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HOMO FABER FORTUNAE SUAE Se tutti gli italiani pagassero le tasse saremmo fritti: non ci resterebbe più nulla in cui sperare. Altan Anno II_numero 11 Febbraio 2012

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Faber Febbraio

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HOMO FABER FORTUNAE SUAE

Se tutti gli italiani pagassero le tasse saremmo fritti: non ci resterebbe più nulla in cui sperare.

Altan

Anno II_numero 11Febbraio 2012

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Direttore responsabileAmelia Beltramini

EditoreAps FaberVia Cimarosa, 26 - 20144 Milano

RedazioneLorenzo Aprigliano,Silvia Aprigliano,Alessandro Baggia,Bertone Biscaretti,Nicolò Cambiaso,Francesca Carta,Maddalena Cirla,Marco Gardenale,Andrea Gavazzi,Giovanni Liva,Caterina Lurani,Matteo de Mojana, Filippo Montalbetti,Eva Moriconi,Debora Peters,Alessandro Sarcinelli,Marcella Vezzoli,Orlando Vuono,Chiara Zancan

CollaboratoriTaddeo Mecozzi

Progetto_graficoLorenzo Aprigliano[[email protected]]http://cargocollective.com/papalawrence

DisegnatoriCosta,Stefano Santamato

CopertinaStefano Santamato

Questo giornale, con la sua massa di parole, è stato prodotto in qual-che decina d’ore da un gruppo di persone non infallibili, che la-vorano con pochi mezzi in una minuscola redazione e cercano di scoprire cosa è successo nel mon-do da persone che a volte sono riluttanti a parlare, altre volte op-pongono un deciso ostruzionismo.Tuttavia sarete sorpresi di scoprire che gli articoli qui presenti non sono frutto di compromessi coi proprietari e gli inserzionisti, in quanto stranamente né gli uni né gli altri esistono.[di David Randall da “Il giornalista quasi perfetto”]

[email protected]@fabergiornale.it

www.fabergiornale.it

RegistrazioneRegistrazione presso il Tribunale di Milano n. 576 del 5/11/2010

Anno IINumero 11

Centro StampaLoretoprint, la tipografia digitaleVia Andrea Costa, 7 - 20131 MilanoTel. 02 2870026 (r.a.)[[email protected]]

Corispondenti dall’esteroAnna Crosta,Giulio di Rosa,Chiara Francavilla,Erica Petrillo

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Non ce la fanno proprio, è più forte di loro. Proprio non ci riescono a stare quieti, distesi, sereni. L'essere tanto esagitati è tipico di due categorie di persone: psicotici e integralisti. Specifico di entrambi è lo sbraitare senza degnarsi di ascoltare le ragioni altrui. I pri-mi, in quanto vittime di una deformazione cognitiva; i secondi, in quanto vittime della presunzione di essere i portatori di una verità apodittica che legittima ad anni-chilire qualsiasi altra declinazione del mondo. Cause differenti conducono a giudizi differenti. Certamente non possiamo deplorare i deliri e le allucinazioni degli psi-cotici, perché sono le conseguenze di un problema clinico. Possiamo e dobbiamo, invece, stigmatizzare i deliri e le allucinazioni degli integralisti. Di quelli cattolici, per esempio. Del gruppo di lefebvriani, copti, adepti di Militia Christi e militanti della Lega Lombarda che il 24 gennaio si è ritrovato a celebrare una messa riparatrice, per esempio. Riparatrice di cosa? Della presunta blasfemia dell'ultimo spettacolo di Ro-meo Castellucci, tenutosi al teatro Franco Parenti. Ma questo folcloristico raduno è stato solo l'apogeo di una lagnanza protrattasi per giorni e giorni. Le grida isteriche che hanno preceduto la messa in scena della rappresentazione teatrale, invocandone la censura, non hanno fatto altro che puntare dei luminosissimi riflettori su un'opera non soltanto innocua, ma addirittura artisticamente mediocre. È lecito chiedersi, in-fatti, se lo spettacolo avrebbe avuto tanto successo senza il clima di caccia alle streghe che è stato creato. Ecco, fermiamoci qui. Siamo o non siamo diversi dagli integralisti? Limitiamoci a deplorare e criticare il loro delirio, anche quando gli schiamazzi intasano i timpani dell'arte. Fortunatamente non siamo tutti dispotici come loro. Altrimenti avremmo potuto chiedere la creazione di un'Area C, dove "C" sta per Cultura. Noi siamo diversi, e, per questo, i nostri nervi e i nostri polmoni continueranno a sopportare, anche se a fatica, il traffico e l'inquinamento integralista sulle strade della cultura.

Orlando Vuono

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Faber_indice

faber_Milano/5AREA C: UNA PROMESSA A METÁ DELL'OPERAdi Bertone Biscaretti faber_Teatro/20

QUANDO IL VOLTO DI CRISTO DIVENTA SPETTACOLOdi Matteo de Mojana

faber_Cultura/24CECHOVIANAdi Francesca Carta e Matteo de Mojana

faber_Cultura/25 RECENSIONE DEL LIBRO “SUITE FRANCESE” DI IRENE NEMIROVSKI di Marcella Vezzoli

faber_l’ultima parola/27RICERCAa cura di Silvia Aprigliano

faber_Milano/10IL BILANCIO COMUNALEdi Andrea Gavazzi e Filippo Montalbetti

faber_Milano/15GENTE CHE VIENE, GENTE CHE VAdi Francesca Carta e Eva Moriconi

faber_Dal mondo/17HEBRONdi Caterina Lurani

faber_Milano/12TANTI VANNO VIA E CHI RESTA?di Giovanni Liva

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AREA C: UNA PROMESSAA METÁ DELL'OPERAa cura di Bertone Biscaretti

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«Partirà la Congestion Charge: chiunque entre-rà nella cerchia dei Bastioni pagherà, sia pur in maniera differenziata secondo il tipo e la cilin-drata dell’autoveicolo.» Così l’allora candidato sindaco Giuliano Pisapia raccontava a Faber uno dei punti fondamentali del suo programma. Era l’aprile del 2011, ma quel racconto l’aveva ripetuto decine di volte fin dall’autunno caldo delle primarie del centro-sinistra. Allora l’unico dei quattro candidati ad aver espresso dubbi sul provvedimento era stato Michele Sacerdoti, che invocava isole pedonali diffuse per tutta la città, ma, come i suoi tre avversari, aveva firmato per il referendum consultivo sul tema.Il quesito era preciso, sintetizzandolo: “volete voi che il Comune adotti un piano di potenziamento di trasporto pubblico e mobilità pulita, attraverso l’estensione a tutti gli autoveicoli - esclusi quelli ad emissioni zero - e l’allargamento progressivo fino alla cerchia ferroviaria del sistema di accesso

a pagamento?”Il 38,5% circa dei milanesi ha votato “si”, il 10,5% “no” mentre il 51% si è astenuto. Il consenso ha raggiunto il 40,5% proprio in zona 1. Non è vero che il 79,9% dei cittadini si è detto favorevole all’adozione di Area C, ma è vero che la maggio-ranza ha eletto sindaco Giuliano Pisapia, che di questo provvedimento ha fatto sin da subito un tema fondante del suo piano di governo. Ha fatto una promessa e l’ha mantenuta, finora in parte.In parte perché tanto il suo programma eletto-rale, quanto il quesito referendario prevedevano altri punti di intervento che per ora non son sta-ti attuati. Si parla di un vero potenziamento dei mezzi pubblici e dei servizi di bike e car sharing sostanziale e che non interessi solo il centro, e dei servizi di bike e car sharing, di una rete di piste ciclabili e di nuovi parcheggi di interscambio a un prezzo competitivo. Si parla anche di decen-tramento.

AREA CFaber_Milano

L’OPPOSIZIONE AL PROVVEDIMENTO

ADOTTATO DAL COMUNE È FORTE E FA PIÙ RUMORE

DEL CONSENSO. MOLTI DEI PROBLEMI CHE PONE SONO REALI E ORA, CHE INIZIANO I SACRIFICI,

LA FIDUCIA INIZIA A VACILLARE

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Una delle voci più dure nei confronti del provve-dimento si è levata dall’hinterland, dal sindaco di Basiglio, Marco Flavio Cirillo che, dopo aver or-ganizzato una raccolta firme ottenendo oltre 300 adesioni, ha annunciato di aver presentato ricor-so al Tar (Tribunale amministrativo regionale) contro Area C per tutelare le migliaia di cittadini dell’hinterland che ogni giorno devono recarsi a Milano per raggiungere uffici e servizi.La critica più pericolosa, se venisse ritenuta va-lida dal tribunale amministrativo, è quella di violare la libertà di circolazione sancita dalla Costituzione. È altamente improbabile che il Tar accolga quest’argomentazione, posto che la con-gestion charge limita i soli spostamenti con auto inquinanti, e non li vieta ma li rende a pagamen-to. Limitazioni alla libertà di circolazione sono peraltro ammissibili proprio per ragioni di sanità e sicurezza se operano su criteri e basi obiettive, come in questo caso. Proprio nel maggio 2011 il tribunale ha annulla-to l’ordinanza comunale con la quale veniva isti-

tuita una ztl (zona a traffico limitato) nel comune di Basiglio che, impedendone l’attraversamento ai non residenti e deviando il traffico verso i paesi limitrofi, aveva, secondo la sentenza, “effetti pre-giudizievoli con riguardo al traffico e alla salute dei residenti di altri Comuni”.«Ma» attacca il sindaco Cirillo «mentre la no-stra ztl lasciava alternative essendo possibile passare da altre parti, Area C non lascia altre pos-sibilità per chi deve recarsi nel centro di Milano, essendoci solo due linee della metropolitana in croce e mancando parcheggi in corrispondenza della metropolitana».Inadeguatezza del sistema di trasporto pubblico e insufficienza di parcheggi di interscambio: que-ste sembrano essere le spine nel fianco del siste-ma di congestion charge.«Perché se è vero che il centro della città è ben servito» argomenta Marco Bestetti, «nel resto della città le cose non stanno così ed il centro bisogna raggiungerlo». Bestetti, consigliere di zona 7, coordinatore regionale di Studenti per

le Libertà e coordinatore cittadino di Giovane Italia è un fermo oppositore di Area C. Ha fatto notizia il suo intervento a margine di un incon-tro sul tema in zona 7 con megafono e benda sugli occhi: «questa è una rapina, nient’altro che un’odiosa gabella che grava sui cittadini già oberati da aumenti di Irpef e rincaro dei biglietti Atm. Tant‘è vero che il provvedimento è inutile per la lotta allo smog, e se il problema è il traffi-co, la soluzione non è il blocco della circolazione, ma il suo snellimento. Perché Pisapia non ha la bacchetta magica e così non eliminerà il traffico, ma si limiterà a spostarlo sulla cerchia esterna, congestionandola e paralizzando la città. E una macchina ferma in coda per ore inquina molto di più di una che arriva in fretta alla meta».Il Pdl ha iniziato a dicembre la raccolta di firme per un nuovo referendum consultivo per l’eli-minazione della congestion charge. L’obiettivo è quello delle 30 mila firme entro maggio, ma, dopo grandi proclami per la raccolta di più di mille sottoscrizioni in un’ora, adesso, con circa quattromila adesioni, tra i giovani del partito c’è chi già definisce l’iniziativa un fallimento, mentre per Bestetti la cifra sarebbe tra cinque ed ottomi-la firme: «un risultato molto positivo posto che la scadenza è tra tre mesi».Federico Benassati, di Giovane Italia, candidato al consiglio di zona 1 col Pdl, invoca «agevola-zioni per residenti e soprattutto per i commer-cianti. Sono i commercianti che mandano avanti il centro, colpire i negozianti, in particolare quelli storici, significa colpire il cuore dell’economia cittadina. Lasciarli senza clienti significa svuotare il centro della città e le sue vetrine».A fronte di un calo del traffico di circa il 30%, il neo costituito Comitato Commercianti Contro Area C denuncia un calo delle vendite del 50%, ma il dato non è ancora accertato.

L'OPPOSIZIONE

A sinistra: uno dei punti adibiti al pagamento del-la tassa di circolazione In basso: Particolare di un'auto elettrica delle flotta del servizio di car sharing gestito da ATM

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L’Area C copre circa il 4,5% del territorio del Co-mune. È una zona piccolissima rispetto a Milano. Pensare che l’introduzione del ticket possa di per sé abbattere l’inquinamento è quantomeno inge-nuo e chi l’ha semplicisticamente sostenuto, ha detto una falsità. A essere sinceri l’amministrazione non ha quasi mai posto la questione in questi termini, è stata proprio l’opposizione a banalizzare il messaggio sostenendo il fallimento della congestion charge sulla base dei dati Arpa, che hanno dimostrato come le polveri sottili non siano crollate dopo la sua entrata in vigore, e l’ha fatto per ovvi motivi di consenso politico. Già dal quesito referendario l’introduzione di un ticket era accostata all’adozione di numerose altre misure, necessarie per rendere il provvedi-mento efficace, ma anche per ridurre i disagi dei cittadini.Al netto della bagarre politica il punto di snodo del dibattito è il seguente: avere fede o non aver-ne nelle promesse della giunta e nel suggestivo progetto di una Milano libera da traffico e polve-ri sottili, più verde ma anche a misura d’uomo, e quindi nella quale poter circolare liberamente con facilità. Credere o non credere che questo sia solo il primo passo, che verrà seguito da un au-mento dei parcheggi, una tariffazione intelligen-te, un aumento delle linee di trasporto pubblico

CREDERE O NON CREDERE?

e della loro frequenza, una redistribuzione del traffico urbano esterno alla cerchia, la costituzio-ne di una vera rete di piste ciclabili, un sostegno pratico all’utilizzo di mezzi a emissione zero qua-li quelli elettrici e via di seguito.Di giorno in centro si toccano picchi di quasi 1,150 milioni di persone, i residenti sono 77.959. Vi si trovano il 25% degli esercizi commerciali milanesi, ma il loro giro d’affari costituisce qua-si il 50% di quello del settore. Questa situazione dovrà probabilmente cambiare, ma potrà farlo solo fino ad un certo punto, non si può svuotare il centro di una città.I pendolari non sentiranno il disagio del ticket quando dei mezzi di trasporto efficienti li porte-ranno da casa alla ztl. Aumentare di poco le corse in centro, com’è stato fatto finora, non basta. E non si può esultare per una diminuzione di cin-que minuti dei ritardi dei mezzi, come hanno fat-to recentemente in Comune: bisogna cambiare gli orari, ed è alla portata dell’amministrazione anche aggiungere una cartina con la mappa dei mezzi della zona alle fermate degli autobus. Lasciare l’auto tutta la giornata in un parcheggio Atm presso una fermata della metro costa 5 euro, solo che quei parcheggi non bastano, e sulle stri-sce blu si rischia di pagare fino a 15 euro. Inoltre se 5 euro di parcheggio e 1,50 di biglietto costano più di un ticket, con l’abbonamento Atm si ri-

sparmia parecchio.Fa scena dire che un residente in centro è costret-to a pagare per tornare a casa propria. La verità è che l’auto di un residente a Milano esce ed entra dalla cerchia in media 56 volte l’anno e che il 50% degli spostamenti in auto in città avvengo per co-prire distanze inferiori a 3 Km: in bici sono lette-ralmente meno di dieci minuti, anche se per ora le piste ciclabili non ci sono; e in scooter, anche se non elettrico non si paga.Il problema dei commercianti passa da quello dei loro clienti. È urgente, ma la situazione col tempo non può che migliorare, per vari motivi: cambie-ranno gli orari dello shopping e il mercato, com’è solito fare, si adatterà alla situazione. Se un mila-nese non sentirà il bisogno di attraversare la città con i mezzi o pagare 5 euro per fare la spesa per le vie del centro un motivo ci sarà, mentre i turisti si troveranno meglio in un centro libero dal traffico.Con l’attivazione di Area C la storia raccontata da Pisapia su una Milano del futuro rimane tale, mentre al cittadino inizia a venir presentato il conto, ed è reale. Ecco perché la sfida del Comu-ne è appena iniziata ed è bene fare un pressing co-stante sulle istituzioni, un’opposizione costrutti-va, come quella di Confcommercio che dialoga per delle modifiche; non come quella del Comi-tato Commercianti Contro Area C, che sbraita al terrorismo.

DATI UTILI PER COMPRENDERE

LA MOBILITA NELLA CERCHIA DEI BASTIONI

E L’AREA C

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DATI UTILI PER COMPRENDERE

LA MOBILITA NELLA CERCHIA DEI BASTIONI

E L’AREA C

FONTI: AMAT, ATM, COMUNE DI MILANO, REGIONE LOMBARDIA

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La politica dei fatti, che dovrebbe sempre seguire le promesse fatte in campagna elettorale, si manifesta principalmente nelle decisioni dell’amministratore sulle voci di bilancio. È proprio la gestione dei fondi, la scelta di come spendere il dena-ro pubblico, e da quale voce invece sot-trarlo, e in generale dell’allocazione del-le risorse, a rendere evidente l’indirizzo politico di un’amministrazione, e quindi il suo orientamento, e la giustificazione della propria presenza in Giunta. È con questa convinzione che Faber ha incon-trato chi tiene i cordoni della borsa del Comune: Bruno Tabacci, l’assessore al Bilancio.

Assessore Tabacci, qual è, oggi, lo stato del bilancio comunale?Il bilancio comunale 2011 ha presentato un so-stanziale pareggio, anche grazie a operazioni straordinarie come l’alienazione delle quote Sea e di altre minori partecipazioni del Comune. Nei prossimi anni, a causa del taglio dei trasferimen-ti statali e regionali il bilancio presenta pesanti disequilibri che è essenziale coprire attraverso l’utilizzo di tutte le leve a disposizione: controllo dei costi (spending review, cioè revisione della spesa, leva tributaria, alienazioni del patrimonio comunale, ecc).

Poco dopo il vostro insediamento, c’è stato un botta e risposta tra il sindaco e Letizia Moratti riguardo ai conti: il primo parlava di potenziale disavanzo di 186 milioni, mentre la seconda parlava di un avanzo di 48. Qual è la realtà? E perché sorgono discus-sioni su dati che per loro natura dovreb-bero essere non discutibili?Il potenziale disavanzo di 186 milioni è il frutto di un’analisi delle partite previste tra le entrate della Giunta Moratti, rispetto alla loro effettiva possibilità di realizzarsi; per la sola alienazione delle quote della Serravalle di proprietà del Co-mune, erano previste a bilancio entrate per 170 milioni. Come avevamo previsto, la Serravalle non è stata venduta. Se non avessimo preso prov-vedimenti urgenti come il taglio delle spese e la vendita della SEA, non saremmo stati in grado di chiudere il bilancio in pareggio e di rispettare il Patto di Stabilità.I dati comunque erano discutibili perché previ-sionali, e per definizione, non certi. La realtà si è poi misurata nel corso dell’anno e, purtroppo, ha dato ragione a chi, come noi, sosteneva l’esi-stenza del buco di bilancio creato dalla giunta precedente.

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In questa pagina: L'assessore Bruno Tabacci

IL BILANCIO COMUNALEIntervista all'assessore al bilancio Bruno Tabaccia cura di Andrea Gavazzi e Filippo Montalbetti

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Come intende lasciare le casse al termine del mandato?Tutta la politica economica del Comune di Mi-lano è improntata a rendere il bilancio veritiero e sano. Intendiamo lasciare le casse del Comune nel miglior stato possibile dati i tagli di trasferi-mento statali e regionali. Vogliamo finanziare le spese correnti con l’alienazione del patrimonio dei milanesi.

Quali sono i vostri paletti?Correttezza di bilancio, rispetto del patrimonio dei cittadini, e spending review sono alcuni dei principi che regolano e regoleranno l’azione del Comune sul bilancio. Inoltre vogliamo smettere di utilizzare le partecipate come bancomat del Comune, prelevando utili e riserve straordinarie a vantaggio del Comune senza un disegno che rispetti le partecipate.

È soddisfatto di come si è conclusa la vi-cenda della SEA e Milano-Serravalle? Che cosa farà ora il Comune con le quote della seconda, cercherà ancora di venderle?Si, sono molto soddisfatto: abbiamo salvato il bilancio e rispettato il Patto di stabilità evitando le sanzioni connesse che avrebbero fortemente limitato la nostra capacità di spesa sui servizi es-senziali alla cittadinanza, come scuole, sicurezza, trasporto pubblico e nettezza urbana. Per quanto riguarda le quote della Serravalle, dopo due aste deserte, cercheremo di venderla valorizzandola al massimo.

Quanto si stima possa entrare dall’atti-vazione dell’Area C? Dove destinate quei soldi? Sono previsti futuri rafforzamenti del controllo sul traffico (rincari delle ta-riffe, allargamento dell’area C, diminuzio-ne delle esenzioni, ecc)?Ci aspettiamo introiti per circa 30 milioni, che destineremo al miglioramento della viabilità ur-bana e al trasporto pubblico. Al momento il pro-getto dell’Area C è nella sua fase sperimentale, a conclusione della quale tireremo le somme e de-cideremo come dovrà evolvere.

Avete intenzione di fare cambiamenti so-stanziali rispetto alla precedente giunta per quanto riguarda l’allocazione delle risorse? Quali saranno le principali diffe-renze?Esiste un’importante componente della spesa comunale che presenta carattere di rigidità. Per quello che invece è nelle mani della politica, è nostra intenzione liberare risorse importanti at-traverso il progetto di spending review che dovrà ridurre i costi del servizio ai cittadini e della mac-china comunale per destinare le risorse liberate al miglioramento dei servizi pubblici e al sostenta-mento della crescita economica di Milano.

Lei ha un passato politico vicino a posi-zioni liberali, mentre altri membri della giunta provengono da tradizioni più di sinistra: esistono divergenze di natura politica sulla gestione dei fondi pubblici? No, ho sempre trovato in tutta la Giunta e anche

nella Maggioranza in Consiglio comunale sia un’ampia capacità di lettura dei fatti economici, sia la convergenza sui principi alla base della buo-na pubblica amministrazione. D’altronde anche l’attuale maggioranza che sostiene il Governo Monti è la prova che il metodo Pisapia applica-to a Milano funziona ed è in grado di produrre maggioranze che possano mettere in atto tutte le riforme strutturali, sia a livello locale sia naziona-le, delle quali il Paese ha bisogno.

Quello del bilancio risulta per il comune cittadino un ambito alquanto complesso: è vero che i documenti sono tutti consul-tabili dal sito del Comune, però si tratta di faldoni molto grossi su cui vanno spe-si molto tempo ed energie per trarre un quadro riassuntivo della situazione. Que-sto disincentiva il cittadino a interessarsi della materia, e diminuisce il tasso di tra-sparenza della vostra attività: vi saranno cambiamenti a riguardo?È assolutamente vero, abbiamo infatti appena lanciato un progetto per creare un bilancio co-munale chiaro e orientato al cittadino che, sul modello di molte altre esperienze amministrati-ve, soprattutto anglosassoni, consenta a tutti di capire come vengono spesi i soldi. Speriamo così di aumentare la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e il loro controllo sul nostro opera-to.

Entrate2.400 MILIONI

Uscite2.350 MILIONI

Fonte: Comune di Milano, Assessorato Bilancio, Patrimonio, Tributi

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Costanza è andata a Londra, Edoardo a Parigi, Lapo a Boston, Georgia a Leida, Pietro a Delhi Sebastiano a Southampton: di anno in anno l’e-lenco si allunga. Le statistiche confermano la no-stra impressione: sono in aumento i ragazzi che lasciano l’Italia per andare a studiare all’estero. Perché partono? Torneranno per contribuire a risolvere le contraddizioni della nostra società? Chi resta?

«A febbraio ho un colloquio per un la-voro per quest’estate; me l’ha suggerito il mio professore», dice Lapo (Boston Univer-sity). «D’estate fai delle esperienze di lavoro in delle società. Se piaci, sei già preso per quando finisci». Lo dice come se fosse normale al terzo anno d’università. Come se non avesse mai sen-tito parlare della moltitudine di laureati disoccu-

pati.

Le parole di Lapo gettano luce su alcuni aspetti su cui è necessario soffermarsi per capire i sistemi universitari di altri Paesi. Certo, tra uno e l’altro ci sono molte differenze, ma che cosa copiare, potendo, dalle università straniere? Innanzi tut-to il rapporto con i professori e le modalità di partecipazione, che sono molto più varie e non

si limitano alle univo-che lezioni frontali. Di conseguenza tra stu-denti e docenti si crea uno stretto rapporto, intercorre un continuo scambio di proposte,

richieste, domande e spesso i docenti conoscono bene gli studenti. Che sia Germania, America, Gran Bretagna, Olanda o Francia si coglie subito che gli studenti partecipano molto più diretta-mente.

UN NUMERO SEMPRE MAGGIORE DI STUDENTI

CERCA UNIVERSITÀ MIGLIORI E MAGGIORI

OPPORTUNITÀdi Giovanni Liva

TANTI VANNO VIA, E CHI RESTA?

Il dibattito tra studenti e professori è molto più vivace: gli studenti si sentono parte integrante dell’u-niversità e non anonimi fruitori.

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cono solo all’impressione che non c’era spazio e futuro per me e all’idea, in parte vera, che all’e-stero si trovino migliori atenei (confermato dalle statistiche, che mettono l’Italia sotto la media europea di studenti stranieri nelle università). Le esigenze sono anche umane. «Si ha bisogno di partire per poter conoscere e misurarsi con qual-cosa di nuovo e percepito anche come ostile» dice Edoardo. Un bisogno tipicamente umano, che in una società fluida come quella di oggi, è sempre più facile da soddisfare. Grazie ai voli a

basso costo e ai nuovi mezzi di comunica-zione, si parte, ma si rimane in contatto con il proprio Paese d’o-rigine. Le linee nette che dividono gli Stati

esistono ormai solamente sulle carte geografi-che. Le persone non hanno confini: si spostano sempre di più. Così il fatto di studiare o lavorare all’estero sta diventando sempre meno sconvol-gente anche per i vecchi nonni che la traversata oceanica la facevano a bordo di una nave e se ne andavano per davvero. Oggi il fenomeno è sem-pre più comune.

Chi è emigrato e si è inserito con successo in un’altra cultura, e ha conosciuto un diverso stile di vita, guarda il mondo attraverso più filtri cul-

Georgia, che studia in Olanda, ammette che a volte può sembrare di tornare al liceo: lezioni ob-bligatorie, preparazione continua e classi molto piccole. Ma a parte gli eccessi, si percepisce che ovunque c’è molto spazio per il dialogo, e il dibat-tito tra studenti e professori è molto più vivace: gli studenti si sentono parte integrante dell’uni-versità e non anonimi fruitori. Costanza racconta che in Italia non riusciva a trovare un’università che rispondesse alle sue esigenze, e affaccian-dosi oltremanica si è resa conto che i corsi di laurea sono molto più flessibili, ampi e adattabili agli interessi reali degli studenti. Si possono per esempio riunire due corsi in uno, come ha fatto lei con Culture africane e asiatiche. In questo modo lo studente si sente spinto e mo-tivato a studiare ciò per cui è portato, cosa in cui le università inglesi credono molto. Molte volte i professori arrivano a suggerire agli studenti di prendere un gap year, un anno sabbatico che tra gli scopi ha quello di generare una scelta motivata e aderente alle loro reali aspirazioni.

Di sicuro le motivazioni che portano un ragazzo di vent’anni a lasciare il suo Paese non si ridu-

A fianco di chi si chiede perché non è partito, c’è la moltitudine di ragazzi che non si possono neanche fare queste domande

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prestiti alle banche da ripagare con una percen-tuale del futuro stipendio. In questo modo fin da giovani ci si familiarizza con i debiti, una costante contemporanea.

Altri hanno invece deciso di rimanere, ognuno con le sue motivazioni. Eddy per esempio ha scelto di rimanere «Rimanere non é una sconfit-ta, anzi», dice convinto. «Se partissero tutti, chi rimarrebbe?». Molti fanno progetti qua, voglio-no realizzare le loro idee e credono in un riscatto del Paese a partire dal contributo di ognuno. «È troppo facile andare in un Paese che funziona meglio del nostro. Mi sento chiamato in causa per modificare ciò che qua non va» dice Eddy con grande senso di responsabilità. Mentre Ste-fano, che non riesce a trovare in Italia ciò che fa per lui, è convinto che anche se andrà a studiare all’estero poi ritornerà.

Ma allora da dove ripartire? Come migliorare l’u-

niversità Italiana? Paolo Spinicci, professore di filosofia in Statale, parla di depressione della sua generazione, che ha visto infrangere le sue aspettative, ritrovandosi in una situazione non desiderata. Questa depressio-ne si sarebbe riversata sui giovani, così che questi si sentono scoraggiati ancora prima di iniziare l’università. Fai l’università, tanto poi dovrai fare altro e adattarti… è una frase che risuona conti-nuamente, come se l’università fosse un parcheg-gio, in cui ormai tutti devono stazionare per un periodo nella dimensione di ascolto, studio ed esami. Qui in Italia il professore sembra accon-tentarsi di ascoltare ciò che hai studiato, spesso senza sapere neanche chi sei. Questo mancato confronto tra studenti e professori è una lacuna da riempire.

Ciò che manca alle università italiane è proprio il rendere gli studenti partecipi e attivi. E Spinicci è convinto che proprio dall’università si debba ripartire per uscire dalle difficoltà che attanaglia-no il Paese. «Bisogna ritrovare una dimensione di entusiasmo, un clima diverso, più coinvolgente fin dalle università!».

“Mi sento chiamato in causa per modificare ciò che qui non va”

turali e spesso riesce a individuare opportunità invisibili a chi ha avuto contatti sempre con una sola cultura. Questo le aziende l’hanno capito: una recente inchiesta sull’Economist ha rivelato che in America circa un quarto delle aziende di ingegneria e tecnologia ha almeno un fondatore di origine straniera. Edoardo non parla in termini utilitaristici, ma questo è un riscontro di quel che definisce “co-noscere e misurarsi con qualcosa di nuovo”.

Ma perché allora non partono tutti? Viene da chiedersi: chi me la fatto fare di rimanere qua?Questo Giulia non se lo domanda neanche. «Non me lo posso permettere», dice, e la ri-sposta non lascia spazio a nessuna delle rifles-sioni precedenti. Si dice che “la cultura non ha prezzo”, ma non è vero: ce l’ha ed è anche alto. A fianco di chi si chiede perché non è partito, c’è la moltitudine di ragazzi che non si fanno queste domande. Studiare all’estero ha costi veramente elevati: vitto e alloggio sono costi che ricadono per lo più sulle spalle dei genitori, perché studia-re impedisce di lavorare. Inoltre in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti, le università hanno costi decisamente elevati ed è normale chiedere

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Come mai questa popolarità? «Le università sono fattori decisivi di competitività per la nostra città, e i tanti stranieri che sempre di più scelgono Milano per studiare possono contare su un am-biente accademico e socio-economico interna-zionale e innovativo» ha affermato Pier Andrea Chevalard, segretario generale della Camera di commercio di Milano.

Ma c’è di più: conver-sando con molti dei ragazzi venuti qui a studiare per sei mesi o un anno, è emersa un’I-talia da noi poco consi-

derata, se non sconosciuta. Le persone sono ami-chevoli, la vita è meno cara, i professori benevoli, le donne e il buon vino non mancano mai, per non parlare infine delle feste! Per chiunque voglia vivere il suo Erasmus fino in fondo la parola d’or-dine è divertirsi, having fun, pasarselo bien…e le opportunità di certo non mancano: numerosissi-me le serate organizzate ogni settimana dall’Esn (Erasmus Student Network), associazione inter-nazionale non profit gestita da volontari italiani per aiutare gli ospiti ad ambientarsi. Spesso però contribuiscono all’effetto contrario «segregando gli stranieri, per i quali la lingua costituisce una grossa barriera e rende In alto: L'università statale di Milano

Bel Paese, buon cibo, feste e vino …migliaia di studenti arrivano ormai ogni anno in Italia, per-seguendo i miti consolidati nell’immaginario comune e per scoprire un Paese «dalla grande tradizione culturale, dove si può studiare di tut-to, dall’economia alla moda» come ha dichiarato Allan Goodman, presidente dell Iie (Institute of International Education), organizzazione ame-ricana che gestisce gli scambi accademici per l’estero.Secondo i dati del rapporto Open Do-ors della stessa, ben 27.940 giovani ameri-cani hanno scelto l’Italia come meta per i propri studi, cifra inferiore solo a quella della Gran Bre-tagna. Il loro sogno potrebbe sembrare parados-sale ai numerosi cervelli in fuga dal nostro Paese, eppure è comune a tutto il mondo.Restringendo il campo a Milano, in base ai dati di una ricerca della Camera di Commercio e del Politecnico, dal 2002 a oggi il numero di stranieri è aumentato del 77%, raggiungendo così la soglia di 6.420 iscritti (3% del totale degli studenti), che si concentrano soprattutto in tre università: Politecnico, Statale e Bocconi. In quest’ultima la percentuale dei non-italiani raggiunge addirittu-ra l’8%.

SE I GIOVANI ITALIANI VOGLIONO SEMPRE DI

PIÙ ABBANDONARE IL NOSTRO PAESE,

COME MAI ALTRETTANTI VENGONO QUI A STUDIARE?

di Francesca Carta e Eva Moriconifoto di Francesca Carta

GENTE CHE VIENE... GENTE CHE VA...

Il loro sogno potrebbe sembrare paradossale ai numerosi cervelli in fuga dal nostro Paese, eppu-re è comune a tutto il mondo.

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l’inserimento difficile» rimprovera Adriano, che, dalla Francia, sta trascorrendo un anno presso la Bocconi. Grazie però ai corsi di lingua offerti nelle prime due settimane di permanenza, i muri crollano e lo studente straniero può finalmente iniziare una full immersion nella cultura e nella vita italiana. Ed è proprio questo patrimonio arti-stico, culinario e letterario che lascia indifferenti i suoi custodi, ad affascinare e a chiamare a sé ogni anno migliaia di giovani: «Provo rispetto e amo-re per tutte le regioni italiane, ciascuna con le sue particolari caratteristiche» ha affermato Agus, proveniente da Barcellona, «Mi piacerebbe visi-tare Roma, Venezia , la Toscana…!» ha aggiunto Andreas, norvegese.

Il paese delle meraviglie? Beh, ovviamente i con-solidati stereotipi, noti in tutto il mondo, hanno qualche radice di verità: la burocrazia è una ra-gnatela di cavilli, gli orari sono quasi sconosciu-ti e «la gente non si ferma dove dovrebbe» ha protestato Erik, norvegese, alludendo a tutti i guidatori per i quali le strisce pedonali sono solo macchie sull’asfalto.Ma dopo aver passato in Italia così tanto tempo, verrebbero a lavorare? E l’Italia quanto è dispo-sta ad aprire le porte ai giovani che vorrebbero venire qui ? Quasi tutti i ragazzi affermano che se ne avessero la possibilità non esiterebbero a coglierla, ma le difficoltà sono molte, in primis la lingua. Difatti, la maggior parte delle aziende italiane assumono personale soltanto madrelin-gua: Nikita, studente russo in Bocconi, tra i pochi giovani stranieri ad aver avuto la possibilità di la-vorare, ricorda l’esperienza come molto positiva, ma possibile solo per chi conosce bene la lingua. Ha inoltre sottolineato la difficoltà di trovare la-voro in Italia: in Russia infatti, grazie alle libera-lizzazioni, le nuove aziende sono molteplici e gli sbocchi per i giovani laureati maggiori.

L’Italia è quindi un paese che non offre possibi-lità concrete ma resterà una felice parentesi per tutti i ragazzi che hanno deciso di venire qui. Chi rimarrà? Quanti sono disposti a rimboccarsi le maniche per restare e provare a cambiare il Bel-paese?

Faber_Milano

Le persone sono amichevoli, la vita è meno cara, i professo-ri benevoli, le donne e il buon vino non mancano mai, per

non parlare infine delle feste!

Ma dopo aver passato in Italia così tanto tempo, verrebbero a

lavorare? E l’Italia quanto è dispo-sta ad aprire le porte ai giovani

che vorrebbero venire qui ?

In quale università?

Da quale paese?

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HEBRON, PALESTINA. La strada è divisa da una transenna in cemento: a sinistra gli ebrei, a destra gli arabi.Più avanti un check-point evidenzia una separa-zione già troppo chiara. Un graffito: Free Israel Zone. Da lì in poi gli arabi non possono andare.Protetti dai soldati, gli israeliani camminano rapi-di nella strada sgombra.Uomini vestiti a festa, appena usciti dalla sinago-ga, donne e ragazzi.In alto, sui tetti, militari israeliani. Col mitra se-guono i passi dei coloni, li proteggono dal nemi-co arabo.È la strada principale della città.Su negozi e case sbar-rate, tracciata di fretta, campeggia la Stella di David.Le traverse laterali sono bloccate. Muri e colate di cemento separano la passeggiata dei co-loni dal mercato palestinese.Dietro, inconcepibilmente silenzioso, il Suk ara-bo.È un mercato anomalo, chiuso tra le case alte. So-pra, una rete protegge i passanti dai rifiuti, le pie-tre, gli avanzi che i coloni, dall’alto dei tetti, tirano ai vicini palestinesi.Oltre il mercato, un altro posto di blocco. È il check-point della moschea centrale di Hebron. Una famiglia araba attraversa il metal detector, passaggio obbligato per i musulmani diretti alla

Faber_Dal mondo

preghiera.Attaccata alla moschea, c’è la sinagoga. Ebrei e musulmani pregano vicini, separati da una grata di ferro. Hebron è a 40 kilometri a Sud di Gerusalemme, in territorio cisgiordano. In quanto sede delle Tombe dei Patriarchi, è città santa per ebrei, mu-sulmani e cristiani.È vicina alla capitale e grande centro di culto: luogo strategico per gli arabi quanto per gli ebrei.La moschea e la sinagoga principale, attaccate, sono costruite intorno alle tombe di Abramo,

Isacco, Giacobbe e le loro mogli. I primi episodi di guerriglia si verificaro-no a Hebron nel 1929, quando un gruppo di nazionalisti arabi at-

taccò la comunità ebraica, uccidendo 65 ebrei.Per oltre quarant’anni la città si è contraddistinta per il susseguirsi di scontri tra integralisti arabi e israeliani ultraortodossi ed estremisti.Nel 1967, dopo la guerra dei 6 giorni, a seguito della quale Israele si impossessò di numerosi ter-ritori palestinesi, (tra i quali la zona di Hebron), alcune famiglie israeliane tornarono alla città dei Patriarchi. Appena trasferitosi, il nucleo di inte-gralisti ebrei lanciò il progetto di colonizzazione della città.A Hebron nel 1994 il clima era particolarmente teso: Baruch Goldstein, sionista di Brooklyn e

LA COLONIZZAZIONE DI HEBRON.

UN FOTOGRAMMA DEL CONFLITTO

ISRAELO-PALESTINESE. di Caterina Lurani

foto di Maddalena Mirabella

HEBRON

Hebron si distingue dal resto delle aree palestinesi per l’alto

numero di nuclei ad insediamento coloniale presenti nel centro

stesso della città.

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membro del movimento estremista Kach, uccise 29 palestinesi, riuniti in preghiera nella moschea principale.Il fatto scatenò un’ondata di attacchi terroristici da parte di Hamas (organizzazione politica e pa-ramilitare palestinese). Inoltre la maggior parte dei negozianti palestinesi, temendo nuovi scontri armati, abbandonò l’area commerciale adiacente alla moschea.Nel ’97 la città venne divisa dalle autorità internazionali, con l’intento di arginare le continue rappresaglie: zona H1, gestita dai palestinesi e zona H2, controllata dall’esercito israeliano.Tra il 2000 e il 2003, la convivenza era esaspera-ta: le autorità dichiararono i “Days of Total Cur-few”, giorni di coprifuoco totale. La comunità internazionale è intervenuta nel 1998, inviando i Christian Peacemakers, membri di organizzazio-ni internazionali, incaricati di controllare le zone calde della città e fornire informazioni precise sui continui scontri. È stato dimostrato che la sola presenza di rappresentanti esteri tende a limitare le occasioni di scontro. Oggi Hebron si distingue dal resto delle aree palestinesi per l’alto numero di nuclei ad insedia-mento coloniale presenti nel centro stesso della città.La città ha 200.000 abitanti, 500 dei quali sono israeliani, i cosiddetti “coloni”.Per proteggere i 500 coloni di Hebron, in città militano 4000 soldati israeliani (dati del Cpt,

Christian Peacemaker Team).L’atteggiamento estremista dei coloni, spesso non condiviso dal contingente militare israelia-no, ha causato vari scontri tra militari e coloni stessi.L’obiettivo principale del progetto d’insedia-mento è controllare geograficamente la città.La presenza di luoghi di culto a cui sono legati anche gli ebrei, giustifica, secondo il Governo

d’Israele, la coloniz-zazione della città vec-chia. Alcuni esponenti dell’ala estremista si avvalgono anche del tema religioso per il progetto d’espansio-

ne, iniziativa che prevede in primo luogo il con-trollo dei territori intorno a Gerusalemme.A tal fine è necessario segmentare le zone a forte presenza palestinese. Il controllo di Hebron rien-tra nel progetto di isolamento delle aree arabe.Nelle zone periferiche della città, le colonie sono mescolate all’originale tessuto urbano.Il centro è diviso in zona inferiore, abitata da ara-bi e zona superiore, colonizzata da israeliani.Nella città vecchia le colonie principali sono 5, l’intento è quello di collegarle alle colonia n.6, più grossa e periferica.I mezzi utilizzati dai coloni sono vari. Il cavillo giuridico è una della armi più sottili: la legge imposta dalle autorità israeliane non permette ai palestinesi di costruire integralmente nuovi edifici, senza un’autorizzazione legale, rilasciata solo dalle autorità stesse. Alle imprese palestinesi risulta così impossibile iniziare qualsiasi progetto edilizio.

L’iniziativa coloniale non mira solo ad impedire nuove costruzioni, ma ad eliminare in toto la pre-senza palestinese.Gli edifici arabi che si trovano nei punti nevralgi-ci della città, vengono dichiarati non a norma di legge. E demoliti dai coloni.Altro strumento della colonizzazione è dichiara-re zone militari alcuni quartieri, e impedire così l’accesso ai palestinesi. Le aree abbandonate a causa delle pressioni dei vicini israeliani o di im-pedimenti legislativi, vengono occupate da fami-glie ebree.Il Governo palestinese non possiede un vero e proprio esercito, dunque la zona H1 è gestita dal-la Polizia. Israele invece, avendo a disposizione sufficienti risorse militari, controlla il territorio con vari posti di blocco.Secondo le stime israeliane, nel centro della città ci sono 17 checkpoint, mentre la fonte delle Na-zioni Unite ne dichiara ben 101, (113 a detta del Tiph, Temporary International Presence in He-bron). Alcuni dei quali si limitano ad essere punti della rete di ispezione urbana, altri tracciano veri e propri confini di reclusione.La strada principale della città è controllata agli estremi da due posti di blocco che impediscono l’accesso ai palestinesi, mentre le vie laterali sono state bloccate da costruzioni di fortuna, cemen-tificate dai coloni negli ultimi anni. Il centro di Hebron è così spaccato dalla linea di controllo dei posti di blocco, lungo la quale tentano di espandersi i coloni.Il tutto è studiato al fine di isolare i quartieri arabi e ottenere il controllo capillare della zona urba-na.

Il progetto dei coloni mira ad isolare i quartieri arabi

e ottenere il controllo capillare della zona urbana.

faberg

iorna

le.it

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«I coloni stanno imprigionando la città vec-chia», dice Walid Abu-Hallawa, responsabile di pubbliche relazioni portavoce dell’organizzazio-ne Hebron Rehabilitation Committee.L’associazione, nata nel 1996, si occupa di rivi-talizzare l’edilizia della città, attraverso opere di ristrutturazione. Edificare da zero è vietato, ma fino ad ora si è tentato di aggirare le restrizioni occupandosi solo di progetti di restauro.Hallawa spiega che per finanziare le imprese, l’organizzazione riceve aiuti dalla maggior parte degli stati esteri (tra i quali, benché in minima percentuale, anche l’Italia).«Noi ci occupiamo di ristrutturare le case di-strutte dalla guerriglia, ma spesso le famiglie arabe hanno paura di tornare a vivere in quartieri dove il clima è perenne-mente teso».È stato dunque neces-sario stanziare un fondo destinato a sussidiare le famiglie palestinesi di-sposte a vivere a stretto contatto coi coloni. Fino ad oggi, l’associazione ha offerto una casa a 5000 palestinesi, la maggior parte dei quali ex-proprietari, allontanati dalle violenze continue; il restante sono nuovi arrivati, attratti dal costo ridotto delle abitazioni.Hallawa continua: «La vita commerciale ed

economica della città è messa in crisi dal tono aggressivo dei coloni».A Hebron vige una staticità economica palpabile: la frammentazione topografica ha portato ad un’ ovvia frammentazione del mercato, deleteria per l’economia della città.«Le autorità israeliane hanno deliberatamente spostato all’esterno della città vecchia i servi-zi pubblici basilari, quali la stazione dei bus e il mercato, causando l’isolamento totale del centro di Hebron. L’iniziativa ha contribuito a danneg-giare lo sviluppo delle infrastrutture e reso im-possibile alla popolazione palestinese l’accesso ai servizi fondamentali. Di conseguenza il numero di emigrazioni dal centro della città è aumentato. Nel 1952 vi era una popolazione di 10.000 abi-

tanti, ma a causa delle aggressioni israeliane e di altre ragioni politiche, sociali ed economiche, nel 1996 la popolazione è scesa a 400 abitanti».Il Committee denuncia infine la pressione psi-cologica che stagna su

tutti gli abitanti di Hebron. Tanto arabi quanto ebrei sono quotidianamente vittime, protagoni-sti e spettatori di scene di violenza.

Nel 1996 è nata l’organizzazione Hebron Rehabilitation

Committee, che si occupa di rivitalizzare l’edilizia della città attraverso

opere di ristrutturazione.

ALCUNE DATENEL MAGGIO 1916 francesi e inglesi si accorda-rono per la spartizione in zone d’influen-za di tutta la zona compresa tra la Turchia e la penisola arabica: l’Inghilterra ottenne il controllo della Palestina.NEL MAGGIO DEL ’47 gli Inglesi si ritirano, affi-dando all’ONU la gestione dei territori contesi. L’anno seguente le Nazioni Uni-te proposero la suddivisione in due stati: uno per gli arabi, uno per gli ebrei.NEL MAGGIO DEL ’48, Egitto, Giordania, Libano, Siria e Iraq, dichiararono guerra al neo-nato Stato d’Israele. La prima guerra ara-bo-israeliana si concluse con la sconfitta delle forze arabe.GIUGNO 1967: Israele si scontrò con Egitto, Giordania e Siria. Dopo soli 6 giorni ter-minò il conflitto, con una perdita di terri-tori per il fronte arabo.1973: truppe egiziane e siriane attaccarono a sorpresa le linee israeliane, dilagando nel Sinai. La guerra, iniziata nel giorno di festa dello Yom Kippur, si concluse senza cambiamenti significativi sul piano terri-toriale.NEL 1993 furono stipulati gli Accordi di Oslo, che sancirono il diritto all’autogoverno per i palestinesi e la progressiva cessione, da parte di Israele, dei territori occupati.

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fevriani». Questa, a detta di Biscardini, sarebbe la matrice di alcuni degli autori delle minacce. Il cardinale Scola in effetti si è espresso in maniera equidistante, chiedendo rispetto per i milanesi credenti e scongiurando tuttavia ogni eccesso nell’espressione del proprio dissenso.A Biscardini ha fatto eco Paola Bocci (Pd) ma-nifestando solidarietà alla direzione del Teatro.

«Non sono accettabili gli atti intimidatori di un gruppo di “fedeli”. Uno spettacolo prima va vi-sto, poi se ne parla». Di tutt’altro avviso la consigliera Maria Moioli (Lista Letizia Moratti),

che ha ricordato l’intervento della segreteria di Stato vaticana; la Santa Sede ha giudicato la pièce offensiva nei confronti di nostro Signore Gesù Cristo e dei cristiani. «Se il segretario di Stato ha preso questa posizione avrà ben visto lo spetta-colo» ha detto la Moioli, «non lo si può taccia-re di oscurantismo. Gesti di vilipendio a Cristo non possono che essere stigmatizzati, la fede va rispettata».Infine il consigliere Luca Lepore (Lega Nord) ha spostato la discussione sul piano della fede: «Il regista considera Gesù un semplice uomo e non il figlio di Dio». Pur non conoscendo i contenu-ti dello spettacolo, che ha dichiarato di non aver visto, Lepore ha affermato «A priori non posso

LA PRESUNTA BLASFEMIA ALL’INTERNO DI

SUL CONCETTO DI VOLTO NEL FIGLIO DI DIO

AGITA IL PUBBLICO DELLA SCENA MILANESE

di Matteo de Mojana

È ancora polemica tra cattolici e laici. Questa vol-ta però l’oggetto della diatriba non è uno dei temi caldi cui siamo abituati, dall’aborto alle unioni di fatto, bensì uno spettacolo teatrale.Dal 24 al 28 gennaio è approdato al Teatro Fran-co Parenti Sul concetto di volto nel figlio di Dio, lavoro prodotto dalla Socìetas Raffaello Sanzio per la regia di Romeo Castellucci. Il dibattito poggia sui presunti contenuti bla-sfemi presenti nello spettacolo, che reche-rebbero offesa all’im-magine di Cristo. Nu-merose lettere, e-mail e messaggi di varia natura hanno subissato il Parenti schierandosi contro la rappresentazione. Non sono mancati i toni violenti o intimidatori. Minacce di stampo anti-semita hanno raggiunto la direttrice ebrea del Te-atro Andrée Ruth Shammah, che ha pubblicato una lettera aperta alle autorità religiose e civili di Milano, invocando un intervento che allentasse le tensioni.

Il 23 gennaio, durante la seduta del Consiglio Co-munale, il consigliere Roberto Biscardini (Psi) ha sottolineato la gravità del fatto. «Dobbiamo di-fendere la Milano laica» ha detto, aggiungendo poi che «bisogna dare atto alla curia milanese di non aver appoggiato le proteste dei gruppi le-

QUANDO IL VOLTO DI CRISTO DIVENTA SPETTACOLO

Andrée Ruth Shammah, direttri-ce del Teatro Parenti, ha scritto una lettera aperta alle autorità per denunciare le intimidazioni subite

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Faber_Teatro

non considerare che alcune scene offendono il credo dei fedeli e l’immagine del volto di Gesù. Se leggete la lettera aperta del teatro, capirete che va censurato perché offende non solo la religione ma tutta la città»*

L’anno scorso lo spettacolo passò dal Theatre de la Ville di Parigi; le contestazioni di gruppi ol-tranzisti francesi furono sedate dalla polizia, e il teatro lanciò una petizione contro l’intolleranza. Allo stesso modo il mondo della cultura e dello spettacolo italiano si è schierato in difesa del Pa-renti e della Shammah con una raccolta di firme.Il 24 gennaio il gruppo cattolico romano Militia Christi ha indetto un sit-in di protesta contro lo spettacolo; hanno aderito diversi movimenti, che si sono ritrovati in piazzale Libia per celebra-re una messa “riparatrice” tenuta dal reverendo lefevriano Floriano Abrahamowicz. L’accesso al Franco Parenti era presidiato dalla polizia in te-nuta anti-sommossa; fortunatamente i momenti di tensione si sono limitati alla comparsa di qual-che affiliato a Forza Nuova, senza grande distur-bo dell’ordine pubblico. La protesta si è svolta

pacificamente. Tra i presenti un intero pullman venuto da Treviso, un gruppo di copti, alcuni militanti cristiani della Lega Lombarda e molte persone venute per conto proprio. Una parte dei manifestanti era tranquilla, altri inneggiavano a Cristo Re con megafoni e striscioni dai toni meno pacati: Shammah ti sei venduta per trenta denari citava biblicamente un cartellone, mentre i lefevriani esponevano la scritta Reveille-toi, Eu-rope (Svegliati Europa). Girava la voce che si ricoprisse di escrementi il volto di Gesù. Parlando con molti dei presenti ci siamo resi facilmente conto che nessuno aveva visto lo spettacolo, né aveva intenzione di andar-ci. «Il messaggio di fondo dello spettacolo è una grave blasfemia» ha detto un rappresentante di Militia Christi. «Perché non ci provano con Ma-

ometto o col rabbino capo?» suggeriva un altro. «La polizia ci ha chiesto di evitare la violenza» ha raccontato il reverendo Abrahamowicz nell’o-melia. «Ma la vera violenza è quella che esprime Castellucci nel suo teatro». Dopo la recita del rosario (rigorosamente in la-tino) e la celebrazione liturgica, la protesta si è avviata verso il termine.

A differenza del consigliere Lepore, noi di Fa-

Il 24 gennaio il gruppo cattolico romano Militia Christi ha indet-to un sit-in di protesta contro lo spettacolo. «Il messaggio di fon-do dello spettacolo è una grave blasfemia. Perché non ci prova-no con Maometto o col rabbino capo?»

Biscardini: «Dobbiamo difendere la Milano laica»Moioli: «Gesti di vilipendio a Cri-sto non possono che essere stig-matizzati, la fede va rispettata»

Nella pagina a fianco: Un momento della mani-festazione del gruppo cattolico Militia Christi e Andrée Ruth Shammah, regista, co-fondatrice e direttrice del Teatro Franco Parenti A sinistra: Un momento dello spettacolo. Sullo sfondo il volto del Cristo di Antonello da Messina Nella pagina seguente: Uno stendardo di Militia Christi reca la scritta: Non illudetevi, Dio non si la-scia deridere

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Compagnia teatrale fondata a Cesena nel 1981 da Romeo Castellucci as-sieme alla sorella Claudia, alla moglie Clara e al cognato Paolo Guidi. Ini-ziano la loro attività chiamandosi Explo Teatro, lavorando con l’Agesci, vale a dire in ambito scout cattolico. Il loro è un lavoro di avanguardia nel quale la messinscena non tende a risolvere le problematiche ma semmai ad esasperarle. Gli elementi sono sempre attore, scena e testo, ma non vi è alcuna garanzia di struttura narrativa. L’uso dei simboli e delle immagini è talmente forte da portare la compagnia a definirsi iconoclasta.

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ber non ci siamo limitati a leggere la lettera della Shammah, ma siamo anche andati a vedere lo spettacolo, lieti di poterlo criticare come merita-va. Nella scena un figlio accudisce il vecchio pa-dre incontinente e semi-infermo, pulendolo con cura dagli escrementi. A sovrastare la scena il Cri-sto di Antonello da Messina, che fissa il pubblico negli occhi. Senza un vero sviluppo drammatico, lo spettacolo si chiude con il volto del figlio di Dio dissolto in una macchia nera, dietro la quale appare una citazione del Salmo 23: You are my shepherd (Tu sei il mio pastore), con un not in controluce che lascerebbe il dubbio circa l’af-fermazione o negazione della frase; la fede vista come domanda anziché come certezza.

Chi voleva stigmatizzare lo spettacolo ha avuto vita facile con i doppi sensi; come ha ricordato Castellucci stesso non sono mancati epiteti quali spettacolo di merda o citando Fantozzi una caga-ta pazzesca. Noi ci limiteremo a un paio di con-siderazioni: il contenuto e gli spunti non sono valorizzati dal debole lavoro attoriale e dramma-turgico. Il rapporto padre-figlio è semplicemente abbozzato e in generale la messinscena non regge la portata dell’intuizione dell’autore.

Tuttavia è curioso notare come le polemiche vi-vano di fraintendimenti. La scena più incrimina-ta non è stata fatta a Milano per questioni di bud-get, ma questo naturalmente è sfuggito a molti

dissenzienti, che hanno interpretato il taglio come un’auto-censura diplomatica. Il copione prevedeva l’ingresso in sala di alcuni bambini che tirano delle granate sul ritratto. «L’intenzione è quella del bambino che vuole tutta l’attenzione per sé del genitore distratto» ha spiegato Castel-lucci. «Le immagini dure e spiacevoli del lavoro appartengono alla vita, non sono una mia inven-zione sadica. Certe volte il teatro utilizza, come nella tragedia greca, una tecnica antifrastica, omeopatica; una tecnica cioè che utilizza gli ele-

Castellucci: «Le immagini dure e spiacevoli del lavoro apparten-gono alla vita, non sono una mia invenzione sadica. Certe volte il teatro utilizza, come nella trage-dia greca, una tecnica antifrasti-ca, omeopatica; una tecnica cioè che utilizza gli elementi estranei per significare l’opposto»

LA SOCÌETAS RAFFAELLO SANZIO

CensuraDal latino censo = valutare, stimare, giudicare. Nell’antica Roma censura era il nome dell’ufficio del censore, che valutava la con-dotta morale dei cittadini. In che cosa consiste oggi la censura? L’articolo 21 della Costituzione ci dovrebbe proteggere in tal senso, eppure non va sempre così. A volte la censura è effettiva, e il pomo della discordia viene can-cellato (si pensi a Biagi, Guzzanti, Luttazzi…ecc); in altri casi si fa un gran polverone, come per lo spettacolo di Castellucci, e poi la rappresentazione ha luogo. Chi chiede di bloccare una messinsce-na, un libro, un film, si appella spesso al buon gusto, al rispetto, alla moralità, alla moderazione…e chi più ne ha più ne metta. Ma perlopiù una discussione di questo genere non vale neanche la pena di essere intrapresa, perché la censura, come suggerisce l’etimologia, è soprattutto un atteggiamento mentale: quello di chi giudica e basta. Nella società contemporanea le nostre scelte e comportamenti vengono opinati dagli altri, questo è inevitabi-le; ma quando il giudizio diventa l’unico fine del nostro pensiero, non siamo più capaci di sentire e di ragionare. Abbiamo paura di passare per stupidi se non diciamo subito il nostro parere, e così diventiamo prede della sordità, arrivando per esempio a esprime-re un giudizio su un fatto che non conosciamo o su uno spettacolo che non abbiamo neanche visto.

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A noi pare che in gioco non ci sia il rispetto del-la religione o della sensibilità individuale; non finché saremo liberi di non andare a vedere uno spettacolo o di vederlo e dire che non ci è piaciu-to. Ma qui salta fuori la brutta abitudine di parlare senza cognizione di causa; di giudicare molto e ascoltare poco.

menti estranei per significare l’opposto. E così, per esempio, un gesto violento vuole significare la fragilità umana e il bisogno di amore. Anche le cose spiacevoli possono misteriosamente vei-colare un senso di bellezza profondo che, scaval-cando l’ordine del grazioso, possono parlarci in modo ancora più profondo e vero»

Stesso discorso per l’inchiostro nero che sgorga dal volto di Gesù. «E’ tutto l’inchiostro delle sa-cre scritture qui pare sciogliersi di colpo, rivelan-do un’icona ulteriore: un luogo vuoto fatto per noi, che ci interroga come una domanda» ha detto Castellucci. «Devo denunciare qui le in-tollerabili menzogne circa il fatto che si gettereb-bero feci sul ritratto di Gesù. Che idea! Niente di più falso, di cattivo, di tendenzioso. L’ultima considerazione vorrei riservarla a coloro che hanno giudicato lo spettacolo: dove lo hanno visto? Che cosa hanno visto? Perché hanno cre-duto alle caricature mostruose apparse nei blog semplicistici dei nuovi fustigatori della società? Come e cosa hanno potuto giudicare?»

Fondato a Milano nel 1972 da Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah con il nome di Salone Pierlombardo. Curiosamente la sua nascita è legata ad un episodio di censura. Nel 1961 L’Arialda di Giovanni Testori, per la regia di Luchino Visconti, a Milano viene fermato dopo la prima perché giudicato immorale. Il Pierlombardo nasce anche per dare spazio ai testi di Testori. Nel 1989 con la scomparsa di Franco Parenti il Teatro prende il suo nome. Gli spettacoli guardano alle novità italiane e straniere ma anche alla rilettura dei classici in chiave contemporanea.

IL TEATRO FRANCO PARENTI

Affinché ognuno possa trarre le proprie conclusio-ni, ecco il link dove trovare il testo integrale della lettera aperta di Andrée Ruth Shammah: http://www.teatrofrancoparenti.it/Lettera_Shammah_Sul_Concetto_di_Volto

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I NEO DIPLOMATI DELL'ACCADEMIA DEI

FILODRAMMATICI ALLE PRESE CON I RACCONTI

DELLO SCRITTORE RUSSOdi Francesca Carta e Matteo de Mojana

Chi non crede che un saggio di accademia possa diventare uno spettacolo con tutti i carismi avreb-be dovuto vedere Cechoviana al Teatro dei Filo-drammatici.Il lavoro svolto dagli undici attori appena diplo-mati verte su alcuni racconti di Cechov (tra que-sti Un’imprudenza, La consorte, Il diario di un aiuto contabile…). La compagnia, guidata da Karina Arutyunyan, ha creato una brillante struttura drammatur-gica che cuce insieme le varie storie nella cornice di un piccolo paesino.In una sola giornata ve-dremo una reazione a catena di eventi che porte-ranno il caos nella noia borghese dei personaggi. Dašenka è a casa che aspetta il cognato Pëtr Pe-trovic («Io sono una persona regolare, moderata, sobria» dice lui, smentendosi nei fatti). I rintoc-chi della pendola scandiscono l’attesa; quando questi rientra, beve per errore del petrolio scam-biandolo per vodka. Questa l’ironia beffarda che costella il racconto cechoviano (la stessa che si può cogliere nel gran-de teatro, da Zio Vanja a Il giardino dei ciliegi.) Il lavoro degli attori sui personaggi tuttavia la mette in risalto in maniera più esplicita; durante lo spet-tacolo si ride, e di gusto.Su questa lunghezza d’onda si disegnano le altre vicende. Nikolai scopre in un biglietto l’adulte-rio della moglie. «Michel mi ha fatto sentire una donna viva» dice lei. «Ti libero dalla necessità di fingere, di mentire» esclama lui concedendole il divorzio, ma la moglie riesce a ribaltare la pro-spettiva, aggredendo il marito e imponendosi in casa; il divorzio infatti significherebbe per lei la perdita della posizione sociale. Nikolai tra l’altro è medico, figura immancabile nella poetica di Cechov (questa era infatti la professione dello scrittore russo); E ancora: un aiuto contabile si rende involontariamente complice nella truffa ai danni di uno straniero, mentre da un’altra parte

CECHOVIANAun soprano lirico accoglie l’amante nei camerini; non sa che si presenterà anche la moglie di lui, chiedendo indietro tutti i regali di valore fatti dal marito infedele.Lo spettacolo è inventivo nella forma ma rispet-ta la sostanza, tornano così i temi cari a Cechov della salute, del vizio, dell’infedeltà e della ristret-tezza economica. Cechoviana è anche l’ironica amarezza di storie che finiscono a volte bene e a

volte male, come quel-la di una donna che insegue il suo sposo. In dodici anni di ma-trimonio egli continua a mancare da casa per dedicarsi al suo lavoro

di cacciatore; la povera infelice troverà pace solo nel suicidio, descritto scenicamente con grande delicatezza.Si constata con piacere come recitare Cechov, sia pure riadattandone la prosa e non la scrittura scenica, non significhi necessariamente tragedia e languore. Il tragicomico dei personaggi è reso in maniera dinamica e divertente e certamente ognuno degli attori ci ha messo del suo, “traden-do” in qualche modo l’autore; eppure l’identità di quest’ultimo è stata compresa appieno. Insolita e curiosa anche la scenografia, i ritratti dei personaggi accompagnano gli attori nella messa in scena rievocando un passato felice in contrasto con la fotografia di un presente infelice. Immaginario e reale si incontrano proprio nel-la scenografia nella quale convergono non solo ricordi e illusioni dei personaggi ma tutto il ba-gaglio culturale del ’900, le fotografie dei grandi personaggi del secolo si fondono con quelle dei personaggi.Nella Russia che ci viene proposta a tutti i per-sonaggi manca un impulso vitale, uno slancio, tutti finiscono irrimediabilmente soli, ma come dichiara Karina Arutyunyan, regista e ideatrice del progetto «abbiamo cercato di non perdere mai quel suo sorriso meraviglioso».

Francesca Carta e Matteo de Mojana

La regista Karina Arutyunyan a proposito di Cechov «Abbiamo cercato di non perdere mai quel suo sorriso meraviglioso»

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Francia, 1941: la guerra travolge ogni cosa, ogni vita, i parigini lasciano la città e sfollano nelle campa-gne. Da una parte i ricchi organizzano partenze accurate, caricano sulle macchine i loro beni preziosi, le porcellane, l’argenteria, dall’altra i poveri si stringono gli uni agli altri, spesso partono a piedi, i figli per mano, pochi oggetti in tasca; due mondi così diversi si ritrovano a condividere lo stesso destino.Le vite di diversi personaggi si intrecciano durante la seconda Guerra Mondiale, in questo modo Irene Némirovski ci fornisce un quadro nitido dell’epoca e ci mostra quanto la guerra possa cambiare le per-sone. Alcune in meglio, come il giovane Hubert che scappa per entrare nell’esercito e diventa grande di colpo; qualcun altra in peggio, come lo scrittore Langelet che in tutto il suo egoismo ruba la benzina a una coppia di ragazzi nel tentativo di mettersi in salvo. In ogni caso tutti i personaggi escono cambiati dalla guerra, costretti a misurarsi con nuove scelte. Si trovano anche a confrontarsi con lo straniero, proprio come gli abitanti di un piccolo villaggio di campagna francese quando devono ospitare i tede-schi durante l’occupazione: vorrebbero mostrarsi ostili ai nemici, ma sono solo ragazzi che cercano un po’ di calore, lontani da casa, dagli affetti.Il lettore fa propri sentimenti umani lontani, causati dalla guerra, dall’angoscia per il futuro, dal non sapere quando si potrà di nuovo vivere nella pace. La Némirovski scrive con grazia, dalla descrizione di un istante, dai pensieri delle persone ci trasmette il vero dramma della guerra, che riduce la vita all’essenziale, ponendo di colpo davanti alla precarietà della vita e facendo apprezzare il valore degli affetti, di un singolo momento di felicità.

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RECENSIONE DEL LIBRO “SUITE FRANCESE”

DI IRENE NEMIROVSKI di Marcella Vezzoli

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Faber_Pubblicità progresso

Cari amiciSOS: a tutti coloro che apprezzano il lavoro e l’esistenza di EMERGENCY, a chi crede nell’eguaglianza in dignità e diritti di tutti gli esseri umani.Il lavoro di EMERGENCY continua ad aumentare, perché sono in crescita costante le vittime della guerra e della povertà, e curarle è insieme il nostro dovere e il nostro ruolo.In questo momento, le nostre risorse economiche non ci consentono più di farvi fronte. Abbiamo bisogno di molti soldi per tenere aperti i nostri ospedali, i centri chirurgici per le vittime di guerra, i centri ostetrici, pe-diatrici, di primo soccorso, di riabilitazione. E per mantenere in vita anche i poliambulatori specialistici gratuiti che EMERGENCY ha aperto in Italia negli ultimi anni.Vi chiediamo aiuto affinché EMERGENCY, anche nella difficile situazione di oggi, possa continuare a esistere, perché non venga interrotto uno stra-ordinario “esperimento umano” di cura e di cultura.SOS EMERGENCY. Grazie di raccoglierlo.Gino StradaFondatore di EMERGENCY

Per fare subito una donazione on line: www.sosemergency.it

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RICERCAa cura di Silvia Apriglianofoto di Maddalena Mirabella

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«Fatti non foste a viver come bruti,ma per seguire virtute e canoscenza.»

da “La Divina Commedia”, canto XXVI Inferno

di Dante Alighieri

da “Nomadi”di Franco Battiato

«Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità nelle nebbie del nord e nei tumulti delle civiltà tra i chiari scuri e la monotonia dei giorni che passano camminatore che vai cercando la pace al crepuscolo la troverai alla fine della strada.»

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«- Diavolo! Un buco nel tubo... come ho fatto a non pensarci... caro Pehnt, ecco dov'è l'errore... un buco nel tubo... un piccolo maledetto buco nascosto da qualche parte, è chiaro... se n'è scappata di lì tutta quella voce... sparita nell'aria...Pehnt si è alzato il bavero della giacca, tiene le mani sprofondate nelle tasche, guarda Pekish e sorride.- Be', sai cosa ti dico? lo troveremo Pehnt... noi troveremo quel buco... abbiamo ancora una buona mezz'ora di sole, e lo troveremo... in marcia, ragazzo, non ci faremo fregare così facilmente... no.E così se ne vanno, Pekish e Pehnt, Pehnt e Pekish, se ne tornano lungo il tubo, uno a sinistra l'altro a destra, lentamente, scrutando ogni palmo del tubo, piegati in due, a cercare tutta quella voce perduta, che se uno li vedesse da lontano potrebbe ben chie-dersi cosa diavolo fanno quei due, in mezzo alla campagna, con gli occhi fissi per ter-ra, passo dopo passo, come insetti, e invece sono uomini, chissà cos'hanno perso per strisciare in quel modo in mezzo alla campagna, chissà se lo troveranno mai, sarebbe bello lo trovassero, che almeno una volta, almeno ogni tanto, in questo dannatissimo mondo, qualcuno che cerca qualcosa avesse in sorte di trovarla, così, semplicemente, e dicesse l'ho trovata, con un lievissimo sorriso, l'avevo persa e l'ho trovata - sarebbe poi un niente la felicità.»

«La domanda naturalmente è: sarà possibile amalgamare tutto, e scoprire che que-sto mondo rappresenta i diversi aspetti di un’unica cosa? Non si sa. Tutto ciò che sappiamo è che andando avanti riusciamo ad amalgamare dei pezzi e poi troviamo altri pezzi che non si combinano, e continuiamo a cercare di completare il puzzle. Naturalmente non si sa nemmeno se il numero dei pezzi sia finito, o se il puzzle abbia una frontiera. Non si saprà mai fino a che il quadro non sarà completo, se mai lo sarà.»

da “Castelli di rabbia”di Alessandro Baricco

da “Sei pezzi facili”di P. Feynman

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«Il più bello dei mariè quello che non navigammo.Il più bello dei nostri figlinon è ancora cresciuto.I più belli dei nostri giorninon li abbiamo ancora vissuti.E quelloche vorrei dirti di più bellonon te l’ho ancora detto.»

«Sempre devi avere in mente Itaca -raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchiometta piede sull'isola, tu, riccodei tesori accumulati per stradasenza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messosulla strada: che cos'altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addossogia` tu avrai capito cio` che Itaca vuole significare.»

di Nazim Hikmet

“Itaca”di Kostantin Kavafis

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C’era un tempo in cui Porta Vittoria non si chiamava così, in questa piazza si trovava una figura di donna in piedi intenta a rasarsi là dove non batte il sole, la porta veniva chiamata Tosa. Chi raffigurava? Una coraggiosa femmi-na uscita per distrarre i soldati di Barbarossa dall’assedio della città o l’impe-ratrice di Costantinopoli che si oppose alla ricostruzione della città e venne raffigurata come una prostituta sulla porta che più di tutte dava verso Orien-te? Dilemma storico, intanto si può ancora ammirare al Museo Antico del Castello Sforzesco, pare sia di buon augurio fra l’altro passarci sotto e farle un piccolo inchino o un fischio di ammirazione! F. C.

Il guardianodi Harold Pintertraduzione Alessandra Serra regia Lorenzo Loriscon Gigio Alberti, Mario Sala, Alessandro Tedeschi dal 9 febbraio al 4 marzo 2012Teatro Out Off, progetto NEXT 2009 – Regione Lombardia

La pièce si svolge, come in altri testi di Pinter, in una “stanza”. Ora però è affastellata di reperti e residui di tante esistenze: un letto di ferro, vasi, barattoli di vernice, una scala, un lavandino, un secchio di carbone, una falciatrice, un caminetto, una statuetta di Buddha, due valigie… In questo curioso ambiente assistiamo all’arrivo di un giovanotto, Aston, e di un barbone, Davies, il quale viene assunto da Aston a fare il guardiano. Per questo, ma non solo per questo, l'ambiente si presenta inquietante e minaccioso. La mite disponibilità dell' uno si specchia nella sottomissione dell'altro. Eppure entrambi possono contraddirsi nel proprio ruolo. Aston è in balìa di una maniacale pratica del fai da tè. Nella litania degli affronti e delle persecuzioni subite, Davies non riesce a celare il violento rancore verso chi lo ha maltrattato, o il fiero razzismo contro i “negri” dell'appartamento e del negozio a fianco. Finché, rimasto solo nella stanza, Davies non viene sorpreso da Mick (fratello di Aston), che gli grida: «A che gioco giochiamo?». Da questo punto in poi, il gioco a tre avrà regole brutali, e non conoscerà limiti di campo.Scritto nel 1959 e andato in scena nel 1960, II guardiano segna il primo vero successo che Pinter riscuote con il suo teatro. Il motivo lo spiega lapida-riamente un titolo sull'«Observer» di quegli anni: “A play about people”. Lo scrittore sembra parlare della gente, creature vere, nate nella tumultuosa Londra di quegli anni, quelle che lui porta in scena.

TEATROFRONTIERE DELLA PSICOANALISI:Incontri in aree di confine tra saperi limitrofi.Terzo ciclo: La malattia, la vecchiaia, la povertà, il dolore.Martedì 21 febbraio 2012 ore 21.00CASA DELLA CULTURA E CENTRO MILANESE DI PSICOANALISI “CESARE MUSATTI”

Le “frontiere” che quest’anno intendiamo interrogare sono frontiere alquanto scomode, sicuramente per gli psicoana-listi, ma crediamo per tutti. Ma la malattia, la vecchiaia, la povertà e il dolore rappresentano dei confini e dei limiti con i quali ogni forma di cura è chiamata a confrontarsi che lo voglia o no. Proviamo a farlo con semplicità e con coraggio.La malattia:Quale senso possiamo cercare di dare a questa esperienza che può essere così devastante e invalidante? Quale atteggiamento ci richiede?Ne discutono:Elena Cattaneo, ricercatrice farmacologa Università degli Studi di Milano, Alberto Costa, direttore scientifico Scuola Europea di Oncologia, Rita Corsa, psicoanalista SPI, Alberto M. Comazzi, psicoanalista SPI, consulente psichiatra Ist. Naz. Tumori

LETTERATURA

faberg

iorna

le.it

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