fine degli imperi d'europa

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FINE DEGLI IMPERI D'EUROPA Author(s): HERBERT LÜTHY Source: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 13, No. 1 (GENNAIO - FEBBRAIO 1958), pp. 7-14 Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40756871 . Accessed: 14/06/2014 21:29 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.79.85 on Sat, 14 Jun 2014 21:29:03 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions

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FINE DEGLI IMPERI D'EUROPAAuthor(s): HERBERT LÜTHYSource: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africae l’Oriente, Anno 13, No. 1 (GENNAIO - FEBBRAIO 1958), pp. 7-14Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO)Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40756871 .

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Page 2: FINE DEGLI IMPERI D'EUROPA

FINE DEGLI IMPERI D9 EUROPA

di HERBERT LÜTHY

Questa acuta analisi del fatto coloniale e della crisi che tra- vaglia gli imperi d'oltremare dell'Occidente merita di essere co- nosciuta e discussa dal pubblico italiano. Siamo grati alla rivista " Preuves " per averci consentito di presentarla ai lettori di " Africa ". (N. d. R.).

Tutto ciò che ha attinenza col colonialismo fa parte di quella serie di questioni che sono divenute oggi inaccessibili a una discussione obbiettiva. Il processo, accompagnato da un profluvio di accuse e controaccuse, viene condotto sui resti della dominazione europea nel mondo, dinanzi a tribunali che si considerano tribuna della coscienza mondiale; e an- che tra i neutrali il giudizio passionale e morale precorre di molto la comprensione di avvenimenti che sono enorme- mente contraddittori. Ognuno è pronto a recare il contributo di una convinzione bel Te fatta, una convinzione che per lo più gli risparmia la fatica di aprire finanche l'atlante. Op- pure la discussione si nutre ancora di quegli argomenti filo- sofici che servirono alla polemica sul diritto e Finiquita, sul bene e sui mali della colonizzazione, polemica in atto in Europa fin da quando nacquero gli imperi d'oltreoceano; e le tesi con le quali gli « idealisti » e i « realisti » discutono senza ascoltarsi sono in fondo le stesse di tre o quattrocento anni fa. Anche per ciò che riguarda gli accusatori dei paesi arabi o africani, essi hanno poco da aggiungere a quanto già fu formulato, meglio e più acutamente, dall'abate Raynal e dagli Illuministi del diciottesimo secolo.

Il solo nuovo elemento di discussione è stato portato dalla mutata situazione internazionale nella quale, oggi, non viene più posto in dubbio il diritto alla colonizzazione ma la forza. E seppure il mutamento della situazione internazionale non direi proprio che nasca dal prevalere delle ragioni migliori, esso tuttavia tiene pur conto della bontà di esse: una volta che i rapporti di forza vacillano, ogni mezzo è buono per rinforzarli o per abbatterli del tutto. Se gli avvocati delle ultime potenze coloniali europee si sono spesso, e a ragione, indignati dei giudici che non hanno il diritto di giudicare e che vorrebbero impartire loro lezioni di umanità e di di- ritto internazionale, e rispondono alle accuse con controac- cuse - colonialismo sovietico, mercanti di schiavi orientali, imperialismo arabo, imperialismo del dollaro - alla fine di queste polemiche non rimane altro che una esortazione piut- tosto equivoca alla tregua: è inutile che ci strappiamo gli occhi l'un l'altro, siamo tutti avvoltoi. L'unica differenza è la superiore vitalità, ingordigia e sfrontatezza degli avvoltoi, ai quali non serve argomentazione di sorta.

Il dibattito è però di indubbia importanza, e dal momento che si tratta di posizioni di forza, di privilegi, di impieghi di capitale e di orgoglio nazionale, il suo peso non si com- misura alla qualità delle tesi pro e contro. Ambedue le posi- zioni si riferiscono esclusivamente a situazioni attuali e il barbaro neologismo « colonialismo » è stato appunto fabbri- cato per designare uno stadio sorpassato dell'evoluzione, sop- primendone l'essenziale: vale a dire il processo storico e universale della colonizzazione che non ha lasciato sola- mente dietro di sé alcuni rapporti di forza oggi decaduti o vacillanti, ma ha addirittura formato il mondo in cui vivia- mo. Dobbiamo partire quindi non dai relitti del coloniali- smo, ma da tutto il processo della colonizzazione, se voglia- mo capire di che cosa si tratta.

L'ordinamento europeo del mondo che ora viene meno portò sempre in sé la sua contraddizione. La superiorità del-

l'organizzazione, dei metodi e della tecnica sviluppatasi su questo piccolo continente è stato il presupposto e il punto di partenza di quell'ordinamento. Ora l'assimilazione di que- sti metodi e di queste tecniche da parte dei popoli non euro- pei - assimilazione che non è avvenuta senza un sovverti- mento della loro mentalità e del loro costume tradizionali - è stata la sua inevitabile conseguenza e forse la sua fine. Non direi che sia stata necessariamente la sua mira; tuttavia ogni volta che la politica coloniale ha cercato un'interna giustificazione aldilà del puro esercizio di potere, essa ha inteso la colonizzazione come opera di educazione che tende al suo termine naturale: l'emancipazione. La realtà non ha corrisposto mai completamente a questa illuminata prospet- tiva, e la colonizzazione non è stata certo un istituto filan- tropico e pedagogico. Ma sarebbe altrettanto falso negare che l'opera di educazione sia stata sempre, per amore o per forza, una parte della colonizzazione. Solo che quest'opera non ha avuto l'idillico decorso di un processo educativo e l'emancipazione non si è avuta mediante un certificato di maturità ma attraverso un cumulo di odi, violenze, rivolte. E a questa sollevazione oggi si cerca di rispondere - molto tardi, in verità, e dopo un lungo periodo di cattiva coscienza, di rassegnazione e di ritirate - con un patetico broncio che ricorda da vicino i sentimenti dei genitori delusi: vi abbiamo portato la civiltà e questo è ora il vostro ringraziamento! Le discussione della stampa europea sul problemi coloniali offrono infatti una somiglianzà ingenua e a un tempo im- pressionante con le discussioni sull'educazione dei bambini, con l'eterna disputa tra i seguaci dell'autorità e della seve- rità e i propugnatori del libero sviluppo. Perfino la spedi- zione di Suez compiuta dagli anglo-francesi ha somigliato fin troppo a un tardivo, troppo tardivo tentativo di genitori di- sperati che tentano di ristabilire la propria autorità mediante il ricorso al bastone.

Il culto del « cargo »

Ma la stessa psicologia del conflitto tra le generazioni ope- ra anche dalla parte opposta, e cioè nell'atteggiamento di po- poli fino a poco tempo fa sotto tutela dell'Europa o sotto una classe politica dirigente che non era che il prodotto di scuole europee. Le loro rivendicazioni somigliano al desiderio tipico della pubertà: di essere trattati e rispettati come individui che non hanno ancora raggiunto la maggiore età. L'Occidente ha il naturale dovere - il dovere dei geni- tori verso i figli - di continuare ad aiutare i paesi ormai emancipati, ha il dovere di fornire loro le macchine, l'aiuto finanziario e tecnico, le dighe, le acciaierie; e tutto questo ha il dovere di darlo senza pretendere ringraziamenti o com- pensi: quali aiuti necessari al loro sviluppo, crediti senza scadenze o capitali impiegati in imprese che saranno un giorno fatalmente nazionalizzate ed espropriate. L'Occidente si deve anche guardare dal metter bocca o dal volere impar- tire consigli o insegnamenti: deve convincersi che non capi- sce più gran che del mondo moderno, che adesso è il turno dei popoli giovani (quando questo secolo era ancora in. fa- sce, pedagoghi ottimisti profetizzarono che sarebbe stato il secolo dell'infanzia: è una profezia che si è attuata in molte e inaspettate forme).

Un fenomeno alquanto marginale che negli ultimi anni ha affascinato antropologi e sociologi, originando tutta una letteratura sull'argomento, può aiutare a chiarire la quest io-

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ne. Si tratta del culto del cargo, singolare movimento reli- gioso diffusosi dopo la seconda guerra mondiale su una sperduta isola del gruppo dell'Ammiragliato nell'Oceano Pa- cifico. Il movimento, con i suoi elementi di risveglio reli- gioso e di aspettazione messianica, è più complesso e pro- blematico di quanto qui possa essere illustrato in poche righe, ma il suo fondo è semplice. La civiltà di massa era arrivata per questi popoli primitivi nella forma di una base di operazioni americana installata durante la guerra contro il Giappone; dopo di che si riversò sulla miserabile popo- lazione indigena una pioggia di beni di uso e consumo do- vuti al rifornimento fin troppo abbondante della base mili- tare; erano oggetti mai visti, non fabbricati evidentemente dalla mano dell'uomo; erano dunque regali offerti dagli spi- riti buoni dell'Aldilà. La nuova età dell'oro fece crollare così il vecchio e severo ordinamento tribale basato sulla pau- ra dei demoni e sulla lotta per vivere; i carichi delle navi - i cargos - divennero l'oggetto di un nuovo culto reli- gioso. Ma quando, con la fine della guerra, gli americani andarono via e non arrivarono più le loro navi da trasporto (fatta eccezione per qualche raro invio per i pochi coloni bianchi e i funzionari rimasti sull'isola, allora tra gli indi- geni si levarono gli invasati e i profeti che annunciarono la ragione della sparizione dei cargos: i cargos non arrivavano più dall'Aldilà perché li faceva sparire l'ingordigia dei bianchi.

Sembrerebbe a questo punto che tutto il mondo non euro- peo sia stato contaminato dal culto del cargo. La ricchezza e il tenore di vita dell'Occidente non sono più opera del- l'uomo, ottenuti col lavoro, ma piuttosto un privilegio da cui noi per pura prepotenza abbiamo escluso i popoli non eu- ropei; ed essi ora reclamano la civiltà industriale e l'alto tenore di vita, come se si trattasse di cose che si possono introdurre mediante un decreto o una deliberazione delle Nazioni Unite. L'Occidente gliene è debitore:* e se esso non obbedirà a questo dovere paterno o quanto meno ne vorrà derivare diritti tutorii, ecco subito la minaccia della più radi- cale forma di rottura di tutte le relazioni: il comunismo.

Per fortuna questo paragone risulta falso: ci porta co- munque a una contraddizione che noi in genere trascuriamo. Che cos'è infatti il culto del cargo se non il culto della civiltà dell'Occidente? E che cos'è lo stesso comunismo, visto dall'Africa o dall'Asia, se non il metodo più violento di appropriarsi di questa civiltà? Questo è l'altro lato del pro- blema. L'europeizzazione del mondo non ha mai proceduto in maniera così veloce, addirittura precipitosa, come negli ultimi dieci anni. Il predominio dell'Europa non viene mai attaccato in nome di un'altra civiltà, considerata superiore a quella europea. I colonizzatori di ieri non sono stati mai seriamente accusati di aver tolto i popoli non europei dalla condizione in cui si trovavano prima della colonizzazione: gli indiani dalla magnificenza e dalla miseria dell'Impero del Gran Mogol, la Cina dall'immobilità del Regno di mezzo, l'Africa dalla potenza dei feticci tradizionali e dei riti ma- gici. Il vero rimprovero di cui il mondo oggi risuona è quello ingenuamente formulato dagli abitanti delle isole dei Mari del Sud: che l'Europa ha egoisticamente tenuto per sé i mezzi con cui i popoli fuori dall'Europa potrebbero diventare anch'essi europei. E' una ribellione fatta non già per essere qual- che cosa di diverso, ma per essere eguali, anzi per l'impazienza di essere eguali. Nessuno, tranne qualche etnologo o studioso del folklore, pare sia più attaccato a un modo di vita tradizio- nale e primitivo e al fascino dell'esotismo. La volontà di euro- peizzarsi opera con un radicalismo di cui una potenza coloniale europea non è mai stata capace. La Cina con i suoi metodi di « lavaggio mentale » e con la riforma della scrittura è in procinto di estinguere una tradizione culturale plurimillena- ria, apparentemente inconciliabile con la rivoluzione indu- striale; Confucio e Lao-tse vengono banditi; l'arte raffinata dell'opera cinese e la pittura a inchiostro di china degli antichi maestri sono diventati oggi solo articoli di esporta- zione per l'Occidente assetato di esotismo. Tra una genera- zione solo cinesi conservatori, che vivono all'estero, e profes- sori di letteratura, saranno capaci di leggere negli originali i testi della lirica cinese. Siamo con questo arrivati al caso estremo: una rottura così completa col passato è possibile solo a una rivoluzione totalitaria. Eppure in tutti questi paesi è in base di sviluppo una rivoluzione dall'alto sotto la guida di uomini contaminati di spirito europeo (dalla peste stranie- ra, come avrebbero detto ancora i loro padri).

Veniamo ora alla grande obiezione: si tratta di un allar- gamento della civiltà o si tratta invece di un trionfo uni-

versale della barbarie? E con quale diritto si qualifica euro- peizzazione un processo in cui noi vediamo al massimo una caricatura dell'Europa, vale a dire l'assunzione della sua or- ganizzazione esterna, materiale, senza una previa assimila- zione dei contenuti e dei valori dell'Occidente? Si potrebbe chiamare al massimo nel primo caso americanizzazione, nel- l'altro sovietizzazione : e si tratterebbe di un derivato, di ba- stardi figli di bastardi. La società europea è il risultato ulti- mo di un processo lungo e complesso che, senza risalire a Roma e all'antica Grecia, ha comunque richiesto uno svi- luppo organico di molti secoli: le libertà comunali del Me- dioevo; la crisi spirituale del Rinascimento e della Riforma; la secolarizzazione dello Stato e del Diritto; la lenta trasfor- mazione delle funzioni amministrative che vanno dall'eserci- zio personale del potere al servizio pubblico anonimo; la separazione tra fisica e metafisica avvenuta durante l'Illumi- nismo e il Razionalismo; lo sviluppo parallelo dell'accumu- lazione di capitale, della abilità artigiana e dei progressi della scienza e della tecnica fino al loro confluire nella rivo- luzione industriale. E, con ciò, abbiamo citato solo gli ele- menti fondamentali. No, tutto questo non si compra al mercato.

Evidentemente si arriva a caricature e a malformazioni mostruose quando si vogliono appiccicare quelli che sono i risultati di una civiltà a popoli e a continenti di tutt'altra tradizione senza che essi compiano il processo evolutivo che li ha prodotti. Ma ci dobbiamo meravigliare se questi po- poli non hanno né il tempo né la pazienza di perfezionare il processo secolare che li ha condotti dalla situazione di bar- barie dei tempi delle migrazioni alla società del secolo ven- tesimo? Se afferrano subito i procedimenti molto più brevi offerti loro dalla Russia o dall'America; l'America, il gigan- tesco rampollo dell'Europa cresciuto su una terra coloniale e il cui entusiasmo per la tecnica non è trattenuto dalla zavorra di una tradizione di gusto aristocratico-cortigiano né dalla preoccupazione di strutture sociali ereditarie; la Russia, il primo paese arretrato nel quale una classe dirigente radi- calmente occidentalizzata ha intrapreso il tentativo di saltare artificialmente un secolo di sviluppo e di sostituire, a un organico ma lento processo, il terrore, il lavoro e l'adde- stramento forzato.

Il fascino del comunismo in Asia risiede appunto nel fatto che esso è pronto a sacrificare senza scrupoli la pre- sente e anche la futura generazione pur di arrivare a co- struire con metodi faraonici un apparato grandioso di po- tenza economica e militare. Un governo non totalitario non può pretendere dai propri sudditi simili sacrifici se non è in grado di sostenerli con riserve di fanatico entusiasmo e con continui successi. L'esiguo gruppo dirigente dei paesi da poco emancipati non ha molto tempo a disposizione per mettere a frutto il prestigio che ha conquistato presentandosi alle masse amorfe e torpide nelle vesti di liberatore nazionale. Se l'emancipazione non mette in moto la promessa ricostru- zione ma provoca stagnazione o regresso, allora una ricaduta nel caos è vicina.

Ancora per molto tempo una questione rimarrà sul filo del rasoio: se l'India potrà continuare a costruire basandosi sull'eredità dell'Impero anglo-indiano (e cioè il Civil Service, l'amministrazione della giustizia, il sistema di educazione pan- indiano, lo sviluppo economico organico e parallelo) o se essa si suddividerà in un mosaico di venti o di duecento sta- terelli divisi a seconda della lingua, della razza o della casta. Questa decisione è molto più importante per il futuro del mondo che non la nostra opinione sul diritto di Krishna Menon a dire la sua in questioni di morale internazionale. La consapevolezza, molto viva nelle classi dirigenti indiane, di una gara con la Cina in cui il metodo democratico do- vrebbe dimostrare il suo inalterato valore di fronte a quello comunista, è diventata un elemento di importanza incalcola- bile: e all'esito di questa gara con la Cina per decidere il futuro dell'Asia potrebbero effettivamente contribuire in qual- che modo i cargos dell'Occidente. Ma non si tratta mai, co- munque, di un cammino all'indietro (e questo veramente do- vrebbe sorprenderci): poiché mai e in nessuna parte nel processo di emancipazione dei paesi colonizzati si sono fi- nora affermate delle forze che vogliono tornare allo stato e agli ordinamenti vigenti nel periodo pre-coloniale, ma do- vunque si è affermata una classe dirigente, la quale si è formata appunto grazie alla colonizzazione e che non solo non vuole interrompere e tanto meno far regredire l'opera di colonizzazione, ma vuole al contrario e da sé, in piena autonomia, portarla a compimento.

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L'isola della Gorée, davanti a Dakar, fu il quartier generale della divisione navale che controllava tutti sii " établissements " francesi dell'Africa occidentale fino al lontano Gabon. L'isola era cinta di fortificazioni, le cui vestigia si conservano tuttora.

La violenza non basta

Siamo forse arrivati così a guardare le cose da un punto di vista per cui il destino delle ultime potenze coloniali viene a essere posto nella giusta prospettiva. Il dramma investe oggi, come s'è visto, i princìpi stessi dell'esistenza dell'Europa, ma non conclude per questo il processo di europeizzazione del mondo intero e tanto meno lo fa regredire. La sostanza della colonizzazione non è la storia degli imperi coloniali e della dominazione politica sui paesi stranieri; è ed è sempre stata, dagli inizi della storia, Tintero enorme processo di scoperta, di ricerca e di colonizzazione del mondo con l'apertura e l'assicurazione delle vie di comunicazione, con la distruzione o la frantumazione di imperi una volta isolati e di stadi di cultura inariditi mediante l'introduzione di nuove tecniche, di nuovi imperativi morali, mediante nuove concezioni e for- me dell'organizzazione umana; si può dire che la storia della della colonizzazione è la storia stessa delle civiltà le quali si sono sviluppate non già nell'isolamento di culture locali bensì nel reciproco influsso, nel contrasto, nel contatto e nel conflitto delle diverse culture.

Ci sono stati grandi imperi che si limitarono alle deva- stazioni e all'imposizione dei tributi, e hanno lasciato solo una traccia di rovine nella storia della civiltà; e ci sono state grandiose epoche della colonizzazione in cui svilup- parono appena le possibilità iniziali di un'estensione politica del potere: un esempio classico è costituito dall'ellenizzazione del Mediterraneo. E' comunque un processo le cui ragioni più profonde rimangono per lo più misteriose. In un punto della terra abitata si forma un lievito, che fa crescere e agita la pasta, per così dire, degli uomini; e poi succede che questo movimento s'arresti di nuovo, sia perché il fermento è soffocato nel montare eccessivo della pasta sia perché, co- me dice la Sacra Scrittura, « il sale è diventato insipido », sia infine perché accadono tutt'e due le cose (e l'una non si può in genere saperare dall'altra).

Il grandioso e improvviso erompere di attività colonizza- trice manifestatosi in Europa fin dalla fine del Medioevo sotto

ogni forma - esplorazioni e scorrerie piratesche, viaggi di commercianti, di missionari, di emigranti e di conquistatori - ha compreso per la prima volta tutta la terra mettendo in moto tutta la pasta dell'umanità, la cui dinamica non si è arrestata neanche quando si è fermato l'impulso d'origine europeo. Se mai un capitolo della storia merita il nome di rivoluzione mondiale, è appunto questa grandiosa avventura che in meno di mezzo millenio ha mutato, fino a renderlo irriconoscibile, il volto della terra, strappando dall'isolamen- to continenti, popoli e paesi, e creando per la prima volta la possibilità di pensare l'umanità come un tutto e la sua storia come una storia universale. Se anche oggi l'Europa vorrebbe qualche volta riportare la scopa nel suo angolo come l'apprendista stregone, questa rivoluzione mondiale è compiuta e noi siamo ormai tutti compresi in un'unica storia.

E non è vero che questa storia è stata solo una storia di vio- lenze: processi di siffatta entità non sono mai il risultato della sola violenza. Per quanto molti episodi della storia della colo- nizzazione possano essere stati sanguinosi e tremendi, la parte avuta dalla violenza in questa rivoluzione mondiale è stata in complesso incredibilmente piccola e i mezzi coi quali l'Europa ha rivoluzionato il mondo sono stati anch'essi mezzi materiali minimi. Il grande impero degli Incas crollò sotto l'assalto di un pugno di avventurieri spagnoli che, arrivati su un continente selvaggio, non sapevano neppure dove si trovassero e chi avessero davanti. L'India, forte di 400 mi- lioni di abitanti, fu tenuta con un contingente inglese com- posto di soli 60 mila uomini di truppa e 800 funzionari di polizia (il critico militare inglese Liddel Hart constata oggi che l'impero britannico è stato il più grande bluff della storia mondiale, e ha ragione: non era infatti possibile mantenere un impero simile con la forza dei soli cannoni).

Dall'inizio alla fine della storia della colonizzazione tro- viamo dunque questa grottesca disparità tra i mezzi mate- riali impiegati e gli effetti da essi prodotti. La passività, la mancanza quasi assoluta di resistenza per cui i popoli non europei poterono essere colonizzati con facilità, è stato per il predominio europeo nel mondo un elemento altrettanto

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fondamentale dell'impulso espansionistico dell'Europa. In nes- sun luogo i colonizzatori urtarono in Stati o in strutture sociali che offrissero una interna capacità di resistenza; quasi in nes- sun luogo essi vennero a contatto con popoli i quali vives- sero nella coscienza di una libertà o di un'autonomia degne di essere difese e i quali pertanto avessero da preoccu- parsi del fatto di cambiare padrone.

Quello che oggi sorge in piedi e si scrolla di dosso la dominazione coloniale è proprio il frutto, il prodotto della colonizzazione. Le maggiori e più sanguinose guerre hanno visto l'una contro l'altra le nazioni europee, le quali si sono combattute reciprocamente per la conquista del predominio mondiale, non già contro i popoli colonizzati; solamente la parte eccedente di questa forza mista a un desiderio di av- ventura fu deviata per la colonizzazione di altre terre. E quest'ultima non fu opera di Stati e di governi ma, in ge- nere, opera di centinaia di colonizzatori, di pionieri e di avventurieri, élite o rifiuto di tutte le nazioni d'Europa. Sic- ché questo sfociare di eccedenti energie costituì il vero ele- mento vivo dinanzi al quale gli ordinamenti e le forme di governo dei popoli extra-europei, ordinamenti primitivi, mar- ci e atrofizzati, crollarono nella polvere. Se poi i singoli governi europei si accollarono il compito della riorganizza- zione politica e dell'amministrazione, con ciò assumendosi la resopnsabilità del destino di paesi tanto disorganizzati, que- sto fu fatto successivamente, per la necessità di costringere quella rivoluzione mondiale in binari normali e di frenare la foga d'iniziativa dei pionieri che non mostravano né mi- sura, né senso di responsabilità, ma solo voglia di distrug- gere e di predare. Solo in questa seconda fase la colonizza- zione statale, intesa alla ricostruzione e al riordinamento, sostituì il puro mercantilismo che aveva sfondato dappertutto le porte e abbattuto ogni barricata senza curarsi affatto delle conseguenze.

La dominazione inglese in India è il più grande esempio di questa attività costruttiva della colonizzazione. D'altro lato, il destino della Cina a partire dal 1850 è il più terribile esempio di un grande paese strappato dal suo isolamento e gettato in questa rivoluzione mondiale senza essere mai stato colonizzato. I suoi vecchi ordinamenti si sgretolarono a con- tatto con l'Occidente, ma nessuno se ne assunse la responsa- bilità; esso rimase così abbandonato alla sua anarchia fino a che oggi non è passato di colpo dal totale disordine al totale ordine.

Un giudizio sulla storia della colonizzazione, se vuoi es- sere equo, dovrà sempre tenere distinte queste due fasi, e fra tutti i correnti luoghi comuni il verdetto di condanna delle dominazioni coloniali è uno di quelli che maggior- mente meritano di essere corretti. La dominazione coloniale è stata abolita proprio a causa dell'assetto - il primo, e fi- nora anche l'ultimo - che l'Europa ha dato al mondo.

L'Europa si autodistrugge

Com'è crollato questo ordinamento mondiale? L'ho già detto: non per la resistenza dei popoli coloniali. Può sem- brare logico che il sentimento nazionale e il desiderio di emancipazione dovessero essere il risultato della colonizza- zione; eppure questo processo non è arrivato a maturazione, e niente ci impedisce di pensare che esso si sarebbe potuto compiere ordinatamente e senza gravi catastrofi. L'ordina- mento dato al mondo dall'Europa è crollato nel suo stesso centro, nell'Europa. L'Europa ha organizzato e ordinato il mondo politicamente ed economicamente per il suo ma non solo per il suo vantaggio, e per i paesi extra-europei l'epoca degli imperi coloniali è stata in complesso un'epoca di pace e di sicurezza quale la storia sanguinosa dell'Asia e dell'A- frica non aveva mai conosciuto. Solo se stessa l'Europa non ha saputo organizzare. Non c'è bisogno di cercare molto lontano: due guerre europee arrivate a una totale tecnica distruttiva hanno annientato le basi materiali, politiche e mo- rali del prestigio di cui l'Europa godeva nel mondo.

E a ben poco serve fare una questione di colpe. Aldilà di tutti gli atti singoli che portarono alla catastrofe, permane una spaventosa incapacità dell'Europa a superare gli abi- tuali limiti della propria immaginazione. In ogni paese, in ogni uomo politico come in ogni aula scolastica (in una Europa che aveva creato la civiltà, lo storia e la coscienza mondiali) la coscienza nazionale, la cultura nazionale e la storia nazionale rimasero l'ultima e sola misura del pensare

e dell'agire, e per di più arretrata nel vero senso della pa- rola e disperatamente inadeguata al momento storico. L'Euro- pa non ha saputo tenere il passo nella rivoluzione mondiale da lei stessa provocata.

Del resto, non avvertiamo forse questa arretratezza, anche materialmente, nei settori più avanzati dello sviluppo tecnico? Non c'è bisogno di pensare allo sfruttamento industriale del- l'energia atomica o della tecnica elettronica. Basta pensare che quasi tutte le società aeree d'Europa volano con motori di fabbricazione o brevetto americani, né più né meno come le linee del Pakistan o del Brasile. Questa dato di fatto è di gran lunga più inquietante per il futuro dell'Europa che non tutte le disgrazie politiche sofferte in un mondo nel quale non dettano più legge le condizioni di scambio e si può mantenere la propria posizione solo grazie all'efficienza e alle prestazioni eccezionali. E' una magra consolazione il vedere che non mancano le capacità individuali né le singole realizzazioni, ma mancano le possibilità organizzative, soffo- cate nel ristretto e irrazionale labirinto delle sovranità eu- ropee. Ciò non dovrebbe essere una consolazione, ma un incitamento.

Eccoci così ricondotti all'irritante paragone con l'antica Grecia, le cui città ellenizzarono il Mediterraneo e il Medio Oriente grazie a un consimile grandioso esplodere di ener- gie, creando un esteso territorio di penetrazione culturale e di scambi economici, che pur tuttavia non riuscirono ad andare aldilà dei ristretti ordinamenti propri di uno Stato fondato sulla polis: la polis quale ultima e più alta e non perfezionabile forma di comunità, aldilà della quale non si poteva pensare altro sistema di auto-decisione, altra unità culturale, altro modo di obbligante solidarietà; la polis che si consumò del resto in infinite guerre di egemenoia fino a che la madre patria della civiltà occidentale non decadde a uno stadio di provincialismo e di assoluta insignificanza per finire spazzata via dalla colonizzazione per opera degli Stati barbari ellenizzati. Non si tratta qui di esercitare il potere sugli altri (la Grecia non creò mai un impero mediterraneo) ma di qualcosa di molto più decisivo del potere: si tratta di una arretratezza morale e intellettuale rispetto a un'evolu- zione che noi stessi abbiamo provocato e le cui dimensioni non siamo piri in grado di afferrare; si tratta ancora una volta del « sale che diventa insipido ». Anche gli antichi greci si rifiutarono di riconoscere l'ellenismo come opera propria, anch'essi videro in Alessandria una caricatura di A- tene, anch'essi cercarono di compensare il torpore con l'or- goglio offeso. Ma il rifiuto di tutto ciò che esorbitava dal mondo greco fu l'ultimo passo verso la sterilità.

Questo paragone non vuoi contenere una profezia; il car- tomante, del resto, ne sa quanto lo storico per dirci se l'Eu- ropa è arrivata alla catarsi o è vicina a una fine provinciale. Tuttavia alcuni pseudo-problemi di cui si nutre la polemica d'oggigiorno sul colonialismo perdono importanza in questa prospettiva. La colonizzazione del mondo per opera dell'Eu- ropa non è stata né una catena di delitti né una di benefi- cenze: è stata lo stesso processo di nascita del mondo mo- derno. Di essa nessuno dei popoli coloniali si ricorda con gratitudine, poiché si è trattato di una dominazione straniera. Nessuno, d'altra parte, è disposto ad annullare quanto l'Eu- ropa ha fatto e a tornare a forme di vita pre-coloniali : è la loro giustificazione storica. La polemica sul passato è ozio- sa; la colonizzazione ha portato sempre in sé la propria fine, e se questa fine è arrivata in mezzo agl'insulti e al- l'onta nondimeno la decisione è stata presa non già nel mondo coloniale ma in Europa.

Ma la questione attuale, se cioè l'Europa occidentale (non importa se divisa o unita) abbia oggi ancora o possa trovare di nuovo domani la forza di mantenere le sue posizioni ma- teriali oltreoceano (si tratti di esuberanza di capitali da impiegare o di diritti da far valere per un controllo poli- tico) contro la volontà delle popolazioni e dei governi locali, è una questione che merita, come dicevo, una risposta netta e brutale. Ed è meglio darla senza abbellimenti morali o politici. Nessuno Stato europeo, e probabilmente nemmeno una coalizione di Stati europei, è più in grado di esercitare con le proprie forze una politica di potenza mondiale. Del resto, la stessa potenza non è più una semplice questione di impiego di mezzi materiali: l'ascesa e il declino di una po- tenza hanno oggi un raggio d'azione molto diverso da quello della sua forza materiale; entrano in gioco degli elementi moltiplicatori, quali il prestigio e la sicurezza di sé, che si sottraggono ad un calcolo esatto: e l'Europa ha perso questi moltiplicatori della propria potenza prima ancora dei mezzi

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Veduta dal mare di James Fort, Accra, secondo una incisione di Smith (1727). Dice la scritta " Questo forte è lo scalo più lontano e più riparato che gli Inglesi posseggano nella Costa d'Oro E' grande, bello e potente, ma l'approdo non offre alcun interesse, né possiede bei giardini, sebbene il paese sia estremamente fertile. Qui gli Inglesi dispongono di grandi quantità di ottimo sale ".

materiali. Dunque, per concludere, nessuno Stato dell'Europa occidentale e nemmeno l'Europa occidentale tutta intera han- no più la possibilità di fare una politica autonoma di po- tenza mondiale, in quanto nessuno degli Stati europei e nem- meno tutta l'Europa sarebbero in grado di resistere da soli all'assalto (e neanche alla minaccia ricattatoria di assalto) di quella grande potenza che tiene ormai sotto il suo giogo una metà dell'Europa. I governi dell'Europa occidentale non ci pensano nemmeno e si limitano a mettere a disposizione alcune truppe ausiliarie a servizio dell'America che promette protezione.

Ci sono molti metodi ai quali si può fare ricorso quando si vuoi evitare di parlare della nuda realtà di questa situa- zione: ma rimane il fatto che l'indipendenza dell'Europa occidentale sussiste grazie alla garanzia americana e che, sen- za questa garanzia, non ci sarebbe bisogno nemmeno di un conflitto militare per spianare allo stesso livello tutta l'Euro- pa. D'accordo, l'Europa non si trova nelle condizioni di un protettorato e l'equilibrio delle grandi potenze mondiali è abbastanza precario per lasciare spazio e possibilità di ma- novra a chi si fa ancora illusioni di grande potenza. La Francia e l'Inghilterra potrebbero sguarnire completamente di truppe il continente europeo grazie alla protezione ame- ricana e impiegare per i loro scopi queste truppe, dispo- nendo così a titolo di prestito dei mezzi necessari per man- tenere le loro vecchie posizioni imperialistiche ; ma, ap- punto, solo a titolo di prestito, fino a quando cioè la loro politica non venga a ostacolare la politica americana o a sfidare quella russa senza il previo consenso dell'America. Il conflitto di Suez ha rivelato questa realtà dei rapporti di forza con una brutalità ancora mai vista, e il suo esito ha provocato amarezze profonde e in parte giustificate contro l'America; ma si sa che l'amarezza, sia pure giustificata, su fatti ormai immutabili, è infruttuosa.

Intorno alla politica degli Stati Uniti ci sarebbe molto da dire, tanto per criticarla quanto per difenderla; ma non è di essa che qui si discute. Per quello che ci interessa in questa sede, basterà constatare che l'America non può essere semplicemente annoverata tra le potenze occidentali o tra le potenze atlantiche, come a noi piace supporre guardando dalla nostra prospettiva europea. L'America è in pari misura una potenza tanto dell'Atlantico che del Pacifico, in quanto si apre tanto verso l'Europa che verso l'Asia; è oggi in senso stretto l'unica potenza mondiale; poiché è l'unica presente su

tutti i continenti e su tutti i mari. E si tratta di una respon- sabilità che opprime, e alla quale non l'hanno preparata né la sua tradizione né le sue istituzioni politiche. Il grande conflitto mondiale che noi chiamiamo in maniera molto di- scutibile conflitto tra Occidente e Oriente, nella sua origine non è altro che la gara in atto tra le nuove potenze mon- diali per riempire lo spazio vuoto lasciato dal crollo del- l'ordinamento europeo e affiorato a poco a poco in tutta la sua estensione. In questa gara l'America va a cercarsi altri partner e alleati migliori delle potenze coloniali europee ormai in ritirata, e la sua politica può coincidere con la loro in un unico caso: quando si tratta di impedire che il mondo si ritrasformi in imperi chiusi da cortine di ferro 0 circondati da mura cinesi e di tenere aperta la possibilità di un ordinamento del mondo basato su libere alleanze, di un ordinamento cioè in cui anche l'Europa possa ancora re- spirare. Se noi consideriamo tutto questo, qualche giudizio sulla politica americana sarebbe forse meno avventato.

Il ripiegamento anglo-francese

Su questo sfondo si svolge la grande operazione di ripie- gamento condotta dalle due ultime potenze coloniali europee da dieci anni a questa parte. Per lungo tempo abbiamo se- guito (e con noi la maggior parte dei francesi e degli inglesi) con calma e rassegnazione questa ritirata in apparenza inar- restabile. La Gran Bretagna era orgogliosa dell'avvenuta con- segna dei poteri in India come anche della lode che tutto il mondo le tributò per questo atto, unico nella storia, di rinuncia alla dominazione senza che vi fosse stata una costri- zione esteriore. La Francia, da parte sua, ha salutato con un sospiro di sollievo e addirittura con entusiasmo il governo che aveva concluso la guerra in Indocina con un abbandono completo, ritirandosi in pari tempo dagli ultimi caposaldi francesi in Asia. Ma questo improvviso rivolgimento è arri- vato troppo tardi, nel momento in cui la ritirata aveva rag- giunto ormai l'immediata anticamera dell'Europa, il Mediter- raneo: e cioè il Nordafrica, provincia francese della sponda opposta; il canale di Suez, arteria vitale dell'impero inglese; 1 campi petroliferi del Golfo Persico, fonte di energia del- r Europa. Inoltre, aldilà di tutti gli interessi materiali, si era fatto strada un impulso vecchio di un millennio: era di nuovo in movimento l'Isiam, che un tempo aveva invaso il

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territorio dell'antica civiltà greco-romano-cristiana dall'Asia Minore fino alla Spagna attraverso il Nordafrica e che poi si era chiuso come un catenaccio messo tra l'Europa e l'Asia, contornandosi di deserti e facendo del Mediterraneo una via senza sbocco.

Ultimamente, al tempo dell'affare di Suez, tra i soldati del corpo di spedizione franco - britannico, ma soprattutto dei francesi, che navigava da Algeri verso Porto Said, era avver- tibile un'aria di crociata: non si trattava più di pretese schia- vistiche su terre lontane, si trattava della difesa dell'Occi- dente messo con le spalle al muro. Qualche cosa di que- st'atmosfera di crociata è passata nella parola d'ordine del- l'unificazione europea, divenuta di nuovo improvvisamente popolare dopo un lungo riflusso. Popolarità che non va tanto al progetto lento e fitto di paure di un comune Mercato europeo da attuarsi nel giro di quindici anni, ma all'idea di un blocco eurafricano in cui gli alleati della Francia potreb- bero considerare una iniziativa propria, dapprima finanziaria e poi via via politica, la penetrazione e la difesa del retro- terra africano, che da molto tempo ormai supera le forze della sola Francia. L'Europa può ritrovare se stessa o in un grande compito o in un grande pericolo, non nella semplice volontà di conservazione. Ma il compito eccolo qui: ed è un progetto di un avvenire e di una grandiosità fantastici an- che se le promesse iniziali sono modeste; è un progetto su cui pesa oggi l'ombra della guerra nel Nordafrica. Si tratta di difendere una fortezza assediata o si tratta di organizzare un intero continente?

La parola d'ordine Europa, e tanto più l'altra Eurafrica, sarà sempre carica di riserve e di doppisensi fin tanto che non sarà trovata una via d'uscita alla crisi dell'impero francese che si dibatte nelle ultime convulsioni. Niente sarebbe più fatale che legare l'unità europea, dopo che sono sono state perdute una dopo l'altra tutte le occasioni migliori, alla peg- giore delle occasioni: a quella di una crociata in una strada senza sbocco. Mercato europeo, Zona europea di libero scam- bio, Eurafrica: sono strane parole in un momento in cui la guerra del Nordafrica costringe la Francia sempre più in un isolamento politico ed economico. Nessuno degli alleati dice la stessa cosa pronunciandole; e la costruzione sarà pericolante se nelle fondamenta dell'edificio vengono inclusi tutti i malin- tesi su cui si è preferito tacere.

In una prova che, considerata dal punto di vista dei fran- cesi, domina e oscura tutti gli altri problemi, si cercano na- turalmente degli alleati; e invece la Francia deve constatare con amarezza che, nel migliore dei casi, trova alleati cortesi ma che rimangono sulle proprie posizioni e prendono vo- lentieri in parola la Francia quando, in conformità con le dichiarazioni ufficiali, riconoscono in questa tremenda guerra locale una « questione di politica interna francese » e si rifiutano quindi di considerarla come cosa loro. L'America preme perché finisca; l'Europa tace nel mentre che esterna il suo diplomatico cordoglio; e l'Inghilterra, che per un momento sembrava essere partita al contrattacco contro 1'« im- perialismo arabo » a lato della Francia, ha procurato la più grave disillusione alla politica francese. Anche questo è stato un malinteso: l'accordo dei due paesi nell'avventura di Suez è rimasto un breve episodio che in nessun momento ha cor- risposto a una politica comune nel Medio Oriente e ha fatto raffiorare i vecchi dissensi. Le strade dei due imperi occi- dentali non hanno mai proceduto parallele, nemmeno ora nella ritirata. Nella spedizione egiziana esse si sono incon- trate ma non unite. Se la Francia cerca oggi il sostegno del- l'Europa che l'aiuti a superare la crisi, l'Inghilterra cerca da parte sua come sempre di appoggiarsi all'America; ed è più facile pensare che un giorno l'Europa si aggreghi al Com- monwealth e alla comunità anglosassone piuttosto l'Inghil- terra all'Europa.

La maniera assolutamete diversa di reagire alle sconfitte o nelle situazioni di emergenza da parte delle due potenze, l'Inghilterra e la Francia, nonostante i discorsi amari e tutto il rancore accumulato è basata sulle tradizioni del tutto diverse e sulle direttive della loro politica che durano da secoli. Esse non hanno scelto, ma hanno trovato già segnate queste due strade sulle quali sono stati compiuti passi gran- diosi; ma una strada è arrivata ormai al termine e l'altra può condurre ancora una volta a un libero sbocco. Basterà annotare qui alcuni punti essenziali per render chiara la dif- ferenza.

L'impero inglese è sorto come una potenza navale il cui costante scopo fu di assicurare la libera navigazione, la co- siddetta libertà dei mari: una solida intelaiatura di capo-

saldi posti in punti-chiave o in stretti passaggi obbligati e un controllo elastico su vasti territori inteso più che altro a impedire il consolidamento di altre potenze. Ammesso che lo scopo della colonizzazione sia l'emancipazione, l'Inghilterra non ha certo perseguito questo fine con disinteresse o impa- zienza di arrivarci, ma non ha fatto niente che vi si con- trapponesse. Non ha creato una turba di impiegati per ammi- nistrare in proprio i possedimenti, ma per quanto è possibile ha lasciato che si amministrasse da sé mantenendo da parte sua un controllo che a volte non si sentiva neppure: in India alcuni governatori e qualche centinaio di funzionari di poli- zia, nei paesi petroliferi del Golfo Persico una dozzina di agenti con modesti titoli di consiglieri; e, dietro di essi, la potenza finanziaria di Londra, con le ramificazioni della sua vastissima economia e, in caso di bisogno, la flotta.

Infiniti problemi, che si presentarono con carattere di inso- lubilità nell'ambito dell'impero francese, in quello inglese non si sono mai neppure posti. La struttura dell'impero in- glese è stata sempre abbastanza elastica per l'attuazione di tutte le forme e i gradi dell'autonomia, fino alla indipen- denza praticamente completa. Anche geograficamente, l'im- pero inglese si è andato cercando i liberi mari, il lontano più che il vicino, tenendosi volentieri discosto dalle angustie e dai labirinti continentali. E' noto, ad esempio, che il Ca- nale di Suez è l'arteria vitale dell'impero britannico: lo è diventato però contro la volontà dell'Inghilterra; la libera navigazione intorno al Capo di Buona Speranza rispondeva meglio alla tradizione inglese e il governo britannico fece di tutto per impedire la costruzione del Canale, e solo dopo che la Francia riuscì nell'intento senza un centesimo di partecipazione finanziaria britannica e nonostante le mano- vre diplomatiche di opposizione, solo allora il governo in- glese decise di porre sotto controllo anche questo passaggio artificiale, nonché i territori con esso confinanti. Fu questo l'inizio della politica del Medio Oriente nei cui labirinti e nelle cui contraddizioni l'Inghilterra si trovò implicata sem- pre più a fondo: l'occupazione dell'Egitto, Fascioda, Lawren- ce, la Lega araba, la questione politica palestinese, la cac- ciata della Francia dalla Siria; castello di carte sempre più complicato il cui fronte mediterraneo è ora crollato. Senza il controllo del Cairo e del canale d'acqua dolce non c'è il controllo della zona di Suez, senza la zona di Suez e Israele non c'è l'accesso allo Stato di Giordania e senza Giordania non c'è più alcun caposaldo tra il Mediterraneo e il Golfo Persico. L'esempio di Cipro mostra da solo quanto della sua solita elasticità la politica inglese abbia perso in queste stret- toie mediterraneee.

Un politico britannico già alla fine della prima guerra mondiale scrisse: «Volgendo lo sguardo indietro negli anni, io mi domando se l'istinto dei governanti inglesi che si batte- rono contro il progetto del Canale di Suez non fosse giusto. Io mi domando se la nostra posizione nel mondo non sa- rebbe più forte se non si fosse realizzata la costruzione del Canale. Il Mediterraneo è un mare angusto, divenuto ancora più angusto dopo l'avvento degli aerei e dei sottomarini; la necessità di tenere sotto controllo questa via d'acqua ci pro- curerà forse più difficoltà che vantaggi ». Ci volevano ancora trentanni per arrivare al colonnello Nasser. Se l'America vuole assumersi la sorveglianza di questa caldaia infernale, bene, l'Inghilterra non può che farle i migliori auguri.

C'è un altro fatto. Mentre la Francia ha trascorso i quattro anni della seconda guerra mondiale sotto la narcosi dell'oc- cupazione tedesca ed è passata poi bruscamente, ancora con le immagini dell'anteguerra, nella situazione completamente cambiata del dopoguerra, l'Inghilterra continuando a com- battere ha subito questo mutamento passo passo e ne ha tratto le conseguenze senza aver provato lo choc della di- sfatta o le facili illusioni della vittoria. Così, mentre la Fran- cia, come l'Olanda, al momento della capitolazione giappo- nese non si trovava sul posto, e non è stata in grado quindi di intervenire, ostinandosi poi nel tentativo disperato e inutile di una riconquista delle proprie posizioni, l'Inghilterra invece era già sul punto di abbandonare volontariamente posizioni e responsabilità divenute insostenibili.

L'appoggio della politica imperiale inglese a quella del- l'America è divenuta ormai un dogma che non può essere scosso da conflitti e divergenze locali, che vanno dalla poli- tica da attuare in Cina a quella del Medio Oriente. I domi- nions dell'Australia e della Nuova Zelanda sono legati mili- tarmente all'America, non all'Inghilterra. Il Canada sta al difuori dell'area della sterlina ed è dal punto di vista eco- nomico e valutario legato inscindibilmente con gli Stati Uniti.

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Navi olandesi e britanniche in rotta per le Indie fanno scalo allo stabilimento olandese di Table Bay (1720) Da un'acauatinta di Van Bijne.

La sterlina è la moneta di riferimento di una buona metà del commercio mondiale, e l'Inghilterra nonostante tutte le crisi subite dalla sterlina rimane il banchiere di questa metà del mondo, poiché nessuno ha la menoma voglia di contra- starle questa gloriosa e onerosa posizione di banchiere di un gruppo di paesi insolventi e affamati di capitali, che accumulano deficit e spendono al dilà delle loro possibilità. Soltanto i possedimenti della Corona ricchi di materie prime hanno aumentato le loro riserve monetarie; ma questi terri- tori uno dopo l'altro - prima la Malesia poi la Costa d'Oro, poi la Nigeria - hanno ottenuto l'autonomia e con ciò il diritto di disporre dei loro crediti come meglio pareva loro.

L'Inghilterra si trova oggi nella pericolosa posizione del banchiere che concede continuamente crediti a breve scadenza per poter pagare gli anticipi e gli investimenti a lunga sca- denza dei suoi vecchi clienti. Essa svolge tuttavia una fun- zione indispensabile all'interno del mondo libero, e Londra è diventata la banca centrale dei paesi ancora arretrati. Per vie dritte e traverse l'area della sterlina si regge sempre più in questa maniera: dall'alto vengono pompati dentro dollari che poi defluiscono in forma di crediti in sterline e di aiuti per la ricostruzione ai membri e ai clienti affezionati del Commonwealth britannico. Politicamente, militarmente ed e- conomicamente si è così sviluppata tra gli Stati Uniti e la grande famiglia del Commonwealth una simbiosi tale che semplicemente non la si può più abolire, come la guerra di indipendenza americana fosse stata un grande errore sto- rico. Se ora a questo complesso sistema di molteplici com- partecipazioni e di «particolari rapporti» (come dice l'e- spressione inglese, significativa per la sua indeterminatezza) si verrà ad aggiungere anche una libera zona di scambio del- l'Europa occidentale, cio non significherà che l'Inghilterra si unisca al continente europeo ma semplicemente la creazione di una nuova alleanza che non ne esclude nessun'altra.

L'impero coloniale francese è stato creato e organizzato su princìpi assolutamente diversi. La Francia ha battuto una strada ben differente e - siamo giusti - anche più diffì- cile. Nel suo insieme ancora oggi pressoché intatto, l'impero francese non è un impero che si regge col dominio dei mari ma una compatta massa di territori posti tra il Medi- terraneo e il Congo. E' stato opera delle truppe francesi, non della flotta, in quanto è diviso dalla madrepatria solo dal Mediterraneo. Si tratta dunque, per l'origine e l'organizza- zione, di una colonizzazione precipuamente militare, la quale

infranse la barriera dell'Isiam, durissima e per secoli inattac- cabile; l'esercito francese non fu qui solo la forza créatrice di un ordine, ma anche il crogiuolo di un impero i cui citta- dini divenivano prima soldati francesi per poi essere cittadini. E' l'impero di uno Stato amministrativo creato dall'assoluti- smo politico la cui gerarchia strutturale non è stata mai toc- cata dalia Repubblica. Secondo la Costituzione questo Stato è una gola, indivisibile Repubblica che va dalle Fiandre al Congo, con un solo centro propulsore e amministrativo, un solo governo, un solo parlamento e un'unica sede per questa indivisibile sovranità: Parigi. Non si mirò mai, come tappa finale dello sviluppo, all'emancipazione o anche alla sola autonomia dei possedimenti coloniali, bensì alla loro assi- milazione: un solo popolo di 85 milioni di francesi dalle Fiandre al Congo, non importa se di pelle bianca bruna o nera e di religione cristiana maomettana o pagana, ma vi- venti secondo lo stesso codice e la stessa forma di civiltà. Il fine era appunto la civilizzazione nel senso letterale della parola: bisognava farne dei cittadini, vale a dire dei fran- cesi. In questo ideale di fusione di tutte le razze in una nazione confluirono la tradizione assolutistica e l'idea rivolu- zionaria dell'umanità proprie dei francesi.

La tragedia algerina

E' stato questo un grande ideale, soprattutto per quanto è riuscito a fare tra le popolazioni negre dell'Africa; ma è stato un ideale che ha fallito dove di fronte alla civiltà francese si è trovata un'altra civiltà autoctona, e ancora più dove di fronte alla forza indigena c'era una compatta immi- grazione europeo-francese, che non voleva saperne dell'assi- milazione e in pratica la ostacolava. Nell'Africa del Nord abbiamo avuto le due cose insieme: l'Isiam come barriera alla civilizzazione in quanto civiltà autoctona, e la potente minoranza europea che ha rifiutato di fondersi nello stesso crogiuolo con la popolazione locale. Il crogiuolo qui non ha funzionato: dopo 125 anni di colonizzazione francese appena un decimo dei figli degli algerini va a scuola e l'amministra- zione, la giustizia, l'assistenza e l'educazione son rimaste quasi del tutto in mani europee. L'Algeria è divenuta un paese amministrato e ordinato assolutamente alla francese, eppure i nove decimi dei suoi abitanti sono rimasti fuori

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della porta, senza patria, sia che si trovino nella loro terra sia che si trovino nei quartieri arabi di Parigi o di Saint- Etienne.

La tragedia algerina è la tragedia di un proclamato grande ideale in cui ingenuamente Yélite indigena credette per tanto tempo fino a che esso non diventò una finzione giuridica e la negazione stessa dell'evidenza. Perseguendo la mira del- l'assimilazione, la colonizzazione francese ha perduto l'ideale che presiedeva dall'interno a tutto l'impero francese. Si è tramutata nella pervicacia a voler rimanere in una situazione anche dal punto di vista giuridico non più definibile, e con una Costituzione inaugurata solennemente e poi violata in modo aperto e sconsiderato per dieci anni di seguito. Ci sono, è vero, altre ragioni di ordine materiale che hanno contribuito alla crisi dei possedimenti d'oltremare, una crisi che da dieci anni si trascina da un campo all'altro di batta- glia e ha intaccato le finanze e falciato la migliore gioventù francese. Ma al centro c'è il dogma quasi religioso di un'uni- ca nazione sovrana e indivisibile; dogma che è rimasto in- toccabile anche quando l'assimilazione, che doveva essere la sua conseguenza, da lungo tempo è stata rinnegata perché inattuabile.

Questo ideale assolutistico della sovranità è inconciliabile con ogni sorta di autonomia e di comunità federativa. Non lascia via di mezzo tra assimilazione totale e completa rot- tura. Da più di tre anni in Algeria regna il terrore e la guerriglia, da due anni la Francia mantiene là 600 mila uo- mini tra militari e polizia senza che si possa scorgere la fine della lotta. Da ambedue le parti si combatte e si uccide in nome di parole d'ordine che non potranno mai essere tradotte in realtà: «L'Algeria è la Francia» - «L'Algeria è una nazione araba ». L'Algeria non è né l'una cosa né l'altra: è tutte e due. L'Algeria non diverrà mai una parte della Francia come sono la Bretagna o la Provenza, dal mo- mento che è ormai chiaro che gli algerini non potranno mai essere francesi; e d'altra parte l'Algeria non può vivere senza la Francia e senza il milione di coloni francesi, altrimenti diverrebbe subito una steppa. E' impossibile ormai strappare queste due comunità così intrecciate l'una all'altra che divi- dendole andrebbero ambedue in rovina. L'Algeria forma una unità con la Francia, ma forma un'unita ancora più inscin- dibile con l'Africa del Nord considerata nel suo insieme: il Magreb, vale a dire la Tunisia e il Marocco solidali con l'Algeria araba, così come la Francia è solidale con l'Algeria francese.

Hanno ragione, dal punto di vista della coerenza, gli uf- ficiali dell'esercito francese in Africa quando affermano che la guerra algerina sarà vinta soltanto quando si potrà ricon- quistare tutta l'Africa del Nord: è un ragionamento logico se fatto nel secolo XIX ma non può più esser fatto nel XX. Impressionante è che ogni politico francese conosce benis- simo la soluzione che offre l'unica via di scampo, e questa è la stessa soluzione per cui premono i politici responsabili del Marocco e della Tunisia; una federazione franco-norda- fricana; terribile è che ogni soluzione prospettata per il fu- turo dell'Algeria comporta anzitutto la rinuncia a ciò per cui i soldati francesi credono di combattere: l'unità e l'indi- visibilità di una Repubblica che comprende anche l'Algeria; e terribile è anche che nessuno osa dire questo pubblica- mente, che un accostamento può essere ricercato solo di nascosto, dietro le quinte, poiché, una volta nel vicolo cieco di questa dottrina giacobina dell'unità francese, è nata una guerra santa in cui chiunque parli di compromesso è un traditore.

Ma appunto per questo il conflitto algerino è divenuto così disumano e spaventoso: perché è impossibile sciogliere una simile comunità. L'Africa del Nord porta in maniera inde- lebile tanto il marchio della colonizzazione araba che di quella francese. Oriente e Occidente sono indissolubilmente uniti in Algeria.

Le prospettive sono oggi disperanti: ma Tunisia e Marocco

hanno vissuto gli stessi deprimenti anni in cui le promesse sono state infrante e l'evidenza dei fatti è stata negata, anni di terrore, di guerriglia, di assassini; e alla fine di tutto ciò, mentre ancora la rivolta e il terrorismo infuriano in Algeria, che sta in mezzo, i capi del nazionalismo nordafricano si aggrappano malgrado tutte le tempeste all'idea del Magreb - che significa del resto: isola dell'Occidente - secolariz- zato e occidentalizzato, unito alla Francia, non catenaccio di chiusura ma ponte di comunicazione con l'Europa. E tra lo scatenarsi delle passioni né a Rabat né a Tunisi trovano eco i fanatici appelli panarabi provenienti dal Cairo. Il Cairo non è il mondo arabo, e il mondo arabo non è l'Isiam: uno spirito di crociata che rompesse questi ponti distrugge- rebbe una delle ultime possibilità che l'Europa ha di non sprofondare nella meschinità del provincialismo.

A sud del Sahara dove l'influenza dei nuovi dominios ne- gri britannici sta diventando contagiosa, la Francia è in pro- cinto di aggirare l'ostacolo della propria concezione unitaria per gettare le basi di un Commonwealth africano. Ma il le- game d'unione tra l'Europa e l'Africa si crea o si distrugge in Algeria, e qui non basta tentare di aggirare la Costitu- zione. La Francia possiede ancora le chiavi dell'Europa e dell'Africa, ma nessuno può alleviare la Francia da questa decisione da cui dipenderà se la porta rimarrà chiusa o aperta: è una decisione su se stessa. Dopo la fine della guer- ra la Francia ha proclamato YUnion française, libera unione dei popoli dell'impero francese, ma questa è rimasta sulla carta; ha messo poi all'ordine del giorno la Comunità euro- pea ma, quando tutti gli altri erano favorevoli, in un im- pedo di sdegno l'ha tolta di nuovo dall'ordine del giorno. In ambedue i casi il fallimento fu dovuto alla dottrina asso- lutistica della sovranità indivisibile. E' questo il catenaccio che blocca ogni possibilità di rinnovamento: se salterà, sarà possibile ciò che finora era impossibile.

La Francia, che ha elevato il concetto di civilizzazione euro- pea a dogma politico-religioso fondendolo con il culto della nazione - Notre Dame la France, la Francia nostra Signora. - vive oggi la crisi dell'ordinamento europeo, esemplarmen- te, come crisi del suo orgoglio e del suo prestigio, cercando disperatamente di negarla fino all'ultimo. E' un rivolgimento di tutta la faccia della terra altrettanto doloroso e assurdo come quello operato dalla rivoluzione copernicana: la sco- perta cioè che questa terra che credevamo di avere ben ferma sotto i nostri piedi non è il solido e tranquillo centro dell'universo, ma addirittura si muove. Era assurdo doverlo ammettere, e tuttavia continuare a vivere.

Ma finito è solo il mondo che girava intorno all'Europa considerata polo fisso, insostituibile. Per continuare a vivere - sia detto anche nel senso della nostra esistenza fisica - l'Europa ha oggi solo un compito, che è anche una necessità vitale: quello di salvare dell'epoca della colonizzazione l'es- senziale, che non si basa sulla potenza militare, ed è la « compartecipazione » di tutti i paesi del mondo ; e, per quanto sia diffìcile - ma è stato diffìcile anche per i coloniz- zati di ieri, non lo dimentichiamo - l'Europa ha il compito di trovare la forma di transizione dai sistemi di protettorato a quelli di compartecipazione. Non esiste una sola strada e una sola ricetta: esiste il balbettante e incerto tentativo del- l'America di creare nelle Nazioni Unite l'organo esecutivo in questioni di diritto internazionale esiste pure il tentativo altrettanto incerto di un'organizzazione interna europea, che sia però più viva; l'istituzione di un ponte politico franco- nordafricano o la creazione di un più elastico sistema di alleanze sul tipo del Commonwealth possono essere utili in- dicazioni. Ma bisogna soprattutto ricordarsi che il grande, unico ostacolo, è la chiusura: lasciarsi aperto il mondo è interesse fondamentale dell'Europa ed è interesse anche del mondo libero. Ma bisogna anche, per far questo, mantenersi aperti e disponibili verso il mondo. Non c'è nulla e nessuno che costringa l'Europa a ripercorrere fino in fondo la strada percorsa dall'antica Grecia.

Herbert Lüthy

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