[e-book - ita] appunti di diritto processuale civile

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APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Il rapporto tra diritto sostanziale e diritto processuale (ovvero i rapporti che ci sono tra diritto civile e processo civile, tra diritto penale e processo penale, tra diritto tributario e processo tributario, tra diritto amministrativo e processo amministrativo). Il diritto sostanziale è un complesso di norme nelle quali il legislatore ha individuato quello che è l’interesse meritevole di tutela. Il diritto processuale, invece, è costituito da un complesso di norme, nel quale il legislatore prevede determinati meccanismi complessi (processi) che entrano in gioco nel momento in cui la norma di diritto sostanziale non viene attuata. Il diritto sostanziale è primario rispetto al diritto processuale, mentre il diritto processuale è strumentale rispetto al diritto sostanziale (appunto perché entra in gioco solo se la norma di diritto sostanziale non è stata opportunamente attuata). Da un lato il diritto sostanziale è indispensabile per l’esistenza del diritto processuale; dall’altro il diritto processuale civile è fondamentale per l’esistenza stessa del diritto sostanziale che senza il diritto processuale potrebbe limitarsi ad essere una mera previsione formale. La necessaria relazione tra il diritto sostanziale ed il diritto processuale è giustificata anche dalla previsione legislativa secondo la quale nessuno può fare ricorso alla forza o alla violenza per avere ragione del proprio diritto; questo è sancito in 2 norme l’art.392 cod.pen. che riguarda l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose e l’art.393 cod.pen. che tratta dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone. Il diritto processuale ha carattere non unitario, non solo perché abbiamo vari processi (amministrativo, penale, civile e tributario), ma anche perché all’interno dello stesso sistema abbiamo diversi modi di garantire la tutela giurisdizionale (ad esempio nel processo penale oltre al processo classico, normale, abbiamo: il processo che prevede l’applicazione della pena su richiesta delle parti ed uno sconto della pena stessa, patteggiamento; il rito abbreviato richiesto in certi casi su accordo del cliente; il processo per direttissima; il procedimento per decreto quando ci sono delle pene pecuniarie). Nel processo civile la situazione è più complicata, infatti abbiamo una distinzione per quanto riguarda il tipo di processo tra processi a cognizione piena ed esauriente e processi a cognizione sommaria. - I processi a cognizione piena ed esauriente sono quei processi nei quali il giudice arriva alla sua decisione dopo aver esaminato tutto ciò che è necessario per decidere, per poi emanare un provvedimento che disciplina definitivamente il rapporto tra le parti, la sentenza. Nell’ambito della cognizione piena ed esauriente abbiamo diversi tipi di svolgimento del processo: il processo ordinario (valido per quasi tutte le controversie); il rito speciale del lavoro; il rito delle locazioni; il rito che si svolge davanti ad un giudice di pace (giudice che presenta delle caratteristiche diverse rispetto al giudice ordinario in quanto dura limitatamente nel tempo, svolge la sua attività non gratuitamente e si occupa in genere di controversie di valore inferiore ai 5 milioni); il procedimento in camera di consiglio (caratterizzato innanzitutto dal fatto che il legislatore non viene a predeterminare degli obblighi e dei doveri per il giudice ma lascia ampia discrezionalità allo stesso nel modo di condurre il procedimento ed in secondo luogo dal fatto che tale procedimento non si chiude con una sentenza ma con un decreto, come ad esempio avviene nel caso delle autorizzazioni che i tutori del minore devono chiedere per poter esercitare atti che influiscono sul patrimonio dello stesso minore). - I procedimenti a cognizione sommaria sono caratterizzati dal fatto che il giudice, delle parti in contesa, sente una sola parte oppure sente entrambe ma in maniera incompleta, limitandosi così ad una visione superficiale e provvisoria perché fa tutto ciò in poco tempo. In questo tipo di procedimento il giudice non ha la certezza ma si basa sulla probabilità, la sua conclusione è solo un’ipotesi di soluzione della controversia che non potrà assumere la forma di sentenza, ma avrà la forma del decreto (quando viene ascoltata una sola delle parti) o dell’ordinanza (quando vi è un certo contraddittorio). Esempi di tali procedimenti sono: il sequestro; il sequestro giudiziale (quando è in contestazione il diritto di proprietà); il provvedimento di denuncia di nuova opera, l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, i provvedimenti d’urgenza (art.700 cod.proc.civ.). I provvedimenti sommari e cautelari necessitano dell’instaurazione di un processo a cognizione piena ed esauriente (entro 30 giorni da parte di chi ha vinto), in caso contrario perdono la loro efficacia; se il processo a cognizione piena ed esauriente invece c’è il provvedimento sommario e cautelare viene recepito da un provvedimento definitivo, la sentenza. - I procedimenti sommari non cautelari si aprono per iniziativa di un soggetto dopodiché il giudice decide con un decreto che può vivere di vita propria, cioè che può da quel momento disciplinare i rapporti fra le parti. Il legislatore, però lascia alla parte soccombente la facoltà di proporre opposizione aprendo un processo a cognizione piena ed esauriente. Qui la particolarità consiste nel fatto che se non si instaura il

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APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE NON È UNITARIO; (ovvero la controversia riguarda beni immobili situati all’estero) o se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale. (il giudice decide cha ha la giurisdizione e quindi il giudizio continua, infatti esso si chiuderà con la sentenza che decide nel merito). giurisdizione deve essere proposto all’inizio, altrimenti la sentenza ne rende impossibile la proposizione, non vi sarà stata una fase istruttoria).

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APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

Il rapporto tra diritto sostanziale e diritto processuale (ovvero i rapporti che ci sono tra diritto civile e processo civile, tra diritto penale e processo penale, tra diritto tributario e processo tributario, tra diritto amministrativo e processo amministrativo). Il diritto sostanziale è un complesso di norme nelle quali il legislatore ha individuato quello che è l’interesse meritevole di tutela. Il diritto processuale, invece, è costituito da un complesso di norme, nel quale il legislatore prevede determinati meccanismi complessi (processi) che entrano in gioco nel momento in cui la norma di diritto sostanziale non viene attuata. Il diritto sostanziale è primario rispetto al diritto processuale, mentre il diritto processuale è strumentale rispetto al diritto sostanziale (appunto perché entra in gioco solo se la norma di diritto sostanziale non è stata opportunamente attuata). Da un lato il diritto sostanziale è indispensabile per l’esistenza del diritto processuale; dall’altro il diritto processuale civile è fondamentale per l’esistenza stessa del diritto sostanziale che senza il diritto processuale potrebbe limitarsi ad essere una mera previsione formale. La necessaria relazione tra il diritto sostanziale ed il diritto processuale è giustificata anche dalla previsione legislativa secondo la quale nessuno può fare ricorso alla forza o alla violenza per avere ragione del proprio diritto; questo è sancito in 2 norme l’art.392 cod.pen. che riguarda l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose e l’art.393 cod.pen. che tratta dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone. Il diritto processuale ha carattere non unitario, non solo perché abbiamo vari processi (amministrativo, penale, civile e tributario), ma anche perché all’interno dello stesso sistema abbiamo diversi modi di garantire la tutela giurisdizionale (ad esempio nel processo penale oltre al processo classico, normale, abbiamo: il processo che prevede l’applicazione della pena su richiesta delle parti ed uno sconto della pena stessa, patteggiamento; il rito abbreviato richiesto in certi casi su accordo del cliente; il processo per direttissima; il procedimento per decreto quando ci sono delle pene pecuniarie). Nel processo civile la situazione è più complicata, infatti abbiamo una distinzione per quanto riguarda il tipo di processo tra processi a cognizione piena ed esauriente e processi a cognizione sommaria. - I processi a cognizione piena ed esauriente sono quei processi nei quali il giudice arriva alla sua decisione

dopo aver esaminato tutto ciò che è necessario per decidere, per poi emanare un provvedimento che disciplina definitivamente il rapporto tra le parti, la sentenza. Nell’ambito della cognizione piena ed esauriente abbiamo diversi tipi di svolgimento del processo: il processo ordinario (valido per quasi tutte le controversie); il rito speciale del lavoro; il rito delle locazioni; il rito che si svolge davanti ad un giudice di pace (giudice che presenta delle caratteristiche diverse rispetto al giudice ordinario in quanto dura limitatamente nel tempo, svolge la sua attività non gratuitamente e si occupa in genere di controversie di valore inferiore ai 5 milioni); il procedimento in camera di consiglio (caratterizzato innanzitutto dal fatto che il legislatore non viene a predeterminare degli obblighi e dei doveri per il giudice ma lascia ampia discrezionalità allo stesso nel modo di condurre il procedimento ed in secondo luogo dal fatto che tale procedimento non si chiude con una sentenza ma con un decreto, come ad esempio avviene nel caso delle autorizzazioni che i tutori del minore devono chiedere per poter esercitare atti che influiscono sul patrimonio dello stesso minore).

- I procedimenti a cognizione sommaria sono caratterizzati dal fatto che il giudice, delle parti in contesa, sente una sola parte oppure sente entrambe ma in maniera incompleta, limitandosi così ad una visione superficiale e provvisoria perché fa tutto ciò in poco tempo. In questo tipo di procedimento il giudice non ha la certezza ma si basa sulla probabilità, la sua conclusione è solo un’ipotesi di soluzione della controversia che non potrà assumere la forma di sentenza, ma avrà la forma del decreto (quando viene ascoltata una sola delle parti) o dell’ordinanza (quando vi è un certo contraddittorio). Esempi di tali procedimenti sono: il sequestro; il sequestro giudiziale (quando è in contestazione il diritto di proprietà); il provvedimento di denuncia di nuova opera, l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, i provvedimenti d’urgenza (art.700 cod.proc.civ.). I provvedimenti sommari e cautelari necessitano dell’instaurazione di un processo a cognizione piena ed esauriente (entro 30 giorni da parte di chi ha vinto), in caso contrario perdono la loro efficacia; se il processo a cognizione piena ed esauriente invece c’è il provvedimento sommario e cautelare viene recepito da un provvedimento definitivo, la sentenza.

- I procedimenti sommari non cautelari si aprono per iniziativa di un soggetto dopodiché il giudice decide con un decreto che può vivere di vita propria, cioè che può da quel momento disciplinare i rapporti fra le parti. Il legislatore, però lascia alla parte soccombente la facoltà di proporre opposizione aprendo un processo a cognizione piena ed esauriente. Qui la particolarità consiste nel fatto che se non si instaura il

procedimento a cognizione piena ed esauriente il provvedimento sommario rimane pienamente efficace tra le parti. Esempi di procedimenti a cognizione sommaria non cautelari sono: la repressione della condotta antisindacale (art.28 dello Statuto dei lavoratori); il decreto ingiuntivo.

Il diritto processuale non è neutrale; infatti esso non è indifferente al particolare bisogno di tutela di certi diritti (altrimenti vi sarebbe stato un unico tipo di processo). Se consideriamo 3 diritti costituzionali (che quindi non ammettono deroghe in quanto assoluti) vediamo che questi non vengono tutelati allo stesso modo. L’art.17 Cost. stabilisce all’ultimo comma che le autorità possono vietare le riunioni in luogo pubblico per motivi di sicurezza o di incolumità pubblica, comprovati; qui siamo in presenza di un provvedimento dell’autorità pubblica che però ha ad oggetto dei diritti costituzionali e quindi la controversia è di competenza del giudice ordinario, ma nel codice non è previsto un processo particolare dobbiamo promuovere un giudizio a cognizione piena ed esauriente ed anche se è possibile invocare il provvedimento d’urgenza (art.700 cod.proc.civ.) accade che i tempi di entrambi i processi fanno venir meno l’utilità della riunione. Quindi abbiamo un diritto sostanziale che viene tutelato a livello processuale con il processo ordinario di cognizione ma in un modo che non mi tutela realmente in caso di divieto. L’art.42 Cost. stabilisce che la proprietà è pubblica o privata e questo è un diritto costituzionalmente garantito (con le famose limitazioni); qui il proprietario può avvalersi di una serie di azioni quali: le azioni possessorie, la denuncia di nuova opera, la denuncia di danno temuto. L’art.28 dello Statuto dei lavoratori prevede un particolare procedimento di repressione della condotta antisindacale dando la possibilità al sindacato di ottenere entro 48 ore il provvedimento col quale il giudice dichiara illegittimo il comportamento del datore di lavoro, dunque un provvedimento che pone fine tempestivamente al comportamento antigiuridico del datore di lavoro. La tutela del diritto del sindacato è rafforzata dal fatto che se il datore di lavoro non ottempera al suo obbligo incorre in un reato penale (art.650 cod.pen.) e vi è una misura coercitiva che induce il datore di lavoro ad adempiere se non lo fa spontaneamente. Queste tre situazioni indicate ci fanno capire come il legislatore a livello processuale può alterare la decisione di tutelare un interesse meritevole di tutela, presa a livello sostanziale, non predisponendo un tipo di processo specifico per la tutela di quell’interesse (ad ogni diritto il suo processo).

Quindi riassumendo il DIRITTO PROCESSUALE: � È STRUMENTALE, MA INDISPENSABILE, RISPETTO AL DIRITTO SOSTANZIALE; � NON È UNITARIO; � NON È NEUTRALE.

FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Il codice di procedura civile risale al 1940, ma risulta oggi modificato e accompagnato da altre fonti costituite da leggi ed altri codici. - Nel 1950 (attraverso la sostituzione di alcuni articoli senza alterarne la numerazione, nel senso che

vennero aggiunti gli articoli bis, ter, quater etc.), una novella elimina norme molto onerose per le parti rendendo il processo più elastico (dopo il 1950 possono modificare le loro posizioni anche durante il processo).

- Nel 1973 con la riforma sul processo del lavoro si è previsto un giudice ad hoc sulle controversi di lavoro (in questa occasione la Corte cost. stabilì che era legittimo avere processi diversi per situazioni differenti).

- Nel 1990 si ha una riforma sui provvedimenti urgenti che entra completamente in vigore nel 1995, anche se dopo la sua entrata in vigore viene rivista.

- Nel 1991 c’è stata una riforma (anch’essa entrata in vigore nel 1995) che ha previsto l’istituzione del giudice di pace.

- Nel 1998 si ha l’istituzione del giudice unico di 1° grado e l’eliminazione del pretore, tale riforma ha attuato una semplificazione sotto il profilo della competenza.

- Un’altra riforma è quella del pubblico impiego che ha trasferito le controversie di lavoro nella pubblica amministrazione dal giudice amministrativo a quello ordinario.

Tra le fonti del diritto processuale civile hanno un ruolo di primo piano le norme contenute nella Costituzione. La Corte cost. ha spesso adeguato le norme ordinarie alla Costituzione. Ricordiamo che le norme in materia processuale sono di competenza dello stato (non anche delle regioni); questo è stato stabilito dalla Corte cost. nella sentenza n.86/1999. La nostra Costituzione prevede parecchie norme sul processo, ovvero le norme che riguardano i principi del processo, la giustizia (artt.24, 25, 101, 111) e quelle che riguardano l’ordinamento giudiziario inteso come organizzazione dei giudici. L’art.3 Cost. bisogna dire che la Corte cost. stabilisce che il principio di uguaglianza (sotto il profilo processuale) non vale in senso assoluto ma in senso sostanziale; ciò

vuol dire che trattamenti processuali diversi sono ammissibili solo se costituzionalmente legittimi (è il caso del processo del lavoro caratterizzato da una durata inferiore e quindi formalmente incostituzionale, ma costituzionale dal punto di vista sostanziale in quanto inerente ad un oggetto diverso). L’art.24 Cost. stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (giurisdizione ordinaria) ed interessi legittimi (giurisdizione amministrativa)”. Ad oggi la distinzione tra giurisdizione amministrativa e ordinaria, così come quella tra posizione del soggetto nei confronti di un suo diritto soggettivo (situazione assoluta) e posizione del soggetto nei confronti di un interesse legittimo (situazione non assoluta) viene ad assumere meno importanza ma non scompare perché tale distinzione (tra diritti soggettivi ed interessi legittimi) è stata costituzionalizzata. L’art.24 Cost. da vita a due diverse letture; la lettura in negativo che recepisce la correlazione tra titolarità della situazione giuridica sostanziale (diritti ed interessi legittimi) e titolarità dell’azione (in riferimento citiamo l’art.81 cod.proc.civ. che riguarda la sostituzione processuale e l’art.112 Cost. che stabilisce che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) e la lettura in positivo che è costituita dal principio che non sono costituzionalmente legittimi gli ostacoli posti dalla legge ordinaria alla possibilità di agire in giudizio (questo vale sia sotto il profilo soggettivo, il legislatore non può limitare la possibilità di agire in giudizio per ragioni di sesso, razza, religione etc., che sotto il profilo oggettivo); qui si può fare un riferimento all’art.113 cost. che stabilisce che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”; ciò sta a significare che la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata. La Corte cost. è intervenuta per sancire l’incostituzionalità di leggi che rendevano difficile la possibilità di agire in giudizio; ad esempio essa: - è intervenuta nel 1951 su un istituto del processo tributario (in base al quale quando la pubblica

amministrazione chiede il pagamento di un tributo il contribuente deve prima pagare e dopo può fare opposizione richiedendo la restituzione dei soldi) dichiarandolo incostituzionale in quanto non è possibile subordinare l’azione giudiziaria al preventivo pagamento dell’imposta.

- è intervenuta sull’art.98 cod.proc.civ., con la sentenza n.67/1960, dichiarandolo costituzionalmente illegittimo rispetto all’art.24 Cost. perché subordinava la possibilità di agire in giudizio al versamento di una cauzione.

- è intervenuta per sancire l’incostituzionalità dell’arbitrato obbligatorio (forma di giustizia privata alternativa alla giustizia ordinaria secondo la quale la controversia viene fatta decidere ad un arbitro o ad un gruppo di arbitri privati); infatti l’arbitrato deve essere facoltativo e quindi la Corte cost. ha dichiarato illegittime quelle norme che prevedevano l’obbligatorietà dell’arbitrato.

Nel nostro ordinamento abbiamo istituti non toccati dalla Corte cost., come ad esempio la cauzione, il deposito per soccombenza. La Corte cost. ha ritenuto costituzionale: - l’art.669-quinquies cod.proc.civ. che stabilisce che il giudice, dopo aver dato il provvedimento cautelare

(ad es. il sequestro conservativo), può imporre una cauzione per l’attuazione di un procedimento cautelare; - la conciliazione obbligatoria nelle controversie di lavoro (prima di agire in giudizio); - il deposito per soccombenza. In realtà l’art.24 Cost. viene limitato dagli istituti esaminati. Per ciò che riguarda il 2° comma dell’art.24 Cost., che stabilisce che “la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, bisogna dire che il diritto di difesa, diverso dal diritto al contraddittorio, è quel diritto delle parti di poter far valere i propri diritti e le proprie ragioni nell’ambito di un processo. Questo diritto deve essere assicurato durante tutto il processo ed in funzione di ciò la Corte cost. ha sancito l’incostituzionalità di due norme: l’art.247 cod.proc.civ. (che prevedeva il divieto di testimoniare per i parenti, per i coniugi etc.) e l’art.248 cod.proc.civ. (che riguardava i minori di quattordici anni). L’incostituzionalità di queste due norme è dovuta al fatto che esse costituiscono una limitazione al diritto di difesa espresso dal 2° comma dell’art.24 Cost. Analizzando poi l’art.669-terdecies cod.proc.civ. bisogna dire che questa è una norma dettata in tema di procedimento cautelare che prevede la possibilità di proporre reclamo avverso il procedimento con il quale il giudice concede la misura cautelare; la norma in questione prevedeva la possibilità di porre reclamo per i provvedimenti che disponevano la misura cautelare ma non per quelli che la rigettavano la misura cautelare ed è per questo che la norma è stata ritenuta illegittima in quella parte. Un’altra norma dichiarata incostituzionale è l’art.708 cod.proc.civ. (in tema di separazione dei coniugi). Il 3° comma dell’art.24 Cost. stabilisce che “sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”. La sentenza del 1998 della corte di giustizia europea stabilì che il gratuito patrocinio è un diritto chi non ha soldi. Prima il decreto regio del ’23 stabiliva che il patrocinio per i non abbienti era gratuito ma era un onere degli avvocati, così questi ultimi difendevano male chi non pagava. Nel 1973 questo sistema

è stato riformato solo nelle controversie di lavoro; successivamente per ciò che riguarda le cause penali (ma anche per alcuni processi civili relativamente). Il patrocinio gratuito per i non abbienti e a carico dello stato ha trovato una disciplina anche in una legge del 1990. La legge n.134/2001 abroga il regio decreto del 1923 ed estende il patrocinio a spese dello stato a tutti i soggetti con un reddito inferiore a 18 milioni. Il 4° comma dell’art.24 Cost. non ci interessa perché riguarda il settore penale. Il 1° comma dell’art.25 Cost. stabilisce che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”; tale articolo si collega all’art.102 Cost. che vieta l’istituzione di giudici speciali per determinate cause ad eccezione di particolari materie (sesta disposizione transitoria della Costituzione). Collegato all’art.102 Cost. è l’art.103 Cost. che individua, prima che nasca la controversia, le giurisdizioni competenti. Le giurisdizioni competenti devono essere individuate in base a 3 criteri: materia (oggetto), valore (per cause inerenti ai beni mobili di valore inferiore ai 5 milioni è competente il giudice di pace, per le altre cause di valore superiore è competente il tribunale), territorio. Ricordiamo che il criterio materia esclude il criterio valore. L’art.103 Cost., nella parte in cui dice “gli altri organi di giustizia amministrativa”, ha portato nel 1970 (con la legge n.1034/1971) all’istituzione dei TAR (tribunali amministrativi regionali) che non sono stati considerati nuovi giudici speciali ma vecchi giudici revisionati, perciò legittimi. L’art.101 Cost. stabilisce che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” ed in esso si può scorgere un collegamento con l’art.104 Cost. Sono state dichiarate illegittime le giunte provinciali amministrative insieme al consiglio di prefettura e al comandante di porto; questo perché andavano contro le previsioni dell’art.104 Cost. Sopravvivono invece le commissioni tributarie. Un’altra norma importante è l’art.111 Cost., riformato nel 1999, che fissa una serie di garanzie per le parti quali: la regolamentazione di un giusto processo da parte della legge; la presenza del contraddittorio; le condizioni di parità delle parti; la terzietà e l’imparzialità del giudice; la ragionevole durata del processo. Importanti sono poi il rapporto tra processo civile e processo costituzionale (vedi altri appunti) ed il rapporto tra giurisdizione nazionale e giurisdizione comunitaria.

GIURIDIZIONE

Innanzitutto dobbiamo dire che il processo è una specie del genere procedimento; infatti entrambi sono caratterizzati da un insieme di norme e di atti concatenati l’uno all’altro e finalizzati all’emanazione dell’atto conclusivo. Il processo poi è un provvedimento nel quale si esercita la giurisdizione (una delle 3 funzioni proprie dello stato). La funzione giurisdizionale diretta all’attuazione delle norme da parte dei giudici era prima legata agli altri poteri e questo è evidente se prendiamo ad esempio l’istituto del pubblico ministero che nasce appunto come rappresentante del potere esecutivo e che evidenziava un collegamento tra potere esecutivo e potere giurisdizionale; discorso simile può essere fatto per la cassazione che evidenzia un collegamento tra potere giurisdizionale e potere legislativo; infine anche il regolamento di giurisdizione evidenziava un collegamento tra potere esecutivo e potere giurisdizionale. Possiamo dire che oggi sussistono delle situazioni al confine tra i poteri dello stato, ad esempio: - i decreti legge (al confine tra potere esecutivo e potere legislativo); - la volontaria giurisdizione (al confine tra potere giurisdizionale e potere esecutivo-amministartivo); - il processo esecutivo (al confine tra potere giurisdizionale e potere esecutivo-amministartivo). - Il processo costituzionale (al confine tra potere giurisdizionale della Corte cost. e potere legislativo). La giurisdizione è una nozione positiva, non c’è una nozione valida in tutti i tempi, in tutti i luoghi e in tutte le situazioni; infatti ogni stato può avere una nozione differente di giurisdizione. Per individuare la giurisdizione sono state fatte molte ipotesi che hanno ad oggetto elementi diversi: - il contraddittorio, ma questo non è sempre presente (infatti è assente nel decreto ingiuntivo); - la domanda di parte, ma questa è presente anche nei procedimenti amministrativi e quindi non caratterizza

i procedimenti giurisdizionali; - la controversia, ma non sempre le attività giurisdizionali sono caratterizzate da una lite tra le parti (infatti

questa non c’è nella volontaria giurisdizione); - l’immutabilità del provvedimento, ma questo non avviene sempre (infatti la volontaria giurisdizione non si

conclude con un provvedimento immutabile). Per determinare la giurisdizione si può fare riferimento alle norme costituzionali rappresentate da alcuni articoli: Art.24 Cost.: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento... Art.25 Cost.: Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge… Art.101 Cost.: La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge…

Art.111 Cost.: La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale… La nozione complessa di giurisdizione che ne deriva è costituita da una serie di elementi: - attuazione del diritto; - necessità della domanda di parte; - terzietà del giudice; - contraddittorio; - decisione riferita all’ordinamento nella sua globalità. Sono previste più giurisdizioni: ordinaria (civile e penale); amministrativa; tributaria; costituzionale; comunitaria. Tra i vari tipi di giurisdizione sussistono rapporti diversi (come quello tra giurisdizione civile e giurisdizione penale o come quella tra giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa). La giurisdizione civile che più ci interessa ha ad oggetto diritti soggettivi ma il giudice ordinario che esercita tale giurisdizione, a volte, incontra dei limiti (non può decidere sempre e comunque, perché in alcuni casi non ha la giurisdizione che è di un altro giudice). Dobbiamo analizzare a riguardo l’art.37 cod.proc.civ. (riformato dalla legge n.218/1995 nella quale è stato trasferito il 2° comma dell’articolo in questione oltre che l’art.2 cod.proc.civ. ed altre leggi). L’art.37 al 1° comma individua i primi due limiti per il giudice ordinario che sono costituiti dal limite nei confronti della pubblica amministrazione e dal limite nei confronti dei giudici speciali; mentre la legge n.218/1995 individua all’art.11 il limite per il giudice ordinario nei confronti del convenuto straniero (limite prima contenuto nel 2° comma dell’art.37). quindi il fulcro del 1° comma dell’art.37 cod.cov.proc. e dell’art.11 della legge n.218/1995 è la questione di giurisdizione o meglio il “difetto di giurisdizione”. Si ha il primo limite quando ad un giudice ordinario viene sollevato un difetto di giurisdizione, ma qui si tratta di risolvere una questione che ha ad oggetto un atto della pubblica amministrazione e dove vi è un problema di merito in quanto si tratta di vedere se esiste o meno il diritto dedotto in giudizio; in realtà il giudice non potrà decidere non solo perché la giurisdizione dovrebbe essere del giudice amministrativo ma soprattutto perché il diritto non esiste (infatti se parliamo del limite del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione ci riferiamo per lo più ad una situazione di improponibilità della domanda in funzione dell’inesistenza del diritto). Si ha il secondo limite quando ad un giudice ordinario viene sollevato un difetto di giurisdizione che trova la sua giustificazione nel fatto che la materia sulla quale si deve decidere è sotto la giurisdizione di un altro giudice e precisamente un giudice speciale (amministrativo, tributario…). Si ha il terzo limite quando ad un giudice ordinario viene sollevato un difetto di giurisdizione dal convenuto straniero nei confronti del quale non devono sussistere criteri di collegamento (criteri a carattere personale: domicilio, residenza, rappresentanza; criteri a carattere oggettivo: materie previste dalla convenzione di Bruxelles; criterio dell’accettazione, espressa o tacita). Per ciò che riguarda i primi due limiti bisogna dire che il difetto di giurisdizione può essere rilevato in ogni stato e grado del processo anche d’ufficio a condizione: - che la questione di giurisdizione non sia stata trattata; - che la decisione, ovvero la sentenza, sulla questione di giurisdizione sia stata impugnata

(questo nel caso in cui la questione sia stata trattata e decisa). Quindi bisogna ribadire che il difetto (o eccezione) di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione o del giudice speciale può essere sollevato dal convenuto o dal giudice in ogni stato e grado del processo. Per quanto riguarda invece il difetto di giurisdizione nei confronti del convenuto straniero, bisogna precisare che l’eccezione di giurisdizione può essere rilevata in qualunque stato e grado del processo: dal convenuto che non abbia accettato, espressamente o tacitamente, la giurisdizione o dal giudice d’ufficio se il convenuto sia contumace (assente), o se ricorre l’ipotesi di cui all’art.5 della legge n.218/1995

(ovvero la controversia riguarda beni immobili situati all’estero) o se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale. Si potrebbe ravvisare una contraddizione tra la parte della norma che stabilisce la possibilità di sollevare l’eccezione in ogni stato e grado del giudizio e la parte della norma che stabilisce l’impossibilità di sollevare l’eccezione per il convenuto che abbia tacitamente accettato la giurisdizione; in realtà quando la norma prevede la possibilità di sollevare il difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del giudizio sottintende che l’eccezione debba essere il primo atto difensivo del convenuto, quindi il convenuto si può costituire nel corso della causa (e non necessariamente all’inizio) ma se vuole rilevare un difetto di giurisdizione deve farlo come suo primo atto difensivo se non vuole che la giurisdizione si ritenga accettata tacitamente. Ora è importante esaminare l’art.8 della legge n.218/1995 che richiama l’art.5 cod.proc.civ. apportandogli un correttivo. Infatti per individuare il momento determinante della giurisdizione si applica l’art.5 cod.proc.civ. (regola della perpetuatio iurisdictionis) che fa riferimento al momento della proposizione della domanda, ma l’art.8 della legge n.218/1995 aggiunge (soprattutto per ragioni di economia processuale) che possono essere presi in considerazione i fatti e le norme che determinano la giurisdizione anche se questi intervengono nel corso del processo (questo vale anche per la competenza). Per ciò che riguarda il caso in cui ci siano collegamenti tra due cause, una discussa in Italia e l’altra all’estero, bisogna prendere in considerazione l’art.7 della legge n.218/1995 che tratta al 1° comma della proposizione della stessa domanda davanti ad un giudice italiano e davanti ad un giudice straniero, stabilendo che in questo caso se il giudice italiano ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetti per l’ordinamento italiano questi deve sospendere il giudizio; mentre al 3° comma tratta del rapporto di pregiudizialità (o di prelazione) che può esistere tra le due cause, stabilendo appunto che nel caso di pregiudizialità di una causa straniera il giudice italiano può sospendere il processo se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetti per l'ordinamento italiano. Ora dobbiamo capire cosa succede nel caso in cui sorga una questione di giurisdizione dinanzi ai diversi giudici (giudice di pace e tribunale); per far ciò bisogna dire che il giudice di pace è un organo monocratico (conosce e decide come giudice unico), mentre il tribunale può essere monocratico o anche collegiale (in questo caso dal 1940 la parte istruttoria si svolge davanti ad un giudice istruttore, mentre la decisione è affidata ad un collegio). Oggi la maggiorparte delle cause sono conosciute dal tribunale monocratico; quelle conosciute dal tribunale collegiale sono individuate dall’art.50-bis c.p.c. L’art.187 c.p.c., poi, reca provvedimenti del giudice istruttore, se c’è il collegio, e provvedimenti del giudice unico se il collegio non c’è; Secondo questo articolo, se il tribunale è collegiale, il giudice istruttore può rimettere al collegio la decisione sulla giurisdizione affinché questa venga decisa separatamente o anche unitamente al merito. Il legislatore ha optato per la scelta a favore del giudice, cioè o decide subito la questione o la decide alla fine (la soluzione ideale sarebbe decidere subito in modo tale da abbreviare i tempi). Secondo l’art.279 c.p.c. la forma del provvedimento sulla giurisdizione è quella della sentenza che può essere: definitiva quando il giudice unico o quello istruttore decidono subito sull’eccezione di giurisdizione, ma bisogna dire che una sentenza è definitiva quando il giudizio viene chiuso (definito) e questo avviene se la sentenza sulla giurisdizione è declinatoria (il giudice dice che non ha giurisdizione ed il giudizio si chiude) oppure quando il giudice decide di non definire subito la questione di giurisdizione (il giudice deciderà alla fine con una sentenza conclusiva); non definitiva quando il giudice decide subito sull’eccezione di giurisdizione ma positivamente con una sentenza dichiarativa

(il giudice decide cha ha la giurisdizione e quindi il giudizio continua, infatti esso si chiuderà con la sentenza che decide nel merito). La sentenza definitiva declinatoria, quella definitiva che decide unitamente sul merito e sulla giurisdizione e quella non definitiva possono essere impugnate in appello e poi dinanzi alla cassazione a sezioni unite. Quando vi è un difetto di giurisdizione per risolvere la questione di giurisdizione oltre che un modo ordinario, che è quello analizzato, vi è un modo straordinario che è quello del regolamento di giurisdizione disciplinato dall’art.41 c.p.c. e dagli artt.367 e 368 c.p.c. Il regolamento di giurisdizione ha avuto origine dall’istituto della vocazione che aveva lo scopo di togliere al giudice il potere di conoscere la controversia sottoposta al suo esame, perché doveva essere competenza della pubblica amministrazione. Il potere di decidere sulla questione di giurisdizione nel regno piemontese era dato al re, poi fu dato al consiglio di stato ed infine alla cassazione. Nel 1940 il regolamento di giurisdizione, che prima era un potere della pubblica amministrazione, è diventato una facoltà di tutti. Il regolamento di giurisdizione può essere proposto, tramite la contestazione della giurisdizione, da parte del convenuto oppure da parte dell’attore ma sempre a condizione che il convenuto contesti la giurisdizione. Quindi possiamo dedurre che il momento iniziale per poter proporre il regola,mento di giurisdizione è quello della contestazione. Mentre attraverso l’art.41 c.p.c. possiamo vedere come il legislatore richieda che ci si trovi in primo grado e che la causa non sia stata decisa nel merito; anche se la cassazione in una sua prima sentenza ha affermato in generale che affinché si possa proporre un regolamento di giurisdizione non dev’essere stata emessa nessuna sentenza (nel sul merito, ne sulla giurisdizione) nel corso del giudizio di primo grado, ma dopo cambi a orientamento dicendo il contrario. Prima l’inconveniente dell’istituto in questione stava nel fatto che esso portava alla sospensione del processo ritardando così la decisione del giudice; invece dal 1990, con la riforma dell’art.367 c.p.c., è stato stabilita la previsione della sospensione obbligatoria, infatti ora il giudice prima di sospendere il processo deve effettuare una duplice valutazione (simile a quella del giudice a quo che rimette le questioni di legittimità alla Corte cost.) in ordine alla fondatezza della questione di giurisdizione ed in ordine all’ammissibilità del ricorso. In seguito alla proposizione del regolamento di giurisdizione sorgono dei problemi a seconda che il processo di merito venga o meno sospeso. Quando il processo di merito viene sospeso: se la cassazione decide che la giurisdizione è del giudice davanti al quale ci si è presentati, allora il processo di merito andrà riassunto (entro 6 mesi) e potrà continuare; altrimenti se la cassazione decide che la giurisdizione non è di quel giudice, il processo di merito non andrà riassunto davanti a quel giudice, tuttalpiù potrebbe essere il convenuto a riassumere il processo a quel giudice per far condannare l’attore al pagamento delle spese giudiziarie. Quando il processo di merito non viene sospeso, quindi si ha la contemporanea pendenza del giudizio di merito e del giudizio sulla giurisdizione alla cassazione: se arriva prima la sentenza della cassazione il processo di merito continua se la cassazione ha deciso che la giurisdizione è di quel giudice altrimenti no (tuttalpiù può esserci la condanna dell’attore al pagamento delle spese giudiziarie); se arriva prima la sentenza del giudice di merito questa, qualora passi in giudicato, non sarà influenzata dalla successiva sentenza declinatoria della cassazione sulla giurisdizione, ma affinché una sentenza passi in giudicato non dev’essere impugnata altrimenti la decisione della cassazione avrà influenza sul giudizio di merito in appello. Il procedimento sulla questione di giurisdizione si svolge davanti alla cassazione a sezioni unite in maniera analoga al ricorso normale in cassazione (infatti sono ammessi solo i documenti e poiché il regolamento di

giurisdizione deve essere proposto all’inizio, altrimenti la sentenza ne rende impossibile la proposizione, non vi sarà stata una fase istruttoria). Una delle differenze tra il modo ordinario per risolvere la questione di giurisdizione ed il modo straordinario (regolamento di giurisdizione) sta nel fatto che nel primo caso è necessaria un’impugnazione, quindi una sentenza, mentre nel secondo caso una sentenza precluderebbe la possibilità proporre il regolamento di giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione non è un’impugnazione e consente alla cassazione di decidere la questione di giurisdizione saltando la fase dell’appello (fase intermedia), ecco perché esso è detto ricorso per cassazione omesso medio. La ragione per la quale una parte sceglie uno dei due procedimenti (quello ordinario o quello straordinario) anziché l’altro sta nell’effetto finale, infatti nel modo ordinario non si sospende il processo, mentre nel modo straordinario se si convince il giudice si ha la sospensione e si evita il processo fino alla decisione della cassazione. Ci si è chiesti se è possibile proporre il regolamento di giurisdizione anche nei processi sommari cautelari che sono caratterizzati da una certa celerità che contrasta con la sospensione derivante appunto dalla proposizione di un regolamento di giurisdizione. Nel 1996 la cassazione modificando la sua giurisprudenza afferma che nell’ambito di un procedimento cautelare non è possibile proporre il regolamento di giurisdizione, non perché la sospensione contrasta con la funzione del processo cautelare, ma perché nell’ambito di un processo cautelare il provvedimento del giudice è suscettibile di essere reclamato dinanzi ad un altro giudice (quindi anziché allungare i tempi con il regolamento di giurisdizione e possibile risolvere la questione di giurisdizione in tempi più celeri dinanzi al giudice del reclamo). L’art.41 c.p.c. va analizzato sotto un altro aspetto indviduato nel 2° comma; infatti in tale comma è prevista la possibilità per la pubblica amministrazione che non sia parte in causa di far dichiarare dalla cassazione a sezioni unite il difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo (non si parla qui di regolamento di giurisdizione perché questo può essere proposto solo in primo grado) purchè non sia già stata affermata la giurisdizione con sentenza passata in giudicato. In questa situazione è il prefetto che chiede al capo dell’ufficio giudiziario davanti al quale pende la causa (ad es. presidente del tribunale) di sospendere il processo; ma dovrà essere una delle parti (quella più diligente) che dovrà attivarsi per adire la cassazione. Per ciò che riguarda la sentenza della cassazione sulla giurisdizione bisogna dire che questa ha efficacia pan-processuale, cioè efficacia generale in tutti i processi che dovessero essere promossi sulla stessa domanda (sulla stessa questione di giurisdizione); questo vale anche nel caso di estinzione del processo. A differenza della sentenza della cassazione, quella del giudice di merito ha efficacia endo-processuale, cioè efficacia limitata al giudizio in corso. Nel nostro ordinamento manca l’effetto di continuazione della causa da un giudice privo di giurisdizione ad un giudice fornito di giurisdizione (quindi manca il passaggio da una giurisdizione ordinaria ad un’altra, essendo il nostro sistema fondato su di un’assoluta separazione delle giurisdizioni); in ragione di ciò sorgono dei problemi: quello inerente al conflitto negativo e quello inerente agli effetti della domanda. Nel caso di conflitto negativo questo si presenta quando un soggetto che propone un domanda prima ad un giudice ordinario e poi ad un giudice amministrativo ottiene due decisioni di diniego della giurisdizione, in tal caso il soggetto in questione potrà rivolgersi alla cassazione che risolve il conflitto negativo e stabilisce di chi è la giurisdizione; in questa situazione il soggetto avrà proposto più domande perché nel nostro sistema non c’è la continuazione. Per quanto riguarda gli effetti della domanda bisogna innanzitutto dire che la proposizione della domanda stessa interrompe la prescrizione del diritto (“credo nella sede adeguata”). Dato che nel nostro ordinamento non c’è la continuazione, nel momento in cui il giudice presso il quale viene

presentata la domanda dichiara di non avere la giurisdizione, la domanda deve essere ripresentata presso un altro giudice; questo potrebbe causare la decadenza del diritto in quanto il termine per la prescrizione (ad esempio quello di 60 giorni per impugnare gli atti amministrativi) è trascorso. Se vi fosse la continuazione è come se la domanda fosse stata proposta fin dal primo momento davanti al giudice fornito di giurisdizione. Ricordiamo poi che non si può presentare la stessa domanda presso giudici di organi differenti.

RAPPORTO TRA PROCESSO CIVILE E PROCESSO PENALE Uno stesso fatto può originare effetti di natura diversa, cioè effetti di natura civile ed effetti di natura penale, ed inizialmente si fece strada l’opinione secondo la quale un unico fatto dovesse essere sottoposto ad un unico giudizio; il problema che sorgeva era quello di scegliere il giudizio cui sottoporre un fatto che determinava sia effetti civili che penali ed infine la scelta cadde sul processo penale, ritenuto quello che poteva meglio garantire la ricerca della verità per la presenza del pubblico ministero (organo pubblico che persegue interessi di ordine pubblico). La prevalenza del processo penale che si veniva a creare rispetto al processo civile si manifestava attraverso: - la possibilità per il danneggiato di costituirsi parte civile nel processo penale (dove il

giudice veniva ad assumere non solo la giurisdizione penale ma anche quella civile); - l’efficacia assoluta del giudicato penale in tutti gli altri giudizi (civile, amministrativo,

disciplinare, tributario); - la sospensione necessaria del processo civile eventualmente promosso, fino alla definizione

del processo penale affinché la sentenza penale potesse esplicare piena efficacia di giudicato.

Per quanto riguarda la relazione tra processo civile e processo penale, questa si può realizzare in due modi: - la relazione al massimo grado di intensità se vi è un rapporto tra un processo penale ed un

processo civile di danno (questo rapporto si ha quando vi è una totale identità del fatto che deve essere conosciuto sia da un giudice che dall’altro), qui possiamo parlare di due cerchi concentrici di uguale diametro (es. incidente stradale);

- la relazione di grado inferiore se vi è un rapporto tra un processo penale ed un processo civile non di danno (questo rapporto si ha quando non vi è una totale identità del fatto che deve essere conosciuto sia da un giudice che dall’altro), qui possiamo parlare di due cerchi di diametro diverso diametro dei quali il cerchio più piccolo rappresenta il processo civile (es. accertamento di un diritto di proprietà sulla base di un atto pubblico falso).

Per quanto riguarda la supremazia (prevalenza) del processo penale su quello civile, questa era disciplinata da alcune norme del codice di procedura penale del 1930 inerenti all’efficacia del giudicato penale: l’art.22 sulla legittimazione attiva e passiva all’esercizio dell’azione civile; l’art.23 sull’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale; l’art.25 sulle relazioni tra il giudicato pale e l’azione civile; l’art.27 sull’autorità del giudicato penale nel giudizio di danno; l’art.28 sull’autorità del giudicato penale in altri giudizi civili o amministrativi. La regola comune a tutti gli articoli è quella dell’efficacia assoluta del giudicato penale. Per ciò che riguarda invece la sospensione del processo civile, questa era disciplinata da altre norme del codice di procedura penale del 1930: l’art.3 sui rapporti concernenti reati che risultano in procedimenti civili, amministrativi o disciplinari; l’art.24 sull’azione civile proposta in sede civile. Il sistema della prevalenza del processo penale costituito dalle norme citate iniziò a decadere in una prima fase costituita dall’intervento della Corte cost. con alcune sentenze

additive sugli artt.28 (nel 1971), 27 (nel 1973) e 25 (nel 1975) che sancivano un’efficacia assoluta del giudicato indipendentemente dalla posizione delle parti nello stesso processo. La Corte cost. stabilì che la sentenza può avere efficacia soltanto nei confronti di coloro che sono stati posti nelle condizioni di difendersi e di far valere le loro opinioni (prima avveniva che nel caso in cui il danneggiato non si era costituito parte civile nel processo penale e veniva emanata una sentenza di assoluzione dell’imputato, il danneggiato stesso subiva la decisione senza aver potuto far valere le proprie posizioni). Attualmente quando è in atto un processo penale ed uno civile, prima di sospendere il processo civile bisogna verificare che le persone presenti nel procedimento civile siano state poste in grado di partecipare al processo penale, in caso contrario il processo civile non andrà sospeso, perché la sentenza del processo penale non avrà efficacia vincolante sul processo civile (quindi la sospensione funziona solo se bisogna applicare la sentenza penale al processo civile). Questo nuovo sistema fa si che nei due processi si possa pervenire a decisioni differenti ed inconciliabili in quanto basate su premesse logiche differenti. La seconda fase della decadenza del sistema della prevalenza del processo penale è costituita dall’intervento del legislatore con il decreto legge n.429/1982 (convertito nella legge n.516/1982) che riguarda i rapporti tra il processo penale ed il processo tributario. Il decreto legge in questione all’art.12, pur prevedendo una deroga all’art.3 c.p.p. (cioè alla sospensione del processo, tributario in questo caso), stabilisce che la sentenza irrevocabile (di condanna o di proscioglimento) pronunciata in seguito a giudizio e relativa a reati previsti in materia di imposte sui redditi o di imposta sul valore aggiunto ha l’autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale. Questa disposizione distingue la sospensione del processo dall’efficacia del giudicato penale (infatti anche se la sentenza penale ha efficacia nel giudizio tributario, questo non dev’essere sospeso). Quindi non sempre quando vi è efficacia di giudicato vi deve essere sospensione (la ratio di ciò sta nell’interesse del fisco ad ottenere nel tempo più breve la condanna del contribuente al pagamento di quanto dovuto). Dal punto di vista pratico poteva accadere che se la sentenza penale interveniva mentre il processo tributario era ancora in corso essa aveva efficacia piena nei confronti del processo tributario, se invece si perveniva prima alla sentenza del giudice tributario essa era valida e non veniva intaccata dalla successiva sentenza penale. Sulla base della situazione venutasi a creare nel 1988 si giunse alla riforma del processo penale. In Italia si è passati in campo penale da un sistema inquisitorio (in cui vi era la supremazia del processo penale rispetto alle altre giurisdizioni che dovevano sospendere i giudizi in corso) ad un sistema accusatorio (in cui vi è l’indipendenza e l’autonomia fra le varie giurisdizioni). Nel 1988 si è affermato il principio per il quale il giudice penale ha la capacità di poter risolvere tutte le questioni che si presentano nel corso del giudizio, rilevanti ai fini della decisione, con la precisazione che il giudice penale conosce tutte queste questioni ai fini limitati del giudizio a lui affidato, quindi senza che la sua decisione possa acquistare una valenza al di fuori del processo avanti a lui pendente (art.2 del nuovo codice di procedura penale); quanto detto costituisce un cambiamento rispetto a ciò che era previsto negli artt.18, 19, 20 e 21 del codice di procedura penale del 1930 che ammettevano la sospensione del procedimento penale per questioni pregiudizievoli penali, civili o amministrative che ora, invece, possono essere conosciute dal giudice penale). Per quanto riguarda il rapporto tra processo civile e processo penale, bisogna innanzitutto dire che nel codice del 1988 viene mantenuta la possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale (nonostante tale possibilità sia stata molto discussa perché si riteneva potesse compromettere i tempi di svolgimento del processo e ciò è in contrasto con la funzione del sistema accusatorio che è

quella di arrivare nel più breve tempo possibile alla decisione). Quindi nel codice di procedura penale del 1988 all’art.74 vi è la possibilità per il danneggiato di costituirsi parte civile nel processo penale. Nell’art.75 poi il legislatore prende in considerazione la possibilità per il danneggiato che ha proposto l’azione in sede civile di trasferire l’azione civile stessa in sede penale fino a che non sia stata pronunciata una sentenza di merito (ed anche se questa sentenza non è passata in giudicato essa precluderà al danneggiato la possibilità di trasferire l’azione civile in sede penale). Se il danneggiato non trasferisce l’azione civile in sede penale o non è più ammessa la costituzione come parte civile, l’azione civile prosegue in sede civile (questa è una differenza rispetto a quanto stabilito nell’art.24 del codice di procedura penale del 1930 che prevedeva la sospensione del processo civile nel caso in cui il danneggiato decideva di continuare la sua azione civile in sede civile). Tuttociò serve ad affermare quella che è l’autonomia e l’indipendenza dell’azione civile di danno rispetto al processo penale. In sostanza il legislatore per indurre il danneggiato a non costituirsi parte civile nel processo penale ha previsto che il processo civile non venga sospeso quando il processo penale è in corso; in questo modo si evita l’allungamento dei tempi in cui si perviene alla decisione che era dovuto alla costituzione del danneggiato come parte civile. La continuazione del processo civile di danno, nonostante il processo penale in corso è una regola che ha delle eccezioni (3° comma dell’art.75); le eccezioni per le quali si verifica la sospensione sono la costituzione in sede civile dopo essersi costituiti parte civile nel processo penale e la costituzione in sede civile dopo che sia intervenuta una sentenza penale. Queste due eccezioni hanno a loro volta delle eccezioni che si hanno nel caso in cui il danneggiato venga costretto ad abbandonare il processo penale o nel caso in cui il processo penale venga sospeso per incapacità dell’imputato (in questo caso il danneggiato non può essere costretto ad aspettare che il processo penale riprenda). In sostanza la sospensione del processo civile non si ha nel caso in cui il trasferimento dalla sede penale alla sede civile non è imputabile ad una libera scelta del danneggiato. In conclusione possiamo ribadire ciò che stabilisce l’art.75: “il processo civile di danno non viene ad essere sospeso per la pendenza di un processo penale, tranne quelle due ipotesi eccezionali che peraltro sono di difficile ricorrenza pratica. Ora è importante l’analisi di due articoli che trattano dell’efficacia del giudicato penale nei processi civili di danno: l’art.651 c.p.p. e l’art.652 c.p.p. L’art.651 tratta del caso in cui la sentenza penale sia di condanna e stabilisce che tale sentenza avrà efficacia di giudicato (quanto all’accertamento dei fatti) nel giudizio civile o amministrativo di danno e questo sempre per ciò che riguarda l’imputato ed il danneggiato (che ricercava la condanna), ma per quanto riguarda il responsabile civile è necessario che sia stato citato o che sia intervenuto in giudizio affinché la sentenza abbia efficacia nei suoi confronti (in caso contrario la sua responsabilità potrà essere fatta valere dal danneggiato nel processo civile). L’art.652 tratta del caso in cui la sentenza penale sia di assoluzione e stabilisce che tale sentenza avrà efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno nei confronti del danneggiato che si sia costituito o sia stato posto nelle condizioni di costituirsi parte civile nel processo penale, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione civile a norma dell’art.75 2° comma (nel senso che se il danneggiato promuove l’azione civile in sede civile elimina gli effetti civili del giudicato di assoluzione). Possiamo vedere come dal combinato disposto degli artt.75, 651 e 652 otteniamo un sistema che è improntato sull’autonomia e sull’indipendenza delle due giurisdizioni. Mentre per il rapporto tra processo penale e processo civile di danno c’è unanimità di vedute, anche in funzione della chiarezza delle norme inerenti, ciò non vale per il rapporto tra processo penale e processo civile non di danno un tempo disciplinato dall’art.3 e

dall’art.28 del codice di procedura penale del 1930 che disponevano rispettivamente la sospensione del processo civile e l’efficacia del giudicato penale per il processo civile non di danno. Mentre l’art.3 non ha trovato conferma nel codice del 1988 l’art.28 trova il suo omologo nell’art.654 del nuovo codice. Ciò che fa sorgere dei problemi è il richiamo fatto dall’art.331 c.p.p. 1988 ad una previsione contenuta nel vecchio art.3 c.p.p. 1930 senza che però si faccia riferimento al rapporto tra processo penale e processo civile (qui parliamo della previsione dell’obbligo per il giudice di fare rapporto al pubblico ministero quando viene a conoscenza di un fatto che costituisce reato), ma ancor più importante è il rinvio fatto dall’art.295 c.p.c. (prima che fosse riformato nel 1990) all’art.3 del vecchio codice. A questo proposito vi sono interpretazioni diverse: - per alcuni l’esistenza del rinvio stesso faceva rivivere l’art.3 facendo permanere l’obbligo

per il giudice di sospendere il processo civile non di danno in attesa della conclusione del processo penale (teniamo presente che l’altra relazione inerente al processo civile di danno è disciplinata dall’art.75);

- per altri il fatto che il rinvio non fosse accompagnato da una riproduzione di una norma analoga all’art.3 nel nuovo codice stava ad indicare che la relazione tra processo penale e processo civile non di danno non era più disciplinata dalla sospensione del processo (in quanto la sospensione è un istituto eccezionale, perché va contro la natura del processo, e deve essere espressamente previsto o meglio può operare solo nei casi espressamente previsti dalla legge);

- per altri ancora, che consideravano insignificante il rinvio, il processo non andava sospeso perché si applicava la regola ricavata dall’art.75.

Sul problema che stiamo analizzando hanno inciso tre interventi legislativi: quello del 1988 (nuovo codice di procedura penale), quello del 1989 (norme di coordinamento e transitorie del cod.proc.pen.), quello del 1990 (riforma del processo civile). Nel 1989 con l’emanazione delle norme di coordinamento e transitorie del cod.proc.pen. vengono emanate due norme importanti: - l’art.208 che stabilisce che quando nelle leggi o nei decreti sono richiamate disposizioni del codice

abrogato, il richiamo si intende riferito agli istituti o alle disposizioni del codice che disciplinano la corrispondente materia (questo ci porta a dire che non potendo far rivivere l’art.3 bisogna andare a vedere a quale norma esistente va riferito il rinvio dell’art.295 c.p.c. ed in questo caso l’unica norma che parla di sospensione del processo civile per pendenza del processo penale è l’art.75 al 3° comma);

- l’art.211 tratta dei rapporti tra azione civile ed azione penale e stabilisce che, salvo quanto disposto dall’art.75 2°comma (prosecuzione del processo civile), quando disposizioni di legge prevedono la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo a causa della pendenza di un processo penale, il processo civile o amministrativo è sospeso fino alla definizione del processo penale se questo può dare luogo ad una sentenza che abbia efficacia di giudicato nell’altro processo e se già è stata esercitata l’azione penale. Secondo alcuni in questo articolo viene riproposta la tesi della sopravvivenza della sospensione attraverso il collegamento dell’art.211 all’art.654, questo articolo prende i considerazione espressamente l’ipotesi della sentenza penale che sia rilevante in giudizi civile o amministrativi diversi da quelli di danno affermando che la sentenza penale o di condanna o di assoluzione ha efficacia nel processo civile quando sia l’imputato si l’eventuale parte civile siano presenti nel processo; però la norma non dice che per questo i processi civili o amministrativi vanno sospesi, ma una parte della dottrina continua ad affermare che il processo civile deve essere sospeso in pendenza del processo penale. Per il professore, invece, la norma è diretta più che altro a limitare l’operatività della sospensione; infatti secondo il professore ci sono disposizioni di legge che prevedono una sospensione necessaria, questo articolo non prevede altri casi di sospensione necessaria ma tuttavia rinvia ad ipotesi di sospensione già previste. L’art.211 non solo non crea nuove ipotesi di sospensione ma restringe anche quelle che già ci sono; infatti l’articolo, per l’applicazione della sospensione

necessaria, prevede due condizioni, ovvero: che vi sia la pendenza del processo penale e che la sentenza penale faccia stato nel processo civile (secondo le regole degli artt.651-652).

Nel 1990, fermo restando il quadro relativo al processo penale, si volle adeguare il codice di procedura civile al “nuovo” codice di procedura penale riformando l’art.295 c.p.c. eliminando da esso il rinvio all’art.3 c.p.p. 1930 ed eliminando anche gli aggettivi “civile” e “amministrativo” (infatti prima l’articolo diceva “…controversia civile o amministrativa…”, oggi invece si parla solo di controversia); il nuovo art.295 c.p.c. dice che il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa.

Analizzando le varie dottrine vediamo che: - Vi è un’altra tesi che si basa sui principi affermati nel codice di procedura penale ed in particolar modo sul

principio dell’autonomia delle giurisdizioni; secondo questa tesi l’art.75 è chiarissimo al riguardo ed inoltre non c’è in tutto il codice di procedura penale un’altra norma che affermi il contrario. Anche qui il punto di partenza è costituito dall’art.654 c.p.p. che afferma che la sentenza penale ha efficacia nel processo civile se vi è stata la partecipazione di tutti i soggetti, e non aggiunge altro; esso infatti si limita a dire che la sentenza è efficace e una cosa è l’efficacia della sentenza, un’altra è la sospensione del processo; questo è dimostrato anche dall’esistenza di altre due norme che prevedono l’efficacia della sentenza ma non anche la sospensione del processo: la norma del 1982 in tema di processo tributario (che pur dicendo che il processo tributario non va sospeso in pendenza del processo penale stabilisce che la sentenza penale ha efficacia di giudicato nel processo tributario) e la norma dell’art.651 (che afferma che la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia nel processo civile a favore del danneggiato e contro l’imputato, ma si accompagna alla regola dell’art.75 che stabilisce che se il danneggiato propone l’azione civile in sede propria il processo non si sospende). L’art.211 disp.coord. potrebbe essere considerato un ostacolo a questa tesi (indipendenza ed autonomia delle giurisdizioni); infatti quando fu emanato l’art.211 gli autori dissero che se interpretato nel senso di reintrodurre la sospensione del processo era incostituzionale perché contrastava con il principio affermato dsal c.p.p. che era quello dell’autonomia delle giurisdizioni. Per cercare di capire in che senso va inteso l’art.211 bisogna leggero facendo ben attenzione ai suoi incisi che dicono che questa norma si applica quando non si applica il 2° comma dell’art.75 ed inoltre vi sono delle disposizioni di legge che prevedono la sospensione del processo civile o amministrativo a causa della pendenza di un processo penale. Il senso della norma nella sua completezza è che il giudice deve sospendere il processo civile non solo perché pende il processo penale anche perché tale sospensione è prevista da un’altra norma del codice o di altra legge. Quindi si può ritenere che l’art.211 non solo non introduce nel nostro ordinamento nuove ipotesi di sospensione del processo civile ma restringe quelle già previste in quanto il giudice può sospendere il processo civile se la sentenza penale ha efficacia e se il processo penale è in corso.

- La modifica ha portato i sostenitori della tesi della sospensione ribadire tale tesi (cioè quella della sospensione nei rapporti tra processo penale e processo civile non di danno) attraverso il rinvio che l’art.211 disp.coord. farebbe all’art.295 c.p.c. L’art.295 c.p.c. dopo la modifica, non parla più di controversia civile o amministrativa, e quindi tale articolo si intende riferito a qualsiasi tipo di processo. A questo punto c’è da chiedersi perché il legislatore avrebbe previsto una disciplina differenziata tra processo civile di danno e processo civile non di danno (cioè perché avrebbe previsto l’autonomia delle giurisdizioni nelle ipotesi in cui vi è il rischio molto concreto del conflitto di decisioni perché la relazione tra i due processi è più intensa, mentre avrebbe previsto la sospensione del processo in quei casi in cui il conflitto è molto meno evidente perché la relazione tra i due processi è meno intensa). Le considerazioni che sono state fatte sono: � che l’intenzione del legislatore, con la modifica dell’art.295 era solo quella di eliminare il riferimento

all’art.3 c.p.p. 1930 che non esisteva più; � che l’art.295 era sempre stato riferito alla relazione di pregiudizialità che esiste tra rapporti giuridici per

cui uno dei due si pone come antecedente logico dell’altro mentre la relazione che intercorre tra processo civile e processo penale non è una relazione di pregiudizialità tra rapporti giuridici in quanto è lo stesso fatto che viene conosciuto dal giudice penale e da quello civile;

� che nel nostro ordinamento quando si parla di controversia il riferimento è sempre e soltanto a quella civile o amministrativa perché quel termine indica una contesa tra due soggetti, mentre nel processo penale non si conosce il termine controversia perché non si può parlare di controversia tra stato ed imputato;

� che si sbaglia a rivolgere tutta l’attenzione all’art.295, infatti se si legge l’art.297 ci si rende conto che esso non solo contiene ancora il rinvio all’art.3 c.p.p. 1930 ma parla ancora di controversia “civile o amministrativa”.

La cassazione (le cui sezioni si sono mostrate divise per molto tempo sull’argomento) a sezioni unite nel 2001 ha detto che di regola la sospensione del processo civile non esiste più, ma ci sono alcuni casi in il processo penale si pone in rapporto di pregiudizialità con il processo civile (esempio del reato di usura).

RAPPORTO TRA GIURISDIZIONE CIVILE E GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA

La giurisdizione amministrativa sorge dopo la rivoluzione francese quando vengono creati i TRIBUNALI DEL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO che avevano il compito di conoscere le controversie che riguardavano la pubblica amministrazione; in realtà era la pubblica amministrazione stessa a conoscere quelle controversie. Nel 1965 con la legge n.2248/1865 (allegato E) vennero aboliti i tribunali del contenzioso amministrativo e le controversie che prima questi venivano a conoscere vengono distribuite. L’art.2 della legge in questione stabilì che tutta la materia riguardante i diritti civili, politici, quindi i diritti soggettivi veniva affidata all’autorità giudiziaria ordinaria. Questo rappresentava un notevole passo avanti perché determinate controversie non venivano più conosciute da un giudice che non poteva dirsi indipendente in quanto costituito da funzionari della parte in causa (pubblica amministrazione). L’art.3 della legge suddetta, invece, stabilì che quando non erano coinvolti diritti soggetti vi ma ad esempio interessi legittimi la controversia doveva essere conosciuta dall’autorità amministrativa. Quest’articolo diversamente dal precedente costituiva un passo indietro, perché anche se determinate controversie venivano sottratte ad un giudice non imparziale si aveva un processo diverso rispetto alle materie di cui all’art.2. Indubbiamente la legge n.2248/1965 non creò la giurisdizione unica (come alcuni ritennero) che si ha solo nel caso in cui vi è un giudice per tutte le situazioni. Sulla scia delle discussioni circa l’opportunità di reintrodurre una giustizia amministrativa si ebbero una serie di interventi. Nel 1877 venne dato alla CORTE DI CASSAZIONE il compito di decidere sui conflitti di attribuzione (cioè su quelle situazioni in cui si doveva stabilire se era o meno il giudice ordinario che doveva conoscere certe controversie). In realtà non cambiò molto perchè anche la cassazione era un giudice molto vicino al potere politico. Nel 1889 venne istituita la QUARTA SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO che doveva decidere sui ricorsi contro gli atti della pubblica amministrazione e aventi ad oggetto interessi legittimi. Nel 1890 vennero istituite le GIUNTE PROVINCIALI AMMINISTRATIVE, organismi più diffusi a livello territoriale e con il compito di conoscere i ricorsi contro gli atti degli enti locali lesivi di interessi legittimi. In questo periodo si delinea un quadro di giustizia amministrativa che vede al 1° grado le giunte provinciali amministrative e al 2° grado (cioè in appello) il consiglio di stato. Nel 1907 venne istituita la QUINTA SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO, inoltre venne prevista la possibilità di ricorrere in cassazione avverso le decisioni del consiglio di stato. Il riconoscimento della possibilità di impugnare dinanzi alla cassazione le decisioni del consiglio di stato era un riconoscimento della natura giurisdizionale di tali decisioni. Nel 1923 vennero attribuiti al PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI STATO i ricorsi alla quarta ed alla quinta sezione del consiglio di stato. Inoltre in quest’anno la materia del pubblico impiego venne trasferita dal giudice ordinario al giudice amministrativo che poteva conoscere le relative controversie anche se avevano ad oggetto diritti soggettivi (questo provvedimento interviene sull’art.3 su citato). Nel 1924 venne emanato il TESTO UNICO SULLE LEGGI SUL CONSIGLIO DI STATO che ordinava le leggi sino ad allora intervenute e confermava la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di pubblico impiego. Nel 1948 venne istituita la SESTA SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO. Oggi la quarta, la quinta e la sesta sezione del consiglio di stato hanno una competenza per materia interna. Il sistema di giustizia amministrativa, fin qui descritto, venne recepito dalla Carta costituzionale (artt.24, 103, 113). Nel 1968 le giunte provinciali amministrative vennero abolite perché ritenute incostituzionali, in quanto non garantivano l’indipendenza e l’imparzialità del giudice (visto che erano costituite da funzionari degli enti locali). Nel 1971 vennero istituiti i TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI (TAR) che da allora diventarono l’organo di giustizia amministrativa di 1° grado (furono previste alcune disposizioni per garantire l’autorità e l’indipendenza di questi magistrati che vengono nominati per concorso). Il sistema di giustizia amministrativa creatosi ed esistente fino ad oggi vede al 1° grado i TAR, al 2° grado (in appello) il CONSIGLIO DI STATO, all’ultimo grado la CASSAZIONE. Il sistema di giustizia amministrativa è più semplice di quello di giustizia civile perché nel primo abbiamo solo un giudice di 1° grado che si pone solo problemi di competenza per territorio rispetto agli altri giudici di 1°grado. Per quanto riguarda i rapporti tra giustizia amministrativa e giustizia civile, qui non ci sono norme come nei rapporti tra giustizia civile e giustizia penale, infatti non ci sono norme amministrative.

In questo caso ciò che determina l’intervento della giustizia amministrativa non è la violazione di un’improbabile norma amministrativa, ma è una determinata situazione giuridica sostanziale costituita dagli interessi legittimi. In realtà la giustizia amministrativa dal 1924 non si occupa più solo di situazioni inerenti agli interessi legittimi, ma tratta anche di diritti soggettivi in determinate materie quali il pubblico impiego. Nel 1992-93 tuttavia il legislatore ha restituito al giudice ordinario la cognizione in materia di lavoro pubblico. Nel 1997-98 invece, attraverso una legge delega e vari decreti legislativi, sono state attribuite al giudice amministrativo tutta una serie di competenze nuove (controversie in materia di: pubblici servizi, assicurazioni nel campo immobiliare, servizio farmaceutico, urbanistica e edilizia ecc.); ma la Corte costituzionale ha emanato nel 2000 una dichiarazione di incostituzionalità di tali provvedimenti per eccesso di delega. Per quanto riguarda la relazione tra processo amministrativo e processo civile possiamo dire che essa non attiene più alla distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, ma più che altro può considerarsi una distinzione per materia. Poiché nel processo amministrativo non si impugna più un atto amministrativo, o meglio non solo, ma si cerca di tutelare un diritto ne consegue che per determinate situazioni non è più necessario il rispetto del termine di 60 giorni per impugnare l’atto amministrativo. Nel 1865, con l’art.4 e l’art.5 della legge n.2248/1865, venne stabilito che quando nel corso di un giudizio il giudice civile viene a conoscenza di un atto amministrativo, che può essere rilevante ai fini della causa, può conoscerlo e giudicare: disapplicando l’atto se questo è ritenuto illegittimo, applicandolo se è ritenuto legittimo; inoltre bisogna dire che la valutazione del giudice ordinario sull’atto amministrativo è una valutazione incidenter tantum, essa cioè non ha effetto oltre quel giudizio (se il giudice ritiene illegittimo l’atto ciò non vale come annullamento dell’atto stesso); un esempio può essere il caso “Punta Perotti” di Bari. Problemi possono sorgere se sono in corso contemporaneamente un processo civile ed un processo amministrativo nei quali si sta discutendo la legittimità dello stesso atto amministrativo; ci sono alcune tesi: - quella che ritiene si debba applicare l’art.295 che prevede la sospensione del processo civile in attesa della

definizione del processo amministrativo; - quella sostenuta dalla cassazione che ritiene che se l’oggetto del giudizio amministrativo è un interesse

legittimo i due processi vanno avanti entrambi in quanto autonomo, se invece l’oggetto del giudizio amministrativo è un diritto soggettivo (nei casi in cui è previsto dalla legge) il processo civile va sospeso in attesa che sia definito quello amministrativo (questo in funzione della pregiudizialità tra rapporti giuridici);

- quella che ritiene che i due processi (in quanto autonomi) devono continuare entrambi senza che quello civile sia sospeso, questo perché il giudice civile ha il potere di conoscere incidenter tantum, ai fini limitati del giudizio in corso, sia la legittimità dell’atto amministrativo sia il c.d. rapporto giuridico pregiudiziale.

In realtà le tesi (prima e seconda) che in un caso o in entrambi affermano che il processo civile va sospeso sono in contrasto con quanto stabilito dall’art.111 Cost. che stabilisce che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo; infatti non si ha una durata ragionevole del processo civile se questo viene sospeso in attesa della definizione del processo amministrativo che in Italia dura non meno di dieci anni). Il problema della relazione tra processo amministrativo e processo civile è maggiormente importante in materia di lavoro pubblico dove sono intervenute varie norme raggruppate poi dal legislatore nel decreto legislativo n.165/2001. Bisogna innanzitutto dire che ci sono alcune categorie di dipendenti pubblici ai quali non si applica la nuova disciplina che consta dell’aspetto di natura sostanziale e dell’aspetto di natura processuale; quelli ai quali invece si applica la nuova disciplina sono quei dipendenti pubblici il cui rapporto di lavoro pubblico è stato oggi privatizzato (contrattualizzato), quindi ad essi non vengono più applicati i provvedimenti di natura amministrativa ma vengono applicate le norme del codice civile e dei contratti collettivi e di conseguenza dal punto di vista processuale il giudice che deve applicare le norme civilistiche non è più il giudice amministrativo ma è quello civile. I dipendenti pubblici per i quali non opera la nuova disciplina (cioè né la trasformazione del rapporto da pubblico a privato né il trasferimento delle relative controversie dal giudice amministrativo a quello civile) sono quelli indicati nel 4° e nel 5° comma dell’art.2, ovvero i magistrati (ordinari ed amministrativi), i contabili, gli avvocati ed i procuratori dello stato, il personale militare delle forze di polizia di stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia, i professori ed i ricercatori universitari. In sostanza il giudice amministrativo, secondo quanto stabilisce il decreto legislativo in questione, continuerà a conosce le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ed in maniera esclusiva le controversie dei rapporti di lavoro di quel personale escluso dalla privatizzazione del pubblico impiego.

Esempio: nel caso in cui dovesse sorgere una controversia tra colui che ha partecipato ad un concorso e la pubblica amministrazione che lo ha indetto, se la controversia è nata prima della formazione della graduatoria il giudice che deve conoscerla è quello amministrativo, mentre se la controversia è nata successivamente in ordine alla formazione del rapporto di lavoro o all’assunzione sarà la giurisdizione ordinaria a conoscere la controversia (interpretazione della Corte costituzionale che ha affermato la legittimità della previsione legislativa). Il giudice ordinario ha tutti i poteri nei confronti della pubblica amministrazione. Per quanto riguarda l’individuazione di un atto amministrativo illegittimo, bisogna dire che un atto amministrativo è illegittimo quando è espressione di: un eccesso di potere, un’incompetenza, una violazione di legge. Ricapitolando quando un atto amministrativo è illegittimo il giudice lo disapplica decidendo poi la causa civile, quando invece un atto amministrativo è legittimo il giudice decide la causa civile considerando appunto l’atto amministrativo legittimo. Come abbiamo detto la decisione del giudice vale sul rapporto e non sull’atto amministrativo e dobbiamo aggiungere che l’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia civile non è causa di sospensione del processo civile. Alla conclusione dei due giudizi le decisioni del giudice amministrativo e del giudice civile non potranno eventualmente dirsi contrastanti perché il processo civile decide sul diritto, mentre il processo amministrativo decide sulla legittimità dell’atto; tuttalpiù si potrà parlare di decisioni non conciliabili.

RAPPORTO TRA GIURISDIZIONE NAZIONALE E GIURISDIZIONE COMUNITARIA

Nei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario vi è la prevalenza del secondo sul primo, tanto che il giudice nazionale deve disapplicare il diritto interno quando lo ritiene in contrasto con il diritto comunitario. Questa disapplicazione non è sempre facile, perché la norma comunitaria non sempre è chiara e dà luogo a problemi interpretativi. In questi casi sorge l’esigenza per il giudice nazionale di adire la Corte di giustizia delle comunità europee attraverso il rinvio pregiudiziale affinché la Corte (o il Tribunale, con una nuova riforma) passa risolvere il dubbio interpretativo (questo procedimento ha consentito l’integrazione del diritto comunitario e l’uniforme applicazione dello stesso diritto comunitario in tutti gli stati membri). Una delle caratteristiche del rinvio pregiudiziale è la sua natura incidentale, quindi si può adire la Corte solo se vi è un processo (qui viene in evidenza la cooperazione tra gli organi di giustizia interna e quelli di giustizia comunitaria). La prima norma che ha previsto il rinvio pregiudiziale fu l’art.41 del Trattato CECA. Inoltre l’art.234 del Trattato istitutivo della Comunità europea, insieme ad altre fonti comunitarie (come ad esempio il Trattato Euratom), prevedono la competenza della Corte a pronunciarsi sull’interpretazione delle norme comunitarie ed il rinvio pregiudiziale. Il primo problema da esaminare è vedere chi è il soggetto legittimato a rinviare alla Corte; a questo proposito bisogna dire che sicuramente il soggetto legittimato ad effettuare il rinvio è un’autorità giurisdizionale (teniamo presente però che al termine giurisdizione deve essere data l’interpretazione comunitaria e non quella nazionale per impedire che lo stato possa limiti i rinvii alla Corte). L’autorità giurisdizionale deve essere (secondo la sentenza del 1960) un organo che: - è previsto dalla legge, - ha carattere permanente (quindi si esclude che ad alcuni ricorsi di tipo facoltativo e temporaneo come

l’arbitrato si possa fare rinvio alla Corte), - svolge in maniera obbligatoria una funzione di tutela giurisdizionale, - applica le norme di diritto (quindi si esclude il pubblico ministero, la Corte dei conti perché non attuano

norme di diritto), - non decide secondo equità, - svolge la sua attività in contraddittorio, - è indipendente. Il giudizio della Corte precede quello del giudice nazionale affinché questo possa far propria l’interpretazione della Corte di giustizia. L’art.234 del trattato ist.Com.eur. opera una distinzione tre giudici le cui decisioni possono essere impugnate (giudici di merito: il giudice di pace, il tribunale, il TAR per la giustizia amministrativa, la corte d’appello) e giudici le cui decisioni non possono essere impugnate (la cassazione, il consiglio di stato per la giustizia amministrativa, la Corte dei conti, le commissioni regionali). Se i giudici le cui decisioni possono essere impugnate hanno la facoltà di rinviare alla Corte, i giudici di ultima istanza (quelli le cui decisioni non possono impugnate) hanno l’obbligo di rinviare alla Corte. I giudici di merito devono decidere se il rinvio è necessario o meno perché il rinvio sospende il processo.

Nel caso in cui il giudice non sospende il processo e quindi non rinvia la questione, interpretando lui la norma, la parte soccombente può impugnare la sentenza direttamente in appello chiedendo di rinviare la questione alla Corte di giustizia; se il giudice d’appello non rinvia la questione, la parte soccombente può ricorrere in cassazione, quest’ultima in quanto giudice di ultima istanza è obbligata a rinviare alla Corte di giustizia. In ogni caso anche la cassazione deve la rilevanza della norma ai fini del rinvio; vi sono infatti alcune ipotesi in cui la cassazione non è obbligata a rinviare e questi sono: il caso in cui vi è già stato una precedente decisione della Corte di giustizia (l’obbligo della cassazione si trasforma in facoltà) ed il caso in cui la norma è chiara e quindi non fa sorgere dubbi interpretativi. La violazione dell’obbligo di rinviare da parte della cassazione non prevede una sanzione a livello processuale. Il rinvio alla Corte di giustizia può essere fatto o d’ufficio o su istanza di parte. Il giudizio di rilevanza di regola è fatto dal giudice della causa ma a volte anche dalla Corte di giustizia quando questa non vuole decidere. Il rinvio viene effettuato con un provvedimento, l’ordinanza di rinvio, che determina la sospensione obbligatoria del processo fino a quando la Corte di giustizia non decide. La sentenza della Corte di giustizia ha efficacia non solo sul processo nel quale si è fatto il rinvio ma anche sugli altri. Infatti i giudici ad una decisione della Corte di giustizia devono o recepirla o sollevare un rinvio, non possono disapplicare direttamente tale decisione. Quando la Corte ha deciso il processo deve essere rimesso in moto dalla parte con un atto detto riassunzione.

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO Gli articoli della Costituzione che fanno riferimento alla struttura dell’ordinamento giudiziario sono l’art.101 e l’art.102. l’ordinamento giudiziario italiano risale al 1941 (regio decreto n.12/1941). L’art.1 del regio decreto n.12/1941 descrive la struttura originaria dell’ordinamento giudiziario:

Giudici di 1° grado Giudici di 2° grado (appello)

Giudici di ultimo grado (ultima istanza)

CONCILIATORE PRETORE CASSAZIONE PRETORE TRIBUNALE CASSAZIONE

TRIBUNALE CORTE D’APPELLO CASSAZIONE Accanto agli organi dello schema avevamo le c.d. sezioni specializzate: la SEZIONE AGRARIA ed il TRIBUNALE DEI MINORENNI. Nel 1989 abbiamo la riforma del codice di procedura penale e la creazione delle PRETURE CIRCONDARIALI. - CONCILIATORE: era un organo monocratico a struttura onoraria (che svolgeva la sua attività

gratuitamente), avena sede in ogni comune e competenze molto limitate. - PRETORE: aveva come ambito territoriale il mandamento (preture mandamentali) riferito ad un territorio

più ampio del comune. - TRIBUNALE: era un organo collegiale che aveva come ambito territoriale il circondario (che

comprendeva più mandamenti). - CORTE D’APPELLO: avevano un ambito territoriale comprendente più circondari. Prima della riforma del 1989 il pretore (delle preture mandamentali) svolgeva sia funzioni di natura civile che funzioni di natura penale e per quanto riguarda l’ambito penale il pretore svolgeva anche la funzione svolta oggi dal pubblico ministero (l’esercizio dell’azione penale). Nel 1988 con l’introduzione di un processo di tipo accusatorio si rese necessario che l’accusa fosse portata avanti da un soggetto diverso dal giudice; però poiché sarebbe stato impossibile con l’organico a disposizione assicurare l’ufficio del pubblico ministero in ogni mandamento si decise di trasformare la struttura della pretura da pretura mandamentale a pretura circondariale che agisce nell’ambito, più ampio, del circondario, è presente nella città in cui ha sede il tribunale ed è affiancata da sezioni distaccate in altre città. Questa riforma ha avuto un riflesso nel campo civile trasformando quelli che prima erano questioni di competenza (ad esempio tra le preture mandamentali) in problemi di distribuzione del lavoro all’interno di un ufficio giudiziario (per determinate impugnazioni non è più ammesso il regolamento di competenza). Nel 1990 si ha un’altra riforma (che entra pienamente in vigore nel 1995) riguardante il tribunale, ovvero l’istituzione del GIUDICE UNICO che andava a soddisfare l’esigenza di celerità nel processo (in quanto liberava da alcuni compiti i giudici che in alcuni processi componevano il collegio); la figura del tribunale come giudice collegiale rimane per quelle cause indicate nell’art.48-bis. Con la riforma del 1991 (entrata in vigore nel 1995) viene istituito il GIUDICE DI PACE che (essendo un giudice onorario) tende a sostituire gradualmente il conciliatore, anche se a livello territoriale il giudice di pace non ha sede il tutti i comuni ma solo in quelli che erano la sede delle preture mandamentali.

La situazione dell’ordinamento giudiziario dopo il 1995 è questa: Giudici di 1° grado Giudici di 2° grado

(appello) Giudici di ultimo grado

(ultima istanza) CONCILIATORE (per le cause vecchie) e GIUDICE DI PACE (per le cause nuove) PRETORE CASSAZIONE

PRETORE (a livello circondariale) TRIBUNALE CASSAZIONE TRIBUNALE

(sia come collegio che come giudice unico) CORTE D’APPELLO CASSAZIONE

Nel 1997 abbiamo la legge delega (attuata nel 1998) per l’istituzione del giudice unico di 1° grado e l’istituzione delle sezioni stralcio, composte dei GIUDICI ONORARI AGGREGATI e presiedute da un magistrato togato, che avevano il compito di decidere le cause vecchie (instaurate prima del 1995). Da questo momento nel tribunale abbiamo il giudice unico, il collegio e la sezione stralcio (tra questi non si possono porre questioni di competenza essendo organi dello stesso ufficio giudiziario). Col decreto legislativo n.51/1998 viene istituito il giudice unico di primo grado che porta all’abolizione della figura del pretore, in quanto l’ufficio giudiziario viene lasciato al tribunale. Quindi abbiamo un GIUDICE UNICO TOGATO, mentre in primo grado rimangono due figure di giudici: il tribunale (togato) ed il giudice di pace (onorario). La riforma entra in vigore nel 1999, anche se da un punto di vista pratico non è cambiato niente perché si è solo voluto evitare di mantenere due organi distinti ma entrambi togati e monocratici. Con la legge n.479/1999 (c.d. legge Carotti) si è stabilito che: tutte le cause che pendevano davanti al pretore e di valore inferiore ai 5 milioni vanno al giudice di pace, mentre al tribunale vanno tutte le altre cause che (essendo fuori dalla competenza del giudice di pace) vanno divise tra la sezione stralcio se sono precedenti al 1995 ed il tribunale se sono inerenti a controversie sul lavoro, sulle locazioni ecc. Nel 1999 una legge, che riguarda soprattutto il settore penale, da al giudice di pace nell’ambito del settore civile la competenza in materia di opposizione alle ordinanze di ingiunzione della pubblica amministrazione (ad esempio quelle relative alle violazioni della legge sulla strada). Con la legge n.48/2001 viene aumentato l’organico dei magistrati di mille unità e viene ridisciplinato il concorso per uditore giudiziario (per diventare magistrato). Dopo queste riforme la struttura dell’ordinamento giudiziario si presenta così:

Giudici di 1° grado Giudici di 2° grado (appello)

Giudici di ultimo grado (ultima istanza)

GIUDICE DI PACE TRIBUNALE CASSAZIONE TRIBUNALE

(sia come collegio che come giudice unico) CORTE D’APPELLO CASSAZIONE

Ricordiamo che il giudice di pace è un giudice onorario che diventa tale per nomina, mentre il tribunale è un giudice togato, cioè di carriera in quanto diventa giudice in seguito ad un concorso; nel tribunale abbiamo anche i giudici onorari aggregati (delle sezioni stralcio) che non sono di carriera. I soggetti che possono diventare giudici onorari aggregati sono: avvocati (anche se a riposo), procuratori dello stato, notai (anche in pensione), professori universitari. Inoltre bisogna avere meno di 77 anni; i notai ed i professori devono avere almeno 35 anni; gli avvocato devono avere almeno 15 anni di esercizio della professione. Per gli avvocati c’è incompatibilità tra la loro professione e la carica di giudice onorario aggregato relativamente all’ambito territoriale in cui contemporaneamente si trova la sede della corte d’appello e in cui viene esercitata la professione. Le sezioni stralcio pongono un problema di costituzionalità in riferimento all’art.25 (che vieta la costituzione di giudici ad hoc per determinate controversie). Accanto al tribunale in composizione monocratica e quello in composizione collegiale abbiamo altre due composizione del tribunale costituite dalle sezioni specializzate, ovvero la sezione agraria ed il tribunale dei minorenni. Rivedendo la composizione dei tribunali vediamo che ci sono le sedi principali (tribunali centrali) ed alcune sezioni distaccate; anche se i rapporti tra queste non sono di competenza, vi sono delle controversie che possono essere trattate solo nella sede principale (quando ad esempio è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero ed opera il collegio che abbiamo solo nella sede principale). Sappiamo che il giudice di pace si occupa di una “giustizia minore” rispetto al tribunale. La differenza, posta in essere dall’ordinamento, tra giudice di pace (onorario, non togato, non di carriera) e tribunale trova la sua ragion d’essere nel diverso impatto sociale provocato dalle differenti cause di competenza dei due tipi di giudici. Per quanto riguarda la differenza tra il vecchio conciliatore ed il giudice di pace vediamo che il conciliatore: non doveva essere necessariamente laureato in giurisprudenza, svolgeva gratuitamente la sua attività, aveva competenze per valore; mentre il giudice di pace: doveva essere laureato in giurisprudenza, svolgeva la sua attività retribuito a sentenza o ad ordinanza.

Nel 1999 il legislatore è intervenuto per meglio disciplinare la figura del giudice di pace; si sono avute una serie di previsioni: - il tirocinio prima dell’attività, - età minima di 30 anni (anziché 50), - la laurea in giurisprudenza, - l’assenza di condanne penali, - il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio alla professione forense, - l’assenza di un rapporto di impiego presso strutture private o pubbliche, - la possibilità per i notai di fare i giudici di pace; - la restrizione del limite previsto per gli avvocati (possono diventare giudici di pace purchè non esercitino

la professione nel circondario del tribunale nel quel vogliono assumere la carica), - la parte economica prevede la retribuzione di: 70.000 per ogni udienza (fino ad un numero massimo di 10

udienze al mese); 20.000 per ogni decreto ingiuntivo; 50.000 (110.000 nel 1999) per ogni sentenza.

COMPETENZA La competenza è un criterio positivo, è il legislatore a dirci quando c’è competenza e quando non c’è; essa è la quantità di giurisdizione che spetta a ciascun giudice nell’abito dello stesso ordinamento giudiziari. Al giudice naturale precostituito per legge si arriva grazie all’individuazione dei criteri di competenza. Nell’ordinamento civile esistono tre criteri di competenza: materia, valore e territorio. - La competenza per materia (che è sempre inderogabile) è determinata dalla legge (ad

esempio la competenza in materia di lavoro è attribuita dalla legge al tribunale). Il giudice di pace ha una competenza per materia ridottissima (art.7 c.p.c. che individua le materie che sono di competenza del giudice di pace). Per il tribunale è fondamentale la competenza per materia perché esclude quella per valore (art.9 c.p.c. che individua le materie che sono di competenza del tribunale).

- La competenza per valore (che è sempre inderogabile e che dipende dal valore del bene) è una competenza “secca” perché prescinde dalla difficoltà della causa. Il valore della causa si determina in base alla domanda proposta dall’attore (art.10 c.p.c. che individua i criteri di determinazione del valore della causa); se sono proposte più domande nei confronti della stessa parte queste si sommano (la domanda di capitale si somma con quella di interessi e di risarcimento dei danni). Il giudice di pace in generale è competente per valore fino a 5 milioni di lire, fino a 30 milioni per il risarcimento danni per infortunistica stradale; oltre i 5 milioni ed i 30 milioni la competenza è del tribunale

- La competenza per territorio che può essere derogabile (quando le parti possono raggiungere un accordo in base al quale le cause non le decide il giudice previsto ma le decide il giudice designato dalle parti) o inderogabile (quando, come stabilisce l’art.28 c.p.c., non è possibile prevedere clausole dirette a spostare la competenza, questo avviene ad esempio nel caso del lavoro o delle locazioni). Per questo criterio di individuazione della competenza è importante il foro per cui si intende il luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario; vi sono vari fori: un foro generale (che dovrebbe valere per tutte le possibili ipotesi) e dei fori speciali (che valgono per singole controversie) che possono essere esclusivi (come ad esempio avviene per le cause che hanno ad oggetto gli immobili) o concorrenti (cioè i fori detti alternativi che concorrono con quello generale a scelta dell’attore; un esempio di questi può essere quello scelto per la cause sulle obbligazioni).

La competenza per materia esclude quella per valore, se non c’è la competenza per materia si deve considerare la competenza per valore ed infine per individuare il giudice (inteso come ufficio giudiziario e non come persona fisica) al quale bisogna andare è necessaria competenza per territorio.

Mentre il criterio della competenza per materia e quello per valore sono definiti criteri “verticali” perché individuano il giudice astrattamente competente tra il tribunale ed il giudice di pace, il criterio della competenza per territorio può essere definito “orizzontale” perché una volta individuato il giudice devo stabilire a quale giudice sul territorio devo proporre la domanda. Nel 1865 il difetto di competenza per materia o per valore poteva essere eccepito o rilevato d’ufficio in ogni stato e grado del processo (così come per il difetto di giurisdizione); di fronte ad un eccezione o ad un rilievo di ufficio del difetto di competenza il giudice doveva dichiararsi sfornito di competenza ed il processo si chiudeva, di conseguenza il soggetto che aveva interesse a che il processo andasse avanti era costretto a proporre un’altra domanda dinanzi ad un altro giudice con il rischio di rivolgersi nuovamente ad un giudice privo di competenza; per evitare questo rischi la dottrina propose un doppio sistema, cioè quello del vincolo (perché il giudice incompetente doveva indicare nella sentenza il giudice ritenuto competente che rimaneva vincolato) e quello della continuazione (perché il processo continuava presso il nuovo giudice). Il sistema proposto dalla dottrina è passato solo in parte; infatti nel codice di procedura civile del 1940 è passato il sistema della continuazione mentre non è passato del tutto il sistema del vincolo infatti sono state sottoposte a tre discipline le tre competenze: - quella per materia e quella per territorio inderogabile che potevano essere rilevate in ogni stato

e grado del processo e non vincolavano il giudice indicato come competente (infatti poteva adire la Corte di cassazione per ottenere il regolamento di competenza d’ufficio);

- quella per valore che poteva essere eccepita solo in primo grado e vincolava il giudice; - quella per territorio derogabile (semplice) che poteva essere eccepita solo dal convenuto (che

doveva anche indicare il giudice competente) e vincolava anch’essa il giudice indicato come competente.

Il sistema del 40 ha fatto parlare di competenze deboli (quella per territorio semplice e quella per valore in quanto vincolavano il giudice ed erano derogabili) e competenze forti (quella per materia e quella per territorio inderogabile che non vincolavano il giudice e non potevano essere derogate). Questo sistema cambia nel 1990 perché il legislatore ritiene di attribuire alla competenza un rilievo minore. La norma di riferimento è l’art.38 c.p.c. che stabilisce che la competenza per materia (insieme con quella per territorio inderogabile) e la competenza per valore vengono assoggettate alla stessa disciplina ed è solo questo che cambia, cioè l’inderogabilità, mentre per ciò che riguarda il vincolo la disciplina rimane la stessa. Praticamente oggi l’incompetenza per materia, per valore e per territorio inderogabile possono essere rilevate d’ufficio o eccepite dalle parti entro l’udienza di trattazione (cioè la seconda udienza del processo dopo la prima che è quella di comparizione); quindi l’incompetenza può essere rilevata solo all’inizio e non più in tutti i gradi del processo (come invece accadeva prima). Per quanto riguarda la competenza per territorio derogabile (semplice) rimane assoggettata allo stesso criterio, cioè può essere eccepita solo dal convenuto nella comparsa di risposta (che è il primo atto del convenuto). Se si tratta di una competenza per valore o per territorio derogabile il giudice indicato è vincolato (deve decidere la causa); se invece si tratta di competenza per materia o per territorio inderogabile il giudice indicato non è vincolato e l’unica cosa che può fare è proporre il regolamento di competenza d’ufficio. Le norme in realtà non sono state modificate per cui il giudice quando si dichiara incompetente deve dichiarare quello competente e valgono gli stessi vincoli già visti. La dottrina ritiene che non esista più una differenza tra competenze deboli e competenze forti, perché l’incompetenza per materia va rilevata entro la seconda udienza (non più in ogni stato e grado del giudizio) e questo implica che vi è una disciplina meno forte; quindi secondo la dottrina tutto il sistema delle competenze è debole e ciò fa affermare che la riforma del 1990 ha abrogato tacitamente il regolamento di competenza d’ufficio poiché il secondo giudice (quello indicato) è comunque vincolato in quanto la competenza non è più forte.

Tale dottrina viene ribattuta visto che esistono norme che non sono state abrogate come ad esempio l’art.45 c.p.c. (che prevede la possibilità di chiedere il regolamento d’ufficio) per cui l’interprete non può affermare che tale norma sia stata abrogata e non esiste più (la cassazione è d’accordo con questa affermazione contraria all’opinione della dottrina). Per capire come si decide sull’eccezione di incompetenza bisogna considerare le norme costituite dall’art.187 c.p.c. (provvedimenti del giudice istruttore) e dall’art.279 c.p.c. (forme dei provvedimenti del collegio). Secondo l’art.187 anche per la competenza abbiamo (come per la giurisdizione) la possibilità del giudice di decidere la questione di competenza subito (e questo accadrà sicuramente se reputa fondata la questione e maggior ragione se la sollevata d’ufficio) oppure di aspettare e rinviare la decisione sulla questione di competenza alla chiusura del processo per decidere insieme sulla competenza e sul merito (e questo accadrà sicuramente se reputa infondata la questione). Vi sono delle differenze a seconda che il giudice sia monocratico (ed in questo caso non sorgono problemi) o collegiale. Infatti se il tribunale è collegiale il giudice istruttore potrà precludere al collegio la possibilità di decidere sulla competenza qualora non rilevi il difetto di competenza; quindi possiamo dire che a differenza del difetto di giurisdizione quello di competenza non è rilevabile in ogni stato e grado del processo. a) sentenza definitiva di incompetenza con indicazione del giudice competente; Il giudice decide subito e solo sulla questione di competenza.

b) sentenza non definitiva con la quale il giudice si dichiara la competente; Eccezione di competenza c) il giudice si dichiara incompetente ed indica quello competente; d) il giudice decide con una sentenza che ha due capi (un capo sulla competenza ed un capo sul merito) accogliendo la Il giudice decide alla fine domanda al 100%; con una sentenza definitiva che attiene sia alla competenza e) il giudice accoglie la domanda in parte; che al merito. f) il giudice rigetta la domanda.

Quando si decide subito sulla competenza: - Nell’ipotesi a) l’attore, in questo caso parte soccombente, può non essere d’accordo con il

giudice e proporre il regolamento necessario di competenza oppure può essere d’accordo con il giudice e quindi dovrà riassumere la causa dinanzi al giudice indicato come competente che a sua volta se si trattava di incompetenza per materia o per territorio inderogabile può proporre il regolamento di competenza d’ufficio (se non vi è regolamento di competenza o se la parte soccombente, cioè l’attore, impugna la sentenza con il regolamento di competenza e la cassazione decide che la competenza è del giudice indicato, dinanzi a quest’ultimo le parti devono riassumere a causa; il termine per riassumere il processo viene sospeso quando con la proposizione del regolamento di competenza ed il termine riprende quando la cassazione ha deciso).

- Nell’ipotesi b) invece è il convenuto ad essere la parte soccombete rispetto alla decisione del giudice e se non è d’accordo può proporre il regolamento necessario di competenza (se la parte soccombente, il convenuto, impugna la sentenza con il regolamento di competenza il processo si sospende e sulla competenza decide la cassazione).

Sia in un caso che nell’altro il regolamento di competenza è l’unico mezzo di impugnazione è per questo si tratta del regolamento necessario di competenza che sospende il termine per la riassunzione (se lo propone l’attore o il giudice indicato come competente) o il processo (se lo propone il convenuto). Quando si decide alla fine sulla competenza (perché probabilmente il giudice già ritiene infondata la questione e non vuole perdere tempo): - Nell’ipotesi c) il giudice dichiara la sua incompetenza con sentenza definitiva (perché chiude

il giudizio dinanzi a se) ed indica il giudice competente dinanzi al quale andrà riassunta la causa; questi potrà proporre il regolamento di competenza d’ufficio (avremo lo stesso caso di prima).

- Nell’ipotesi d) il giudice rigetta l’eccezione di incompetenza ed emana una sentenza che presenza due capi: quello con il quale stabilisce di essere competente (in questo capo risulta soccombente il convenuto) e quello con il quale decide la questione nel merito accogliendo la domanda dell’attore al 100% (quindi anche in ordine al merito il convenuto risulta soccombente). A seguito di questo tipo di sentenza il convenuto può o proporre il regolamento facoltativo di competenza (che sospende il termine per riassumere il processo in appello) oppure agire in via ordinaria con l’appello (se il convenuto agisce prima con l’appello non può più proporre il regolamento di competenza, viceversa se viene proposto prima il regolamento dopo la decisione sulla competenza può essere proposto l’appello).

- Anche nell’ipotesi e) il giudice rigetta l’eccezione di incompetenza ed emana una sentenza che presenza due capi: quello con il quale stabilisce di essere competente (in questo capo risulta soccombente il convenuto) e quello con il quale decide la questione nel merito ma questa volta accogliendo la domanda dell’attore in parte (quindi in ordine al merito sia il convenuto che l’attore risultano in parte soccombenti ed in parte vincenti). A seguito di questo tipo di sentenza il convenuto può proporre il regolamento facoltativo di competenza (anche se l’attore ha proposto l’appello che in questo caso non preclude il regolamento).

- Nell’ipotesi f) il giudice rigetta l’eccezione di incompetenza ed emana una sentenza che presenza due capi: quello con il quale stabilisce di essere competente (in questo capo risulta soccombente il convenuto) e quello con il quale decide la questione nel merito ma questa volta rigettando la domanda dell’attore (in questo capo risulta soccombente l’attore anche se ha vinto sulla competenza). A seguito di questo tipo di sentenza il convenuto potrebbe proporre il regolamento facoltativo di competenza ma non lo farà perché tanto ha vinto nel merito; mentre l’attore può solo impugnare in appello la sentenza.

In conclusione possiamo dire in generale che se si ha una sentenza solo sulla competenza possiamo ricorrere se siamo soccombenti al regolamento necessario di competenza; mentre se si ha una sentenza con un capo sulla competenza ed un capo sul merito possiamo ricorrere al regolamento facoltativo di competenza poiché in alternativa abbiamo l’impugnazione ordinaria. Il regolamento di competenza è l’impugnazione prevista per i provvedimenti sulla competenza (art.42 c.p.c. e art.43 c.p.c.). L’art.323 c.p.c. (mezzi di impugnazione) individua i mezzi di impugnazione; in dottrina si era pensato di non qualificare il regolamento di competenza come un’impugnazione cosicché avrebbero potuto proporlo tutti, ma questa versione non è stata accettata. Per poter utilizzare il regolamento di competenza è necessaria una sentenza; esso inoltre può essere proposto solo dal soccombente. A differenza del regolamento di giurisdizione quello di competenza è un’impugnazione. L’art.42 c.p.c. (regolamento necessario di competenza) stabilisce che se la sentenza si pronuncia solo sulla competenza l’unico mezzo di impugnazione che ha la parte è il regolamento di competenza (quindi mezzo necessario) dinanzi alla Corte di cassazione; per il soccombente l’appello a riguardo è inammissibile ed infatti esso avrebbe la conseguenza di far passare in giudicato la sentenza. L’art.43 c.p.c. (regolamento facoltativo di competenza) stabilisce che la sentenza che ha deciso sia sulla competenza che sul merito può essere impugnata dalla parte sia con il regolamento di competenza che con i mezzi di impugnazione ordinaria; se la parte opta per il regolamento potrà impugnare solo il capo della sentenza che riguarda la competenza, mentre se opta per l’appello potrà impugnare sia il capo sulla competenza che quello sul merito. Il regolamento di competenza facoltativo si è dimostrato un istituto a favore del convenuto in quanto nel 1940 una sentenza di 1° grado non era esecutiva (occorreva attendere che passasse in giudicato oppure che vi fosse il giudizio d’appello), questo serviva al convenuto che proponendo il regolamento di competenza sospendeva i termini per proporre l’impugnazione ordinaria. Quindi il regolamento facoltativo consente al soccombente prima di proporre il regolamento di competenza e poi l’appello. Secondo il 3° comma dell’art.43 c.p.c. non è possibile che il soccombente prima proponga l’impugnazione ordinaria e poi il regolamento perché con l’impugnazione ordinaria si propongono tutte e due. Se ci sono più convenuti tutti soccombenti può accadere che non vengano difesi tutti allo stesso modo se hanno avvocati diversi; l’art.43 al 2° comma stabilisce che l’impugnazione ordinaria presentata da uno dei convenuti soccombenti non toglie agli altri la facoltà di proporre il regolamento, ma chi propone il regolamento prevale sugli altri sospendendo il processo. Il regolamento di competenza prevale sull’impugnazione ordinaria anche qualora viene chiesto da una parte dopo l’impugnazione ordinaria. Si ha soccombenza reciproca quando il processo non vede vincitore assoluto uno dei due soggetti (ad esempio il caso in cui l’attore propone una domanda di risarcimento di 100 milioni ed il giudice gli riconosce solo un somma di 60 milioni; in questo caso l’attore ed il convenuto sono in parte vincitori ed in parte soccombenti); in questo caso abbiamo sempre che l’attore può proporre solo l’impugnazione ordinaria mentre il convenuto può proporre sempre o il regolamento o l’appello ma questo per la parte che l’ha visto soccombente. Il fatto che il convenuto abbia questa scelta tra le due facoltà lo pone in una situazione di favore perché il legislatore da la preferenza al regolamento di competenza rispetto all’impugnazione ordinaria. Infatti se vi è un processo d’appello questo viene sospeso dal regolamento di competenza. L’art.48 c.p.c. (sospensione dei processi) collega la sospensione ad un mero atto di parte e non ad un’attività del giudice, infatti non è richiesto un provvedimento del giudice, quindi possiamo dire che l’art.48 c.p.c. prevede una sospensione automatica del processo qualora viene sollevato il regolamento di competenza.

La sentenza che riguarda la competenza secondo la dottrina e la giurisprudenza deve ricollocarsi nell’art.43 c.p.c. Un’altra lettura minoritaria preferita dal prof. Liuzzi non esamina, partendo dagli artt.42 e 43 c.p.c., tutti i tipi di sentenze. Il regolamento di competenza poiché ha un effetto automatico che sospende il processo è pericoloso in quanto blocca appunto il processo (o sospende il processo in corso o sospende il termine per la riassunzione); quindi va contro la ragionevole durata del processo prevista dall’art.111 Cost. Il regolamento facoltativo di competenza è quello più pericoloso perché impedisce al processo di appello di proseguire. Oggi la situazione è cambiata perché il regolamento facoltativo di competenza ha perso una serie di motivi per essere proposto. Oggi infatti la sentenza di 1° grado è esecutiva per cui il convenuto non ha motivi di proporre il regolamento facoltativo di competenza perché altrimenti cristallizzerebbe la situazione non potendo proporre l’appello che invece potrebbe cambiare la situazione. Attualmente è il regolamento necessario di competenza che presenta aspetti negativi infatti è stato proposto di togliere gli effetti sospensivi del regolamento sul processo oppure di dichiarare incostituzionale il regolamento stesso. Il regolamento di competenza fa risolvere la questione di competenza alla cassazione a sezioni semplice con una decisione che non ha più la forma della sentenza ma quella dell’ordinanza. La decisione della cassazione ha efficacia vincolante: vincola i giudici che dovessero essere aditi sulla stessa questione, quindi ha efficacia panprocessuale; mentre la decisione dei giudici di merito ha efficacia endoprocessuale. Ai problemi di competenza si affiancano quelli di rito; a tal proposito bisogna analizzare le controversie di lavoro. L’atto introduttivo nelle cause ordinarie è la citazione (prima notificata al convenuto e poi registrata in cancelleria) mentre nelle cause di lavoro l’atto introduttivo è il ricorso (prima depositato in cancelleria dal giudice che fissa l’udienza e poi notificato al convenuto). Nel processo del lavoro le parti devono “scoprire tutte le carte” fin dai primi atti (l’attore nel ricorso ed il convenuto nelle memorie difensive) altrimenti non possono più farlo successivamente per preclusioni; mentre nel processo ordinario esistono preclusioni ma sono preclusioni differenziate, cioè scattano prima con riferimento ai fatti e poi con riferimento alle prove (nel senso che nel processo ordinario le parti devono subito esporre i fatti, ma poi possono indicare dopo le prove dei fatti, testimoniali o documentali che siano, differentemente da quanto avviene nel processo del lavoro. Nel processo del lavoro il giudice alla conclusione del processo pronuncia la sentenza dando lettura del dispositivo come avviene nel processo penale; mentre nel processo ordinario questo non accade e la sentenza si conosce con il deposito in cancelleria del tribunale (non c’è la lettura). In sostanza mentre nel rito ordinario la fase introduttiva del processo è costituita da: l’atto di citazione, la comparsa di risposta del convenuto, l’udienza di comparizione, l’eccezioni del convenuto e l’udienza di trattazione; nel rito del lavoro invece la fase introduttiva del processo è costituita da: il ricorso, l’attività del convenuto (memoria difensiva da depositarsi 10 giorni prima dell’udienza di discussione) e l’udienza di discussione. L’art.426 c.p.c. (passaggio dal rito ordinario al rito speciale) prevede l’ipotesi in cui un soggetto promuove l’azione con il rito ordinario pur trattandosi di una causa di lavoro; qui la domanda viene proposta davanti al tribunale che è giudice competente per le cause di lavoro e quindi non si ha un problema di competenza ma solo di rito. Nel caso in questione il giudice deve disporre con ordinanza il mutamento del rito e deve farlo fissando l’udienza di cui all’art.420 c.p.c. ed il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’integrazione degli atti introduttivi. L’art.427 c.p.c. (passaggio dal rito speciale al rito ordinario) prevede l’ipotesi in cui un soggetto promuove l’azione dinanzi al tribunale con il rito del lavoro per una causa che non è di lavoro.

In questo caso il legislatore prevede due ipotesi: - L’ipotesi in cui il tribunale è comunque competente; in questo caso il giudice non dovrà fare

altro che disporre con ordinanza il mutamento del rito passando dal rito speciale del lavoro al rito ordinario imponendo inoltre alle parti di mettersi in regola sotto il profilo fiscale (infatti mentre le cause di lavoro sono esenti dal bollo, quelle che si svolgono con il rito ordinario sono assoggettate all’imposta su bollo).

- L’ipotesi in cui il tribunale non è comunque competente perché vi è una competenza per valore del giudice di pace (unica ipotesi visto che non esiste più il pretore); in questo caso il tribunale deve disporre il mutamento del rito ma deve anche ordinare che la causa venga riassunta davanti al giudice competente, ma qui il legislatore ha continuato a prevedere la forma dell’ordinanza anche se viene in discussione una questione di competenza e questo per evitare che il provvedimento fosse impugnabile.

A quest’ultimo proposito la cassazione ha ritenuto che quell’ordinanza fosse in realtà una sentenza perché in tema di competenza il giudice deve sempre pronunciarsi con sentenza; quindi se quell’ordinanza in realtà è una sentenza allora vorrà dire che viene ridata alle parti la possibilità di impugnarla. In realtà le previsioni degli artt.426 e 427 c.p.c. si verificano difficilmente visto che non esiste più il pretore. L’art.428 c.p.c. (incompetenza del giudice) si occupa solo dei problemi di competenza, ma non di tutti i problemi di competenza; infatti qui si fa riferimento ai problemi di competenza che sorgono nei casi in cui una domanda sia stata proposta ad un tribunale in funzione di giudice del lavoro incompetente. Il 1° comma dell’art.428 c.p.c. finisce col fare riferimento solo all’ipotesi dell’incompetenza per territorio (ad esempio domanda presentata anziché al tribunale di Foggia a quello di Lucera). Il convenuto nella comparsa di risposta, oppure il giudice nell’udienza di discussione, deve rilevare l’incompetenza. La disciplina del 1973 che anticipa la riforma del 1990 prevedeva che il momento del rilievo d’ufficio dell’incompetenza (da parte del giudice) dovesse essere anticipato all’udienza di discussione. Nel processo del lavoro l’eccezione di incompetenza può essere sollevata dal convenuto nella memoria difensiva da depositare 10 giorni prima, oppure può essere depositata dal giudice all’udienza di discussione; se non lo si fa subito dopo non si può più eccepire l’incompetenza per territorio. Un’ipotesi non prevista dagli artt.426, 427 e 428 c.p.c. è quella in cui si propone una controversia di lavoro come se non lo fosse e la si propone davanti al giudice di pace; in questo caso, in cui abbiamo oltre ad un problema di rito anche un problema di competenza, i giudice di pace dovrà dichiararsi incompetente ed indicare come competente il tribunale in funzione del lavoro.

ELEMENTI DI IDENTIFICAZIONE DELL’AZIONE (riferimento agli artt.163 e 441): Gli elementi che consentono di identificare una domanda sono tre: - I soggetti che sono le parti in causa ed in generale l’attore ed il convenuto. - L’oggetto, detto anche petitum, che può consistere nella richiesta di una sentenza di

condanna (petitum immediato) oppure la richiesta del “bene della vita” come ad esempio una somma di denaro (petitum mediato).

- Il titolo, detto causa petendi, che deve indicare i fatti storici (tesi della individuazione) e non anche la qualificazione giuridica dei fatti (tesi della sostanziazione). L’indicazione dei fatti storici, ovvero della causa petendi, non è necessaria nei diritti assoluti (diritti autodeterminati, nel senso che possono esistere una sola volta nei confronti di quella persona), ma lo è nei diritti obbligatori (diritti eterodeterminati, nel senso che possono esistere nei confronti della stessa persona, nello stesso tempo e con lo stesso contenuto). La causa petendi svolge anche una funzione rispetto al diritto di difesa.

Tutti gli elementi della domanda sono richiesti a pena di nullità.

L’attore può esercitare la domanda in due modi: - In forma di citazione se si tratta di un giudizio ordinario di cognizione ed allora avremo: la

notifica alla controparte ed il deposito nella cancelleria del tribunale. Quindi la citazione viene portata prima a conoscenza della controparte con la notifica e poi viene sottoposta al deposito in cancelleria.

- In forma di ricorso se si tratta di un giudizio del lavoro ed allora avremo: prima il deposito del ricorso in cancelleria e, dopo che il giudice ha fissato il giorno per l’udienza con decreto, la notificazione del ricorso e del decreto alla controparte (qui il contraddittorio si attua in un secondo momento).

Il convenuto nel corso del processo può assumere diverse posizioni: - la posizione di contumacia (la non costituzione in giudizio); - la posizione di assenza; - la posizione consistente nella mera contestazione dei fatti (senza introdurre nuovi fatti); - la posizione consistente nella contestazione con eccezioni (con l’introduzione di nuovi

fatti); - la posizione consistente nella contestazione più la proposizione di una domanda

riconvenzionale (c.d.“contrattacco”, qui l’ambito dell’oggetto viene ampliato a differenza delle due precedenti ipotesi oltre al fatto che vengono introdotti fatti nuovi), qui possono sorgere problemi di competenza in riferimento alla “domanda” del convenuto;

- la proposizione consistente in una domanda di accertamento incidentale (anche qui si amplia l’oggetto, ma la richiesta del convenuto non è su una condanna ma sull’accertamento di un diritto).

La costituzione in giudizio si ha nel momento in cui la parte deposita nella cancelleria del giudice un proprio atto (che per l’attore è la citazione o il ricorso, mentre per il convenuto è la comparsa). La contumacia è la posizione estrema del convenuto che si mostra completamente disinteressato (contumacia volontaria). Nel caso di contumacia volontaria (dove il convenuto decide volontariamente di disinteressarsi al processo) il legislatore non ricollega alcun effetto negativo e quindi nonostante la contumacia continuano a valere le regole normali, cioè l’attore deve fornire la prova dei fatti che afferma (mentre in altri ordinamenti attraverso la fictia confessio la contumacia del convenuto equivale ad un riconoscimento dei fatti affermati dall’attore) ed inoltre può vedersi rigettare la propria domanda anche se il convenuto è contumace. L’assenza, invece, si ha quando il convenuto si è costituito regolarmente (quindi non è contumace) ma non compare all’udienza. Mentre la costituzione avviene una volta sola ed esclude la contumacia, la comparizione in udienza è continua e presuppone la costituzione in giudizio. L’assenza di entrambe le parti per due udienze consecutive comporta la cancellazione della causa dal ruolo (l’attore dopo aver notificato la citazione alla controparte ha l’onere, entro 10 giorni, di costituirsi in giudizio cioè di depositare nella cancelleria l’atto di citazione che ha notificato e tutti i documenti che possono essere utili alla causa; tutto ciò va a costituire un fascicolo di parte che rientra poi nel fascicolo di ufficio del giudice insieme al fascicolo del convenuto e ad altri atti; la causa poi viene segnata su un registro in maniera cronologica con l’attribuzione di un numero di ruolo). Va distinto il ruolo generale, cioè il registro dell’ufficio giudiziario, dal ruolo della sezione. Se la causa è stata cancellata dal ruolo generale e nessuna delle parti riassume la causa entro un anno dalla cancellazione essa viene dichiarata estinta. Altre posizioni del convenuto sono la mera contestazione dei fatti e la contestazione con eccezioni; tra queste sicuramente più importante è la seconda dove il convenuto introduce nuovi fatti oltre a quelli affermati dall’attore senza ampliare l’oggetto del giudizio perché questo è determinato sempre dalla domanda introduttiva (il convenuto ad esempio oppone all’attore un’eccezione di prescrizione oppure un’eccezione di incompetenza ecc.).

Le eccezioni possono essere di vari tipi, esse possono avere ad oggetto fatti principali o fatti secondari; la differenza è data dal fatto che l’eccezione incida direttamente oppure non sull’oggetto del processo. Le distinzioni più importanti sono: quella tra eccezione di merito ed eccezione di rito e quella tra eccezione di parte ed eccezione di ufficio. L’eccezione di merito si ha in tutti quei casi nei quali il convenuto porta un nuovo fatto che incide direttamente sul diritto fatto valere in giudizio (ad esempio l’eccezione di prescrizione o l’eccezione di pagamento); mentre l’eccezione di rito riguarda lo svolgimento del processo e non il merito della causa (ad esempio l’eccezione di giurisdizione o l’eccezione di incompetenza). Questa distinzione è importante perché a seconda del tipo di eccezione il convenuto può puntare a contestare direttamente i fatti costitutivi fatti valere dall’attore o a contestare il tipo di procedimento scelto dall’attore. L’eccezione di parte è quell’eccezione che la parte può rilevare di propria iniziative, ma che allo stesso tempo sotto un certo profilo non può essere rilevata dal giudice; mentre l’eccezione di ufficio è quell’eccezione che è rilevabile di ufficio ma anche dalla parte se il giudice non la rileva. In ogni caso è necessario fare una precisazione: perché il giudice possa d’ufficio rilevare il fatto è necessario che questo sia stato portato nel processo, cioè che ci sia stata la c.d. allegazione di quel fatto; l’allegazione dei fatti però è un’attività che è riservata alle parti.

CONNESSIONE La connessione è la relazione che può intercorrere tra più diritti e quindi tra più rapporti giuridici, quindi tra azioni giuridiche che hanno ad oggetto quei rapporti giuridici. Lo scopo della connessione è quello di dar vita alla trattazione simultanea delle cause; questo per ragioni di economia processuale ma anche perché se le cause fossero trattate separatamente vi potrebbero essere decisioni non conciliabili tra loro. La connessione può aversi prima dei processi, se un soggetto vuole proporre due domande in una stessa sede, o dopo l’inizio dei processi, se si vuole riunirli. La relazione tra le cause, quindi la connessione può riguardare: i soggetti, il titolo o l’oggetto. Le ipotesi di connessione sono varie: • La connessione per accessorietà di cui all’art.31 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause, una

principale e l’altra accessoria, in cui vi è un’identità di soggetti (attore e convenuto sono gli stessi) ed inoltre è necessario che la causa principale sia fondata. In linea di principio spetta al giudice della causa principale decidere anche quella accessoria, a meno che la competenza non lo permetta. A tal proposito bisogna dire che ai fini della connessione per accessorietà è derogabile la competenza per territorio ma non quella per valore. La connessione per accessorietà (la riunione) viene chiesta dall’attore ed un esempio si può avere nel caso di una domanda per il capitale ed una domanda per gli interessi.

• La connessione per garanzia di cui all’art.32 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause in cui vi è un’identità del titolo ed anche qui è necessario che la causa principale sia fondata (perché vi possa essere la garanzia). Occorre tuttavia distinguere la garanzie proprie (personali quali la fideiussione e reali quali la garanzia per evizione) dalle garanzie improprie (che comportano un semplice collegamento a causa di ragioni di fatto economiche); infatti per queste ultime non vi è l’unicità del titolo (ad esempio nella vendita a catena, si può averi il caso in cui l’acquirente agisce contro il venditore ed il venditore contro il fornitore o il produttore). La connessione per garanzia propria può aversi anche in deroga della competenza per territorio ma non in deroga della competenza per valore; mentre la connessione per garanzia impropria non può aversi se vi è una competenza per territorio diversa per le due cause (non si può derogare la competenza per territorio); infatti per potersi avere la riunione è necessario che per le due cause sia competente territorialmente lo stesso giudice. Quindi la connessione per garanzia impropria pur dando vita alla riunione non da vita a modificazioni della competenza per ragioni di territorio. Il tipico esempio di connessione per garanzia propria si ha nell’ipotesi in cui l’attore proponga una domanda nei confronti si un suo debitore e una domanda nei confronti del fideiussore del suo debitore.

• La connessione per cumulo soggettivo di cui all’art.33 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause in cui vi è un’identità del titolo (obbligazione di natura divisibile, ovvero un attore e più convenuti) o un’identità di oggetto o un’identità di entrambi (incidente stradale). In questo tipo di connessione vi è un solo attore e più convenuti, quindi l’attore più agire nei confronti di tutti in uno stesso processo; a tal proposito l’articolo in questione richiede che sia rispettata la competenza per territorio almeno per uno dei convenuti. Questo tipo di connessione non è applicabile se vi sono fori esclusivi. Quindi possiamo dedurre che la competenza per territorio è derogabile solo per alcuni convenuti, ma non per tutti (almeno per uno bisogna rispettarla). In questo tipo di connessione siamo per lo più in presenza di ipotesi di litisconsorzio facoltativo.

• La connessione per pregiudizialità di cui all’art.34 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause in cui un rapporto pregiudiziale ed un rapporto pregiudicato. Questo tipo di connessione può aversi per legge o per domanda di parte e non fa riferimento ad una pregiudizialità di rito (casi di competenze e giurisdizioni diverse) ma fa riferimento ad una pregiudizialità di merito appunto perché riguarda rapporti giuridici in relazione di antecedenza logico-giuridica (nel senso che un rapporto dipende dall’esistenza di un altro rapporto). La pregiudizialità può essere intesa in diversi modi, infatti essa può consistere in:

- un punto pregiudiziale: se sul rapporto pregiudiziale, che deve essere conosciuto dal giudice del rapporto pregiudicato, c’è l’accordo delle parti sulla valutazione o una sentenza passata in giudicato;

- una questione pregiudiziale: se sul rapporto pregiudiziale, che deve essere conosciuto dal giudice del rapporto pregiudicato, le parti non sono d’accordo (vi è una contestazione) e quindi il giudice dovrà decidere la questione con efficacia incidenter tantum;

- una controversia pregiudiziale: se sul rapporto pregiudiziale, che deve essere conosciuto dal giudice del rapporto pregiudicato, vi è una contestazione ed il giudice dovrà decidere con efficacia di giudicato appunto perché la questione pregiudiziale si è trasformata in controversa pregiudiziale (ricordiamo che questa “trasformazione” può avvenire o per disposizione di legge o per esplicita domanda di parte che propone una domanda di accertamento incidentale). Nelle prime due ipotesi di pregiudizialità non sorgono problemi di competenza perché il giudice non decide con efficacia di giudicato, mentre nell’ultima ipotesi se il giudice non è competente a decidere la controversia pregiudiziale deve rimettere entrambe le cause al giudice “superiore”.

• La connessione per compensazione di cui all’art.35 c.p.c.: può aversi quando vi è una causa in cui l’attore agisce nei confronti del convenuto per ottenere la soddisfazione di un credito ed un’altra causa in cui si deve decidere su un controcredito vantato dal convenuto (che l’ha opposto in compensazione); infatti qui il presupposto è che alla domanda dell’attore il convenuto abbia opposto in compensazione un controcredito di cui l’attore ha poi contestato l’esistenza. Si deve decidere su due cause: una sull’esistenza del credito ed una sull’esistenza del controcredito. Se il giudice che decide sul credito ha anche la competenza (per valore) per decidere sul controcredito non sorgono problemi, in caso contrario invece il giudice della prima causa può decidere sul credito e rimettere al giudice competente la decisione sul controcredito. Tuttavia si ritiene che nel caso di incompetenza del primo giudice sul secondo rapporto debba funzionare l’art.40 c.p.c., cioè si ritiene che entrambe le cause debbano essere decise dal giudice competente per la seconda (l’ipotesi è che la causa sul credito penda dinanzi al giudice di pace, mentre per il controcredito sia competente il tribunale; in tal caso è quest’ultimo che deve decidere entrambe le cause).

• La connessione per riconvenzionale di cui all’art.36 c.p.c.: può aversi quando nell’ambito di una causa il convenuto non si limita a sollevare delle eccezioni ma propone una domanda riconvenzionale nei confronti dell’attore (qui vi sarà un collegamento col titolo della causa principale o con le eccezioni). Qui è il giudice al quale si è rivolto l’attore a decidere su entrambe le domande tranne nel caso in cui questi è incompetente per materia o per valore sulla domanda del convenuto; allora deciderà su entrambe le domande il giudice competente sulla domanda riconvenzionale. Anche se vi sono dei limiti all’ammissibilità della domanda riconvenzionale (dipendenza dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o dipendenza dall’eccezioni) la giurisprudenza finisce per ammettere in giudizio tutte le domande riconvenzionali.

Ora bisogna fare una distinzione tra due ipotesi: • L’ipotesi di più domande connesse proposte dinanzi a giudici diversi di cui all’art.40 c.p.c.:

secondo cui le cause vanno decise dal giudice della causa principale o, seguendo il criterio della prevenzione, dal giudice preventivamente adito (il giudice la cui causa è inizia prima); tuttavia vi è un limite alla riunione che è quello per cui essa non può essere chiesta dopo la prima udienza (questo per evitare che la decisione di un causa venga ritardata).

• L’ipotesi di più domande connesse proposte dinanzi allo stesso giudice di cui all’art.274 c.p.c.: può essere scissa in due casi, il caso in cui per stesso giudice si intende la stessa persona fisica (in tal caso quel giudice dispone la riunione d’ufficio) ed il caso in cui per stesso giudice si intende lo stesso ufficio giudiziario (in tal caso il giudice che abbia avuto notizia della pendenza delle due cause lo comunica al presidente del tribunale che dispone che le due cause vengano chiamate ad una stessa udienza davanti ad uno stesso giudice in modo che quest’ultimo possa disporre la riunione).

La riunione trovava un ostacolo nella diversità di rito ma dal 1990 si è stabilito che tra due cause connesse ma di rito diverso prevale quella col rito ordinario presso il cui giudice si decidono entrambe le cause; nel caso di due cause connesse tra le quali una è promossa col rito speciale del lavoro, tale rito prevale anche se l’altra causa è promossa col rito ordinario (eccezione alla regola generale) a meno che la causa promossa con il rito speciale del lavoro non è una causa di lavoro. In ogni caso prevale la causa con riferimento alla competenza per materia (e quindi al rito) altrimenti si considera la competenza per valore. I commi aggiunti (nel 1991) all’art.40 c.p.c. stabiliscono che, sia quando la connessione si ha fin dall’inizio che quando si ha nel corso delle cause, tra giudice di pace e tribunale prevale il tribunale ed inoltre il giudice di pace anche quando è prossimo alla decisione deve affidare tutto al tribunale (secondo alcuni invece andrebbe sempre rispettato il limite temporale).

Altre due ipotesi di modificazione della competenza oltre alla connessione sono: • La litispendenza si ha nell’ipotesi in cui due o più cause identiche (e non connesse) siano

pendenti davanti a giudici diversi. Questa ipotesi si ha quando le cause hanno gli stessi soggetti, lo stesso oggetto e lo stesso titolo. In questo caso il giudice adito successivamente in qualunque stato e grado del processo (anche in cassazione) ed anche d’ufficio dichiara la litispendenza con sentenza ed impone con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo. Non si ha la litispendenza se il giudice o l’ufficio giudiziario è lo stesso, infatti perché si abbia la litispendenza è necessaria l’identità delle cause e la proposizione delle stesse dinanzi a giudici diversi. Per stabilire quale è il processo che pende prima dell’altro si fa riferimento alla notifica dell’atto di citazione oppure al deposito del ricorso.

• La continenza si ha quando due cause sono parzialmente identiche, cioè vi è una causa continente ed una causa contenuta nel senso che l’oggetto di una causa contiene l’oggetto dell’altra (quindi nelle due cause abbiamo gli stessi soggetti, lo stesso titolo e l’oggetto parzialmente uguale). In questa ipotesi il giudice della causa contenuta dichiara la continenza con sentenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti devono riassumere la causa contenuta davanti all’altro giudice.

Sia la sentenza che dichiara la litispendenza che la sentenza che dichiara la continenza, poiché non sono decisioni di merito possono essere impugnate con il regolamento necessario di competenza.

Requisiti importanti che il giudice deve avere nello svolgimento dei sui compiti sono: - l’imparzialità, infatti deve giudicare senza preconcetti e prendendo in considerazione solo

ciò che le parti producono; - la terzietà, infatti non deve avere nessun interesse nella causa che si sta svolgendo dinanzi

a se. Il legislatore ha previsto istituti, scarsamente applicati, che sono: • L’astensione è la dichiarazione, che fa il giudice, di non poter giudicare in una causa

perché non può assicurarvi l’imparzialità o la terzietà. Il giudice non ha l’obbligo di astenersi (il nostro codice nutre una certa fiducia nella figura del giudice), salvo ricusazione della parte. Il giudice deve astenersi in una serie di ipotesi dettate dall’art.51 c.p.c. che possono ricondursi a due tipologie: le ipotesi di stretto rapporto con la causa (il giudice ha interesse in una causa che verte su un’identica questione di diritto oppure ha prestato patrocinio, dato consiglio o testimoniato nella causa) e le ipotesi di stretto rapporto con le persone (il giudice è parente di uno dei difensori o ha una causa pendente con i difensori o ancora è tutore di una delle parti). Quando la norma parla di “interesse” del giudice si riferisce ad un interesse che deve essere diretto; inoltre per “altro grado del processo” si deve intendere nel senso più ampio, cioè non bisogna riferirsi solo ai gradi ma anche alle fasi del processo.

• La ricusazione è l’alternativa offerta alle parti che possono chiederla se il giudice, nonostante non abbia i requisiti dell’imparzialità o della terzietà, non si astiene.

L’astensione e la ricusazione sono istituti che operano in via preventiva, in quanto prevengono il danno; tuttavia ci sono anche strumenti che operano in via repressiva (cioè quando il danno è stato già cagionato) contro il giudice che non si è astenuto o non è stato ricusato. A tal proposito dobbiamo trattare della responsabilità civile dei magistrati. La responsabilità civile dei magistrati, nel processo civile è stata regolata dagli artt.55 e 56 c.p.c. fino al 1988, ma questi articoli hanno fatto sorgere problemi di costituzionalità.

Prima del 1988 - Il magistrato rispondeva nei confronti delle parti per tutti i danni procurati in seguito a:

dolo (volontà di cagionare un danno), frode (distruzione o alterazione di documenti) e concussione (pagamento di una somma per decidere in un certo modo, corruzione).

- Il magistrato non era responsabile per l’errata interpretazione della legge. - Il magistrato poteva essere responsabile anche per diniego di giustizia. - La domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non poteva essere proposta

senza l’autorizzazione del ministro di grazia e giustizia ed era la cassazione che su richiesta della parte autorizzata designava con decreto (emesso in camera di consiglio) il giudice che doveva provvedere alla domanda.

Gran parte di questa disciplina costituiva una violazione di principi costituzionali. Dopo il 1988

Nel 1988, con un referendum, sono stati abrogati gli artt.55 e 56 c.p.c. e la disciplina della responsabilità civile del magistrato è stata poi regolata dalla legge n.117/1988 che : - disciplina la responsabilità del giudice sia in sede civile che penale; - amplia le ipotesi di responsabilità introducendo tra queste la colpa grave; - mantiene la responsabilità per diniego di giustizia; - individua il giudice competente a decidere sulla responsabilità del magistrato. Il legislatore tuttavia lascia al giudice la possibilità di sbagliare, anche se entro certi limiti; infatti il magistrato viene sanzionato solo per l’errore grave o la volontà di procurare un danno.

Quando il magistrato risponde per dolo a livello economico non ci sono limiti; mentre quando risponde per colpa grave o per diniego di giustizia il limite economico è costituito da una percentuale del suo stipendio. La legge n.117/1988 fa rientrare nella nozione di colpa grave: - la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; - l’affermazione, determinata da ignoranza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è

incontrastabilmente (palesemente) esclusa dagli atti del procedimento; - la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è risulta

incontrastabilmente dagli atti del procedimento; - l’emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona, fuori dai casi

consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Tutti queste previsioni tranne l’ultima possono riguardare sia il processo penale che il processo civile. Ricordiamo inoltre che l’introduzione della colpa grave tra le cause di responsabilità del magistrato costituisce una discreta garanzia a favore delle parti, anche in funzione del fatto che prima non era prevista. Per quanto riguarda il soggetto contro il quale si rivolge l’azione di responsabilità civile del magistrato e per ciò che riguarda i presupposti dell’azione stessa, bisogna innanzitutto di che l’azione di responsabilità del magistrato è improcedibile fin quando non sono stati esperiti tutti gli altri mezzi di impugnazione; nel senso che se il giudice di 1° grado mi procura un danno, io non posso lasciar passare in giudicato la sentenza e poi agire per la responsabilità, ma devo prima provare ad appellarmi eventualmente fare ricorso in cassazione o chiedere la revocazione e solo se non sono riuscito ad evitare il danno provocatomi dal giudice posso agire con l’azione di responsabilità nei sui confronti. Prima di entrare nel merito della controversia il giudice competente verifica l’ammissibilità dell’azione e successivamente inizia la causa che non viene proposta direttamente nei confronti del magistrato ma nei confronti dello stato nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri. La causa procede dinanzi ad un determinato giudice che ha competenza per territorio in quanto è il Tribunale della sede di Corte d’appello del distretto più vicino a quello in cui il magistrato esercitava le proprie funzioni. Al termine della causa per la responsabilità del magistrato se viene emanata una sentenza di accoglimento a pagare il danno sarà lo stato che in seguito potrà esercitare un’azione di rivalsa nei confronti del magistrato ma entro un anno dal risarcimento. La sentenza di risarcimento sarà opponibile nel corso del giudizio di rivalsa da parte del magistrato che abbia fatto intervento nel giudizio di responsabilità (difficilmente un magistrato interviene in un giudizio di responsabilità cosicché nel giudizio di rivalsa è lo stato a dover dimostrare che il danno è stato cagionato per dolo, colpa grave o diniego di giustizia). Per quanto riguarda la misura della rivalsa essa non può superare una somma pari al terzo di un’annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta. Il limite di un terzo non si applica in caso di dolo ma solo negli altri due casi (colpa grave e diniego di giustizia). Da questa disposizione (in funzione della lunga durata di un processo del tipo in esame e degli aumenti automatici degli stipendi dei magistrati) si evince ulteriormente il favor del legislatore nei confronti dei magistrati. Nel caso in cui il danno viene provocato da un collegio (e non da un giudice monocratico) a tutela del danneggiato interviene la legge n.117/1988 che ha aggiunto all’art.131 c.p.c. il comma che stabilisce che dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale che deve contenere la menzione dell’unanimità della decisione o del dissenso; questa norma è stata dichiarata incostituzionale e alle parole “è compilato” sono state sostituite quelle “può, se uno dei componenti del collegio lo richiede, essere compilato”.

Quindi è il dissenziente che deve chiedere che il suo dissenso venga messo a verbale. L’art.55 c.p.c., abrogato, prevedeva un termine breve (10 giorni) dal deposito dell’istanza di parte entro il quale se il giudice non provvedeva si poteva agire contro di lui per diniego di giustizia. Mentre oggi la legge n.117/1988 prevede che scaduti i termini di legge per il compimento dell’atto deve essere presentata istanza ed il giudice ha a disposizione 30 giorni per emettere il provvedimento; se il termine di legge non è previsto i 30 giorni decorrono dal deposito in cancelleria dell’istanza volta ad ottenere il provvedimento. Anche in questo caso la posizione del giudice è stata agevolata in quanto è possibile prorogare il termine per un massimo di tre mesi dalla data di deposito o di sei per la redazione di sentenze di particolare complessità.

PUBBLICO MINISTERO Il p.m., anche se è nato per promuovere l’azione penale, è vissuto anche per partecipare al processo civile. Il p.m. era sotto la direzione del Ministero di Grazia e Giustizia e la sua presenza nel processo civile, storicamente, trova ragione nel controllo cui si voleva sottoporre i giudici ed in tutta una serie di norme, di stampo fascista, che prevedono la partecipazione del p.m. nel processo civile. Attualmente, con l’ordinamento garantista, l’esecutivo non dovrebbe avere la volontà di incidere sull’attività dei giudici. Dobbiamo innanzitutto premettere che l’ufficio del p.m. è impersonale per cui il suo intervento è di ufficio e non come persona. Ai sensi dell’art.69 c.p.c. il p.m. esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge che sono quelli nei quali potrebbe ravvisarsi un pubblico interesse (si tratta di cause riguardanti i diritti della persona, ossia diritti indisponibili). Secondo l’art.70 c.p.c. il p.m. deve intervenire, a pena di nullità dell’atto di ufficio, nelle cause che egli stesso dovrebbe proporre (intervento necessario), quali: quelle matrimoniali comprese quelle di separazione, quelle riguardanti lo stato e la capacità delle persone e le altre cause previste dalla legge (questa è una norma di chiusura perché lascia al legislatore la possibilità di ampliare i casi in cui è previsto l’intervento necessario del p.m.). Il p.m. potrà anche intervenire arbitrariamente in tutte quelle cause in cui egli ravvisa un pubblico interesse (intervento facoltativo). I due tipi di intervento del p.m. richiedono: nel caso di intervento necessario, che il p.m. venga avvertito della pendenza di una causa in cui è richiesto il suo intervento a pena di nullità; mentre nel caso di intervento facoltativo, che il p.m. giri per le aule in cerca delle cause in cui ritiene di aver interesse ad intervenire. Secondo l’art.72 c.p.c. il p.m. quando agisce si comporta a tutti gli effetti come una parte; i poteri del p.m. sono gli stessi delle parti (dedurre prove, impugnare la sentenza) ma vengono limitati dal comportamento delle parti stesse; questo nel senso che il p.m. non può fare nulla che non sia stato fatto dalle parti e quindi la sua attività sostanzialmente è quella seguire le parti. Il p.m. è l’unico soggetto che agisce nel giudizio civile senza mettere quasi mai piede in udienza (intervento spirituale). Il p.m. può essere considerato una “parte atipica” perché pur essendo magistrato non svolge funzioni di giudice, non svolge funzioni inquirenti (proprie del penale), dovrebbe comportarsi come una parte ma non lo fa; quindi la sua presenza nel processo civile appare alquanto inutile. Inoltre la cassazione ha affermato che il p.m. qualora propone l’appello e poi non compare in udienza non provoca l’improcedibilità della causa; questo principio affermato dalla cassazione costituisce un’eccezione all’art.348 c.p.c. che stabilisce che quando si propone l’appello il giudice può dichiarare improcedibile la causa se l’appellante non compare mai in udienza. La Corte costituzionale ha affermato l’illegittimità dell’art.710 c.p.c. nella parte in cui non prevede l’obbligatoria presenza del p.m. in giudizi per la modifica dei provvedimenti adottati in sede di separazione riguardanti la prole.

La legge di istituzione del giudice unico ha confermato che il tribunale decide in sede collegiale nei casi in cui interviene il p.m.; di regola però il tribunale decide collegialmente le cause particolarmente importanti (quelle previste dall’art.50-bis c.p.c.), quindi se decide collegialmente anche nei casi in cui interviene il p.m. ne consegue che si avrà il collegio anche per cause semplici e questo è uno spreco di energie. Da tutte queste disposizioni si evince la alta considerazione che il legislatore e la Corte costituzionale hanno del p.m. Inoltre la partecipazione del p.m. non solo è sanzionata a pena di nullità nelle cause in cui il suo intervento è obbligatorio a norma dell’art.70 c.p.c., ma l’art.397 c.p.c. stabilisce anche che le sentenze di cui agli artt.395 e 396 c.p.c. possono essere impugnate dal p.m. per revocazione: quando la sentenza è stata pronunciata senza che egli sia stato sentito oppure quando la sentenza è l’effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge. L’art.158 c.p.c. stabilisce poi che la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del pubblico ministero è insanabile e deve essere rilevata d’ufficio, salva la disposizione dell’art.161 c.p.c. La nullità in questione è insanabile è quindi può essere eccepita dalle parti. L’art.161 c.p.c. al 1° comma (“la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione”) riguarda il principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di gravame, per cui anche le nullità insanabili si sanano con il passaggio in giudicato della sentenza; mentre al 2° comma (“questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”) parla dell’inesistenza della sentenza che è l’unica ipotesi in cui il passaggio in giudicato non va a sanare la nullità di questa sentenza. Quindi poiché il richiamo dell’art.158 c.p.c. fa riferimento solo al 2° comma, cioè solo alla mancanza della sottoscrizione del giudice, ormai si è portati ad affermare che anche la mancata partecipazione del p.m. rientra senz’altro nella nullità insanabile che può essere sanata con il passaggio in giudicato della sentenza. In conclusione possiamo dire che mentre in un sistema come quello precedente c’era l’esigenza del governo (dell’esecutivo) di tenere sotto controllo sia il giudice che le parti, oggi in funzione del venir meno di queste esigenze non dovrebbe persistere più una “blocca manus” dell’esecutivo in ogni processo. Oggi in sostanza, poiché ci sono istituti come l’astensione, la ricusazione e la responsabilità civile dei magistrati, non c’è più motivo di dubitare dell’imparzialità e della terzietà del giudice e quindi non è più necessario sottoporlo ad un certo controllo attraverso il p.m. che diventa una figura inutile. Per quanto riguarda il p.m. anch’esso è un magistrato e a norma dell’art.73 c.p.c. qualora intervenga nel processo civile gli si applica l’istituto dell’astensione, ma non quello della ricusazione. Inoltre al p.m. si applicano anche le norme relative alla responsabilità civile in quanto la legge n. 117/1988 si riferisce a tutti i magistrati civili e penali.

AZIONE L’art.24 Cost. fissa una regola fondamentale: “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Vi sono ipotesi eccezionali in cui colui che può agire in giudizio non è titolare del diritto (perché in generale invece deve esserlo). Abbiamo già esaminato i tre elementi di identificazione dell’azione (soggetti, oggetto o petitum, titolo o causa petendi) che si possono desumere dagli artt.163 e 414 c.p.c. Ora quindi possiamo individuare le categorie più ampie di azioni che sono: le azioni di cognizione (dirette a formare un provvedimento del giudice relativamente all’accertamento, o comunque all’esistenza, di un diritto); le azioni esecutive (dirette a dare vita ad un processo nel quale si deve cercare di realizzare, sia pur coattivamente, la volontà contenuta o in una sentenza o in un altro titolo esecutivo); le azioni cautelari (dirette a far conseguire nel più breve tempo possibile, ma in via provvisoria, la tutela; queste azioni possono essere cautelari conservative o cautelari di anticipazione ed in ogni caso devono essere seguite da un processo a cognizione). Più significativa è la distinzione tra le varie azioni di cognizione; a riguardo bisogna dire che esse possono essere: azioni di accertamento; azioni di condanna; azioni costitutive.

Le azioni di accertamento (dette di mero accertamento o anche dichiarative) sono quelle azioni per le quali il giudice si limita solo ad accertare l’esistenza o l’inesistenza di un diritto senza prendere un altro tipo di provvedimento, in quanto il fine dell’attore è proprio una sentenza di mero accertamento. Non è sempre possibile agire in giudizio solo per chiedere una pronuncia di accertamento ed anche se non vi è nel nostro ordinamento una norma avente portata generale in tal senso, esistono ugualmente una serie di norme, sparse, dalle quali si può desumere probabilmente la volontà del legislatore e cioè che l’azione di accertamento esiste ma non è illimitata; infatti tra le norme del nostro ordinamento ci sono vari articoli in cui si fa riferimento all’accertamento, tra questi abbiamo: - l’art.949 c.c. stabilisce che il proprietario può agire in giudizio per far accertare l’esistenza

del diritto (azione negatoria); - l’art.1079 c.c. stabilisce che il titolare della servitù può agire in giudizio per far accertare

l’esistenza del diritto e anche per far cessare le eventuali turbative (qui la sentenza non sarà solo di accertamento);

- l’art.99 c.p.c. stabilisce che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente (quest’articolo, a differenza dei precedenti articoli del codice civile, non fa riferimento solo a diritti assoluti ma a tutti);

- l’art.100 c.p.c. stabilisce che per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse (quest’articolo ribadisce che non c’è una limitazione a stare in giudizio; quindi per proporre una domanda di accertamento è necessario avervi interesse);

- l’art.2907 c.c. stabilisce che alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte;

- l’art.2909 c.c. stabilisce che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti (quindi sembrerebbe che ogni sentenza ha un accertamento del diritto idoneo a fare stato).

In sostanza da queste norme si può estrarre la regola generale che bisogna riconoscere esistenti nel nostro ordinamento le azioni di mero accertamento, quindi ritenerle ammissibili, ma si può anche estrarre il limite alla possibilità di agire in giudizio per un mero accertamento di un diritto. Infatti riprendendo gli artt.949 e 1079 possiamo dedurre che se non c’è un soggetto che contesta la proprietà o la servitù (o che comunque pone in contestazione un diritto reale del soggetto) l’azione di mero accertamento non è ammissibile (ad esempio non si può agire in giudizio per far dichiarare la proprietà di un certo bene se nessuno la reclama) in quanto vi sarebbe un processo inutile anche perché non si saprebbe nei confronti di chi muovere il processo. Questo limite (della contestazione) che abbiamo individuato rappresenta il c.d. interesse ad agire. L’interesse ad agire è una categoria fondamentale nelle azioni di accertamento, proprio perché se il soggetto non ha interesse non può agire in giudizio. La particolarità delle azioni di accertamento è che esse fanno riferimento a diritti assoluti (in quanto vi deve essere una contestazione, una turbativa, in merito all’uso del diritto) e questo può essere considerato un limite alla proposizione dell’azione di accertamento (infatti si può agire nei limiti in cui si abbia interesse e ciò può avvenire nei limiti dei diritti assoluti). Un ulteriore limite alla possibilità di agire in giudizio in via di mero accertamento è stato prospettato dalla dottrina e non consiste nel sostenere che a determinati soggetti non compete quell’azione ma consiste nel sostenere che a quei soggetti compete un’azione più efficace (vedi il caso dell’art.1079 c.c. secondo cui l’azione è diretta anche a far cessare le turbative).

È inoltre importante dire che nel nostro sistema c’è una doppia regola che l’interprete deve tener presente: quella dell’economia dei giudizi (che tende ad evitare la duplicazione dei processi, ritenendo che in è meglio agire in un unico giudizio che accerti il diritto e dia vita a qualche altro provvedimento piuttosto che permettere che le due cose siano oggetto di giudizi diversi) e quella dell’effettività della tutela giurisdizionale (che auspica l’utilizzo di strumenti che possono consentire al soggetto una tutela più efficace; infatti se l’attore ha la possibilità di proporre un’azione più efficace come quella di condanna non può chiedere solo l’accertamento del diritto). La doppia regola esaminata non viene però condivisa da tutti, ma il limite dell’interesse ad agire è sicuramente valido. Secondo l’opinione prevalente la sentenza di mero accertamento, proprio perché si limita solo ad accertare il diritto, non può che avere efficacia ex tunc (da quando il diritto esiste); quindi è una sentenza dichiarativa, si limita cioè solo a dichiarare la situazione giuridica in essere e non anche a costituirla. Per quanto riguarda le azioni di condanna, oltre alla sentenza di condanna come categoria ampia, esistono: la condanna in futuro, la condanna con riserva delle eccezioni e la condanna generica (cioè esclusivamente sull’an e non anche sul quam). La sentenza di condanna si ha in tutte quelle ipotesi in cui la parte non si limita soltanto a chiedere l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto ma chiede la pronuncia di un ulteriore provvedimento nei confronti del convenuto. Il presupposto delle azioni di condanna è l’esistenza di una prestazione in generale, infatti mentre per le azioni di accertamento la situazione sostanziale di riferimento è il diritto assoluto, reale, per le azioni di condanna la situazione sostanziale di riferimento è il diritto di obbligazione (inteso ad esempio non solo come il pagamento di una somma di denaro ma inteso anche come il diritto a consegnare o rilasciare un bene); l’azione di condanna si avrà nel momento in cui la prestazione non è stata eseguita, non vi quindi è un vero e proprio problema di interesse ad agire in quanto lo stesso presupposto dell’azione, cioè l’inadempimento, rappresenta in un certo senso l’interesse. In sostanza nelle azioni di condanna l’interesse ad agire perde significato perché è compreso proprio nello stesso presupposto dell’azione di condanna (l’inadempimento). Una prima caratteristica importante delle azioni di condanna è che esse portano all’uso della sentenza che è il titolo esecutivo (titolo per l’esecuzione forzata). L’art.474 c.p.c. stabilisce che l’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. L’art.282 c.p.c. poi stabilisce che la sentenza di 1° grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti. In passato la sentenza di condanna non era provvisoriamente esecutiva, bisognava quindi farsi due gradi di diritto per aversi una sentenza esecutiva, che consentisse cioè l’esecuzione forzata; successivamente, nel 1990, vi è stata la riforma che ha portato la sentenza di condanna ad essere provvisoriamente esecutiva fin dal 1° grado. Il giudice di 1° grado non può sospendere la sentenza perché questo è un potere che ha il giudice di appello. Il nostro processo esecutivo è innanzitutto di tipo remissivo (presuppone l’inadempimento) ed inoltre ha ad oggetto prestazioni di natura fungibile (che permettono per la loro natura di arrivare all’adempimento dell’ordinaria prestazione). Quindi si potrebbe sostenere che per le prestazioni infungibili il nostro sistema non possa funzionare, ma in realtà non è così perché ad esempio anche nei casi di obbligazioni di non fare o di obbligazioni infungibili la sentenza deve essere esecutiva, questo lo deduciamo da situazioni presenti nel nostro ordinamento (ad esempio l’art.7 c.c. prevede per una prestazione infungibile una situazione di condanna con un doppio contenuto: il risarcimento del danno e la cessazione dell’abuso anche per il futuro).

Possiamo notare che per le obbligazioni infungibili il legislatore accanto o ha previsto all’obbligazione principale una misura coercitiva per indurre il soggetto ad adempiere spontaneamente oppure l’interprete non può crearla attraverso l’interpretazione; quindi in quest’ultimo caso di fronte ad un obbligo che potrebbe non essere eseguito né spontaneamente, né coercitivamente, la dottrina ha cercato di trovare nel nostro ordinamento una norma che generalizzi la misura coercitiva per le ipotesi in cui il provvedimento del giudice ha natura infungibile. Questa norma è stata ritenuta l’art.388 c.p. che stabilisce al 1° comma che “chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da lire duecentomila a due milioni”; mentre al 2° comma che “la stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”. Questa norma è generale e può essere usata in qualsiasi momento, anche se c’è il rischio di sfruttare la paura del penale per poter conseguire l’efficacia delle sentenze civili. In conclusione possiamo dire che la misura coercitiva nel nostro sistema non esiste come misura generale, ma esiste in ipotesi specifiche ed è variamente caratterizzata, perché in alcuni casi è una misura che accresce l’obbligo del debitore (art18 stat. dei lav., art.28 stat. dei lav.). L’azione di condanna quindi porta ad una sentenza che ha come conseguenza quella di essere titolo esecutivo, sia nel caso in cui la condanna abbia ad oggetto obblighi fungibili che nel caso in cui abbia ad oggetto obblighi infungibili, soltanto che in quest’ultimo caso il procedimento non funziona e di qui l’esigenza di trovare strumenti efficaci dato che le misure coercitive (che sia aggiungono a quelle principali) previste dal legislatore per alcune situazioni non sono suscettibili di applicazione estensiva. In sostanza il sistema è strutturato solo sulle obbligazioni fungibili e solo in via repressiva, mentre in generale non funziona per le obbligazioni infungibili. Un’altra caratteristica delle azioni di condanna è che esse costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale; questa è un mezzo di garanzia insieme all’ipoteca volontaria e a quella legale. Un’ultima caratteristica (individuata dall’art.2953 c.c.) importante delle azioni di condanna è che la sentenza di condanna trasforma la prescrizione da breve in decennale (questo sta a significare che se un diritto, soggetto a prescrizione, viene accertato con sentenza di condanna, non è più soggetto a prescrizione breve ma decennale). Ora dobbiamo descrivere i vari tipi di condanna, ma premettiamo che le azioni di condanna si ricollegano come situazioni sostanziali di riferimento, alle obbligazioni; mentre le azioni di accertamento si ricollegano come situazioni ai diritti reali assoluti della persona. Le azioni di condanna presuppongono l’inadempimento quindi non si pone il problema dell’interesse, in quanto l’inadempimento legittima il creditore ad agire in giudizio. Condanna generica: L’art.278 c.p.c. stabilisce che quando è accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio (ma in realtà anche il tribunale monocratico), su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. Questa disposizione prevede come suo presupposto la domanda di parte con la quale l’attore viene a chiedere la condanna del convenuto al pagamento di una somma di denaro, in quanto ha diritto ad una determinata prestazione. Se vi è il diritto della richiesta della tutela , il giudice può frazionare la sua decisione in due distinti momenti: quello precedente in cui decide sull’an, cioè in ordine all’esistenza del diritto, e quello successivo in cui decide sul quam, cioè in ordine alla quantificazione del diritto stesso.

La pronuncia sull’an è un tipo di condanna generica perché non ha una quantificazione. La sentenza di condanna generica non è un titolo esecutivo (non ha la possibilità di essere portata all’esecuzione e secondo la dottrina maggioritaria non è neanche idonea a far attuare la trasformazione da prescrizione breve a prescrizione decennale); essa può essere considerata una sentenza di accertamento più che di condanna e più precisamente è una “condanna di accertamento” che contiene qualcosa che è propria della sentenza di condanna: l’iscrizione per l’ipoteca giudiziaria. Sappiamo che l’ipoteca si iscrive per una somma che è determinata dal capitale, dagli interessi e dalle spese; mentre poiché nella sentenza di condanna generica non abbiamo una somma come capitale (perché si accerta solo l’esistenza del diritto) il legislatore dà la possibilità al creditore agente d’iscrivere l’ipoteca giudiziaria determinando lui (senza essere eccessivo) il valore dell’importo per il quale iscrivere l’ipoteca. Nel 2° comma dell’art.278 c.p.c. viene stabilito che il collegio, con la stessa sentenza di condanna generica e sempre su istanza di parte, può condannare altresì il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene raggiunta la prova; anche in questo caso si tratta di una sentenza non definitiva perché il processo andrà avanti, solo che qui all’accertamento si aggiunge una quantificazione, sia pure parziale, del diritto (sentenza provvisionale). Mentre nel processo ordinario funziona la sentenza provvisionale, in quello del lavoro funziona l’ordinanza (sicuramente più agile e più nell’interesse del lavoratore). La norma che abbiamo esaminato è una norma di accelerazione che può consentire ad un soggetto di aver una risposta più veloce. La sentenza di condanna generica si basa sempre sull’inadempimento del convenuto. Condanna in futuro: Questo tipo di condanna ha natura eccezionale, quindi non suscettibile di interpretazione analogica e ricorre solo nei casi previsti dalla legge; essa è un provvedimento che il giudice assume in prospettiva futura (non nell’attualità della situazione) e quando il convenuto non è ancora inadempiente. Quindi in determinati casi il legislatore consente all’attore di agire per conseguire un titolo esecutivo da poter realizzare però nel momento in cui il convenuto diventi inadempiente. Nel nostro ordinamento le ipotesi in cui è ammissibile la condanna in futuro sono tutte riconducibili alla materia delle locazioni. Nell’ambito della condanna in futuro non essendosi verificato ancora l’inadempimento il conduttore (convenuto) non potrà mai essere condannato alle spese del giudizio. Condanna con riserva delle eccezioni: Anche questo tipo di condanna lo troviamo nella materia delle locazioni nell’ambito del procedimento speciale della convalida di sfratto. Il procedimento per la convalida di sfratto si apre con una citazione (quindi l’atto introduttivo viene prima notificato alla convenuto e poi depositato nella cancelleria del giudice) e così come il processo civile in generale anche questo processo speciale per convalida si snoda per udienze e può avere uno sviluppo differente a seconda dell’atteggiamento che le parti assumono in udienza. Un possibile sviluppo del processo si ha quando all’udienza il convenuto-conduttore non compare o compare e non si oppone, allora in questo caso il giudice convalida la licenza o lo sfratto con ordinanza che chiude il processo speciale e costituisce il titolo esecutivo. Un altro possibile sviluppo del processo si ha quando il convenuto-conduttore compare in udienza e si oppone, allora in questo caso l’opposizione trasforma il procedimento speciale per convalida in un processo a cognizione piena (quello che era un procedimento veloce e che consentiva di risolvere nel più breve tempo possibile i rapporti fra locatore e conduttore si trasforma in un processo che si svolge in tutta una serie di ulteriori udienze e si conclude con sentenza).

Il legislatore, in riferimento a quest’ultimo caso, ha distinto due ipotesi: quella in cui il conduttore propone eccezioni basate su prova scritta, in questo caso il giudice deve necessariamente trasformare il processo speciale in un processo a cognizione piena, e quella in cui l’attore propone delle eccezioni non basate su prova scritta, in questo caso il giudice può emanare un ordinanza di rilascio dell’immobile con riserva delle eccezioni (questa è un ordinanza provvisoria che comunque condanna il conduttore a rilasciare l’immobile salvo poi il processo a proseguire per accertare se le eccezioni da lui proposte sono o meno fondate). Nel caso di ordinanza di rilascio dell’immobile con riserva delle eccezioni abbiamo un provvedimento in via anticipata, di natura provvisoria, ma ugualmente un provvedimento di condanna che prevede il rilascio dell’immobile senza che sia stata completata l’istruttoria relativamente alle eccezioni sollevate dal convenuto. Quindi il giudice se l’eccezione è fondata su prova scritta non potrà pronunciare l’ordinanza, mentre se l’eccezione non è basata su prova scritta il giudice può emanare o meno l’ordinanza di rilascio sulla base dei documenti prodotti fino a quel momento. Questa previsione è limitata quasi completamente alla materia delle locazioni. Per quanto riguarda le azioni costitutive dobbiamo fare riferimento all’art.2908 c.c. che stabilisce che nei casi previsti dalla legge l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici con effetti tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Dalla testo di tale articolo è chiaro che le azioni costitutive sono tassative, cioè sono solo quelle espressamente previste dalla legge e possono aversi indipendentemente da quella che è la volontà delle parti. Nelle azioni costitutive la situazione di riferimento è il diritto potestativo, cioè quella situazione nella quale alla potestà di un determinato soggetto corrisponde la soggezione dell’altro. Esistono due tipi di azioni costitutive: - Le azioni costitutive necessarie che si hanno quando la costituzione, la modificazione o

l’estinzione di un rapporto giuridico si può ottenere solo con il processo (ad esempio la separazione giudiziale dei coniugi, il divorzio, l’interdizione ecc.; tutte situazioni che se non vi è il processo restano situazioni di fatto)

- Le azioni costitutive non necessarie che si hanno quando la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto giuridico si può ottenere senza il processo, cioè attraverso l’accordo delle parti a livello contrattuale (ad esempio la comunione forzosa del muro può essere oggetto di un accordo delle parti che se non trovano l’accordo possono ottenere dal giudice una sentenza costitutiva).

Quindi in alcuni casi (azioni costitutive necessarie) il processo è necessario per giungere alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico, mentre in altri casi (azioni costitutive non necessarie) il processo serve solo perché non si è raggiunto l’accordo tra le parti. Un’ipotesi importante di azione costitutiva è quella prevista dall’art.2932 c.c. (esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto) in cui rientra il caso del contratto preliminare. Quando a seguito di un’azione costitutiva si ha una sentenza, questa può avere efficacia (costitutiva, modificativa o estintiva) a partire da momenti diversi; infatti se si tratta di un’azione costitutiva necessaria la sentenza ha efficacia con la sua emanazione anzi con il passaggio in giudicato, mentre se si tratta di un’azione costituiva non necessaria l’efficacia può retroagire al momento della domanda se la domanda ha per oggetto beni immobili e se viene trascritta, altrimenti l’efficacia si ha con il passaggio in giudicato.

INTERESSE AD AGIRE E LEGITTIMAZIONE ATTIVA E PASSIVA L’art.100 c.p.c. stabilisce che per proporre una condanna o per contraddire alla stessa è necessario avere un interesse. L’interesse ad agire assume rilievo nelle azioni di accertamento, mentre non è rilevante nelle azioni di condanna (perché è compreso nel presupposto dell’inadempimento del convenuto) e nelle azioni costitutive (perché sono tipiche, cioè previste dalla legge). Per quanto riguarda il problema della legittimazione ad agire è necessario dire che esso coincide col problema dei destinatari del provvedimento giudiziale. Il problema dei destinatari del provvedimento giudiziale non va confuso con il merito della causa perché può aversi una pronuncia del giudice che neghi l’esistenza della legittimazione ad agire indipendentemente dall’esame del merito della causa; ma in realtà è difficile distinguere la legittimazione ad agire e la titolarità della situazione giuridica (infatti chi agisce in giudizio dice sempre di essere il titolare di quella situazione giuridica). La distinzione tra legittimazione ad agire e l’esistenza del diritto (ovvero titolarità della situazione giuridica) è meglio comprensibile nell’ipotesi in cui il legislatore prevede la possibilità che ad agire sia un soggetto diverso da colui che è titolare della situazione giuridica (è l’ipotesi del p.m. nel caso della c.d. legittimazione straordinaria in quanto l’art.81 c.p.c. stabilisce che nessuno può agire in giudizio per far valere un diritto che non è proprio). La legittimazione ad agire o contraddire indica il destinatario del provvedimento del giudice; questo è un problema che il giudice deve affrontare ancor prima del merito della causa, cioè dell’esistenza del diritto; quindi il giudice prima di decidere deve verificare che il soggetto che agisce abbia la legittimazione ad agire o rientri in uno dei casi in cui la legge prevede la possibilità di agire anche ad un soggetto che non è titolare della situazione giuridica ed inoltre il giudice deve anche verificare dal lato passivo che vi sia la legittimazione a contraddire e che siano presenti tutti i soggetti titolari del diritto (che poi saranno i destinatari del provvedimento).

PARTI - La parte è il soggetto destinatario del provvedimento del giudice. - La parte non può essere mai il giudice. - La parte è un soggetto diverso dal terzo. Il terzo che entra a far parte del processo acquista la qualità di parte. Nel nostro ordinamento la qualità di parte viene assunta attraverso un atto di iniziativa proprio o altrui. La qualità di parte si acquista con l’atto di citazione o con l’intervento successivo nel processo. L’assunzione della qualità di parte attraverso l’atto di citazione prescinde dall’effettiva costituzione in giudizio, ovvero dall’effettiva partecipazione al processo (infatti l’atto di iniziativa, iniziale, è sufficiente). Per quanto riguarda la parte sono rilevanti due nozioni di capacità: la capacità di essere parte e la capacità di stare in giudizio. Entrambe le nozioni corrispondono alle altre due nozioni contenute nel codice civile di capacità giuridica e capacità di agire. La capacità ad essere parte è affine alla capacità giuridica infatti tali capacità le hanno tutti (nel caso dei minori questi hanno la capacità di essere parti ma non quella di stare in giudizio e lo stesso vale per gli enti; per questi soggetti la capacità di stare in giudizio è dei rappresentanti). Mentre la capacità giuridica è prevista dall’art.1 c.c., la capacità di essere parte non è prevista in nessuna norma del codice di procedura civile ma si potrebbe far riferimento all’art.24 Cost. che stabilisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. La capacità di stare in giudizio è prevista una norma ad hoc che è l’art.75 c.p.c.; questo articolo stabilisce che sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che si fanno valere. Non vi è però una perfetta coincidenza tra capacità di stare in giudizio e capacità di agire infatti nel nostro ordinamento ci sono soggetti (quali l’imprenditore fallito) che pur avendo la capacità di agire in generale non hanno in alcuni casi la capacità di stare in giudizio che viene data ad altri soggetti (per l’imprenditore fallito non vi è la capacità di stare in giudizio per i rapporti di natura commerciale e tale capacità al suo posto ce l’ha il curatore); infatti l’art.75 c.p.c. stabilisce che le persone che non hanno la capacità di stare in giudizio, stanno in giudizio con la rappresentanza. Nel processo civile inoltre c’è un altro fenomeno che è quello dell’autorizzazione; infatti ci sono casi nei quali per stare i giudizio è necessario un particolare atto che riguarda particolari soggetti, l’autorizzazione (ad esempio gli enti pubblici hanno bisogno dell’autorizzazione della giunta comunale, provinciale o regionale). Nel processo civile quindi assume rilievo la c.d. rappresentanza legale mentre non viene completamente recepita la rappresentanza volontaria. Secondo l’art.77 c.p.c. la rappresentanza volontaria può ricorrere se vi sono due condizioni, ovvero se vi è un atto scritto che conferisce la rappresentanza volontaria processuale ed inoltre se la rappresentanza processuale si accompagna alla c.d. rappresentanza sostanziale (o perché il soggetto è preposto a particolari affari e la causa si ricollega a tali affari o perché vi è un procuratore generale per un soggetto che non ha la residenza o il domicilio in Italia).

A questa regola il legislatore apporta delle eccezioni, infatti non sarà necessario che la rappresentanza sostanziale-processuale sia conferita per atto scritto in due casi: quando il rappresentante rappresenta uno straniero che non ha la residenza in Italia o quando si tratta di un institore, cioè un soggetto preposto ad un particolare affare. In questi casi non è necessario dimostrare il conferimento dell’incarico perché si sostiene che la rappresentanza sostanziale contenga la rappresentanza processuale. Ed un altra eccezione si ha nel caso di applicazione di provvedimenti cautelari (per esempio nel caso di sequestro, di provvedimento d’urgenza, casi in cui il rappresentante sostanziale non deve fornire la prova dell’atto scritto).

PLURALITA’ DELLE PARTI (LITISCONSORZIO)

Lo schema semplice del processo prevede due parti, il convenuto e l’attore; in certi casi però sono presenti più parti. La presenza di più parti è dovuta a diverse ragioni e precisamente può essere dovuta o in relazione al tipo di situazione giuridica sostanziale (litisconsorzio necessario) o in funzione di una relazione che esiste fra i rapporti giuridici oggetto del processo (litisconsorzio facoltativo). La pluralità delle parti viene indicata col termine litisconsorzio (dal lato attivo o dal lato passivo), inoltre è necessario dire questo istituto viene introdotto per la prima volta nel codice del 1940 grazie alle spinte della dottrina (ad esempio il Chiovenna affermava l’esigenza del litisconsorzio necessario ma solo per le azioni costitutive). Il legislatore, avendo recepito l’applicabilità del litisconsorzio necessario anche alle azioni di condanna e di accertamento, lo ha invece escluso per le obbligazioni solidali. Le norme che riguardano il litisconsorzio necessario sono sparse nel codice, innanzitutto abbiamo l’art.102 c.p.c. che stabilisce che se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. In realtà esistono norme nelle quali si parla di litisconsorzio necessario sia nel codice di procedura civile che nel codice civile. Possiamo prendere in considerazione tre articoli: - l’art.248 c.c. dettato in tema di contestazione della legittimità (prevede che siano chiamati

entrambi i genitori); - l’art.2900 c.c. dettato in tema di surrogazione (prevede che il creditore citi anche il

debitore); - l’art.784 c.p.c. dettato in tema di scioglimento della comunione e di divisione ereditaria

(prevede il litisconsorzio necessario). Da queste norma la dottrina ha ritenuto possibile desumere categorie più ampie che prevedono il litisconsorzio necessario, queste categorie sono: - la categoria che comprende tutti i casi nei quali viene dedotta in giudizio una situazione

giuridica sostanziale con una pluralità di parti (ci sono più titolari del diritto, ad esempio più di due titolari, gli eredi);

- la categoria che comprende i casi di legittimazione straordinaria (ad esempio nel caso di surrogazione il titolare del diritto, cioè il debitore, è legittimato straordinario; altro esempio è il caso in cui l’azione viene promossa dal p.m.);

- la categoria che comprende tutti quei casi che non rientrano nelle due precedenti categorie (ipotesi di rapporto giuridico plurisoggettivo e ipotesi di legittimazione straordinaria) e sono casi eccezionali previsti per ragioni di mera opportunità (ad esempio secondo l’art.1000 c.c. nel caso di capitale gravato di usufrutto alla causa devono partecipare i proprietari e gli usufruttuari).

Quindi nell’art.102 c.p.c. (definita “norma in bianco”), quindi nel litisconsorzio necessario, devono essere fatte rientrare le tre categorie di casi: casi di situazione giuridica plurisoggettiva, casi eccezionali previsti per ragioni di mera opportunità e casi di legittimazione straordinaria. Anche quando vi è il litisconsorzio necessario, ad essere dedotto in giudizio è comunque un unico rapporto giuridico con più soggetti.

Secondo l’art.102 c.p.c. quando la causa non è stata promossa nei confronti di tutti i litisconsorti necessari il giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio in termini perentori (può essere il convenuto a fare risultare il giudizio del contraddittorio attraverso un eccezione di questo tipo in cui quando richiede il litisconsorzio deve indicare sono i litisconsorti presenti in causa). Quando ci sono dei litisconsorti necessari pretermessi il giudice, attraverso l’ordine dell’integrazione del contraddittorio, ordina che venga loro notificato l’atto di citazione. I litisconsorti necessari ricevuta la notificazione dell’atto di citazione possono anche decidere di non costituirsi in giudizio (questa sarà una volontaria decisione di rimanere contumaci), ma se invece si costituiscono da terzi diventano parti. Se le parti non ottemperano all’ordine del giudice di integrare il contraddittorio, non notificando l’atto di citazione ai litisconsorti necessari pretermessi nel termine perentorio, il processo si estingue. Fino al 1940 l’estinzione poteva essere rilevata sia dalla parte che d’ufficio, dal 1950 la riforma ha stabilito che è necessaria l’eccezione di parte, infatti se la parte non rileva l’estinzione nella prima udienza vi è una sorta di sanatoria e non si può parlare di estinzione; su questa nuova regola in dottrina ci sono varie tesi a favore e non. Secondo alcuni l’estinzione può ancora essere rilevata d’ufficio e quindi nell’art.307 c.p.c. rientrebbe anche la possibilità del giudice di rilevare l’estinzione, mentre secondo altri il giudice se non c’è l’eccezione di parte non può rilevare d’ufficio l’estinzione e quindi deve chiudere il processo con una sentenza di natura processuale che non riguardando il merito non impedisce alle parti la possibilità di riproporre la domanda. Le due tesi pervengono allo stesso risultato. Dobbiamo esaminare il problema dell’efficacia della sentenza emessa in presenza di un contraddittorio non integro e quindi possiamo dire che quando nel corso del processo di 1° grado non ci si accorge che si è in presenza di un ipotesi di litisconsorzio necessario ed il processo va ugualmente avanti la sentenza emessa è detta “inutiliter data” cioè non ha efficacia nei confronti dei litisconsorti pretermessi. Il legislatore ha previsto l’ipotesi in cui le parti impugnano la sentenza emessa in contraddittorio non integro o in appello o in cassazione. Gli articoli di riferimento sono l’art.353 c.p.c. e l’art.354 c.p.c. Quindi vi sono delle ipotesi eccezionali, e tra queste rientra quella di litisconsorzio necessario, nelle quali il giudice d’appello non deve riesaminare la causa nel merito ma deve annullare la sentenza di 1° grado e rimettere la causa allo steso giudice di 1° grado rimettendo in moto il processo dal principio. Lo stesso avviene in cassazione ed in tal caso la causa riprenderà sempre dinanzi al giudice di 1° grado. Questo istituto, che consente di annullare l’intero processo, facendo si che le cause abbiano una durata eccessiva. Dobbiamo capire cosa accade se le parti non impugnano la sentenza in contraddittorio non integro in appello. Tale sentenza, inutiliter data, è viziata ma può essere sanata se passa in giudicato; l’unica eccezione a tale regola si ha nel caso della sentenza che non è stata sottoscritta dal giudice (ipotesi di inesistenza). Se la sentenza in contraddittorio non integro passa in giudicato dovrebbe avere efficacia ma a riguardo ci sono tre tesi: - quella che ritiene che tale sentenza abbia efficacia nei confronti di tutti i soggetti (sia le

parti che i litisconsorti pretermesi); - quella che ritiene che tale sentenza sia efficace solo nei confronti delle parti; - quella che ritiene che tale sentenza non sia efficace nei confronti di nessuno (ne le parti ne

gli “assenti”). Tra queste tesi quella maggiormente accettata è la seconda che prevede l’efficacia nei soli confronti delle parti, che possono impugnarla se vogliono evitare che la sentenza passi in giudicato, e l’inefficacia nei confronti dei terzi che non hanno partecipato al processo.

Se le parti hanno la possibilità di impugnare la sentenza il terzo pregiudicato da tale sentenza viene tutelato innanzitutto con la possibilità di opporsi alla sentenza contestandola (“opposizione del terzo”). L’opposizione del terzo, a differenza dell’impugnazione di parte, non è soggetta a termini di decadenza e può essere proposta in qualsiasi momento anche quando la sentenza è già passata in giudicato (l’unico limite a tale opposizione è dato dall’usucapione). Inoltre il terzo può opporsi all’esecuzione della sentenza ed alcuni ritengono che il terzo possa anche proporre un’azione autonoma di accertamento negativo che accerti appunto la nullità della sentenza emessa senza sua partecipazione (in quest’ultimo caso il terzo non potrebbe chiedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza, cosa che può fare invece nel caso in cui eserciti l’opposizione). Per quanto riguarda le conseguenze del litisconsorzio necessario sulle prove dobbiamo dire innanzitutto che nel nostro ordinamento ci sono: - prove legali (che vincolano il giudice nella valutazione dei fatti), ovvero il giuramento e la

confessione; - prove libere (che non vincolano il giudice che può attribuirle o meno validità), ovvero la

testimonianza. Per quanto riguarda la confessione (dichiarazione sfavorevole a chi la fa e favorevole all’altra parte) se un litisconsorte necessario confessa il suo atto non pregiudica gli altri poiché la sua dichiarazione non ha effetti vincolanti per il giudice in quanto in tale ipotesi la confessione diventa una prova libera. Per quanto riguarda il giuramento (a differenza che nella confessione la dichiarazione che costituisce giuramento può essere anche favorevole a chi la fa) se un litisconsorte necessario fa il giuramento nel caso in cui la dichiarazione è negativa non vincola gli altri se invece è positiva gli altri se ne avvantaggiano. Nell’ipotesi di litisconsorti necessari dal lato attivo tutti devono essere d’accordo nel deferire il giuramento alla controparte (perché è necessaria la disponibilità del diritto che è di tutti congiuntamente), mentre quando l’attore unico deferisce il giuramento a più litisconsorti necessari dal lato passivo si ha che se le dichiarazioni sono univoche il giudice è vincolato se invece non lo sono il giudice può valutare liberamente tali prove che da prove legali si trasformano in prove libere. Un’altra figura, oltre al litisconsorzio necessario, che comporta la necessaria presenza di più parti nel processo è il cumulo oggettivo disciplinato dall’art.2377 c.c. e dall’art.2378 c.c. che prevedono che quando vi è stata una delibera assembleare i soci assenti o dissenzienti possono impugnare la delibera chiamando in giudizio la società, non i soci che la compongono; se però più soggetti hanno impugnato la stessa delibera assembleare le singole cause verranno decise in un unico processo con un’unica sentenza. In questo caso la presenza di più parti non è necessaria dall’inizio ma lo diventa successivamente (si parla di cumulo oggettivo perché le cause intentate dai soci hanno lo stesso oggetto, l’impugnazione della delibera assembleare). Per quanto riguarda il litisconsorzio facoltativo la disciplina è contenuta nell’art.103 c.p.c.; qui vi sono più parti ma la loro presenza è facoltativa perché alla base della loro partecipazione vi sono ragioni di opportunità. La differenza tra i due tipi di litisconsorzio consiste nel fatto che: nel litisconsorzio necessario abbiamo un’unica situazione giuridica soggettiva (un unico diritto) che fa capo a più soggetti (situazione giuridica soggettiva plurima); mentre nel litisconsorzio facoltativo abbiamo più rapporti giuridici (quindi più parti) che sono tra loro connessi o per il titolo, o per l’oggetto o per entrambi. L’art.103 c.p.c. disciplina due ipotesi: il litisconsorzio facoltativo proprio (che si ha quando i rapporti giuridici sono connessi o per l’oggetto, o per il titolo, o per entrambi) e quello improprio (che si ha quando la decisione dipende parzialmente o totalmente dalla risoluzione di identiche questioni di diritto).

La sentenza emanata in queste ipotesi di litisconsorzio facoltativo formalmente è unica ma suddivisibile in tante parti quanti sono le cause connesse. Poiché la presenza di più parti è dettata da esigenze di economia processuale e per evitare che vi siano decisioni contrastanti essa può non essere necessaria fino alla fine e quindi venir meno attraverso un provvedimento del giudice che dispone la separazione delle cause (per ragioni di celerità del processo o su istanza di tutte le parti). Per quanto riguarda le conseguenze del litisconsorzio facoltativo sulle prove bisogna dire che nel caso in cui solo un litisconsorte facoltativo abbia confessato o prestato giuramento si ritiene che quelle dichiarazioni vincolano il giudice (sono prove legali) ma valgono solo nei confronti di chi le ha rese e non nei confronti degli altri litisconsorti e quindi delle altre cause. Il fatto che nel litisconsorzio facoltativo i diversi rapporti rimangono sostanzialmente divisi anche se formalmente vengono riuniti e decisi insieme fa si che se si dovesse verificare un evento interruttivo del processo (morte della parte o del difensore) il giudice separerà le cause e si interromperà solo il processo (la causa) interessato dall’evento interruttivo, l’altra causa andrà avanti. Sempre nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo se a seguito della sentenza che riguarda due rapporti solo un litisconsorte facoltativo la accetta mentre l’altro vuole agire in appello, si avrà che il rapporto del soggetto che accetta la sentenza rimane deciso in via definitiva mentre il rapporto del soggetto che impugna la sentenza verrà deciso singolarmente in appello. Quindi per il primo litisconsorte facoltativo la sentenza passa in giudicato per il secondo no. Nell’ambito del litisconsorzio necessario, invece, anche se la sentenza viene impugnata da uno solo dei litisconsorti necessari, tutti quanti devono partecipare al processo perché il rapporto giuridico è unico. In conclusione nel litisconsorzio facoltativo abbiamo più rapporti giuridici connessi ma ciascuno di loro conserva la proprio autonomia. Questa autonomia appare ancora più evidente se si considera l’art.104 c.p.c. che stabilisce che contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo anche non altrimenti connesse. In questa ipotesi un soggetto propone nei confronti dell’altra parte più domande che sono autonome tra loro ma secondo il legislatore possono essere proposte ugualmente nello stesso processo e questo per ragioni di economia processuale. Qui l’unica particolarità è che le domande si sommano per valore e quindi si deve rispettare la relativa competenza; ma per ciò che riguarda la loro autonomia, questa è dimostrata dal fatto anche se il giudice decide con un’unica sentenza il soccombente può anche decidere di impugnare solo una parte della stessa (in tal caso non sarà necessario portare tutto il processo, svoltosi in 1° grado, in appello ma la parte non impugnata passerà in giudicato mentre quella impugnata verrà decisa in appello). La situazione descritta dall’art.104 c.p.c. non crea particolari problemi infatti proprio perché le due domande sono tra loro autonome ma vengono proposte nell’ambito dello stesso processo solo perché sono rivolte verso la stessa parte.

ATTI PROCESSUALI: ATTI DI PARTE ED ATTI DEL GIUDICE Gli atti processuali sono atti che consentono al processo di procedere. Il legislatore pone alla base della disciplina di ogni atto il raggiungimento dello scopo secondo quell’atto (scopo oggettivo) e non il raggiungimento dello scopo secondo chi pone in essere quell’atto (scopo soggettivo). La legge prevede che per ogni atto elementi essenziali e per alcune ipotesi sanziona la mancanza di quegli elementi con la nullità dell’atto. Secondo l’art.121 c.p.c. gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Secondo l’art.122 c.p.c., poi, nel processo è previsto l’uso della lingua italiana sia per gli atti sia per le udienze ed è per questo che il giudice può nominare un interprete ed un traduttore (per gli atti).

Il nostro processo dal 1865 al 1940 era un processo scritto che poteva essere un procedimento sommario (per le cause semplici) o un procedimento formale (per le cause in generale) che era completamente scritto. Il processo moderno è orale anche se finisce con l’essere soggetto alla verbalizzazione di tutto ciò che avviene in udienza. Secondo l’art.126 c.p.c. il processo verbale deve contenere l’indicazione delle persone intervenute e delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti; deve inoltre contenere la descrizione delle attività svolte e delle rilevazioni fatte, nonché le dichiarazioni ricevute. Quindi il verbale di udienza è un atto. Nel 1940 il legislatore ha creato la figura del giudice istruttore che non giudica (il giudice istruttore quando è previsto il giudice monocratico ad un certo punto si trasforma in giudice che decide, quando invece è previsto il collegio la decisione spetta a quest’ultimo). Al giudice istruttore, cui spetta lo svolgimento del processo, l’art.127 c.p.c. attribuisce il potere di dirigere l’udienza tranne nel caso in cui vi sia il collegio, infatti in tal caso è il presidente del collegio che dirige l’udienza. Secondo l’art.128 c.p.c. sancisce la pubblicità delle udienze lasciando al giudice la facoltà discrezionale di disporre che l’udienza si svolga a porte chiuse se ricorrono determinate ragioni di sicurezza dello stato, di ordine pubblico o di buon costume. Per quanto riguarda gli atti del giudice bisogna dire che questi si esprime appunto per atti e non può prendere provvedimenti verbali. Il giudice può emanare tre tipi di atti a seconda di quanto previsto dalla legge: - La sentenza (definitiva, non definitiva o parziale) è un atto che in genere definisce e chiude

il processo, in quanto decide in ordine alla causa sia nel merito che in rito; inoltre essa secondo quanto disposto dall’art.132 c.p.c. deve contenere: l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata e delle parti dei loro difensori; le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione; il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice.

- L’ordinanza a differenza della sentenza non chiude il processo ma serve sa far si che prosegua (questo ad eccezione delle ordinanze previste dagli artt.186-bis, 186-ter, 186-quater che chiudono il processo e possono essere pertanto impugnate).

- Il decreto non viene emesso in contraddittorio non conclude il processo e non ha efficacia decisoria (un’eccezione è costituita dal decreto ingiuntivo).

La sentenza di regola è impugnabile, i casi in cui non è impugnabile in appello vengono previsti dalla legge. Le ordinanze ed i decreti non sono mai impugnabili ma sono modificabili o revocabili. Se il giudice sbagliando emana un’ordinanza anziché una sentenza, tale ordinanza sarà impugnabile al pari di una sentenza sempre che con quell’atto si sia raggiunto lo scopo. Gli atti del giudice possono essere emessi in udienza o fuori udienza; nel primo caso gli atti si considerano conosciuti dalle parti anche se contumaci o assenti, mentre nel secondo caso gli atti devono essere comunicati direttamente dalla cancelleria agli avvocati o attraverso la notificazione per col c.d. biglietto di cancelleria. La notificazione può avvenire o a mano o a mezzo servizio postale. Nel primo caso la notificazione va fatta dall’ufficiale giudiziario che ha sede nel comune o nel circondario in cui risiede il destinatario; tale notificazione in determinati casi.può essere fatta in un luogo diverso dalla residenza. La mancanza di una determinata forma della notificazione dell’atto, anche quando è prevista dalla legge, non è causa di nullità se viene raggiunto ugualmente lo scopo dell’atto. Così come, anche se la legge non sanziona la nullità di un atto per la mancanza di un requisito, tale atto sarà ugualmente nullo se non raggiunge lo scopo. Le ipotesi di nullità dell’atto sono quelle previste dalla legge.

La nullità è relativa quando è sanabile e può essere rilevata dalla parte nella prima difesa successiva alla prosecuzione dell’atto la cui nullità si intende rilevare; mentre la nullità è assoluta quando è insanabile e può essere rilevata anche dal giudice in qualunque stato e grado del procedimento (l’unica sanatoria per le nullità insanabili è il passaggio in giudicato della sentenza che non funziona in alcuni casi). Secondo l’art.162 c.p.c. il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende. Per quanto riguarda i termini, che servono al legislatore per regolare la cadenza del processo e per ordinare lo stesso, sono diversi: - termini dilatori che servono a frenare il processo (ad esempio il termine a comparire, art.163-

bis c.p.c.); - termini acceleratori che servono ad accelerare il processo (il termine breve a comparire o il

termine per impugnare); - termini perentori che sono suscettibili di proroga (il termine per integrare il contraddittorio); - termini ordinatori che sono prorogati dal giudice se la richiesta di proroga giunge prima della

scadenza del termine; - termini liberi nei quali si computano la data di partenza (dies a quo) e quella di arrivo (dies a

quem); - termini in avanti quando in presenza di giorni festivi la scadenza viene posticipata al giorno

successivo; - termini a ritroso quando in presenza di giorni festivi la scadenza viene anticipata al giorno

precedente. Il computo dei mesi e degli anni va fatto indipendentemente dalla lunghezza dei mesi o degli anni facendo riferimento alla data in cui inizia a decorrere il termine. Nel periodo che va dal 1° agosto al 15 settembre i giudici e gli avvocati godono della sospensione feriale ma il tribunale mantiene un presidio per trattare le cause che cadono in questo periodo. In questo periodo inoltre vengono sospesi i termini processuali ma non quelli sostanziali che continuano a decorrere. La legge n.742/1969 prevede una serie di provvedimenti che per la loro particolare urgenza fanno eccezione alla regola suddetta.

PROCESSO A COGNIZIONE PIENA ED ESAURIENTE (di 1° grado) Le forme di tutela a cognizione piena sono le forme di tutela classica perché sono quelle destinate a prestare tutela a tutta una serie di diritti, sono quelle forme di tutela che si concludono con la sentenza cioè con un provvedimento che è idoneo a disciplinare una volta per tutte il rapporto fra le parti. Nell’ambito di queste forme di tutela a cognizione piena esistono delle distinzioni, infatti abbiamo:

- il processo ordinario di cognizione piena (che tutti possono utilizzare per la tutela dei diritti in generale);

- il processo del lavoro; - il processo delle locazioni; - il processo che si svolge davanti al giudice di pace.

Il processo a cognizione piena tende a fare accertare in maniera completa la situazione. Possiamo dire tale processo è distinto in 3 fasi: la fase introduttiva (fase inevitabile); la fase istruttoria (fase non essenziale, perché può accadere che il processo non debba accertare alcuna situazione di fatto); la fase decisoria (che potrebbe non esistere se il processo dovesse avere una conclusione diversa dalla sentenza).

Fase introduttiva Gli atti introduttivi sono la citazione (atto con il quale l’attore propone una domanda e che viene ad esistenza giuridica nel momento in cui viene notificato al convenuto) ed il ricorso (atto anch’esso con il quale l’attore propone una domanda ma che viene ad esistenza giuridica prima della notifica al convenuto, cioè con il deposito). Per quanto riguarda la citazione, fino al 1950 nella citazione dell’attore non vi era l’indicazione dell’udienza, successivamente (dal 1950 in poi) il sistema cambia; infatti l’attore nella citazione deve indicare la data dell’udienza (anche se probabilmente non sarà quella effettiva). Il contenuto della citazione è disciplinato dall’art.163 c.p.c. (numeri 1,2,3,4,5,6,7). La domanda può essere divisa in tre parti: - La prima parte che è costituita dalla chiamata in giudizio del convenuto, vocatio in ius, deve

contenere (secondo l’art.163 numeri 1,2,7): l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta; l’indicazione delle parti (attore e convenuto); l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione.

- La seconda parte, edictio actionis, serve a determinare l’oggetto del giudizio (cioè il diritto per il quale si agisce) e deve contenere (secondo l’art.163 numeri 3,4): la determinazione della cosa oggetto della domanda (cioè il petitum che può essere immediato o mediato); l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni (cioè la causa pretendi che a seconda che soi tratti di diritti eterodeterminati o autodeterminati può essere determinante o meno ai fini della validità della domanda).

- La terza parte serve a formare il convincimento del giudice (quindi non è richiesta a pena di validità della domanda) e deve contenere (secondo l’art.163 numeri 5,6): l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi ed in particolare dei documenti che offre in comunicazione (questo è un aspetto che potrebbe intervenire anche successivamente nel processo); il nome ed il cognome del procuratore e l’indicazione della procura, qualora questa sia stata già rilasciata (la presenza del procuratore è necessaria).

Secondo l’art.163-bis c.p.c., poi, la citazione (che abbiamo esaminato nelle sue parti) vale quando viene notificata al destinatario dall’ufficiale giudiziario (che gli consegna una copia dell’originale). Affinché il convenuto abbia tempo per poter apprestare la sua difesa il legislatore prevede che vi sia un termine minimo tra la data della notificazione e la data dell’udienza (indicata nell’atto di citazione); questo termine minimo (uniformato nel 1990) dev’essere di 60 giorni. La notificazione della citazione (che è il momento in cui si realizza il contraddittorio) ha, sul processo, sia effetti di natura processuale che effetti di natura sostanziale (che incidono cioè sul diritto che si fa valere in giudizio). Per quanto riguarda gli effetti di natura processuale della notificazione della citazione bisogna dire che essa determina: la pendenza del processo (con la notificazione anche se l’ufficio giudiziario non è stato ancora coinvolto e si è avuto solo un contatto tra attore e convenuto il processo può dirsi iniziato ed è da questo momento che si determinano giurisdizione e competenza); acquisizione della qualità di parte (la notificazione fa acquistare all’attore ed al convenuto la qualità di parte); la determinazione dell’oggetto del processo (la notificazione fa si che si determini l’oggetto del processo con riferimento alla domanda giudiziale, cioè al petitum ed alla causa pretendi dell’atto di citazione).

Per quanto riguarda gli effetti di natura sostanziale della notificazione della citazione, questi attengono: alla prescrizione (la notificazione fa interrompere il termine di prescrizione fino al passaggio in giudicato della sentenza, momento in cui la prescrizione si trasforma da breve in decennale; c’è da dire però che l’effetto sospensivo viene meno se non c’è una sentenza, nel senso che se il processo si estingue la prescrizione riprende dall’evento interruttivo); alla decadenza (la decadenza dall’esercizio di un diritto in alcuni casi può essere impedita con un atto stragiudiziale, in questi casi rimane impedita per sempre; in altri casi può essere impedita con un’azione giudiziale, ovvero con l’atto di citazione, in tali casi però affinché la decadenza venga impedita è necessario che si arrivi ad una sentenza; più precisamente se si tratta di una decadenza che poteva essere impedita con un atto stragiudiziale, anche l’atto giudiziale la impedisce per sempre, altrimenti è necessario che il processo si concluda con una sentenza); al divieto di anatocismo (infatti l’art.1283 c.c. stabilisce che in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi). L’art.318 c.p.c. prevede che anche per quanto riguarda il procedimento che si svolge davanti al giudice di pace l’atto introduttivo è l’atto di citazione per il quale è previsto lo stesso contenuto dell’art.163 c.p.c.; qui però la differenza è che il termine a comparire è ridotto alla metà di quello previsto dall’art.163-bis c.p.c., cioè a 30 giorni anziché a 60 giorni. Per il processo del lavoro (così come per quello delle locazioni) è previsto come atto introduttivo il ricorso; sappiamo che esso ha la caratteristica di essere depositato prima in cancelleria del giudice competente quindi il primo contatto è quello che si ha tra una parte (l’attore) ed il giudice, mentre il contatto tra attore e convenuto si ha in un secondo momento, con la notifica del ricorso e del decreto del giudice. Dal ricorso in questione va distinto il ricorso in cassazione che in realtà è un atto di impugnazione. La disciplina del ricorso non prevede che l’attore indichi l’udienza perché in questo caso è compito del giudice farlo. Il contenuto del ricorso è disciplinato dall’art.414 c.p.c. e dall’art.415 c.p.c.; questi articoli prevedono le stesse parti che abbiamo individuato nella citazione (vocatio in ius, edictio actionis e convincimento del giudice), con la differenza che nel ricorso non è l’attore che indica l’udienza ma è il giudice che la fissa ed inoltre il termine minimo a comparire non è più di 60 giorni ma di 30 giorni. Quindi il procedimento si svolge in questo modo: il ricorrente deposita il ricorso in cancelleria, il giudice entro 5 giorni dal deposito fissa con decreto l’udienza (che deve svolgersi almeno 30 giorni dopo la notificazione del decreto e del ricorso al convenuto), l’attore deve poi recarsi in cancelleria per procurarsi le copie del ricorso e del decreto per notificarle al convenuto. Nel ricorso sono contenuti in pieno l’edictio actionis e la parte che mira al convincimento del giudice, ma a differenza della citazione la vocatio in ius è spaccata perché è contenuta in parte nel ricorso ed in parte nel decreto del giudice. Nel rito del lavoro inoltre anche se sono previste le decadenze il giudice non è tenuto ad avvisare il convenuto che se non compare esse (le decadenze) si verificano. A causa dei due momenti (proposizione della domanda con il ricorso ed instaurazione del contraddittorio con la notificazione del ricorso e del deposito) si discute sul momento in cui si verificano gli effetti della domanda nei processi che iniziano per ricorso. In ogni caso il deposito del ricorso determina alcuni effetti di natura processuale ed altri effetti di natura sostanziale.

Gli effetti di natura processuale del deposito del ricorso sono: la pendenza del processo (il deposito del ricorso costituisce il momento in cui vengono in contatto la parte ed il giudice e si ha la proposizione della domanda che ha l’effetto di determinare l’oggetto del giudizio, quindi è da questo momento che pende il processo); la determinazione della giurisdizione e della competenza (col deposito del ricorso si ha l’individuazione del giudice e quindi è in quel momento che devono sussistere la giurisdizione e la competenza); l’assunzione della qualità di parte per il solo attore. Gli effetti di natura sostanziale del deposito del ricorso sono: l’impedimento della decadenza (il deposito del ricorso determina l’impedimento della decadenza); l’interruzione della prescrizione (qui è necessario che l’atto introduttivo sia notificato alla controparte); l’assunzione della qualità di parte del convenuto (anche questa avverrà solo con la notificazione del ricorso e del deposito, perché solo in quel momento il convenuto viene ad essere parte del processo, infatti è solo in quel momento che si realizza il contraddittorio). Nel processo del lavoro il momento della pendenza del processo e quello dell’instaurazione del contraddittorio sono spaccati. Per quanto riguarda la nullità dell’atto di citazione la disciplina, anche dopo la riforma del 1990, è contenuta nell’art.164 c.p.c.; questo articolo, che originariamente era composto da due soli commi, è stato ampliato. Prima della riforma la disciplina della nullità era unitaria per tutti i vizi dell’atto di citazione. Vizi di nullità erano considerati innanzitutto quelli che riguardavano il n.1 “indicazione del giudice”, il n.2 “indicazione delle parti” e il n.3 “indicazione dell’oggetto; poi costituiva anche un vizio l’assegnazione di un termine a comparire minore di quello stabilito dalla legge ed infine era un vizio la mancanza dell’indicazione della data dell’udienza di comparizione davanti al giudice istruttore. La nullità, inoltre era rilevabile d’ufficio dal giudice ed il processo si concludeva, questo a meno che il convenuto non si costituiva in giudizio, quindi la costituzione del convenuto sanava ogni vizio della citazione perché questa anche se viziata aveva raggiunto il suo scopo (quello di chiamare il convenuto in giudizio); in questo caso però gli effetti della domanda non si producevano dal momento della notificazione perché la domanda era nulla ma si producevano dal momento della costituzione in giudizio del convenuto, ovvero dalla “sanatoria” della domanda. La disciplina esistente prima della riforma creava vari problemi anche perché venivano sottoposti alla stessa disciplina sia i vizi inerenti all’edictio actionis (numeri 3 e 4) che quelli inerenti alla vocatio in ius (numeri 1, 2 e 7). Il problema si poneva rispetto alla nullità della notificazione che veniva disciplinata diversamente dalla nullità dell’atto di citazione, in quanto se vi era un vizio di nullità nella notificazione il giudice secondo il legislatore doveva: o ritenere sanata la notificazione viziata da nullità quando il convenuto si fosse costituito in giudizio e quindi l’atto avesse raggiunto lo scopo oppure disporre la rinnovazione (cioè che fosse rinotificato l’atto); se invece vi era un vizio di nullità dell’atto di citazione per vocatio in ius (disciplinata in maniera uniforme agli altri vizi dell’atto di citazione) anche qui il giudice doveva o dichiarare la nullità o, quando il convenuto si fosse costituito, ritenere sanato il vizio di nullità della citazione, in questo caso però la “sanatoria” non aveva effetti retroattivi e produceva effetti dalla costituzione in giudizio. Ciò che creava dei dubbi era questa contrapposizione tra effetti retroattivi della sanatoria per la nullità della notificazione o della rinnovazione degli atti (in entrambi i casi gli effetti della domanda si producono a far data dal primo atto di notificazione) ed effetti irretroattivi della sanatoria per la nullità dell’atto di citazione; in sostanza la disciplina della nullità della notificazione, rispetto a quella della nullità della citazione, si mostrava molto più liberale nei confronti dell’attore che aveva sbagliato.

- Il primo aspetto controverso (dubbio) consisteva appunto nel fatto che non ci si spiegava questa differenza di discipline.

- Il secondo aspetto controverso era dovuto alla mancata previsione della nullità nell’ipotesi della causa pretendi che per determinati diritti (diritti eterodeterminati) è essenziale.

- Il terzo dubbio era costituito dal fatto che non ci si spiegava perché il legislatore aveva dato una disciplina unitaria (quella che prevedeva la sanatoria sia pure ex nunc, irretroattiva) per tutti i tipi di vizi (in realtà la disciplina si riteneva inappropriata per determinati vizi, ad esempio se il vizio riguardava la causa pretendi ed il petitum ed il convenuto si costituiva in giudizio, la sanatoria faceva continuare il processo nel quale però non era chiaro l’oggetto perché il convenuto al momento della sua costituzione non era in grado di determinare l’oggetto ed il titolo).

- Infine un quarto dubbio era costituito dal fatto che la disciplina della nullità dell’atto di citazione non prevedeva la rinnovazione e questo in via del tutto eccezionale.

I dubbi aumentarono nel 1973 con il processo del lavoro dove a causa della scissione in ricorso e decreto del giudice non si capiva quale disciplina applicare. Dopo la riforma, è stato il nuovo art.164 c.p.c. a dissipare i dubbi suddetti. Questo nuovo articolo si basa sulla distinzione tra vizi che attengono alla vocatio in ius (disciplinati nei primi tre commi) e vizi che attengono all’edictio actionis (negli ultimi commi); inoltre viene ben distinta l’ipotesi in cui il convenuto si costituisce dall’ipotesi in cui il convenuto non si costituisce. Infatti vediamo che il legislatore del 1990 dispone che: - Se il convenuto non si costituisce in giudizio il giudice deve rilevare d’ufficio la nullità

dell’atto di citazione e ordinare la rinnovazione dell’atto di citazione, quindi l’attore deve rinotificarlo (prima novità) e se l’attore non rinnova la citazione il processo si estingue; inoltre gli effetti retroagiscono al momento della notificazione della prima citazione nulla, quindi la sanatoria diventa ex tunc (seconda novità).

- Se il convenuto si costituisce si ha una sanatoria del vizio che ha efficacia ex tunc (terza novità).

Possiamo concludere che oggi la disciplina dettata per la nullità della citazione per vizi attinenti alla vocatio in ius è uguale alla disciplina dettata per la nullità della notificazione. Per quanto riguarda invece i vizi relativi all’edictio actionis l’art.164 c.p.c. considera non solo il vizio che riguarda l’oggetto (petitum), ma anche il vizio che riguarda il titolo (causa pretendi) che non era previsto prima del 1990 (quarta novità). Il legislatore stabilisce che se il convenuto non si costituisce il giudice deve rilevare la nullità ed ordinare la rinnovazione della citazione nulla; al contrario se il convenuto viene previsto che tale costituzione non ha efficacia sanante perché il vizio riguarda la stessa determinazione del diritto, in questo caso (anche se il convenuto si è costituito e quindi l’atto di citazione ha raggiunto lo scopo) il giudice deve ordinare all’attore di integrare l’atto di citazione. Nel momento in cui il legislatore ha separato la disciplina della nullità della citazione attinente ai vizi della vocatio in ius da quella attinente ai vizi dell’edictio actionis è possibile adattare la disciplina della nullità al ricorso. Quindi avremo che: se il ricorso è valido ed il vizio è nel decreto quel vizio sarà sanato senza pregiudizio alcuno perché l’efficacia sanante retroagisce al momento del deposito; se il vizio riguarda il ricorso si applicheranno gli ultimi commi dell’art.164 con il giudice che comunque dovrà ordinare la rinnovazione. Sviluppo della fase introduttiva: la disciplina della fase introduttiva del 1940 è stata oggetto di varie modifiche, prima nel 1950, poi nel 1990 ed infine nel 1995. Vari aspetti di tale disciplina sono però rimasti immutati.

FASE INTRODUTTIVA

- L’attore affinché avvenga la notifica si reca dall’ufficiale giudiziario e gli porta l’originale dell’atto di citazione e tante copie quanti sono i destinatari dell’atto.

- L’ufficiale giudiziario consegna l’atto di citazione alla controparte e da notizia dell’avvenuta notificazione attraverso la relata di notifica.

- L’attore poi ritira l’atto dall’ufficiale giudiziario (l’originale dell’atto insieme agli eventuali documenti che l’attore ritiene di esibire vengono inseriti nel fascicolo di parte) e deposita l’intero fascicolo di parte nella cancelleria del tribunale insieme ad un modulo prestampato che serve per l’iscrizione a ruolo; questo deposito rappresenta la costituzione in giudizio dell’attore e dev’essere effettuato entro 10 giorni dalla notificazione (art.165 c.p.c.).

- Il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio, che contiene il fascicolo dell’attore e che accompagna la causa fino alla fine (perciò si dice che il fascicolo d’ufficio rappresenta la storia della causa), e lo trasmette al presidente del tribunale.

- Il presidente del tribunale assegna la causa ad una sezione ed il presidente della sezione del tribunale assegna la causa ad un giudice istruttore (se il tribunale è piccolo, ovvero costituito da una sola sezione, è il presidente del tribunale ad assegnare la causa direttamente ad un giudice).

- Poiché ogni inizio dell’anno si forma un calendario che individua i giudici ed i giorni in cui tengono udienza può capitare che la data dell’udienza indicata nell’atto di citazione non coincide con quella in cui il giudice designato tiene udienza; in tal caso secondo quanto stabilisce l’art.168 c.p.c. la causa dovrà essere trattata nell’udienza tenuta dal giudice designato che sia immediatamente successiva alla data indicata nella citazione (questo è un rinvio d’ufficio dell’udienza). Il giudice poi può, con decreto da emettere entro 5 giorni dalla presentazione del fascicolo, differire la data della prima udienza fino ad un massimo di 45 giorni (in tal caso lo spostamento dell’udienza viene comunicato alle parti dal cancelliere). L’udienza indicata nell’atto di citazione è detta udienza edittale, mentre quella stabilita in base al calendario di cui sopra, al rinvio, allo spostamento del giudice oppure ad esigenze interne all’ufficio è l’udienza effettiva (ai fini della costituzione del convenuto si tiene conto dell’udienza edittale).

Abbiamo così indicato la parte della disciplina della fase introduttiva che è rimasta (più o meno) invariata dal 1940 ad oggi. Ora vediamo l’evoluzione del resto della disciplina.

1940 Il convenuto deve costituirsi 5 giorni prima dell’udienza con una comparsa in cui deve prendere posizione in ordine ai fatti in causa inoltre, secondo l’art.167 c.p.c. deve: proporre le difese o le eventuali domande riconvenzionali, indicare i mezzi di prova, formulare le conclusioni, chiamare un terzo (entro la prima udienza). È importante dire che l’art.171 c.p.c. prevede la possibilità per una parte di costituirsi fino all’udienza se l’altra parte ha rispettato il termine assegnatole per la costituzione; questa norma in realtà di riferisce al convenuto perché il primo a costituirsi è necessariamente l’attore; all’attore non conviene non costituirsi nei dieci giorni dalla notificazione dell’atto perché così facendo lascerebbe tutto nelle mani del convenuto che non si costituirebbe impedendogli così la successiva costituzione (in tal caso processo si estingue perché nessuna delle parti si può costituire fuori dal termine), più probabile è che l’attore si costituisce entro il termine dei dieci giorni mentre il convenuto che non ha interesse si costituisce all’udienza che dovrà sicuramente essere rinviata affinché l’attore esamini la difesa del convenuto.

Il codice del 1940 prevedeva gli artt.183 e 184 c.p.c. venivano a creare un sistema di preclusioni in quanto le parti potevano proporre domande, eccezioni e conclusioni solo nei primi atti (atto di citazione per l’attore e comparsa per il convenuto), in realtà però il giudice per fini di giustizia finiva con l’estendere l’applicazione dell’art.184 c.p.c. che ammetteva l’introduzione di novità nel corso ulteriore del giudizio (infatti l’eccezione prevista da tale articolo avrebbe dovuto applicarsi solo quando vi erano realmente gravi motivi).

1950 Il legislatore nel 1950 modificando gli artt.183 e 184 c.p.c. ha disposto che fosse sempre possibile produrre documenti, chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, proporre eccezioni ecc.; in sostanza veniva data alla parte la possibilità più o meno illimitata di modificare la domanda (qui non di proporne un’altra; infatti in questo caso il giudice avrebbe dovuto rifarsi alla reazione dell’altra parte e ammettere la nuova domanda solo in assenza di una contestazione da parte di questa).

1973 Nel 1973 viene riformato il processo del lavoro con la creazione di un rito del lavoro differente da quello ordinario. Il sistema del processo del lavoro è caratterizzato da preclusioni che obbligano le parti a specificare la loro posizione sin dai primi atti. L’art.416 c.p.c. stabilisce che il convenuto deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. La costituzione del convenuto si effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio; inoltre nella memoria difensiva il convenuto deve prendere posizione senza limitarsi a contestare i fatti affermati dall’attore, deve indicare a pena di nullità i mezzi di prova di cui intende avvalersi, deve eventualmente chiamare in causa il terzo. Nel processo del lavoro il convenuto è costretto ad effettuare una serie di atti (“a scoprire le sue carte”) sin dal primo momento. Nel processo del lavoro si hanno: - RICORSO dell’attore e DEPOSITO in cancelleria - DECRETO del giudice - NOTIFICA di entrambi da parte dell’attore al convenuto - COSTITUZIONE DEL CONVENUTO almeno 10 giorni prima dell’udienza con una

memoria difensiva Secondo l’art.420 c.p.c. anche qui se ricorrono gravi motivi le parti possono modificare le domande, proporre eccezioni e conclusioni già formulate, previa però autorizzazione del giudice. Tale articolo si limita a prendere in considerazione l’ipotesi di modifiche basandosi fortemente su un sistema di preclusioni; l’unica nuova attività consentita nel processo del lavoro è quella relativa alle prove, in tal caso si deve comunque dare la possibilità alla controparte di replicare alle prove richieste. Nel 1973 il sistema introduttivo del processo del lavoro è completamente diverso rispetto a quello presente nel processo ordinario perché in quest’ultimo era consentito alle parti di proporre nove domande, nuove eccezioni ecc. (anche attraverso la scappatoia, della contestazione della proposizione della nuova domanda, trovata dalla dottrina). Il sistema introduttivo nel processo ordinario cambia ulteriormente nel 1990.

1990 - CITAZIONE - NOTIFICAZIONE - COSTITUZIONE DELL’ATTORE (entro 10 giorni dalla notificazione), nomina del giudice istruttore e

quindi fissazione dell’udienza - COSTITUZIONE DEL CONVENUTO con una comparsa (20 giorni prima dell’udienza)

Nel 1990 si ritenne che la posizione del convenuto era troppo compressa perché mentre l’attore aveva tutto il tempo per preparare l’atto di citazione, il convenuto aveva solo 40 giorni per preparare le sue difese. Tale critica fa si che la riforma del 1990 venga rinviata al 1993 quando entra in vigore solo in parte; essa entra poi in vigore completamente 1995.

1995 Con la controriforma del 1995 restano invariati alcuni aspetti: la citazione, i dieci giorni dalla notifica per la costituzione dell’attore, la designazione del giudice istruttore. La novità consiste nell’introduzione di un’udienza di prima comparizione, art.180 c.p.c., tra la costituzione del convenuto e l’udienza di prima trattazione. In base poi al nuovo art.167 c.p.c. il convenuto nella comparsa di risposta deve (a pena di decadenza) solo proporre domande riconvenzionali e chiamare in causa il terzo. Dopo si arriva all’udienza di prima comparizione dove il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità del contraddittorio ed eventualmente pronuncia alcuni provvedimenti (quelli ex artt.102, 164, 167, 182, 291); qui la trattazione è orale ed al convenuto viene assegnato un termine perentorio non inferiore a 20 giorni per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Quindi l’udienza dell’art.180 c.p.c. viene rinviata all’udienza dell’art.183 c.p.c. e 20 giorni prima di quest’ultima il convenuto deve proporre le eccezioni (non rilevabili d’ufficio). Con questa riforma si è spaccata l’attività del convenuto in quanto egli deve fare alcune attività prima dell’udienza di comparizione ed altre prima dell’udienza di trattazione. Il sistema delle preclusioni non viene eliminato ma viene solo spostato in avanti per dare più tempo al convenuto. L’udienza dell’art.180 c.p.c. in realtà è nulla e comporta solo un ritardo dell’inizio del processo; si può dire che tale norme costituisce solo un rimedio per gli errori degli avvocati. Per quanto riguarda l’art.183 c.p.c., quindi l’udienza di trattazione, è prevista la presenza delle parti (così come nel processo del lavoro in base all’art.420 c.p.c.) perché il giudice deve interrogarle. Il giudice qui può interpretare negativamente l’assenza di una parte. Inoltre il giudice può concedere un doppio termine perentorio non superiore a 30 giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni e per la replica a tali precisazioni o modificazioni. Il giudice può anche chiedere dei chiarimenti sui fatti di causa. Con l’udienza dell’art.183 c.p.c. si chiude la fase introduttiva del processo ordinario mentre con nell’art.420 si ha la chiusura della fase introduttiva del processo del lavoro. Per quanto riguarda il giudizio che si svolge dinanzi al giudice di pace la situazione è molto più semplice perché non c’è un sistema di preclusioni; mentre l’art.318 c.p.c. indica il contenuto dell’atto di citazione, l’art.319 c.p.c. fissa le regole in tema di costituzione delle parti. Nel processo davanti al giudice di pace l’attore si può costituire anche all’udienza direttamente; in realtà tale affermazione va precisata infatti ci potrà essere un’udienza in quanto l’attore si sia costituito in precedenza. La norma di cui all’art.319 c.p.c. dice solo che l’attore si può costituire in cancelleria fino al giorno indicato come udienza nell’atto di citazione. Ciò significa che non ci sono preclusioni perché se l’attore si può costituire fino all’ultimo momento è chiaro che il convenuto non sapendo cosa farà l’attore non può a sua volta anticiparlo e quindi le parti dovranno inevitabilmente esporre le loro ragioni all’udienza. Arrivati all’udienza il giudice potrà fissare una sorta di termine per le parti, per venire a precisare le rispettive posizioni; in questo caso non vi sono preclusioni perché nell’art.320 c.p.c. non è detto a pena di decadenza. La cassazione ha ritenuto invece che la prima udienza sia un’udienza-limite oltre la quale non sia possibile andare, anche se l’attore si costituisce, viene fissata l’udienza, il convenuto si costituisce nella prima udienza e l’attore deve avere la possibilità di replicare. Possiamo concludere che nel giudizio dinanzi al giudice di pace c’è una maggiore elasticità che consente alle parti di effettuare la propria attività non solo nella prima udienza ma anche

in quella successiva. Dopo aver analizzato i tre diversi modi di introdurre il processo (processo del lavoro, processo ordinario e processo innanzi al giudice di pace) bisogna dire che una volta chiusa la fase introduttiva si apre la fase istruttoria dove si ha l’udienza di cui all’art.184 c.p.c. Dobbiamo trattare brevemente della contumacia: se le parti non si costituiscono si ha la contumacia ; essa è un istituto che si differenzia dall’assenza, perché l’assenza è la mancata partecipazione della parte all’udienza, ma comunque in questo caso si presuppone che la parte si sia costituita. La contumacia nel processo ordinario può riguardare tanto l’attore quanto il convenuto, perché l’attore potrebbe notificare l’atto di citazione ma non costituirsi. Nel processo del lavoro invece la contumacia può riguardare solo il convenuto perché l’attore si costituisce depositando il ricorso. Il legislatore tratta delle ipotesi di contumacia nell’art.290 c.p.c. per l’attore e nell’art.291 c.p.c. per il convenuto. La contumacia dell’attore è poco frequente, infatti si presuppone che avendo proposto la domanda l’attore abbia interesse a costituirsi; tuttavia se accade che egli non si costituisce mentre il convenuto si (condizione necessaria perché il processo vada avanti), quando il giudice accerta che l’attore non si è costituito può: fissare un’altra udienza, se il convenuto vuole andare avanti (teniamo presente che poiché è l’attore che deve provare i fatti costitutivi, se questi non si costituisce il convenuto ha vinto in partenza), oppure disporre la cancellazione della causa dal ruolo e quindi estinguer il processo, se il convenuto non ha interesse alla prosecuzione della causa. Per quanto riguarda la contumacia del convenuto, questa è più frequente della prima; essa viene accertata alla prima udienza di comparizione dove il giudice, se verifica che il convenuto non si è costituito, deve capire il perché; infatti se il giudice rileva un vizio che importi la nullità della notificazione della citazione deve fissare un termine perentorio all’attore per rinnovarla, se invece non ci sono tali vizi il giudice deve dichiarare la contumacia del convenuto. La contumacia del convenuto non esonera l’attore dal dover fornire la prova dei fatti costitutivi della sua domanda; in altri ordinamenti invece c’è l’istituto della fictio confessio che in caso di contumacia del convenuto ritiene ammessi i fatti costitutivi della domanda. Una peculiarità del processo contumaciale è costituita dal fatto che determinati atti vanno personalmente notificati al convenuto; questi atti vengono indicati dall’art.292 c.p.c. e sono (a parte la sentenza finale) l’ordinanza che ammette l’interrogatorio formale, l’ordinanza che ammette il giuramento, nonché le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte (a seguito si alcuni interventi della Corte costituzionale va notificato personalmente al convenuto contumace anche il verbale nel quale si dà atto della produzione di un nuovo documento). La notifica personale di atti non sarà possibile se la parte contumace è deceduta dopo la dichiarazione di contumacia, in tal caso il processo si interrompe (questa è un’ipotesi eccezionale di interruzione del processo perché normalmente il processo stesso è indifferente alle sorti del contumace). È sicuramente possibile la costituzione tardiva della parte contumace fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, ma in tal caso le possibili attività del convenuto saranno limitate. Per il contumace c’è la possibilità di essere rimesso in termini. L’istituto della rimessione in termini consente alla parte caduta in decadenza di poter chiedere di essere ammessa a quelle attività altrimenti precluse, ma per far ciò il contumace deve dimostrare che non si è costituito per causa a lui non imputabile, per caso fortuito o per nullità della citazione o della notificazione.

Riassumendo: Nell'atto di citazione bisogna indicare: - il giudice (ad esempio: "davanti al tribunale di Foggia"); - i soggetti; - l'esposizione dei fatti; - il petitum (in sostanza la richiesta); - l'indicazione dell'udienza (ad esempio: "all'udienza del 16 dicembre 2002); - l'avvertimento (di costituirsi entro il termine di 20 giorni se non si vuole incorrere nelle

decadenze). Nella comparsa di risposta (che è un atto più semplice perchè si poggia su quello che è stato scritto nell'atto di citazione) bisogna indicare: - il giudice; - la comparsa di costituzione e risposta; - l'indicazione dei soggetti; - la procura (a margine a destra rilasciata solo per un grado di giudizio, a meno che non sia

una procura speciale). Questi atti introduttivi del processo ordinario di cognizione sono bollati (£ 20.000 per quattro facciate e anche per la ,marca di scambio: non solo i propri atti ma anche gli atti che si danno all'avversario). L'attore con l'atto di citazione deposita tante copie quanti sono i destinatari; il convenuto quando deposita tutto, deposita tanti atti quante sono le altre parti e ognuno di questi atti scambiati viene bollato. Oggi c'è la volontà di abolire le marche da bollo per fare un deposito forfettizzato, cioè pagare all'inizio della causa una somma con un bollettino di conto corrente per non mettere più marche da bollo per tutta la causa (questa legge però viene rinviata di continuo). Nel ricorso non ci sono grosse differenze rispetto alla citazione, tranne nella parte finale dove c'è l'indicazione del giudice; inoltre non ci sono marche da bollo perché per le cause di lavoro non c'è un onere di natura tributaria. Nel ricorso c'è: l'indicazione delle parti (ma non tutte, solo l'attore), la procura a margine, l'esposizione dei fatti, l'esposizione in diritto delle norme che si ritengono violate e quella che dovrebbe essere la procedura, l'esposizione del petitum.

Terzo Poiché la sentenza fa stato solo tra le parti verrebbe da chiedersi perché il legislatore si preoccupa di un soggetto che non è parte (il terzo) disciplinando il suo intervento nel processo e dandogli la possibilità di esercitare un impugnazione particolare quale l’opposizione di terzo. La risposta a questi interrogativi è data dal fatto che i rapporti giuridici non vivono separati gli uni rispetto agli altri, infatti esistono una serie di connessioni per cui una sentenza che si pronuncia su un determinato rapporto giuridico può influenzare di fatto rapporti giuridici collegati. In sostanza una sentenza può avere una certa influenza sui diritti del terzo che perciò viene tutelato dal legislatore. L'istituto dell'intervento del terzo nel processo è previsto per disciplinare è regolare inserimento del soggetto che non era parte all'interno del processo. Il terzo nel momento in cui interviene acquista la qualità di parte e perde la posizione di terzo, quindi la sentenza avrà piena inefficacia anche nei suoi confronti. La disciplina dell’intervento è contenuta nell’art.105 c.p.c.; invece le modalità di intervento del terzo sono disciplinate per il processo del lavoro dall’art.419 c.p.c. per il processo ordinario dagli artt.267 e 268 c.p.c.

L'ingresso del terzo nel processo si può avere in vari modi: • Intervento volontario del terzo che, non sollecitato da nessuno ma a seguito di una sua

autonoma valutazione, decide di intervenire e di entrare in un processo promosso da un soggetto nei confronti di un altro soggetto per tutelare la sua posizione giuridica. La dottrina (nell'ambito dell'intervento volontario) individua tre figure di intervento: - l'intervento principale si ha quando un terzo vuole far valere un diritto nei confronti di

tutte le parti quindi un diritto che è autonomo ed incompatibile ma ugualmente connesso (per l’oggetto o per il titolo) rispetto a quello fatto valere nel processo entrambe le parti;

- l'intervento litisconsortile (o intervento adesivo autonomo) si ha quando la causa è iniziata tra attore e convenuto e successivamente vi è l’ingresso nel processo di un altro soggetto che è portatore di un altra causa connessa a quella discussa nel processo per il titolo o per l’oggetto, qui in sostanza il terzo interviene nel processo per far valere un suo diritto compatibile con quello fatto valere in giudizio nei confronti di una delle parti e quindi si affianca all’altra parte;

- l'intervento adesivo dipendente si ha quando un terzo non vuole far valere un diritto ma un interesse perché non propone una vera e propria domanda, infatti interviene nel processo affiancando una delle parti per sostenerne le ragioni poiché se venisse accolta la domanda della controparte egli subirebbe un pregiudizio.

Queste tre figure di intervento si distinguono a seconda della situazione sostanziale che il terzo vuole fare valere. In genere nel litisconsorzio facoltativo l’intervento è ammesso solo nel 1° grado del giudizio (nel grado d’appello non è possibile proporre una nuova domanda). Per ciò che riguarda il momento dell’intervento, è previsto che il terzo per intervenire deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa a norma dell’art.167 c.p.c. • Intervento coatto del terzo che viene costretto ad assumere la posizione di parte:

- su istanza di parte (infatti ogni parte può chiamare in causa il terzo se ritiene che la causa sia comune se pretende di essere garantito),

- su ordine del giudice (infatti a seguito di una sua valutazione il giudice può ordinare alle parti presenti di citare il terzo al quale la causa è comune).

Si è detto che la fase preliminare del processo si apre con la citazione o con il ricorso e si conclude, nel processo ordinario, con l’udienza di trattazione ex art.183 c.p.c. dove il giudice può concedere un doppio termine (per le memorie di precisazione o di modificazione e per le repliche) o, nel processo del lavoro, con l’unica udienza di discussione ex art.420 c.p.c. dove le parti dovranno presentare le domande, le eccezioni e le conclusioni. Infatti nel processo ordinario inoltre abbiamo due momenti separati: la prima fase di allegazione che termina con l’udienza di trattazione e la seconda fase delle prove che opera successivamente; nel processo del lavoro invece i due momenti coincidono perché le preclusioni operano sia per i fatti che per le prove.

Fase istruttoria Le norme sulla fase istruttoria non esistono solo nel codice di procedura civile, ma anche nel codice civile. Nel codice civile ci sono una serie di norme che fissano delle regole in ordine all’ammissibilità e in ordine alla rilevanza dei mezzi di prova previsti dal nostro ordinamento mentre nel codice di procedura civile troviamo le regole relative all’assunzione dei mezzi di prova che vengono chiesti dalle parti.

Nel processo ordinario di cognizione (ma anche nel processo del lavoro e anche nel processo davanti al giudice di Pace) non è sempre detto che la fase istruttoria ci sia; essa è una parte importante nel processo ma non è una parte essenziale (potrebbero esserci solo la fase introduttiva, la fase decisoria e quella finale). Tuttavia nel processo civile la fase istruttoria è molto frequente e ciò è normale, infatti essa è diretta a formare il convincimento del giudice. Per quanto riguarda le regole generali in tema di prove contenute nel codice civile, norma generale è l’art.2697 c.c., relativo all’onere della prova, che stabilisce: al 1° comma che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono fondamento (questo vale per l’attore) e al 2° comma che chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto sia modificato o estinto deve provare i fatti (estintivi, modificativi o impeditivi) su cui l’eccezione si fonda (questo vale per il convenuto). La norma in questione fissa quella che è la regola in tema di prova, chi deve provare e che cosa bisogna provare (Onere della prova significa che la parte deve fornire la prova di quei fatti, altrimenti questi non saranno provati; infatti il giudice ritiene quei fatti come non esistenti, quindi la mancanza di prove è equiparata in tutto e per tutto alla non esistenza di quel fatto . La regola che vige nel nostro sistema è la cd. norma non aliquet, cioè non esiste nel nostro ordinamento l’assoluzione per insufficienza di prove nel civile, prima esisteva nel penale ora non più, infatti anche nel penale oggi vi è o la sentenza di condanna o la sentenza di assoluzione non c’è una terza strada; una volta che la sentenza è passata in giudicato il discorso è chiuso, non è più possibile mettere in discussione la sentenza). Nel nostro sistema le parti devono comunicare le prove a pena di decadenza, è chiaro che il convenuto dovrà comunque dare la prova non sapendo quello che farà l’attore. La regola dell’art.2697 c.c., quella dell’onere della prova a carico dell’attore, non è una regola assoluta perché possibile che vi sia la cd. inversione dell’onere della prova, cioè che sia il convenuto a dover fornire la prova dei fatti (a questo punto sarà l’attore a dover fornire la prova dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi della condizione assunta; questo avviene ad esempio nel caso di licenziamento per giusta causa in cui è il datore convenuto a dover provare la giusta causa). Nell’art.2698 c.c. (patti relativi all’onere della prova) viene poi stabilito che sono nulli i patti con i quali è modificato l’onere della prova, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto. Quindi la regola generale è che l’attore deve provare gli atti costitutivi ecc., l’eccezione invece è l’inversione che è sottoposta a delle condizioni, ovvero non si può mai avere onere della prova nell’ipotesi di diritti indisponibili, non si può avere l’effetto dell’inversione dell’onere della prova quando si rende difficile o impossibile provare o esercitare il diritto. Una regole generale che troviamo nel codice di procedura civile è l’art.115 c.p.c.; questo articolo fissa la regola della disponibilità delle prove (“salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento delle decisioni le prove proposte dalle parti o dal p.m.”), secondo il principio che nel nostro sistema le prove sono richieste dalle parti (p.m., attore e convenuto). Il principio in questione non è assoluto, perché proprio l’art.115 c.p.c. nomina “altri casi previsti dalla legge” e molto spesso i codici indicano in parentesi una serie dì norme che potrebbero essere delle ipotesi nelle quali il legislatore fa riferimento. In questi casi accade che il giudice può porre a fondamento delle sua decisione prove che non sono state richieste dalle stesse parti ma che il giudice applica, cioè dispone d’ufficio (questa eccezione riguarda il mezzo di prova, non riguarda invece i cd. fatti; in quanto nel processo civile relativamente all’inserimento dei fatti storici e relativamente alla loro allegazione vi è il coinvolgimento assoluto delle parti e c’è il divieto per il giudice di portare nel processo conoscenze di fatti acquisiti in altro modo).

Ad esempio l’art.421 c.p.c. in materia di processo del lavoro stabilisce che il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio (che è riservato esclusivamente alla parte). Nel processo del lavoro la regola è il principio inquisitorio con l’eccezione del principio dispositivo, mentre nel processo ordinario la regola è il principio dispositivo con l’eccezione del processo inquisitorio. Le prove hanno sempre ad oggetto i fatti, questi fatti entrano nel processo tramite le parti, il giudice non può mai introdurre nel processo circostanze di fatto acquisite in altro modo (ad esempio leggendo il giornale). L’art.116 c.p.c. contiene una valutazione delle prove; qui vi è una tripartizione in base alla loro efficacia proibitoria. Quindi possiamo avere: - Prove legali, quando il giudice non può valutare il risultato delle prove ma deve prendere

quel risultato per vero e decidere la causa in conformità al risultato della prova (ad esempio il giuramento, la confessione ecc.); qui il giudice è vincolato dalla prova.

- Prove libere, quando il giudice non è vincolato e deve valutare il risultato della prova (ad esempio la prova testimoniale).

- Argomenti a prova, quando il giudice non ha una vera e propria prova ma ha qualcosa che serve per interpretare le prove libere, cioè a rafforzare il suo convincimento (ad esempio il comportamento delle parti o le risposte che le parti danno al giudice nell’interrogatorio libero).

La differenza tra una prova ed un argomento di prova è che la prova è sufficiente per decidere una causa, mentre anche molti argomenti di prova non sono sufficienti per decidere una causa se non c’è almeno una prova. Per quanto riguarda l’efficacia delle prove possiamo dire che: le prove legali vincolano il giudice, le prove libere vengono valutate liberamente dal giudice ed infine gli argomenti di prova servono per rafforzare le prove libere. Abbiamo poi altri tipi di prove: - Prove orali, che si formano davanti al giudice (ad esempio il giuramento e la

testimonianza); - Prove scritte (ad esempio l'atto pubblico); - Prove precostituite, che esistono prima e al di fuori del processo (ad esempio l'atto

pubblico); - Prove costituende, che si formano nel processo e se fatte fuori dal processo non hanno

valore (ad esempio il giuramento e la testimonianza). Un’altra distinzione per quanto riguarda le prove è quella tra prove tipiche (previste dalle legislatore) le prove atipiche (non previste dal legislatore). Dobbiamo ora vedere quali sono le regole generali in tema di assunzione di prove; tale regola nel processo ordinario è indicata dall’art.184 c.p.c. Il processo si snoda per udienze, infatti abbiamo: una prima udienza di comparizione con delle attività limitate; poi l’udienza di trattazione (in cui ci può essere un’attività limitata, se il processo è semplice, oppure vi può essere la produzione di nuove domande da parte dell’attore se vi sono state eccezioni del convenuto), questa udienza è quella indicata nell’art.183 c.p.c. e determina il thema decidendum. L’art.184 c.p.c. è la norma considerata dal legislatore per quanto riguarda il meccanismo delle prove, cioè la fase relativa all’assunzione delle prove. Secondo l’art.184 c.p.c. 1° comma: il giudice, se ritiene che siano ammissibili e rilevanti, ammette di mezzi di prova proposti, ovvero, l’istanza di parte rinvia ad altra udienza assegnando un termine entro il quale le parti possono indicare nuovi mezzi di prova, nonché l'altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria.

Nell’udienza dell’art.184 c.p.c. le parti non chiedono subito le prove ma chiedono al giudice un doppio termine: un termine per le prove dirette ed un altro termine per le prove contrarie. Quindi il giudice rinvia ad un’altra udienza, l’udienza per l’ammissione dei mezzi probatori. I termini concessi dal giudice sono termini perentori. il 1° comma dell’art.184 c.p.c. prevede due soluzioni: - La prima soluzione riguarda il caso in cui le parti hanno proposto già negli atti introduttivi

tutte le prove per loro importanti, le parti cioè non hanno da dire altro (noi sappiamo che tanto l’attore quanto più convenuto devono indicare negli atti introduttivi le prove ma possono anche non farlo); in questo caso il giudice ammetterà i mezzi di prova.

- La seconda soluzione sia nel caso in cui le parti non hanno chiesto tutti i mezzi di prova che vorrebbero; in questo caso si potrà chiedere al giudice di fissare un doppio termine: uno per l’indicazione delle prove dirette e l’altro per l’indicazione delle prove contrarie (questi termini sono perentori, cioè una volta scaduti non è più possibile per le parti chiedere nuovi mezzi di prova).

Il thema probandum viene ad essere determinato non dall’udienza ex art.184 c.p.c., ma alla scadenza del secondo termine (quando le parti non possono più chiedere altri mezzi di prova) il giudice deve compiere prima un giudizio di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi di prova richiesti. L’ammissibilità è la rispondenza dei mezzi di prova allo schema legale prevista dalla legge per quei determinati mezzi di prova (ad esempio la prova testimoniale non si può chiedere per provare un fatto per il quale è richiesta una forma scritta). La rilevanza è l'importanza che quella prova ha nella decisione della causa (teoricamente tutte le prove sono rilevanti ma in alcuni contesti non lo sono). Per quanto riguarda il processo del lavoro, l’art.420 c.p.c. dal 5° comma all’ 8° comma disciplina la telematica relativa alle prove nell'udienza di discussione (che è l'udienza nel processo del lavoro). Secondo il 5° comma art.420 c.p.c. il giudice ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e ammette anche i mezzi che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti. La parte può chiedere i mezzi di prova all’udienza. Il giudice dispone con ordinanza l’immediata assunzione dei mezzi di prova. Secondo il 7° comma art.420 c.p.c. se vengono ammessi nuovi mezzi di prova la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelle ammessi, con l’assegnazione di un termine perentorio di 5 giorni. Il giudice, se i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte sono rilevanti, provvede alla loro assunzione. Se all’udienza di discussione una delle parti chiede determinati mezzi di prova che siano ritenuti ammissibili il giudice deve dare alla controparte un termine di 5 giorni affinché questa possa indicare i mezzi di prova; questo è il contraddittorio. Il giudice poi fissa un’udienza in cui avviene l’assunzione delle prove. Il giudice decide sulle prove (se ammetterle o non ammetterle) con una ordinanza. L’ordinanza in questione non ha natura decisoria e non è impugnabile se non quando il giudice e mette la sentenza. Nel 1990 è stato introdotto nell’art.184 c.p.c. il 3° comma che stabilisce che caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi. Le prove una volta ammesse devono essere introdotte nel processo, cioè assunte (se io chiedo di assumere una prova testimoniale e all’udienza non vado la legge prevede che il giudice d'ufficio dichiari la parte decaduta dall'assunzione di quella prova, a meno che la controparte non la voglia assumere). L’art.184-bis c.p.c. è stato introdotto con la riforma del 1990; tale articolo tratto della rimessione in termini.

La rimessione in termini è un istituto generale che opera in tutti i casi in cui vi è una preclusione e la parte non ha compiuto una certa attività per una causa a lei non imputabile; in questi casi scatta la possibilità di essere rimesso in termini, ossia il giudice può assegnare alla parte un nuovo termine per compiere delle quelle attività che non ha potuto compiere per una situazione esterna. La rimessione in termini non vale solo per decadenze della fase istruttoria ma anche per quelle della fase introduttiva.

Prove Passiamo ad esaminare i vari tipi di prove. Tra le prove documentali (cioè scritte) più importanti abbiamo l’atto pubblico, la scrittura privata e le scritture contabili. L’art.2699 c.c. definisce l’atto pubblico con l’atto formato da un pubblico ufficiale (o da un notaio) autorizzato a porre in essere quel determinato atto. L’atto è pubblico solo quando viene posto in essere da un soggetto nell’esercizio delle sue funzioni. L’atto pubblico fa piena prova fino a querela di falso. La querela di falso è un procedimento diretto ad accertare la falsità dell’atto per eliminarlo dal mondo giuridico (tale querela in se non ha conseguenze penali ma ha solo un fine civilistico). L’unico strumento per togliere efficacia probatoria all’atto pubblico e la querela di falso. L’atto pubblico fa piena prova della provenienza dell'atto stesso dal pubblico ufficiale che la formato, delle dichiarazioni che le parti fanno dinanzi al notaio e di ciò che è avvenuto dinanzi a lui. L’atto pubblico fa piena prova di ciò che appare ma non di ciò che il contenuto interno dell’atto (se le parti hanno dichiarato di voler effettuare una compravendita ma le loro intenzioni erano diversi in quanto volevano effettuare una donazione non si può fare la querela di falso). La querela di falso serve solo a colpire una difformità dell’atto rispetto a quanto accaduto (ad esempio il notaio dichiara che è comparso dinanzi a lui un soggetto che in realtà non gli si è presentato innanzi). Per l’atto pubblico possiamo avere due tipi di falsità: la falsità ideologica, quando il notaio attesta qualcosa di diverso rispetto a quanto accade dinanzi a lui; la falsità materiale, cioè la materiale contraffazione di un atto che viene modificato ho alterato. L’art.2701 c.c., che tratta della conversione dell’atto pubblico, stabilisce che il documento formato da un ufficiale pubblico incompetente, incapace oppure senza l'osservanza delle formalità prescritte, se è stato sottoscritto dalle parti, si trasforma in una scrittura privata. Pubblico ufficiale per eccellenza è il notaio, ma in genere è pubblico ufficiale qualsiasi soggetto ritenuto tale dalla legge. La scrittura privata è un documento sottoscritto da soggetti privati senza che vi sia la presenza di un pubblico ufficiale che attribuisca fede pubblica a quello che è il contenuto della scrittura. La scrittura privata fa piena prova fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni di chi la sottoscritta se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione o forse questa è considerata come riconosciuta. Anche la scrittura privata incontra un limite che e la querela di falso. Affinché la scrittura privata abbia efficacia di prova nel processo sono necessari degli elementi: un primo elemento necessario è la sottoscrizione delle parti (una scrittura privata non sottoscritta non ha efficacia di prova e potrebbe essere considerata dal giudice come argomento di prova); un secondo elemento necessario è il riconoscimento. La scrittura privata deve essere riconosciuta oppure deve essere considerata legalmente riconosciuta. Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale o da un notaio; in questo caso la scrittura privata ha anche l’efficacia probatoria. L’art.214 c.p.c. e l’art.215 c.p.c. ci dicono come avviene il riconoscimento della sottoscrizione all’interno del processo. Secondo l’art.214 c.p.c. è onere della parte contro la quale la scrittura è prodotta disconoscere la sottoscrizione; a seguito di tale disconoscimento si toglie qualsiasi efficacia alla scrittura privata.

Non sempre però si può disconoscere la propria sottoscrizione (per esempio quando la propria sottoscrizione è vera). L’art.215 c.p.c. stabilisce che la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta in 2 casi: se la parte contro la quale la scrittura è prodotta è contumace oppure se la parte contro la quale la scrittura è prodotta non la disconosce. L’art.215 c.p.c. disciplina il c.d. riconoscimento tacito che si ha quando la parte non disconosce alla sua sottoscrizione, cioè non dice nulla, oppure quando la parte è contumace. Se parte intende avvalersi della scrittura privata tutto dipenderà dalla controparte; infatti se la controparte disconosce la scrittura le toglie efficacia, mentre se ne la controparte non disconosce tale scrittura significherà che quella scrittura è data per riconosciuta. La scrittura privata per aver efficacia piena fino a querela di falso deve essere sottoscritta e deve essere autenticata o riconosciuta espressamente o tacitamente. La scrittura privata fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura stessa e fatte dal soggetto che la sottoscritta. Se si vuole contestare la validità quella scrittura privata è necessario fare la querela di fatto. Se la parte disconosce la sottoscrizione scrittura privata perde efficacia. Il legislatore prevede un particolare procedimento diretto ad accertare la provenienza della sottoscrizione (cioè ad accettare se il soggetto l’ha effettivamente sottoscritta oppure no). L’art.216 c.p.c., poi, stabilisce che la parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiedere la verificazione, producendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparizione; inoltre l’istanza per la verificazione può anche proporsi in via principale con citazione, quando la parte dimostra di avervi interesse, se poi il convenuto riconosce la scrittura le spese sono poste a carico dell’attore. L'ipotesi più frequente è che l'istanza di verificazione viene proposta in via incidente (nel corso di un processo); ad esempio si produce una scrittura privata che viene disconosciuta quindi si propone l'istanza di verificazione. L'interesse della parte ad ottenere la verificazione è dato da due elementi: - il disconoscimento, che è anche il presupposto (nel caso in cui non ci fosse

disconoscimento non si avrebbe la verificazione); - la rilevanza della scrittura ai fini della decisione della causa (quel documento deve essere

essenziale per poter aver ragione, in tal caso la parte avrà interesse alla verificazione). L'ipotesi più rara è che l'istanza di verificazione si ha in via principale con citazione; questa è un'ipotesi di azione di accertamento che non ha ad oggetto un diritto ma un fatto, cioè la provenienza della sottoscrizione da quel determinato soggetto. Qui il problema è quello dell'interesse, o meglio il problema è capire che interesse ha la parte proporre un'azione autonoma per ottenere la verificazione della sottoscrizione (quindi possiamo vedere che esiste la possibilità di fare istanza di verificazione in via principale con citazione, ma in tal caso la parte deve dimostrare di avere interesse). La parte quando chiede al giudice la verificazione della sottoscrizione deve fornire i mezzi di prova. I mezzi di prova più importanti sono le scritture di comparazione con le quali il giudice (quasi sempre con l'aiuto di un consulente tecnico) può desumere se effettivamente la sottoscrizione appartiene a quel soggetto oppure no. Il giudice può anche invitare la controparte a scrivere sotto dettatura per verificare la provenienza della sottoscrizione da quel soggetto. Questo procedimento incidente tale ha natura probatoria (non natura autonoma); qui competente sarà sempre il giudice della causa, sia esso giudice di pace o tribunale. Invece il problema, di capire dinanzi a chi si propone la domanda, si pone in quei rari casi in cui si ammette la verificazione in via autonoma; in questo caso si deve vedere il valore della scrittura privata: se il valore è minore di 5 milioni competente sarà il giudice di pace, mentre se il valore è maggiore di 5 milioni competente sarà il tribunale (in composizione monocratica).

Prima il giudice se con sentenza dichiarava che quella sottoscrizione apparteneva a quel soggetto che l'aveva disconosciuta poteva condannare quest'ultimo ad una pena pecuniaria (non inferiore a 4.000 e non maggiore di 40.000). Il procedimento di verificazione si conclude con una sentenza; questa è un'eccezione dal momento che in materia di prove il giudice pronuncia sempre un'ordinanza (mentre la sentenza darebbe una maggiore certezza perché se non viene impugnata passa in giudicato e viene risolta definitivamente la questione). Il procedimento di verificazione si può concludere in due modi: - con una sentenza che accerta che la sottoscrizione appartiene a quel soggetto (quella

scrittura fa piena prova fino a quella di falso); - con una sentenza che accerta che la sottoscrizione non è di quel soggetto (quella scrittura

viene eliminata dalla processo, non ha più alcuna efficacia). A differenza dell'atto pubblico, una scrittura privata (art.2703 c.c.) non fa piena prova in ordine alla data perché essa non viene formata alla presenza di un pubblico ufficiale ma fa piena prova solo della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta. Il legislatore ha cercato di indicare gli elementi utili per individuare la data della scrittura. L'art.2704 c.c. detta una disciplina che non è tassativa e serve per l'individuazione di una data certa nella sottoscrizione del documento. L'ipotesi più semplice è l'autenticazione che è un modo per avere la certezza della data. Un altro modo per avere la certezza della data è la morte della persona che ha sottoscritto il documento, infatti il legislatore considera come data certa quella della morte. Infine un altro modo di determinazione della data si ha nel caso in cui la scrittura in questione venga richiamata in un atto che ha fede pubblica. Tutti questi elementi non sono tassativi perché si può individuare un qualsiasi altro elemento o un fatto che stabilisce in modo certo la data di quella scrittura. Nella prassi è diffuso lo strumento del timbro postale che si ritiene dia certezza; non bisogna però pensare al timbro postale apposto sulla busta e non dentro la scrittura perché altrimenti la scrittura senza busta sarebbe senza data. Il modo infatti è quello di autospedirsi o di spedire all'altra parte il foglio piegato in tre e avente da un lato l'atto scritto e dall'altro un foglio bianco. In questo modo si ha la certezza della data perché sulla parte del documento c'è la data del timbro postale; quindi si ha la certezza di quando è stato spedito un foglio, non si avrà invece la certezza che nel momento in cui è stato spedito era stato anche effettivamente sottoscritto. Possiamo concludere che il timbro postale non dà la certezza che in quella data si è fatto quel contratto perché il timbro non è messo alla fine della scrittura ma sull'altro lato del foglio (qui nel momento in cui l'ufficiale appone il timbro stesso, non verifica che quel foglio e pieno; il foglio potrebbe essere anche bianco). A tal proposito la giurisprudenza non è stata molto attenta. La scrittura privata fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni, ma affinché ciò accada è necessario che sia sottoscritta e che la sottoscrizione sia autenticata oppure riconosciuta in maniera espressa o tacita o ancora, se è stata disconosciuta, è necessario che sia stata poi dopo verificata. In riferimento alla scrittura privata, non essendoci un pubblico ufficiale l'unico tipo di falsità che si può avere e quella materiale e non quella ideologica. Sia l'atto pubblico che la scrittura privata fanno piena prova fino a querela di falso. L'atto pubblico fa piena prova della provenienza, delle dichiarazioni e della data; mentre la scrittura privata fa piena prova solo della provenienza delle dichiarazioni da chi le ha sottoscritte. Per la scrittura privata, la quella di falso pone una serie di problemi che non si presentano nel caso dell'atto pubblico. Il primo problema attiene al caso in cui la scrittura privata sia sottoscritta ma non riconosciuta; in tal caso ci si chiede se tale scrittura possa essere oggetto di querela di falso. Partiamo dall'ipotesi in cui venga fatta valere una scrittura privata sottoscritta e la controparte proponga subito la querela di falso perché ritiene che essa sia stata falsificata.

In questa ipotesi la cassazione ha ritenuto che la parte possa far valere la querela di falso saltando il passaggio del riconoscimento. Questa posizione della cassazione però è stata criticata dalla dottrina che ha detto che la scrittura solo sottoscritta non fa piena prova (fino a querela di falso) ma è necessario il riconoscimento o l'autenticazione. Successivamente la cassazione ha detto che per poter proporre la querela di falso la scrittura deve essere prima riconosciuta in modo espresso o tacito. Il secondo problema attiene al caso in cui si voglia proporre la querela di falso contro la scrittura privata verificata. L'art.221 c.p.c dice che la querela di falso si può proporre fino a quando la verità del documento non sia stata accertata con una sentenza passata in giudicato. Siccome la verificazione si conclude con una sentenza che può passare in giudicato, ci si chiede se quella sentenza precluda la possibilità di proporre la querela di falso. La risposta è negativa perché quella sentenza non accerta la verità del documento ma solo della provenienza di quella scrittura da quel soggetto e che l'ha sottoscritta (quindi se la controparte ritiene che quel documento provenga da lui ma sia falso può proporre la querela di falso dopo averlo riconosciuto; mentre se vuole contestare la provenienza deve disconoscerlo e poi ci sarà l'istanza di verificazione). I due istituti, quello della verificazione e quello della querela di falso, hanno obiettivi diversi; inoltre dobbiamo precisare che la scrittura verificata può essere oggetto di querela di falso. Il terzo problema attiene all'abuso del foglio bianco. Esiste la prassi di dare ad alcune persone il compito di risolvere una certa questione ed in tal caso lo si fa firmando in bianco un determinato foglio; gli effetti si produrranno in capo alle parti perché queste hanno firmato e accettato preventivamente l'eventuale decisione. Qui sorgono dei problemi che sono: - l'abuso del mandato conferito, quando si è andati oltre i patti; - il riempimento del foglio in bianco, in assenza di patti, senza mandato. La giurisprudenza ha detto che nel primo caso non vi è materia per la querela di falso; è possibile impugnare per vizi della volontà. Nel secondo caso quando non c'è mandato c'è la possibilità di proporre la querela di falso. La querela di falso e un procedimento diretto ad accertare la falsità materiale e ideologica (se si tratta di atto pubblico) o solo materiale (se si tratta di scrittura privata). La querela di falso si può proporre tanto in via principale quanto in corso di causa, in ogni stato e grado del giudizio (di regola essa viene proposta in via incidentale, però vi può essere l'esigenza di proporla in via principale). Il giudice competente in questa materia è sempre il tribunale civile. La querela di falso si può proporre in ogni stato e grado del processo, cioè si può proporre in 1° grado, in appello ed anche per la prima volta in cassazione ma con riferimento a quei documenti che si sono formati dopo il giudizio d'appello. Nel procedimento per querela di falso deve intervenire necessariamente il p.m. e sappiamo che nel momento in cui deve intervenire obbligatoriamente il p.m. la causa verrà decisa dal collegio perché tra le ipotesi in cui è competente il collegio a decidere troviamo le cause nelle quali interviene obbligatoriamente il p.m. Nel proporre la querela di falso la parte deve farlo personalmente o a mezzo di un procuratore con atto di citazione ed inoltre deve indicare a pena di nullità gli elementi e le prove della falsità. Se la querela di falso viene proposta nel corso del processo non scatta subito il procedimento incidentale, perché è necessario che il giudice faccia una verifica. Il giudice deve interpellare la parte che ha prodotto il documento per chiederle se vuole comunque avvalersi di quel documento nonostante la minaccia di proporre la querela di falso. Se la parte dice che non vuole avvalersi di quel documento, il documento viene eliminato dal processo; se la parte invece dice che vuol avvalersi di quel documento, nonostante la minaccia di querela di falso, il documento rimane nel processo ma il giudice deve fare un'altra indagine per verificare se quel documento è rilevante ai fini della decisione della causa.

Solo dopo aver accertato che la parte vuole avvalersi di quel documento e che esso è rilevante si ammette la querela di falso e si apre effettivamente il procedimento che, con tutti i mezzi di prova che richiederanno alle parti, sarà diretto ad accertare che quel documento è falso oppure no. Il procedimento in questione si chiude con una sentenza che ha efficacia erga omnes, cioè che ha efficacia anche al di fuori dal processo e quindi anche nei confronti delle persone che non hanno partecipato al processo (infatti se la sentenza accerta che quel documento è falso, lo elimina dal mondo giuridico e, se il documento non esiste più, nessuno potrà più utilizzarlo; al contrario se la sentenza accerta la verità di quel documento, per tutti esso sarà tale e nessuno potrà mettere in dubbio la sua verità). Poiché il giudice di pace e la corte d'appello non sono i giudici competenti a decidere sulla querela di falso, dobbiamo chiederci cosa succede se il problema viene posto dinanzi a tali giudice. In questi casi bisogna dividere il procedimento: per la fase preliminare (cioè l'interpello e la rilevanza) saranno competenti i giudici della causa (che possono essere il giudice di pace o la corte d'appello), mentre per la fase successiva (che si ha nel caso in cui i giudici della causa la sospendono perché ritengono che il documento di cui la parte intende avvalersi, nonostante la minaccia di querela di falso, sia rilevante) sarà competente il tribunale (che deciderà sulla querela di falso). Intervenuta la sentenza sulla querela di falso la parte interessata (cioè quella che ha vinto) riassume il processo davanti al giudice di pace o alla corte d'appello. La sentenza che conclude il giudizio sulla querela di falso può essere: una sentenza di accertamento, se accerta la veridicità del documento (in questo caso il documento era e rimarrà vero) oppure una sentenza costitutiva, se accerta la falsità del documento (in questo caso il giudice elimina, estingue, quell'atto). Le scritture contabili: I libri e le scritture contabili delle imprese, che sono soggette a registrazione, fanno piena prova contro l'imprenditore. Tuttavia chi vuole trarre vantaggio da tali documenti non può scinderne il contenuto. Una scrittura fa prova contro e non a favore dell'imprenditore. Un imprenditore non può usare le sue scritture private contro chi non è imprenditore. Nel processo ingiuntivo invece il creditore-imprenditore può far valere le sue scritture anche nei confronti di chi non è imprenditore. Per quanto riguarda le fotocopie, è possibile che nel corso del giudizio la parte produca delle fotocopie relativamente ad una scrittura. La cassazione ha detto che le fotocopie hanno la stessa efficacia degli atti autentici: nel caso in cui la conformità all'originale è attesta da un atto pubblico ufficiale o nel caso in cui tale conformità non è stata disconosciuta dalla controparte (infatti se la controparte disconosce la fotocopia la parte è tenuta ad esibire l'originale; se invece a controparte non disconosce quella fotocopia, essa è perfettamente efficace). Per quanto riguarda la prova testimoniale, bisogna dire che essa è una prova libera, cioè non è soggetta alla libera valutazione del giudice. La prova libera consiste nella dichiarazione che un terzo (quindi un soggetto che non è parte del processo) compie in ordine ai fatti di causa (ovviamente in ordine a quei fatti che sono a sua conoscenza). Nel nostro ordinamento non è ammissibile la testimonianza della parte. La prova testimoniale è sottoposta ad una serie di limiti sia di natura oggettiva (indicati nel codice civile) che di natura soggetti (indicati nel codice di procedura civile). Tra i limiti di natura oggettiva (che sono per lo più condizioni di ammissibilità) abbiamo: - Il limite individuato nell’art.2721 c.c.; tale articolo stabilisce che la prova per testimoni dei

contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede le lire cinquemila. Tuttavia la stessa norma al 2° comma stabilisce che l’autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Quindi a livello pratico possiamo dire che la norma è superata (infatti nella pratica avviene che mai nessun giudice ha negato l’ammissibilità della prova testimoniale perché il valore del contratto era superiore a lire cinquemila, così come mai nessun avvocato ha sollevato un’eccezioni di inammissibilità ai sensi del 1° comma dell’art.2721 c.c.).

- Un altro discorso va fatto per quanto riguarda i c.d. patti aggiunti la cui disciplina è contenuta negli artt.2722 e seguenti. Infatti l’art.2722 c.c. stabilisce che la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea. Quindi la parte può provare il patto aggiunto o contrario solo per iscritto. Quindi in conclusione se si fanno i patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, non ci si può limitare al fatto verbale, sia pure alla presenza di testimoni, è necessario che il patto venga redatto per iscritto perché solo in questo mondo se ne può provare l’esistenza in giudizio. Per quanto riguarda i patti aggiunti o contrari ma successivi, l’art.2723 c.c. stabilisce che qualora si alleghi che, dopo la formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, l’autorità giudiziaria può consentire la prova per testimoni soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte con modificazioni verbali. Il legislatore infatti ritiene che sia ammissibile il patto aggiunto o contrario in forma verbale se successivo; in questo caso spetterà al giudice valutare se è verosimile che il patto verbale sia stato effettivamente raggiunto, tenendo anche in considerazione la natura del contratto, la qualità delle parti e ogni altra circostanza. In conclusione la prova testimoniale per i patti aggiunti o contrari posteriori non è esclusa a priori, ma e assoggettata ad una valutazione che deve compiere il giudice della causa.

- Un altro limite oggettivo alla prova testimoniale è indicato nell’art.2725 c.c.; tale articolo stabilisce che gli atti per i quali la legge richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem non possono essere approvati attraverso la prova testimoniale. In questo caso è prevista un’eccezione che è quella di consentire la prova testimoniale in quei casi in cui la parte senza colpa ha perso il documento scritto.

In genere i limiti imposti dal legislatore all’ammissibilità della prova testimoniale trovano eccezioni nell’art.2724 c.c.; quest’articolo individua tre eccezioni per le quali la prova testimoniale deve essere ammessa: in ogni caso quando vi è un principio di prova per iscritto, quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta (caso in cui il contraente è debole), quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (in questo caso il contraente che vuole utilizzare la prova testimoniale dovrà fornire la prova che non solo era stato fatto un atto scritto ma anche che ha perso per causa lui non imputabile tale atto). Tra i limiti di natura soggettiva (che riguardano la capacità a testimoniare) vi sono varie norme (alcune sono venute meno): - Un limite era quello contenuto nell’art.247 c.p.c. che prevedeva il divieto di testimoniare

per il coniuge, i parenti, gli affini in linea retta e coloro che erano legati da un vincolo di affiliazione. Questa norma è stata dichiarata incostituzionale sia perché in contrasto con l’art.24 Cost. sia perché le realtà la prova testimoniale è sempre soggetta alla libera valutazione fatta del giudice che potrà valutare l’attendibilità o meno del testimone.

- Un altro limite era quello contenuto nell’art.248 c.p.c. che prevedeva la possibilità che i minori di anni quattordici potessero essere chiamati a testimoniare solo quando la loro audizione era resa necessaria da particolari circostanze. Anche questa norma è stata dichiarata incostituzionale.

- Un ultimo limite di natura soggettiva è quello previsto dall’art.246 c.p.c. (che in realtà è l’unico limite soggettivo alla prova testimoniale rimasto nel nostro ordinamento). L’art.246 c.p.c. stabilisce che non possono essere chiamate a testimoniare le persone aventi interesse della causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio; in questo caso l’elemento che rende incapaci di terzo è l’interesse, non l’interesse materiale ma giuridico.

Nel nostro ordinamento si è posto un problema di coordinamento tra la norma di legge e la sentenza con la quale la corte costituzionale ha dichiarato nel 1974 l’incostituzionalità dell’art.247 c.p.c. Nell’ambito del processo del lavoro vi è una norma, l’art.421 c.p.c., che in materia di poteri istruttori del giudice nel processo afferma che il giudice stesso ora lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti di causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell’art.246 c.p.c. o a cui sia vietato a norma dell’art.247 c.p.c. Quindi nel processo del lavoro (a differenza che nel processo ordinario) il giudice, pur non potendo in alcuni casi accettare la prova testimoniale di alcuni soggetti, aveva la possibilità di sottoporre tali soggetti ad un interrogatorio libero e desumere dalla loro risposte argomenti di prova che potessero servire ad interpretare le altre prove troppo. Come possiamo notare si viene a creare una diversità tra il trattamento di alcuni soggetti nel processo ordinario è il trattamento degli stessi soggetti nel processo del lavoro. Inoltre ci si chiedeva se, dopo la sentenza della corte costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale l’art.247 c.p.c., i parenti potevano essere chiamate testimoniare nel processo del lavoro oppure per effetto della previsione dell’art.421 c.p.c. (che non era stata toccata dalla pronuncia della corte costituzionale) potevano essere solo interrogati liberamente. In sostanza si è finito per considerare la sentenza della Corte costituzionale estesa anche quella parte della norma che faceva riferimento all’art.247 c.p.c. Circa il problema della diversità di trattamento per i soggetti che rientrano nell’art.246 c.p.c. (cioè quelli che hanno interesse nel processo) il professore ritiene che in realtà la disparità di trattamento non può considerarsi incostituzionale e in quanto tale disparità attiene a diverse situazioni. L’attuale situazione è che: nel processo ordinario di terzi interessati non possono essere sentiti come testimoni e non possono neppure essere liberamente interrogati, mentre nel processo del lavoro gli stessi soggetti non possono essere sentiti come testimoni ma possono essere interrogati liberamente dal giudice. Per quanto riguarda le modalità di assunzione della prova testimoniale bisogna fare riferimento all’art.244 c.p.c. che stabilisce che quando la parte chiede la prova testimoniale deve indicare le persone che vuole sentire (i terzi) ed i fatti in maniera specifica operando una separazione per capitoli. È importante che la prova testimoniale abbia ad oggetto i fatti, mentre non può aver ad oggetto la valutazione giuridica di tali fatti. Secondo l’art.245 c.p.c. il giudice, dopo che le parti hanno chiesto la prova testimoniale secondo le modalità previste dall’art.184 c.p.c., ammette la prova con ordinanza e con la stessa può ridurre le liste dei testimoni ed eliminare i testimoni che non possono essere sentiti per legge. Quando il giudice ha ammesso la prova testimoniale è obbligo delle parti intimare i testimoni a comparire all’udienza fissata dal giudice per la loro audizione. L’intimazione si fa materialmente con un atto che viene notificato al testimone e che deve essere notificato almeno 3 giorni prima dell’udienza (è dovere del testimone comparire e rendere la testimonianza, infatti se non compare si può chiedere anche che venga accompagnato dalla forza pubblica). Nel caso in cui il testimone si presenti e si rifiuti di giurare senza giustificato motivo oppure nel caso in cui vi fosse fondato sospetto che egli non ha detto la verità o ancora nel caso in cui sia stato reticente, il giudice istruttore lo denuncia al p.m., al quale trasmette copia del processo verbale; in questa norma è stata eliminata l’ultima parte che dava la possibilità al giudice civile di ordinare persino l’arresto del testimone. Ai sensi dell’art.257 c.p.c. la prova testimoniale può essere disposta d’ufficio quando uno dei testimoni si era riferito ad altri soggetti che possono essere conoscenza dei fatti.

Inoltre la prova testimoniale può essere disposta d’ufficio anche in base all’art.281-ter c.p.c. che disciplina il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e prevede che il giudice possa disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità; questa norma si riferisce al tribunale in composizione monocratica e non a quello in composizione collegiale, quindi nel caso in cui è il tribunale collegiale a dover decidere, questi non deve tener conto della prova testimoniale ammessa erroneamente dal giudice istruttore. Il limite entro il quale il giudice può ammettere d’ufficio la prova testimoniale, per alcuni è lo stesso che hanno le parti (cioè il 2° termine dell’udienza ex art.184 c.p.c.) mentre per altri il giudice può ammettere la prova testimoniale in tutto il corso del processo (opinione condivisa dal professore). Passiamo ad esaminare la confessione. L’art.2730 c.p.c. stabilisce che la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Anche in questo caso la confessione deve avere ad oggetto fatti e non valutazioni. La confessione a differenza della prova testimoniale ha come soggetto la parte. Anche per la confessione ci sono dei limiti di natura soggettiva e dei limiti di natura oggettiva. Per quanto riguarda i limiti di natura soggettiva innanzitutto l’art.2731 c.c. dispone che la confessione per essere efficace deve provenire da una persona capace di disporre del diritto a cui i fatti contestati si riferiscono; quindi deve trattarsi di una persona che aveva la capacità di agire nel senso che la parte che confessa deve essere titolare del diritto cui si riferiscono fare i fatti di causa. La confessione è una prova legale, essa cioè ha un’efficacia predeterminata dal legislatore nel senso che il giudice non può valutare quelle dichiarazioni ma deve prenderle per venire. Quindi in sostanza i limiti di natura soggettiva alla confessione sono: la capacità d’agire, la capacità di disporre del diritto cui si riferiscono i fatti di causa e la titolarità dello stesso. Per quanto riguarda i limiti di natura oggettiva bisogna dire che, secondo l’art.2733 c.c., la confessione fatta piena prova contro colui che l’ha fatta se verte su fatti e diritti disponibili. Da ciò deriva che il limite oggettivo alla confessione è costituito dai diritti indisponibili. L’art.2732 c.c. dispone che la confessione può essere revocata se vi è stato l’errore di fatto o violenza. La confessione di regola è una prova legale tuttavia vi sono dei casi in cui essa diviene prova libera; questi casi sono: - quello individuato dall’art.2733 c.c. e che prevede il caso in cui siano soltanto alcuni dei

litisconsorti necessari a confessare; - quello individuato dall’art.2735 c.p.c. che prevede il caso di confessione resa alla parte, ad

un terzo fuori dal giudizio oppure in un testamento; - quello individuato dall’art.2734 c.p.c. che prevede il caso di dichiarazioni aggiunte alla

confessione (in questo caso in funzione del principio dell’unitarietà della dichiarazione, il giudice deve vedere cosa pensa la controparte e quindi se questa accetta anche le dichiarazioni aggiunte, favorevoli a chi confessa, tutta la confessione vale come prova legale; nel caso contrario invece la confessione vale come prova libera).

La confessione può essere stragiudiziale o giudiziale; quella giudiziale di regola è una prova legale, quella stragiudiziale invece ha efficacia di prova libera se è fatta ad un terzo o in un testamento mentre a efficacia di prova legale se è fatta alla parte. La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni se verte su un soggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge. La confessione giudiziale viene resa nel processo è può essere orale oppure scritta. La confessione può essere: spontanea (se la parte fa spontaneamente dichiarazioni a se sfavorevoli) o provocata (quando la confessione viene provocata con l’interrogatorio formale). L’interrogatorio formale è disciplinato dall’art.230 c.p.c. che afferma che l’interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati specifici. Il giudice istruttore ammette l’interrogatorio formale con ordinanza ed in seguito sente la parte cui è stato deferito l’interrogatorio. La parte può assumere diverse posizioni: non si presenta; si presenta rendendo dichiarazioni sfavorevoli; si presenta rendendo dichiarazioni favorevoli; si presenta rendendo dichiarazioni complesse. Se la parte non si presenta il giudice può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio; questa sarà cioè una prova libera perché entra

in gioco la valutazione del giudice; se la parte si presenta ma si rifiuta di rispondere le conseguenze saranno le stesse; infine nei casi in cui la parte fa dichiarazioni a se sfavorevoli ma favorevoli alla controparte si avrà una confessione. L’interrogatorio formale è un istituto che ha lo scopo di conseguire una confessione; tale istituto viene utilizzato soprattutto quando la controparte è un ente pubblico che non può rilasciare un mandato per essere rappresentato in un interrogatorio formale e quindi dalla mancata comparizione dell’ente pubblico derivano conseguenze favorevoli all’altra parte. L’interrogatorio libero è quello che legislatore prevede come interrogatorio obbligatorio all’udienza di discussione nel processo del lavoro e all’udienza di trattazione nel processo ordinario. L’interrogatorio libero, a differenza di quello formale, è uno strumento nelle mani del giudice (infatti è solo il giudice che può disporre tale interrogatorio che è previsto all’inizio della causa anche se il giudice potrebbe disporlo in ogni momento del processo). L’interrogatorio libero alla finalità di avere chiarimenti sui fatti di causa, quindi è più probabile che venga disposto più o meno nella fase istruttore. Di solito attraverso l’interrogatorio libero si perviene solo ad argomenti di prova. Un’altra prova è il giuramento, cioè una dichiarazione che la parte fa della verità dei fatti di causa. Il giuramento richiede soltanto che la parte faccia una dichiarazione che s’intende come vera (non come nella confessione dove si richiede che la dichiarazione sia sfavorevole a se è favorevole alla controparte). In sostanza il giuramento è una sorta di sfida che una parte lancia all’altra invitandola a giurare sulla verità di un fatto. Il giuramento è una prova legale, quindi quando si deferisce il giuramento si rimette la decisione alla parte che giura. Se la parte giura ha efficacia non solo il giuramento ma anche l’eventuale accertamento di natura penale che consegue al giuramento falso. Se successivamente alla sentenza viene accertata la falsità del giuramento, la sentenza penale che accertata tale falsità non potrà essere utilizzata per ottenere la revocazione della sentenza civile ma potrà solo consentire alla parte di ottenere un risarcimento dei danni. Il giuramento può essere decisorio (quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa) o suppletorio (quello che viene deferito d’ufficio dal giudice al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate). Il giuramento decisorio si distingue in due tipi: quello de veritatae (quando la parte giura su fatti propri) e quello de scientia (quando la parte giura su fatti altrui e non propri ma dei quali è a conoscenza). I limiti di natura soggettiva del giuramento sono gli stessi previsti per la confessione (l’art.2737 c.p.c. rinvia all’art.2731 c.p.c.): capacità di agire, capacità di disporre del diritto. I limiti di natura oggettiva invece sono costituiti da alcune previsioni: non si può giurare sul fatto illecito; non si può giurare relativamente ad un fatto contenuto in un atto pubblico; non si può giurare riguardo l’esistenza di un contratto per il quale la legge richiede la forma scritta ad substantiam. Secondo l’art.233 c.p.c. il giuramento decisorio può essere deferito davanti al giudice istruttore in qualunque stato della causa (a fondamento di ciò basti pensare agli artt.345 e 394 che stabiliscono che il giuramento può essere deferito in appello e nel giudizio di rinvio, cioè quello successivo a quello della cassazione). Il giuramento, oltre che deferito, può essere riferito; il riferimento è una sorta di rinvio all’avversario che ha deferito il giuramento (art.234 c.p.c.). Per ciò che riguarda la revoca, più che il giuramento, può essere revocato il referimento. Il legislatore attribuisce efficacia: alla situazione in cui la parte cui è

stato deferito il giuramento non si presenta; alla situazione in cui si presenta e si rifiuta di giurare; alla situazione in cui si presenta e giura. È importante dire che nelle prime due ipotesi il giudice considera negativamente tali situazioni ed il comportamento della parte. La logica del giuramento è cambiata, infatti mentre in passato esso si basava su una sorta di senso morale e religioso oggi si fonda sull’utilità della parte di esperire l’ultimo tentativo per risolvere a suo favore il processo (infatti il giuramento decisorio può essere deferito in qualsiasi momento del processo). Il giuramento decisorio può essere deferito anche alla parte contumace così come l’interrogatorio formale; in questi casi, il verbale in cui il giudice ammette l’interrogatorio formale o il giuramento va notificato personalmente alla parte contumace che può comparire per rendere l’interrogatorio formale o il giuramento senza costituirsi. Il giuramento suppletorio è quello deferito dal giudice alla parte a condizione che vi sia la semiplena probatio (cioè la prova non completa) che si ha quando al termine della fase istruttoria il giudice non ha raccolto prove sufficienti per la decisione. Il giuramento suppletorio è un eccezione alla regola di cui all’art.2697 c.c., infatti mentre tale articolo stabilisce che se non si raggiungono le prove la domanda deve essere rigettata, l’art.240 c.p.c. permette il giuramento suppletorio facendo si che il giudice (anziché rigettare la domanda) rimetta ad una delle parti la decisione della causa. Non essendoci nessun criterio di scelta della parte alla quale deve essere deferito il giuramento, la dottrina e la giurisprudenza hanno affermato che tale scelta deve ricadere sulla parte che ha fornito la semiplena probatio che inoltre non potrà rifiutarsi. La parte non può impugnare la sentenza adducendo che la controparte ha giurato il falso; tuttavia si può impugnare la sentenza contestando il requisito della semiplena probatio. Possiamo concludere che il giudice ha un potere pieno per ciò che riguarda il deferimento del giuramento suppletorio e la scelta della parte a cui effettuarlo.

Ora dobbiamo analizzare altri mezzi di prova utilizzati nella pratica: - L'art.118 c.p.c. disciplina l'ispezione: un mezzo di prova che può essere disposto d'ufficio

dal giudice. L'ispezione può essere compiuta sulle persone (sia come parti che come terzi) e sulle cose. Il giudice può disporre l'ispezione, facendo riferimento ad altri mezzi chiesti dalle parti o che egli stesso può disporre, solo se essa è indispensabile per conoscere i fatti di causa non produrre. Una volta disposta l'ispezione se la parte si rifiuta di sottoporre la propria persona o le proprie cose all'ispezione stessa il giudice, da tale rifiuto, può desumere argomenti di prova; mentre se è che il terzo che si rifiuta il suo comportamento non può avere riflessi in ordine al processo (il terzo infatti non fa parte del processo) e la conseguenza sarà una pena pecuniaria non superiore a 10.000 lire. L'ispezione viene disposta dal giudice con un'ordinanza nella quale vengono fissati: il tempo, il luogo ed il modo della relativa ispezione. All'ispezione il giudice può procedere personalmente ma di solito si avvale di un consulente tecnico (soggetto esperto nominato dal giudice) che deve redigere una relazione che il giudice stesso valuterà.

- L'art.210 c.p.c. disciplina l'esibizione: un mezzo di prova collegato (dalla stessa norma) all'ispezione e che consiste nell'ordine che il giudice può rivolgere sia alla parte che al terzo con la differenziazione, rispetto all'ispezione, che in questo caso l'ordine ha ad oggetto solo cose (di solito documenti). L'esibizione può essere anche chiesta e sollecitata dalla parte. Mentre l'ispezione rientrano tra i poteri ufficiosi del giudice, l'esibizione richiede sempre l'istanza di parte (quindi il giudice non potrebbe mai d'ufficio disporre l'esibizione di cose o di documenti). Un altro elemento di differenziazione rispetto all'ispezione è che l'esibizione non deve essere indispensabile ma è sufficiente che sia necessaria. Nella disciplina dell'esibizione prevista una certa tutela del terzo, infatti l'art.211 c.p.c. prevede che il giudice, quand'ordina l'esibizione ad un terzo, deve cercare di

conciliare l'interesse della giustizia con i diritti del terzo (quindi il giudice prima di ordinare l'esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio assegnando alla parte istante un termine per provvedervi).

- Un'altra prova molto importante è la consulenza tecnica che non può essere disposta per

esentare la parte dal fornire la prova; infatti sono necessari degli elementi di giudizio per poter disporre su di essi una consulenza tecnica. La disciplina della consulenza tecnica è contenuta in parti diverse del codice di procedura civile, ad esempio l'art.61 c.p.c. disciplina la figura del consulente. La consulenza tecnica aiuta il giudice nella determinazione di alcuni elementi della causa; essa può essere richiesta dalle parti ma può anche essere disposta d'ufficio dal giudice, così come è previsto in un'altra parte del codice di procedura civile e cioè negli artt.191 e seguenti. È prevista anche la nomina di consulenti di parte, in tal caso all'attività del consulente tecnico si affiancherà quella del consulente di parte che potrà anche egli redigere una consulenza tecnica di parte. Per il fatto che il consulente tecnico ricopre una posizione decisiva nella causa, valgono per lui le stesse situazioni viste per il giudice (non vi dev'essere nessun coinvolgimento nella causa o in rapporti con le parti); il consulente tecnico infatti può sia astenersi che essere ricusato. L'attività del consulente tecnico si conclude sempre con una relazione con cui si deve dar conto dell'attività svolta e delle conclusioni. La relazione del consulente tecnico non vincola il giudice nella decisione della causa; infatti avviene che il giudice recepisce le conclusioni del consulente tecnico senza andare a riesaminare tutti i fatti che hanno portato il consulente tecnico a quelle conclusioni. Tuttavia si ritiene che nel momento in cui il giudice si discosta dalle conclusioni del consulente tecnico deve motivare le ragioni per le quali ritiene di non seguire tali conclusioni e manifestare un orientamento differente.

Fino adesso abbiamo esaminato le prove tipiche (il giuramento, la confessione, la prova testimoniale, le scritture private e contabili, l'atto pubblico, la consulenza tecnica, l'esibizione è l'ispezione), per quanto riguarda invece le prove atipiche è la dottrina che negli ultimi anni ne ha individuate alcune. Si ritiene che possono essere considerate prove atipiche: le dichiarazioni di terzi formulate per iscritto (per molti non sono consentite perché si andrebbe a violare il principio, in tema di testimonianza, secondo il quale il terzo per fare delle dichiarazioni deve essere citato in giudizio e rendere tali dichiarazioni oralmente); le prove che sono state assunte in maniera irregolare; le prove raccolte in un processo differente (questa previsione vale però solo per il processo penale in quanto lo prevede l'art.238 c.p.p.; mentre per i processo civile l'art.310 c.p.c. stabilisce che le prove raccolte in un processo dichiarato estinto valgono nel processo successivamente promosso sulla stessa domanda come argomento di prova, teniamo presente che in quest'ultimo caso ci troviamo nell'ambito della stessa domanda, dello stesso diritto). Possiamo dire in conclusione che nel nostro sistema non c'è spazio per le prove atipiche, le prove ammesse nel processo uno solo quelle previste nel codice civile e nel codice di procedura civile. Sempre nella fase istruttoria del processo ricorrono le presunzioni che trovano loro disciplina positiva nel codice civile. Nel nostro ordinamento le presunzioni possono essere: legali assolute, legali relative e semplici. L'art.2721 c.c. descrive le presunzioni come quelle conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto non noto. - Per quanto riguarda le presunzioni legali assolute il legislatore, poiché è probabile che un

fatto sia indice di un altro fatto, finisce per trasformare il fatto secondario da prova del fatto principale in fatto principale e quindi da prova diventa più semplice. Qui le presunzioni

hanno la funzione di facilitare al livello processuale un adempimento probatorio. - Per quanto riguarda le presunzioni legali relative il legislatore da un fatto certo (costitutivo)

presume l'esistenza di un altro fatto (secondario). Qui la conseguenza al livello processuale è l'inversione dell'onere della prova, cioè è la controparte edile provare l'inesistenza del fatto secondario (ad esempio la proposta e l'accettazione si presumono conosciute al momento in cui arrivano a destinazione; in questo caso bisogna dimostrare che anche se la proposta è arrivata al destinatario questi non l'ha conosciuta; nell'esempio specifico il fatto certo è che la proposta è giunta al destinatario ed il fatto secondario, presunto, è che tale proposta è stata conosciuta).

- Per quanto riguarda le presunzioni semplici, esse si hanno quando da più fatti si può risalire ad un fatto non noto; questa situazione secondo l'art.2729 c.c. viene conosciuta e decisa dal giudice con prudenza, infatti il giudice deve ammettere solo le presunzioni gravi, precise e concordanti.

SOSPENSIONE La sospensione è una pausa che si inserisce all'interno del processo è che determina inevitabilmente un prolungamento dello stesso processo; tale pausa dura il tempo necessario per eliminare quella situazione della determinata, cioè dura fino a quando non venga ad essere emanata una decisione da parte dello stesso giudice o da un altro giudice oppure in attesa che scada il termine fissato dalla legge o dal giudice. Istituti diversi dalla sospensione sono l'interruzione e l'estinzione del processo. L'interruzione è un istituto che opera in vista della ricostituzione del contraddittorio ed ha la funzione di permettere la ripresa regolare del processo. L'estinzione è sostanzialmente un modo diverso di conclusione del processo, rispetto alla sentenza, ma piuttosto normale visto che la metà dei tassi in Italia si concludono con l'estinzione del processo. A differenza di due istituti suddetti la sospensione è una via propria crisi del processo perché nel caso in cui si verifichi si ha un arresto del processo in attesa che venga emanata un'altra decisione o che scada un termine. Pur essendo diverse tra loro, queste tre situazioni sono state raggruppate dalla dottrina sotto la stessa denominazione: "vicende anomale del processo". L'interruzione a differenza della sospensione ha per oggetto un evento che si esaurisce in un unico atto (la morte, la perdita della capacità giuridica, la cancellazione dall'albo ecc.), quindi in quello stesso momento (o meglio dal momento in cui la parte ha avuto conoscenza dell'interruzione) il processo può riprende il suo corso (con la riassunzione); per la sospensione invece l'attesa è maggiore. L'astensione un istituto pericoloso appunto perché determinando un prolungamento del processo può incidere sulla durata ragionevole di cui all'art.111 Cost. La sospensione del processo civile nel codice del 1865 era prevista in alcune norme sparse, ma con codice del 1940 il legislatore ha disciplinato (nell'ambito del capo 7° del libro 2°) i tre istituti di cui abbiamo detto prevedendo inoltre quattro articoli sulla sospensione : - l'art.295 c.p.c., sospensione necessaria; - l'art.296 c.p.c., sospensione su istanza di parte; - l'art.297 c.p.c., fissazione della nuova udienza dopo la sospensione;

- l'art.298 c.p.c., effetti della sospensione. Il legislatore inoltre ha continuato a prevedere singole ipotesi di sospensione sparse nei codici e nelle leggi. La moltitudine di norme e la presenza di una sezione autonoma sulla sospensione non devono far pensare che la sospensione stessa possa essere un istituto generale in quanto, oltre al fatto che non può individuarsi una disciplina unitaria della sospensione ma solo delle ipotesi, l'istituto in questione deve essere considerato un istituto eccezionale per le cui norme non è possibile un'interpretazione analogica od estensiva ad altre ipotesi previste dalla legge. La ragione di questa conclusione sta nel fatto che la sospensione è un istituto contrario alla natura del processo che è fatto per procedere ed arrivare quindi ad una conclusione senza violare peraltro il principio costituzionale della durata ragionevole del processo (l'eccezionalità della disposizione normativa determina l'impossibilità per l'interprete di applicare l'istituto oltre i casi espressamente previsti dalla legge). Inizialmente la cassazione ha sostenuto che la sospensione è un istituto eccezionale ma vi sono dei casi in cui soggiace al potere discrezionale del giudice; successivamente però la cassazione ha modificato il suo orientamento ritenendo che la sospensione discrezionale non può essere ammessa in funzione della previsione di un sistema di controllo contro il provvedimento di cui all'art.295 c.p.c., la ragione di questo nuovo orientamento sta nel fatto che con la riforma del 1990 vi è un potere di controllo che è affidato alla cassazione stessa (infatti si è stabilito che il provvedimento di sospensione può essere oggetto del regolamento di competenza dinanzi alla cassazione per accertare la relazione di pregiudizialità). In sostanza anche la cassazione ha condiviso, alla fine, la tesi della tassatività delle ipotesi di sospensione. Dobbiamo ora capire se la presenza di tante ipotesi di sospensione rende possibile la loro classificazione. Una classificazione è stata fatta dal giurista Liebman che parla di sospensioni proprie e sospensioni improprie. Secondo questa classificazione (ripresa da moltissimi autori): nelle sospensioni proprie rientrerebbe quella prevista dall'art.295 c.p.c. (che si verifica quando vi è una relazione di pregiudizialità) in quanto quella è una vera e propria sospensione, cioè ferma il processo in attesa di una decisione che decisiva ai fini della causa; nelle sospensioni improprie rientrerebbero quelle ipotesi per le quali nel processo si presenta una questione che quel giudice non può conoscere e che deve essere conosciuta da un altro giudice, in questo caso si hanno sospensioni improprie perché il processo realtà non si sospende ma prosegua davanti ad un altro giudice (tali ipotesi si avrebbero nei casi di: regolamento di competenza, regolamento di giurisdizione, questione di legittimità costituzionale, rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia). Alla tesi di Liebman sono state fatte alcune critiche, quindi questa classificazione non sarebbe possibile perché: - non si saprebbe dove inquadrare le altre ipotesi di sospensione (quale ad esempio la

sospensione per ricusazione del giudice); - non si può dire che nell'ipotesi di sospensioni improprie il processo persegue davanti ad un

giudice complessivamente competente su quella questione, infatti per quanto riguardala competenza e la giurisdizione il giudice di merito ha perfettamente competenza sulla competenza sulla giurisdizione;

- non si può qualificare come impropria la sospensione, infatti una volta che la si è dichiarata (qualunque sia la causa) il modo in cui si verifica è uguale in tutti i casi, nel senso che il processo si sospende e non si possono compiere atti (ciò che può prendere vita è solo una

fase incidentale che non ha niente a che fare con il merito della causa) quindi è sbagliato dire del processo prosegue dinanzi ad un altro giudice.

Alla classificazione impropria suddetta è preferibile una classificazione in base alla fonte, alla durata ed alla causa della sospensione.

Classificazione per fonte: sospensione legale - sospensione giudiziale - sospensione amministrativa

La sospensione legale si verifica indipendentemente dal provvedimento del giudice, in quanto è una sospensione che opera in conseguenza del compimento (sospensione automatica) o del mancato compimento (sospensione omissiva) di un atto ad opera delle parti. In questo caso il provvedimento del giudice ha natura dichiarativa e non costitutiva, infatti se il giudice non dovesse dichiarare la sospensione il processo sarebbe comunque sospeso. Le ipotesi di sospensione legale sono: - art.48 c.p.c. in tema di regolamento di competenza (sospensione dal giorno del deposito

dell'istanza in cancelleria); - art.52 c.p.c. in tema di ricusazione del giudice (sospensione dal giorno del deposito del

ricorso di ricusazione); - art.332, art.678, ... La sospensione giudiziale si ha quando il giudice emana il provvedimento che dichiara la sospensione; in questo caso è il provvedimento del giudice ad avere l'effetto di sospendere processo, quindi tale provvedimento ha natura costitutiva. All'interno della sospensione giudiziale bisogna fare una distinzione tra: - Sospensioni giudiziale vincolate quando il giudice è obbligato a pronunciare il

provvedimento di sospensione nel momento in cui si verifica che ricorre la fattispecie legale. Le ipotesi sono: l'art.295 c.p.c. (sospensione necessaria o vincolata o obbligatoria); l'art.313 c.p.c. (sospensione in tema di querela di falso); l'art.355 c.p.c.; l'art.367 c.p.c. (sospensione in tema di regolamento di competenza). La sospensione giudiziale vincolata e la sospensione legale hanno in comune il fatto che quando si verifica la fattispecie legale la sospensione ci dev'essere (solo che in un caso è automatica nell'altro no).

- Sospensioni giudiziale discrezionali quando il giudice non è obbligato a pronunciare il provvedimento di sospensione e quindi, oltre al compito di verificare se vi è la ricorrenza della fattispecie legale, ha quello di valutare l'opportunità o meno della sospensione. La sospensione giudiziale discrezionale può aversi o d'ufficio, o su istanza di una parte, o su istanza di tutte le parti (la sospensione per istanza di tutte le parti è difficile da aversi in quanto l'attore ha interesse a che il processo vada avanti). La sospensione discrezionale d'ufficio è prevista nell'art.337 c.p.c. che stabilisce che quando l'autorità di una sentenza viene evocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza viene impugnata. La sospensione discrezionale su istanza di tutte le parti è prevista dall'art.279 c.p.c. che stabilisce che quando sia stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal n.4 del 2° comma, il giudice istruttore, su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell'ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata, può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione o la prosecuzione dell'ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla definizione del giudizio di appello. La sospensione discrezionale su istanza di una parte è prevista dall'art.129-bis delle disposizioni di attuazione del c.p.c. che stabilisce che se vi è stato ricorso alla cassazione contro sentenza d'appello che abbia riformato alcuna della sentenza prevista nel n.4 del 2° comma dell'art.279 c.p.c., il giudice istruttore, su istanza della parte interessata, qualora ritenga che i provvedimenti dati con ordinanza collegiale per l'ulteriore

istruzione della causa siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza riformata, può disporre la sospensione.

La sospensione amministrativa è prevista dall’art.368 c.p.c.; tale sospensione si ha quando vi è una causa sulla giurisdizione e la richiesta di decisione sull’esistenza o meno della giurisdizione viene fatta dal prefetto. L’art.368 c.p.c. fa riferimento all’art.41 e cerca di prevedere le ipotesi nelle quali la questione di giurisdizione si pone ad opera del prefetto ma quando la pubblica amministrazione non è posta in causa. Si ha che, quando la richiesta della decisione viene fatta dal prefetto (che è intervenuto in ordine ad un certo diritto) con decreto notificato alle parti in causa ed al procuratore della repubblica o al procuratore generale (se stiamo davanti alla corte d’appello), il p.m. comunica il decreto al capo dell’ufficio giudiziario, cioè al presidente del tribunale (e non al giudice della causa) che sospende il processo con decreto (qui il provvedimento di sospensione non è fatto dal giudice della causa ma dal capo dell’ufficio che è quello che svolge anche funzioni di tipo amministrativo). Come possiamo vedere, dal punto di vista della struttura la sospensione opera in modi differenti e quindi è difficile considerarla un istituto unitario.

Classificazione per durata: sospensione brevissima - sospensione breve - sospensione lunga - sospensione lunghissima

sospensione discrezionale La sospensione brevissima si aveva nel caso di regolamento di competenza perché doveva durare 40 giorni più il tempo necessario per la riassunzione del processo mentre la sospensione in questo caso dura 3 anni. Si ha invece la sospensione brevissima sicuramente nel caso di ricusazione del giudice e per la sospensione della legge sulle adozioni, perché in questi casi si decide subito. La sospensione breve può durare più o meno 60 giorni o 4 mesi. La sospensione lunga si ha quando dura un grado del giudizio, anche se tale durata non è definibile a priori in quanto un grado può durare 1 anno, 2 anni o anche 6 anni. L'art.279 c.p.c. dice: "dura per tutto il giudizio d'appello"; mentre l'art.367 c.p.c. dice: "dura il tempo necessario per avere la sentenza della cassazione sulla giurisdizione". La sospensione lunghissima si ha quando dura quanto un processo (1° grado, grado d'appello ed eventuale ricorso in cassazione); in questo caso quindi la sospensione può durare anche 10 anni (se tanti sono gli anni per avere una sentenza passata in giudicato, tanti anni durerà la sospensione). La sospensione discrezionale dipende dal giudice che quindi così come può disporla d'ufficio, allo stesso modo può d'ufficio revocarla. Quindi in questo caso anche la durata della sospensione è rimessa alla discrezionalità del giudice.

Classificazione per causa: contestata potestas iudicandi del giudice - incompetenza su questione incidentale pregiudiziale

pendenza di altro procedimento - sospensione differimento La contestata potestas iudicandi del giudice è una categoria che serve a mettere insieme tutte le ipotesi in cui è in discussione il potere del giudice di conoscere una determinata causa; quest'ipotesi ci consente di collocare in questa categoria di sospensione non solo le sospensioni determinate dal regolamento di competenza, dal regolamento di giurisdizione richiesto dalle parti o dal prefetto, ma anche per esempio l'istanza di ricusazione del giudice

poiché anche in questo caso si contesta al giudice il potere di giudicare la causa. La incompetenza su questione incidentale pregiudiziale è una categoria di sospensioni che si verificano. Quando il giudice adito sulla domanda principale non può conoscere la questione che gli è stata sottoposta (questione di natura incidentale o pregiudiziale). In questa categoria possiamo collocare ad esempio le ipotesi in cui è previsto il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia, l'eccezione di legittimità costituzionale, le sospensioni determinate dalle questioni relative alla querela di falso. La pendenza di altro procedimento è un'altra categoria di sospensioni che comprende: le sospensioni dovute alla pendenza di un altro procedimento che può essere non solo un procedimento di natura pregiudiziale ma anche un procedimento di natura amministrativa (le ipotesi sono ad esempio quelle di cui all'art.279 c.p.c., all'art.129-bis e all'art.133-bis delle disposizioni di attuazione del c.p.c. che prevedono la sospensione del processo per la pendenza di un giudizio di impugnazione). La sospensione differimento è l'ultima categoria di sospensione che fa riferimento alla causa; in essa vengono raggruppate le ipotesi nelle quali la sospensione è disposta perché bisogna attendere lo spirare di un termine (l'art.296 c.p.c. ad esempio prevede la sospensione concordata su istanza delle parti che può essere richiesta per quattro mesi). Possiamo concludere che la sospensione esiste in moltissimi casi e se non è possibile ridurre tale fenomeno ad unità è invece possibile raggruppare nella ipotesi in base criteri che abbiamo visto (fonte, durata e causa). Le ipotesi di sospensione sono l'effetto di un determinato istituto, quindi per determinare l'ambito di applicazione delle stesse basta far riferimento ai singoli istituti. Per quanto riguarda però gli artt.295 e 337 c.p.c. non è chiaro quale sia l'ambito di applicazione. Sia in dottrina che in giurisprudenza ci sono opinioni diverse circa l’ambito di applicazione dell’art.295 c.p.c. e dell’art.337 c.p.c. L’art.295 c.p.c. dice che il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o un altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa. Dottrina e giurisprudenza sono concordi sul fatto che questa norma fa riferimento alla relazione di pregiudizialità (l’unico contrario è Satta) quindi l’ambito di applicazione di tale norma è la pregiudizialità. La pregiudizialità trova la sua ragione nel fatto due rapporti giuridici siano in condizione di dipendenza l’uno dall’altro e quindi lo saranno anche i processi che hanno ad oggetto tali rapporti giuridici. Secondo gran parte della dottrina anche l’art.337 c.p.c. (quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo questo può essere sospeso se tale sentenza viene impugnata) si occupa di pregiudizialità. Secondo pochi in questa norma rientra anche il caso in cui venga invocata l’autorità di mero fatto di una sentenza; tesi in realtà inaccettabile anche in funzione del fatto che nel nostro ordinamento il precedente giurisprudenziale non è vincolante per il giudice quindi se il giudice potrebbe discostarsi dal precedente non ha senso sospendere il processo, perché la sospensione deve essere invece diretta a far si che il giudice recepisca quello che dice la sentenza; in sostanza l’art.337 c.p.c. quando parla di autorità di una sentenza si riferisce ad una sentenza passata in giudicato, perché il giudice deve essere vincolato da quella decisione (altrimenti non c’è bisogno di sospendere il processo). Il problema circa queste norme è sorto perché l'art.295 c.p.c. prevede una sospensione necessaria mentre l'art.337 c.p.c. prevede una sospensione discrezionale e tale differenza sta ad indicare che queste norme pur operando nell'ambito della pregiudizialità non possono operare nello stesso preciso settore; infatti ci sono due modi distinti in cui funziona la pregiudizialità che si può manifestare all'interno di uno stesso processo o all'esterno. La pregiudizialità interna si manifesta appunto all'interno del processo con il fenomeno della questione pregiudiziale che si

trasforma o per legge o per domanda di parte in controversia pregiudiziale (in questo caso è all'interno dello stesso processo che nasce la necessità che si decida su un rapporto pregiudiziale). La pregiudizialità esterna si ha nel momento in cui fin dall'inizio pendono davanti a giudici diversi la causa sul rapporto pregiudiziale e quella sul rapporto pregiudicato (questo caso la relazione di pregiudizialità si manifesta di dall'esterno, cioè tra due processi autonomamente promossi fin dall'inizio). Circa l'inquadramento dei due articoli che stiamo esaminando nell'ambito dei due tipi di pregiudizialità ci sono varie tesi. - Secondo la prima tesi l’art.295 c.p.c., quindi la sospensione necessaria, si applica sia in

caso di pregiudizialità interna che in caso di pregiudizialità esterna quando non è possibile realizzare la trattazione simultanea delle cause (ad esempio il giudice non è competente per ragioni di rito o di materia nel caso di pregiudizialità interna oppure i due processi sono ad un grado di istruzione differente per ciò non è possibile riunirli). Questa tesi è estensiva dell’art.295 c.p.c. Per quanto riguarda l’art.337 c.p.c. questa prima tesi stabilisce che tale articolo si applica, sempre in caso di pregiudizialità, quando viene prodotta in giudizio una sentenza passata in giudicato ma impugnata in via straordinaria.

- Secondo la seconda tesi l’art.295 c.p.c. si applica in caso di pregiudizialità interna quando non è realizzabile la trattazione simultanea, mentre non si applica in caso di pregiudizialità esterna perché l’alternativa alla riunione (che ad esempio non può aversi se i processi si trovano ad un grado istruttorio diverso) non può essere la sospensione (a causa dell’effetto di rallentamento di uno dei processi, maggiore di quello che avrebbe la riunione) ma deve essere la prosecuzione autonoma dei due processi. Secondo questa tesi l’art.337 c.p.c. ha lo stesso ambito di applicazione della prima tesi, cioè si applica, sempre in caso di pregiudizialità, quando viene prodotta in giudizio l’autorità di una sentenza passata in giudicato ma impugnata in via straordinaria (in questo caso il giudice può sospendere il processo o applicare quella sentenza).

- Secondo la terza tesi l’art.295 c.p.c. non si applica in caso di pregiudizialità esterna perché quando non è possibile riunire i processi pendenti in sedi diverse, l’alternativa non è la sospensione ma la prosecuzione autonoma dei processi; mentre per quanto riguarda la pregiudizialità interna l’articolo in questione si applica solo quando la trasformazione della questione pregiudiziale in controversia pregiudiziale avviene per legge e sempre che non sia possibile la trattazione simultanea. Invece la domanda di accertamento incidentale, cioè l’espressa richiesta di una delle parti di trasformare la questione in controversia pregiudiziale, si ha nel momento in cui è possibile la trattazione simultanea. La regola generale della pregiudizialità è che il giudice la conosce incidenter tantum (con effetti limitati a quel giudizio). Anche in questa tesi l’art.337 c.p.c. si applica quando viene prodotta in giudizio una sentenza passata in giudicato ma impugnata in via straordinaria.

La soluzione migliore è che l’art.295 c.p.c. si applichi solo in caso di pregiudizialità interna e non anche in caso di pregiudizialità esterna, questo perché bisogna preferire l’interpretazione più aderente al principio sancito dall’art.111 Cost. (il principio della ragionevole durata del processo); in sostanza non sospensione ma prosecuzione autonoma dei processi. Bisogna seguire l’interpretazione più restrittiva dell’art.295 c.p.c. (non si applica alla pregiudizialità esterna) in tal modo alla fine dei due processi potremmo avere decisioni non conciliabili ma non di certo un contrasto di giudicato perché l’oggetto delle cause è diverso (ad esempio una causa ha ad oggetto le mansioni e l’altra la retribuzione). In generale durante la sospensione del processo non si possono compiere atti, questi se vengono commessi sono nulli. Nel caso di sospensione automatica, se il giudice compie degli atti questi saranno nulli. Nel caso poi di sospensione giudiziale se si verifica che il giudice,

che dovrebbe sospendere il processo, non lo fa e compie degli atti, questi atti sono nulli perché il giudice ha violato la norma che lo obbligava a sospendere il processo. L’art.48 c.p.c., in riferimento al regolamento di competenza, stabilisce che il giudice può autorizzare il compimento di atti urgenti. Sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che questo articolo abbia una valenza generale quindi valga per tutte le ipotesi di sospensione; questo perché se il legislatore ha permesso il compimento di atti urgenti per un tipo di sospensione brevissima (come quella che si ha nel caso di regolamento di competenza) a maggior ragione ciò dovrebbe essere possibile nelle sospensioni più lunghe. Atti urgenti sono ad esempio le ordinanze anticipatorie di condanna. Sorgono dei dubbi sul giudice competente a dichiarare il provvedimento di sospensione; se però prendiamo come punto di riferimento l’art.295 c.p.c. che dovrebbe disporre la dichiarazione di sospensione da parte del collegio (perché è il collegio che al momento della decisione valuta la dipendenza della causa pregiudicata dalla causa pregiudiziale) ma non prevede il meccanismo di trasferimento della causa dall’istruttore al collegio affinché questo pronunci il provvedimento di sospensione, possiamo affermare che la posizione migliore è quella di ritenere che la sospensione sia sempre dichiarata dal giudice istruttore. Circa la forma del provvedimento di sospensione il legislatore non è chiaro, tuttavia in quanto si tratta di un provvedimento che non ha un contenuto decisorio (non incide sul merito della causa) ma ha natura ordinatoria possiamo dire che la forma appropriata è quella dell’ordinanza. Per il provvedimento in questione si parla di ordinanza non impugnabile, ma i problemi sorgono circa l’esistenza o meno di una forma di controllo su tale provvedimento. Fino al 1990 non esisteva nessun tipo di controllo, dopo il legislatore ha previsto la possibilità di sottoporre il provvedimento di sospensione del processo (ai sensi dell’art.295 c.p.c. e solo quello) al regolamento di competenza (infatti l’art.42 c.p.c. parla anche di provvedimenti di sospensione). Una volta cessata la causa di sospensione del processo, questo deve essere riassunto. Dal giorno in cui le parti vengono a conoscenza del venir meno della causa di sospensione, queste hanno sei mesi per riassumere il processo.

ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA Nel nostro ordinamento ci sono dei provvedimenti che dovrebbero scoraggiare il convenuto dall’assumere determinati atteggiamenti dilatori; si tratta di provvedimenti che determinano un’accelerazione del processo. Nel codice di procedura civile del 1940 questi provvedimenti avevano uno scarso rilievo perché erano previsti per situazioni particolari, non esistevano norme generali. Nel 1973 il legislatore ha introdotto nel processo del lavoro due tipi di ordinanze anticipatorie di condanna disciplinate dall’art.423 c.p.c. Si tratta di provvedimenti che anticipano il contenuto dei provvedimenti definitivi. Quella prevista al 1° comma dell’art.423 c.p.c. è l’ordinanza di condanna al pagamento di somme di denaro non contestate; quella prevista al 2° comma dell’art.423 c.p.c. è l’ordinanza di condanna al pagamento di somme relativamente ad una parte della causa per la quale è stata raggiunta la prova. Queste due ordinanze hanno presupposti ed ambiti di applicazione diversi.

1° L’ordinanza di cui al 1° comma dell’art.423 c.p.c. è un’ordinanza che può essere chiesta: - da tutte le parti (sia l’attore che il convenuto) e la richiesta non necessita di particolari

formalità (può essere fatta anche oralmente); - in ogni stato del giudizio (questo significa che ci troviamo nell’ambito del 1° grado ed in

quest’ambito in qualsiasi momento, tanto nella fase iniziale quanto in quella finale, può essere chiesta questa ordinanza);

- anche durante la sospensione del processo, perché viene considerata un atto urgente. Questa ordinanza inoltre costituisce titolo esecutivo, cioè la parte che ha ottenuto il provvedimento può procedere all’esecuzione forzata. Nel momento in cui viene pronunciata la sentenza definitiva l’ordinanza viene assorbita dalla sentenza stessa. Per quanto riguarda l’oggetto della non contestazione il legislatore vuole riferirsi non ai fatti bensì al diritto di credito, cioè alle somme di denaro. La non contestazione proprio perché ha ad oggetto le somme di denaro deve essere espressa e non può essere desunta da un comportamento omissivo quale il silenzio (un comportamento incompatibile con la volontà di opporsi). Collegato a questo problema è quello della contumacia e cioè se la contumacia vada intesa come non contestazione; a tal proposito in dottrina vi era: chi riteneva che la contumacia non valeva come non contestazione (era necessaria la non contestazione espressa) e chi riteneva che avendo come oggetto i fatti, la contumacia poteva essere considerata non contestazione. La cassazione ha detto che la non contestazione deve essere espressa e la contumacia del convenuto non va considerata non contestazione; in caso di contumacia del convenuto non si può emettere l’ordinanza del 1° comma dell’art.423 c.p.c. Ci si chiede poi che fine faccia l’ordinanza in questione se il processo si estingue, cioè ci si chiede se sopravvive all’estinzione del processo o no; a tal proposito ci sono sostenitori di entrambe le ipotesi. I problemi di questo tipo di ordinanza si possono risolvere con l’art.186-bis c.p.c.

2° L’ordinanza di cui al 2° comma dell’art.423 c.p.c. stabilisce che “il giudice, su istanza del

lavoratore, può disporre in ogni stato del giudizio con ordinanza il pagamento di una somma, quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Qui il presupposto è diverso perché si tratta di una valutazione che il giudice compie in ordine ai fatti, ritenendo poi che per una parte del diritto sia già stata raggiunta la prova. Mentre l’ordinanza del 1° comma può essere chiesta da tutte le parti del processo, l’ordinanza del 2° comma può essere chiesta solo dal lavoratore. Il datore di lavoro, nel caso in cui sia già raggiunta la prova per una parte del diritto da lui vantato, può chiedere solo una sentenza non definitiva di condanna generica con provvisionale ma non può chiedere questa ordinanza; nel processo ordinario la sentenza non definitiva di condanna con provvisionale è uguale (equivale) all’ordinanza del 2° comma. Questa seconda ordinanza può essere chiesta in ogni stato del giudizio ed anche durante la sospensione, non è revocabile in corso di causa ma viene ad essere revocata solo dopo che si è avuta la sentenza definitiva che l’assorbe, è titolo esecutivo. Queste ordinanze introdotte nel 1973 non hanno avuto una grande applicazione del processo del lavoro perché per quanto riguarda le somme norme contestate è sempre caduto che la parte abbia contestato le somme per evitare che il giudice che mettesse l'ordinanza del 2° comma. Nel 1990 nel processo ordinario di cognizione sono state introdotte le ordinanze degli artt.186-bis e 186-ter c.p.c. e nel 1995 è stata introdotta un altra ordinanza che viene emessa alla fine del processo al solo scopo di sostituire la sentenza finale. Grazie all'art.186-bis c.p.c. si possono risolvere quei problemi con l'art.423 c.p.c. (effetti della estinzione del processo sull'ordinanza, se è possibile revocarla o modificarla durante il corso del processo, la contumacia del convenuto) perché il legislatore è stato più chiaro. L'art.186-bis c.p.c. ha ad oggetto l'ordinanza anticipatoria di condanna per il pagamento di somme non contestate, perciò essa ha lo stesso ambito di applicazione del 1°comma dell'art.423 c.p.c. Il presupposto di questa ordinanza è la non contestazione delle somme (uguale a quello dell'ordinanza di cui al 1° comma dell'art.423 c.p.c.). Anche questa ordinanza richiede l'istanza di parte (può essere sia l'attore che il convenuto in caso di domanda riconvenzionale) e la richiesta non necessita di alcuna formalità. Il giudice che deve emettere l'ordinanza è sempre giudice istruttore anche quando la causa è collegiale. Anche in questo tipo di ordinanza la non contestazione ha ad oggetto un diritto di credito, le somme e non i fatti per questo la non contestazione deve essere espressa. Per quanto riguarda il problema della contumacia, siccome l'art.186-bis c.p.c. dice che la non contestazione deve provenire dalle parti costituite la contumacia non può valere come non contestazione. L'ordinanza costituisce titolo esecutivo è conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo. L'ordinanza sopravvive all'estinzione non questa efficacia di giudicato, essa ha solo efficacia esecutiva e può essere revocata con un autonoma domanda. Il giudice può disporre l'ordinanza fino al momento delle precisazioni delle conclusioni. Questa norma non indica il termine iniziale, che può essere individuato nel giorno in cui la parte si è costituita in giudizio non contestando. L'art.186-bis c.p.c. non dice in ogni stato dal processo, c'è chi ritiene che tale ordinanza non può essere emessa in caso di sospensione. Per il professore questa ordinanza può essere essa anche in caso di sospensione, in ogni stato del processo; quindi se la norma non lo dice è perché vi è stata una semplice dimenticanza del legislatore. Questa ordinanza è revocabili è modificabili in ogni momento del processo (così si risolve il problema sorto con il 1° comma dell'art.423) e viene assorbita dalla sentenza finale. L'art.186-bis c.p.c. lascia

irrisolto il problema del controllo e cioè il problema di ciò che la parte può fare se si è vista impugnare il pagamento di una somma di denaro nonostante l'abbia contestata; c'è stato in questo caso un errore del giudice che valuta come non contestazione un comportamento delle parti. L'ordinanza dell'art.186-bis c.p.c. non è impugnabile, la corte di cassazione ha detto che quest'articolo non viola l'art.24 Cost. perchè è un'ordinanza provvisoria, revocabile e modificabile, destinata tuttavia ad essere assorbita dalla sentenza finale. La cassazione ha sbagliato nel porre da un lato la revoca della modifica e dall'altro l'impugnazione, perché la revoca la modifica vengono fatte dallo stesso giudice mentre l'impugnazione è un controllo fatto da un altro giudice (l'impugnazione offre una garanzia maggiore). Comunque, anche se l'ordinanza non è definitiva, essa è decisoria incide sul diritto. Quindi una parte della dottrina dove della legittimità costituzionale dell'art.186-bis c.p.c. nella parte in cui non prevede l'impugnabilità, cioè una forma di controllo. L'art.186-ter c.p.c. ha ad oggetto l'ordinanza di condanna al pagamento di somme nei limiti in cui è stata raggiuntala prova del diritto vantato. L'articolo in questione possa andare affine al 2° comma dell'art.423 c.p.c. ma in realtà l'art.186-ter c.p.c. fa riferimento alle prove in generale. Quindi nel processo del lavoro alla base di questa ordinanza vi può essere anche una testimonianza mentre nel processo ordinario sono richieste le prove documentali e se vi sono attore diverse da quelle documentali si dovrà fare ricorso alla sentenza di condanna generica e non all'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. L'ordinanza in questione ha ad oggetto somme di denaro e richiede prove scritte, quindi vi è un'affinità tra questa ordinanza ed il decreto ingiuntivo (anche quest'ultimo è diretto ad ottenere il pagamento di una somma di denaro, vi si ha la prova scritta del credito). La differenza rispetto al decreto ingiuntivo è che quest'ultimo è più facile da ottenere rispetto l'ordinanza. Infatti il creditore basta che abbia una prova scritta del suo credito e potrà chiedere il decreto ingiuntivo; il creditore viene ulteriormente agevolato perché vi è un ampliamento del concerto di prova scritta (nel procedimento ingiuntivo: è sufficiente che la scrittura privata sia solo sottoscritta e non anche riconosciuta o autenticata, le scritture contabili dell'imprenditore valgono anche nei confronti di chi non è imprenditore, i liberi professionisti possono ottenere il decreto ingiuntivo sulla base delle proprie fatture). Infine il decreto ingiuntivo si ottiene inaudita altera parte, cioè senza ascoltare la controparte. Il presupposto per ottenere l'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. è più rigoroso rispetto a quello per ottenere il decreto ingiuntivo, infatti tale ordinanza non può essere chiesta a tutela dei crediti dei liberi professionisti, dello stato e dipendenti pubblici che possono invece ottenere il decreto ingiuntivo. L'ordinanza inoltre viene emessa in contraddittorio. Ci si chiede perché sia stata introdotta questa ordinanza dal momento che c'era già il decreto ingiuntivo. In effetti tale ordinanza è poco utilizzata, può essere utilizzata: - Quando il convenuto risiede all'estero (il decreto ingiuntivo invece non può essere chieste

nei confronti di un soggetto residente all'estero). - Quando il debitore promuove una domanda di accertamento negativo, agendo prima del

creditore. In questo modo il debitore promovendo un giudizio ordinario preclude al creditore la strada del decreto ingiuntivo perché esiste già un processo ordinario è il creditore nel giudizio può proporre una domanda riconvenzionale per chiedere l'ordinanza di cui all'art.186-ter c.p.c. se è munito di prova scritta del suo diritto di credito.

- Quando la prova scritta non è preesistente, si forma cioè nel corso del processo. Per questa ordinanza è necessaria l'istanza di parte che non richiede alcuna formalità. Viene indicato il termine finale (fino al momento delle conclusioni) non anche il termine iniziale che può essere individuato nella prima udienza di comparizione. Non è richiestala costituzione

delle parti e perciò essa può essere resa anche in caso di contumacia del convenuto. L'oggetto che il pagamento o la consegna di somme o di cose mobili (quindi lo stesso oggetto del decreto introduttivo). Competente ad emettere l'ordinanza è il giudice istruttore. È richiestala prova scritta: atto pubblico o scrittura privata sottoscritta e riconosciuta o autenticata. Inoltre l'art.186-ter c.p.c. richiamando l'art.634 c.p.c. riconosce all'imprenditore l'agevolazione di utilizzare le proprie scritta contabili anche nei confronti di chi non è imprenditore. L'ordinanza in questione può essere emessa in ogni stato del processo ed anche durante la sospensione del processo. Tale ordinanza può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva quando: - il credito è fondato su una prova scritta qualificata (cambiale, titolo di credito) o è

necessario dimostrare che vi è un pericolo nel ritardo; - il convenuto si è costituito e non porta delle prove scritte a fondamento della sua difesa. Questa ordinanza viene dichiarata provvisoriamente esecutiva quando si verifica una delle due ipotesi. Se la parte ha disconosciuto la scrittura privata o ha prodotto querela di falso l'ordinanza non ha la sua provvisoria esecutività. Se il convenuto è contumace l'ordinanza gli deve essere notificato personalmente, in tal caso si ingiunge alla parte di costituirsi entro 20 giorni dalla notifica altrimenti l'ordinanza diventa esecutiva ai sensi dell'art.647 c.p.c., cioè essa diventa definitiva e l'attore non avrà più interesse alla prosecuzione del processo. Questa ordinanza dichiarate esecutiva, costituisce titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale, a differenza dell'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. che è solo titolo esecutivo. L'ordinanza ex art.186-ter c.p.c. è revocabile e modificabile come l'ordinanza ex art.186-bis c.p.c., mentre il decreto ingiuntivo non è revocabile e modificabile, può essere solo revocato con una sentenza finale risiede di opposizione. Se il processo si estingue l'ordinanza dell'art.186-ter c.p.c. conserva efficacia non solo esecutiva ma anche definitiva (come il decreto ingiuntivo) è non può più essere messa in discussione a differenza dell'ordinanza dell'art.186-bis c.p.c. che conserva solo efficacia esecutiva. L'art.186-quater c.p.c. è stato introdotto nel 1995 e la sua funzione era quella di accorciare i tempi del processo. All'epoca il giudice istruttore dopo la fase istruttore rimetti alla causa al collegio per la decisione e normalmente la decisione veniva emessa dopo molto tempo; allora il legislatore penso di introdurre un'ordinanza che il giudice può ammettere al termine dell'istruzione per evitare il passaggio al collegio. L'art.186-quater c.p.c. dice "esaurita l'istituzione", quindi il giudice ammette questa ordinanza al termine dell'istruzione; è questo termini iniziale. Ma la fase istruttoria può dirsi esaurita al momento delle precisazioni delle conclusioni. Il giudic che competente ad emettere questa ordinanza è il giudice istruttore e proprio per questo tale ordinanza non potrà più essere pronunciata quando la causa è passata nelle mani del collegio per la decisione (dies a quem). È richiesta l'istanza della parte che ha proposto la domanda di condanna e non di una parte qualsiasi. La richiesta non richiede particolari formalità. La parte che ha proposto la condanna può essere sia l'attore che il convenuto mediante una domanda riconvenzionale. L'azione che può dare vita all'ordinanza dell'art.186-quater c.p.c. è solo quella di condanna non anche quelle costitutive o di accertamento. Una volta presentata l'istanza il giudice deve rispondere all'istanza e poi deciderà se ammetterla (nel caso in cui ritiene sia stata raggiuntala prova dell'esistenza del diritto) o rigettarla. Abbiamo un'ordinanza con cui il giudice accoglie o rigetta l'istanza ma questa ordinanza non è definitiva, cioè il processo deve andare avanti per concludersi con sentenza. Questa ordinanza è titolo esecutivo ed è revocabile con la sentenza che definisce il processo, perché non può continuare ad esistere tale ordinanza se viene pronunciata la sentenza. Il legislatore, per evitare la sentenza, ha dato alla parte che ha subito l'ordinanza di condanna e a cui sia stato notificato l'atto di precetto la possibilità di rinunciare alla sentenza è

di potersi accontentare dell'ordinanza. L'ordinanza si è trasformata in una sentenza definitiva. Se processo si estingue quell'ordinanza di cui all'art.186-quater c.p.c. acquista l'efficacia di una sentenza impugnabile. Il soccombente intanto rinuncia alla sentenza perché vuole al più presto impugnare quell'ordinanza-sentenza per ottenere dal giudice d'appello la sospensione dell'esecuzione dell'ordinanza che ha l'efficacia di una sentenza. In questo modo si ha un risparmio di tempo perché il giudice non dovrà pronunciare la sentenza (ma questo avviene solo se soccombente rinuncia alla sentenza). Questa ordinanza è pericolosa proprio per colui che la chiede ed infatti quasi mai l'attore chiede questa ordinanza tranne quando la prova è talmente chiara che il giudice non sbagliare. Questa ordinanza dal punto di vista pratico non ha avuto un grosso risultato perché l'attore una volta giunto al momento delle conclusioni, cioè quasi alla fine del processo, attenderà la sentenza non chiederà quasi mai l'ordinanza perché la parte vorrà sapere il ragionamento fatto dal giudice (ricordiamoci che la sentenza è motivata mentre l'ordinanza è succintamente motivata). L'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. e quella di cui all'art.186-ter c.p.c. sono ordinanze che possono essere emesse fino al momento delle conclusioni (termine ultimo) e che non intendono sostituirsi alla sentenza ma che anticipano quella che sarà la decisione finale del giudice (tali ordinanze verranno assorbite dalla sentenza). L'ordinanza di cui all'art.186-quater c.p.c. è un'ordinanza che avrebbe dovuto sostituire la sentenza, essa può essere emessa alla fine dell'istruttoria, quindi dal momento delle conclusioni in poi (termini iniziale), quando non è possibile chiedere ne l'ordinanza di cui all'art.186-bis c.p.c. ne quella di cui all'art.186-ter c.p.c.

Estinzione del processo L'estinzione del processo è un modo di conclusione del processo stesso diverso dalla pronuncia della sentenza di merito definitiva. Questo non è un modo eccezionale perché più del 50% dei processi si conclude per estinzione senza arrivare alla sentenza. L'estinzione è un istituto che è stato introdotto nel processo civile nel 1940, prima infatti esiste un istituto diverso che era la perenzione (se nessuna delle parti poneva in essere un atto processuale in un periodo di tempo di tre anni e processo si estingue della con una sentenza che dichiarava la perenzione del processo (l'efficacia di tale istituto era la stessa di quella dell'estinzione). Le cause dell'estinzione sono due: - la rinuncia agli atti del processo di cui all'art.306 c.p.c.; - l'inattività delle parti di cui all'art.307 c.p.c. La rinuncia agli atti del processo (art.306 c.p.c.) si ha quando la parte rinuncia esclusivamente all'attività processuale; questa sua dichiarazione non ha nessuna efficacia a livello di diritto perché si può nuovamente riproporre la domanda. Questa ipotesi si ha per esempio quando la parte si accorge di aver proposto male la domanda (di aver sbagliato) e allora rinuncia agli atti del giudizio oppure può aversi un accordo esterno. Se la parte rinuncia diritto non si ha l'estinzione del processo, ma un procedimento (non previsto dal legislatore non ma affermatosi nella pratica), cioè la cessazione della materia del contendere; procedimento questo con il quale il giudice dichiara che non c'è più controversia perché la parte rinuncia al diritto. La rinuncia agli atti deve provenire personalmente dalla parte o da un procuratore speciale. La rinuncia deve essere accettata dalla controparte che ha interesse alla prosecuzione, se non viene accettata da rinuncia non ha effetto, cioè non determina l'estinzione. L'accettazione deve provenire direttamente dalla parte o da un procuratore speciale. Se il convenuto accettala rinuncia il giudice con ordinanza dichiara l'estinzione; mentre se il convenuto non l'accetta il processo va avanti. La rinuncia agli atti del processo è un istituto previsto anche in cassazione

(anzi in cassazione non si ha l'estinzione per inattività delle parti), infatti il ricorrente può rinunciare al ricorso male la rinuncia al ricorso ha l'effetto di far passare in giudicato la sentenza d'appello. Gli effetti della rinuncia sono diversi a seconda del grado in cui viene effettuata: se la rinuncia avviene in primo grado del processo si estingue e le cose tornano come prima perché si può riproporre la domanda; se invece la rinuncia avviene in giudizio di impugnazione l'affetto è il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Il giudice dichiara l'estinzione con ordinanza. Le spese processuali sono a carico della parte che ha rinunciato, a meno che non ci sia tra convenuto e attore un accordo. L'inattività delle parti (art.307 c.p.c.) è un istituto che nel 1940 era disciplinata diversamente da oggi. Infatti nel 1940 l'estinzione poteva essere dichiarata d'ufficio dal giudice una volta che si è verificato l'evento estintivo. Per il compimento degli atti del processo ad opera delle parti erano previsti tempi molto ristretti. Nel 1950 si modificarono alcuni aspetti di questo istituto e si ebbe che: - L'estinzione non può più essere rilevata d'ufficio dal giudice ma è necessaria l'eccezione di

parte; - Risultano allungati i tempi per il compimento di alcune attività (ad esempio in caso di

sospensione o interruzione del processo la riassunzione, se si vuole evitare che il processo si estingua, deve essere fatta entro sei mesi, mentre prima doveva essere fatta entro un mese).

- È stato introdotto un istituto nuovo che la cancellazione della causa dal ruolo (cioè in alcuni casi, se si ha l'inattività delle parti il processo non si estingue ma si ha la cancellazione della causa dal ruolo, se poi le parti non riassumono il processo entro un anno solo allora il processo si estingue; ad esempio se nessuna delle parti compare all'udienza il giudice rinvia la causa ad altro udienza ma se neanche a questa udienza le parti compaiono il giudice di ordine alla cancellazione della causa dal ruolo dopodiché le parti hanno un anno di tempo per riassumere il processo, se lo riassumono il processo riprende corso altrimenti si estingue).

L'inattività delle parti si ha quando la parte non compie una determinata attività prevista dalla legge nel termine anch'esso previsto dalla legge (ad esempio la parte non riassume il processo sospeso entro se mesi, art.181 c.p.c.) oppure quando la parte non adempie ad un ordine del giudice (ad esempio l'ordine di integrazione del contraddittorio, ipotesi di nullità della citazione e della notificazione in cui il giudice l'ordine la rinnovazione). Con la riforma del 1950 l'estinzione opera di diritto ma è necessaria l'eccezione di parte. Questa disciplina non fa una piega se consideriamo l'ipotesi in cui il termine viene previsto dalla legge (ad esempio la riassunzione del processo sospeso deve avvenire entro sei mesi e se la parte non riassume il processo la controparte eccepire l'estinzione, se lo fa nel primo atto difensivo il giudice dichiara l'estinzione, mentre se non lo fa quel vizio non potrà più essere rilevato ed il processo andrà avanti). Il problema sorge in quelle ipotesi nelle quali l'estinzione consegue al mancato adempimento di un ordine del giudice. In questi casi il giudice ha disposto una certa attività affinché il processo possa avere un corso regolare (perché se è nulla della citazione sarà nulla anche la sentenza finale). Qui vi è il dubbio fra la necessità della eccezione di parte nella possibilità del giudice di dichiarare l'estinzione d'ufficio. Per una parte della dottrina il giudice può dichiarare d'ufficio l'estinzione, si ha qui una forzatura dell'articolo. Per un'altra parte della dottrina il giudice non può dichiarare d'ufficio l'estinzione ma è necessaria l'eccezione di parte ed allora in questi casi il giudice se non può pronunciare una sentenza di estinzione può con un provvedimento di natura processuale chiudere processo perché la parte non ha adempiuto ad un ordine del giudice; qui cambia la forma del provvedimento ma il risultato dello stesso cioè alla chiusura del processo. L'estinzione opera di diritto, cioè si verifica nel

momento in cui vi è stato l'evento interruttivo ed il provvedimento del giudice ha solo natura dichiarativa ed è inoltre necessaria l'eccezione di parte. In un solo caso l'estinzione viene dichiarata d'ufficio dal giudice, questo è il caso di cui all'art.412-bis c.p.c. nell'ambito del processo del lavoro. Per quanto riguardala forma del provvedimento (art.308 c.p.c.), l'articolo inerente fa riferimento al tribunale in composizione collegiale e dice che: l'estinzione viene dichiarata dal giudice istruttore con ordinanza, reclamabile al collegio, ed il collegio decide con ordinanza se riforma del provvedimento del giudice, sua casa processo va avanti. Il sistema descritto non funziona più perché il tribunale opera in composizione monocratica; non ha per senza far reclamo allo stesso giudice unico che ha dichiarato l'estinzione; inoltre il giudice dichiara l'estinzione con una sentenza, mentre pronuncia un'ordinanza se rigetta l'eccezione di parte (in quest'ultimo caso il processo prosegue). La sentenza con la quale viene dichiarata l'estinzione è impugnabile. Per quanto riguarda gli effetti dell'estinzione sull'azione (art.310 c.p.c.), bisogna dire che l'estinzione del processo non estingue l'azione, infatti la parte può riproporre la stessa domanda anche se questa possibilità non è assoluta perchè incontra dei limiti: la prescrizione del diritto della decadenza. Abbiamo già detto che la proposizione della domanda interrompe la prescrizione ed impedisce la decadenza (di questo abbiamo già parlato in tema di atto di citazione). Per quanto riguarda la prescrizione tenendo presente l’art.2945 c.c. (che stabilisce che la prescrizione è interrotta da un atto introduttivo del processo e non corre per tutto il tempo in cui dura il processo e quindi il nuovo termine di prescrizione riprende a decorrere dal momento del passaggio in giudicato della sentenza), nel caso dell’estinzione del processo poiché viene meno l’effetto sospensivo e rimane solo quello interruttivo la prescrizione riprende a decorrere dal giorno della domanda introduttiva; questo in ragione del fatto che l’effetto sospensivo richiede che si pervenga ad una sentenza (cosa che non si ha in caso di estinzione). Per quanto riguarda la decadenza, tenendo presente che essa può essere impedita con un unico atto per sempre a seconda che il legislatore richieda un atto giudiziale (disconoscimento) o che sia sufficiente un atto stragiudiziale (impugnazione del licenziamento), nel caso dell’estinzione del processo se per impedire la decadenza bastava un atto stragiudiziale tale estinzione non ha nessun effetto perché l’effetto impeditivo si è comunque verificato; mentre nel caso in cui il legislatore richiedeva un atto giudiziale per impedire la decadenza (questo perché il legislatore vuole che ci sia una sentenza) l’estinzione del processo fa venir meno l’effetto impeditivo della decadenza (appunto perché non c’è stata la sentenza). L’art.310 c.p.c. al 2° comma stabilisce che l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo (le sentenze di merito cui ci si riferisce naturalmente sono quelle sentenze non definitive perché il processo o si conclude con una sentenza definitiva o con l’estinzione ed è quest’ultimo caso che stiamo considerando). Inoltre l’estinzione del processo non ha nessun effetto sulle sentenze della cassazione e su tutta una serie di atti che non sono sentenze di merito, cioè le ordinanze anticipatorie di condanna. In sostanza l’estinzione travolge le sentenze che hanno natura processuale, cioè quelle che il giudice di merito pronuncia su questioni di natura processuale (competenza, giurisdizione, questioni preliminari di merito). L’art.310 c.p.c. al 3° comma stabilisce che le prove raccolte di un processo estinto conservano la loro efficacia se sono prove precostituite (prove che valgono al di fuori del processo), mentre se si tratta di prove raccolte nel processo (ad esempio la prova testimoniale) queste con l’estinzione del processo diventano argomenti di prova. L’art.310 c.p.c. all’ultimo comma stabilisce che le spese del processo estinto sono a carico delle parti che le hanno anticipate, tranne quando il processo si è estinto per rinuncia agli atti del processo, infatti in questo caso le spese sono a carico della parte che ha rinunciato.

Impugnazioni Oggi il nostro sistema delle impugnazioni è in un certo senso indicato nell’art.323 c.p.c. che individua: l’appello, il ricorso per cassazione, il regolamento di competenza, la revocazione e l’opposizione di terzo. Dall’art.323 c.p.c. si può evincere che nei confronti di un’unica sentenza possiamo avere più mezzi di impugnazione, quindi il problema che si pone è quello di capire quale mezzo di impugnazione in tal caso (cioè nel caso in cui nei confronti di una sentenza vengono fatte impugnazioni diverse) va considerato. Per quanto riguarda i rapporti tra revocazione e ricorso per cassazione contro la sentenza di 2° grado, questi sono disciplinati nel segno dell’autonomia dei due giudizi, dal legislatore, che a volte non dice nulla quindi lascia all’interprete il compito di “decidere” sul concorso tra le varie impugnazioni. Il legislatore ha dedicato la prima parte del titolo relativo alle impugnazioni a quelle che sono le impugnazioni generali, cioè quei principi che valgono per tutte le impugnazioni (artt.323 e ss. c.p.c.). Innanzitutto dobbiamo dire che l’oggetto dell’impugnazione è la sentenza, anche se ci sono determinate ipotesi in cui si impugnano anche le ordinanze e precisamente questo avviene quando tali provvedimenti hanno contenuto decisorio e sono definitivi; quindi in questi casi poiché si hanno provvedimenti non modificabili o revocabili, come lo è invece l’ordinanza in generale, dev’essere possibile l’impugnazione. Tutto ciò come conseguenza delle affermazioni della cassazione che ha detto che, indipendentemente da quella che è la forma dell’atto che il giudice utilizza, di fronte ad un provvedimento immodificabile o irrevocabile si può proporre impugnazione in cassazione (ai sensi dell’art.111 Cost.). In sostanza l’oggetto delle impugnazioni normalmente è la sentenza ma può essere impugnata anche l’ordinanza nel caso descritto; inoltre dal 1990 può essere impugnata un’altra ordinanza che è quella che dichiara la sospensione del processo, infatti essa può essere impugnata in cassazione con il regolamento di competenza (art.295 c.p.c.). Per quanto riguarda i soggetti legittimati a proporre l’impugnazione, questi sono le parti tenendo presente che quando si parla di parte ci riferiamo alla parte processuale; tuttavia ci sono casi, quali ad esempio le ipotesi di litisconsorzio necessario, in cui anche la parte sostanziale può impugnare il provvedimento, altri casi in cui lo può fare anche chi non è parte con l’opposizione di terzo ed infine casi in cui il p.m. può fare la revocazione straordinaria (questo avviene quando non è stato chiamato nel processo). Per quanto riguarda poi l’interesse all’impugnazione, questo è determinato dalla maggiore utilità che si può avere, ovvero da un trattamento più favorevole; in funzione di ciò ad impugnare un provvedimento può essere solo la parte soccombente (teniamo presente che la soccombenza deve vedersi con riferimento alle conclusioni che possono essere anche diverse rispetto alla domanda principale; quindi se il giudice accoglie la domanda in parte, il provvedimento non può essere impugnato dall’attore). Possiamo avere una soccombenza pratica quando il giudice accoglie la domanda dell’attore e condanna il convenuto al pagamento di una somma, mentre si ha una soccombenza teorica (o virtuale) quando il giudice rigetta l’eccezione d’incompetenza o di prescrizione sollevata dal convenuto ma ugualmente non accoglie e rigetta la domanda dell’attore (in quest’ultimo caso il convenuto può avere interesse all’impugnazione solo se l’attore impugna la decisione del giudice che ha rigettato la domanda, in caso contrario il convenuto non ha interesse all’impugnazione in quanto ha vinto nel merito). Quindi la soccombenza pratica è quella sulla domanda o sul merito, mentre la soccombenza teorica è quella sulla domanda. Circa i termini di proposizione delle impugnazioni possiamo avere: un termine breve o un termine lungo. Ciò che determina il tipo di termine è la notificazione della sentenza; infatti se il vincitore notifica

la sentenza alla controparte si avrà un termine breve mentre in caso contrario si avrà un termine lungo. Il termine breve per la proposizione dell’appello è di 30 giorni dalla notificazione della sentenza, mentre il termine breve per il ricorso per cassazione è di 6 giorni dalla notificazione della sentenza. Il termine lungo invece è di 1 anno dalla pubblicazione della sentenza (termine che opera indipendentemente dal fatto che la parte sia o meno a conoscenza della pubblicazione); tenuto conto però della sospensione dei termini feriali (dal 1° agosto al 15 settembre) il termine lungo diventa di 1 anno e 45 giorni. La notificazione tardiva della sentenza non può servire a prolungare il termine lungo perché lo scopo della notificazione della sentenza è quello di accelerare il termine per l’impugnazione e non di allungarlo; ovvero lo scopo è quello di accelerare il termine per il passaggio in giudicato della sentenza (se il vincitore notifica la sentenza quando sta scadendo il termine lungo, cioè sono trascorsi 1 anno e 40 giorni, il tempo per impugnarla resterà di 5 giorni e non diventerà di 30 giorni). Il termine breve ed il termine lungo servono a capire quando la sentenza passa in cosa giudicata formale. L’art.324 c.p.c. richiama le impugnazioni e ciò sta a significare che le impugnazioni nel nostro sistema hanno la funzione di evitare che la sentenza passi in giudicato. Cosa giudicata formale significa che quella sentenza non può più essere messa in discussione. Ora dobbiamo fare delle distinzioni: - tra impugnazioni ordinarie (appello; ricorso per cassazione; revocazione dei nn.3 e 5

dell’art.324 c.p.c.; regolamento di competenza) ed impugnazioni straordinarie (opposizione di terzo; revocazione dei nn.1, 2, 3 e 6 dell’art.324 c.p.c.);

- tra impugnazioni rescindenti (dirette solo ad annullare il provvedimento, la cassazione cassa la sentenza viziata) ed impugnazioni rescissorie (diretta alla sostituzione della sentenza annullata con una nuova decisione, la cassazione rimette la causa al giudice di rinvio per una nuova decisione);

- tra impugnazioni a critica vincolata (possibile solo per alcuni motivi, ricorso in cassazione per 5 motivi e revocazione per 6 motivi) ed impugnazioni a critica libera (possibile per qualsiasi motivo, appello);

- tra impugnazioni proposte dinanzi allo stesso ufficio giudiziario che emana la sentenza impugnata (la revocazione) ed impugnazioni proposte dinanzi uffici giudiziari diversi (l’appello ed il ricorso per cassazione).

L’acquiescenza è la volontà del soccombente di accettare la sentenza. Possiamo avere un’acquiescenza parziale quando una sentenza è divisa in più parti (capi) e viene impugnata limitatamente ad una parte, quindi per l’altra parte si ha l’acquiescenza che fa passare in giudicato tale parte; questo però avviene solo se la parte della sentenza che non viene impugnata è indipendente dalla parte che viene impugnata. Per quanto riguarda i vizi della sentenza, questi possono essere raggruppati in due grandi categorie: - la categoria degli errores in procedendo (vizi di attività: ovvero vizi extraformali quali il

difetto di giurisdizione, difetto di competenza ed in sostanza tutti quei vizi attinenti alla mancanza di requisiti di natura formale che stanno prima della decisione; ma anche vizi che attengono alla nullità della sentenza non per motivi preesistenti ad essa ma per motivi strettamente attinenti ad essa stessa come ad esempio la sentenza emessa da un collegio non regolarmente costituito, vizio di costituzione del giudice);

- la categoria degli errores in iudicando (vizi di giudizio, ovvero vizi dovuti ad un errore del giudice nell’interpretazione o nell’applicazione di una norma di legge alla fattispecie concreta; in tal caso quindi il giudice sbaglia ad individuare una norma oppure individua la norma esatta ma la applica male).

Le due categorie di vizi della sentenza, i vizi di attività ed i vizi di giudizio, sono soggetti ad una disciplina unitaria, mentre in passato c’erano impugnazioni differenti a seconda del vizio. Per quanto riguarda le impugnazioni incidentali (impugnazioni proposte all’interno di un’altra impugnazione), bisogna dire che si hanno in tutta una serie di ipotesi: - ipotesi di pluralità delle parti (litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo); - ipotesi di chiamata delle parti da un terzo; - ipotesi di causa che diventi pluralità di parti per interpello volontario. L’impugnazione incidentale è consentita non soltanto quando non sia scaduto il termine per impugnare, ma anche quando il termine sia scaduto; in questo caso si ha quella che viene definita impugnazione incidentale tardiva Poiché l’impugnazione incidentale tardiva si giustifica solo quando è ammissibile l’impugnazione principale, se quest’ultima viene dichiarata inammissibile, l’altra (impugnazione incidentale tardiva) perde ogni efficacia. (VEDI MEGLIO LE IMPUGNAZIONI INCIDENTALI) In un passato lontano le impugnazioni investivano tutta la sentenza indipendentemente dalla parte della sentenza oggetto dell’impugnazione; successivamente il discorso cambia perché il giudizio d’appello si svolge su quella parte della sentenza oggetto dell’impugnazione (effetto devolutivo dell’appello). In caso di soccombenza reciproca l’attore ed il convenuto portano nel processo d’appello le rispettive parti della sentenza per le quali risultano soccombenti; in tal caso si ha che dalla combinazione delle due impugnazioni tutto il processo viene portato in grado d’appello (perché ciò accada è necessario che sia l’attore che il convenuto propongano l’impugnazione). Per capire meglio il rapporto tra impugnazione principale ed impugnazione incidentale, dobbiamo innanzitutto precisare che il legislatore ha come obiettivo quello di ripetere in grado d’appello ciò che è avvenuto in 1° grado, cioè il legislatore mira ad un processo-fotocopia dal punto di vista dei soggetti e dell’oggetto. Circa la relazione tra l’impugnazione principale e l’impugnazione incidentale bisogna dire che questa è una relazione meramente cronologica, infatti chi propone per primo l’impugnazione ha proposto un’impugnazione principale che quindi si ha non in ragione del soggetto o dell’oggetto m semplicemente perché viene proposta per prima. Le impugnazioni incidentali si definiscono così perché devono essere proposte nell’ambito di un’impugnazione principale perché si abbia un unico processo in grado d’appello. L’impugnazione incidentale deve proporsi nello stesso termine previsto per l’impugnazione principale (30 giorni dalla notificazione o 1 anno, se ci troviamo in cassazione i termini saranno di 60 giorni dalla notifica oppure di 1 anno); questa è l’impugnazione incidentale tempestiva, ma abbiamo anche l’impugnazione incidentale tardiva che si può proporre anche oltre il termine di scadenza. L’impugnazione incidentale tardiva va proposta in appello, a pena di decadenza, 20 giorni prima dell’udienza che è stata fissata (udienza di prima trattazione davanti alla corte d’appello); questo per evitare che l’impugnazione principale tardiva dell’attore proposta quando sta per scadere il termine (un giorno prima) impedisca al convenuto (al quale all’inizio poteva andar bene la sentenza di 1° grado) di proporre l’impugnazione incidentale tardiva, infatti il termini per l’impugnazione incidentale è uguale a quello per l’impugnazione principale. La cassazione aveva ritenuto che ci fossero limiti oggettivi e limiti soggettivi per l’impugnazione incidentale, nel senso che essa poteva proporsi limitatamente allo stesso oggetto ed alla stessa parte dell’impugnazione principale. La dottrina ha sempre contestato questi limiti affermando che l’art.334 c.p.c. non dice nulla a riguardo. Successivamente la cassazione ha cambiato opinione. Ciò che è importante dire è che non si può portare nel grado d’appello più di quello che è accaduto nel 1° grado (cioè non si può ampliare l’oggetto del giudizio). Un altro punto importante da

analizzare attiene alla pluralità delle parti nel processo di 1° grado, qui possiamo anche parlare di inscindibilità delle cause. Precisamente possiamo avere una pluralità di parti nell’ipotesi di litisconsorzio necessario (qui si tratta di un rapporto unitario più che di inscindibilità delle cause), ad esempio in una causa che ha ad oggetto una divisione ereditaria, oppure possiamo avere più cause tra loro dipendenti (ad esempio in una delle ipotesi che riguardano una garanzia propria e non in quelle che riguardano una garanzia impropria per le quali non si ha la dipendenza). L’art.331 c.p.c. stabilisce che nel processo d’appello deve ripetersi la stessa situazione, sotto il profilo soggettivo, che si è avuta nel processo di 1° grado. Se al momento dell’impugnazione non vi sono tutte le parti, il giudice ordina che l’impugnazione venga notificata anche alle altre parti (integrazione del contraddittorio), in un termine perentorio. Se non avviene la notifica non si ha l’estinzione come nell’art.102 c.p.c. ma si ha l’inammissibilità dell’impugnazione. Quando invece abbiamo cause scindibili ma riunite nel processo di 1° grado e non si verifica la stessa situazione in appello, il processo può tranquillamente andare avanti solo tra le parti che hanno impugnato la sentenza. Il legislatore vuole evitare che nei confronti di una stessa sentenza vi siano più processi (perché per esempio può accadere che chi in quel momento non ha ancora impugnato la sentenza lo faccia successivamente), quindi ha stabilito che il processo che è nato per primo non deve andare avanti finché non sono scaduti i termini (brevi o lunghi che siano) che anche le altre parti hanno per impugnare. Quindi il processo d’appello è sospeso fino a che i termini per impugnare non sono scaduti (si tratta dell’art.332 c.p.c. che è un tipo di sospensione legale, più breve che lunga, di differimento); dopo tale scadenza è possibile proseguire tranquillamente. Un altro problema attiene all’esecuzione della sentenza. Oggi la sentenza di 1° grado è esecutiva e l’appello non ha un effetto sospensivo automatico di tale esecuzione; mentre la sentenza di 2° grado esecutiva già lo era. In grado d’appello può chiedersi al giudice di sospendere l’esecuzione della sentenza di 1° grado ma occorre un elemento che è la presenza di gravi motivi oltre all’impugnazione che naturalmente è condizione essenziale per poter chiedere appunto la sospensione dell’esecuzione. Nel processo del lavoro la situazione cambia perché se è il datore di lavoro soccombente ed impugna la sentenza, per ottenere la sospensione dell’esecuzione deve dimostrare il gravissimo danno (qualcosa di molto più serio rispetto ai gravi motivi). Al contrario se è il lavoratore che impugna la sentenza e vuole ottenere la sospensione dell’esecuzione deve dimostrare soltanto l’esistenza dei gravi motivi. La regola è che sulla provvisoria esecuzione si decide con ordinanza non impugnabile, ma il presidente del tribunale può disporne la sospensione con decreto se ricorrono “giusti motivi di urgenza” (art.351 c.p.c.). Per quanto la sentenza di 2° grado, essa è esecutiva ed il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza di 2° grado. Qui vi è una particolarità, infatti quando la sentenza di 2° grado può determinare un grave ed irreparabile danno si dispone la sospensione dell’esecuzione di tale sentenza; tuttavia la particolarità sta nel fatto che sulla sospensione non decide la cassazione ma lo stesso giudice che ha pronunciato il provvedimento (la sentenza di 2° grado) a condizione però chela parte abbia già proposto ricorso per cassazione (in sostanza emessa la sentenza di 2° grado la parte soccombente promuove il ricorso per cassazione dopodiché chiede al giudice di 2° grado di disporre la sospensione dell’esecuzione della stessa sentenza perché vi è un danno grave ed irreparabile (man mano che si sale nei gradi di giudizio per ottenere la sospensione è richiesto qualcosa in più, infatti la sospensione dell’esecuzione della sentenza di 2° grado è abbastanza rara). Nell’esame dell’appello facciamo sempre riferimento ad un mezzo di impugnazione a critica libera, cioè un mezzo con il quale si può impugnare tutto ciò che si ritiene opportuno impugnare. L’appello si propone normalmente nei confronti delle sentenze di 1° grado, ma ci

sono delle sentenze che non sono appellabili (art.339 c.p.c.) perché pronunciate secondo equità (ad esempio le sentenze pronunciate dal giudice di pace, sotto i due milioni). Se una sentenze è inappellabile non vuol dire che non può essere sottoposta a nessun controllo, ma vuol dire che non è possibile l’appello tuttavia è possibile proporre il ricorso per cassazione. Giudice di appello è: la corte d’appello (rispetto alle decisioni del tribunale) oppure il tribunale (rispetto alle decisioni del giudice di pace). Per quanto riguarda la forma in cui si propone l’appello, essa è la citazione (nei giudizi che iniziano in 1° grado con citazione) oppure il ricorso (nei giudizi che iniziano in 1° grado con ricorso). Il rispetto dei termini di cui abbiamo detto, poniamo i 30 giorni, si ha con l’atto processuale (la citazione o il ricorso); ad esempio è irrilevante che il ricorso venga notificato oltre i 30 giorni. In grado d’appello è possibile intervenire ma poiché l’intervento presuppone una nuova domanda, esso è previsto in via del tutto eccezionale e come regola generale in appello non è ammesso l’intervento. In sostanza è ammesso solo l’intervento di quei soggetti che potrebbero proporre l’opposizione di terzo. Importante è il modo in cui si svolge l’appello. Innanzitutto bisogna dire che sia nella fase della decisione che in quella della trattazione il giudice è sempre collegiale, la corte d’appello opera sempre in funzione collegiale. Per quanto riguarda l’appello proposto nei confronti delle sentenze del giudice di pace le cose cambiano, infatti in questo caso è il tribunale a decidere ma si tratta del tribunale in composizione monocratica. Fino al 1990 nel processo ordinario di cognizione vigeva una regola e cioè che nel processo di appello era possibile proporre nuove eccezioni, nuovi mezzi di prova e nuovi documenti, le parti però non potevano proporre nuove domande. Nel processo del lavoro era stato stabilito nel 1973 che non era possibile proporre neanche nuove eccezioni (ovviamente quelle riservate alla parte) e quindi il processo del lavoro in grado d’appello può essere definito come un giudizio ad istruzione chiusa. Quindi secondo una distinzione in due diversi modelli di appello, quello “remissivo priore istantia” (nel quale ci si limita a rivedere ciò che è successo in 1° grado senza introdurre novità) e quello “novum iudicium” (nel quale si può avere tranquillamente un’istruzione nuova e non completamente corrispondente a quella del 1° grado), fino al 1990 il grado d’appello del processo ordinario era un novum iudicium mentre dal 1973 in poi il grado d’appello del processo del lavoro è definibile come appello del tipo remissivo priore istantia. Con la riforma del 1990 anche per il grado d’appello del processo ordinario vengono introdotti forti limiti e quindi viene introdotto un sistema basato sul modello remissivo priore istantia. L’art.345 c.p.c. disciplina in maniera distinta domande, eccezioni e prove e nel confermare che le domande nuove non sono ammissibili introduce una novità che consiste nella conseguenza derivante dalla proposizione di una nuova domanda. Infatti mentre prima la proposizione di una nuova domanda aveva come conseguenza il rigetto della stessa, dal 1990 il legislatore stabilisce che la proposizione di una nuova domanda porta alla dichiarazione di inammissibilità. Tuttavia ci sono dei casi in cui la domanda non è nuova come ad esempio la domanda che ha per oggetto gli interessi o il risarcimento dei danni maturati dopo la sentenza di 1° grado. Sempre l’art.345 c.p.c. tratta poi delle eccezioni e a tal proposito è importante ricordare sempre la distinzione tra eccezioni proponibili d’ufficio dal giudice ed eccezioni proponibili dalla parte perché queste ultime non possono essere proposte in appello se non sono state già sollevate in 1° grado; quindi in grado di appello può proporsi un’eccezione solo perché il giudice può rilevarla d’ufficio (ad esempio l’eccezione di pagamento). Per quanto riguarda le prove, il divieto di introdurre nuove prove non è assoluto perché abbiamo due eccezioni: una nell’ipotesi in cui il collegio ritenga quelle prove indispensabili a fini della decisione e l’altra nell’ipotesi di prove relativamente alle quali la parte riesce a dimostrare di

non averle potute chiedere in 1° grado per un fatto ad essa non imputabile. In ogni caso è sempre ammesso in appello il giuramento decisorio. Ora dobbiamo trattare della questione dell’impugnazione delle sentenze non definitive. A riguardo sappiamo che l’art.279 c.p.c. definisce anche i casi in cui il giudice decide con sentenza non definitiva e cioè i casi in cui abbiamo una questione di giurisdizione, una questione di competenza o un’altra questione pregiudiziale o preliminare di merito o anche il merito senza però definire il giudizio. Non sorgono grossi problemi quando ci troviamo di fronte ad una questione, il contrario invece avviene nel caso in cui ci troviamo di fronte al merito come avviene per la sentenza di cui all’art.278 c.p.c. (sentenza di condanna generica) che è sicuramente una sentenza di merito non definitiva. Il problema di definire una sentenza come definitiva o come non definitiva è importante per capire quale tipo di impugnazione è possibile fare. La disciplina dell’impugnazione delle sentenze non definitive fino al 1865 prevedeva la possibilità di impugnare tali sentenze, dette interlocutorie, subito autonomamente. Nel 1940 le sentenze non definitive vengono chiamate parziali e si stabilisce che possono essere impugnate solo alla fine insieme con la sentenza definitiva previa riserva (cioè la parte doveva dichiarare di riservarsi di impugnare la sentenza). Nel 1950 poi le sentenze in questione vengono chiamate non definitive e la loro nuova disciplina prevede una scelta per la parte che può o impugnare subito la sentenza non definitiva o può fare riserva ed impugnarla alla fine quando verrà emessa la sentenza conclusiva. Oggi la situazione è la stessa del 1950 solo che in alcuni casi, come il caso della sentenza non definitiva sul divorzio (che dev’essere seguita da quella sull’assegno), l’impugnazione va fatta immediatamente e non è riservabile. Per quanto riguarda la riserva d’appello, è necessario dire che essa va fatta nello stesso termine che si ha per proporre l’impugnazione ordinaria, ma con tale termine ne concorre un altro che è quello rappresentato dalla data dell’udienza successiva (in sostanza poiché a seguito della sentenza non definitiva il giudice deve continuare il processo viene fissata un’altra udienza per la prosecuzione del processo, allora la parte potrà impugnare la sentenza non definitiva entro il termine di 30 giorni, se vi è stata la notifica della sentenza, a meno che non venga prima la data dell’udienza fissata per la prosecuzione del processo, in quest’ultimo caso infatti il termine ultimo per l’impugnazione o per la riserva d’impugnazione è dato dalla data dell’udienza). Un problema che si pone attiene all’ipotesi in cui il processo nel corso del quale è stata proposta la riserva si estingue; a riguardo l’art.129 disp.di attuaz. Stabilisce che se il processo si estingue in 1° grado, la sentenza di merito contro la quale si è fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l’ordinanza o passa ingiudicato la sentenza che pronuncia l’estinzione. In sostanza se la sentenza non definitiva contro la quale si è fatta la riserva è di merito, essa acquista efficacia e può essere impugnata; mentre se la sentenza non definitiva contro la quale si è fatta la riserva non è di merito, essa diventa inefficace con l’estinzione del processo e non si può impugnare ciò che è inefficace. Per quanto riguarda l’impugnazione immediata, quando la parte propone subito l’impugnazione, il giudizio di 1° grado ed il giudizio d’appello vanno avanti autonomamente (ai sensi dell’art.279 c.p.c.), ma le parti possono anche essere d’accordo nel sospendere il giudizio di 1° grado sempre se il giudice lo ritiene opportuno. Se il giudizio di 1° grado viene sospeso, esso verrà influenzato dalla sentenza del giudizio d’appello; ma anche se il giudizio di 1° grado non viene sospeso, esso sarà comunque condizionato dal giudizio d’impugnazione, soprattutto nel caso in cui il giudizio di 1° grado si concluda prima e con una sentenza incompatibile con quella a cui perverrà il giudizio d’impugnazione (qualora quest’ultimo abbia ad oggetto una questione preliminare di merito). Sulla problematica del coordinamento

tra il giudizio di 1° grado ed il giudizio d’impugnazione, dobbiamo quindi concludere che il giudizio di 1° grado inevitabilmente dipende dal giudizio d’impugnazione su una questione preliminare. Per quanto riguarda l’impugnazione in cassazione, essa nel 1940 era un’impugnazione ordinaria ed un’impugnazione a critica vincolata. Innanzitutto l’art.360 c.p.c. dice che sono impugnabili in cassazione le sentenze emesse in grado d’appello o in unico grado (ad esempio le sentenze emesse dal giudice di pace in unico grado, sotto i due milioni); l’articolo in questione dice anche che è possibile una specie di ricorso omissio medio quando le parti sono d’accordo e decidono di omettere l’appello, ma ciò non si verifica mai perché nessuno è disposto a perdere un grado di giudizio. In base all’art.111 Cost. Possiamo ritenere suscettibili di ricorso in cassazione anche le ordinanze che pongono termine ad un procedimento (cioè quelle che hanno natura decisoria e definitività nel senso che non sono altrimenti impugnabili). L’impugnazione in cassazione è a critica vincolata perché può aversi solo in alcune ipotesi. Si può ricorrere per cassazione per: - motivi attinenti alla giurisdizione, tenendo presente oltre alla questione di giurisdizione

attinente ai tre limiti alla giurisdizione civile anche le ipotesi di conflitto negativo (quando più giudici negano la loro giurisdizione a colui che propone presso di loro una domanda), di conflitto positivo (quando più giudici si dichiarano forniti di giurisdizione circa una questione) e di ultra petita (quando il giudice va oltre la domanda delle parti, cosa che non si può fare);

- motivi attinenti alla competenza, quando non è “prescritto” il regolamento di competenza (cioè quando non è previsto il regolamento di competenza necessario), in sostanza quando c’è una sentenza sia sulla competenza che sul merito è possibile impugnare la questione di competenza ricorrendo per cassazione anche con il ricorso ordinario (e non solo con il regolamento di competenza facoltativo);

- motivi di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in sostanza errores in iudicando cioè vizi di giudizio (mentre tutti i motivi precedenti e quelli successivi sono errores in procedendo cioè vizi di attività);

- motivi di nullità della sentenza o del procedimento, cioè tutte quelle ipotesi di nullità che non sono state sanate nel corso del processo (mancato intervento del p.m., nullità dell’atto di citazione ecc.), quindi le ipotesi di nullità della sentenza possono essere fatte valere con il ricorso per cassazione;

- motivi di mancanza (omissione), insufficienza o contraddittorietà della motivazione, in questi casi spetta alla cassazione stabilire se la motivazione è contraddittoria o insufficiente anche in riferimento al dispositivo.

Circa la forma dell’atto tramite il quale si propone l’impugnazioni in cassazione, questa è quella del ricorso; è importante dire però che non si tratta di un ricorso come quello del processo del lavoro; infatti in questo caso il ricorso viene prima notificato e poi depositato nella cancelleria, abbiamo cioè un mezzo di proposizione della domanda molto più vicino alla citazione. Quando il ricorso viene notificato il ricorrente ha 20 giorni di tempo per il deposito dello stesso nella cancelleria della corte d’appello, poi 20 giorni dopo dal deposito quindi 40 giorni dopo dalla notifica il controricorrente può costituirsi depositando un controricorso (se intende proporre impugnazione incidentale deve farlo nel controricorso che quindi sarà un controricorso incidentale). Per quanto riguarda la decisione della corte d’appello, essa in alcuni ipotesi (integrazione del contraddittorio, estinzione del processo) decide in camera di consiglio e può farlo sia nel caso di sezioni unite che nel caso di sezioni semplici. Quando non

ricorre un’ipotesi di decisione in camera di consiglio, il ricorso viene discusso in pubblica udienza ed è il primo presidente che poi deve assegnare il ricorso o alle sezioni unite o alle sezioni semplici. Nel civile abbiamo le sezioni unite e tre sezioni semplici. Si hanno le sezioni unite quando si decide sulla giurisdizione, sui contrasti di giurisprudenza tra le sezioni unite. Ciò che dicono le sezioni unite è un’indicazione che non vincola i giudici per le questioni più o meno analoghe a quelle decise da tali sezioni, ma costituisce ugualmente un precedente importante. Le sezioni unite decidono anche nel caso di questioni di particolare complessità se il presidente decide di trasmettere la questione. Negli altri casi decidono le sezioni semplici. Quando la decisione non è in camera di consiglio ma in pubblica udienza, 5 giorni prima dell’udienza fissata le parti che si sono costituite almeno con il controricorso possono depositare delle memorie; dopo c’è la discussione, la relazione che fa il giudice relatore, parlano gli avvocati e poi il p.m. ed infine la cassazione decide con sentenza. La cassazione in caso di decisione negativa per quanto riguarda la giurisdizione, “cassa” la sentenza impugnata ed il processo si chiude là (questa è l’ipotesi di cassazione senza rinvio). Quando invece la decisione della cassazione è negativa ma sulla competenza, allora essa effettua anche un rinvio trasmettendo gli atti del processo al giudice competente (questa è l’ipotesi di cassazione con rinvio). Per quanto riguarda le altre ipotesi in cui si può ricorrere per cassazione, nel caso in cui viene rilevato il vizio denunciato la cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia ad un giudice di pari grado a quello che ha emesso la sentenza impugnata (non allo stesso giudice ma ad uno di pari grado). Si può avere il rinvio proprio se si rispetta il grado di chi ha emesso il provvedimento impugnato, mentre si può avere il rinvio improprio se si va dal giudice di 1° grado (come avviene ad esempio nel caso di nullità della notificazione della citazione). Infine se l’impugnazione viene rigettata dalla cassazione, la sentenza passa in giudicato. Nel caso di cassazione con rinvio c’è una doppia fase (rescindente e rescissoria); a riguardo la cassazione, quando cassava la sentenza, enunciava poi il principio di diritto e rinviava la causa. Il principio di diritto aveva efficacia vincolante anche nel caso di estinzione del processo (l’efficacia vincolante non sussiste se il giudice ricostituisce i fatti in modo diverso). Dobbiamo ricordare inoltre che le parti hanno un anno per riassumere il giudizio di rinvio dinanzi al giudice indicato dalla cassazione. La norma che ha enunciato il principio di diritto viene abrogata e la cassazione nel 1990 ha un’alternativa poiché il legislatore prevede la possibilità di non operare il rinvio e di decidere subito la causa nel merito, ma questo solo se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto; infatti il giudizio dinanzi alla cassazione non presenta una fase istruttoria. Quando è la cassazione a decidere per ultima si pone il problema di capire se è possibile proporre le impugnazioni straordinarie contro tale decisione.

Revocazione La revocazione è un’impugnazione particolare perché in parte è ordinaria ed in parte è straordinaria. Essa infatti è ordinaria limitatamente alle ipotesi di cui all’art.395 c.p.c. ai nn.4 e 5, mentre è straordinaria nelle ipotesi ai nn.1, 2, 3 e 6. La differenza tra i due tipi di impugnazione sta nel fatto che quella straordinaria può essere proposta anche nei confronti delle sentenze passate in giudicato. Oggetto della revocazione possono essere le sentenze rese in 2° grado (appello) e quelle rese in unico grado. La revocazione può concorrere con l’impugnazione in cassazione (ricorso per cassazione) e, cosa importante, è che può essere proposta nei confronti delle sentenze per le quali è scaduto il termine per l’impugnazione (sentenze di 1° grado e di 2° grado passate in giudicato) e nei confronti delle sentenze della Corte di cassazione ma, secondo la riforma del 1990, solo in riferimento all’errore di fatto

(cioè quando si è considerato esistente un fatto che risulta inesistente dagli atti di causa o viceversa). La revocazione è un messo di impugnazione a critica vincolata in quanto può essere proposta solo per alcuni motivi. La revocazione non può mai concorrere con l’appello. Per quanto riguarda i motivi per la proposizione della revocazione straordinaria, questi sono: - N.1: il dolo della parte, per il quale è necessaria una collusione della parte in danno

dell’altra parte. - N.2: il riconoscimento (proveniente dalla parte) o la dichiarazione (proveniente dal

giudice) della falsità di prove sulle quali si è fondata la decisione, qui è necessaria una sentenza passata in giudicato che dichiari la falsità della prova (la norma riguarda tutte le prove ad eccezione del giuramento la cui falsità può solo far ottenere il risarcimento dei danni e non la revocazione).

- N.3: l’emergere di documenti decisivi e che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per colpa dell’avversario, qui le due tesi sono: l’assoluta ignoranza dell’esistenza di questi documenti e la conoscenza del documento accompagnata dall’impossibilità di esibirlo in giudizio per fatto dell’avversario (per la giurisprudenza questa norma opera solo nel caso di assoluta ignoranza).

- N.6: il dolo del giudice, ipotesi rarissima. È previsto che se si viene a conoscenza di questi motivi durante il termine per proporre l’appello, dal momento della conoscenza scatta un nuovo termine di 30 giorni per l’impugnazione della sentenza con l’appello. Per quanto riguarda i motivi per la proposizione della revocazione ordinaria, questi sono: - N.4: l’errore di fatto, a riguardo la giurisprudenza parla di mera svista da parte del giudice

(questo motivo è l’unico per il quale è possibile la revocazione delle sentenze della cassazione).

- N.5: la contrarietà della sentenza ad un’altra sentenza già passata in giudicato, a riguardo la giurisprudenza dice che non vi deve essere mai stata l’eccezione della parte ed il giudice non deve aver deciso su tale eccezione (infatti se la parte ha eccepito la sentenza passata in giudicato ed il giudice non provveduto si può proporre ricorso per cassazione, mentre se la questione non è stata proprio trattata si può ricorrere per la revocazione). In riferimento a quest’ultima ipotesi se la revocazione non viene proposta prevale, la seconda sentenza che non ha tenuto conto della prima sentenza contraria; il legislatore in sostanza ha previsto la revocazione come strumento di impugnazione della seconda sentenza, quindi se tale sentenza non viene eliminata deve prevalere sulla prima anche se già passata in giudicato.

Il legislatore ha previsto un termine per la proposizione della revocazione; questo termine è di 30 giorni dalla notificazione della sentenza, ma vi è un altro termine che è quello di 30 giorni dalla conoscenza dei motivi di cui all’art.395 c.p.c., quando cioè si ha conoscenza dei motivi in questione dopo il passaggio in giudicato della sentenza (qui si tratta di un termine mobile). Accanto alla revocazione delle parti vi è quella del pubblico ministero (art.397 c.p.c.) che può aversi nel caso di mancato intervento del p.m. anche se era previsto il suo intervento obbligatorio (in tale ipotesi in quanto il p.m. non può essere equiparato in tutto e per tutto alla parte non si ha la rimessione della causa al primo giudice come avviene nell’ipotesi di litisconsorzio necessario) e nel caso di collusione fra le parti a danno della legge (accordo tra le parti al fine di perseguire uno scopo vietato dalla legge). Per quanto riguarda il giudice competente a pronunciarsi sulla revocazione, questo è lo stesso che ha pronunciato la sentenza oggetto della revocazione; naturalmente si parla di ufficio giudiziario e non di giudice persona fisica (anche se la giurisprudenza ritiene che questa disposizione non si possa applicare quando si tratta di revocazione per dolo del giudice). La domanda di revocazione va proposta

con citazione, ma nel caso di controversie di lavoro o locazione è richiesto il ricorso. L’atto di citazione deve contenere: - i motivi della revocazione, - le prove utili a dimostrare i fatti previsti dei nn.1, 2, 3 e 6 dell’art.395 c.p.c., - la data della scoperta (ovvero della conoscenza) dei motivi di revocazione (perché da tale

data decorrono i 30 giorni). Questi elementi sono richiesti a pena di inammissibilità per la revocazione. La parte che ha proposto la revocazione deve costituirsi entro 20 giorni dalla notificazione a pena di improcedibilità (conseguenza diversa dall’inammissibilità che opera dopo la costituzione del giudizio) per il mancato deposito. La decisione del giudice della revocazione può essere: - di improcedibilità, - di inammissibilità, - di accoglimento della revocazione, - di rigetto della revocazione.

In sostanza possiamo avere due ipotesi: - il giudice revoca la precedente sentenza e ne emana una nuova; - il giudice, se sono necessari nuovi mezzi di prova, revoca la sentenza e con ordinanza fissa

i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio che terminerà con la sentenza di merito (che potrà anche coincidere con quella impugnata).

Contro la sentenza emessa dal giudice della revocazione sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali originariamente era assoggettata la sentenza (quindi solo il ricorso per cassazione o l’opposizione di terzo e mai l’appello). È possibile poi che contro una stessa sentenza siano ammissibili impugnazioni differenti; per esempio ricorso per cassazione per determinati motivi e revocazione per altri motivi. Se la sentenza presenta più vizi la parte può contemporaneamente proporre due impugnazioni, quindi si avrà un concorso di impugnazioni. Prima del 1990 il ricorso per revocazione prevaleva sul ricorso per cassazione per il quale si aveva la sospensione automatica o del giudizio se già era incorso o dei termini per proporre tale ricorso. Questa situazione è stata modificata nel 1990 quando il legislatore ha stabilito che i due giudizi proseguono autonomamente l’uno dall’altro, a meno che su istanza di parte il giudice della revocazione sospenda o il giudizio in cassazione o i termini per proporlo (questo fino alla sentenza di revocazione); la particolarità è che la sospensione viene disposta da un giudice diverso da quello del giudizio che viene sospeso 8cioè dal giudice della revocazione). In sostanza si ha che l’interesse non viene meno se l’impugnazione per revocazione viene rigettata, perché con l’impugnazione in cassazione si può ancora ottenere l’annullamento della sentenza impugnata. La sentenza della cassazione può essere impugnata con la revocazione solo per motivi attinenti ad errori di fatto; tuttavia poiché dal 1990 la cassazione può anche decidere nel merito quando non sono necessari ulteriori accertamenti dei fatti, la sentenza della cassazione potrebbe essere basata sul dolo della parte o su prove riconosciute false o ancora dopo la sentenza potrebbe esserci il rinvenimento di documenti decisivi ai fini della decisione della causa, quindi dopo la riforma l’art.391 c.p.c. non è più sufficiente perché deve essere possibile la revocazione della sentenza della cassazione per tutti i motivi.

Opposizione di terzi Abbiamo due tipi di opposizione di terzi: - al 1° comma dell’art.404 c.p.c. abbiamo l’opposizione di terzo ordinaria; - al 2° comma dell’art.404 c.p.c. abbiamo l’opposizione revocatoria. L’opposizione di terzo ordinaria può essere fatta da un terzo contro una sentenza passata in giudicato o esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti. Questa disposizione sembra in contraddizione con l’art.2909 c.c. che prevede che la sentenza ha efficacia solo nei confronti delle parti, degli eredi e degli aventi causa; in dottrina ci sono state varie tesi a riguardo per ovviare a tale contraddizione. I terzi non sono ne le parti, ne gli eredi, ne gli aventi causa (ad esempio i successori si a titolo universale che particolare potendo impugnare la sentenza in appello non devono essere considerati terzi), ne i creditori; tuttavia agli aventi causa ed ai creditori è data la possibilità di proporre l’opposizione revocatoria di cui al 2° comma dell’art.404 c.p.c. I terzi non sono neppure i soggetti chiamati in causa e non costituitisi. I terzi che sono legittimati a proporre l’opposizione di terzi ordinaria sono: - quelli che potrebbero proporre l’intervento principale; - i litisconsorti necessari pretermessi; - il falso rappresentato (anche se la giurisprudenza ritiene che questo soggetto ha a

disposizione l’impugnazione ordinaria, ovviamente solo se è soccombente). Il terzo titolare di una situazione giuridica dipendente (intervento adesivo dipendente) può invece proporre l’opposizione revocatoria. È necessario il pregiudizio affinché il terzo possa

proporre l’opposizione di terzo, quindi la sentenza che è intervenuta tra due parti deve determinare una lesione ad un diritto del terzo (pregiudizio di natura sostanziale). L’ambito dell’oggetto dell’opposizione di terzo dal 1990 è stato ampliato poiché anche le sentenze di 1° grado, in quanto provvisoriamente esecutive, possono essere oggetto di tale impugnazione. La Corte costituzionale ha detto che è possibile proporre l’opposizione di terzo anche nei confronti dell’ordinanza di convalida di sfratto, del decreto ingiuntivo, dell’arbitrato e del lodo arbitrale. Il termine per la proposizione dell’opposizione di terzo non esiste in quanto il terzo può farlo in qualsiasi momento, tranne quando il diritto sia stato acquisito per usucapione. Per la giurisprudenza il terzo può anche promuovere un’autonoma azione per far valere l’inesistenza del diritto altrui e l’esistenza del proprio; tuttavia ci si chiede se l’opposizione di terzo sia necessaria, ma a ciò si risponde dicendo che il problema è capire qual è l’interesse del terzo che sicuramente è maggiormente tutelato dall’opposizione di terzo perché in tal caso può chiedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza, cosa che non potrebbe fare a seguito di un’azione autonoma. Per quanto riguarda l’azione revocatoria, questa azione può essere proposta da tutti i creditori, senza preferenza alcuna, e dagli aventi causa; la differenza consiste nel fatto che per il creditore il pregiudizio è quello della diminuzione della garanzia patrimoniale, mentre per l’avente causa il pregiudizio deriva dalla soccombenza del suo dante causa. Per proporre l’opposizione revocatoria la sentenza deve essere il risultato di un dolo (atteggiamento unilaterale diretto a pregiudicare i diritti del terzo creditore o avente causa) o di una collusione (atteggiamento bilaterale, cioè un accordo tra le parti in causa per danneggiare un terzo). Affinché possa essere proposta l’opposizione revocatoria è necessario il nesso di causalità tra il dolo o la collusione e la decisione del giudice. Il termine per la proposizione dell’opposizione revocatoria è un termine mobile di 30 giorni che inizia a decorrere dal momento in cui il terzo viene a conoscenza del dolo o della collusione. La domanda si può proporre o con ricorso o con citazione (a seconda dei casi). Il giudice competente è lo stesso che ha emesso la sentenza impugnata e questi può assumere una decisione di improcedibilità, di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento. Quando il giudice accoglie l’opposizione, secondo la tesi più recente, annulla la sentenza e ne emette un’altra che disciplinerà i rapporti non solo tra le parti ma anche tra le parti ed il terzo. Nel caso di litisconsorte necessario pretermesso, se questi fa l’opposizione di terzo nei confronti di una sentenza di 2° grado, il giudice annulla la sentenza e la rinvia per la decisione al giudice di 1° grado che dovrà reintegrare il contraddittorio. Il legislatore non ha previsto ipotesi di concorso tra l’opposizione di terzo ed altre impugnazioni (che possono essere il ricorso in cassazione e l’appello) e a riguardo ci sono varie tesi: - quella che prevede la sospensione dell’opposizione di terzo; - quella che prevede la sospensione dell’appello o della cassazione; - quella che prevede la riunione dei due processi; - quella che prevede la prosecuzione autonoma dei processi. La tesi preferibile è quella della prosecuzione autonoma dei processi così come avviene per la revocazione quando concorre con il ricorso per cassazione. Ci si che poi se è ammessa l’opposizione di terzo nei confronti della sentenza della cassazione, tale problema è sorto nel 1990 quando è stato stabilito che la cassazione può decidere anche nel merito; in realtà non essendoci la fase istruttoria non è sempre utile proporre l’opposizione di terzo, quindi il sistema è incompatibile con l’art.24 Cost. (diritto di difesa, in questo caso del terzo) e sarebbe auspicabile un intervento legislativo per ovviare a tale situazione.

Processo esecutivo

Innanzitutto dobbiamo ricordare alcuni aspetti in parte già trattati. Oggi la sentenza di condanna è provvisoriamente esecutiva già in 1° grado e abbiamo già detto che la parte, quando impugna in appello la sentenza, può chiedere con istanza la sospensione dell’esecuzione della sentenza se vi sono gravi motivi; in tal caso sarà il giudice a decidere con ordinanza se sospendere l’esecuzione della sentenza. Anche la sentenza di 2° grado è esecutiva ed in tal caso la sospensione dell’esecuzione può essere chiesta se la parte impugna la sentenza in cassazione ma a condizione che sussista un grave ed irreparabile danno. In quest’ultimo caso non è il giudice presso il quale si impugna la sentenza a disporne la sospensione dell’esecuzione ma è lo stesso giudice che l’ha pronunciata (infatti la sospensione dell’esecuzione della sentenza di 1° grado viene disposta dal giudice di 2° grado, mentre la sospensione dell’esecuzione della sentenza di 2° grado viene disposta dallo stesso giudice di 2° grado dinanzi al quale si propone l’istanza per la sospensione dell’esecuzione provando di aver proposto il ricorso per cassazione). Inoltre abbiamo anche visto la differente disciplina del processo del lavoro e, premettendo che fino al 1990 solo le sentenze in favore del lavoratore erano esecutive, abbiamo detto che se la sospensione dell’esecuzione viene richiesta dal datore di lavoro deve ricorrere il gravissimo danno, mentre se viene richiesta dal lavoratore è sufficiente che ricorrano gravi motivi. Una differenza importante consiste nel fatto che quando si dice che la sentenza di condanna a favore del lavoratore è esecutiva ci si riferisce al dispositivo che viene letto in udienza, quindi il lavoratore già sulla base del dispositivo può procedere all’esecuzione forzata; diversamente quando si dice che la sentenza di condanna a favore del datore di lavoro è provvisoriamente esecutiva si intende dire che non è esecutivo il dispositivo, quindi per poter procedere all’esecuzione della sentenza occorre attendere la sentenza stessa. Per quanto riguarda poi le controversie in materia di locazione è stabilito che la sentenza di 1° grado è esecutiva, che è esecutivo perfino il dispositivo ed in caso di impugnazione è possibile chiedere al giudice dell’impugnazione la sospensione dell’esecuzione ma in questo caso è necessario che ricorra il gravissimo danno (presupposto identico a quello che si ha nel processo del lavoro). Il processo esecutivo si dice che normalmente inizia con il pignoramento. Gli atti precedenti al pignoramento sono: il titolo esecutivo ed il precetto. Il titolo esecutivo è quel titolo sul quale si fonda tutta l’esecuzione. L’art.474 c.p.c. individua 3 gruppi di titoli esecutivi: - gli atti giudiziari (sentenze e provvedimenti) ai quali la legge attribuisce efficacia

esecutiva; - gli atti di natura stragiudiziale (titoli di credito quali la cambiale e l’assegno); - gli atti ricevuti dal notaio che ha il potere di attribuire efficacia esecutiva se tali atti sono

relativi a obbligazioni di somme di denaro. Il titolo esecutivo più importante è la sentenza di condanna, infatti le sentenze di accertamento e le sentenze costitutive non hanno efficacia di titolo esecutivo. Il titolo esecutivo può essere sia di natura giudiziale (come la sentenza; l’ordinanze di condanna al pagamento di somme di denaro, cioè l’ordinanza di cui all’art.186-bis c.p.c.; l’ordinanza di cui all’art.186-ter c.p.c.; il decreto ingiuntivo; il decreto di repressione della condotta antisindacale ecc.) che di natura

stragiudiziale. Per quanto riguarda il precetto, questo è un atto con il quale un soggetto, che ha diritto ad una determinata prestazione e che possiamo chiamare creditore, notifica alla controparte e la intima ad adempiere la prestazione in questione (ad esempio: pagamento di una somma di denaro, consegna di un bene o rilascio di un bene immobile, ecc.). Il precetto è un atto di parte (il soggetto titolare dell’obbligazione) che ha un contenuto particolare, infatti in esso si deve indicare: il nome delle parti e la prestazione dovuta. Inoltre il precetto deve essere notificato alla parte al pari del titolo esecutivo, con la differenza che quest’ultimo è costituito da una sentenza. Il precetto è un atto preliminare perché l’esecuzione inizia con l’atto successivo. Il pignoramento è caratterizzato da un doppio termine: - un termine dilatorio di 10 giorni, nel senso che non si può promuovere l’esecuzione (quindi

non si può chiedere il pignoramento) prima della scadenza dei 10 giorni dalla notificazione (questo per consentire alla parte di avere un termine per poter adempiere spontaneamente);

- un termine di efficacia di 90 giorni, nel senso che il creditore entro 90 giorni deve promuovere l’esecuzione forzata altrimenti il precetto diventa inefficace (questo significa che il creditore se vorrà promuovere l’esecuzione dovrà notificare nuovamente il precetto, a differenza del titolo esecutivo che è sufficiente sia stato notificato una volta).

Le due grosse esecuzioni previste nel nostro ordinamento sono: l’esecuzione per espropriazione e l’esecuzione in forma specifica. L’esecuzione per espropriazione va distinta in tre forme: l’espropriazione mobiliare, l’espropriazione immobiliare e l’espropriazione presso terzi. Per queste tre forme di espropriazione vi sono regole comuni ma anche specificità individuali. Innanzitutto dobbiamo dire che il pignoramento è un atto (che richiede la parte ma viene compiuto dall’ufficiale giudiziario) col quale si ingiunge al debitore (o al terzo nell’ipotesi in cui è coinvolto) di non disporre dei beni che sono bloccati a garanzia delle obbligazioni vantate dal creditore. Quindi il debitore, ad esempio, non può alienare i beni e se lo fa il suo atto è colpito da un’inefficacia relativa ma non assoluta, infatti quell’atto di alienazione è valido ma inefficace nei confronti del creditore procedente e dei creditori intervenuti (è evidente che la relazione tra pignoramento ed atti di disposizione è più rassicurante per il creditore quando si tratta di beni immobili perché per la presenza della trascrizione e perché non vale la regola possesso vale titolo che invece vale per i beni mobili). Il pignoramento si esegue in diversi modi: - se si tratta di beni mobili sarà l’ufficiale giudiziario che si reca sul posto per individuare

materialmente ed indicare in un verbale i beni pignorati (di solito è il debitore stesso il custode dei beni, ma il creditore può chiedere che venga nominato un soggetto diverso se teme che vengano meno delle garanzie);

- se si tratta di beni immobili il pignoramento è diverso perché viene trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari un atto predisposto dal creditore e notificato all’ufficiale giudiziario (dalla trascrizione nel registro immobiliare il pignoramento viene a costituirsi perché è da quel momento che i terzi ne vengono a conoscenza;

- se si tratta di crediti il pignoramento è più complesso e lo esaminiamo poi. Una volta eseguito il pignoramento dobbiamo tener presente i termini di cui sopra, infatti dopo 10 giorni dal pignoramento bisogna presentare istanza di vendita entro 80 giorni (90 giorni dal pignoramento) altrimenti il pignoramento diventa inefficace e gli eventuali atti di disposizione dei beni fatti dal debitore sono efficaci. È possibile chiedere la riduzione del pignoramento (dei beni sottoposti a pignoramento) ed il giudice può concederla o meno; il giudice potrà anche procedere alla vendita per lotti, in modo tale che se dalla vendita del primo lotto si

riesce a coprire tutta quanta l’esposizione non è più necessario vendere gli altri lotti. Il debitore può evitare il pignoramento in due modi: o offendo subito all’ufficiale giudiziario (sopraggiunto per effettuare il pignoramento) una somma di denaro sufficiente a coprire non solo il capitale di interessi ma anche le spese oppure chiede al giudice di convertire il bene oggetto del pignoramento già effettuato in una somma di denaro (che deve avere ad oggetto sia il capitale di interessi che le spese), in tale caso il pignoramento si trasferisce dal bene alla somma di denaro. Nel processo esecutivo l’inizio dell’espropriazione si ha proprio con il pignoramento col quale si viene a formare un fascicolo sull’esecuzione. Una volta proposto il pignoramento nella procedura esecutiva possono intervenire i creditori; il loro intervento nel processo esecutivo si attua attraverso un atto nel quale il creditore deve dichiarare il proprio credito. Vi è un diverso trattamento dei creditori chirografari o muniti di privilegio e creditori pignoratizi. Il creditore per partecipare in posizione di parità con gli altri ed anche con il creditore procedente deve intervenire entro l’udienza che viene fissata per la comparizione delle parti per la vendita, se interviene successivamente concorre alla distribuzione della parte della somma ricavata dopo che sono stati soddisfatti il creditore pignorante ed i creditori intervenuti in precedenza. L’esecuzione presso terzi ha la particolarità che del debito di un soggetto risponde un'altra persona (ad esempio nel caso di terzo datore di ipoteca o di terzo acquirente di immobile gravato da ipoteca). Mentre il precetto ed il titolo esecutivo vengono notificati al debitore e solo per conoscenza al terzo proprietario, tutta l’esecuzione immobiliare si svolge nei confronti del terzo proprietario in quanto il legislatore ritiene che se questi ha acquistato un bene gravato da ipoteca o ha concesso ipoteca sui beni è consapevole di quelle che sono le conseguenze. Nelle ipotesi di esecuzione per espropriazione la caratteristica è che il creditore agisce, individua dei beni, li fa vendere e soddisfa il proprio credito sul ricavato. L’esecuzione in forma specifica è differente perché in essa vi è una individuazione specifica del bene che deve essere oggetto dell’esecuzione, cioè l’obbligo non è generico ma specifico. L’esecuzione in forma specifica va distinta in due forme: l’esecuzione per consegna o per rilascio e l’esecuzione di obblighi di fare o non fare. L’esecuzione per consegna o per rilascio attiene alla consegna di beni mobili ed al rilascio di beni immobili ed in questo caso il titolo esecutivo contiene un’obbligazione di consegna o di rilascio. Il precetto deve contenere l’obbligazione di consegna e l’indicazione del bene mobile che deve essere consegnato, una volta notificato il precetto e scaduti i 15 giorni, all’ufficiale giudiziario. Per quanto riguarda i beni immobili, l’ufficiale giudiziario dopo la notifica del titolo esecutivo e del precetto deve notificare al detentore dell’immobile un ulteriore avviso nel quale indicherà la data in cui si recherà sul posto per ottenere il rilascio dell’immobile. Questo tipo di esecuzione si svolge fuori dal controllo del giudice che interviene solo se sorgono delle contestazioni in ordine all’esecuzione per rilascio o per consegna; nell’espropriazione invece la presenza del giudice è indispensabile perché vi deve essere l’udienza per al vendita e per l’assegnazione dei beni. L’esecuzione dei provvedimenti di rilascio dei beni immobili oggetto di locazione è disciplinata da una legge ad hoc (dove è previsto l’intervento della forza pubblica se non si ha il rilascio spontaneo). Per l’esecuzione di obblighi di fare o non fare è stabilito che il titolo esecutivo deve essere una sentenza, contenente ovviamente l’obbligo di fare o non fare (ad esempio l’obbligo di distruggere un muro innalzato in violazione delle distanze). In questo tipo di esecuzione ci si trova spesso davanti ad obbligazioni di natura infungibile e tranne in alcune ipotesi (come ad esempio quella prevista dall’art.28 Stat.lav.) il nostro sistema non prevede per esse misure coercitive per assicurare l’effettività delle tutela. Per gli obblighi di natura infungibile il creditore, dopo la notificazione del precetto, si rivolge con ricorso al

giudice dell’esecuzione (che in questo caso è sempre il tribunale) per chiedere che siano determinate le modalità dell’esecuzione e che sia nominato l’ufficiale giudiziario. In questo caso, a differenza dell’esecuzione per consegna o rilascio, il giudice interviene subito. Per ciò che riguarda l’opposizione bisogna distinguere l’opposizione all’esecuzione dall’opposizione agli atti esecutivi. Infatti con l’opposizione all’esecuzione si contesta il diritto di procedere all’esecuzione forzata (l’an), mentre con l’opposizione agli atti esecutivi si contesta la regolarità formale dei singoli atti dell’esecuzione. Con l’opposizione all’esecuzione è possibile contestare in qualsiasi momento il diritto del creditore di procedere all’esecuzione (non vi è un termine di decadenza). L’opposizione all’esecuzione si configura diversamente a seconda che il titolo esecutivo sia un atto giudiziale o un atto stragiudiziale. Se il titolo esecutivo è un atto giudiziale con l’opposizione non si può addurre alcun motivo che poteva essere oggetto di discussione nell’ambito del giudizio nel corso del quale è stato emesso il provvedimento giudiziale; quindi se vi è un provvedimento giudiziale, l’opposizione all’esecuzione può essere utilizzata dal debitore solo per far valere situazioni che si sono verificate dopo la formazione del titolo giudiziale. Nel caso in cui il titolo esecutivo è di formazione stragiudiziale (titoli di credito quali cambiali, assegni oppure atti ricevuti dai notai, mutui) è evidente che con l’opposizione all’esecuzione si può contestare tutto quel titolo esecutivo (la regolarità formale, la falsità delle firme, la prescrizione del diritto) perché quel titolo non è coperto da un’autorità di decisione passata o meno ingiudicato. L’opposizione all’esecuzione si propone in modo diverso a seconda che venga fatta prima del pignoramento o dopo. Se l’opposizione all’esecuzione viene proposta prima del pignoramento, essa diventa sostanzialmente un’opposizione al titolo esecutivo o al precetto e si propone con citazione al giudice che sarebbe competente per l’esecuzione (tribunale o giudice di pace per somme fino a 5.ooo.ooo £). Se invece l’esecuzione è già stata promossa (quindi c’è stato il pignoramento), l’opposizione all’esecuzione deve essere fatta con ricorso al giudice dell’esecuzione (che in questo caso sarà sicuramente il tribunale). L’opposizione agli atti esecutivi invece non mette in discussione l’an, ma la regolarità formale del singolo atto (ad esempio pignoramento eseguito non correttamente o istanza di vendita proposta prima dei 10 giorni ecc.). Il debitore in questo caso deve subito contestare l’atto infatti è possibile proporre l’opposizione all’atto esecutivo solo se lo si fa entro 5 giorni dall’atto stesso. Anche qui se l’opposizione all’atto esecutivo viene proposta prima del pignoramento si propone con citazione, altrimenti la si fa con ricorso. La particolarità è che il giudizio si conclude con sentenza non impugnabile, nel senso che quella sentenza non può essere appellata e quindi è una sentenza pronunciata in unico grado che sicuramente può essere oggetto del ricorso per cassazione. Oltre a questi due tipi di opposizione vi è anche l’opposizione di terzo che può essere promossa da un terzo che afferma di essere titolare di un diritto di proprietà o di un altro diritto reale sui beni che sono stati pignorati (questo è uno strumento che viene dato non al terzo proprietario nei confronti del quale c’è un’ipoteca che garantisce il creditore ma al terzo in generale come nel caso dell’esecuzione mobiliare presso terzi quando può avvenire che tra i beni pignorati vi siano beni del terzo). Il processo esecutivo al pari del processo di cognizione può essere sospeso o chiudersi in via anticipata per estinzione. La sospensione del processo esecutivo si ha con un provvedimento del giudice dell’esecuzione ma su tale processo esecutivo può influire la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo disposta da un altro giudice; ad esempio se la sentenza esecutiva di 1° grado viene impugnata dinanzi al giudice di 2° grado che poi sospende l’efficacia del titolo esecutivo, tale sospensione influenza il processo esecutivo che non può

andare avanti. La proposizione dell’opposizione all’esecuzione non determina automaticamente la sospensione nel processo esecutivo in quanto è sempre necessaria l’istanza di parte ed è sempre necessario che il giudice verifichi l’esistenza dei gravi motivi. L’estinzione del processo esecutivo si ha più frequentemente nell’ipotesi di rinuncia agli atti del processo esecutivo da parte del creditore procedente perchè ad esempio nel frattempo il debitore ha provveduto al pagamento o c’è stato un accordo tra creditore e debitore. Per analogia con la sospensione del processo di cognizione la rinuncia agli atti nel processo esecutivo deve essere accettata dal convenuto (che potrebbe avere un interesse contrario); mentre per quanto riguarda gli altri creditori intervenuti che, non avendo fatto ad esempio nessun accordo con il debitore, possono avere interesse a che il processo esecutivo continui, il legislatore prevede che il consenso alla rinuncia venga dato solo da parte dei creditori muniti di titolo esecutivo. Inoltre i creditori intervenuti che siano muniti di titolo esecutivo possono sostituirsi al creditore procedente che sia rimasto inattivo. Nel caso poi di estinzione del processo esecutivo per inattività delle parti è previsto che quando le parti non proseguono o non riassumono il processo nel termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice o ancora quando le parti non compaiono in udienza l’estinzione opera di diritto ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa ed è inoltre dichiarata con ordinanza del giudice dell’esecuzione; contro tale ordinanza è ammesso il reclamo al collegio (anche se il tribunale pure nell’esecuzione è monocratico). Nel caso in cui l’estinzione si verifica prima della vendita dovranno essere restituiti al debitore i beni sottoposti al pignoramento, in caso contrario dovrà essere data al debitore la somma ricavata dalla vendita ed infine l’estinzione del processo esecutivo rende nuovamente efficaci gli eventuali atti di alienazione compiuti in pendenza del processo esecutivo.

Procedimenti a cognizione sommaria La cognizione sommaria è non caratterizzata da un esame completo ed esauriente del giudice (come avviene nella cognizione piena ed esauriente), ma da una cognizione che a volte è superficiale o parziale (infatti il giudice si basa solo su quello che dice una sola parte). La cognizione sommaria (così come altri istituti quali ad esempio i titoli esecutivi di formazione stragiudiziale: cambiale, atto ricevuto dal notaio ecc.) assolve ad una funzione importante che è quella di neutralizzare il c.d. danno da durata del processo (danno che può derivare dalla lunga durata del processo ordinario). La tutela sommaria, anche se la funzione è unica (neutralizzare il c.d. danno da durata), non è un istituto unitario, infatti nel nostro ordinamento ci sono due figure di tutela sommaria: • La tutela sommaria non cautelare (ovvero pura e semplice) è caratterizzata dal fatto che il

provvedimento che viene emesso dal giudice è suscettibile di vivere di vita propria, nel senso che potrebbe disciplinare per sempre quel determinato rapporto giuridico senza la necessità di promuovere un processo a cognizione piena ed esauriente (che potrebbe aversi su iniziativa della parte soccombente rispetto al processo a cognizione sommaria non cautelare). I procedimenti sommari non cautelari che analizzeremo sono: il decreto ingiuntivo, il procedimento per convalida di sfratto ed il procedimento per la condotta antisindacale. In conclusione il procedimento sommario non cautelare, anche se porta ad un provvedimento conclusivo che è emesso non nella forme della sentenza ma nella forma dell’ordinanza e del decreto, è idoneo a vivere di vita propria (la conseguenza è che nell’eventualità in cui dovesse essere promosso il giudizio a cognizione piena e poi tale giudizio dovesse estinguersi, il giudizio a cognizione sommaria non cautelare acquisterebbe piena efficacia e non sarebbe travolto dall’estinzione dell’altro giudizio in

quanto il processo a cognizione piena ed esauriente è appunto eventuale). • La tutela sommaria cautelare è caratterizzata dal fatto che il provvedimento che viene

emesso dal giudice non può vivere di vita propria, nel senso che tale provvedimento non può disciplinare all’infinito la situazione ma richiede di essere sostituito da una sentenza che sarà emessa al termine di una cognizione piena ed esauriente, in questo modo si ha la c.d. necessità del processo a cognizione piena ed esauriente che deve essere instaurato dal soggetto che ha ottenuto il provvedimento sommario cautelare pena la sua inefficacia. Quindi possiamo definire i processi sommari cautelari come processi: strumentali e provvisori (anche per quanto riguarda gli effetti). In sostanza il provvedimento sommario cautelare è destinato ad essere sostituito dalla sentenza che verrà emessa nel processo a cognizione piena. I processi sommari cautelari richiedono due elementi essenziali, fumus boni iuris e periculum in mora, affinché possano essere concessi (di tali elementi solo il primo è richiesto anche nel processo sommario non cautelare). Il fumus boni iuris è l’apparenza del diritto, nel senso che il giudice deve concedere il provvedimento se giunge ad un certo grado di probabilità in ordine all’esistenza del diritto (non è necessaria la certezza del diritto, ma è sufficiente la probabilità, l’apparenza dell’esistenza del diritto). Il periculum in mora è il pregiudizio che la parte subirebbe nel promuovere il giudizio in via ordinaria (questo elemento manca nei procedimenti sommari non cautelari). Il requisito del periculum in mora si presenta in misura diversa a seconda dei casi, infatti ci sono varie ipotesi: - L’ipotesi in cui il periculum in mora viene valutato dal legislatore in via generale

lasciando al giudice il potere di verificare volta per volta se vi è il pregiudizio per il soggetto;

- L’ipotesi in cui il legislatore richiede un pregiudizio di tipo particolare, ovvero un pregiudizio irreparabile (molto più serio);

- L’ipotesi in cui il legislatore presuppone che una determinata situazione abbia in se un pregiudizio, quindi non è richiesta la valutazione del giudice (pregiudizio in re ipsa).

Bisogna ricordare poi che dal 1990 per le misure sommarie cautelari esiste un unico procedimento, mentre per le misure sommarie non cautelari ognuna di esse ha una struttura propria.

Decreto ingiuntivo Il diritto che si vuole tutelare con il decreto ingiuntivo è il diritto sostanziale rappresentato dal diritto di credito (ad una somma di denaro, alla consegna di un bene mobile determinato o alla consegna di una quantità determinata di cose fungibili). Dall’art.633 c.p.c. si possono individuare le condizioni per poter chiedere il decreto ingiuntivi che sono: - Che venga fornita la prova scritta del proprio credito attraverso atto pubblico, scrittura

privata, ma anche attraverso i libri contabili che di regola possono essere utilizzati come prova solo dagli imprenditori nei confronti di altri imprenditori, tuttavia in questo procedimento si assiste ad un ampliamento della nozione di prova scritta (nel senso che sono considerate prove scritte anche quei documenti non ritenuti tali dal codice). Bisogna evidenziare la possibilità di alcuni soggetti di conseguire il decreto ingiuntivo sulla base di una documentazione di provenienza propria (questo è un privilegio concesso ai professionisti nei confronti dei propri clienti). L’ampliamento della nozione di prova scritta nel momento in cui il debitore si oppone, cioè viene instaurato un processo a cognizione piena, non opera più ed anche il creditore che rimane attore dovrà fornire la prova piena.

- Che non vi sia una controprestazione o una condizione e nel caso in cui siano previste il ricorrente deve provare che quella controprestazione è stata eseguita o che la condizione si sia avverata.

- Che il decreto ingiuntivo venga notificato in Italia perché il decreto ingiuntivo non può essere dato se il debitore (straniero o società estera) non ha residenza o sede in Italia. Su quest’ultima previsione sono state attivate la Corte di giustizia europea e la Corte costituzionale per cercare di eliminare questa disposizione, entrambe l’hanno ritenuto legittima prendendo in considerazione l’ordinanza dell’art.186-ter c.p.c.; tuttavia con un recente decreto legislativo è stato abrogato l’ultimo comma dell’art.633 c.p.c. che prevedeva questa condizione, quindi oggi è possibile chiedere il decreto ingiuntivo anche nei confronti di chi risiede all’estero.

Per il procedimento in questione il giudice competente è il giudice di pace fino a 5.ooo.ooo £ ed il tribunale oltre tale cifra. La domanda viene proposta con il ricorso che deve contenere tutti i requisiti della domanda ed in più la prova scritta (che dovrà essere poi depositata nella cancelleria del giudice). La particolarità di questo procedimento è che il provvedimento viene concesso in audita altera parte, cioè senza contraddittorio (senza che il debitore venga convocato in giudizio). Quindi si ha che il creditore presenta il ricorso ed il fascicolo contenente tutte le prove scritte ed il giudice poi, sempre con decreto pronunciato in audita altera parte può: - accogliere il ricorso, se ritiene che le prove scritte siano sufficienti; - chiedere un’integrazione, se ritiene che i documenti prodotti non forniscano del tutto la

prova scritta; - rigettare il ricorso, se ritiene che sia infondato. Alla luce della nuova formulazione dell’art.111 Cost. sono stati sollevati problemi di costituzionalità del procedimento in questione, questo in ragione del fatto che esso si svolge in assenza di contraddittorio fra le parti. Dopo la concessione del decreto ingiuntivo il creditore ha 60 giorni di tempo per notificarlo al debitore, quando ciò avviene si realizza il contraddittorio differito ma decisivo; infatti il decreto ingiuntivo diventa inefficace se non viene notificato entro 60 giorni. Il debitore, avvenuta la notifica, può pagare oppure non pagare ed in quest’ultimo caso il decreto ingiuntivo diventa definitivo e se il giudice non gli aveva dato la provvisoria esecuzione diventa esecutivo. Al momento dell’emanazione del decreto il giudice può dare la provvisoria esecutività del decreto quando il decreto è fondato su un titolo di credito (cambiale, assegno) o quando vi è pericolo nel ritardo (ad esempio il debitore sta vendendo i suoi beni). Se il debitore non fa nulla la provvisoria esecuzione diventa automatica. Il debitore può proporre opposizione ma lo deve fare nei 40 giorni successivi alla notifica e davanti allo stesso giudice che ha concesso il decreto (anche se dovesse essere incompetente). Con l’opposizione del debitore si apre un giudizio a cognizione piena ed esauriente e questo giudizio può terminare con l’estinzione o con una sentenza che può essere: - una sentenza che rigetta l’opposizione e che quindi non sostituisce il decreto ingiuntivo che

conserva la sua efficacia (il decreto rimane come riconoscimento del credito e la sentenza può valere per le spese);

- una sentenza che accoglie l’opposizione e quindi dichiara inesistente il diritto vantato dal creditore;

- una sentenza che accoglie l’opposizione ma solo in parte, in tal caso la sentenza si sostituirà al decreto ingiuntivo che dovrà essere revocato dal giudice.

Quindi nel caso di accoglimento dell’opposizione si ha la revoca, mentre nel caso di rigetto il titolo rimane il decreto, inoltre poiché la sentenza di 1° grado è esecutiva se al momento del rigetto dell’opposizione il decreto non era stato dichiarato provvisoriamente esecutivo lo diventa con la sentenza (di rigetto). È possibile in corso di causa chiedere: o l’esecuzione del

decreto ingiuntivo se l’eccezione del convenuto non si fonda su prova scritta o la sospensione della sua esecuzione (qualora questa sia stata concessa). La sentenza che viene emessa è in ogni caso impugnabile con i mezzi di impugnazione normali. È possibile per il debitore proporre l’opposizione tardiva, cioè oltre i 40 giorni, ma solo se prova di non aver avuto conoscenza del decreto ingiuntivo o di non aver potuto proporre opposizione per causa a lui non imputabile. In ogni caso l’opposizione tardiva deve essere promossa entro 10 giorni dal primo atto dell’esecuzione iniziata dal creditore.

Procedimento per convalida di sfratto Il procedimento per convalida di sfratto è previsto nella situazione giuridica sostanziale del contratto di locazione o del contratto di affitto a coltivatore diretto, a mezzadro o a colono (in queste situazioni giuridiche si ha la consegna di un bene immobile con la previsione della riconsegna dello stesso alla scadenza pattuita). Il procedimento per convalida di sfratto può essere chiesto in quattro ipotesi: - quando il contratto non è ancora venuto a scadenza ed il locatore ritiene di chiedere un

provvedimento che disponga il rilascio (ipotesi di condanna in futuro perché non c’è ancora l’inadempimento);

- quando il contratto è già venuto a scadenza ed il conduttore non ha rilasciato l’immobile (vi è un inadempimento attuale);

- quando il conduttore è in morosità nei pagamenti dei canoni; - quando è previsto come corrispettivo di una prestazione di lavoro il godimento di un

immobile e quindi alla scadenza del contratto di lavoro si potrà chiedere il rilascio dell’immobile.

Il giudice competente ad emanare questo provvedimento è il tribunale (indipendentemente dal valore non può essere mai il giudice di pace). La domanda si propone con citazione, ma tale citazione al suo interno contiene: - l’intimazione (atto con cui si esprime la volontà di non proseguire il rapporto di locazione); - l’invito a comparire dinanzi al giudice (atto di natura processuale e non sostanziale come il

primo). Una volta notificata la citazione al conduttore, questi avrà un termine minimo a comparire ridotto, che prima del 1990 era di 3 giorni e successivamente è stato elevato a 20 giorni tra la notifica e l’udienza (anziché i 60 giorni di cui all’art.163-bis c.p.c.). In questa fase del procedimento non si seguono le regole proprie del processo a cognizione piena ed esauriente infatti nel 1995 è stato stabilito nel 5° comma dell’art.660 c.p.c. che le parti possono costituirsi o prima dell’udienza o all’udienza fissata. Inoltre il convenuto si può presentare all’udienza anche personalmente, cioè senza l’assistenza dell’avvocato, ma al solo fine di fare opposizione all’iniziativa dell’attore. Dobbiamo precisare cosa accade nelle varie ipotesi: • Se l’intimante (il locatore) non compare all’udienza, il suo atto di citazione (atto

processuale) se pur notificato perde efficacia, mentre non perde efficacia l’intimazione (atto sostanziale) ai fini della disdetta del contratto (tenuto conto che può essere data disdetta del contratto di locazione in via stragiudiziale ma anche in via giudiziale, purché essa venga fatta almeno 6 mesi prima della scadenza del contratto). In tal caso secondo il prof. Liuzzi il convenuto facendo la sua opposizione potrà ugualmente andare avanti nel processo che sarà un processo a cognizione piena ed esauriente.

• Se l’intimato (il conduttore) non compare all’udienza, il giudice deve verificare se la notificazione è stata fatta in maniera regolare e se è così deve convalidare la licenza per finita locazione (quando il contratto non è ancora scaduto), lo sfratto per finita locazione (quando la scadenza si è verificata) o lo sfratto per morosità (quando il conduttore non ha

pagato il canone). Tutti questi provvedimenti vengono emessi dal giudice con ordinanza che pone termine al processo.

• Se l’intimato (il conduttore) compare all’udienza ma non si oppone, il giudice si comporta come nel caso in cui l’intimato non si fosse presentato solo che nell’ipotesi di sfratto per morosità è necessario che il locatore dichiari che la morosità persiste. Tuttavia il conduttore può chiedere il “termine di grazia”, cioè un termine per sanare la morosità; in tal caso il giudice dovrà darglielo e se neanche in quel termine non viene sanata la morosità lo sfratto per morosità verrà convalidato.

• Se l’intimato (il conduttore) compare all’udienza e si oppone, possiamo avere due ipotesi: - se l’opposizione non è fondata su prova scritta il giudice potrà disporre l’ordinanza di

rilascio dell’immobile che è un ordinanza con riserva dell’eccezioni (un provvedimento in via anticipata e di natura provvisoria ma che in quanto è un provvedimento sommario non cautelare probabilmente sopravvive all’estinzione del processo a cognizione piena);

- se l’opposizione è fondata su prova scritta il giudice deve necessariamente trasformare il processo speciale in un processo a cognizione piena.

La sentenza del processo a cognizione piena ed esauriente prende il posto dell’ordinanza. Quando il processo da cognizione sommaria si trasforma a cognizione piena ed esauriente è necessaria un’ordinanza di mutamento di rito che farà scattare gli oneri collegati alla costituzione in giudizio (esposizione delle ragioni da parte dell’attore, indicazione dei mezzi di prova e dei documenti, nomina dell’avvocato del convenuto se inizialmente si è costituito personalmente e proposizione di tutte le eccezioni, dei mezzi di prova e dei documenti). Anche nel caso di ordinanza di convalida è possibile l’opposizione tardiva in due casi:

- se il conduttore dimostra che vi è stata irregolarità della notificazione; - se vi è stata per il conduttore l’impossibilità di partecipazione per caso fortuito o forza

maggiore. Anche nel caso di opposizione tardiva all’ordinanza di convalida il termine per proporla è di 10 giorni dall’esecuzione. Nel nostro sistema la tutela cautelare è di due tipi, infatti abbiamo la tutela cautelare tipica in tutti quei casi in cui il legislatore tipizza le situazioni sostanziali a tutela delle quali vengono previste particolari misure cautelari (quali ad esempio il sequestro giudiziale, il sequestro conservativo, il procedimento di denuncia di nuova opera o di danno temuto ed il procedimento di istruzione preventiva) e poi abbiamo la tutela cautelare atipica che sostanzialmente è costituita dall’art.700 c.p.c., ovvero dai procedimenti d’urgenza per i quali il legislatore non tipizza ne il tipo di situazione giuridica da tutelare ne il tipo di provvedimento che assumerà il giudice (quindi spetterà al giudice valutare se ricorrono le condizioni per emanare il provvedimento e quale deve essere il contenuto dello stesso).

Sequestro giudiziale Il sequestro giudiziale (art.670 c.p.c.) a tutela dei diritti di proprietà, che è caratterizzato dal periculum in mora (cioè dal rischio che se non si provvede alla custodia un determinato bene, questo venga distrutto, deteriorato ecc.), può essere dato:

- in funzione della fruttuosità dell’esecuzione, quando in attesa che venga accertato un diritto è necessario provvedere alla custodia di un bene perché c’è il rischio che questo venga venduto, distrutto, deteriorato o gestito male (se il bene è immobile il sequestro va trascritto nei pubblici registri);

- in funzione dell’esibizione, quando l’oggetto sono libri, registri, documenti, modelli, campioni ecc. e si controverte in ordine all’esibizione, in sostanza in questo caso vi è la

necessità di assicurarsi che gli elementi che devono essere esibiti non vadano distrutti o modificati e ciò lo si può fare disponendo la custodia in funzione della cognizione futura.

Sequestro conservativo

Il sequestro conservativo (art.671 c.p.c.) a tutela dei diritti di credito viene chiesto dal creditore che vuole assicurarsi che durante il tempo necessario a far valere il suo diritto il debitore non diminuisca la garanzia patrimoniale. Tale misura come il decreto ingiuntivo viene chiesta dal creditore, ma la scelta di una o dell’altra dipende dalle prove del proprio diritto che il creditore è riuscito a procurarsi (infatti il decreto ingiuntivo necessita della prova scritta ed è sicuramente più efficace anche perché è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale). Il sequestro tende ad evitare che, agevolato dalla durata del processo, il debitore faccia venir meno la garanzia patrimoniale.

Denuncia di nuova opera o di danno temuto La denuncia di nuova opera si ha quando il proprietario di un bene teme di poter subire un danno da una nuova costruzione, mentre la denuncia di danno temuto si ha quando il proprietario di un bene teme di poter subire un danno da qualcosa che già esiste; in questi casi viene chiesto al giudice di prendere i provvedimenti idonei ad evitare il danno in questione.

Procedimenti di istruzione preventiva I procedimenti di istruzione preventiva possono aversi con riferimento alla prova testimoniale (quando si ritiene di non poter utilizzare una prova testimoniale in futuro ed allora si chiede di sentire prima il testimone per poi utilizzare il verbale di accertamento di istruzione preventiva al momento in cui ci sarà la fase istruttoria; qui sarà sempre il giudice di merito ad effettuare il giudizio di rilevanza e di ammissibilità della prova) oppure con riferimento all’accertamento dello stato dei luoghi o della condizione delle persone (quando ad esempio il proprietario di un bene vuole “fotografarlo” prima che gli venga restituito perché vuole evitare che eventuali danni vengano imputati al lui; qui vi è la necessità che l’accertamento venga fatto in maniera imparziale ed oggettiva e quindi si chiede al giudice la nomina di un perito o di un tecnico che faccia tale accertamento). Il procedimento di istruzione preventiva non può essere chiesto per altre prove quali il giuramento e l’interrogatorio formale.

Provvedimenti d’urgenza

I provvedimenti d’urgenza sono quelli previsti nell’art.700 c.p.c., cioè quelle misure che definiamo cautelari atipiche (nell’articolo in questione infatti si dice “fuori dai casi previsti”). In sostanza la caratteristica dell’art.700 c.p.c. è quella della sussidiarietà anche in funzione di ciò la giurisprudenza ritiene che non si possa chiedere un provvedimento urgente se è possibile una delle misure cautelari tipiche. Anche in questo caso i requisiti per ricorrere a tale articolo sono il fumus boni iuris ed il periculum in mora, ma quest’ultimo deve riguardare un pregiudizio imminente ed irreparabile. L’irreparabilità va intesa nel senso di impossibilità a conseguire una riparazione del danno subito sia pure dell’equivalente monetario. Inoltre l’irreparabilità non è riferita solo ai diritti assoluti reali (la proprietà) ma anche ai diritti della persona (diritto all’immagine). L’art.700 c.p.c. entra in gioco quando il risarcimento del danno non sarebbe mai idoneo a far conseguire al soggetto la stessa tutela che potrebbe conseguire con un intervento immediato. L’ambito di operatività dell’art.700 c.p.c. è stato ampliato (dalla dottrina e dalla giurisprudenza) facendo rientrare nella nozione di irreparabilità prima quelle situazioni a contenuto patrimoniale ma senza una funzione patrimoniale e poi quelle situazioni

patrimoniali a contenuto patrimoniale se con una funzione patrimoniale (ad esempio negli ambiti societari). Si è finito col ritenere che era possibile applicare l’art.700 c.p.c. quando lo scarto che si veniva a creare tra l’adempimento spontaneo dell’obbligazione (da parte del debitore) ed il risultato conseguibile con la sentenza finale era molto ampio. In conclusione è possibile applicare l’art.700 c.p.c. quando oltre all’apparenza del diritto (fumus boni iuris) vi è un possibile pregiudizio immediato ed irreparabile (periculum in mora) e tale irreparabilità può aversi non solo quando la situazione giuridica sostanziale ha un contenuto ed una funzione non patrimoniale o un contenuto patrimoniale ma una funzione non patrimoniale, ma anche quando la situazione giuridica è patrimoniale sia nel contenuto che nella funzione, ciò che è necessario è che ci sia uno eccessivo scarto tra il momento dell’adempimento spontaneo o anche dell’esecuzione del provvedimento d’urgenza ed il momento della sentenza finale.

Procedimento cautelare Con la riforma del 1990 c’è stata l’introduzione di un unico procedimento per tutte le misure cautelari; tale procedimento risponde a principi base che sono:

- il principio (sottoposto ad eccezioni) secondo il quale a conoscere la misura cautelare deve essere sempre il giudice della causa di merito;

- il principio (sottoposto ad eccezioni) secondo il quale il giudice che concede la misura cautelare deve essere un solo giudice (quindi in sostanza un giudice monocratico) anche in quei casi in cui a conoscere la causa di merito deve essere il collegio;

- il principio secondo il quale il provvedimento conclusivo è sempre l’ordinanza che potrà essere non solo revocabile e modificabile ma anche reclamabile.

• L’art.669-quaterdecies c.p.c. disciplina l’ambito di applicazione del procedimento cautelare che abbiamo esaminato stabilendo che esso si applica: - ai provvedimenti cautelari previsti dal codice di procedura civile (ai sequestri, alle

denunce di nuova opera o di danno temuto, ai provvedimenti di urgenza ma non ai provvedimenti di istruzione preventiva);

- agli altri provvedimenti cautelari previsti dalle leggi speciali purché compatibili con la disciplina del procedimento cautelare (per alcuni a compatibilità va intesa in senso assoluto mentre per altri va intesa in senso relativo).

• L’art.669-bis c.p.c. fissa la forma della domanda dicendo appunto che la domanda si

propone con ricorso, ma tale articolo non dice nulla sul contenuto quindi l’interprete deve far riferimento all’art.125 c.p.c. (che fissa il contenuto: indicazione del giudice e delle parti, del petitum e della causa pretendi). La giurisprudenza e la dottrina hanno affermato che la domanda cautelare deve indicare quella che è la domanda che si intende proporre nel giudizio di merito (questo per il nesso di strumentalità della prima rispetto alla seconda).

La misura cautelare può essere chiesta antecausam (prima di iniziare un giudizio di merito) o in corso di causa (durante il giudizio di merito). • L’art.669-ter c.p.c. disciplina la competenza antecausam, cioè l’ipotesi in cui la misura

cautelare venga chiesta prima di iniziare un giudizio di merito, e stabilisce che la domanda deve essere proposta al giudice competente a conoscere del merito; tuttavia ci sono delle eccezioni, infatti: - il giudice di pace non può dare la misura cautelare; - il giudice straniero (competente per la causa di merito) non può dare la misura

cautelare, in tal caso la domanda cautelare si deve proporre al giudice competente per materia e per valore del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare.

(Vedi anche il caso di deferimento della soluzione della controversia ad arbitri)

Quando viene chiesta la misura cautelare antecausam il ricorso viene depositato nella cancelleria del tribunale, poi il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo trasmette al presidente del tribunale che designa il magistrato che deve decidere la questione, cioè la controversia cautelare.

• L’art.669-quater c.p.c. disciplina la competenza in corso di causa, cioè l’ipotesi in cui già pende la causa dinanzi ad un giudice al quale si chiede la misura cautelare (qui il ricorso deve essere depositato nella cancelleria del giudice della causa o può essere depositato direttamente in udienza); in tal caso sarà il giudice della causa ad essere competente a concedere la misura cautelare, tuttavia anche qui ci sono delle eccezioni: - se il giudice della causa è un giudice di pace non potrà concedere la misura cautelare; - se il giudice della causa è un giudice straniero non potrà concedere la misura cautelare; - se la causa pende dinanzi ad un arbitro non potrà concedere la misura cautelare; - se è stata esercitata l’azione civile in sede penale il giudice penale non potrà concedere

la misura cautelare. In questi casi si dovrà chiedere al presidente del tribunale di nominare un magistrato per la concessione della misura cautelare.

• L’art.669-quinquies c.p.c. disciplina il caso in cui le parti hanno deciso di deferire la controversia ad arbitri, in tal caso la misura cautelare non potrà essere concessa dall’arbitro ma la relativa domanda dovrà essere proposta al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Un’eccezione alla regola secondo la quale il giudice che concede la misura cautelare deve essere un giudice monocratico è che nel caso in cui la causa pende dinanzi ad un giudice che opera in funzione collegiale (tribunale sezioni specializzate agrarie, per minorenni o corte d’appello) non essendoci all’interno di questi organi un istruttore (cioè un giudice unico) la misura cautelare sarà concessa o negata dal collegio stesso. • L’art.669-sexies c.p.c. nel disciplinare il procedimento tramite il quale si concede la misura

cautelare prevede due sviluppi del processo: - secondo lo sviluppo normale del processo è previsto che il magistrato designato deve

fissare con decreto l’udienza per la comparizione delle parti (omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio) e deve chiudere il procedimento con ordinanza resa in contraddittorio;

- secondo lo sviluppo eccezionale del processo è previsto che quando la convocazione della controparte può pregiudicare l’attuazione del provvedimento il giudice può con decreto (inaudita altera parte) non solo fissare la data dell’udienza ma anche concedere la misura cautelare.

L’articolo in questione prevede anche due termini: quello perentorio non superiore ad 8 giorni entro i quali il ricorrente deve notificare il ricorso ed il decreto alla controparte e quello non superiore a 15 giorni entro i quali per la data dell’udienza di comparizione delle parti (fissata nel decreto). I termini in questione sono triplicati nel caso in cui la notifica deve essere effettuata all’estero. Il giudice poi con l’ordinanza confermerà, modificherà o revocherà i provvedimenti emanati col decreto inaudita altera parte.

• L’art.669-septies c.p.c. disciplina il provvedimento negativo cioè l’ordinanza di rigetto (o anche quella di incompetenza), provvedimento con il quale il giudice non concede la

misura cautelare. La domanda cautelare può essere rigettata per motivi di giurisdizione, di competenza (in tal caso il giudice non deve indicare il giudice competente), di mancanza del periculum in mora o anche del fumus boni iuris. Tutto ciò sempre con ordinanza con la quale il giudice provvede definitivamente anche sulle spese che saranno a carico del soccombente. Prima contro il provvedimento negativo non era previsto il reclamo al collegio ed era solo possibile riproporre la domanda cautelare, tuttavia grazie ad un intervento della Corte costituzionale nel 1994 è possibile oggi reclamare il provvedimento negativo ma rimane possibile anche riproporre una nuova domanda a condizione che la parte deduca una nuova circostanza di fatto (comunque potrebbe sempre essere proposto un autonomo giudizio a cognizione piena); se vengono fatte entrambe le cose i due processi vanno avanti autonomamente salvo poi vedere di conciliare i risultati finali. Ricordiamo che non è ammesso il reclamo contro il decreto ma esso va fatto sempre contro l’ordinanza.

• L’art.669-opties c.p.c. disciplina il provvedimento di accoglimento dell’istanza cautelare (quello che possiamo definire il provvedimento positivo) stabilendo che con l’ordinanza antecausam che concede la misura cautelare il giudice deve fissare un termine perentorio (legale) non superiore a 30 giorni per l’inizio del procedimento di merito; il termine in questione decorre dalla pronuncia dell’ordinanza se avvenuta in udienza o dalla sua comunicazione.

L’ordinanza con la quale si chiude il procedimento cautelare fino al 1990 era immodificabile e sicuramente non impugnabile ma con la riforma del procedimento cautelare sono stati introdotti due rimedi: da un lato la modifica e la revoca e dall’altro il reclamo. • L’art.669-decies c.p.c. disciplina la modifica e la revoca che riguardano solo l’ordinanza di

accoglimento e non anche quella di rigetto dell’istanza cautelare; inoltre bisogna dire che è sempre possibile fare istanza di modifica o di revoca dell’ordinanza di accoglimento a condizione che si siano verificati mutamenti di circostanze. Il giudice competente per la revoca e per la modifica è sempre quello della causa di merito tranne nei casi in cui questo è un giudice straniero, un arbitro o un giudice penale (ma si che ritiene neanche il giudice di pace possa revocare o modificare l’ordinanza in questione); in sostanza il giudice competente per la modifica e per la revoca è quello che ha pronunciato l’ordinanza.

• L’art.669-terdecies c.p.c. disciplina il reclamo al collegio che (grazie all’intervento della

Corte costituzionale) riguarda non solo l’ordinanza di accoglimento ma anche l’ordinanza di rigetto; inoltre il reclamo al collegio è proponibile nei confronti dell’ordinanza che accoglie l’istanza di modifica o di revoca della misura cautelare ma non è proponibile nei confronti dell’ordinanza che rigetta l’istanza di modifica o di revoca della misura cautelare. Il reclamo al collegio ha dei presupposti diversi dall’istanza di modifica e di revoca, infatti può essere proposto solo se vi è stato un errore che può aver caratterizzato l’attività o la decisione del giudice. In sostanza il reclamo può essere proposto per errori in procedendo o per errori in iudicando. Importante è che il reclamo al collegio può essere proposto non in qualunque momento ma solo nel termine perentorio di 10 giorni dalla notificazione dell’ordinanza che ha concesso o che ha negato la misura cautelare (o da quella che ha accolto l’istanza di modifica o di revoca). Il reclamo non può essere proposto nei confronti del decreto (anche se ha concesso inaudita altera parte la misura cautelare) ma può essere proposto solo nei confronti dell’ordinanza. Il reclamo si propone al collegio del tribunale ma di tale collegio non può far parte il giudice che ha deciso sulla misura cautelare; nelle ipotesi in cui sia stato un collegio (quale la corte d’appello) a decidere sulla misura

cautelare il reclamo va proposto ad un’altra sezione della stessa corte o alla corte d’appello più vicina. Il provvedimento che viene reso in sede di reclamo non è ricorribile in cassazione ed il collegio si pronuncia sul reclamo con ordinanza non impugnabile. Il reclamo di regola non sospende l’esecuzione del provvedimento (tranne in alcuni casi quando il provvedimento può essere sospeso o subordinato ad una cauzione).

• L’art.669-nonies c.p.c. disciplina l’inefficacia della misura cautelare che può aversi in tre casi: - se il procedimento di merito non è iniziato nel termine previsto di 30 giorni dalla

pronuncia dell’ordinanza; - se il processo di merito si estingue; - se la sentenza di merito accerta che il diritto (su cui si fonda la misura cautelare) non

esiste. Di regola nell’ultimo caso il giudice nella stessa sentenza che accerta che il diritto non esiste dispone anche l’inefficacia della misura cautelare e da i provvedimenti relativi. Negli altri casi la parte interessata deve presentare un’istanza al giudice che ha concesso la misura cautelare e chiedere che venga ad essere dichiarata l’inefficacia della misura stessa. A questo punto il giudice deve convocare con ordinanza le parti per verificare se c’è l’inefficacia e chiudere il procedimento con un ordinanza che dichiara l’inefficacia della misura cautelare (se la parte che ha ottenuto la misura si presenta e non contesta la richiesta dell’altra parte) oppure instaurare un processo a cognizione piena ed esauriente per dichiarare con sentenza se vi è o meno l’inefficacia della misura cautelare (se la parte che ha ottenuto la misura si presenta e contesta la richiesta dell’altra parte). Tuttavia il giudice può revocare la misura cautelare nell’ipotesi in cui debba dar vita al giudizio a cognizione piena ed esauriente a seguito dell’opposizione.

• L’art.669-duodecies c.p.c. disciplina l’attuazione delle misure cautelari stabilendo che tale attuazione è affidata non al giudice dell’esecuzione ma al giudice della cautela che ha l’onere di fissarne le modalità. La norma in questione distingue a seconda che si tratti di misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro (in tal caso si seguono le forme del pignoramento) o di misure aventi ad oggetto obblighi di rilascio, di consegna, di fare o di non fare (in tal caso sarà il giudice a fissare volta per volta le modalità per il raggiungimento dello scopo. Si ritiene che si possa proporre reclamo contro i provvedimenti di attuazione se si concretano in un diniego di esecuzione del provvedimento cautelare.

Procedimenti possessori I procedimenti possessori riguardano il possesso (situazione di fatto tra il soggetto ed il bene, dove il soggetto è tutelato dall’ordinamento quando ci sono delle molestie; il possesso non è un diritto). Prima del 1990 vi erano due fasi (rette entrambe dal ricorso): - nella prima fase il giudice conosceva in via sommaria la situazione di fatto e decideva con

ordinanza; - nella seconda fase, che necessitava di un nuovo ricorso ed era a cognizione piena, il

giudice decideva con sentenza. Dal 1990 il procedimento possessorio è sempre articolato in due fasi, tuttavia la prima è sempre a cognizione sommaria ed è necessario il ricorso e la seconda ma la seconda che è a cognizione piena non necessita di un nuovo ricorso perché il giudice quando decide con ordinanza fissa direttamente l’udienza successiva. La dottrina ritiene che il procedimento possessorio si struttura in un’unica fase sommaria, mentre la cassazione ritiene che il procedimento in questione è caratterizzato anche da una seconda fase a cognizione piena. Nell’art.703 c.p.c. vi è un problema che riguarda il c.d. rinvio, infatti c’è chi ritiene che a causa del rinvio in questione si abbia un procedimento cautelare. Invece un’altra tesi ha negato che il procedimento possessorio abbia natura cautelare in quanto non viene richiamato nell’art.669-quaterdecies c.p.c. e perché tale procedimento non ha carattere strumentale rispetto all’accertamento della proprietà (in funzione del fatto che il possesso è solo una situazione di fatto). In conclusione possiamo dire che nel procedimento possessorio ci sono dei punti di contatto con il procedimento cautelare , questo per la presenza del ricorso, dell’ordinanza (e quindi della cognizione sommaria) e della possibilità di essere reclamato; tuttavia questi procedimenti non sono uguali (perché nei procedimenti possessori si giudica il possesso e non la proprietà, quindi vi è l’assenza di strumentalità che invece è tipica dei procedimenti cautelari).

Procedimenti in camera di consiglio Questi procedimenti si riferiscono a situazioni in cui non c’è un vero e proprio contenzioso, ma deve essere gestito un negozio (per esempio la gestione dei beni del minore o la convocazione dell’assemblea in mancanza dell’accordo). L’attività in questione (di gestione del negozio) il legislatore la affida al giudice che procede in camera di consiglio (la camera di consiglio non è pubblica e deve intervenire obbligatoriamente il p.m.). Gli artt.737 c.p.c. e seguenti prevedono che la domanda venga proposta con ricorso al tribunale che procede in composizione collegiale; viene nominato un relatore ed il giudice dopo aver assunto sommarie informazioni decide con decreto motivato (perché ha portata decisoria). Il legislatore non dice altro (sulla convocazione, sui tempi, sulle prove). Il decreto può essere reclamato davanti alla corte d’appello entro 10 giorni dalla comunicazione. La corte d’appello decide con decreto non impugnabile (il decreto in generale è sempre modificabile o revocabile quindi non c’è il fenomeno della cosa giudicata). Gli aspetti di tale procedimento, quindi, sono:

- la semplicità della forma; - la celerità.Viste queste caratteristiche il legislatore ha iniziato ad inserire i procedimenti in camera di consiglio anche per alcuni diritti (potestà sui figli ed adattabilità). Successivamente il procedimento in questione è stato ipotizzato per il fallimento, ma non offrendo sufficienti garanzie per quanto riguarda i diritti delle parti la dottrina in proposito ha sollevato dei dubbi, soprattutto circa l’art.111 Cost. dove si afferma che il giusto processo deve essere regolato dalla legge e non dal giudice. La Corte costituzionale ha detto che questo procedimento può essere utilizzato in materia di diritti purché vengano rispettate le c.d. garanzie minime, cioè il contraddittorio, il sistema di prove ed il sistema di impugnazioni.