dal 1989 al 2012. “La magistratura italiana ha un potere ermeneutico incontrollabile, senza pa- ragoni in Europa. Tutto iniziò con i magistra- ti del lavoro che, su materie politico-sindaca- li sensibili, cassarono la ‘volontà storica’ del legislatore e vi anteposero il loro potere di ‘in- terpreti attuali’. Poi a macchia d’olio su tutto il resto. L’interpretazione corporativamente autoprotettiva della legge Vassalli è stata un sottoprodotto di ciò. Nulla impedisce che og- gi il ‘travisamento del fatto o delle prove’ sia annullato da una giurisprudenza simile”, di- ce Caiazza. Non sembra esserci via d’uscita, visto che ovviamente saranno sempre dei ma- gistrati a giudicare i magistrati. “Da avvoca- to, riconosco di essere affetto da una robusta dose di cinismo sul punto. Non esiste la solu- zione. Nella situazione unica in cui si trova il nostro paese, si dovrebbe intervenire in ma- niera più dettagliata e prescrittiva per defi- nire meglio ‘travisamento’ e ‘colpa grave’”. Avvocato, al suo pessimismo dovrebbe op- porsi un certo ottimismo della magistratura organizzata. Ottimismo che non si registra. “In poco tempo riusciranno a troncare e sopire gli effetti della nuova norma. Senza dimenti- care che il governo, avendo abolito il filtro di ammissibilità, presta effettivamente il fianco alle eccezioni di incostituzionalità, proprio al- la luce dello sfortunato precedente Tortora”, dice Caiazza, su questo d’accordo con i criti- ci tout court della riforma come il magistrato Marcello Maddalena sul Fatto. “Vuole sape- re cos’è che più di tutto infastisce i magistra- ti?”. Mi dica. “Il governo introduce l’obbligo per lo stato di rivalersi sui magistrati in caso di loro responsabilità, per il 50 per cento del loro stipendio. Prima la rivalsa non era obbli- gatoria e pesava meno. Nei prossimi 30 anni potranno pure essere solo cinque casi, ma co- steranno di più ai responsabili”, conclude Caiazza. Tortora 2.0 Caiazza fu l’avv.del presentatore, oggi loda Renzi sulla responsabilità civile ma “i giudici la annulleranno” ebrei, di voler combattere la guerra “al fa- scismo islamico”, altro termine che usano in pochi oggi, irriso dai più – gli hanno det- to che era “sotto l’influenza della moglie ebrea”, come se fosse una droga, perché solo così le cattive coscienze potevano col- locare quei discorsi nella loro visione del mondo. Ancora ieri il premier, così come il presidente, François Hollande, commen- tando la visita di quattro parlamentari francesi alla corte del dittatore siriano Ba- shar el Assad, ha dichiarato: “Voglio con- dannare con la massima forza questa ini- ziativa, è un errore morale”. Morale, un al- tro termine riesumato da un passato in cui la sinistra interventista, i cosiddetti falchi liberal, parlavano di chiarezza morale, di imperativi morali, e intendevano dire che ci sono alcuni valori che non puoi negozia- re, la libertà contro il totalitarismo, e in lo- ro nome anzi devi essere disposto a com- battere. Anche il segretario di stato ameri- cano, John Kerry, nell’agosto del 2013, di fronte agli attacchi chimici del regime di Damasco contro i siriani, parlò di “osce- nità morale”. Ma poi non combatté. Men- tre i francesi, proprio in quelle ore conci- tate in cui pareva imminente un interven- to contro il dittatore stragista, avevano già pronti i loro aerei, i loro militari, i loro piani strategici e una proposta di transi- zione politica, furono bloccati all’ultimo da una telefonata della Casa Bianca: fer- mi, non si fa più niente. Avrebbero com- battuto, i francesi. Come parlano i socialisti francesi, oggi non parla più quasi nessuno. Quella tradi- zione di sinistra interventista di stampo anglosassone, ideata negli anni Novanta di Tony Blair e di Bill Clinton, è andata per- duta nel mondo stesso che l’ha inventata, e ora, guizzo della storia, sono i socialisti francesi a tenerla in vita. Combattono il terrorismo jihadista, “boots on the ground”, in Mali, dichiarano guerra al fa- scismo islamico, portano a Parigi i leader del mondo, un G40 mai visto tutto insieme in piedi a braccetto, per celebrare e difen- dere la libertà, pensano a leggi contro l’an- tisemitismo, elaborano misure di sicurezza che i giornali definiscono “Patriot Act” per metterle in cattiva luce, sperando così di affossarle. C’è il rischio, ovvio, che la ten- tazione del “business as usual” convinca anche la leadership francese a occuparsi d’altro, ci sono i giochi di potere, i conti da far quadrare, i patti di stabilità e i disoccu- pati, c’è che l’opinione pubblica tende a minimizzare o a dimenticare, ma la difesa dell’occidente è una priorità più a Parigi che nelle altre capitali europee. E certo più che a Washington. Kenneth Weinstein, presidente del think tank conservatore Hudson Institute (di ispirazione reagania- na), ha scritto sul Wall Street Journal che la sinistra francese sta dando una lezione ai liberal americani: “Mettere la correttez- za politica al di sopra dei valori liberal si- gnifica cedere le nostre società e i musul- mani che le abitano alle idee estremiste (…). Dovremmo guardare alla leadership francese, che si concentra sul carattere ideologico dell’islam radicale e che non sente di doversi scusare perché rispetta i propri princìpi liberali, come a un punto di svolta nella nostra lotta comune”. Weinstein dice al Foglio che oggi la Francia “incarna quell’interventismo libe- ral che una volta era della sinistra ameri- cana e che non è mai stato tanto debole qui a Washington come adesso”. I francesi scel- gono di farsi guidare, a livello globale, “da princìpi chiari, chiamano il fondamentali- smo islamico con il loro nome, il nostro pre- sidente Barack Obama non riesce nemme- no a definire l’islam ‘radicale’”. E’ quasi ironico pensare che la guerra in Iraq, che ha creato una spaccatura ideologica mai sanata nella politica americana, e che di- strusse anche i rapporti tra i francesi e gli americani – la famosa frattura transatlan- tica – oggi abbia creato questo ribaltamen- to di posizioni. “La guerra in Iraq – dice Weinstein – ha convinto i liberal america- ni a mettersi sulla difensiva, a cercare di far di tutto per non sembrare invadenti e invasori: erano convinti così che la minac- cia fondamentalista si sarebbe ridotta”. E’ evidente che non è andata così, “ma il re- lativismo culturale che si è instaurato du- rante e dopo la campagna irachena, unito alla mancanza di profondità strategica, ha impedito a questa leadership americana di comprendere e combattere il terrorismo”. I socialisti francesi invece no, dice Wein- stein, “Manuel Valls sembra ispirarsi non a Obama, semmai più a un intellettuale co- me Leon Wieseltier”, uno dei falchi liberal più raffinati d’America. Il premier france- se rifiuta di essere catalogato come “isla- mofobo” quando attacca l’estremismo isla- mista, “mentre in America, anche per ra- gioni costituzionali, la libertà di religione e il primo emendamento, ogni critica viene subito letta come un attacco all’islam”. Questo ha imposto la cautela semantica che caratterizza l’Amministrazione Oba- ma, con quei giri di parole che sembrano studiati apposta per far innervosire, ma al fondo c’è l’abbandono di una visione inter- ventista, oltre che una bizzarra interpreta- zione delle alleanze imprescindibili per combattere il nemico jihadista (basta ve- dere quanti stracci stanno volando in que- ste ore con il premier israeliano Ne- tanyahu). “La sinistra americana oggi non sente un imperativo morale di intervento in nessun posto, e Obama non vuole pren- dere consapevolezza del fatto che, di fron- te alla minaccia jihadista, non ci sono scel- te perfette”. Blair diceva di non voler fare scelte popolari, ma di voler fare scelte giu- ste, però quel paradigma, nella Washing- ton obamiana, è andato perduto, “e non è destinato a tornare, questa non è un’Am- ministrazione che ammette i suoi errori”. E’ rimasto invece impigliato in una parte dei socialisti francesi, i cosiddetti libera- li, che diventano così i custodi, per quan- to stropicciati dai loro tanti guai, di un’i- dea di mondo in cui la libertà si difende, con ogni mezzo. Twitter @paolapeduzzi I falchi liberal francesi,che gran fighi La Francia è contro l’islamofascismo e per la libertà, dice Valls, ultima incarnazione dell’interventismo di sinistra (il contrario di Obama) Quando Parigi si è ritrovata sotto attacco, in una sonnolenta giornata post festiva, e poi ancora per giorni, la caccia forsennata ai terroristi e l’assalto agli ebrei, il premier socialista francese, Manuel Valls, disse: “Siamo in guerra contro il terrorismo, contro il jihadismo, contro l’islam radicale, contro tutto ciò che vuole spezzare la fraternité, la liberté, l’é- galité”. Sembravano parole sbucate da quel passato dimenticato in cui la lotta al fondamentalismo islamico era di tutto l’occidente: suonarono sorprendenti. Ma non erano dettate dallo spavento di quelle ore tragi- che, perché Valls le ha ripetute e ne ha aggiunte altre, altrettanto forti, ha rifiutato le accuse di islamofobia, ha ribadito di voler difendere gli DI PAOLA PEDUZZI Renzi alla prova del mercato.Dossier Meglio un decreto da bullo che l’incognita del ddl, ma ci sono dei ma Roma. Agire secondo esigenze pragmati- che, per ragioni di cassa o per convenienza politica, senza steccati ideologici, tra stato e mercato. Il governo, finora, sulla politica in- dustriale si è mosso spesso così. Ma nei pros- simi mesi su quali terreni Renzi dovrà mo- strare maturità e capacità di declinare una politica industriale non ideologica e basata sul merito? La Rai, e poi? Rai Way-Mediaset, decida il mercato. Allo stato il controllo sul rispetto delle regole. Ma lascia al mercato quel che è del mercato. Il principio del “renzismo” è messo però a du- ra prova dall’offerta di Mediaset, inattesa e per certi versi “scandalosa”, su una fetta della Rai, azienda ra- diotelevisiva controllata dal Te- soro. Per rispondere alla sinistra Pd, ieri Renzi è stato chiaro: “E’ un’operazione di mercato, deci- de il mercato”, pur rassicu- rando sulla permanenza dello stato come azionista di maggioranza (“la rego- la del 51 per cento non si modifica”). Tuttavia l’O- pa lanciata da Ei Towers su Rai Way presenta numerosi vantaggi, un po’ per tutti: la Rai può incassa- re 850 (preziosissimi) milioni, al servizio del suo rilancio; i soci privati ottengono un buon guadagno (il 50 per cento in quattro mesi, dalla quotazione). La nuova società delle tor- ri potrebbe ridurre i doppioni (con vantaggio per l’ambiente) e coprire le parti di territorio oggi mal servite. Authority di controllo e An- titrust hanno i mezzi per imporre un sistema di governance e di controllo delle tariffe che vigili contro eventuali abusi, del resto impro- babili: per quale motivo il gestore unico (co- me in Francia, Spagna, Regno Unito, Germa- nia) dovrebbe danneggiare la Rai, suo primo cliente e secondo azionista? Renzi ha preso tempo appellandosi al decreto con cui si de- cise di collocare solo una quota di minoran- za di Rai Way: più un regolamento a favore delle resistenze del sistema che non una re- gola aurea immutabile. Anche per questo la Borsa ha preso atto del no, ma non ha fatto dietrofront: qui si vedrà la capacità di gover- no del premier. Scongelare banche e banchieri. “Noi siamo qui per fare le cose che non ha mai fatto nes- suno”. Così Renzi ha annunciato una robusta scossa del sistema bancario, essenziale per il rilancio dell’economia. Di qui la mossa a sorpresa del decreto legge per affrontare la riforma delle Popolari, insabbiata in mille occasioni dalle lobby del settore dalla metà degli anni 80. Intanto ha preso velocità il te- ma della “bad bank”, ovvero la creazione di uno o più veicoli in grado di favorire la pu- lizia dei bilanci da incagli e sof- ferenze, eredità della crisi. Ri- cette più volte suggerite dal Fmi e gradite a Draghi. Obiettivo: fa- vorire aggregazioni più solide sen- za scheletri nell’armadio e for- nire all’economia il credito necessario. Non spaventa il premier la prospettiva del ritorno dello stato, sep- pur temporaneo, nel capi- tale Mps: se le riforme an- dranno avanti, non sarà difficile trovare soci stabili per il sistema, come dimostra il caso Inte- sa Sanpaolo, già feudo delle Fondazioni, og- gi posseduta al 56 per cento da investitori esteri che scommettono sull’Italia. Reti delle mie brame e armi da Guerra. Mettetevi d’accordo o fate spazio. Non è un mistero che tra i dossier sulla scrivania di Renzi ci sia Metroweb, fascicolo allegato a quello di Telecom Italia, multinazionale al- la ricerca di un azionariato (stabile). En- trambi si richiamano a un tema ancora più importante: gli investimenti per dotare l’I- talia di infrastrutture per la banda larga e ultralarga dignitose. Renzi finora ha atteso, con pazienza, che i protagonisti del settore, nell’area pubblica (vedi Cdp e la control- lata F2i) e nell’area privata (la public com- pany di Marco Patuano), trovassero l’intesa su business plan, investimenti, tecnologie, altro. Ma il tempo passa, i competitor scal- pitano. F orse non gliel’ha domandato proprio così, ti domandi spe- ranzoso. Invece, sì: “Dice Di Pie- tro che se ci fosse stata quando era pm avrebbe passato più tempo a di- fendersi che a fare inchieste”. Forse non l’ha posta proprio così, rifletti mentre leg- gi, fiducioso. Invece: “Tanti magistrati so- stengono la stessa cosa, c’è una grande paura che da domani piovano ricorsi a raffica”. Non è che suggerisca: “Toghe fa- mose parlano di chiara intimidazione, a risentirne sarebbero le indagini su mafia e corruzione. C’è pericolo?”. Con fiera in- dipendenza, non assume il punto di vista di nessuno in particolare, lo capisce be- ne che travisare fatti e prove sia un pro- blema serio: “Per l’Anm di Milano, ‘il go- verno caccia le dita negli occhi dei magi- strati’. Lei che pensa del ‘travisamento del fatto e delle prove’ come causa di ri- corso?”. Non pone domande allarmiste: “Si rende conto che intanto i magistrati ri- schiano di dover lasciare i processi?”. Si fa sfiorare, cauta, da un dubbio. Garbata- mente lo pone all’interlocutore: “Come mai il centrodestra, il giorno dopo, è entu- siasta?”. Non tralascia la domanda di sto- ria italiana, sezione “referendum che non ci sono stati”: “La legge era necessaria?”. Infine il quizzone: “Perché si approva la responsabilità, mentre è braccio di ferro sul falso in bilancio?”. Le interviste di Liana Milella, a scuola, le chiamano test a risposta bloccata. In Corea del nord, non lo so. Comunque: come doveva risponde- re, il vice del Csm Giovanni Legnini? Po- tendo scegliere, si è arreso. Le faccio le domande,non risponda.Metodo Milella CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA Abbacinati dall’ultima puntata di “House of Cards” non siamo più capaci di spettegolarci addosso Esci da questa serie! N iente più pettegolezzi, qualcosa di cui sparlare, aneddoti fantasmagori- ci sulle vite degli altri, confessioni e bu- gie, nemmeno goffi tentativi maschili di introdurre l’argomento: moviola in cam- po, mentre le donne mimano il taglio del- le vene. Niente ginocchia che si sfiorano sotto il tavolo, niente discussioni politi- che, liti fra coniugi rimandate al ritorno a casa oppure meravigliosamente pub- bliche dopo qualche bicchiere di vino (“fallito”, “mitomane”). Le cene vengono distrutte già prima di sedersi a tavola, basta infilare la domanda a bruciapelo: ma lo state vedendo “House of Cards”? C’è sempre qualcuno che risponde: cer- to, ma le ho viste appena uscite in Ame- rica, non ditemi vi prego che non state vedendo “Scandal”. La serata è rovina- ta, come ha scritto il New York Magazine, la conversazione diventa immediata- mente triste e noiosa, si deve bere di più per sopportarla. Non importa quanto sia- no belle, complicate, sconvolgenti le se- rie televisive americane (“è possibile, poi, che siano tutte belle? o siete tutti voi un po’ rincoglioniti?”, dice lo scettico, quello che rifiuta di investire tredici ore di vita, cioè la durata media di una serie, e moltiplicarle per quattro o cinque sta- gioni), tutto diventa subito “la versione con cena di un post di Facebook in cui gli ospiti si alternano per cliccare su: mi piace”. E dire che sì, è una fantastica se- rie, oddio è meravigliosa, è perfetta, e quella puntata, che ovviamente in Italia non s’è ancora vista, è una specie di sin- tesi di tutto lo splendore dell’universo, e sono stato sveglio tutta la notte, e mia mo- glie mi ha picchiato perché credeva che fossi uscito di nascosto, invece non mi ero mai mosso dal divano, ero in trance. Il fatto che la maggior parte degli invita- ti non abbia visto quell’episodio non ha alcuna importanza: sono tenuti comun- que, per mostrare uso di mondo, ad al- meno quattro o cinque esclamazioni di gioia, stupore, e anche a usare l’espres- sione “grande letteratura”, al massimo si può azzardare: “Parte un po’ lento, ma poi…”, facendo gesti con le mani e an- nunciando che si farà passare l’inverno così, a forza di serie (in lingua originale, sennò si perde il gusto) e che non c’è nemmeno più il tempo di tradire i coniu- gi perché ci si deve tenere al passo con i nuovi episodi. Molti fingono di avere vi- sto tutto quello che non hanno visto, confondono “True Detective” con “Ho- meland”, oppure si chiudono in un silen- zio scocciato e cominciano a sparecchia- re la tavola, preferendo mandare mes- saggi in cucina che gridare: “Sono total- mente ossessionata da quel personag- gio”. Alla fine la cena si divide stanca- mente, senza più vita, senza allegria, sen- za nemmeno più cercare di capire se quei due hanno una storia segreta, fra quelli che parlano di trame (“non voglio fare spoiler, ma succede questa cosa paz- zesca”), quelli che fanno sfoggio di criti- ca televisiva profonda e comparata, non accorgendosi che stanno parlando di “Downton Abbey” a una persona dispe- rata ma beneducata che non ha mai vi- sto “Downton Abbey”, e quelli che non vedono l’ora di andarsene per litigare, maledire “Homeland”, “Empire”, “Scan- dal”, “The Honourable Woman” e inte- riormente invocare una dittatura che ri- pristini soltanto “Dallas”, per sempre. DI ANNALENA Mi trovo in Israele da solo per- ché sono molto dinamico e mi piace viaggiare, mentre a Franca no, smuoverla da Ro- ma è una vera impresa. Qui so- no in piena campagna elettorale, il dibat- tito è ardente: il futuro incerto, l’autonomia palestinese, Bibi al congresso americano contro Obama, la politica economica, il vol- to nuovo di Yair Lapid, ce n’è di carne al fuoco. Israele sta a sud. Quasi più di Paler- mo. L’impulso è votare Salvini. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 DI MARCO VALERIO LO PRETE LA VERITA’ SU RAI WAY Parla l'uomo del governo sulle tlc, Giacomelli Rizzini a pagina 3 (Bertone e Brambilla segue a pagina quattro)

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IL FOGLIOANNO XX NUMERO 49 DIRETTORE CLAUDIO CERASA VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015 - € 1,50

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Roma. Un decreto o un disegno di legge?Quelli di Matteo Renzi non sono amletismi,né ondeggiamenti della volontà, forma e na-tura del bisturi legislativo con il quale inci-dere nella carne della Rai sono molto piùd’un dettaglio, di un’opzione di gusto, di unatrascurabile tecnicalità. E a Palazzo Chigisanno che la televisione di stato può essereun osso ben duro da mordere, perché c’è ilpartito Rai e ci sono i partiti politici, c’è lanera pozza della Vigilanza e ci sono le tan-te mani sul carrozzone, dunque meglio undecreto, meglio entrare nello squallore cal-ligrafico di Saxa Rubra e di Viale Mazzinicon la spontaneità dell’ariete che tutto tra-volge, con lo stampo imperioso e letale delprincipe che con la carta e la penna, con ilsigillo in ceralacca sull’editto, può demoli-re e creare mondi e sistemi. “O così, o nonsi potrà fare niente”, dicono, in altalena, Lu-ca Lotti e Maria Elena Boschi. Ma proprioquando il presidente del Consiglio sembrasicuro di voler agire con l’agile durezza deisuoi quarant’anni, con disinvoltura brutale,con la spavalderia del suo passo, ecco chetutt’intorno a lui, i suoi consiglieri – e i mes-si del Quirinale – gli versano nell’orecchioparole di dubbio e di cautela: il decreto for-se non ha i necessari requisiti di necessitàe d’urgenza previsti dalla Costituzione, “haisentito la Boldrini?”, e un decreto, inoltre,equivarrebbe a dichiarare sul proscenioche “la Rai c’est moi”, forse una contraddi-zione, chissà, per il novatore e rottamatoreche ha detto “fuori i partiti dalla Rai”.

Dunque, è forse meglio un disegno di leg-ge parlamentare. E così la bussola si riorien-ta, per qualche ora, per qualche giorno, coni cassetti che già traboccano di disegni di leg-ge: Anzaldi, Gentiloni, e poi ancora il pianodi riassetto complessivo del servizio pubbli-co che Giovanni Minoli sottopose anni fa aRomano Prodi. Ma ecco che improvvisamen-te, attorno al presidente del Consiglio, si con-densano ancora una volta altri dubbi, ferociinterrogativi: Renzi ha bonificato la paludeparlamentare sul Jobs Act, e ha navigatospavaldo tra correnti e sottocorrenti, lobbye fazioni di corridoio e Transatlantico, labu-rismi e veterosindacalismi, ma con la Rai?

La Rai è forse un mare più infido persinodella Cgil e del mercato del lavoro. La Rai èun’altra storia, è molto peggio di Bersani e diFassina, di Damiano e di Landini, e il Parla-mento, con le sue commissioni e i suoi rego-lamenti, i suoi codici e i suoi riti, i suoi inte-ressi di sottobottega televisiva, di marchettain onda media, quando vuole sa assumere unandamento tortuoso, accanitamente dilato-rio. La politica, in Rai, va al pascolo, ed è unmondo corruttibile nell’anima ma non nellostile: non si possono tratteggiare linee per-fettamente dritte, linee renziane, in un co-smo obliquo, in cui si gioca per rendere ogniparola ancora meglio revocabile.

Luigi Gubitosi, il direttore generale, haappena annunciato in gran pompa la suapiccola riforma dei telegiornali, e già nelPalazzo tutti sono in preda a una sovrecci-tazione simile a quella che si respira a tea-tro dopo il primo atto di una prova genera-le, “quanto avvenuto con l’elezione del ca-po dello stato e con le riforme rappresentaun precedente che non si ripeterà con lariforma della Rai”, dice per esempio Stefa-nia Prestigiacomo. E comincia così il bruli-came chiassoso dei giuramenti, delle minac-ce, del ringhio e del pissi pissi. “Renzi nonpuò pensare di mettere le mani sulla Rai edi asservirla al governo”, dice Raffaele Fit-to. E persino nel Pd, tra quelli in disaccor-do e sempre appostati nell’ombra, tra quel-li che preferiscono tacere in pubblico persogghignare in privato, in tanti pregustano ilpiacere tutto ritorto dei trabocchetti e del-le trappole, di quel labirinto appiccicosochiamato disegno di legge parlamentare, incui perdersi e perdere la riforma della Rai.E così, mai come prima, Renzi si trova in bi-lico, sospeso, da una parte c’è la sicurezza dipoter riformare la Rai (Quirinale permet-tendo), ma da bullo, dall’altra c’è invece lalenta anestesia del Parlamento, la paludedove tutto affoga.

Twitter @SalvatoreMerlo

La Rai di Renzi tra bisturi e palude

Rai, antenne e banche. Ilva ed energia. Privatizzazioni e grandi newco.Riuscirà o no il governo a muoversi libero dalle catene delle ideologiesui dossier economici più sensibili? Cosa c’è sul tavolo di Palazzo Chigi

Roma. Ci sono voluti due anni, ma alla fine il Parlamento diVienna ha approvato la nuova legge che regola i rapporti con le450 organizzazioni islamiche presenti sul suolo nazionale. La vec-chia, del 1912, era stata firmata dall’ottuagenario Kaiser CeccoBeppe quando ancora esisteva l’impero e gli Asburgo erano i pa-droni di mezzo continente. A velocizzare l’iter, forse, è stata anchela presa d’atto che il Centro per il dialogo interreligioso inaugu-rato tre anni fa a Vienna (e finanziariamente sostenuto dalla fa-miglia reale saudita) ha evitato di esprimersi sulla condanna amille frustate del blogger Raif Badawi, colpevole “d’aver creatoun sito liberale”. L’estrema destra ha votato contro quello che de-finisce un placebo: “L’islam non appartiene all’Austria, né sul pia-no culturale né su quello storico”, ha detto il suo leader, Heinz-

Christian Strache. “Andavano messi al bando burqa e minareti”,qui invece “c’è perfino il menù halal per i carcerati”, hanno ag-giunto in coro i suoi più autorevoli esponenti. Per il ventottenneministro degli Esteri, il popolare Sebastian Kurz – convinto cheora le organizzazioni musulmane saranno chiamate a “dimostra-re un positivo approccio verso la società e lo stato” – “potrà nasce-re un islam in stile austriaco”. Ma a tanti membri della fiorentecomunità musulmana del paese alpino – rappresenta il sette percento della popolazione – la legge non va proprio giù. Due sono ipunti contestati: l’obbligo per gli imam di saper parlare tedescoe, soprattutto, lo stop ai finanziamenti provenienti dall’estero. “Iltentativo di creare un ‘islam austrian-style’ ignora la necessità dipromuovere la diversità religiosa e il mutuo rispetto”, ha denun-

ciato l’Unione turco-islamica che ha base a due passi dal Ringviennese: “La legge sull’islam è stata trasformata in una legge sul-la sicurezza”. Sfumatura, questa, che pare essere però apprezza-ta dai cittadini austriaci visto che, stando a un sondaggio della tvpubblica, ben il 58 per cento di loro coglie una certa radicalizza-zione tra i vicini di casa musulmani. Ma è dall’estero che sono ar-rivate le critiche più dure, e in particolare dalla Turchia. Il re-sponsabile per gli Affari religiosi, Mehmet Görmez – colui che loscorso agosto aveva chiesto al Papa di denunciare gli attacchi al-le moschee in Europa – ha ammonito i governanti europei: “Glisforzi dei leader nazionali di creare la loro versione di islam so-no vani, visto che la religione non è una questione d’ingegneria.Questi sforzi porteranno l’Europa in un vicolo cieco, mentre do-

vrebbero concentrarsi di più sui problemi che scaturiscono dal-le politiche di integrazione, sull’indebolimento della cultura del-la convivenza e prendere precauzioni più serie contro l’avanza-re dell’islamofobia”. Il fatto è che, come ha scritto il quotidianoDaily Sabah, “la legge mette al bando il dipartimento per gli Af-fari religiosi di Ankara, visto che non potrà più fornire assisten-za finanziaria, inviare pubblicazioni ai musulmani al di fuori delpaese e formare in patria gli imam” da spedire tra Klagenfurt,Graz e Salisburgo. E questo, chiarisce il Daily Sabah, è “una bom-ba a orologeria messa nel cuore d’Europa”, dopo che “negli ulti-mi quarant’anni la Turchia ha mandato imam moderati a condur-re le preghiere in duecento moschee d’Austria”.

Twitter @matteomatzuzzi

Come si mette in regola l’islam? La storia della legge austriaca, il ruolo degli imam e la bomba culturale nel cuore dell’Europa

Roma. “Trovo positivo, bello, che il presi-dente del Consiglio Renzi citi su Twitter En-zo Tortora per celebrare l’approvazione del-la legge sulla responsabilità civile dei magi-

strati. Ma, allo stesso tempo, quanto è succes-so dal 1987 a oggi non mi consente di esserecosì ottimista sul futuro di questa svolta”. Lodice al Foglio Giandomenico Caiazza, l’avvo-cato che insieme al collega Vincenzo ZenoZencovich ebbe nel 1988 il mandato da Torto-ra (che in quell’anno poi scomparve) per cita-re in giudizio i magistrati napoletani che ave-vano ingiustamente condannato il presentato-re. La vicenda di allora contiene insegnamen-ti per l’oggi, sostiene Caiazza. Il referendumradical-socialista del 1987 aveva abrogato ilsistema che anestetizzava la possibilità di ri-valersi su magistrati fallaci; il Parlamento poiapprovò la legge Vassalli, senza tener troppoconto dell’esito referendario, reintroducendopro futuro un severo filtro di ammissibilità perla possibilità di rivalersi sui giudici; cosìCaiazza e Zencovich, nel vuoto legislativo, ci-tarono direttamente in giudizio i magistrati,ma la Corte costituzionale intervenne con vi-gore, sostenendo che il filtro era un principiocostituzionale, doveva valere anche retroatti-vamente. E addio giustizia (postuma) per En-zo Tortora.

Ieri l’Associazione nazionale magistrati hamesso in guardia dal tentativo del governo di“normalizzare” la magistratura stessa. “Unapolemica pretestuosa”, replica Caiazza. “Nonsono stati creati ‘tribunali popolari’. Sarannosempre i magistrati a giudicare i magistrati.Non si fidano di loro stessi, forse?”. Messa co-sì, sembra che non sia cambiato nulla: “Untentativo c’è. Il governo si adegua alle denun-ce della Corte europea dei diritti umani (Ce-du) che aveva giudicato inaccettabile che lapossibile responsabilità di un funzionariopubblico si configurasse solo nei casi di doloe colpa grave”. Per un giurista “non italiano”,osserva Caiazza, è “inconcepibile” che il giu-dice non sia responsabile pure quando “inter-preta” leggi e fatti: “E’ quella la sua attivitàprincipale!”. Perciò l’esecutivo ha introdottola responsabilità anche in caso di “travisa-mento del fatto o delle prove”. Qui torna peròla lezione del caso Tortora: “Così come allorala Cassazione reintrodusse creativamente eretroattivamente il filtro di ammissibilità, ne-gli anni successivi la stessa giurisprudenza haristretto sempre più la nozione di ‘colpa gra-ve’ del giudice. In Italia, per invocare la re-sponsabilità del giudice non bastava più di-mostrare la violazione manifesta del dirittovigente, ha fatto notare la Cedu, era necessa-rio provare ‘un’interpretazione manifesta-mente aberrante’”. Detto in altre parole: ilgiudice in Italia è responsabile solo in casiabnormi. Ecco spiegate le cinque (5) condan-ne per responsabilità civile dei magistrati dal1989 al 2012. “La magistratura italiana ha unpotere ermeneutico incontrollabile, senza pa-ragoni in Europa. Tutto iniziò con i magistra-ti del lavoro che, su materie politico-sindaca-li sensibili, cassarono la ‘volontà storica’ dellegislatore e vi anteposero il loro potere di ‘in-terpreti attuali’. Poi a macchia d’olio su tuttoil resto. L’interpretazione corporativamenteautoprotettiva della legge Vassalli è stata unsottoprodotto di ciò. Nulla impedisce che og-gi il ‘travisamento del fatto o delle prove’ siaannullato da una giurisprudenza simile”, di-ce Caiazza. Non sembra esserci via d’uscita,visto che ovviamente saranno sempre dei ma-gistrati a giudicare i magistrati. “Da avvoca-to, riconosco di essere affetto da una robustadose di cinismo sul punto. Non esiste la solu-zione. Nella situazione unica in cui si trova ilnostro paese, si dovrebbe intervenire in ma-niera più dettagliata e prescrittiva per defi-nire meglio ‘travisamento’ e ‘colpa grave’”.

Avvocato, al suo pessimismo dovrebbe op-porsi un certo ottimismo della magistraturaorganizzata. Ottimismo che non si registra. “Inpoco tempo riusciranno a troncare e sopiregli effetti della nuova norma. Senza dimenti-care che il governo, avendo abolito il filtro diammissibilità, presta effettivamente il fiancoalle eccezioni di incostituzionalità, proprio al-la luce dello sfortunato precedente Tortora”,dice Caiazza, su questo d’accordo con i criti-ci tout court della riforma come il magistratoMarcello Maddalena sul Fatto. “Vuole sape-re cos’è che più di tutto infastisce i magistra-ti?”. Mi dica. “Il governo introduce l’obbligoper lo stato di rivalersi sui magistrati in casodi loro responsabilità, per il 50 per cento delloro stipendio. Prima la rivalsa non era obbli-gatoria e pesava meno. Nei prossimi 30 annipotranno pure essere solo cinque casi, ma co-steranno di più ai responsabili”, concludeCaiazza.

Tortora 2.0Caiazza fu l’avv. del presentatore,

oggi loda Renzi sulla responsabilitàcivile ma “i giudici la annulleranno”

ebrei, di voler combattere la guerra “al fa-scismo islamico”, altro termine che usanoin pochi oggi, irriso dai più – gli hanno det-to che era “sotto l’influenza della moglie

ebrea”, come se fosse una droga, perchésolo così le cattive coscienze potevano col-locare quei discorsi nella loro visione delmondo. Ancora ieri il premier, così come ilpresidente, François Hollande, commen-tando la visita di quattro parlamentarifrancesi alla corte del dittatore siriano Ba-shar el Assad, ha dichiarato: “Voglio con-dannare con la massima forza questa ini-ziativa, è un errore morale”. Morale, un al-tro termine riesumato da un passato in cuila sinistra interventista, i cosiddetti falchiliberal, parlavano di chiarezza morale, diimperativi morali, e intendevano dire checi sono alcuni valori che non puoi negozia-re, la libertà contro il totalitarismo, e in lo-ro nome anzi devi essere disposto a com-battere. Anche il segretario di stato ameri-cano, John Kerry, nell’agosto del 2013, difronte agli attacchi chimici del regime diDamasco contro i siriani, parlò di “osce-nità morale”. Ma poi non combatté. Men-tre i francesi, proprio in quelle ore conci-tate in cui pareva imminente un interven-to contro il dittatore stragista, avevano giàpronti i loro aerei, i loro militari, i loropiani strategici e una proposta di transi-zione politica, furono bloccati all’ultimoda una telefonata della Casa Bianca: fer-mi, non si fa più niente. Avrebbero com-battuto, i francesi.

Come parlano i socialisti francesi, ogginon parla più quasi nessuno. Quella tradi-zione di sinistra interventista di stampoanglosassone, ideata negli anni Novanta diTony Blair e di Bill Clinton, è andata per-duta nel mondo stesso che l’ha inventata,e ora, guizzo della storia, sono i socialistifrancesi a tenerla in vita. Combattono ilterrorismo jihadista, “boots on theground”, in Mali, dichiarano guerra al fa-scismo islamico, portano a Parigi i leaderdel mondo, un G40 mai visto tutto insiemein piedi a braccetto, per celebrare e difen-dere la libertà, pensano a leggi contro l’an-tisemitismo, elaborano misure di sicurezzache i giornali definiscono “Patriot Act” permetterle in cattiva luce, sperando così diaffossarle. C’è il rischio, ovvio, che la ten-tazione del “business as usual” convincaanche la leadership francese a occuparsid’altro, ci sono i giochi di potere, i conti dafar quadrare, i patti di stabilità e i disoccu-pati, c’è che l’opinione pubblica tende aminimizzare o a dimenticare, ma la difesadell’occidente è una priorità più a Parigiche nelle altre capitali europee. E certopiù che a Washington. Kenneth Weinstein,presidente del think tank conservatoreHudson Institute (di ispirazione reagania-na), ha scritto sul Wall Street Journal chela sinistra francese sta dando una lezioneai liberal americani: “Mettere la correttez-za politica al di sopra dei valori liberal si-gnifica cedere le nostre società e i musul-mani che le abitano alle idee estremiste(…). Dovremmo guardare alla leadership

francese, che si concentra sul carattereideologico dell’islam radicale e che nonsente di doversi scusare perché rispetta ipropri princìpi liberali, come a un puntodi svolta nella nostra lotta comune”.

Weinstein dice al Foglio che oggi laFrancia “incarna quell’interventismo libe-ral che una volta era della sinistra ameri-cana e che non è mai stato tanto debole quia Washington come adesso”. I francesi scel-gono di farsi guidare, a livello globale, “daprincìpi chiari, chiamano il fondamentali-smo islamico con il loro nome, il nostro pre-sidente Barack Obama non riesce nemme-no a definire l’islam ‘radicale’”. E’ quasiironico pensare che la guerra in Iraq, cheha creato una spaccatura ideologica maisanata nella politica americana, e che di-strusse anche i rapporti tra i francesi e gliamericani – la famosa frattura transatlan-tica – oggi abbia creato questo ribaltamen-to di posizioni. “La guerra in Iraq – diceWeinstein – ha convinto i liberal america-ni a mettersi sulla difensiva, a cercare difar di tutto per non sembrare invadenti einvasori: erano convinti così che la minac-cia fondamentalista si sarebbe ridotta”. E’evidente che non è andata così, “ma il re-lativismo culturale che si è instaurato du-rante e dopo la campagna irachena, unitoalla mancanza di profondità strategica, haimpedito a questa leadership americana dicomprendere e combattere il terrorismo”.

I socialisti francesi invece no, dice Wein-stein, “Manuel Valls sembra ispirarsi nona Obama, semmai più a un intellettuale co-me Leon Wieseltier”, uno dei falchi liberalpiù raffinati d’America. Il premier france-se rifiuta di essere catalogato come “isla-mofobo” quando attacca l’estremismo isla-mista, “mentre in America, anche per ra-gioni costituzionali, la libertà di religionee il primo emendamento, ogni critica vienesubito letta come un attacco all’islam”.Questo ha imposto la cautela semanticache caratterizza l’Amministrazione Oba-ma, con quei giri di parole che sembranostudiati apposta per far innervosire, ma alfondo c’è l’abbandono di una visione inter-ventista, oltre che una bizzarra interpreta-zione delle alleanze imprescindibili percombattere il nemico jihadista (basta ve-dere quanti stracci stanno volando in que-ste ore con il premier israeliano Ne-tanyahu). “La sinistra americana oggi nonsente un imperativo morale di interventoin nessun posto, e Obama non vuole pren-dere consapevolezza del fatto che, di fron-te alla minaccia jihadista, non ci sono scel-te perfette”. Blair diceva di non voler farescelte popolari, ma di voler fare scelte giu-ste, però quel paradigma, nella Washing-ton obamiana, è andato perduto, “e non èdestinato a tornare, questa non è un’Am-ministrazione che ammette i suoi errori”.E’ rimasto invece impigliato in una partedei socialisti francesi, i cosiddetti libera-li, che diventano così i custodi, per quan-to stropicciati dai loro tanti guai, di un’i-dea di mondo in cui la libertà si difende,con ogni mezzo.

Twitter @paolapeduzzi

I falchi liberal francesi, che gran fighiLa Francia è contro l’islamofascismo e per la libertà, dice Valls, ultima

incarnazione dell’interventismo di sinistra (il contrario di Obama)Quando Parigi si è ritrovata sotto attacco, in una sonnolenta giornata

post festiva, e poi ancora per giorni, la caccia forsennata ai terroristi el’assalto agli ebrei, il premier socialista francese, Manuel Valls, disse:“Siamo in guerra contro il terrorismo, contro il jihadismo, contro l’islamradicale, contro tutto ciò che vuole spezzare la fraternité, la liberté, l’é-galité”. Sembravano parole sbucate da quel passato dimenticato in cuila lotta al fondamentalismo islamico era di tutto l’occidente: suonaronosorprendenti. Ma non erano dettate dallo spavento di quelle ore tragi-che, perché Valls le ha ripetute e ne ha aggiunte altre, altrettanto forti,ha rifiutato le accuse di islamofobia, ha ribadito di voler difendere gli

DI PAOLA PEDUZZI

Renzi alla prova del mercato. Dossier

Meglio un decreto da bullo che l’incognita del ddl, ma ci sono dei ma

Roma. Agire secondo esigenze pragmati-che, per ragioni di cassa o per convenienzapolitica, senza steccati ideologici, tra stato emercato. Il governo, finora, sulla politica in-dustriale si è mosso spesso così. Ma nei pros-simi mesi su quali terreni Renzi dovrà mo-strare maturità e capacità di declinare unapolitica industriale non ideologica e basatasul merito? La Rai, e poi?

Rai Way-Mediaset, decida il mercato. Allostato il controllo sul rispetto delle regole. Malascia al mercato quel che è del mercato. Ilprincipio del “renzismo” è messo però a du-ra prova dall’offerta di Mediaset, inattesae per certi versi “scandalosa”, suuna fetta della Rai, azienda ra-diotelevisiva controllata dal Te-soro. Per rispondere alla sinistraPd, ieri Renzi è stato chiaro: “E’un’operazione di mercato, deci-de il mercato”, pur rassicu-rando sulla permanenzadello stato come azionistadi maggioranza (“la rego-la del 51 per cento non simodifica”). Tuttavia l’O-pa lanciata da Ei Towerssu Rai Way presenta numerosivantaggi, un po’ per tutti: la Rai può incassa-re 850 (preziosissimi) milioni, al servizio delsuo rilancio; i soci privati ottengono un buonguadagno (il 50 per cento in quattro mesi,dalla quotazione). La nuova società delle tor-ri potrebbe ridurre i doppioni (con vantaggioper l’ambiente) e coprire le parti di territoriooggi mal servite. Authority di controllo e An-titrust hanno i mezzi per imporre un sistemadi governance e di controllo delle tariffe chevigili contro eventuali abusi, del resto impro-babili: per quale motivo il gestore unico (co-me in Francia, Spagna, Regno Unito, Germa-nia) dovrebbe danneggiare la Rai, suo primocliente e secondo azionista? Renzi ha presotempo appellandosi al decreto con cui si de-cise di collocare solo una quota di minoran-za di Rai Way: più un regolamento a favoredelle resistenze del sistema che non una re-gola aurea immutabile. Anche per questo laBorsa ha preso atto del no, ma non ha fatto

dietrofront: qui si vedrà la capacità di gover-no del premier.

Scongelare banche e banchieri. “Noi siamoqui per fare le cose che non ha mai fatto nes-suno”. Così Renzi ha annunciato una robustascossa del sistema bancario, essenziale peril rilancio dell’economia. Di qui la mossa asorpresa del decreto legge per affrontare lariforma delle Popolari, insabbiata in milleoccasioni dalle lobby del settore dalla metàdegli anni 80. Intanto ha preso velocità il te-ma della “bad bank”, ovvero la creazione diuno o più veicoli in grado di favorire la pu-

lizia dei bilanci da incagli e sof-ferenze, eredità della crisi. Ri-cette più volte suggerite dal Fmi

e gradite a Draghi. Obiettivo: fa-vorire aggregazioni più solide sen-

za scheletri nell’armadio e for-nire all’economia il creditonecessario. Non spaventail premier la prospettivadel ritorno dello stato, sep-

pur temporaneo, nel capi-tale Mps: se le riforme an-dranno avanti, non sarà

difficile trovare soci stabiliper il sistema, come dimostra il caso Inte-

sa Sanpaolo, già feudo delle Fondazioni, og-gi posseduta al 56 per cento da investitoriesteri che scommettono sull’Italia.

Reti delle mie brame e armi da Guerra.Mettetevi d’accordo o fate spazio. Non è unmistero che tra i dossier sulla scrivania diRenzi ci sia Metroweb, fascicolo allegato aquello di Telecom Italia, multinazionale al-la ricerca di un azionariato (stabile). En-trambi si richiamano a un tema ancora piùimportante: gli investimenti per dotare l’I-talia di infrastrutture per la banda larga eultralarga dignitose. Renzi finora ha atteso,con pazienza, che i protagonisti del settore,nell’area pubblica (vedi Cdp e la control-lata F2i) e nell’area privata (la public com-pany di Marco Patuano), trovassero l’intesasu business plan, investimenti, tecnologie,altro. Ma il tempo passa, i competitor scal-pitano.

Forse non gliel’ha domandatoproprio così, ti domandi spe-

ranzoso. Invece, sì: “Dice Di Pie-tro che se ci fosse stata quando

era pm avrebbe passato più tempo a di-fendersi che a fare inchieste”. Forse nonl’ha posta proprio così, rifletti mentre leg-gi, fiducioso. Invece: “Tanti magistrati so-stengono la stessa cosa, c’è una grandepaura che da domani piovano ricorsi araffica”. Non è che suggerisca: “Toghe fa-mose parlano di chiara intimidazione, arisentirne sarebbero le indagini su mafiae corruzione. C’è pericolo?”. Con fiera in-dipendenza, non assume il punto di vistadi nessuno in particolare, lo capisce be-ne che travisare fatti e prove sia un pro-blema serio: “Per l’Anm di Milano, ‘il go-

verno caccia le dita negli occhi dei magi-strati’. Lei che pensa del ‘travisamentodel fatto e delle prove’ come causa di ri-corso?”. Non pone domande allarmiste:“Si rende conto che intanto i magistrati ri-schiano di dover lasciare i processi?”. Sifa sfiorare, cauta, da un dubbio. Garbata-mente lo pone all’interlocutore: “Comemai il centrodestra, il giorno dopo, è entu-siasta?”. Non tralascia la domanda di sto-ria italiana, sezione “referendum che nonci sono stati”: “La legge era necessaria?”.Infine il quizzone: “Perché si approva laresponsabilità, mentre è braccio di ferrosul falso in bilancio?”. Le interviste diLiana Milella, a scuola, le chiamano test arisposta bloccata. In Corea del nord, nonlo so. Comunque: come doveva risponde-re, il vice del Csm Giovanni Legnini? Po-tendo scegliere, si è arreso.

Le faccio le domande, non risponda. Metodo Milella

CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA

Abbacinati dall’ultima puntatadi “House of Cards” non siamo

più capaci di spettegolarci addosso

Esci da questa serie!

Niente più pettegolezzi, qualcosa dicui sparlare, aneddoti fantasmagori-

ci sulle vite degli altri, confessioni e bu-gie, nemmeno goffi tentativi maschili di

introdurre l’argomento: moviola in cam-po, mentre le donne mimano il taglio del-le vene. Niente ginocchia che si sfioranosotto il tavolo, niente discussioni politi-che, liti fra coniugi rimandate al ritornoa casa oppure meravigliosamente pub-bliche dopo qualche bicchiere di vino(“fallito”, “mitomane”). Le cene vengonodistrutte già prima di sedersi a tavola,basta infilare la domanda a bruciapelo:ma lo state vedendo “House of Cards”?C’è sempre qualcuno che risponde: cer-to, ma le ho viste appena uscite in Ame-rica, non ditemi vi prego che non statevedendo “Scandal”. La serata è rovina-ta, come ha scritto il New York Magazine,la conversazione diventa immediata-mente triste e noiosa, si deve bere di piùper sopportarla. Non importa quanto sia-no belle, complicate, sconvolgenti le se-rie televisive americane (“è possibile,poi, che siano tutte belle? o siete tutti voiun po’ rincoglioniti?”, dice lo scettico,quello che rifiuta di investire tredici oredi vita, cioè la durata media di una serie,e moltiplicarle per quattro o cinque sta-gioni), tutto diventa subito “la versionecon cena di un post di Facebook in cui gliospiti si alternano per cliccare su: mipiace”. E dire che sì, è una fantastica se-rie, oddio è meravigliosa, è perfetta, equella puntata, che ovviamente in Italianon s’è ancora vista, è una specie di sin-tesi di tutto lo splendore dell’universo, esono stato sveglio tutta la notte, e mia mo-glie mi ha picchiato perché credeva chefossi uscito di nascosto, invece non miero mai mosso dal divano, ero in trance.Il fatto che la maggior parte degli invita-ti non abbia visto quell’episodio non haalcuna importanza: sono tenuti comun-que, per mostrare uso di mondo, ad al-meno quattro o cinque esclamazioni digioia, stupore, e anche a usare l’espres-sione “grande letteratura”, al massimo sipuò azzardare: “Parte un po’ lento, mapoi…”, facendo gesti con le mani e an-nunciando che si farà passare l’invernocosì, a forza di serie (in lingua originale,sennò si perde il gusto) e che non c’ènemmeno più il tempo di tradire i coniu-gi perché ci si deve tenere al passo coni nuovi episodi. Molti fingono di avere vi-sto tutto quello che non hanno visto,confondono “True Detective” con “Ho-meland”, oppure si chiudono in un silen-zio scocciato e cominciano a sparecchia-re la tavola, preferendo mandare mes-saggi in cucina che gridare: “Sono total-mente ossessionata da quel personag-gio”. Alla fine la cena si divide stanca-mente, senza più vita, senza allegria, sen-za nemmeno più cercare di capire sequei due hanno una storia segreta, fraquelli che parlano di trame (“non vogliofare spoiler, ma succede questa cosa paz-zesca”), quelli che fanno sfoggio di criti-ca televisiva profonda e comparata, nonaccorgendosi che stanno parlando di“Downton Abbey” a una persona dispe-rata ma beneducata che non ha mai vi-sto “Downton Abbey”, e quelli che nonvedono l’ora di andarsene per litigare,maledire “Homeland”, “Empire”, “Scan-dal”, “The Honourable Woman” e inte-riormente invocare una dittatura che ri-pristini soltanto “Dallas”, per sempre.

DI ANNALENA

Mi trovo in Israele da solo per-ché sono molto dinamico e mipiace viaggiare, mentre aFranca no, smuoverla da Ro-ma è una vera impresa. Qui so-

no in piena campagna elettorale, il dibat-tito è ardente: il futuro incerto, l’autonomiapalestinese, Bibi al congresso americanocontro Obama, la politica economica, il vol-to nuovo di Yair Lapid, ce n’è di carne alfuoco. Israele sta a sud. Quasi più di Paler-mo. L’impulso è votare Salvini.

Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21

DI MARCO VALERIO LO PRETE

• LA VERITA’ SU RAI WAYParla l'uomo del governo sulle tlc,Giacomelli Rizzini a pagina 3

(Bertone e Brambilla segue a pagina quattro)

Page 2: Foglio20150227 Heidegger

ANNO XX NUMERO 49 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015

ArieccoliSalvini, CasaPound, Sel e centri

sociali. Mai che Roma possagodersi un sabato leopardiano

ARoma non si puòmai stare tranquilli,

signora mia, e questo èpiù che mai vero per ilsabato. E’ rarissimo, a

memoria di civis, che quel giorno “piendi speme e di gioia” sia lasciato a placi-de e metaforiche contemplazioni leopar-diane a base di donzellette, garzoncellie vecchierelle, o comunque al pigro stru-scio in zona centro con sereno finale inpizzeria, dove l’unico brivido di incertez-za è dato dalla scelta tra margherita o ca-pricciosa. In genere, il sabato romano èdedicato a cortei, presìdi, comizi – ci fuanche il tempo dei girotondi, come i piùanziani ricorderanno; e non mancano leimprovvisate come quella di AngelaMerkel a Trastevere, sabato scorso, con ilrione impacchettato come non mai permotivi di sicurezza. Il sabato romano, in-somma, è il momento giusto per tutto ciòche l’effervescenza politica del momentosa inventarsi per animare la vita degli in-digeni, altrimenti destinati a impigrirsinella ben nota e tanto spesso condanna-ta apatia locale. E’ forse per questo cheil comizio della Lega di Matteo Salvinipiù CasaPound a piazza del Popolo, pre-visto per domani, con annesso controcor-teo di sinistra ostile e centri sociali, siconfigura più come il noioso ma inevita-bile arrivo di un acquazzone che comequalcosa di cui prender nota per altrimotivi. La grande città che tutto digeri-sce e appiattisce – e a volte, bisogna am-metterlo, è una fortuna – non mancheràdi digerire e appiattire le citate manife-stazioni, ridotte implacabilmente all’en-nesima volta “che ci hanno fatto scende-re dall’autobus e siamo dovuti andare apiedi, mannaggia, perché c’era il solitocasino al centro. Ma non era meglio se nestavano (o ce ne stavamo) a casa?”. Ed èun vero peccato che Salvini, CasaPound,Sel e gli antagonisti dimostrino ancorauna volta di non capire nulla di questacittà che fu definita “la meno sudata d’I-talia, la meno proletaria e la meno bor-ghese, disponibile a qualsiasi rito di par-tito, di scuola, di gruppo, lasciandosi cor-teggiare o aggredire, adoperare o vili-pendere” (Edgardo Bartoli, “La civiltàdel malumore”, Elliot). E’ la città dovecade nel vuoto e nel commento distratto(“Ancora!”) anche la maldestra mezzaprofezia, rilanciata dal Corriere dellaSera, del sindaco a due ruote. IgnazioMarino avrebbe ventilato ai consigliericapitolini l’incombere di altri centoven-ti avvisi di garanzia nell’ambito dell’in-chiesta “Mafia capitale”. Lo ha smentitoil titolare dell’inchiesta, Pignatone (“evi-dentemente io e lui non abbiamo le stes-se informazioni”, ha detto il magistrato),e Marino ha poi spiegato che era statofrainteso. Gesto inutile, perché tanto ilromano non crede davvero né alla primaversione né alla smentita. Il romano cre-de solo a quello che vede, figuriamoci aquello che gli raccontano o che addirittu-ra racconta un politico. In questi giorni,per dire, il quesito più appassionanteper la città riguarda il set di 007: sarà ve-ro o no che l’attore Daniel Craig si è fat-to un bernoccolo contro il tettuccio inter-no dell’Aston Martin sbatacchiata daisanpietrini, tanto che è dovuto tornare aLondra per riprendersi? Fosse vero, i ro-mani quotidianamente sbatacchiati po-trebbero almeno dirsi che questo succe-de, a sottovalutare Roma

Nicoletta Tiliacos

Roma. Il più celebre comico francese,Dieudonné, è sotto processo per “apologiadel terrorismo” a Parigi. La pubblica accu-sa ha chiesto una pena di trentamila euro.In un post pubblicato su Facebook l’11 gen-naio, mentre milioni di persone scendeva-no in piazza per rendere omaggio alle di-ciassette vittime degli attentati a CharlieHebdo e al supermercato ebraico, Dieu-donné aveva detto di sentirsi “Charlie Cou-libaly”, associando lo slogan di sostegno alsettimanale satirico (“Je suis Charlie”) alnome di Amedy Coulibaly, uno dei tre at-tentatori che hanno seminato la morte nel-la capitale francese.

E per rimarcare che in Francia non c’èlibertà di espressione, che lui è un marti-re e una vittima di un regime oppressivo eipocrita, Dieudonné è volato a Teheran,per abbracciare l’ex presidente iranianoMahmoud Ahmadinejad, e consegnargli laquenelle d’oro, il “premio” a forma del suogesto più noto, una sorta di saluto nazistaal rovescio. L’incontro fra Dieudonné e Ah-madinejad è avvenuto il 19 febbraio, ma ilMonde ne ha dato notizia soltanto ieri. “Unvecchio amico, un grande artista”. Così l’expresidente iraniano ha definito l’artista,

che ha ricambiato il favore descrivendo l’I-ran come “il paese dove la libertà d’e-spressione esiste davvero”. Il premierfrancese Manuel Valls accusa Dieudonnédi essere finanziato dalla Repubblica isla-mica dell’Iran. Ma Valls, si sa, è sotto “in-flusso ebraico” a causa di una moglieebrea. A dirlo non è stato Dieudonné, o al-

meno non soltanto lui, ma un ex ministrodegli Esteri socialista, un fedelissimo diFrançois Mitterrand, Roland Dumas, can-didato così a comparire alla corte dei de-mocratici ayatollah, che intanto preparanoun grande festival delle vignette sull’Olo-causto (inutili le proteste israeliane alleNazioni Unite). Comunque i soldi dall’Iran

Dieudonné li ha presi davvero per realiz-zare il film “L’Antisémite”, dove appare lostorico negazionista Robert Faurisson, an-che lui dichiaratosi vittima del regimefrancese in tema di Shoah. E tanto per ri-badire la concezione della libertà diespressione, il regime iraniano ha appenaconfermato la validità della fatwa che nel1989 colpì lo scrittore Salman Rushdie. Loha fatto dalla città santa di Qom attraver-so la voce dell’ayatollah Gharavian, vicinoal presidente Rohani: “Rushdie è un mer-cenario dell’arroganza mondiale. Sonopassati anni da quando Khomeini emise lafatwa, ma il decreto continua a essere va-lido”. L’Iran dunque torna a rinverdire lostorico editto di morte contro la blasfemiain occidente, quella fatwa trovata nel com-puter di uno dei fratelli Kouachi, gli atten-tatori di Charlie Hebdo. Intanto, astuti co-me nessun altro, gli ayatollah gettano pon-ti in Europa, ergendosi a paladini della li-bertà di parola contro gli ipocriti europeisuccubi degli ebrei. Alla Guida supremamanca soltanto la bomba nucleare, e an-che per quella manca davvero poco. Un ca-polavoro.

Giulio Meotti

Dieudonné vola da Ahmadinejad e l’Iran rinnova la fatwa a Rushdie Luoghi sacri

Litigi politici sul posto dellaMadonnina e delle moschee.

Pisapia a messa e campi di grano

Eanche il sito dell’Expo èbattezzato. O meglio sarà

benedetto dalla presenza del-la nostra bella Madunina, chedominerà in copia conforme(“piscinina” è variante poeti-

ca da lasciare alla canzone, la statua sullaguglia più alta del Duomo è una ragazzonadi quattro metri e mezzo) i padiglioni chestanno sorgendo nell’area di Rho-Pero desti-nata alla gran kermesse mondiale. L’annun-cio l’ha dato mercoledì il commissario unicodi Expo, Giuseppe Sala, che pur con caute-la, “da domani un gruppo di lavoro congiun-to si metterà al lavoro per trovare possibilisoluzioni”, ha risposto con parole acconce efervorose alla richiesta ufficiale che gli erastata presentata dall’arciprete del Duomo,mons. Gianantonio Borgonovo: “Desideroringraziarla per l’opportunità che offre aExpo 2015 il simbolo più profondo della no-stra città… Per l’Expo significa farsi porta-tore in modo ancora più deciso e concreto diquei valori di accoglienza, di tolleranza e fi-ducia nel futuro che hanno caratterizzato laMilano religiosa e laica”. Il laico problemadi dove collocare la copia della Madonninache la Veneranda Fabbrica del Duomo hadeciso di realizzare era stato, in verità, all’o-rigine di una spigolosa baruffa tra curia ecittà, che ha rischiato di degenerare. Dap-prima la Veneranda Fabbrica aveva chiestodi poter collocare la sacra immagine in piaz-zetta Reale, di fianco al Duomo e davanti al-l’ingresso delle più appetite mostre di Mila-no. Il soprintendente ai Beni artistici, Alber-to Artioli – sua la potestà sul luogo, non delcomune – aveva opposto un secco niet, e laFabbrica non aveva gradito. Il comune ave-va suggerito piazza Fontana, davanti all’ar-civescovado. La curia aveva risposto: bah.Non era parso vero, ai leghisti di PalazzoMarino, di poter montare una gazzarra poli-tica sulla Madonnina rifiutata e persino eso-data dalla città di Pisapia, dove invece si ac-colgono islamici come se fosse festa. L’altrogiorno hanno manifestato davanti a PalazzoReale con una gigantografia della Protettri-ce di Milano. Adesso pare siano contenti tut-ti, pure Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio(la Madonnina, della gita a Rho-Pero, nongiureremmo).

In Duomo alla messa per il don Giuss,Giuliano Pisapia lunedì sera avrà forse pre-gato anche per la buona soluzione del casoMadonnina. In prima fila alla celebrazioneorganizzata da Cl per commemorare i diecianni dalla morte del fondatore, la chiomabianca del sindaco che fu allievo di donGiussani al mitico Berchet spiccava, accan-to a quella del vicesindaco Lucia De Cesa-ris, in un certo vuoto della politica ambro-siana.

Si litiga molto anche su dove piazzare lemoschee. Il capogruppo regionale del Pd alPirellone, Enrico Brambilla, ha fatto sape-re che da Roma il governo è pronto a impu-gnare per incostituzionalità la nuova leggeregionale che regolamenta la costruzionedei luoghi di culto in Lombardia. La chiama-no “legge anti moschee”, prevede tra le al-tre cose una “Valutazione ambientale stra-tegica” preventiva, ma va detto che persinola diocesi, attraverso il suo sito online, haavanzato dubbi sui termini ritenuti tropporestrittivi del regolamento, che potrebberoporre limiti alla libertà di culto in generalea tutte le confessioni. La questione, più chereligiosa, è molto politica. La legge della re-gione guidata da Bobo Maroni e voluta dalcentrodestra (si segnala una MariastellaGelmini entusiasta) è di fatto più restrittivarispetto alle linee che ispirano il bando pre-disposto dal comune di Milano a fine 2014(in scadenza a breve) e riservato a tutte leconfessioni religiose (non solo l’islam) ac-creditate attraverso cui la giunta di sinistraha messo a disposizione tre aree edificabi-li. In base al bando, le confessioni dovran-no riqualificare gli immobili e pagarne ge-stione e canone d’affitto, sottoscrivere unaserie di norme e protocolli, anche a proposi-to della tracciabilità di eventuali finanzia-menti. Le comunità musulmane mugugnano:non potranno in ogni caso avere più di duearee. La diocesi non è contraria, ma chiedechiarezza sugli interlocutori. Intanto a Mila-no una moschea ancora non esiste, il pros-simo Ramadan si annuncia come il solitotormentone emergenziale.

Non è un luogo santo, ma i grattacieli diPorta Nuova si prestano all’ecumenica reli-gione Expo-ecologica. Fondazioni RiccardoCatella e Nicola Trussardi benedicenti, sa-bato l’artista Agnes Dénes (e aiuti) semineràtra i grattacieli un campo di grano di cinqueettari, che imbiondirà un angolo di città pro-prio nell’estate dell’Expo. L’avevano già fat-to a Manhattan. Vedremo che effetto farà aMilano.

Maurizio Crippa

Il procuratore aggiunto vene-ziano Carlo Nordio ricorda in unaintervista che l’assicurazione per mettereal riparo un magistrato in tema di respon-sabilità civile assomma grosso modo a unterzo di una RC Auto medio-bassa. Nellapeggiore delle ipotesi, quella nella qualelo stato decida di rivalersi sul magistratoche, giova ricordare, sia stato riconosciutocolpevole da suoi colleghi di una colpa pro-fessionale particolarmente grave. La de-nuncia della forza intimidatoria della nuo-va legge pare decisamente sopra le righe.Come del resto le dichiarazioni di ieri delpresidente dell’Anm Rodolfo Sabelli che

ha parlato del rischio che si arrivi a dupli-care i gradi di giudizio. Argomentazione disicuro effetto ma infondata. Un risarcimen-to ovviamente non potrà modificare unasentenza. Potrà valutare se nel corso dellaprocedura siano stati commessi abusi. Nonsi vede perché questo dovrebbe intimidiremagistrati che operino correttamente. Ilpunto decisivo però i dirigenti dell’Anm ie-ri mi pare l’abbiano colto, sostenendo che“la nuova legge ha un valore del tutto po-litico”. Credo sia verissimo. Ma è una buo-na politica quella che, sia pure dopo tantotempo, decide di rispettare il voto dei citta-dini e di ricordare ai membri dell’ordinegiudiziario che, a norma di Costituzione,sono anche loro sottoposti alla legge.

BORDIN LINEdi Massimo Bordin

“ A T E H E R A N C ’ E ’ V E R A L I B E R T A ’ D I E S P R E S S I O N E ”

Roma. L’americana Phyllis Chesler hapassato la maggior parte dei suoi baldan-zosi 75 anni a creare dispiaceri ai cultoridel politicamente corretto. Come femmini-sta, prima di tutto, capace di sottrarsi aicliché del piagnisteo (ricordiamo il suo“Donna contro donna”, tradotto in Italiada Mondadori, nel quale affronta il temadella misoginia femminile). E come fieraebrea di Brooklyn, autrice tra l’altro di unpamphlet contro “Il nuovo antisemiti-smo”.

Da tempo, la Chesler si è ritagliata unruolo di “Fallaci americana”, come hadetto qualcuno sperando di farle un di-spetto. Nei suoi ultimi libri, ha scritto chel’ostacolo maggiore alla libertà nel mon-do, e in particolare alla libertà delle don-ne, va cercato “nell’apartheid schiavistasubito dal mondo femminile nell’islam.Se non capiamo il pericolo per i nostri va-lori – e per le nostre vite – rappresentatodal razzismo e dal sessismo dei reaziona-ri musulmani, siamo morte: uccise dal vi-rus della passività provocata dalla corret-tezza politica”. Questa posizione, espres-sa al giornalista del Foglio che l’aveva in-tervistata dieci anni fa a New York, laChesler la ribadisce ora sul sito Breit-bart.com, di cui è una delle firme di pun-

ta. Pochi giorni fa è intervenuta per ricor-dare che la Francia in gramaglie perCharlie Hebdo è la stessa nella quale percinque volte (l’ultima nel 2008) una glorianazionale tuttora amatissima come l’attri-ce Brigitte Bardot è dovuta comparire difronte a un giudice, uscendo ogni volta dalprocesso con una condanna a pene pecu-niarie (l’ultima volta anche a due mesi dicarcere, poi sospesi), per “incitamento al-l’odio razziale”. Colpa della Bardot è diaver ripetuto di essere stanca dell’isla-

mizzazione della Francia. Nel 2008 in par-ticolare, avrebbe scritto di “essere stufadi essere succube di una popolazione checi sta distruggendo e ci sta imponendo isuoi costumi”. L’occasione dello sfogo,trattandosi dell’animalista appassionataBardot, era stata la sua intemerata controla macellazione rituale pubblica, in occa-sione della “festa dell’offerta” (una leggeche proibisse la macellazione rituale inFrancia è l’unico regalo che l’attrice ave-va detto di desiderare per i suoi ottant’an-

ni, festeggiati nel 2014). La Chesler enu-mera le “colpe” della Bardot: nel 1997scrisse al Figaro una lettera aperta control’invasione di stranieri “soprattutto mu-sulmani”; nel 1998 denunciò la crisi dell’i-dentità francese a causa della “moltipli-cazione di moschee, mentre le nostrecampane tacciono per mancanza di sacer-doti”; nel 2000 ha scritto di nuovo in un li-bro di essere addolorata perché “il miopaese, la mia patria, la mia terra è di nuo-vo invasa da una sovrappopolazione distranieri, soprattutto musulmani”; nel2004, in un altro libro, associò l’islam agliattacchi dell’11 settembre e di nuovo de-finì “invasori” i musulmani”. Phyllis Che-sler ricorda che la Bardot non fa che di-re quello che la Fallaci ha scritto tantevolte e che la storica Bat Ye’or ha sostenu-to in “Eurabia” e nel più recente “Versoil califfato universale. Come l’Europa èdiventata complice dell’espansionismomusulmano” (tradotti in Italia da Lindau).La colpa dell’attrice, plurisanzionata daitribunali della République, è di voler vi-vere in un paese che fa ancora riferimen-to all’illuminismo europeo, scrive Che-sler. E magari vorrebbe che qualcuno inFrancia chiedesse scusa alla Bardot. Nonsuccederà. (nic.til)

Dobbiamo essere grati all’“islamofoba” Brigitte Bardot, scrive la Chesler L A F E M M I N I S T A P O L I T I C A M E N T E S C O R R E T T A D I F E N D E L ’ A T T R I C E

E’uscita da pochi giorni, per l’editriceOdile Jacob, l’ultima prova letteraria

di Pierre Boulez, da molto tempo attesa,da musicisti e amatori, e finalmente ap-parsa, in veste di sommessa eleganza.

Ma è un discorso decisivo questo, o untardivo omaggio al grande Maestro? En-trambe le caratteristiche recano qualcheaspetto, ed entrambe lo accolgono con l’e-sultanza di una Festschrift: dichiarazioneche certo concede un margine di impru-denza: la maggiore affinità avvertita e be-ne riconosciuta nella cultura germanica,e magari nei suoi ruoli accademici, anzi-ché sulle rive della nativa Montbrison,terra di giansenisti ai suoi bei giorni. Maecco un testo, quale quello di un filologoclassico, avanzarsi brillantemente, per ri-mettere le cose a posto: “Le vierge, le vi-vace et le bel aujourd’hui” non sono famo-si paesaggi francesi di un Fragonard o unCallot, per citare a caso.

Che cosa propone dunque il lavoro ap-pena apparso? S’intitola Pierre Boulez,Jean-Pierre Changeux, Philippe Manoury,Les Neurones enchantés. Ci scusiamo con illettore severo che vorrebbe accuratamen-te separati autore e titolo: ultimo, piutto-sto ovvio, Le cerveau et la musique. Unaraccolta di quanto il musicista abbia pen-sato più profondamente, in modo dunquedefinitivo per le sorti della musica: la suae quella ormai di nuovi adepti e diligentiscolari: i quali, tutti francesi, da assai an-ni si ritrovano, rallegrandosi, nelle oeu-vres del didatta insigne: le citazioni orasarebbero inutili, costituendo una pre-

messa indubitabile: vedi Manoury appun-to, che ha da molto oltrepassato le Alpi eil Reno.

Quanto egli abbia appreso dai suoimaestri e da altri innumerevoli si è ascol-tato nei programmi della Biennale vene-ziana, e talvolta altrove. Il libro accogliei detti che si vorrebbero dire sapienziali,come nell’amatissimo Mallarmé e in Cage.Sette i capitoli: Cos’è la musica?; I para-dossi del bello e le regole dell’arte; Dal-l’orecchio al cervello: fisiologia della mu-sica; Darwin nella testa del compositore;Consapevole e non consapevole nell’in-

venzione musicale; Creazione musicale ecreazione scientifica; Imparare la musica.Alla fine, secondo la ben nota correttezzauniversitaria, note e riferimenti biblio-grafici. Difficilmente un lettore si affret-terà a divorare, l’uno dopo il successivo,i sette testi. Ma Boulez li ha accolti tutti,ritenendoli essenziali, e suscitando unacerta reazione appunto a cominciare daisuddetti: il compositore Manoury e il neu-robiologo Changeux: i quali si dimostra-no informati assai seriamente anche inmusica e viceversa. Collaborando con uncollega squisitamente tirannico, ben sa-

pevano a cosa andassero incontro. Ma nonsi tratta di divulgazione scientifica, comesuole accadere in grembo alle editorie:tutto qui è ripensato con il più implaca-bile rigore: chi non ne tollerasse la pre-senza (succede!) non ha che da saltare lerelative pagine e i commentari minimi.

La premessa primaria, di radicale in-tensità, non è forse per sempre il Discourscartesiano? Ma, subito dopo, ecco compa-rire fra i decisivi il nome di Diderot. Nesiamo ben certi: non si leggerà il Neveu deRameau senza inviare allo “zio” un omag-gio devoto. Noi aggiungiamo qui, conuguale certezza, il nome di Rousseau, cheattende confermata la parità dei suoi di-ritti, e ci limitiamo a proporre un’analisiminuta, e a verificarne la coincidenzaperfetta con l’altro rivoluzionario: un no-me da introdurre con maggiore accortez-za. Ma esso, ormai, “suona” legittimamen-te nel circolo magico di quella ivresse.

Tra le pagine esaltanti, Boulez ha ri-scritto una breve storia della musica. Es-sa entra, inesorabilmente, nei settori de-cisivi, ne anticipa i fulgori. Entra, voglia-mo dire, in quella forma di civilisation de-scritta da Ernst Robert Curtius. E del pa-ri, nella invenzione teatrale includente diWagner, Tetralogia, Tristano, Parsifal, e poidel Pelléas, dilatandone ogni passaggio,ogni immagine, seguendo sempre l’esem-pio decisivo, declinabile nella praticacompositiva, come nelle indicazioni diquesti infallibili écrivains. E tutti di allar-mante sicurezza e gioia creativa.

Mario Bortolotto

Leggere l’ultimo libro di Pierre Boulez per decifrare le sorti della musicaU N A P R O V A L E T T E R A R I A D A M O L T O T E M P O A T T E S A

Parigi. L’ultimo intervento su Libérationrisaliva a un mese fa. L’economista “fren-chie” e nuovo santino del Tout-Paris ThomasPiketty salutava entusiasta il “trionfo eletto-rale di Syriza in Grecia” che stava per “stra-volgere l’Europa e mettere fine all’austeritàche mina il nostro continente e la sua gio-ventù”. Esibendo il suo ottimismo per la cre-scita nei sondaggi di Podemos in Spagna,Piketty invitava le altre sinistre europee, so-prattutto quella francese e italiana, a segui-re l’esempio di Tsipras, a tendergli la mano,“per proporre una vera e propria rifondazio-ne democratica della zona euro”, strappan-do, o quanto meno sgualcendo, il Trattatobudgetario europeo del 2012. Il tempo di con-cludere la tournée “anti Abenomics” inGiappone, dire che la politica economica delpremier nipponico Shinzo Abe esacerba lediseguaglianze, registrare la sbornia di ven-dite del suo “Il capitale nel XXI secolo”(150.000 copie vendute in due mesi, e dueesegeti all’attivo, Nobuo Ikeda, autore di“Capire i principali argomenti di Piketty in60 minuti”, e Mieko Takenobu, all’origine delsaggio dagli echi esoterici “Iniziazione aPiketty”), ed eccolo di ritorno in Francia a

épater la gauche, a sbalordirla.Martedì, sempre su Libération, Piketty si

è lanciato in una riflessione sui nuovi model-li economici dei media francesi e su quelleche considera le loro derive, sottolineandol’urgenza di “salvare i media” (titolo del pez-zo) dalle manacce dei grandi gruppi editoria-li che hanno la “cattiva abitudine di abusa-re del loro potere”. “Indeboliti dal crollodelle vendite e degli introiti pubblicitari, imedia finiscono progressivamente in baliadi miliardari dalle tasche piene di soldi,spesso a discapito della qualità e della loroindipendenza”, ha denunciato l’economistafrancese. Nomi? Il gruppo Bouygues, checontrolla Tf1, la famiglia Dassault – “avidis-sima di commesse pubbliche e fortementeimplicata in politica” – che ha il Figaro, Ber-nard Arnault, che attraverso il gruppo dellusso Lvmh controlla il quotidiano economi-co Echos, il trio Bergé-Niel-Pigasse, che harilevato il Monde e l’Obs, e, scrive Piketty, an-che il “duo Ledoux-Drahi”, che ha appenaacquisito Libération.

Quali soluzioni adottare dunque per ga-rantire l’indipendenza dei media? Pikettysostiene la necessità di ripensare i modelli

economici attuali e di adattarli all’èra digi-tale, facendo sue le tesi di un libro di cuiraccomanda fortemente la lettura e chepresenta come “tonico e ottimista”, all’in-terno del quale l’autrice, l’economista JuliaCagé, mostra che è possibile “salvare i me-dia” sviluppando un modello “fondato sul-la condivisione del potere e sul finanzia-mento partecipativo” (il titolo del saggioche Piketty considera salvifico e che ha unacopertina più rossa del Libretto di Mao Ze-dong s’intitola “Sauver les médias: Capitali-sme, financement participatif et démocra-tie”). Più precisamente: creare un nuovostatuto giuridico, una “società editorialesenza scopo di lucro”, che permetterebbesecondo Cagé e Piketty di creare un veroequilibrio tra piccoli e grandi azionisti e so-prattutto di garantire la libertà e l’indipen-denza dei media.

Tutto molto bello e tutto molto dem: li-bertà, finanziamento partecipativo, dipen-denza dai lettori, indipendenza dai poteriforti. Ma c’è un dettaglio che monsieurPiketty ha preferito omettere nella sua ulti-ma omelia per combattere le diseguaglian-ze della nostra epoca. Julia Cagé infatti, co-

me rivelato ieri dal sito Arretsurimage, nonè solo docente di Economia a Sciences Po etitolare di un dottorato di ricerca all’Univer-sità di Harvard, ma è anche sua moglie. Innessun momento Piketty fa cenno al legameintimo tra i due: mica male per un articoloin cui si discetta attorno all’importanza fon-damentale rappresentata dall’indipendenzadei media e si denunciano gli elevati rischidi conflitti d’interesse quando il potere edi-toriale è concentrato nelle mani di pochi(“che spesso non sono né tanto competentiné particolarmente disinteressati”, scrivel’economista citando sua moglie).

“L’opinionista è sottomesso alle stesse re-gole di conflitti d’interesse che valgono peri giornalisti? Ne abbiamo discusso conPiketty, ha invocato la sua libertà di opinio-nista, gliela abbiamo concessa”, hanno spie-gato quelli di Libé a Arretsurimage. E percorrettezza non si poteva quanto meno men-zionare la vicinanza non solo intellettualetra i due nelle note a piè di pagina? “Glie-lo abbiamo chiesto, ha rifiutato”. Forse, ora,è meglio chiamarlo Marketty.

Mauro ZanonTwitter @mauro__zanon

Zitto zitto, su Libé Piketty raccomanda il “tonico” libro di sua moglieL’ U L T I M A O M E L I A D E L L’ E C O N O M I S T A D I G R I D O D E L L A G A U C H E

Re Davide, che sei stato un grande mi-litare e un grande adultero, che per ave-re una donna arrivasti a far uccidere, eche sei antenato di Gesù e Santo (ricor-renza 29 dicembre), ti prego di assisterespiritualmente i due sottufficiali del reg-gimento San Marco sospesi, da una giudi-cessa (gip) su proposta di un’altra giudi-cessa (pm), per aver baciato e palpeggia-to sette soldatesse. Sono un maresciallo eun sergente che adesso rischiano la per-dita del lavoro e dieci (dieci) anni di car-cere. Sono due vittime delle caserme mi-ste, della pretesa di modellare uominiche siano contemporaneamente eunuchie guerrieri (il San Marco è un reparto dasbarco, quindi da Libia, per intenderci).Come se al testosterone si potesse coman-dare. Come se il simbolo del San Marconon fosse un leone con tutti i suoi attribu-ti ma un gatto castrato.

PREGHIERAdi Camillo Langone

Caro Daniele Raineri, nel tuoarticolo di ieri sulla situazione di Mo-

sul scrivi: “Un comandante curdo chepreferisce non essere nominato e che hacombattuto nella battaglia di Kobane di-ce al Foglio: ‘Combatteremo anche perMosul: perché Mosul è nostra’.” Tutti i re-sponsabili che ho sentito nel Kurdistaniracheno – autorità politiche, comandan-ti peshmerga, ufficiali di formazione ac-cademica – e anche i cittadini comuni di-cono all’unanimità che Mosul è degli ara-bi sunniti, così come Kirkuk è del Kurdi-stan. Anzi, la loro strenua rivendicazio-ne di Kirkuk, minacciata ora oltre chedall’Is dalle milizie sciite di al Hashd alShaabi, si fonda sul reciproco riconosci-mento del diritto arabo sunnita su Mosul.

Che vuol dire, in un Iraq già diviso in tre,il petrolio di Bassora agli sciiti, quello diKirkuk ai curdi, quello di Mosul ai sun-niti. Dopo di che i curdi intendono par-tecipare a una liberazione di Mosul dal-l’Is che è affare dell’esercito irachenorimpannucciato e della coalizione inter-nazionale. Prima ancora, i curdi confida-no nei capi tribù sunniti, secondo i qua-li la rassegnazione all’Is è crollata, mache temono ancora troppo di essere la-sciati ancora una volta soli.

* * *A volte gli uomini d’armi hanno una vi-

sione espansiva e meno prudente del le-cito, soprattutto se sentono di essere in-dispensabili. Hai ragione, nel pezzo nondoveva suonare come la voce dei curdi.(Daniele Raineri)

PICCOLA POSTAdi Adriano Sofri

RIPA DEL NAVIGLIOLA GRANDE BELLEZZA

Roma. “Noi non siamo una filiale diRoma. Il Sinodo non può prescrivere neldettaglio ciò che dobbiamo fare in Ger-mania”. A dirlo è il cardinale ReinhardMarx, arcivescovo di Monaco, a chiusuradei lavori della conferenza episcopale dalui guidata. “Non possiamo aspettare fi-no a quando un Sinodo ci dirà come dob-biamo comportarci qui sul matrimonio ela pastorale familiare”, ha aggiunto. Ilporporato ha anche annunciato che nel-le prossime settimane sarà pubblicato undocumento che farà chiarezza sulla posi-

zione dell’episcopato tedesco riguardociò che si discuterà a ottobre nell’Aulanuova, in Vaticano. “C’è una certa aspet-tativa in Germania” e l’idea è quella ditrovare “nuovi approcci” capaci di “aiuta-re e garantire che le porte sono aperte”.Lo scorso gennaio, in un’intervista appar-sa su America, la rivista dei gesuiti pub-blicata negli Stati Uniti, Marx aveva os-servato che “c’è tanto lavoro da fare incampo teologico. Nello spirito della Evan-gelii Gaudium, dobbiamo vedere comel’eucaristia è la medicina per le persone”.

La sfida del cardinale Marx al Sinodo

Per gli antichi roma-ni era la Pannonia,una difficile regione diconfine. Le legioni do-vevano essere stanzia-

li perché le grandi pianure rendevanodifficile la difesa dell’Impero. Inevita-bile, quindi, la piantagione e la colti-vazione della vitis vinifera per allieta-re le lunghe giornate di presidio dellefrontiere. Da tempo il vino fa partedella cultura ungherese. Vini dolci ebianchi, soprattutto, come il Tokaji, fa-voriti nella coltivazione e nella matu-razione da alcuni microclimi partico-lari per l’umidità offerta dal grande la-go Balaton e la protezione garantitadai monti Carpazi. L’Ungheria è ancheuna terra di fini intellettuali, di grandimatematici e di politici dal forte carat-tere. Come Victor Orbán, oggi Premierma già un cavallo di razza nella politi-ca giovanile universitaria quando aBudapest governavano ancora i comu-nisti. Ad Orbán i teatrini perditempodella democrazia non piacciono e haindicato nelle democrazie oligarchi-che il suo modello di riferimento. Al-leato fedele di Vladimir Putin ha ap-pena subìto la prima vera sconfittaelettorale: persa l’elezione suppletivadi Veszprém e la maggioranza dei dueterzi dei voti in Parlamento per poterapprovare da solo le riforme costitu-zionali. Sicuramente Orban si conso-lerà con una bottiglia di Tokaji Essen-cia 2003 della Royal Tokaji Wine Com-pany, uno dei vini iconici del terroirmagiaro. Una cassa di sei mezze botti-glie può raggiungere la quotazione re-cord di 3.982 euro, mentre è normalepagare una singola bottiglia sui trecen-to euro. Il punteggio di 98/100 assegna-to dal Wine Advocate a questa etichet-ta costituisce la giusta conferma cogni-tiva ricercata dal consumatore primadi metter mano al suo portafoglio.

Il Tokaji di Orbán

WINEY - DI EDOARDO NARDUZZI

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EEDDIITTOORRIIAALLIIRoma. E’ il giorno in cui il cda Rai, come

da nota dello stesso, “prende atto, alla lucedel quadro normativo vigente”, dell’Opas diEi Towers su Rai Way. Ed è il giorno in cui ilpresidente del Consiglio Matteo Renzi ricor-da che quella è un’operazione “di mercato” enon un’operazione “politica”, e che il gover-no resta ancorato al decreto del settembre2014, quello con cui si esprimeva la volontà dimantenere il controllo del 51 per cento di RaiWay. Eppure gli operatori si domandano se lostare sul mercato sia compatibile con queltetto del 51 per cento (non presente in altripaesi europei), e se davvero l’operazione sia“di mercato”, visto il gran parlare politico at-torno alla resurrezione del patto del Nazare-no e all’aleggiare dello spettro del Caimanocome negli anni di furiosa contrapposizionetra blocchi (proB. contro noB.). Interpellato

in proposito, il sottosegretario alle Teleco-municazioni Antonello Giacomelli dice alFoglio che, “proprio alla luce del quadro nor-mativo, l’operazione è impraticabile” e che“la valutazione sull’opportunità o meno di unpaletto al 51 per cento gli osservatori avreb-bero dovuto farla nel momento in cui abbia-mo determinato le condizioni della quota-zione in Borsa, quando abbiamo dovuto an-che rispondere a osservazioni critiche cheparlavano di ‘svendita’”. In quell’occasione ilgoverno, dice Giacomelli, “aveva previsto chela quotazione di Rai Way sarebbe stata unsuccesso, ma aveva detto chiaramente che ilcontrollo pubblico sarebbe rimasto il para-metro. L’idea era dinamizzare Rai Way perfarne una protagonista. E la quotazione è an-data benissimo. Trovo sorprendente che sivoglia leggere l’operazione in chiave di mor-

te o resurrezione del Nazareno”. Eppure glioppositori (anche interni) a questo la ricon-ducono. “Vorrei rilevare a chi nel Pd ha que-sti sospetti”, dice Giacomelli, “che prima del-la quotazione Rai Way era relegata in un an-golo, non disturbava nessun competitor pri-vato. Con questo governo, invece, è diventa-ta protagonista. Forse allora bisognerebbeprendersela con chi, prima, l’ha tenuta fuoridal mercato”. Di Rai si parla, in questi gior-ni (e ieri in cda) anche a livello di riassettoeditoriale e di governance, visti pure i primipassi compiuti dal dg Luigi Gubitosi. Che co-sa succederà dopo? Giacomelli, pur apprez-zando “il lavoro fatto dal vertice Rai in ter-mini di bilancio, innovazione tecnologica egestione”, trova che, ferma restando l’“ur-genza di un piano editoriale più coraggioso”,l’azione di Gubitosi sia “un testimone da pas-

sare a chi verrà dopo”. Intanto il governopensa a una discussione in Parlamento, nel-le prossime settimane e mesi, su tre livelli:“Canone, governance e soprattutto rinnovodella convenzione, per ridefinire che cosa siaoggi il servizio pubblico e quale sia la mis-sion della Rai”. Resta il paradosso di un Ren-zi (quello del “fuori i partiti dalla Rai”) chesi ritrova in casa un muro di resistenza anchepartitica in nome della difesa dall’ex nemi-co Caimano. “Una tensione tra spinta al cam-biamento e conservazione attraversa tutti ipartiti, compreso il nostro”, dice Giacomelli,“ma l’idea del governo non è quella di ren-dere il servizio pubblico una sorta di ‘estra-neo’. L’idea è quella di spezzare la quotidia-nità del rapporto tra partiti e Rai, che fa ma-le a entrambi”.

Twitter @mariannarizzini

La politica degli annunci non è una cosabuona, ma se c’è un contesto nel quale

occorrerebbe rigorosamente astenersene èquello dell’istruzione. La scuola è stata tra-

fitta per decenni da politiche di annunci chesi sono tradotte in nocive sperimentazioni osono finite nel nulla, come il progetto diriforma dei cicli di Luigi Berlinguer. Il casopiù clamoroso è quello di un’intera riforma– la Moratti – che, in assenza di decreti at-tuativi, è rimasta sulla carta. Molti di questi“annunci” erano espressioni delle teorie dipedagogisti di stato organici alla classe po-litica al governo. Ora, a giudicare da quelche è venuto fuori dalla presentazione pro-mossa dal premier Renzi siamo passati al-l’annuncio di un collage di pezzi mal conge-gnati tra loro e provenienti da strani pensa-toi. Sta di fatto che la scuola, a forza di an-nunci, di riforme mai fatte e di sperimenta-zioni avventate è diventata un terreno mel-moso su cui anche il governo più determi-nato rischia di lasciare le penne, soprattut-to se si avventura a indicarlo come decisivoper il futuro del paese. Certo, bisognerà at-tendere il testo dei decreti o disegni di leg-ge per un giudizio definitivo, ma gli annun-ci non indicano un pensiero progettualechiaro. Proviamo a elencare una decina dipunti che destano più perplessità.

Edilizia. E’ il tema su cui Renzi si è spesofin dalla sua nomina, un anno fa e su cui,puntualmente, non è successo nulla. Non so-lo perché non è chiaro da dove verrà fuoriil miliardo necessario, ma perché non si èaffrontata di petto la questione delle moda-lità degli appalti, delle procedure, ecc. Trop-pi sono i casi di scuole che hanno iniziatoristrutturazioni finite nel nulla – come itronconi di autostrada finiti per aria – pernon considerare questa questione comeprioritaria. Quando si sente di discussionibizantine circa le modalità di gestione del-le ristrutturazioni, se da affidare ai singoliistituti o a gruppi territoriali di istituti di cuiuno avrebbe la funzione direttiva, viene datremare.

Concorsi e precari. Questa è la madre ditutti gli annunci: non si accederà al ruolo diinsegnante se non per concorso. Peccato chequesto accadrà dopo una colossale inforna-ta ope legis di precari, non è chiaro se del-l’ordine di 120.000 o più. Un paradosso de-gno delle filosofie antiche. Oltretutto, questaassunzione ope legis sarà un gigantesco tap-po che renderà virtuale il bando di nuoviconcorsi: un infimo rivoletto contrabbanda-to per rivoluzione epocale. Di fatto, per mol-ti anni, non vi sarà spazio per l’ingresso dinuovi insegnanti, altro che “largo ai giova-ni”. Certo, qualcosa si doveva fare, a frontedi graduatorie immense di aventi diritto, mauna via era stata indicata a fine 2008 conl’introduzione del Tfa (Tirocinio formativoattivo), il ritorno ai concorsi, e la prospetti-va di ripartire a metà l’assunzione dei nuo-vi docenti tra giovani e iscritti alle gradua-torie. Il Tfa è stato strangolato e, dopo setteanni si ripropone il problema di assumere iprecari d’un colpo solo. Non è colpa di que-sto governo, d’accordo, ma non si venga a ga-bellare questa scelta come il trionfo dellameritocrazia solo perché in un lontano fu-turo si tornerà a qualche sparuto concorso.

Assunzione degli insegnanti per merito. Ilmerito è il tema cruciale. Nulla si può obiet-tare contro il principio che un insegnantedeve essere scelto per il suo merito. In lineadi principio, neppure si può obiettare con-tro l’idea di attribuirne il potere al dirigen-te scolastico. A una serie di condizioni, chesono anni luce lontane dai propositi circo-lanti. La prima condizione è che il dirigen-te scolastico sia un solido competente, il pri-

mo degli insegnanti della scuola per cultu-ra e autorevolezza: un vero e proprio presi-de e non un manager stile “dirigente Asl”.Insomma, un personaggio ben diverso daquello disegnato dall’ultimo scandaloso con-

corso per dirigenti scolastici: un mix di ca-pacità da quiz televisivo e di competenzetecno-didattiche-pedagogiche stabilite neipensatoi ministeriali con stile da regime so-vietico. In secondo luogo, vi è qualcosa cheoccorre dire senza insopportabili ipocrisie:il nostro sistema, come in gran parte d’Eu-ropa, non è privatistico, ma è un sistemapubblico a prevalenza statale. Blaterare di“autonomia” come se le scuole fossero entiprivati che si autofinanziano è una inde-cente presa in giro. Uno stato che paga unistituto non può non controllarne in qualchemodo la gestione: vi saranno certamente isti-tuti in cui il preside agirà secondo criteri

ineccepibili, altri in cui – pur essendo di in-discussa probità personale – si troverà sot-toposto a pressioni insostenibili. Vogliamooffrire un altro terreno di affari alla crimi-nalità organizzata? Il minimo che andrebbeprevisto – senza tornare a centralismi mini-steriali – è una commissione di assunzionecomposta dal preside e da altri due prove-nienti da altre città. E’ costoso? Le nozzenon si fanno con i fichi secchi.

Carriera degli insegnanti per merito. An-che qui nascono obiezioni analoghe a quel-le sollevate al punto precedente, con due ag-gravanti. Su che basi saranno valutati gli in-segnanti per la progressione della carriera?Sulla base delle loro competenze nelle di-scipline d’insegnamento e della qualità del-la loro didattica, o sulla capacità di orga-nizzare attività collaterali o di sostegno, co-me è stato adombrato? Nel secondo caso,sarà premiato chi organizza ricerche sullasostenibilità ambientale o sulla teoria delgender e penalizzato il poveretto che ha“perso” tempo a seguire un corso universi-tario su argomenti di matematica o di lette-ratura. E chi valuterà? Il profilarsi delle fi-gure dei docenti “tutor” e “mentor” fa rab-brividire, in un paese in cui ogni incarico di-venta subito un privilegio castale. E’ facileprevedere il formarsi di camarillas formatedal dirigente scolastico e dai suoi mentorche mettono all’angolo chi non si adegui al-le loro direttive didattiche pur se discutibi-li. Ci si dovrebbe mettere in mente che la va-lutazione dei docenti non può prescindereda un giudizio “peer to peer” (tra pari) de-rivante da commissioni composte oltre che

dal preside, da docenti di altre scuole ecittà, in modo da favorire, nel confronto, l’u-nico obiettivo che dà senso alla valutazione:la crescita culturale. E’ costoso? Valga quan-to detto al punto precedente. Dicevamo di

sperimentazioni nefaste, annunci di leggiabortite e ora di un collage di annunci fu-mosi. In verità, in mezzo a questa nebbia, l’u-nico nucleo che emerge come una conqui-sta politicamente condivisa a destra e sini-stra, l’unico solido trionfo (purtroppo) dellepolitiche berlusconiane è la scuola delle tre“i”, che ormai tutti accettano. Vediamo co-me si configura la scuola delle tre “i” nellapolitica renziana degli annunci.

Internet. Neanche il più incallito dei con-servatori può negare la necessità di infor-matizzare la scuola. Ma c’è modo e modo. Pa-re che ora si prenda atto del fallimento del-

l’introduzione delle Lim (Lavagne interatti-ve multimediali) e si proponga in cambiol’autonomia completa. Ogni istituto si digi-talizza come gli pare. Così avremo l’istitutodove si usa solo carta e penna, quello dovesi preferiscono i computer, quello dove siopta per una miscela di libri e tablet, e quel-lo dove si adotta il tablet puro. Bisognereb-be poi vedere che tipo di tablet, perché seogni studente fosse libero di scegliersi il suomodello, si perderebbe metà dell’anno a sta-bilire un linguaggio comune, per non diredel dramma di chi passi da un istituto a unaltro… Immaginiamo anche quale prolife-razione demenziale di “libri” e supporti di-dattici seguirebbe da una simile liberaliz-zazione. Non siamo fautori del modello ci-nese, in cui esiste un solo manuale di mate-matica per le primarie in tutto il paese, maesistono vie di mezzo ragionevoli.

Coding. V’è un’altra dimensione del-l’informatica che si parla di introdurre nel-le scuole: lo studio dell’“informatica” comemateria, attraverso l’addestramento ai pro-cedimenti logici che presiedono alla forma-zione dei programmi (“coding”). A parte chequesta, se fatta seriamente, è roba di livel-lo universitario, si potrebbe accettare che iprincìpi di base della programmazione ven-gano spiegati ai ragazzi, a condizione di nonpretendere che ne diventino soggetti attivi.Di fatto, sembra che si tratti di un ristrettomodulo di insegnamento di logica che, in as-senza di risorse, dovrebbe essere svolto dal-l’insegnante di filosofia. Così il minimalismosi associa allo scempio culturale, simile al-l’introduzione della materia “geostoria” nel-

la riforma Gelmini. E qui è ancor peggio,perché si finisce col contrabbandare l’ideache la filosofia sia nient’altro che filosofiaanalitica – una visione che oltre a essere ob-soleta è comunque talmente discutibile danon poter essere introdotta di straforo pervia burocratica.

Inglese. La situazione è analoga a quelladell’informatica e del coding. Un conto èpromuovere l’insegnamento dell’inglese atutti i livelli, a condizione di farlo seriamen-te con insegnanti adeguati. Ma qui si vuol fa-re molto di più, e cioè – seguendo sconside-rate scelte che hanno adottato paesi a scar-so spessore culturale e che mai adottereb-bero paesi con una più consistente tradizio-ne letteraria e culturale – insegnare interematerie in inglese. E’ il cosiddetto Clil (Con-tent and language integrated learning). Qual-siasi cosa se ne pensi, anche una cosa del ge-nere non si realizza con i fichi secchi. Quan-do si apprende che l’insegnamento Clil diuna materia dell’ultimo biennio delle scuolesuperiori è per ora sospeso per carenza di in-segnanti preparati, mentre il governo pro-spetta di introdurre una materia in ingleseper il 3° e 4° anno delle scuole elementari,non si sa se ridere o piangere. Dove trovarei maestri destinati a insegnare matematica ostoria a bambini di 8-9 anni che non sannoancora parlare in italiano, mentre, d’altro la-to, si straparla di dare una coscienza nazio-nale agli immigrati attraverso l’insegnamen-to dell’italiano a scuola? Sembra di vivere inun film di Alberto Sordi.

Impresa. Ci inchiniamo al valore dell’im-presa, ma non siamo propensi ad accettarele teorie secondo cui la scuola si salva con-siderandola un’impresa, perché la cono-scenza non è un prodotto, gli insegnanti nonsono produttori e alunni e famiglie non sonoutenti. Non insistiamo su questo punto toc-cato molte volte perché tanto non c’è peg-gior sordo di chi non vuol sentire. Ciò non to-glie che l’idea di creare una connessione trascuola e lavoro, attraverso un’alternanza tradidattica ed esperienze in azienda, è buona.Ma anche qui occorre essere chiari e dichiarezza non se ne vede punto, perché nonsono precisate le modalità e i contesti in cuidovrebbero realizzarsi queste esperienze, ela loro differenziazione secondo i vari tipid’istruzione. Oppure si vuole soltanto farpassare la sciagurata idea secondo cui il ra-gazzo deve decidere cosa fare entro i 14 an-ni e usare la scuola come piattaforma dicreazione di addetti per le imprese, a costozero, secondo un tipico stile italico?

Nuove materie. La sensazione che si vogliasgretolare l’assetto disciplinare, colpendo lematerie fondamentali, come matematica,storia, letteratura, scienze, si fa forte quan-do si prospetta un affollamento di altre ma-terie, come storia dell’arte, economia, mate-rie giuridiche – e fin qui passi, a condizioneche si dica chi “paga” nell’invariato monteore – e altre da cui sarebbe meglio tenersialla larga, come educazione alla cittadinan-za ed ecologia: l’educazione civica nascedalla coscienza storica e non dalle predichepoliticamente corrette. Più in generale, inquesto confuso panorama, non si spendeuna parola per l’educazione al pensiero cri-tico. Qualche buontempone continua a volerfar credere che questa educazione si ridu-ce alla capacità di risolvere problemi, il“problem solving”. Peccato che, anche nel-la matematica, la scienza che dà più certez-ze, esistono molti problemi che non si pos-sono risolvere ed è proprio riflettendo at-torno a questi problemi che si acquisisce unpensiero critico e competenze scientifiche(oltre a cogliere il profondo legame tra lacultura scientifica e umanistica). Ma di que-ste “chiacchiere” sembra che non importi anessuno.

Altro che Europa. La bocciatura che rischia Renzi è sulla scuola

La verità sulla partita Rai Way. Gubitosi timido. Parla Giacomelli

ISTRUZIONE. DIECI COSE NON RETORICHE CHE IL GOVERNO DEVE FARE PER NON PERDERE LA FACCIA SULLA RIFORMA DELLE RIFORME

ANNO XX NUMERO 49 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015

DI GIORGIO ISRAEL

Edilizia? Non è chiaro da dove verrà fuori il miliardo necessario. E nonsi è affrontata la questione delle modalità degli appalti. Il dirigente scolasticosia un solido competent e non un burocrate. Dare una coscienza nazionaleagli immigrati attraverso l’insegnamento dell’italiano. Che c’è di vero?

Edi Bellin è “il” parrucchiere di SanVito al Tagliamento, paesino friulano

dove le case, viste dall’alto, “appaiono co-me una fila ininterrotta di villette, taglia-te a metà da una lingua grigiastra”. Gli af-fari vanno molto bene, le clienti sono tan-te e molte di loro amano trattenersi trapettegolezzi e confessioni di ogni genere(i parrucchieri esistono anche per questo,come è noto). Gennifer, la nuova assisten-te di Edi, punk in canottiera elasticizzataa righe, minigonna e anfibi, sovrintendeai look del momento, dispensando consi-gli di vita tra filosofia e saggezza popola-re. Tutto procede a meraviglia, ma Edi sisente insoddisfatto: c’è qualcosa in luiche non va e non può certo comprender-ne e alleviarne il malessere sua moglieLoretta. Donna affascinante di cui Edi èmolto innamorato, è un’infermiera conuna passione patologica per i manuali diself help, e pensa solo a cercare di avereun bambino, senza risultati. La vita va co-munque avanti, e tra un taglio di capellie l’altro, tra tinte e colpi di sole, è tutto

un veloce susseguirsi di eventi: c’è il riti-ro volontario di Loretta in un monasterolaico per sole donne, c’è una gara inter-nazionale di hairstyling alla quale non sipuò non partecipare, c’è l’arrivo di Mirco,che ha scritto un bestseller sull’autoaiu-to e, addirittura, c’è la scoperta di un or-taggio locale, il peperone di Castelacquo-ne, presentato come “un tonico dell’umo-re”, un efficace antidepressivo dagli ef-fetti depurativi, disintossicanti, antiossi-danti e rinvigorenti. Quei peperoni po-trebbero rappresentare la soluzione che

in molti, a San Vito al Tagliamento e nonsolo, stanno cercando, perché in ogni ca-so, “manipolati o no, hanno un sapored’altri tempi”. Del resto, si sa, dalla natu-ra ci si può aspettare di tutto, “è una co-sa misteriosa ma, per quanto la riguarda,va benissimo così”. E’ un felice esordionella narrativa, questo di Erica Barbiani,che è socia fondatrice di Videomante,produttrice di documentari di grande in-teresse e originalità, tra cui “The SpecialNeed” di Carlo Zoratti, dedicato all’auti-smo, e il recente “The Good Life” di Nic-colò Ammaniti (girato in India, è la storiadi un’emigrazione mossa da sogni di libe-razione e amore e non dalla fame). Sindalle prime pagine, l’autrice ci fa sentireben comodi sulle colorate poltrone del sa-lone “Sette Stelle”. Le mille storie delleclienti di Edi Bellin ci catturano con dol-cezza, in un piacevole caos di rumori, co-lori, profumi, odori, tradizioni, credenze etante oziose e meravigliose chiacchiere.Così che, a taglio e piega completati, nem-meno noi vorremmo più andar via.

LLIIBBRRIIErica Barbiani

SALONE PER SIGNORA Elliot, 284 pp., 17,50 euro

Fa caldo all’Ipcc

Sia l’indice di fiducia dei consumatorisia quello delle imprese dell’Istat, a

febbraio, hanno fatto un importante bal-zo in avanti rispetto a gennaio. Quello deiconsumatori è salito del 5 per cento. Au-mento importante, ma lo è ancora di piùil fatto che si tratta di 11 punti in più ri-spetto alla base 100 (che indica neutra-lità fra fiducia e sfiducia). Anche per leimprese, a febbraio, si vede un impor-tante aumento della fiducia. Si misuraperò in 3,1 punti percentuali e non 5. E,soprattutto, il balzo in avanti è da 91,6 a94,9, ovvero sempre sotto la soglia discri-minante di “cento”. Dunque per le im-prese si è ridotta la sfiducia, mentre peri consumatori è aumentata la fiducia. Ladomanda interna tuttavia resta debole einfatti le attese delle imprese commer-ciali rimangono ancora in territorio ne-gativo; stenta a crescere quella delle so-

cietà manifatturiere. Per capitalizzare loslancio dei consumatori e trasformarloda astratto in concreto, occorre abbatte-re la pressione fiscale e dare più spazioalla contrattazione aziendale che dev’es-sere prevalente per dare un segno di im-portante di cambiamento agli investitoristranieri. Lo dimostra la Spagna nellaquale, con i due stimoli della riduzionedella pressione fiscale e della riformadel mercato del lavoro – basata sulla pre-valenza dei contratti aziendali su quellinazionali e sul licenziamento collettivocon indennizzo senza bisogno di autoriz-zazione dell’autorità pubblica – s’è diffu-sa un’atmosfera febbrile di nuova cre-scita, sospinta dall’industria. In questafase, tra il subbuglio Rai-Mediaset (gra-dito al mercato) e la riaccensione delleprivatizzazioni governative, siamo osser-vati speciali (positivamente) dall’esterno.

Minimizzare la portata del disegno dilegge appena approvato sulla re-

sponsabilità civile dei magistrati sareb-be errato. Non foss’altro perché siamopur sempre di fronte al legittimo tenta-tivo di un governo di rispondere, con 27anni di ritardo, a un’esigenza che i cit-tadini italiani allora dimostrarono diavere ben chiara in sede referendaria.Tuttavia non sarebbe nemmeno utileconcedere spazio alle sole critiche di-struttive del nuovo regime di responsa-bilità dei giudici, come quelle che arri-vano da Anm e corifei vari. Piuttosto me-rita una riflessione l’intervista concessaieri al Messaggero dal procuratore ag-giunto di Venezia, Carlo Nordio. Que-st’ultimo mette in guardia dalla “possi-bilità” che in una prima fase ci siano“valanghe di ricorsi” da parte dei citta-dini interessati per presunto “travisa-

mento del fatto” operato dal giudice.Considerato che “lo stesso fatto può es-sere valutato in diversi modi in tutti igradi di giudizio”, un monitoraggio (au-spicabilmente terzo) è da prevedere.Nordio però aggiunge pure: “E’ sacro-santo che lo stato risarcisca davanti auna decisione ingiusta, anche andandoal di là del testo approvato e ricono-scendo il pagamento delle spese legali achi ha subìto un processo dal quale è ri-sultato innocente”. Non solo. Se i magi-strati facilmente si assicurano controsanzioni pecuniarie, il procuratore au-spica che “un magistrato che manda ingalera una persona contra legem non de-ve pagare, deve essere buttato fuori dal-la magistratura”. Tutto ciò che infattiperpetua l’autotutela dell’ordine giudi-ziario rischia di svuotare il tentativo diresponsabilizzare i singoli giudici.

Dopo 13 anni di presidenza del paneldi esperti pagati dall’Onu per dimo-

strare l’influenza dell’uomo sul clima,l’Ipcc, l’indiano Rajendra Pachauri si èdovuto dimettere per una storia di mes-saggini espliciti e indesiderati spediti viaemail e via sms a una ricercatrice venti-novenne (Pachauri ne ha 74) da poco as-sunta da un think tank da lui diretto aNuova Delhi. Pachauri è, assieme all’exvicepresidente americano Al Gore, ilgrande manovratore della campagna me-diatica e (poco) scientifica che nell’ultimodecennio ha convinto politici e opinionepubblica che il mondo sia in pericolo percolpa del riscaldamento globale causatodalle attività umane. Colpito in questi an-ni da innumerevoli scandali – dalle emaildei climatologi che “aggiustavano” letemperature all’errata previsione sulloscioglimento dei ghiacciai himalayani ba-

sata su “studi” compiuti da gruppi am-bientalisti militanti – Pachauri è semprerimasto incollato alla sua sedia. Lunedìperò ha dovuto rassegnare le dimissioni,e lo ha fatto con una lettera che contieneuna frase, quella conclusiva, molto indi-cativa. Dopo avere rigettato le accuse dimolestie dando la colpa agli hacker, Pa-chauri traccia un breve bilancio dellasua esperienza alla guida dell’Ipcc. Econclude: “Per me la protezione del Pia-neta Terra, la sopravvivenza di tutte lespecie e la sostenibilità del nostro ecosi-stema è più di una missione. E’ la mia re-ligione e il mio dharma”. Come spesso ab-biamo scritto su queste pagine, la scien-za non c’entra niente. Chi manovra i filidel consenso sul clima lo fa seguendodogmi e credenze morali. Non stupiamo-ci se poi tende a zittire chi non la pensacome lui e a prescindere dai dati.

Irresponsabilità civile

Consumi delle nostre brame

Come i magistrati proveranno a svuotare la riforma. Ascoltare Nordio

Per capitalizzare la fiducia occorre aprirsi al mercato, come Madrid

Scandali sessuali e “religione”. Sul clima la scienza non c’entra nulla

Le balle su Terri Schiavo, dieci anni dopo

Nella scansione mediatica totale chespetta a ogni candidato alla presi-

denza americana, la colpa più grave im-putata a Jeb Bush dai segugi che scavanonel passato non è il cognome che porta,ma il caso Terri Schiavo. Dieci anni fa,quando Bush era governatore della Flo-rida, la donna è stata lasciata morire disete dopo una battaglia legale che ha vi-sto la famiglia originaria di lei opporsial marito. Il governatore ha fatto quantola legge indicava per difendere la vita diTerri Schiavo, e quando la Corte supre-ma della Florida ha dichiarato incosti-tuzionale la legge su cui poggiava la po-sizione di Bush, il governatore si è atte-nuto alle indicazioni. Per la sua condot-ta di dieci anni fa i media lo presentanoora come un pericoloso sobillatore del-la laicità dello stato, un integralista pro-motore della teocrazia. Bobby Schindler,

il fratello di Terri Schiavo, ha scritto uneditoriale sul Wall Street Journal perspiegare quello che molti non voglionocapire: Bush non ha fatto altro che ap-plicare la legge. E quando testimoni cheavrebbero potuto cambiare la dinamicadel processo non sono stati ammessi daltribunale, il governatore si è avvalso delsuo diritto di fare chiarezza sui fatti. Co-me si fa spesso – lo stesso Bush lo ha fat-to – per i detenuti condannati alla penacapitale. “I fatti nel caso di Terri – scri-ve Schindler – sono stati presentati rara-mente in modo chiaro e non ideologico,una tendenza che è cresciuta nel tempo.Dieci anni più tardi i media battono lastessa pista, presentando il falso para-digma del marito amorevole contro i teo-crati invadenti”. Era difficile, del resto,immaginare un ripensamento per chi èimpegnato in una battaglia ideologica.

L’uso ideologico della morte per screditare il candidato Jeb Bush

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Al direttore - Non tenendo conto delle condi-zioni poste nel parere delle commissioni parla-mentari sul Jobs Act Poletti 2.0 il governo ha agi-to correttamente per almeno tre motivi. Il primodi carattere formale: i pareri non erano vincolan-ti. Il secondo per ragioni politiche: i testi eranostati votati da maggioranze diverse da quelle chesostengono l’esecutivo. Il terzo, per evidenti que-stioni di logica giuridica. Non trovava alcunagiustificazione, infatti, che dei licenziamenti “eco-nomici” – ormai divenuti individuali a conclu-sione delle procedure sindacali e amministrati-ve previste nel caso di licenziamenti collettivi –venissero sanzionati (in conseguenza di un’ac-certata violazione dei criteri di selezione) addirit-tura con la reintegra anziché con un’indennitàrisarcitoria, diversamente da quelli che indivi-duali lo fossero fin dall’inizio. In sostanza, un la-voratore licenziato individualmente per motivieconomici non avrebbe avuto alcuna possibilitàdi essere reintegrato (per i nuovi assunti è spari-ta anche la “manifesta insussistenza del fatto” dicui alla legge Fornero), mentre l’avrebbe mante-nuta un collega la cui vicenda ha attraversato,

in una sede “protetta”, una fase di tutela preli-minare e il cui sbocco finisce al riparo degli am-mortizzatori sociali. In materia, poi, non era pre-sente alcun eccesso di delega, dal momento chela norma si riferiva chiaramente a tutte le tipo-logie di licenziamenti “economici”.

Giuliano Cazzola

Il ragionamento fila. E va bene elogiare lariforma del lavoro. E’ una riforma che voleva-no tutti. Con le caratteristiche che chiedeva-no tutti. Con la flessibilità che chiedevanotutti. Con molti punti fermi che chiedevanoanche i nemici della sinistra. Tutto vero e tut-to giusto. E sono certo che nel 2015 lo sgravioper le assunzioni farà registrare un numerodi nuovi lavoratori superiore a quello previ-sto oggi. Ma Renzi deve ricordare che percreare lavoro non è sufficiente la riforma dellavoro. La riforma è una cornice. Se non siagisce sull’Irap, sulla pressione fiscale, sullaburocrazia, sulla pubblica amministrazione,la cornice potrà anche accecare come l’oroma alla lunga sarà come avere a casa un bel

quadro senza dipinto. Ne vale la pena?

Al direttore - Ho visto Salvini dire durante iltour per le regionali che il suo partito ha una vi-sione di Italia e di Europa completamente diver-sa da quella di Forza Italia. Direttore, sono con-fuso. Ma se Forza Italia si allontana dal Pd perpoi andare verso la Lega e poi anche la Legaprende a pesci in faccia Forza Italia che fine faràil partito di Berlusconi? Stritolato tra i due Mat-teo?

Luca Taidei

Un po’ c’è la Lega che sabato sarà a Romacontro Renzi e quando la Lega deve mostra-re agli elettori la sua identità generalmente

prende a ceffoni chi gli sta vicino. Un po’ c’en-trano le regionali. Un po’ c’entra la tattica. Mala partita di Salvini ha un senso. E’ quella diForza Italia che invece un senso non ce l’ha.L’identità della Lega, per quanto molto gon-fiata dalla bolla mediatica in cui si trova og-gi, è ben definita. Quella di Forza Italia no.In questa fase ci sono equilibrismi complica-ti legati alle regionali, alle riforme e a tuttoil resto ma a forza di fare gli equilibristi, al-la fine ci si possono rompere le gambe. E cor-rere con le stampelle, per un partito che de-ve trovare uno slancio, come si dice, rischia dinon essere un’idea geniale. Stare un po’ diqua e un po’ di là può avere una logica. Maalla lunga vedrete che anche Forza Italia ca-pirà che farsi prendere a schiaffi da Salvinipuò avere un senso solo nell’attesa di ricon-trattare un patto con Renzi. E quel patto pri-ma o poi ci sarà.

Al direttore - Il “felpato” Landini a seguito delclamoroso e per qualsiasi leader o, a questo pun-to, presunto tale dotato di un minimo di dignità,

umiliante insuccesso ottenuto dagli scioperi in-detti in Fca e senza tener conto dell’impietoso esi-to del confronto con Marchionne cosa fa? Inve-ce di dimettersi decorosamente come farebbequalunque dirigente di impresa privata dopoaver lanciato un’iniziativa fallimentare, comin-cia a scimmiottare maldestramente, salvo nelleretromarce, tale Tsipras certo di rinverdire nellapolitica, nella quale lascia ormai intendere di vo-lersi riciclare, quell’impunità che gli ha fatto at-traversare indenne anni di sindacato durante iquali tutto ha fatto tranne l’interesse dei lavora-tori. Molto bene, avanti, c’è posto!

Giorgio Carchedi

Dimettersi, addirittura. Di buono in questastoria c’è questo. C’è che si è rotta la cinghiadi trasmissione tra Pd e sindacato. C’è che ilmondo di Landini nemmeno per un secondosi è pensato che possa essere una parte delPd. Sta fuori. Fuori dal recinto. Fuori daun certo modo di pensare l’Italia. E perchi vota Pd mi sembra davvero un’ottimanotizia.

ANNO XX NUMERO 49 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015

Il Jobs Act è una cornice, e ora serve il quadro. Lega e Forza Italia: fino a quando?

Skiate a Gstaad. Tanti auguri a S.A.R.il principe Vittorio Emanuele diSavoia. Lui sa perché.

Alta Società

(segue dalla prima pagina)Vodafone è alla finestra. Gli investimen-

ti, materia indispensabile per cogliere laripresa, rischiano di segnare il passo, no-nostante i 10 miliardi promessi da Tele-com. Urge che Renzi dissotterri al più pre-sto l’ascia di Guerra. Andrea, beninteso.

Acciaio e Ilva, molto stato poca siderur-gia. A dicembre il governo Renzi ha intac-cato la più grave crisi industriale dal Do-poguerra l’inedito approccio della nazio-nalizzazione per decreto dello stabilimen-to siderurgico Ilva di Taranto, la primamanifattura per numero di addetti. Altaambizione rilanciarlo e poi rivenderlo conprofitto per lo stato a dei privati, soccorsoin stile americano, modello Obama a De-troit. Il “pacchetto Ilva” includeva com-pensazioni ai cittadini affumicati per de-cenni. A tre mesi da allora, le ambizioni dilungo termine si confrontano con la gravesofferenza produttiva della fabbrica in uncerto senso aggravata dal decreto stessoche, prima di stanziare risorse cash, haaperto la procedura di amministrazionestraordinaria determinando l’insolvenzadel gruppo Ilva. Il tempo è cinico. I mine-rali ferrosi sono contingentati, i fornitorisono in agitazione da settimane – solo og-gi gli autotrasportatori tornano a marcia-re –, fotocopia in Liguria dove si lavoranoi laminati piani fatti a Taranto, produzio-ne ai minimi storici (i due altiforni prin-cipali, decotti, sono da manutenere e an-dranno in fermata), fedeli clienti, comeArvedi, non s’affidano più a Ilva. Il debi-to (3 miliardi di euro, per metà in mano al-le banche creditrici) è destinato ad au-mentare, non s’è parlato di ristrutturazio-ne. Nella peggiore delle ipotesi lo statodovrà intervenire con massicce dosi diammortizzatori sociali per decine di mi-gliaia di addetti diretti e dell’indotto. IlParlamento sta portando urgenti modifi-che al decreto, nel tentativo di rastrellarerisorse finanziarie e assicurarsi creditodalle banche (finché non diranno “stoploss”). Renzi e i commissari governativisembrano avere sottovalutato la comples-sità del sistema Ilva. Il premier ha istitui-to una task force che vanta manager comeAndrea Guerra, ex Luxottica, ma nessunsiderurgico doc. Nella newco, da cui do-vrebbe partire il rilancio, non sono previ-sti da subito partner industriali ma fondispecializzati in ristrutturazioni: rischianodi non bastare. Vale l’appunto di Pellegri-no Capaldo, banchiere e politico vicino alVaticano (che fu un motore della siderur-gia pubblica tarantina): è mancata un’ana-lisi specifica, bisogna chiarire se Ilva èdavvero risanabile.

Strategico è “incassare e consolidare”. Idifensori dell’interesse strategico nazio-nale purchessia avranno di che preoccu-parsi visto che l’entusiasmo per le priva-tizzazioni è tornato a Palazzo Chigi e din-torni, per citare il Financial Times che inagosto notava invece una certa flemma. Lostato offrirà sul mercato il 5 per cento diEnel che segna il ritorno di fiamma (e 2,2miliardi da mettere in cassa). Privatizza-zione tout court appena conclusa è invecela vendita delle Ansaldo Breda e Sts diFinmeccanica alla giapponese Hitachi. Lacessione era attesa da anni, se l’è intesta-ta il renzianissimo ad Mauro Moretti; tra imugugni per la perdita del gioiello del se-gnalamento Sts (contropartita per liberar-si dei treni Breda). Il passaggio al rispetta-to colosso nipponico, ben piazzato in Euro-pa – diversamente dai newcomer cinesiInsigma – favorirà l’interesse estero perfusioni acquisizioni in Italia, dice Reuters.Moretti, ripuliti i vari organi amministra-tivi da ex generali lottizzati, dovrà concen-trarsi sull’aeronautica e aerospazio rag-gruppando le varie Alenia e Agusta persettori eliminando le società satellite, ve-dremo tra un mese alla presentazione delbilancio. Consolidare starà a lui.

Ugo Bertone e Alberto Brambilla

Renzi unchained

Pericoloso toccare l’Ilva senzastrategia. Il ritorno di fiamma

privatizzatore. Largo alle fusioni

C’era una volta un Re. E cheRe. Aveva la Reggia a Napoli, quindia Caserta e a Carditello – in omaggioalla terra prodiga di felicità – avevaun casino di caccia che Goethe, nelsuo “Viaggio in Italia”, definì “comel’aiuola di un giardino”. Questa Reg-gia, razziata, stuprata e sfasciata – co-struita nella piena bellezza – ebbe ilcolpo di grazia nel 2008. Come raccon-ta Nadia Verdile in un suo libro “ilreal sito fu inglobato nell’area desti-nata alle discariche”. Nel gennaio del2014, l’allora ministro Massimo Bray,decise di acquisire la Reggia di Car-ditello per restituirla al suo fasto. Neha riferito Gian Antonio Stella ieri sulCorriere della Sera. Risultato: Verdilee Bray sono minacciati. “Smettetela dioccuparvi di Carditello”. Ecco, al suo-no della Carmagnola, l’inno dei San-fedisti, è proprio il caso di dire: “Co-minciamo a occuparci di Carditello”.

IL RIEMPITIVOdi Pietrangelo Buttafuoco

Vogliono fare le narcosale.Parlo di alcune città. Benissi-mo! Mi chiedo, che orari fan-no? No, perché io mi drogo dinotte, non vorrei che le stan-

ze del buco siano aperte dalle 9.30 al-le 14.

Se la narcosala è in una zona chedevo prendere due mezzi pubblici, miconviene?

Risposta: no, mi drogo dietro la pri-ma siepe che trovo.

INNAMORATO FISSOdi Maurizio Milani

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ANNO XX NUMERO 49 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015

La Libia sta diventando la pompa di ben-zina, il bancomat, l’aeroporto e il porto

dello Stato islamico”. Sono le parole di unalto rappresentante del governo libico consede a Tobruk, quello riconosciuto dalle Na-zioni Unite e da gran parte della comunitàinternazionale.

Una preoccupazione condivisa, nel corsodi un’audizione del 3 febbraio di fronte alCongresso americano, dal Generale VincentR. Stewart, il direttore della Defence Intel-ligence Agency, l’agenzia militare di intelli-

gence del Pentagono che ha alle proprie di-pendenze 16.500 persone. Anche i servizi se-greti della regione non nascondono la pro-pria preoccupazione: secondo fonti del Ma-rocco, il Sahel e il Sahara stanno diventan-do una naturale estensione dello Stato isla-mico (Is) che ritrova in Libia e in Mali lastessa situazione sociale, politica ed econo-mica che gli ha permesso di radicarsi in Si-ria e in Iraq. Abu Bakr al Baghdadi, leaderdell’Is e califfo dell’autoproclamato Statoislamico, non ha mai fatto mistero del fattoche considerasse la Libia come parte essen-ziale del proprio Califfato e Abu Arhim alLibim, uno dei più efficaci propagandistidell’Is, ha sottolineato come la Libia abbiaimmense potenzialità per il Califfato: unaposizione centrale nel Mediterraneo, mi-gliaia di chilometri di coste, frontiere cola-brodo con gli stati confinanti, petrolio, gas earmi, molte armi.

L’Is poi non perde occasione per far sape-re al mondo che considera le province diBarqa nell’est del paese, della Tripolitaniaall’ovest e del Fezzan, nel deserto del sud

come parte del proprio territorio.Come è potuto accadere? Di fronte al Par-

lamento inglese, Lord West of Spithead, cheè stato capo di stato maggiore della marinabritannica, non ha esitato a dichiarare chela comunità internazionale negli ultimi tem-pi sembrava essersi dimenticata della Libiaperché presa da altre priorità: la Siria, l’I-raq, l’Ucraina, l’Ebola. L’Is pare abbia ap-profittato di questa distrazione e abbia in-viato in Libia alcuni uomini di punta per re-clutare e formare combattenti. Lo scorso set-tembre, Abu Nabil al Anbari, persona di fi-ducia di al Baghdadi, è stato mandato a Der-na, città di 100.000 abitanti non lontana dalconfine egiziano. Derna, città oppressa daGheddafi i cui cittadini sono andati in mas-sa a combattere per al Qaida in Iraq e perl’Is in Siria, oggi assomiglia molto a Raqqa,la città che è il quartier generale dell’Is inSiria. Da Derna, città dove è imposta l’osser-vanza della sharia, pare siano partiti coloroche si sono fatti esplodere a Tobruk duran-te una sessione del Parlamento libico. Fon-ti dell’intelligence egiziana stimano che og-gi in Libia ci siano tra i 1.000 e i 3.000 com-battenti che hanno sposato la causa del Ca-liffato e che sono per di più particolarmen-te addestrati essendo ritornati da fronti diguerra quali la Siria e l’ Iraq.

Tutti gli analisti concordano sul fatto chel’Is concentrerà attenzioni e sforzi in Libia.E’ un paese al centro del nord Africa, vici-nissimo all’Europa, politicamente instabile,che vede la presenza di due governi e di dueparlamenti, attraversato da lotte tra miliziee nel quale sono assenti forze militari invia-te dalla comunità internazionale, se si esclu-de una limitata presenza delle Nazioni Uni-te che però non ha un mandato di peacekee-ping. Un paese ricchissimo dal punto di vi-sta energetico, con la possibilità di produr-re grandi quantità di petrolio e gas e conuna popolazione poco numerosa: meno disei milioni di persone. La Libia fa gola an-che per l’impressionante presenza di armi.L’MI6, i servizi segreti di Sua Maestà, stima

che in Libia ci siano un milione di tonnella-te di armi, più dell’intero arsenale britanni-co. Il solo Qatar durante la rivoluzione hamandato 20.000 tonnellate di armi tra cuimissili anti carro che non si sa bene dovesiano. Gli arsenali di Gheddafi contenevanotra 500.000 e 700.000 armi di cui l’80 per cen-to era costituito da fucili d’assalto. E sempreGheddafi si era procurato circa 20.000 man-pads (Man-portable air-defense sy-stems), missili antiaereo a cortoraggio trasportabili a spallae dunque particolar-mente pericolosi. GliStati Uniti avevanoavviato un pro-gramma di recu-pero di questiordigni attra-verso contrac-tor sudafrica-ni ma sembranon aver per-f e t t a m e n t efunzionato. Visarebbero poiancora circa6.500 barili di yel-low cake, il concen-trato di uranio, stoc-cati a Sabha, località neldeserto sud. E alcuni si do-mandano se gli ingenti quantita-tivi di armi chimiche dell’epoca diGheddafi siano stati tutti identificati e di-strutti.

Quanto alle risorse energetiche, la Libiapuò facilmente produrre circa 2 milioni dibarili al giorno di gas e petrolio, una fonte diapprovvigionamento importante per l’Italiae per l’Europa stante anche i rapporti nonproprio idilliaci con un altro paese che as-sicura parte del nostro fabbisogno energeti-co: la Russia.

L’Is potrebbe poi essere molto interessataalle coste quali punti di partenza per invia-re propri militanti in Europa anche se fino

a oggi non ci sono conferme di presenza dimembri di questa organizzazione nelle navie barche che trasportano gli immigrati clan-destini.

Vi sono poi altre variabili di cui l’Is po-trebbe approfittare e che sono legate alla di-versità di vedute della comunità internazio-nale nei riguardi della Libia. Le incursioniaeree dell’Egitto in territorio egiziano, per

esempio, che sono state avviate dopo ladecapitazione di 21 egiziani

copti da parte dell’Is, sonostate disapprovate dal

Qatar, dall’Algeria edalla Turchia. Ma

vi è di più: men-tre il governo diTobruk ha sa-lutato con fa-vore l’inter-vento, quellodi Tripoli loha condanna-to come unaviolazione del-

la sovranità na-zionale. Certo,

quello di Tobrukè riconosciuto dal-

le Nazioni Unite, mavi sono stati che la pen-

sano diversamente. Non èun caso che l’emittente al Ja-

zeera si riferisca al governo di Tobrukcome quello delle Nazioni Unite e a quellodi Tripoli come quello legittimo. L’atteggia-mento di alcuni paesi, Francia e Germaniatra questi, che caldeggiano un accordo tra idue governi, fa infuriare quello di Tobrukche essendo riconosciuto dall’Onu non capi-sce perché dovrebbe scendere a patti con ungoverno che non esita a definire impostore.

Per rendere il quadro ancora più com-plesso, ammesso che ce ne sia bisogno, nonè escluso che l’Is conti anche sul fatto chemolto difficilmente il Consiglio di sicurezzadelle Nazioni Unite troverà la coesione ne-

cessaria ad autorizzare un’azione militare inLibia dal momento che la Russia ha sempreaccusato l’occidente di essere andato ben ol-tre il mandato Onu che prevedeva la prote-zione dei civili e non già azioni tese o desti-nate a far cadere il governo di Gheddafi.Ammesso poi che ci sia qualcuno che le vo-glia queste azioni. Certo non gli Stati Unitiche ritengono che il ruolo di peacekeeperdebba essere svolto dall’Unione europea inconsiderazione della vicinanza geografica edegli stretti legami sociali, culturali ed eco-nomici. E allo stato, anche in Europa non pa-re esserci tutto questo appetito per un inter-vento militare.

La Libia costituirà dunque un formidabi-le avamposto dell’Is nella regione del nordAfrica, ponte verso l’Europa con arsenali diarmi convenzionali chimiche, forte di reddi-to grazie alla vendita di gas, petrolio e di yel-low cake?

Non è detto. In Iraq, e in parte in Siria, l’Isha fatto leva sulla contrapposizione tra sciitie sunniti. Un conflitto di confessioni che svol-ge un ruolo di primo piano nel definire oggigli equilibri in medio oriente. Questo conflit-to settario, che ha toccato punte di violenzache non si vedevano dalla guerra dei trent’an-ni, ha reso ancora più estremisti gli estremi-sti sunniti e alimentato le campagne di prose-litismo portate avanti dall’Is in nome di unatradizione medievale ma con metodi e tecni-che di comunicazione assai moderni. In Li-bia, la maggior parte della popolazione è sun-nita e dunque l’Is non pare poter approfitta-re di contrapposizione settarie.

Non appare poi così semplice neancheconvertire petrolio e gas libico in moneta so-nante. Innanzitutto i grandi campi di produ-zione di petrolio e gas sono distanti dai cen-tri abitati e in mezzo al deserto. Possono es-sere certamente attaccati da miliziani del-l’Is, così come è stato fatto in Algeria nel gen-naio del 2013 quando la brigata Khaled AbulAbbas, guidata da Mokhtar Belmokhtar, giàmembro di al Qaida nel Maghreb islamico,ha fatto irruzione nell’impianto di Ain Ame-

nas, dove operavano molte compagnie inter-nazionali. Gli impianti di produzione posso-no essere seriamente danneggiati o addirit-tura distrutti ma appare molto difficile pren-derne il controllo e mantenerlo. In Libia poivi sono solo grandi raffinerie. Anche questeforse facili da attaccare ma impossibili dacontrollare e operare. L’Is non può dunquecontare sulla produzione di greggio né sullasua raffinazione. Né potrebbe agevolmentevenderlo. Non certo via terra in Algeria né inEgitto. Molto complicato anche utilizzare iporti ammesso che ne riescano a tenere ilcontrollo. L’anno scorso, quando il ribelle li-bico Ibrahimm al Jathran ha preso il control-

lo del porto di Es Sider nell’ est della Libiae caricato la petroliera Morning Glory bat-tente bandiera della Corea del nord, sono in-tervenuti, su richiesta del governo libico, iNavy seal americani, per restituire il greg-gio al legittimo proprietario. Detto per inci-so, sono stati in molti a chiedersi perché nonsiano intervenuti gli europei.

Considerato che in Libia esistono dueParlamenti e due governi, a prescindere dal-la questione della illegittimità di uno di es-si, e che entrambi sono deboli non disponen-do di un vero apparato amministrativo né diun esercito organizzato, la capacità di pene-trazione e di controllo del territorio da par-te dell’Is consisterà nella sua capacità distringere rapporti e alleanze con le varietribù e milizie. Questa è la vera sfida che lacomunità internazionale e in particolarel’Europa si trova oggi a dover affrontare edevitare a tutti i costi che ciò accada. E il di-battito andrebbe spostato dalla possibilitàdi un intervento armato alla necessità di av-viare e consolidare un dialogo con tutte letribù e kabile in Libia.

LIBIA, LA PORTAEREI DELLO STATO ISLAMICOPosizione, risorse e uomini del paese mediterraneo fanno gola al Califfato. Come e dove si può intervenire

di Leonardo Bellodi

Frontiere colabrodo di fronteall’Europa, tensioni sociali edeconomiche, armi di Gheddafisfuggite alla “pulizia” americana

Mentre l’Onu si divide, gliuomini di al Baghdadi pensano acome sfruttare gli impiantipetroliferi. Ma non sarà facile

Roma. Lo scorso settembre, al verticeNato di Newport, Galles, i paesi dell’Al-leanza atlantica promisero, davanti alleminacce crescenti per la sicurezza interna-zionale, di aumentare progressivamente ilbudget destinato alla Difesa, fino a porta-re la spesa militare al 2 per cento del pilin dieci anni. La crisi in Ucraina e l’au-mento dell’insicurezza in molte aree ren-dono necessario un impegno più deciso de-gli stati membri, si diceva a settembre, e laspesa militare dovrà crescere di conse-guenza. Ma come scrive un report presen-tato ieri dallo European leadershipnetwork (Eln) e anticipato dal Financial Ti-mes, quasi nessun paese della Nato ha ono-rato i suoi impegni. Delle sei maggiori po-tenze dell’Alleanza, solo l’America, la cuispesa militare è già il 3,4 per cento del pilnazionale, e la Francia non hanno in previ-sione tagli al budget militare nel 2015. Lealtre quattro, Regno Unito, Germania, Ca-nada e Italia, taglieranno la spesa milita-

re per un totale di quasi 7 miliardi di dol-lari, nonostante le promesse esplicite fat-te alla Nato di fare il contrario. Altri pae-si dell’Alleanza manterranno le promessee non taglieranno la spesa per la Difesa(tra questi Olanda, Norvegia, Polonia, Ro-mania e i tre paesi baltici; di questi, solol’Estonia, oltre agli Stati Uniti, spende al-meno il 2 per cento del pil nella Difesa),ma che quattro delle sei potenze principa-li non mantengano i loro impegni in quan-to a sicurezza è un dato preoccupante.

L’Italia, secondo il rapporto dell’Eln, haspeso nel 2014 14,41 miliardi di euro per laDifesa, e nel 2015 progetta di spenderne13,58, e questo, nonostante alcuni tentatividi provvedere fondi extra, provocherà uncalo notevole della quota di pil destinataalla sicurezza, che l’anno scorso corrispon-deva all’1,2 per cento.

“Ci sono tre ragioni strutturali per cui l’I-talia continua a non investire nella Difesa”,dice al Foglio Alessandro Marrone, respon-

sabile di ricerca nel Programma Sicurezzae Difesa dell’Istituto affari internazionali.“La prima è che in Italia è minore o assen-te la percezione della minaccia, rispettoper esempio ai paesi dell’Europa orientale.La seconda è una politica di austerity cherende le spese militari un bersaglio facile.In questo senso è molto dannosa, e questa èla terza ragione, la scarsa qualità del dibat-tito pubblico sulle questioni di Difesa. InItalia non è mai riconosciuto il nesso fonda-mentale tra lo strumento militare e i finidella politica estera e di difesa – nella so-stanza, il nesso tra spese militari e interes-se nazionale. Aumentare il budget per laDifesa in Italia non aiuta a raccogliere con-sensi politici, per questo serve una leader-ship coraggiosa che promuova un nuovo ti-po di dibattito”.

E se l’Italia è unfit to protect Italy, anchea causa di un budget militare che vieneeroso di anno in anno, è anzitutto un pro-blema di “scelta”, dice Marrone. Non ave-

re uno strumento efficace e operativo “pe-nalizza la capacità dell’Italia di interveni-re all’estero sia autonomamente sia in coa-lizione, e questo significa che al momentodel bisogno, come in una ipotetica opera-zione in Libia, l’Italia rischia di trovarsi acorto di opzioni”. Il problema, prima anco-ra di decidere se intervenire o no, è averela possibilità di scegliere di farlo. Un’Italiacon pochi strumenti all’estero è un’Italiapriva di potere negoziale. “Prendiamo gliEurofighter”, dice Marrone. “I caccia ita-liani hanno pattugliato per mesi lo spazioaereo dei paesi baltici contro le intrusionidegli aerei russi. Questa non è una missio-ne in cui l’Italia ha interessi diretti, ma cipermette di avere voce in capitolo all’in-terno della Nato per rivendicare l’impor-tanza del settore meridionale, del Mediter-raneo, della Libia”. Se la spesa militare ca-la, i nostri strumenti di rivendicazione ven-gono meno, e di conseguenza il peso dell’I-talia all’estero.

Le potenze Nato tagliano la spesa militare, Italia sempre più unfit

QUEL BRAVO RAGAZZO DI WEST LONDONSvelata l’identità dell’uomo immagine dei macelli dello Stato islamico. Storie e nuove piste

L’anonimato di uno degli uomini più ri-cercati del mondo è durato sei mesi.

Ieri il boia in passamontagna nero che suimedia era diventato “Jihadi John” dall’ago-sto 2014 è stato identificato pubblicamentecome Mohamed Emwazi, un ventisettennedi Londra nato in Kuwait. Appare in settevideo fatti circolare su internet da al Fur-qan, il braccio mediatico dello Stato islami-co, sempre nella solita posa: coltello e brac-cio puntato verso un interlocutore immagi-nario, in piedi accanto a un ostaggio stra-niero in ginocchio, lui vestito in nero e l’o-staggio con la divisa arancione di Guantá-namo – tutti gli ostaggi sono stati uccisi ri-tualmente davanti alla telecamera comemessaggi di intimidazione ai governi di Wa-shington, Londra e Tokyo. Compare anchein un ottavo video, mentre uccide un uffi-ciale dell’aviazione siriana, come leader diuna squadra di decapitatori dello Statoislamico – tutti a volto scoperto e molti rico-nosciuti come volontari stranieri. In quel-l’occasione guarda direttamente in cameradurante l’uccisione, un gesto che poi è sta-to citato in altri video dai suoi emuli. Lospeaker e boia del video dell’uccisione diventuno copti in Libia è un personaggio ri-calcato su di lui.

Emwazi è cresciuto in una famiglia bene-stante, si è laureato alla Westminster Uni-versity in informatica e viveva nella zonaovest di Londra. Il suo nome è apparso perla prima volta in un pezzo di SouadMekhennet e Adam Goldman del Washing-ton Post (Goldman un mese fa ha scritto unarticolo monstre su un altro caso intricatoe ha rivelato che americani e israeliani so-no stati gli assassini del capo di Hezbollahucciso nel 2008 a Damasco – chissa qualesarà il prossimo scoop). I due giornalistihanno usato come fonte primaria alcuniamici di Emwazi, che preferiscono che i lo-ro nomi non diventino pubblici. “Emwaziera come un fratello per me… sono sicuroche è lui”, dice uno di loro. Il New York Ti-

mes ha poi confermato il nome, grazie auna fonte nei servizi di sicurezza inglesi.L’intelligence americana, quella inglese el’Fbi conoscevano già l’identità vera diEmwazi fin da settembre ma non la rivela-vano per condurre meglio le indagini – eancora non danno conferme. Martin Chulovsul Guardian lo identifica con il nom deguerre di Abu Abdullah al Britani, quelloormai usato nella sua seconda vita in Siria– che dovrebbe essere cominciata più o me-no nel 2012.

Ci sono due elementi che spiccano. Ieriper ore dopo la pubblicazione del nomenon sono circolate foto di Emwazi a voltoscoperto – una singolarità quasi inspiegabi-

le in epoca di social media. Di tutti i jihadi-sti europei andati a combattere in Siria cisono immagini della vita precedente, fotocon gli amici, a scuola, profili facebook, al-tro. Di Emwazi ci sono soltanto le immagi-ni in passamontagna deliberatamente fattecircolare su internet. Il secondo elemento èil legame vero o soltanto presunto con Bilalal Berjawi, un anglo-libanese cresciuto aLondra che è diventato capo di al Qaida inSomalia prima di essere ucciso da un dro-ne nel 2010.

La Bbc dice che Emwazi faceva parte delnetwork di Berjawi, ma non ci sono altrielementi. La storia raccontata dal Washing-ton Post quasi coincide su questo punto,

perché sostiene che Emwazi fu fermato nel2009 in Tanzania, dove era andato con dueamici per un safari-premio di laurea, mavenne arrestato e rispedito indietro senzaun’accusa precisa. I servizi segreti inglesilo contattarono e dissero che sapevano cheil suo piano era unirsi agli Shabaab, la mi-lizia somala che ha dichiarato fedeltà aOsama bin Laden. Gli fu proposto di colla-borare, di diventare un informatore, lui ri-fiutò. Gli ostaggi occidentali che sono statisuoi prigionieri ricordano che era ossessio-nato dagli Shabaab, e faceva vedere sem-pre i loro video.

E’ possibile che il primo elemento – l’as-senza di immagini, il basso profilo e l’assen-

za di tracce immediate lasciate dietro di sé– abbia a che vedere con il secondo – il so-spetto di relazioni con al Qaida in Somalia.

Nel 2010 Emwazi/Abu Abdullah al Brita-ni andò in Kuwait, prese accordi per spo-sarsi e trovare un lavoro, tornò a Londra equi fu di nuovo arrestato a giugno per so-spetti contatti con terroristi, e poi rilascia-to ma senza passaporto. Non poteva più la-sciare il paese. Fu dopo questo secondo ar-resto che si intensificarono i suoi rapporticon Asim Qureshi, un membro di “Cage”,un ente britannico che si occupa di difen-dere le vittime della guerra al terrore – ov-vero i musulmani che finiscono nella mac-china della sorveglianza del governo.

Emwazi dice a Qureshi in alcune mail chea Londra si sente prigioniero, non è in unacella ma non può più fare quello che stavafacendo, non può sposarsi e accettare il la-voro che aveva trovato.

Ieri Qureshi ha tenuto una conferenzastampa per dipingere Emwazi come una vit-tima di una repressione ingiustificata daparte dell’intelligence inglese, che decidea un certo punto di andare in Siria, ormaivittima radicalizzata dalle troppe attenzio-ni dei servizi. In un’occasione un agente ar-rivà quasi a soffocarlo con una presa troppostretta. Anche il pezzo del Washington Po-st, che si basa in parte sulle testimonianzedi “Cage”, tende a raccontare la stessa pa-rabola: un giovane finito suo malgrado nelmeccanismo della repressione troppo gene-rica contro i musulmani.

Quella di Qureshi è suonata come una di-fesa anomala, un attacco per non finire sot-to, un mettere le mani avanti per spiegare larelazione intrattenuta a lungo con l’uomoche è diventato il sicario più sanguinariodello Stato islamico, tanto da essere sceltocome simbolo. Cage si occupa di vittime dipersecuzioni ingiustificate, il fatto che ab-bia lavorato per proteggere il futuro carne-fice più odiato di Siria e Iraq dev’essere uncolpo catastrofico. Emwazi sembra fatto ap-posta per scardinare il cliché del proleta-riato senza voce che cerca riscatto nella vio-lenza indiscriminata offerta da Abu Bakr alBaghdadi. Va a rafforzare l’altro stereotipo,quello del volontario che sceglie delibera-tamente il jihad anche se avrebbe pouto im-boccare altre strade.

Un pezzo sul Guardian descrive Abu Ab-dullah al Britani come un leader, capace disalire nei ranghi dell’organizzazione e an-che di usare il suo titolo di studio – si è oc-cupato della sicurezza informatica nelletrattative con i governi occidentali, in mo-do da evitare di essere rintracciato. Il pez-zo non lo specifica, ma è probabile che si siaoccupato di rendere invisibile l’indirizzo Ipdei computer dello Stato islamico con siste-mi come Tor e Tails.

Twitter @DanieleRaineri

L’unico video che mostra per intero una decapitazione da parte di Mohamed Emwazi è quello in cui lo Stato islamico uccide ventidue militari siriani

di Daniele Raineri

Page 6: Foglio20150227 Heidegger

Da martedì 3 marzo alle 20.30

Da lunedì a venerdì

l’analisi in diretta dei principali temi

di cronaca, economia e politica

con ospiti e collegamenti esterni.

Paolo Del Debbio è

ANNO XX NUMERO 49 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015

Page 7: Foglio20150227 Heidegger

Quando il cinquantenne Kazuo Hirai sipresentò al mondo come ceo e presi-

dente di Sony, nell’aprile del 2012, salì sulpalco durante un evento organizzato perl’occasione a Tokyo e disse che per la suacompagnia “il tempo di cambiare è ades-so”. “Io credo che Sony possa cambiare”,aggiunse. Allora Sony era un gigante dell’e-lettronica che stava attraversando unaprofonda crisi, esistenziale ancora primache di profitti. Hirai si è ripresentato sulpalco la settimana scorsa, esattamente treanni dopo. Nel frattempo Sony non è usci-ta dalla crisi, che non ha fatto che peggio-rare. Hirai ha presentato un nuovo piano diristrutturazioni per riportare l’azienda inattivo. Entro il 2017, ha detto Hirai ottimi-sta, i profitti aumenteranno di 25 volte. Maalla fine del processo, a giudicare dalle di-chiarazioni di Hirai, Sony avrà smesso di

essere una compagnia di elettronica. Hirai prevede che entro il 2017 il profit-

to operativo di Sony arriverà a 500 miliardidi yen, 4,2 miliardi di dollari. Il profitto nel-l’ultimo anno è stato di appena 20 miliardidi yen, circa 170 milioni di dollari. Per ot-tenere questo risultato, che sarebbe il mi-gliore dal 1998, anno d’oro della compagnia,il ceo vuole che Sony si concentri solo suisettori produttivi che generano guadagni.Ma a generare guadagni, dentro a Sony, or-mai è rimasto ben poco. Hirai ha individua-to tre pilastri di crescita per Sony: l’indu-stria cinematografica, con la filiale SonyPictures che è già autonoma a livello ammi-nistrativo (è lo studio che a dicembre hasubìto un terrificante attacco hacker legatoal film “The Interview”), la produzione disensori per le macchine fotografiche, doveSony è ancora leader del settore (produce isensori della fotocamera degli iPhone, peresempio) e, soprattutto, la console PlaySta-tion, l’unico prodotto che non ha mai smes-so di generare grossi guadagni.

Tolti i tre pilastri, tutto il resto è sacrifi-cabile. E questo, per un gigante dell’elet-tronica che produceva di tutto, dalle radio-sveglie ai computer, vorrà dire trasformar-si in un’azienda nuova, e più settoriale.Sony ha dismesso, e poi venduto, la sua di-visione di produzione dei computer oltreun anno fa. Sempre un anno fa, ha smem-brato dal corpo centrale della compagnia il

business della produzione di televisori, e lasettimana scorsa ha staccato e trasformatoin una filiale autonoma anche i settori au-dio e video. Hirai è tornato a parlare mer-coledì, e ha annunciato il probabile spinoff anche dei settori delle batterie e dei mi-crochip. Spesso questi spin off sono il pre-ludio a una vendita o a una dismissione, co-me è successo per la divisione dei compu-ter. Il ceo ha detto che “dividere delle unità di una compagnia non significa vendere o

ritirarle dal mercato”, ma appena pochigiorni prima aveva rivelato che Sony “nonesclude una exit strategy” dalla produzio-ne di televisori e smartphone. La produzio-ne delle tv, ha spiegato Hirai mercoledì, de-ve generare guadagni per poter rimaneredentro alla compagnia. Visti i trend dell’ul-timo decennio le prospettive sembrano ne-re. Ma chi riesce a immaginare una Sonyche non vende più stereo e tv?

Sony potrebbe trasformarsi nella compa-gnia della PlayStation. Da gigante della tec-nologia, ubiquo nelle nostre vite fino a po-chi anni fa, potrebbe diventare una cosaper ragazzini o per gamer incalliti. Ai mer-cati questa soluzione piace: nel corso del2014, ha scritto l’Economist questa settima-na, il valore delle azioni della compagniaè cresciuto dell’80 per cento. Ma abbando-nare tutta l’elettronica, le tv e gli smartpho-ne (cosa che per ora Sony ha solo ipotizza-to di fare) e trasformarsi nella compagniadella PlayStation e dei sensori (con una fi-liale cinematografica americana) significaper Sony ammettere la propria sconfitta.Sony tornerà a generare profitti, diventeràpiù piccola e concentrata, ma la grande

corsa per il dominio del mondo della tecno-logia, in cui fino a 15 anni fa Sony sembra-va in vantaggio, sarà persa per sempre.

Fino a quindici anni fa Sony era la mi-gliore compagnia di elettronica e tecnologiadel mondo. Aveva inventato il Walkman, e larivoluzione sociale che si era sviluppata in-torno a esso, ma bastava che si nominassequalsiasi prodotto di elettronica perchéqualcuno ti dicesse: “Compra un Sony. Costadi più ma è il migliore”. I televisori Trini-tron erano i migliori (oggi alzi la mano chiha ancora a casa una tv Sony). I portatiliVaio erano così sofisticati e belli che unavolta Steve Jobs si disse pronto a farci gira-re sopra il suo sistema operativo OsX, esclu-sivo ai computer Apple. I robot domesticiAibo erano quello che oggi è la macchinache si guida da sola per Google: una dimo-strazione di strapotere tecnologico. Ma i me-ravigliosi Vaio sono stati dismessi un annofa, i robot Aibo hanno smesso di essere co-struiti nel 2006, e i Walkman di ultima gene-razione sono prodotti di nicchia per audio-fili, con costi proibitivi e vendite ridicole.Oltre che nella tecnologia Sony ha perso ter-reno anche nel design, di cui negli anni No-vanta era il campione, e nella riconoscibi-

lità del marchio. Sony non è più un branddi culto, e se ogni teenager degli anni 90 pos-sedeva almeno un paio di prodotti dellacompagnia (il Walkman, ma anche le radio,gli stereo, le tv, le macchine fotografiche), èpossibile che un teenager di oggi un prodot-to Sony non l’abbia mai preso in mano.

E’ un declino che si legge anche nei nu-meri. Nel 2000 il valore di mercato dellacompagnia era stimato intorno ai 100 mi-liardi di dollari. Nel 2012, nel momento piùbuio della crisi economica globale, eracrollato a 14 miliardi. Oggi è risalito a 20,segno che il lavoro di Hirai sta pagando, mache Sony resta comunque la pallida imita-zione di quello che era un tempo – soprat-tutto considerando il periodo di forte cre-scita che le compagnie del tech hanno co-nosciuto in questi anni, con Apple che haappena sfondato il muro dei 700 miliardi didollari di capitalizzazione di mercato. Ne-gli ultimi anni Sony ha conosciuto un calodelle quote di mercato in tutti i settori incui è attiva, incalzata dai giganti tecnologi-ci coreani, come Samsung e Lg, dai nuoviplayer cinesi, come Huawei e Xiaomi, e dalrisorgere delle compagnie americane, Ap-ple per prima. PlayStation ed entertain-

ment sono tra le poche eccezioni. Questacrisi, inoltre, ha provocato negli anni mi-gliaia di esuberi, che potrebbero aumenta-re con il nuovo piano del ceo Hirai.

In un articolo dello scorso settembre, ilFinancial Times scriveva: “I guai di Sonyrisiedono nella sua incapacità negli ultimianni di far uscire un prodotto ‘Wow’”. Sony,è vero, negli ultimi 15 anni è stata incapa-ce di creare un prodotto che stabilisca lostandard dell’industria, come l’iPhone diApple. Ma a ben guardare, di prodotti“Wow” Sony ne ha costruiti molti. La Play-Station, ovviamente, che ha vinto dopo undecennio la lunga guerra di posizione con-tro l’XBox di Microsoft nel mondo dei vi-deogiochi. Ma Sony produceva lettori diebook eccellenti molto prima che Amazonse ne uscisse con il suo Kindle. Nel campodella fotografia professionale, è la compa-gnia più innovativa e avanzata (anche se lequote di mercato sono minime). I suoi fon-datori avevano immaginato in tempi nonsospetti l’importanza di mettere insieme latecnologia digitale con la fruizione dei con-tenuti. E, ovviamente, la casa che produce-va il Walkman era molto meglio piazzata diApple quando Steve Jobs presentò l’iPod.

Se i tentativi di Sony non hanno avuto suc-cesso, la colpa è delle molte scelte strate-giche sbagliate, e dell’incapacità di com-prendere la concorrenza. Gli esperti addi-tano anche un software mai all’altezza del-l’ottimo hardware, una scarsa, e celebre,coordinazione tra i vari settori dell’azien-da, e piattaforme mai in grado di soddisfa-re gli utenti. Si pensi a iTunes: Sony non hamai creato un software così.

Ma la crisi di Sony, la crisi esistenziale diSony, che ha spinto Hirai a trasformare l’a-zienda nella (possibile) compagnia dellaPlayStation, ha un altro colpevole. Ne ab-biamo tutti uno in tasca, è lo smartphone.I business su cui Sony prosperava soddisfa-cevano una serie di bisogni definiti: ascol-tare musica, scattare foto, girare e guarda-re video, ascoltare la radio, puntare la sve-glia. Per ciascuno di questi bisogni, Sonyaveva un prodotto, spesso eccellente: ilWalkman e gli stereo, le macchine fotogra-fiche, le videocamere e le televisioni, le ra-

dio portatili, le sveglie e gli orologi digita-li. Ma oggi tutti questi bisogni, nessunoescluso, sono soddisfatti dagli smartphone,che scattano foto, ci fanno ascoltare la mu-sica, la radio, e incidentalmente telefona-no. E’ normale che una nuova tecnologia nerenda obsoleta un’altra, è il principio del-l’innovazione, ma che una sola tecnologia,lo smartphone, soppianti completamentetutti i prodotti di una delle aziende piùgrandi e innovative del settore è quasi in-credibile. La gloriosa Sony degli anni No-vanta oggi possiamo averla quasi tutta in ta-sca, e l’ironia è che questo nuovo compen-dio dei business della Sony, lo smartphone,quasi mai è un prodotto Sony.

La dirigenza della compagnia è consape-vole da tempo di questi problemi. Ancoraun anno fa, il ceo Hirai inseriva tra gliobiettivi strategici di Sony la crescita nelsettore mobile. A settembre, presentando ilnuovo smartphone di alta gamma dell’a-zienda, Hirai prometteva che presto Sonysarebbe diventata il terzo produttore dismartphone al mondo dopo Apple e Sam-sung. In pochi mesi le sue promesse spaval-de si sono trasformate in una ritirata disa-strosa (nell’ultimo anno il settore mobile diSony ha perso circa 1,7 miliardi di dollari),ma sono testimonianza di un problema benchiaro. Appena nominato ceo, Hirai coniòper la compagnia un nuovo slogan, “OneSony”, e il suo significato era: trasformere-

mo Sony in un’unica compagnia, dove tuttii nostri vecchi prodotti saranno racchiusiin uno smartphone, e visto che eravamo imigliori con i nostri vecchi prodotti, domi-neremo anche il mercato degli smartphone.Sony sapeva che il suo successo passava da-gli smartphone, e ci ha provato, a conqui-stare il mercato. Ha costruito cellulari confotocamere pazzesche, con schermi incre-dibili, cellulari impermeabili. Ma Sony, co-me Nokia, è stata bloccata da Apple nellafascia alta del mercato e dai player cinesi ecoreani in quella bassa. E perso il merca-to degli smartphone, Sony ha perso tutto.Alla compagnia che un tempo dominava ilmercato della tecnologia, orgoglio dell’in-dustria giapponese, oggi restano in attivosoltanto la PlayStation, i sensori e Sony Pic-tures – hacker permettendo.

ADDIO SONY DI GLORIATra vendite e spin off, il gigante giapponese rischia di trasformarsi nella compagnia che fa “solo”

la PlayStation. Era un impero dell’elettronica, oggi lo smartphone si è mangiato i suoi mille prodotti

Sony faceva gli ebook readerprima del Kindle di Amazon. Hainventato il Walkman, ma si èfatta battere dall’iPod

Il ceo Kazuo Hirai ha vendutola divisione dei pc l’anno scorso,e ha distaccato audio e video, forsec’è un’exit strategy dal mobile

Hirai a settembre annunciavacrescita nel settore smartphone,oggi dichiara sconfitta e punta sugaming ed entertainment

Un teenager degli anni 90aveva almeno un paio di prodottiSony, un teenager di oggi può nonaverne mai preso uno in mano

Il ceo di Sony Kazuo Hirai durante un meeting strategico della compagnia lo scorso 18 febbraio nel quartier generale di Tokyo (foto LaPresse)

di Eugenio Cau

ANNO XX NUMERO 49 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015

Non si va su Twitter per twittare. Dick Costolo abbraccia l’utente passivoNon si va su Twitter per twittare. Se l’avesse det-

to un rappresentante a caso del famoso popolodella rete – riedizione collettiva e digitale dell’uo-mo della strada – sarebbe un giochetto di parole,un’opinione da poco; siccome l’ha detta l’ammini-stratore delegato di Twitter, Dick Costolo, allora sitratta di una rivoluzione copernicana. “Incontro per-sone che mi dicono, ‘non twitto’. Penso che ci sia an-cora un errore di prospettiva sulla ragione per cuisi va su Twitter. Quando incontro questa gente, dico‘non devi’”, ha spiegato al New York Times.

Non c’è nessun bisogno che twitti, assicura Costo-lo, starsene lì a leggere la timeline senza cinguetta-re nulla non è contrario all’etica di Twitter, non c’ènessun bisogno di esternare sempre-tutto-subito o digareggiare ossessivamente a chi scrive l’arguzia piùarguta. E’ tutta una “misconception”, una concezio-ne sbagliata dell’oggetto. Twitter ha convinto il mon-

do che solo l’utente attivo, quello che regolarmentescrive e avvia dibattiti o risponde “grazie” a tuttiquelli che gli scrivono quant’è intelligente, è un in-digeno certificato del medium. Gli altri sono turistidel social network. I turisti magari ogni tanto scrivo-no qualcosa per ricordare, innanzitutto a loro stes-si, della loro esistenza, qualche mitomane li ritwit-ta e loro, da buoni turisti, si convincono di avere fat-to abbastanza per sembrare regolari cittadini. Seimesi più tardi ripetono l’operazione per illudersi eilludere di nuovo. Ma gli indigeni di Twitter mica ab-boccano. Loro lo sanno che il twittare è come il co-gito cartesiano, la prova finale dell’esistenza, e iltwittare è (e non può non essere) costante, ossessi-vo, maniacale, deve dare dipendenza e può, nellasua forma degenerata, trasformare un onesto uten-te nella figura del folle digitale, il troll. L’utente at-tivo e pienamente legittimo è quello che si ferma a

pochi centimetri dal confine del regno dei troll.Ora l’amministratore delegato di Twitter certifica

che anche gli utenti passivi sono parte integrante elegittima del popolo del social network, non sono cit-tadini di serie B. La dichiarazione è sorprendente sesi pensa che gli utenti attivi sono un indicatore fon-damentale per il business di Twitter. L’ultimo reportsulle performance dell’azienda dice che ci sono 288milioni di utenti attivi ogni mese, incremento risibi-le rispetto all’ultimo rilievo, il che ha gettato qual-che ombra di preoccupazione fra gli osservatori del-l’azienda. Ci si poteva aspettare dall’azienda un ap-pello diretto, tipo “Twittate di più!”, per scatenarel’utente attivo che c’è in ognuno di noi, invece Costo-lo va in giro a dire cose controintuitive: “Tutti voglio-no conoscere e stare aggiornati su quello che succe-de nel mondo ed essere connessi. Questo è quelloche Twitter offre. Quindi penso che chiunque possa

ottenere un beneficio a prescindere dal fatto che vo-glia twittare o meno”.

Twitter, a quanto pare, non vuole soltanto studen-ti con la mano sempre alzata o maître à penser chemasticano e risputano i loro pensierini liofilizzatisenza soluzione di continuità. Del resto pure Costo-lo, che in generale passa “molto” tempo su Twitter,lascia addirittura che intere giornate scivolino viasenza cinguettare nulla; non sempre ha qualcosa dadire e talvolta ha qualcosa da dire ma non lo dice. In-vece della solita attività fisica generica, Costolo faCrossFit nel campus dell’azienda, perché “è abba-stanza intenso fisicamente da impedirti di pensarea qualunque altra cosa mentre lo fai”. Correre nonbasta. Serve l’intensità fisica per sciacquare via ipensieri, lo scorrere delle cose nella timeline dellavita e implicitamente l’amministratore delegato stadicendo che la sua azienda – o almeno la logica del

prodotto che offre – contribuisce al flusso costantee frenetico d’informazioni, quello da cui ogni tantobisogna prendersi una pausa. E c’è pure dell’altro,perché Twitter da tempo è bersagliato dalle criticheper una politica di censura dell’hate speech e delleaggressioni digitali troppo poco rigida, e Costolo sipone il problema, cruciale, della distinzione fra l’ag-gressione, l’offesa, la diffamazione, e il legittimo di-battito in rete. “Ricevo mail da gente che mi dice ‘ec-co qui un esempio di aggressione o di offesa’ e inrealtà nell’esempio non c’è alcuna aggressione, sitratta di un dibattito politico. Ci sono molti gradi di-versi: che cos’è davvero un abuso? E’ un dibattito le-gittimo?”. Che si tratti di abuso, di dibattito oppuredi offesa e trolling gratuito da monomaniaci depres-si, Costolo dice che possiamo rimanerne fuori, sen-za per questo essere esclusi dal popolo di Twitter.

Twitter @mattiaferraresi

Page 8: Foglio20150227 Heidegger

IL CREMATORIO DI HEIDEGGERAntisemita e nichilista, il filosofo tedesco ha plasmato la cultura irrazionale del

Novecento. E l’ombra della sua filosofia ancora si allunga sulla Germania di oggi

Dal cimitero di ritagli di stampa dedica-ti alle diatribe sull’antisemitismo di

Heidegger e da me via via diligentementeraccolti riesumo un articolo di Adriano So-fri apparso su Repubblica nel 2007. Non èil più vecchio (ne riemerge anche, su unCorriere della Sera del dicembre 1987, uno,assai ampio e ricco, di André Glucksmann)ma è decisamente il più bello. Adriano vicontrappone le figure di Heidegger e diPaul Celan, lette come due opposti modi diconcepire (e vivere) lo “essere per la mor-te”: tema a lungo teorizzato dal filosofo madolorosamente sperimentato su di sé dalpoeta ebreo, finito suicida (“il suo cadave-re è stato ripescato nella Senna di Parigi il1° maggio del 1970”). La citazione di Heideg-ger che Adriano rileva, quasi a stigma del-la sua vita e della sua opera, è la frase si-billina detta dal filosofo a un suo visitatoreche – siamo già nel Dopoguerra – si acco-miatava: “E poi, sa, non è ancora detta l’ul-tima parola”. Si riferiva, certamente, alla vi-cenda nazista, ivi compreso l’Olocausto.

Heidegger stesso aveva definito l’Olo-causto come la “selbstvernichtung” – “l’au-toannientamento” – degli ebrei. Intorno al-la mostruosa affermazione prende l’abbri-vio e si muove l’informato e persuasivo la-voro di Donatella Di Cesare (“Heidegger e

gli ebrei. I ‘Quaderni neri’”, Bollati Borin-ghieri 2014, pp., 352, 17 euro) che analizzale note, le riflessioni, gli appunti – “una ve-ra e propria opera filosofica dallo stilepersonale” – raccolti dal filosofo in ormaifamosi quaderni, detti “neri” per il coloredella copertina, tra il 1942 e il 1948 (l’inte-ra serie copre un arco di anni che va dal1930 al 1970) per soffermarsi in particola-re su quello relativo al 1945/’46. Queste pa-gine, che sembrava fossero andate perdu-te, si sono rivelate come tassello fonda-mentale per una messa a punto definitivadel pensiero antisemita del filosofo: laShoah viene qui considerata, rileva la DiCesare, “sotto l’aspetto filosofico”. Perl’autore de “L’Essere e il Tempo”, l’Olocau-sto è infatti l’ultima e suprema manifesta-zione della lontananza dell’ebraismo dal-l’Essere. L’ebreo, addirittura, “mina” l’Es-sere. Una citazione ci pare subito d’obbli-go. Siamo a pag. 98: “Nei ‘Quaderni neri’,mentre resta l’ammonimento all’oblio del-l’Essere, la differenza ontologica si esaspe-ra, diventa una dicotomia estrema, una di-varicazione fatale, un contrasto insanabile.La guerra mondiale [la Seconda, n.d.r.] vie-ne letta attraverso lo schema della diffe-renza ontologica e si rivela, perciò, la guer-ra dell’Essere contro l’ente. Lo scontro pla-netario, che si disegna sull’abisso, ha unvalore al contempo ontologico, teologico epolitico. La storia dell’Essere diventa unanarrazione dai toni apocalittici, il raccon-to di una battaglia finale, la versione me-tafisica della guerra di Gog e Magog”. L’an-tisemitismo heideggeriano era stato finora

analizzato nei suoi aspetti politici, da oggiin poi sarà la filosofia a dover essere chia-mata “direttamente” in causa: e nel saggiodella Di Cesare l’antisemitismo del filosofoci viene presentato come l’emersione defi-nitiva di una sindrome che attraversa tut-to il corso del pensiero tedesco – il più al-to – a partire da Lutero. Nessuno di quan-ti hanno recensito il libro ne ha parlato, mipare. E’ un silenzio imbarazzante, se nonimbarazzato, come il nascondere la polve-re con la scopa sotto il tappeto per non ve-derla, quando non la si può ignorare. Ilpercorso, seguito passo passo, pagina die-tro pagina, dalla saggista, è impressionan-te. Potrà essere ancora sviluppato, lei ciavverte, perché sollecita una ulteriore do-manda: quella del rapporto della filosofiain sé con l’antiebraismo.

Lutero, il Lutero della maturità che haperso la speranza nel rinsavimento e nellaconversione evangelica degli ebrei, affondacon spietatezza la sua lama accusatoria finnelle viscere di quel popolo, che mentre siostina nella sua separatezza antropologicae culturale continua a occupare il suolo del-la nascente nazione, inquinandolo. Per ilriformatore di Wittenberg gli ebrei sono “inemici interni”, “pieni di arroganza, invi-dia, usura, avarizia e ogni malvagità”, “ca-parbi, ostinati”, “falsi, bastardi e stranieri”,“vivono presso di noi” usando impunemen-te “terra e vie, mercati e strade”. Con que-sto rosario di epiteti – i cui grani trasudanoodio e violenza – Lutero apre “un baratrotra ‘jehudim’ e ‘gojim’, tra ebrei e gentili,che non sarà più colmato nella tradizionetedesca”. La tesi della menzogna come ca-ratteristica dell’ebreo verrà ripresa daKant, poi da Schopenhauer e da Nietzsche,il quale imputa al popolo ebraico la colpadi aver introdotto – attenzione, qui siamo inambito schiettamente filosofico – “la men-zogna dell’‘ordinamento etico del mondo’”.Per Fichte e, quasi ovviamente, per Herder,l’ebraismo è la religione di una “nazionestraniera”: “asiatica” per Herder, “Stato

nello Stato” per Fichte. E Fichte arriva adauspicare il ritorno a un “cristianesimo ori-ginario” che il popolo tedesco dovrà “aria-nizzare”. Anche Hegel andrà giù pesantecon il popolo al quale – scrive – lo Spiritodella Storia ha concesso il privilegio di es-sere posto “immediatamente avanti allaporta della salvezza”, ma al quale “la sal-vezza è negata”: con espressione che antici-pa Heidegger, gli ebrei “rifiutano e sono ri-fiutati”. Pur non esclusivo della Germania(e valga per tutti il nome di Voltaire) l’an-tiebraismo/antisemitismo sembra dunquetrovare un humus fertile in un paese “cheè alla disperata ricerca di una identità chenon ha nel presente e che non trova nel pas-sato, se non nell’oscuro mito del ‘sanguegermanico’”. Alla fine del percorso, con unimpasto che già ci è noto da altre fonti e sog-getti, “spirito ellenico e tecnica tedesca” sa-ranno nel pensiero di Hitler – per Lévinas ilnazismo è una vera e propria filosofia – icardini dello sviluppo della cultura umana.Di questo impareggiabile patrimonio gliebrei vorrebbero essere i “distruttori”, nesono anzi “l’archetipo”. Come appare neisuoi scritti riportati dalla Di Cesare, Hei-degger è il lucido formulatore di una ideadella nazione germanica e del suo ruolo nelmondo persino più chiuso e autoreferenzia-le di quanto siano le proclamazioni hitleria-ne: in lui l’ebraismo assume il carattere diavversario metafisico della germanicità, in-tesa a sua volta, nella sua saldatura con lospirito greco, come cardine della storia edella salvezza dell’uomo.

Circa alla metà degli anni Ottanta del se-colo scorso due storici tedeschi, ambedueebrei, Gershom Scholem e George Mosse,analizzarono approfonditamente i rappor-ti tra mondo ebraico e cultura tedesca,giungendo peraltro a conclusioni diverse edivergenti. Per Scholem tra i due mondi cifu solo una sorta di incomprensione, o me-glio di reciproco inganno; per Mosse, inve-ce, la divaricazione fu la imprevista conse-guenza dell’affrancamento e della assimila-

zione degli ebrei di Germania, iniziatosi aiprimi dell’Ottocento in un ambito decisa-mente illuminista. La borghesia ebrea chesi laicizzava abbracciò con entusiasmo l’al-ta cultura del paese, la “Bildung” ricca deinomi di Goethe, Herder, Lessing, Schiller,eccetera, con i connessi ideali di tolleran-za, pacifismo, rifiuto dell’irrazionale, armo-nia morale ed estetica, eccetera; ma se nel-la comunità ebraica avveniva questo capo-volgimento, lungo il corso dell’Ottocento lamaggioranza del popolo germanico vennespostandosi su posizioni di nazionalismomilitarista, oltranzismo identitario, ecc. Laseparazione si aggravò dopo la sconfittanella Prima guerra mondiale e nel periododi Weimar. E’ in questo momento devastan-te della Germania che si formò o si conso-lidò l’antiebraismo di Heidegger.

Avrebbe potuto sfuggirgli, non farsenecatturare? Troppi nomi della grande cultu-ra tedesca del tempo ne rimasero invischia-ti, a partire da Carl Schmitt (sulla cui ope-ra la Di Cesare si diffonde in molte bellepagine), o anche Jünger, al quale Sofri, nel-l’articolo ricordato, riconosce comunque ilmerito di aver coraggiosamente sfidato,“con l’azzardo del soldato nella guerra ditrincea”, cioè combattendo nella GrandeGuerra, quel mito dell’“essere per la mor-te” che il professor Heidegger teorizzava,ma standosene in “buona salute”. Per chiu-dere ineluttabilmente Heidegger nellamorsa delle sue responsabilità c’è anche damettere nel conto il suo distacco impertur-babile, il suo gelido silenzio alla notiziadella morte di Edmund Husserl, l’ebreofondatore della fenomenologia modernache pure aveva considerato suo maestro eal quale aveva dedicato la prima edizionedi “Essere e Tempo”. Husserl è, anche lui,uno dei filosofi della “crisi della civiltà”,del “tramonto” spengleriano ma, quale ere-de della tradizione degli ebrei assimilati elaicizzati, non più emarginati e ormai citta-dini del mondo, non aveva perso la fiducianell’Aufklärung illuminista.

Nel 1987, il dibattito pro o contro il nazi-smo e antisemitismo di Heidegger si acce-se fulmineamente anche in Italia con lacomparsa di un saggio dovuto a un filosofocileno, Victor Farías (“Heidegger e il nazi-smo”, Bollati Boringhieri). Farías è di for-mazione comunista anche se giovanile stu-dioso di Heidegger e tra le sue ricerche epolemiche c’è stata anche la denuncia delsuo paese come troppo corrivo nell’acco-gliere, nell’immediato Dopoguerra, moltitedeschi ex o ancora nazisti. Farías affer-mava che l’antisemitismo di Heidegger èorganico al suo pensiero di nazista, ma ven-ne criticato per la superficialità della docu-mentazione. Comunque, la maggior partedegli articoli che conservo su questi temitrae origine dal suo libro.

La Di Cesare analizza anche il periododel Dopoguerra, anzi del dopo Olocausto,quando Heidegger si trovò a dover giustifi-care accuse o comunque sospetti semprepiù insistenti. Nel Dopoguerra, la “questio-ne ebraica” era argomento scottante, nonfacilmente accantonabile se ancora nel1963 Ernst Bloch poteva denunciare “il pa-radosso di un antisemitismo senza ebrei”.In questo clima, osserva la Di Cesare, “co-loro che, soprattutto al di fuori della Ger-mania, si aspettano da lui almeno un cen-no, una parola, se non una esplicita con-danna di quel che è accaduto, sono destina-ti a rimanere delusi”. Nella “leggendaria”intervista rilasciata allo Spiegel nel 1966ma destinata ad esser resa pubblica solodopo la sua morte, Heidegger ancora prose-gue nella sua “strategia difensiva”: ricono-sce sia pure “in forma molto cauta” il pro-prio impegno con il nazismo ma non ritrat-ta, perché lui “alla democrazia non crede[…] e tanto meno ‘nell’età della tecnica’”. Inrealtà però, annota ancora la Di Cesare,Heidegger non ha mai “realmente taciuto”.A Marcuse che dall’America, nel 1947, losollecita a “intervenire pubblicamente”, ri-sponde ribadendo che “nessuna ritrattazio-ne è possibile”: “dal nazionalsocialismo mi

aspettavo un rinnovamento spirituale ditutta la vita”. Ma come non avvertire quan-to questa speranza fosse paradossale e con-traddittoria, visto che la Germania nazistaandava fiera – in parallelo con Stalin e ilsuo concetto di comunismo – della saldatu-ra tra tradizione (“Blut und Erde”) e “Ge-stell” (impianto, dispositivo) cioè tecnica etecnologia, un fattore intrinsecamente “li-vellante”, direttamente responsabile deldeprecato “oblio dell’Essere”?

Se c’è qualcosa di irrazionale, di nichili-sta, nella cultura e nella filosofia del Nove-cento, prima ancora – e molto più – che inNietzsche, dovremo trovarla nelle pagine diquesto pensatore, autentico – lui – nichili-sta, pronto a gettare nel vortice del Nulla unmondo che si sottragga, o venga sottratto alpredominio della Germania: la Germanianon dell’ebreo Heine, ma del visionarioHölderlin, che Heidegger indica come in-terprete della “rivoluzione mancata” chepoi arriverà con Lenin e la rivoluzione bol-scevica, “versione ultima di quella metafisi-ca che, complice l’ebraismo, ripete infinita-mente la fine spacciandola per il nuovo”.

La gelida corrente della filosofia conti-nentale della crisi, dell’odio contro la tec-nica, contro l’uomo-macchina – il mostroche insidia e uccide l’anima, lo spirito, l’Es-sere – deve essere ancora esplorata a fon-do, sperabilmente perché sia respinta o cir-coscritta. Se qualcosa manca al mondo di

oggi è semmai un più di tecnica che aiutila politica a riequilibrare le sorti degli uo-mini facendoli uscire dalle difficoltà, dal-la miseria e dalla fame: solo chi ha ammi-rato una amigdala scheggiata del Paleoliti-co e chi ha capito la rivoluzione concettua-le insita nella preistorica scoperta delleleggi delle leve di primo, secondo e terzogrado può comprendere la meraviglia intel-lettuale che deve suscitare l’attività tecni-ca e tecnologica, nobile figlia (ma anchemadre) dell’uomo, nata molto prima che unfilosofo o sofista elaborasse in Grecia ilconcetto dell’Essere.

I tormenti della “Schuldfrage” hanno la-vato, in un lunghissimo Dopoguerra, le trac-ce – almeno le più palesi – di un passato dadimenticare, i cancellieri tedeschi rendonoreverente omaggio ai luoghi sacri dell’Olo-causto. Oggi, dal suo ruolo sempre più cen-trale in una Europa in difficoltà, la Germa-nia democratica si pone come un asse sal-do e concreto, che dà fiducia agli altri. Maa volte certe ombre ritornano, ossessive:con la sua (ancora) centrale posizione nel-la filosofia continentale, Heidegger conti-nua a sollevare dubbi inquietanti. A lui co-munque continuerà a contrapporsi Celan,l’autore di “Todesfuge”: “Nero latte dell’al-ba ti beviamo la notte / ti beviamo a mezzo-giorno la morte è un maestro tedesco / ti be-viamo la sera la mattina beviamo e bevia-mo / la morte è un maestro tedesco il suoocchio è azzurro / ti colpisce con palle dipiombo ti colpisce preciso… / i tuoi capellid’oro Margarete / i tuoi capelli di cenereSulamith”.

Fu in un momento devastante della Germania che si formò o si consolidò l’antiebraismo di Heidegger

di Angiolo Bandinelli

I “Quaderni neri” indagati daDonatella Di Cesare mostranoil fondamento antisemita delpensiero di Heidegger

“Dal nazionalsocialismo miaspettavo un rinnovamentospirituale di tutta la vita”, dirà inun’intervista nel 1966

Sugli intellettuali grava sempre e giusta-mente un sospetto. Dovrebbero essere

disposti a compiere di persona le azioniche intellettualmente approvano, ma è ra-ro che questo avvenga. Qualcuno ha dettoche chi approva la pena di morte dovrebbeessere disposto a infliggerla con le sue ma-ni. L’idea ovviamente spaventa, ma non rie-sco a immaginare con quali argomenti mo-rali sarebbe possibile contraddirla. Dele-gare a qualche professionista, al boia o alsoldato, o comunque ad altri, l’atto di uc-cidere, non è cosa che per un pensatorepossa avere delle scusanti deontologiche.Il mestiere di pensare e scrivere non eso-nera da responsabilità pratiche. E’ veroche la separazione fra teoria e pratica è unsegno di civiltà, oltre che di incoerenza:permette per esempio di concepire idee

che vanno al di là dell’immediatamentepossibile e di ciò che la dura realtà per-mette. Niente migliorerà se non si è staticapaci di pensare e di progettare il meglio.Ma c’è un limite a tutto. La distinzione fraapprovazione in linea di principio e parte-cipazione attiva, non può impedirci di con-dannare coloro che teorizzano una dittatu-ra, o trovano giusta fra esseri umani la leg-ge “naturale” del più forte, o ritengono ne-cessaria una guerra ingiusta in vista di sco-pi superiori.

Uno dei fenomeni più penosi (a volte ri-dicoli) che hanno caratterizzato la nostra si-nistra culturale “pigliatutto” alla fine delNovecento, è l’innamoramento (non ancoraspento) per quel bel terzetto di farabuttiteorici e doppiogiochisti, formato dal filo-sofo del diritto Carl Schmitt (il peggiore per-ché politicamente influente) il filosofo del-l’Essere Martin Heidegger e il dandy-scrit-tore-scienziato Ernst Jünger. La ragione percui non ci si decide a riconoscere le loro im-posture spesso ignobili e la loro dubbiaqualità intellettuale, è ormai una ragione dipuro fair play accademico: sono così nume-rosi gli studiosi che si sono compromessicon loro ritenendoli “semplicemente genia-li” e di un’intelligenza “al di sopra di tut-to”, che parlarne male equivale più o menoa dare dello stupido a chi li ammira.

Quei tre tipi “superiori” sono evidente-mente dotati, oltre che di un’astuzia cultu-rale fuori del comune, di un magnetismofondato sul carattere e “lo stile”. Si mo-strano impassibili, sono sprezzantementeriservati e reticenti, rifiutano di dare spie-gazioni, non si giustificano e si ripetono al-l’infinito con implacabile coerenza. Esse-re coerenti è il loro forte: non importa che

lo siano a vuoto. Non torno volentieri su questo tema. Ri-

petersi, in verità, genera noia. Ma ho lettola pagina che Giuseppe Marcenaro ha dedi-cato a Jünger su questo giornale e mi sem-bra che offra sufficiente materia per ag-giungere qualche osservazione. Marcenarosospende il giudizio sul personaggio. Si di-verte a illustrarlo, tratteggiandolo appuntocome un personaggio per il quale non na-sconde una certa simpatia estetica. Jüngersimpatica canaglia o impeccabile signoredello spirito, fa lo stesso. Del resto, una vol-ta preso atto che a Jünger è stato conferitonel 1982 il premio Goethe (“il più alto rico-noscimento letterario tedesco, già ricevutoda altri eminenti: Thomas Mann, HermannHesse, Bertolt Brecht”) ci si può arrenderedi fronte al successo.

Dandy filonazista di successo, in effettiJünger lo è stato. Il suo egotismo estetico, lasua passione meccanico-entomologica perla guerra, il suo eroismo militare, ne fannoun caso. Non basta, però, essere entrati nel-la storia della letteratura per essere immu-ni dal giudizio. Il Novecento ha prodotto lapolitica come crimine prima teorico e poipratico e Jünger ha navigato da maestrolungo le linee di confine fra scienze natura-li, arte e politica. Un germanista come La-dislao Mittner dice che con Jünger “il supe-ruomo si motorizza”. Di fronte al suoaplomb il nostro D’Annunzio sembra unesagitato e un cafone (così ne parla Mannnelle “Considerazioni di un impolitico”).La teoria jüngeriana dell’operaio-soldato (edel soldato-operaio) non manca di coeren-za e forse ne ha troppa, per amore di geo-metrica, efficiente potenza. Si produce perla guerra per distruggere gli strumenti di

guerra del nemico e per incrementare lapropria produzione. Il guaio dei nazisti (inquesto molto provincialmente eurocentri-ci) è non aver capito che quanto a potenzaproduttiva gli Stati Uniti li superavano (eanche i russi guidati dall’Uomo d’acciaionon scherzavano).

Jünger fu anche scienziato ma (copio an-cora da Mittner) anche come scienziato è“un ideale milite”. E’ ispirato dal rigoredelle scienze naturali o da quello della pu-ra forma? E’ profetico o irresponsabile? Lesue descrizioni sono denunce o ricette?Guarda il nazismo dall’alto o si accoda vo-lentieri?

A Parigi dopo l’occupazione tedesca (co-pio l’articolo di Marcenaro) frequentò arti-sti e scrittori. Conversò con Picasso, incon-trò Braque. Forse sognava di portarsi le lo-ro opere in Germania e magari di tenersi incasa, dopo la vittoria finale, un po’ di artedegenerata. Dirigeva l’ufficio censura sul-la corrispondenza dell’esercito tedesco.Nelle ore di servizio era in divisa, nelle orelibere indossava non meno elegantementeabiti civili e frequentava i salotti. Eroe diguerra nella Prima guerra mondiale, nel1930 aveva descritto gli ebrei come “unaminaccia per l’unità dei tedeschi”.

Dopo la guerra naturalmente fu in rap-porto epistolare con Heidegger e Schmitt,mentre con Mircea Eliade dirigeva una ri-vista esoterica. Le sapienze esoterichepiacciono molto ai tiranni e a chi vive po-liticamente di doppiezze. Si vive su duepiani, uno superiore e uno inferiore, unopratico e l’altro simbolico. E poi la metafi-sica è notoriamente spietata, gli dèi sonoviolenti e i riti iniziatici non hanno maimancato di crudeltà.

Di fronte al doppiogiochismo fra supe-riorità di spirito e regime hitleriano, va no-tata la coerenza suicida e la criminale fe-deltà al capo dimostrata da un intellettua-le mediocre come Goebbels, che mette inscena il gran finale dell’autodistruzione nelbunker poco prima dell’arrivo dei russi.Nelle situazioni estreme gli intellettuali so-no sempre meno colpevoli ma più sprege-voli. Devono salvare la propria vita per con-tinuare la loro battaglia a un altro livello esu un altro fronte…

Oggi di Heidegger si parla anche di più,dopo il libro di Donatella Di Cesare suisuoi “coerentissimi” discorsi a proposito diShoah. Con la recente scoperta di alcuni“Quaderni neri” del filosofo, tutto è chiaro:Heidegger era antisemita. Ma “tutto è chia-ro” si fa per dire. Dai suoi quaderni emer-ge come un blocco di basalto la sua ontolo-gia antisemita. Ho letto quanto dice la DiCesare in un articolo sulla Lettura del Cor-riere. Le formule di Heidegger sono taliche non si sa mai veramente di cosa stiaparlando. Parla di “storia dell’Essere” vo-lendo dire storia dell’occidente. Parla di“autoannientamento degli ebrei” come senessuno li avesse annientati. Parla di “pu-rificazione dell’Essere” dal male ebraico.Ci tiene a parlare dell’Essere e solo dell’Es-sere: l’oblio degli umani è completo. E co-munque un essere umano non è propria-mente un “ente” o “essente”, come lui vor-rebbe. La malattia di Heidegger è mentale,o meglio filosofica, o più precisamente unamalattia filosofica tedesca, mistica verbale,arrivata con lui a una forma monumentaledi involontaria parodia. E nessuno ride.

Con quel linguaggio si può parlare di tut-to senza parlare di niente. Quella di Hei-

degger è una criminosità delicata, operatacon le parole, con il gergo dell’ontologia,dentro il quale non c’è posto per niente cheappartenga a questo mondo. Qui la superio-rità del pensiero è vuota. E’ perfino vuotadi pensiero, perché se c’è una cosa nonpensabile né dicibile questa è l’Essere. Sì,Heidegger era antisemita. Ma in realtà nonpoteva dirlo, non aveva le parole per dirlo.E c’è chi pretende che sia un grande filo-sofo del linguaggio.

Purtroppo alla fine del suo articolo la DiCesare ci informa che in un recente conve-gno a Parigi un giovane filosofo israelianoha paragonato (non si precisa in che modo)Heidegger a Walter Benjamin. Ci risiamo,non è una novità. Benjamin è stato nemicofilosofico e politico di Heidegger. “Parago-narli” è tentare il salvataggio filosofico diquest’ultimo, dando al suo pensiero una di-gnità che non c’è anche se è magnificamen-te recitata.

IL FASCINO DEI FARABUTTIIl penoso innamoramento di certa sinistra per i doppiogiochisti Schmitt, Heidegger e Jünger

di Alfonso Berardinelli

ANNO XX NUMERO 49 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 27 FEBBRAIO 2015