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Ripensare l'economia: se la crisi finanziaria diventa crisi d'identitàVenerdì 01 Aprile 2016 17:56

di Alberto Battaglia da MicroMega del 25/3/2016 - A distanza di anni dalla peggiore crisi dal1929 non è ancora chiaro se le massicce contromisure messe in atto per risollevare l'economiaglobale abbiano centrato l'obiettivo o siano solo servite a prendere tempo. “La politicamonetaria da sola non riesce a promuovere una crescita bilanciata”, si legge nella dichiarazionefinale del G20 di Shanghai, teatro nel quale lo scorso febbraio le grandi potenze si sono riuniteper coordinare le proprie mosse di politica economica a fronte del rallentamento dell'economia.Lo sforzo collettivo dovrebbe promuovere “l’uso flessibile della politica fiscale per rafforzare lacrescita, l’occupazione e la fiducia”. A prima vista sembrano le consuete dichiarazioni d'intenti,ma le tonalità, rispetto al passato, stanno cambiando in modo sostanziale. Lo sviluppo degliultimi anni, infatti, è stato segnato da una serie ritornelli che non sono mai usciti dall'attualità deldibattito pubblico: quantitative easing, riforme, austerità. Ad essi si è aggiunto, in tempi piùrecenti, un altro termine che appariva ormai desueto: deflazione. Otto anni dopo l'inizio dellaGrande Recessione si discute ancora sul come rivitalizzare un'economia che, forse, non è maiveramente ripartita, soprattutto in Europa. Che la scienza economica abbia mostrato qualchelimite nell'indicare la corretta via d'uscita lo ha riconosciuto anche uno dei più noti studiosi delmodello teorico dominante, quello mainstream.

«Sarebbe stato intellettualmente irresponsabile e politicamente poco saggio, pretendere che lacrisi non cambiasse le nostre visioni riguardo al modo in cui funziona l'economia», scriveva loscorso agosto Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale,nonché autore del più diffuso manuale di macroeconomia, «Perciò, ripensare, o espandere ilimiti dell'economia non è stata una scelta, ma una necessità». Ad interrogarsi sull'efficacia deimodelli economici comunemente insegnati oggi non è solo il più studiato fra i suoi fautori: anchemoltissimi studenti, da alcuni anni, si stanno organizzando per riformare l'insegnamento diquesta materia. Rethinking economics è un elemento importante di questa virata culturale, figliadella generazione cresciuta al suono dei leitmotiv del 2008. Dopo la prima favilla baluginata nelRegno Unito, il network studentesco si è diffuso nelle università di numerosi paesi del mondo,con un obiettivo primario: restaurare il pluralismo nell'insegnamento dell'economia.

«Il genere di pluralismo che promuove Rethinking economics è triplice: teorico, metodologico einterdisciplinare. Il fine ultimo è quello di modificare i curriculum universitari; in qualche caso ègià avvenuto, anche se non in Italia», dice Nicolò Fraccaroli, cofondatore del gruppo italiano diRethinking economics. Nicolò non è nuovo agli interessamenti da parte dei media: già due annifa, quando il network era ai nastri di partenza nel nostro Paese, era stato raggiunto dalFinancial Times. Un tempo data per scontata, la dialettica fra diverse scuole del pensieroeconomico si è ormai diradata, se non completamente dissolta, in favore dell'approcciomainstream. Fraccaroli tiene a precisarlo: reintrodurre tale dialettica non significa altro cheripristinare una dignità paritaria ad altre scuole, come quella austriaca, post-keynesiana,behaviorista, o marxista. La realtà attuale, al contrario, vede il percorso universitario dellostudente di economia spesso carente di stimoli storici, anche negli esami opzionali.

Il bisogno d'interpretare la realtà al di fuori dal modello mainstream, però, non è solo culturale:per gli studenti di Rethinking economics la sete di pluralismo è cresciuta assiemeall'insoddisfazione nel vedere insufficiente corrispondenza fra i teoremi dei libri di testo e gli

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accadimenti di questi anni. «Un punto che spinge gli studenti a criticare il mainstream provienedalla storia: nell'immediato, la crisi del '29 venne affrontata nello stesso modo della crisi del2008», afferma Enrico Turco, coordinatore di Rethinking economics dell'università Cattolica diMilano, «allora gli economisti erano convinti che attraverso la riduzione dei tassi d'interesse edei salari gli investimenti sarebbero ripartiti. Ma ciò non si è verificato». Pochi giorni dopo ilnostro colloquio, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, allargavaulteriormente il piano di politica monetaria espansiva e il taglio dei tassi, nel tentativo discongiurare il rischio-deflazione nell'Eurozona con la stessa arma che inizialmente è servita afar rientrare gli spread dei debiti sovrani. «C'è un punto fallace nella chiave di lettura di ora e diallora», prosegue Enrico, «è il legame fra tasso d'interesse e investimenti». Per gli economistimainstream rendere meno caro il credito è un incentivo in sé sufficiente per la ripresa delladomanda di denaro per gli investimenti. Ma, ricorda Enrico, in tempi di crisi le aspettative diprofitti futuri da parte delle imprese diminuiscono indipendentemente, o quasi, dal costo deldenaro; col risultato che l'economia stenta a ripartire anche coi tassi d'interesse sottozero.Questa, del resto, era la tesi che John Maynard Keynes, uno degli economisti di sicuro piùapprezzati nell'ambiente di Rethinking, propugnava durante la Grande Depressione.

Non è un caso che l'Economist, per descrivere l'attuale situazione d'incertezza internazionale,che ha pesantemente colpito le borse quest'anno, abbia parlato di banche centrali “a corto dimunizioni”: nonostante gli sforzi «le riprese sono ancora deboli e l'inflazione è bassa». Perquesto, una delle proposte risolutive citate dal newspaper britannico ribalta il corrente modellodi svalutazione salariale: ovvero l'idea di «generare aumenti delle retribuzioni su tutta la linea,magari usando incentivi fiscali, per indurre la spirale salari-prezzi che negli anni Settanta i policymakers cercavano di evitare». Se si andasse davvero in questa direzione il cambio di modelloeconomico sarebbe radicale. Per comprenderlo è sufficiente una breve digressione.

La teoria mainstream, spiega il professor Enrico Bellino, ordinario di economia politica pressol'università Cattolica, applica a quello del lavoro lo stesso criterio valido in altri mercati: se ilprezzo è quello di equilibrio, la domanda incontra sempre l'offerta; il salario, in questaprospettiva, è «il prezzo che rende compatibili la domanda e l'offerta di lavoro». Più il lavoro èflessibile, più è facile che la disoccupazione diminuisca attraverso un aggiustamento verso ilbasso dei salari. I continui richiami alla flessibilizzazione del lavoro, segue tacitamente questomodello. Un approccio che non soddisfa il professore, che si definisce di scuola ricardiana epost-keynesiana. «Il pezzo teorico che l'impostazione neoclassica non riesce a vedere»,argomenta Bellino, «è che il salario nel breve periodo può essere, sì, visto come il compensodel lavoro, ma è al tempo stesso il reddito dal quale le famiglie traggono il potere d'acquisto peresprimere la domanda dei beni». Quella stessa domanda che, ultimamente, è diventata unadelle priorità nell'agenda suggerita dal Fmi in vista del summit delle principali economieindustrializzate a Shanghai. Se dall'ultimo G20 qualcosa di nuovo è emerso, infatti, ciò è propriola ritrovata enfasi sulle “misure dal lato della domanda”, messe da tempo fra parentesi tantodalla politica e quanto dalla teoria economica dominante.

Il fermento di Rethinking economics è sicuramente il prodotto di una gioventù che non siaccontenta, pur con diverse sfumature interne, di un pensiero eccessivamente unilaterale.Un'esigenza sentita anche in realtà come quella dell'università Bocconi, dalla quale sono uscitele menti più fulgide del pensiero economico ortodosso, come Alberto Alesina o lo stesso Mario

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Monti che, nel 2011, ha portato la “tecnica” alla guida del Paese. Lo scorso 8 marzo, infatti,Rethinking Bocconi ha dato vita al suo primo incontro aperto agli studenti. A essere discussa èstata la forte matematizzazione della materia, che ha penalizzato l'apertura verso una mentalitàcritica. «L'economia è da sempre plurale al suo interno e così andrebbe presentata», chiosacon fermezza Enrico Turco, «perché, come diceva Joan Robinson, si studia economia proprioper non farsi fregare dagli economisti».

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