fidaart n.6 2015 romano furlani

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PERIODICO della FIDAart N.6 - Giugno ANNO 2015 FIDAart

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Rivista di arte e cultura

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In copertina: Romano Furlani, Tondo, 2012, olio su legno, diam. 50 cm

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Copyright FIDAart Tutti i diritti sono riservatiL’Editore rimane a disposizione degli eventuali detentori dei diritti delle immagini (o eventuali scambi tra fotografi) che non è riuscito a definire, nè a rintracciare

Intervista ad un artista Romano Furlani

News dal mondo

pag. 4

pag. 5

pag. 6-19

Cafè de la Paix (Eterna)Politiche culturali

Editoriale EXPO 2015

pag. 22-23

pag. 20-21

The wild wild Denim

Mercato dell’arte? Ed Ruscha

Indigo Jo

FIDAartsommario06Giugno 2015, Anno 4 - N.6

pag. 24-25

Storia dell’arte Bugatti 1936 Type 57SC Atlantic

ED RUSCHA

ED RUSCHA

ED RUSCHA

ED RUSCHA

pag. 30

pag. 28

pag. 31

pag. 29

“SMASH”, 1963

“BALTIMORE ORIOLE”, 1965

“SENZA TITOLO” (Our Flag), 1985

“MINT” (Red), 1968

Omaggio a ED RUSCHA pag. 32“MAH”, 2015

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EDITORIALE

E’ partita regolarmente l’Esposizione Univer-sale, Expo Milano 2015. Per sei mesi il tema al centro della manifestazione, “Nutrire il Piane-ta, Energia per la Vita”, potrà diventare un’oc-casione per riflettere e confrontarsi sui diversi tentativi di trovare soluzioni alle contraddizioni del nostro mondo in cui a fianco di chi muore di fame ci sono 2,8 milioni di decessi per malattie legate a obesità o sovrappeso. Secondo Padre Zanotelli «Il problema della fame è una conseguenza del sistema. Il 10 per cento della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti da questo si-stema...che permette a pochi di avere tutto, di consumare tutto, a spese di molti che muoiono di fame». Non servirebbe un’esposizione uni-versale che ci costerà 3,2 più 12,5 miliardi di in-frastrutture per parlare del problema del cibo.Persone che muoiono di fame ma anche di sete perché il business e il potere del futuro, sarà in mano a chi controllerà l’acqua, un bene pubbli-co indispensabile e inalienabile da cui, come si vede anche in Italia dove, nonostante il refe-rendum del 2011, i gruppi privati non vogliono rinunciare a ricavare profitti.All’Expo si potranno visitare padiglioni, indu-strie, aziende, cluster, saloni, uffici, teatri, pisci-ne, conferenze, eventi, spettacoli, circhi, nego-zi, banchetti, ristoranti, trattorie, self-service, happy hours ecc. Qualcuno ha sommessamen-te fatto notare che mancherebbero i contadini che con il loro lavoro sfamano il mondo.A partire dall’Exposition Universelle de Paris del 1889 - in cui venne costruita in poco più di due anni la Torre Eiffel - l’interesse per questo

modello di manifestazioni che si propongono di rappresentare il mondo, è andato scemando conseguentemente alla crisi della fiducia nel-le sorti magnifiche e progressive dell’umanità, delle ideologie e delle religioni. L’unica religio-ne sopravvissuta al crollo dei valori del seco-lo passato, e oggi universalmente vincente, è quella del Dio Danaro. Ci sarebbero anche altri valori che dovrebbero essere comuni a tutti gli uomini e gli animali, ad esempio il diritto al cibo, argomento che rien-tra a tutti gli effetti nel tema dell’Expo. Ma non un diritto teorico, astratto, neutrale, perché se i paesi ricchi sprecano ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo e nel resto del mondo le per-sone denutrite nel biennio 2010-12 erano 870 milioni (dati Expo), non si può certo dare la col-pa al destino cinico e baro. Vedremo se qualcuno presenterà anche qual-che proposta seria e operativa che non sia solo enogastronomica. Ci sarebbe anche un altro diritto: quello di esse-re pagati quando si lavora ma, ancora una volta, a farne le spese sono i giovani. A loro Expo “ha offerto l’opportunità di fare i volontari”, 5.30 ore al giorno per 14 giorni per «fare un’esperienza unica e irripetibile in un contesto, internazionale, multiculturale e mul-tilingue che sarà un percorso formativo e di cre-scita». Ai fortunati che hanno superato i test di valutazione di un “programma di formazione on-line”, sono forniti: un Volunteer Kit (cappelli-no e divisa), un pasto giornaliero e un rimborso delle spese - documentate - per i trasporti pub-blici (fino ad un massimo di 55 euro). Inoltre, grazie al progetto “Accomodation”, il volontario potrà ospitare - gratuitamente - altri volontari presso il proprio domicilio. Un vero affare!

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POLITICHE CULTURALI

CAFE’ DE LA PAIX (ETERNA)

Ritorniamo sul problema dell’annunciata chiu-sura del Cafè de la Paix, attivo circolo privato nel centro storico di Trento, non per difendere un’utile attività economica e culturale di giova-ni, ma per delle semplici considerazioni di op-portunità sociale, culturale e urbanistica.A seguito delle continue accuse di arrecare di-sturbo alla quiete pubblica e dopo continue e ripetute scaramucce con gli abitanti della zona e, di conseguenza, con l’Amministrazione co-munale, i titolari del locale hanno gettato la spugna annunciando la chiusura entro maggio.Non si sa se sia un tentativo di pressione per far rivedere le decisioni alla nuova giunta, oppure sia un vero e proprio addio.Gli abitanti del quartiere che gravitano sulla piazzetta interna saranno sicuramente contenti della pace e del silenzio conquistati. Vedremo se tra qualche mese, con il locale chiuso, le luci spente, la presenza di soli balordi interessati ad attività più o meno lecite, chi dovrà transitare di notte per gli androni deserti e isolati di via Suffragio sarà così soddisfatto della situazione. Usufruire di un presidio fisso frequentato ga-rantisce - a costo zero - quella sicurezza sociale che i cittadini ormai mettono al primo posto.Allarmismo gratuito? Niente affatto, come di-mostrano altre zone lasciate andare e ora dif-ficili da recuperare. Certo è che un locale, pre-valentemente frequentato da giovani (ma non solo), in cui si mangia, si beve all’aperto, si sen-te musica, si fanno incontri e chiacchiere per il piacere di tirar tardi, non può chiudere alle dieci di sera: è l’ora in cui cominciano ad aprire nelle altre città italiane e Trento, città universi-taria, si fa ridere dietro. L’ovvia risposta è che anche i vicini hanno i loro

diritti: gli interessi privati di un locale non pos-sono ledere il diritto ad una vita calma e al meri-tato riposo. Certamente sentire tutti i giorni un chiacchiericcio o, peggio, uno schiamazzo sotto le finestre di casa non è piacevole e, per alcuni, insopportabile. Purtroppo, se la logica è quella di garantire sempre, solo, comunque e dovun-que la massima tranquillità, non c’è soluzione. O se ne va il circolo o se ne vanno i residenti. Nel primo caso, però, bisogna sapere che il cen-tro storico sarà condannato ad accogliere solo uffici e negozi che chiuderanno alle 19 e che so-pravvivrà solo la ricettività al chiuso. E che, se la città si svuota, ci saranno sempre meno ragioni per frequentarla dopo le ore diurne. Ancora oggi Trento, capoluogo di 115mila abi-tanti, è descritto dai giovani, trentini e non, come una città morta. Addio aspirazioni e pro-getti su Trento città turistica, città universitaria, città mitteleuropea della cultura, del turismo, cerniera tra nord e sud ecc. Forse il suo destino sarà quello di luogo desti-nato al tempo libero e al riposo dei pensionati, come le stazioni termali di fin de siècle in cui si respirava il tramonto di un’epoca.

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Intervista a ROMANO FURLANI

In basso: Verticali, 1988, acrilici su tela,78x106 cmA sinistra: Senza titolo, 2012, acrilico su carta70x50 cm

Potrà sembrare strano, ma molta pittura astratta è più affine alla musica (la più astratta delle arti) che alla pittura figurativa: mentre quest’ultima fa sempre riferimento a dei contenuti e a delle forme esplicite, l’arte astratta è autoreferenziale, parla di sè e del suo linguaggio. In questo senso, il colore e le sue modulazioni sono come suoni che vibrano sulla tela ed entrano in risonanza con l’osserva-tore suscitando emozioni, empatia e piacere estetico. Non concetti. L’arte astratta non si deve capire ma si deve “sentire” attraverso gli occhi. Romano Furlani è un poeta del colore perchè attraverso i suoi delicati e luminosi acquerelli riesce a comunicare il suo mondo interiore e gli stati d’animo senza dover ricorrere ad altro che non sia il pigmento utilizzato in mille modi e sfumature. La sua è una pittura di astrazione pura, “naturalisti-ca”, ma non in quanto raffiguri una realtà fisica ma perché, affidandosi completamente alla parte emozionale, esprime in modo diretto e non mediato il senso del meraviglioso che si prova di fronte alla bellezza della natura. Le gamme delle sue tinte trasparenti e cangianti, tenui o vivacissime, le fasce fluttuanti, le ampie pennellate liquide sovrapposte, più vicine alla meditazione Zen che non alla pittura informale o gestuale, coinvolgono chi sappia accostarle con l’occhio sgombro da sovra-strutture mentali e sia capace di provare lo stupore di fronte all’essenza delle cose. In fondo, è una pittura “naturalistica” anche perché Romano ha conquistato tutto da solo, cercando, provando e riprovando: ogni sua opera nasce da una faticosa ricerca intima che gli ha permesso di essere “naturale”, leggero, libero dal peso delle convenzioni dell’arte ufficiale.

Paolo Tomio

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Visione, 2014, pigmenti su carta, 70x100 cm (particolare)

Quando e perché hai cominciato a interessarti all’arte e dedicarti alla pittura?

Dal 1963 al 1964, a Roma, ho frequentato mu-sei e gallerie, studio libero del nudo. Non aven-do visto niente prima di allora, è stata una corsa frenetica, per conoscere, per capire. Un giorno a vedere la scultura Greca, un altro i sacchi di Burri, tutto in fretta; c’è voluto molto tempo per comprendere quello che avevo visto.

Tu sei un autodidatta: quali sono i vantaggi e gli svantaggi a dover fare tutto da solo?

Molti svantaggi, mi è mancata la parola del Maestro, l’esperienza trasmessa all’allievo. An-

che per le cose semplici, i piccoli problemi, si è costretti a fare e rifare più volte la stessa cosa. L’insicurezza è costante, si guarda in tutte le di-rezioni, forse per questo, si possono avere intu-izioni istintive date dalla necessità.

Ci sono stati artisti o correnti artistiche che ti hanno influenzato?

Tutti i segni dell’uomo, dalle caverne all’arte di-gitale. La conoscenza degli artisti nei primi anni è stata lenta, non c’erano molte riproduzioni a colori, e abitando in un piccolo paese di provin-cia, si accumulava un certo ritardo. Mi hanno influenzato gli espressionisti, i cubisti, i futuri-sti, l’Action Painting, Franz Kline, ecc.Per il colore Rothko, Newman, Noland, Stella,

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Albers, Morris Luis. Mi convincevano quegli ar-tisti che trasferivano nelle opere energia, sia nel costruire che nel distruggere.

Nel corso della tua carriera, hai conosciuto arti-sti locali o nazionali?

Conosco il lavoro degli artisti, sia locali che na-zionali, ma non ho avuto molte frequentazioni. Abito in un paese di montagna ed è stato più difficile avere contatti. Negli anni ottanta ho frequentato la stamperia di Maurizio Giongo e Gloria Canestrini a Rovereto. In quel periodo ho collaborato, nello studio di Folgaria, per tre estati con il Maestro Giovanni Korompay. Espe-rienza per me importante, specialmente per il colore.

(particolare), 2013, pigmenti su carta,70x50 cm

Hai avuto un periodo figurativo tradizionale o hai subito cominciato a sviluppare un tuo lin-guaggio astratto?

All’inizio facevo copia dal vero, esercizi, studi della figura. Dopo qualche anno ho iniziato a scomporre il paesaggio, la figura. In quegli anni non c’era la possibilità di essere molto informa-ti, non c’erano molte riproduzioni a colori, e ci si trovava sempre in ritardo con quello che acca-deva nell’ambiente artistico internazionale. Di-pingevo paesaggi visti dall’alto, che sembrava-no opere astratte, che potevano ricordare Klee.

Come definiresti il tuo stile? Quali sono, secon-do te, le caratteristiche che ti rendono ricono-

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Senza titolo, 2005, vino e verderame su carta, 25x23 cm

scibile?

Non penso di avere uno stile. Mi comporto come un sismografo che traccia dei segni nel vuoto. Le verticali, le orizzontali, danno origine ad un alfabeto sconosciuto. Certamente ti sei accorto, che non pratico molto il parlare e lo scrivere, ma il silenzio si è trasformato in segno, le parole non dette si sono concretizzate in rit-

mi, calligrafie.Dal 1984 ho iniziato a fare delle strisce di colore che attraversano la superficie del quadro. Que-ste fasce cromatiche “Segnocolore” non piatte, ma che comunicano le vibrazioni, le emozioni dell’autore.

Qual è la tecnica artistica che utilizzi principal-mente nella tua attività?

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Orizzontale verticale, 1998, acrilici su tela, 42x52 cm

Principalmente uso resine acriliche e pigmenti, il supporto carta o tela perfettamente in piano, i colori liquidi. Uso anche olio e smalti molto li-quidi, solo all’aperto d’estate.

Da dove nasce il tuo amore per i pigmenti che utilizzi per dipingere?

Nel 1989 a Monaco in un negozio di soli pig-menti mi fu spiegato quali erano, coprenti, tra-sparenti, puri o mescolati a polvere di marmo. Da allora mi preparo i colori, sembra una per-dita di tempo, ma invece mi aiuta a riflettere, a preparare l’opera fuori dalla tela.

Ho iniziato ad usare le trasparenze, le velature, la qualità dei colori fa la differenza.

Le tue opere sono fondate sul colore. Cosa rap-presenta per te?

Ho disegnato molto, poi il colore ha voluto i suoi spazi, il colore per me è tutta la storia della pittura. E’ la disperazione del pittore, è lì, che promette risultati e poi sfugge, si prende gioco del pittore e a ognuno fa vedere i propri limiti.

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Situazione indefinita,1990, acrilico e pigmenti su tela, 103.5x75 cm

Ti sei anche applicato alla litografia che hai im-parato dal solo.

Nel 1972 a Venezia “la Biennale” presentò a Cà Pesaro “Grafica d’oggi”. Fui attratto dalla li-tografia per i risultati che si possono ottenere. Mi sono procurato la prima pietra e un torchio

Krause. Per un pittore disegnare, dipingere su una pietra da stampa è un’esperienza che è uti-le fare. Scomporre manualmente, ricomporre un’opera, aiuta ad arrivare all’essenziale. La pri-ma pietra, continuando a provare, l’ho consu-mata, poi, tornato a Venezia con Maurizio Gion-go, ho trovato alla Giudecca un buon numero di pietre. La litografia usata da grandi artisti, da

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Colore del vino, 2003, vino su carta, 70x100 cm

noi sembra dimenticata. Negli USA al Tamarind Institute si insegna e si pratica, si vedono cose nuove. Al Mart, in questo periodo sono esposti manifesti della “Grande Guerra” realizzati ma-nualmente e stampati da pietre litografiche, an-drebbero visti con particolare attenzione verso quest’arte ormai perduta.

Cosa ti interessa rappresentare nelle tue tele?

Un diario di segni, colori, situazioni, cose non chiare, dire, non dire, fare, cancellare. L’energia del colore a contatto con diversi materiali. Cam-bio spesso supporti per permettere al colore di adattarvisi e ottenere nuovi risultati.

Oggi, quali sono gli artisti contemporanei che ti piacciono?

Mi interessano artisti trasgressivi, sia figurativi che astratti, specie tedeschi: Kiefer, Penck, Ba-seliz, Gerhard Richter, ecc.

Come mai hai rinunciato alle potenzialità che ti aveva offerto il mercato tedesco?

Istinto di sopravvivenza! Ho avuto la sensazione che il mio curriculum finiva lungo l’autostrada. Per me, abituato al ritmo delle stagioni, vivere a contatto con la natura, in poche ore di viaggio, mi trovavo in un ambiente così diverso anche nel percepire la pittura. Anni di lavoro, sacrifici, per poi dipendere dal telefono: l’ho spento.

Come ti sembra il panorama dei pittori trentini d’oggi?

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Segnocolore, 2007, acrilico e pigmenti su carta25x23 cm

Non sono in grado di dare un giudizio, non co-nosco abbastanza la situazione. Ho fiducia in al-cuni giovani, fortunati che hanno la possibilità, la voglia di muoversi fuori provincia.

Segui la “politica culturale” trentina? Pensi che si possa fare di più o meglio per il settore arti-stico?

Mi tengo informato abbastanza di quello che succede nella cultura trentina. Sicuramente si può fare di più, a meno che non ci sia un pro-getto di sfoltimento degli artisti meno convinti.

Cosa manca al Trentino per poter essere più presente sul mercato esterno?

Non te lo so dire. So cosa è mancato e manca

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a me. L’inglese, la facilità nel viaggiare, nei con-tatti, liberarsi dal peso delle montagne, cammi-nare leggeri.

Cos’è la bellezza? E’ un valore che ricerchi o è subordinato ad altri valori?

Colore su colore, 2011, acrilico e pigmenti su carta 70x50 cm

Per me la bellezza non è sempre visibile, si può intuire. In pittura la bellezza appartiene al pas-sato, oggi dire che bel quadro è un limite. In pit-tura cerco di trasferire energia, tensione, ritmo, poi mi ritrovo con un bel colore. Della bellezza è difficile farne a meno.

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Stupirsi del colore, 2014, pigmenti su carta, 70x50 cm

Chi è l’artista?

Può essere artista un artigiano, un operaio, un contadino che fanno il loro lavoro con passione, con leggerezza, senza sforzo, senza fatica. Per un pittore, scultore, è difficile dire da dove ini-zia l’arte, l’artista.

Lasciare il segno, 1990, acrilico su tela, 140x104 cmE, per finire, cosa è per te l’arte?

Io non la chiamo arte, troppo impegnativo: la chiamo “pittura”. Questo “fare pittura” mi se-gue da molto tempo, una compagna di viaggio esigente, che non mantiene le promesse, che ogni giorno pretende qualcosa.

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ROMANO FURLANINato a Vattaro nel 1941, ha iniziato come autodidatta verso gli anni Sessanta. Si è trasferito a Roma dove per un certo periodo ha frequentato l’ambiente artistico della capitale. Verso la fine del decennio compie dei viaggi di studio a Venezia, Milano e Parigi per approfondire il lavoro delle avanguardie storiche. Espone nel 1969 a Rovereto presso il Circolo Roveretano. Le sue ricerche si indirizzano verso l’approfondimento delle possibilità cromatiche e geometriche. Nel 1980 realizza in proprio una serie di litografie e nel 1985 abbandona il geometrismo e si dedica all’acquerello per approfondire le nuove ricerche verso un morbido grafismo steso per fasce cromatiche.Tra le personali si segnalano anche quella alla Galleria Mirana a Trento nel 1970, Galleria “Nuovo Spazio” Folgaria nel 1971, alla Galleria Pancheri a Rovereto nel 1973; allo Studio Andromeda di Trento nel 1980; a Castel Vigolo nel 1987; alla Galerie Croon di Monaco nel 1989; alla Dannenberg Gallery di New York nel 1990; alla Gallerie Ruf di Monaco nel 1992; al Mart Palazzo delle Albere nel 1993; all’Istituto Italiano di Cultura di Monaco nel 1994; Palazzo Festi (Teatro Sociale) di Trento nel 2004; Tra le collettive si segnalano: Galleria “Il Brandale” di Savona nel 1983; “Situazioni”, M.A.R.T. Palazzo delle Albere nel 1988; Palais Liechtenstein di Feldkirch (A) nel 1990; alla Frankfurter Westend Galerie di Francoforte nel 1992; alla Dannenberg Gallery di New York nel 1992; Gallerie Ruf di Monaco di Baviera nel 1993; alla Galerie Roesinger di Colonia nel 1993; “Incontro con la grafica”, Palazzo Geremia di Trento nel 1995; “Correnti & Arcipelaghi” a Castel Ivano nel 1995; Galerie Katia Rid di Monaco nel 2000; “Inciso tra memoria e presente”, Palazzo Libera, Villa Lagarina, nel 2000; “Arte Trentina del

‘900” 1975-2000 a Palazzo Trentini, Trento, nel 2003; “RenArt” a Palazzo Trentini, Trento, nel 2007; “Viaggio nell’ombra”, Studio 10 di Malcesine, nel 2010; “Sperimentazioni Blu” Studio 10 di Malcesine, nel 2010.Studio e abitazione a Vattaro Tel 0461-848457... L’opera d’arte deve essere come l’iceberg: nel risultato del fare artistico si intravvede solo una piccola parte della conquista interiore. Questo era quanto voleva indicare Kandinskij con il suo libro “Dello spirituale nell’arte”. Kandinskij non ha infatti, inventato I’arte astratta (della quale, a ben guardare, si conoscono tanti precedenti) egli ha solo posto il problema (che del resto è comune anche all’arte figurativa e già Itten lo ha ben rilevato) fondamentale che è quello di aggredire, nel proprio specifico, con i mezzi quindi, della pittura(nel nostro caso) la difficile salita di tanti gradini per i quali I’uomo mette meglio a fuoco Ie sue esperienze, si affina, passa in definitiva, da una routine oggettiva ad una valutazione utopica di orizzonti più lontani: Ià dove si misura iI tempo con un orologio senza lancette, dove Ia retta è curva e contorta, I’entropia impoverisce I’energia del cosmo e Ia mente umana si sperde nell’intuizione del caos. Per questo Furlani, spesso istintivamente o quasi inconsciamente, da parte di coloro che lo guardano, seguono e stimano, ha trasmesso le coordinate del suo operare che non sono solo quelle metodiche del pittore professionista(progetto, processo, fattualità e attualità) ma achievement (raggiungimento) di una attualità astratta, perché invisibile, ben viva sotto le onde dell’Oceano ma che non appare in superficie. Che I’osservatore deve svelare oltre i segni, macchie, spaziature, schizzi, tracce di colore, invenzioni di nuvole o oggetti metafisici, tutto ciò che costituisce I’oggetto retinico (Duchamp) per mettersi in sintonia con quello che all’artista sta più a cuore e che non troverebbe parole per dire. (Furlani, infatti, resta di rara taciturnità). A che punto poi si trovi nel suo lungo trasbordo, non sarebbe facile identificare, tuttavia ci resta la possibilità di notare un grosso distacco già in questo momento, fra lui e i suoi compagni di cordata. 1994 Luigi Serravalli Critica: Pacher, G., Sandri, R., Eccher, D., Degasperi, F., Serravalli, L., Cossali, M., Bernardi, P., Goedel, M., Bertel, F., Schicktanz, C., Herzog, U., Francescotti, R., Nardi, A., Canestrini, G., Scudiero, M., Turrina, R., Rizzioli, E., Helinolt, C. Nicoletti, G.

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FIDAart copertina del N.6 2015

Periodico di arte e cultura della FIDAart

Curatore e responsabile

Paolo Tomio

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Tutti i numeri 2012-2013-2014-2015

della rivista FIDAart

sono scaricabili da:

www.fida-trento.com/books.html

Tutti i numeri 2012-2013-2014-2015

della rivista FIDAart

sono sfogliabili su:

http://issuu.com/tomio2013

FIDAart

Il 23 maggio, all’età di ottantasei anni, è morto il matematico John Nash, premio Nobel dell’Econo-mia nel 1994, rimasto ucciso insieme alla moglie a causa della perdita del controllo del mezzo da parte dell’autista del taxi su cui i due stavano viaggiando senza cinture di sicurezza. La coppia stava rientran-do a casa dalla Norvegia, dove lo scienziato aveva rtirato il prestigioso premio Abel per la matematica. John Nash, ritenuto tra gli scienziati più brillanti e originali del Novecento grazie agli studi di matema-tica applicata alla teoria dei giochi che hanno rivo-luzionato l’economia, era divenuto famoso anche presso il grande pubblico dopo che la sua vita era stata raccontata (e romanzata) dal regista Ron Ho-ward nel film “A Beautiful mind” (Una bella mente). Interpretato da Russell Crowe e premiato con un Oscar, vi si racconta di come Nash avesse sofferto per lungo tempo di una grave forma di schizofrenia.Quale sia il rapporto tra l’arte e un matematico, o meglio la matematica, è abbastanza intuitivo per quanto riguarda l’architettura, la musica e anche tutta l’arte classica le quali obbediscono a regole di proporzioni e di misure secondo canoni geometrico-matematici: vedi l’uomo Vitruviano di Leonardo o la sezione aurea (la divina proportione), chiave mi-stica dell’armonia nelle arti e nelle scienze. Meno evidente, ma pur sempre fondamentale, il legame con le avanguardie del ‘900 e l’arte contemporanea: la geometria di Mondrian, la teoria della forma di Klee, la musica e Kandinskij, Malevich, Albers, Bar-nett Newman, Reinhardt, Castellani, Boetti, Merz, Kapoor, l’arte cinetica, il minimalismo, su su fino alla computer art, ai frattali ecc. La teoria del caos è la chiave interpretativa dello stesso “dripping” di Pollock, figlio delle teorie junghiane e surrealiste ma anche della relatività eisteniana.

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MERCATO DELL’ARTE ?

ED RUSCHA (1937) “SMASH”, 1963, olio su tela, 182x170 cm, stimato 15-20 milioni $ e venduto nel 2014 da Christie’s New York a $ 30.405.000 (€ 24.437.390) (vedi dettaglio a pag.30). Ed Ruscha, artista americano vivente di 78 anni, è un nome sconosciuto al grande pubblico e, probabilmente, anche a molti addetti ai lavo-ri. Pur avendo partecipato nel 1962 insieme a Roy Lichtenstein e Andy Warhol alla mostra considerata una delle prime manifestazioni di “Pop art” in America e presentato nel 1973 la sua prima personale alla galleria di Leo Castelli a New York, Ruscha è rimasto finora ai margini delle grandi quotazioni. Per questa ragione, i 30 milioni di dollari battuti alla fine del 2014 per “Smash”, una tela del 65-6, sono inaspettati. “Burning gas station” (vedi pag.21) di dimen-sioni più piccole ma certo più interessante, era stata battuto nel 2007 da Christie’s per poco

meno di 7milioni di dollari. Anche altre opere come “Baltimore Oriole Securing Frehwater Fish” del 1965 e “Mint (Red)” del 68 (vedi pag. a 29, 30) aggiudicate entrambe nel 2013 per ci-fre inferiori ai 5 milioni rimangono nella media di questo pittore. Non a caso, “Smash”, è stato messo all’asta da Christie con una stima tra i 15 e i 20 milioni; il fatto che il prezzo finale sia ad-dirittura raddoppiato dimostra come, spesso, i meccanismi del mercato siano economicamen-te (oltre che esteticamente) imperscutabili. Edward Ruscha, dopo il diploma in arte conse-guito nel 1960 a Los Angeles, ha lavorato fino al 69 come impaginatore, prima per un’agenzia pubblicitaria e poi per la rivista Artforum. Inte-ressato alla fotografia, al disegno, al cinema, ai libri d’artista, dopo l’incontro con la Pop Art Ru-scha sposta i suoi interessi dalla grafica alla pit-tura vera e propria o, sarebbe meglio dire, alla grafica dipinta. La sua caratteristica principale, infatti, è quella di utilizzare sui dipinti delle pa-role o brevi frasi che richiamano esplicitamente i loghi e gli slogan della pubblicità e della gra-fica commerciale. Il suo “Smash” da 30milioni di dollari potrebbe essere benissimo il logo di un detersivo, mentre “Mint” (vedi a pag. 29) il poster di cioccolatini ripieni di crema alla men-ta. Al contrario di Warhol che, negli stessi anni, recuperava le icone della cultura popolare e consumistica di massa (la “Big Campbell Soup”) riproponendole poi uguali, Ruscha cominciava a inventare un mondo composto da sue figure e parole che dovevano diventare le nuove icone. Il lavoro di Ruscha si differenzia da quello dei suoi omologhi di New York anche per l’influen-za del clima culturale di Los Angeles, dei piatti paesaggi californiani con i boulevard, le auto-strade, le architetture, i cartelloni stradali e il cinema di Hollywood.

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ED RUSCHA, “Burning gas station”, 1965-66, olio e grafite su tela, 52x99 cm, Christie’s New York, 2010

venduto a 6.985.000 $ (€ 4.784.500)

ED RUSCHA, “Sex at Noon Taxes”, 2002 acrilico su tela, 162x193 cm, Phillips New York 2010

venduto a 4.338.500 $ (€ 3.118.000)

ED RUSCHA

Se alcune opere del 65-66 come quella dell’evo-cativa stazione del gas che brucia sono innova-tive nella composizione prospettica, stimolan-ti e provocatorie nei riferimenti ad una realtà socio-economica dell’”american life”, non al-trettanto sembra di poter dire dell’abusata ban-diera degli Stati Uniti: una monumentale “Stars and Stripes” lunga tre metri, rappresentata con una tecnica iperrealistica mentre svento-la contro il tramonto infuocato (o sarà anche lì un incendio?) e intitolata “Our Flag”, “La nostra Bandiera”. Ma, poichè la vista rappresentata è in realtà il “posteriore” della bandiera, cioè il rovescio della faccia normalmente offerta, vi si intuisce una sottile critica dell’artista a un certo tipo di iconografia patriottica.Anche se molte delle sue opere minimaliste in cui sono riportate parole simboliche, onomato-peiche o ironiche su sfondi monocromi risulta-no piuttosto ripetitive e scontate, è prevedibi-le un’impennata dei prezzi di questo maestro superstite dell’epoca d’oro del Pop americano, oggi premiato dalla critica e dal mercato.

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STORIA DELL’ARTE BUGATTI 1936 Type 57SC ATLANTIC

Una delle due Bugatti 1936 Type 57SC Atlantic esistenti al mondo (degli unici tre esemplari re-alizzati dal costruttore) è stata acquistata l’anno scorso dal Mullin Automotive Museum di Ox-nard, California, per la cifra record di 20milioni di dollari. L’a seconda Atlantic, di colore nero, è di proprietà dello stilista Ralph Lauren.Una fuoriserie nata nel 1936 e prodotta fino al 1938 derivata dalla berlina Type 57 dove la “S” in 57SC significa surbaissé, in francese “abbas-sata”, e “C” sta per compressore. Malgrado la venerabile età - 80 anni - l’Atlantic è modernis-

sima, un vero gioiello elegantissimo nelle linee della carrozzeria nate dal felice connubio tra lo stile Art déco e l’industria aeronautica. Il sinuo-so coupé, progettato da Jean, uno dei figli di Ettore, l’italiano fondatore della Bugatti, è facil-mente riconoscibile per la cresta che percorre la mezzeria della carrozzeria e per le linee filanti che si chiudono nella coda a goccia in cui è na-scosta la ruota di scorta. L’aggressiva e aerodi-namica fusoliera centrale che racchiude il vano motore, i parafanghi anteriori esterni carenati e collegati al corpo vettura da alettoni, le ruo-

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STORIA DELL’ARTE

te posteriori mascherate, gli sportelli sportivi e impraticabili, tutto contribuiva a rendere unico questo bolide pubblicizzato da Bugatti come “l’auto più veloce nel mondo”.Il disegno derivava direttamente dalla Bugatti “Aerolithe Electron Coupe”, un prototipo pre-sentato nel 1935 al Paris Auto Salon e costruito in Electron, un materiale a base di magnesio usato per gli aerei, leggerissimo ma altamente infiammabile. Non potendo essere saldate pro-prio per questa ragione, le scocche della carroz-zeria erano accostate e assemblate tra di loro mediante rivetti lasciati a vista.Per l’Atlantic, Jean Bugatti aveva deciso di utiliz-zare al posto dell’Electron una lega di alluminio che permettesse la saldatura, pur mantenendo le necessarie caratteristiche di leggerezza e so-lidità. Nonostante avessero perso lo scopo ori-ginario, le creste longitudinali rivettate venne-ro mantenute per motivi puramente estetici e questa fu una scelta felice dato che quelle linee che dividono in due il parabrezza, il lunotto po-steriore e corrono lungo i parafanghi, contribui-scono a rendere la vettura inconfondibile.La Bugatti Atlantic è il risultato degli studi con-dotti sull’aerodinamica in seguito all’invenzione della galleria del vento, considerata una delle

auto più significative e preziose del mondo che ha ispirato molte delle automobili che sarebbe-ro seguite oltre che un capolavoro dell’Art déco francese, lo stile eclettico modernista dell’epo-ca. Ma anche dal punto di vista della meccanica è una vettura estremamente avanzata: rispetto alla berlina, il telaio era stato ribassato e il mo-tore 8 cilindri in linea da 3250 cc di cilindrata permetteva di raggiungere una velocità massi-ma, eccezionale per quei tempi, di 210 km ora-ri. Purtroppo, il rombo era tale da impedire ai passeggeri qualsiasi conversazione oltre i 60 km orari.Una berlinetta sportiva, spartana e riservata a veri appassionati: l’accesso all’abitacolo era estremamente difficoltoso, la visibilità ridottis-sima a causa della posizione di guida e la con-formazione dei finestrini. Inoltre, con il sole, la scarsa aereazione e l’alluminio della carrozzeria causavano un calore interno talmente insop-portabile da renderla impossibile da guidare. Come e più di tante altre opere d’arte, questa “scultura plastica” è una testimonianza che co-glie e rappresenta perfettamente lo spirito di quell’epoca di pionieri affascinati dalla velocità e dalla modernità che oggi appaiono coraggiosi e ingenui in modo commovente.

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TIHE WILD WILD DENIM

Non tutti sanno che il tessuto in cotone (blu o di tutti gli altri colori) con cui sono confezionati i jeans, si chiama “denim”, un tipo di tela molto robusta usata per i calzoni da lavoro di color in-daco indossati dai marinai genovesi e cuciti con la tela di Nîmes (“de nimes” e poi “denim”).Il termine “jeans”, invece, si riferisce al taglio del pantalone unisex a 5 tasche, di cui le poste-riori cucite sopra la stoffa. Questo particolare indumento da lavoro dotato di cuciture rinfor-zate da rivetti di rame è stato inventato dal sarto ebreo lituano Jacob Davis immigrato negli Stati Uniti, e brevettato nel 1873 da Davis in socie-tà con un venditore di tessuti, l’ebreo bavarese Levi Strauss. Nel 1890 è stato messo in vendi-ta il primo modello di jeans Levi Strauss 501 da cui ha avuto inizio l’epopea dei blue jeans - due miliardi di capi prodotti nel mondo ogni anno - una delle icone giovanili più importanti

della storia americana e mondiale. Un oggetto d’uso, semplice, razionale ed economico che, nel corso del tempo si è caricato di significati e di simboli in modo assolutamente impreve-dibile perché legati alla rivoluzione dei costumi e ai nuovi stili di vita esportati dagli Stati Uniti attraverso i film di James Dean, Marlon Brando, Marylin Monroe, Paul Newman ecc. Malgrado siano nati come abiti da lavoro e di grande serie destinati a minatori, operai e cow boy, il denim dei blu jeans quando lavato e con-sumato dal tempo (oggi artificialmente) assu-me il suo particolarissimo colore: il blu-azzurro dell’indaco (“indigo”, in inglese), un colorante ricavato da una pianta dell’India sostituito alla fine dell’800 dai coloranti sintetici. Il denim, infatti, viene tinto quando è ancora filo, prima della tessitura, e il colore si depone all’esterno dei fili lasciando bianco naturale l’interno: per questa ragione scolora migliorando col tempo e con i lavaggi. Il suo caratteristico effetto bi-colore deriva dal tipo di tessitura: innanzitutto, solo l’ordito è colorato mentre la trama (il fila-to orizzontale) resta bianco; secondariamente, l’armatura in diagonale (cioè il modo di intrec-

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TIHE WILD WILD DENIM INDIGO JOE

ciarsi dei fili di ordito con quelli della trama) in cui un filo di ordito passa sopra un filo di trama e poi sotto due, ottenendo un disegno obliquo.Il denim blu è stato il materiale con cui Joseph Jackson, da tutti chiamato Indigo Joe, operaio afroamericano, ha avuto a che fare per tutta la vita lavorando in tintoria, al taglio e alla cucitu-ra dei jeans nelle fabbriche Levi’s di S.Antonio, sobborgo di S.Francisco. Questa sua profonda conoscenza di un materiale che aveva impa-rato ad apprezzare, lo ha spinto a riutilizzarlo nel suo tempo libero cucendo tra loro parti di denim recuperato dagli sfridi in fabbrica e sot-toposti a trattamenti meccanici o chimici di sua invenzione. Con una macchina da cucire Singer sistemata nell’interrato di casa occupato da cataste di pezzi di blue jeans, Indigo Joe ha pazientemente creato in quasi quaranta anni centinaia di opere in denim sempre più apprezzate, inizialmente come oggetti di artigianato e più recentemente, come vera arte popolare figlia della storia dei

neri americani. Nel corso degli anni le iniziali composizioni geometriche ed elementari sono diventate via via più complesse fino a raggiun-gere uno stile assolutamente personale. Oggi alcune composizioni di Indigo Joe, in particola-re le ultime, i “Rings of the Gold Rush”, caratte-rizzate da disegni ellittici o circolari concentrici, molto decorative ed evocative, sono sempre più ricercate dai collezionisti anche fuori dagli stati del West. Nel 1980, la Levi Strauss & Co aveva negli Stati Uniti 63 stabilimenti di produzione, nel 2004 ha chiuso gli ultimi due impianti di cucito rimasti a San Antonio spostando tutta la produzione in Cina e India e mandando a casa qualche miglia-io di operai, tra cui Jackson. La libertà involontariamente acquisita non è stata goduta a lungo da Indigo Jo, operaio-ar-tista, che è morto l’anno successivo proprio a causa del “suo” denim responsabile delle gravi malattie respiratorie contratte per non aver mai fatto uso di mascherine sul luogo di lavoro.

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News dal mondo

ED RUSCHA

ED RUSCHA

ED RUSCHA

ED RUSCHA

Omaggio a ED RUSCHA

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“SMASH”, 1963

“MAH, 2015

“BALTIMORE ORIOLE”, 1965

“SENZA TITOLO” (Our Flag), 1985

“MINT” (Red), 1968

Febbraio 2015, Anno 4 - N.6

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ED RUSCHA, SMASH, 1963, olio su tela, 182x170 cmChristie’s New York, 2014, venduto a $ 30.405.000(€ 24.437.390)

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ED RUSCHA, MINT (Red), 1968, olio su tela152x140 cm, Christie’s New York 2013

venduto a $ 4.827.750 (€ 3.750.500)

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30ED RUSCHA, BALTIMORE ORIOLE SECURING FREHWATER FISH, 1965, olio su tela, 150x140 cm Sotheby’s 2013 venduto a 4.757.000 $ (€ 3.681.000)

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31ED RUSCHA, SENZA TITOLO (Our Flag), 1985

olio su tela, 137x307 cm, Christie’s New York 2014, venduto $ 4.197.000 (€ 3.120.446)

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QUOTA DI ISCRIZIONE PER L’ANNO 2015

E’ stata mantenuta la quota d’iscrizione di euro 50.00 Il versamento dovrà essere effettuato con la causale: ISCRIZIONE ANNO 2014

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MEMORANDUM

PAOLO TOMIO, Omaggio a ED RUSCHA,“Mah”, 2015 fine art su tela, 300x210 cm

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