Download - Interazioni Tra Sonno, Ritmi Circadiani e La Malattia Di Alzheimer, Ruolo Dell'Orexina e Melatonina
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Indice
Introduzionepag. 2
Capitolo 1: Panoramica sulla malattia di Alzheimer, patogenesi e ruolo della proteina A,
sintomatologia, diagnostica e terapia...pag. 3
-ruolo della proteina beta-amiloide (A) nella patogenesi di AD...pag. 3
-fasi precliniche della malattia di Alzheimer.......pag. 4
-sintomatologiapag. 6
-strumentazioni disponibili per la diagnostica.pag. 9
-terapie farmacologiche e cognitivo-comportamentalipag. 12
capitolo 2: fisologia del sonno, ritmi circadiani , ruolo dellorexina e melatonina nel ciclo veglia-
sonno e relazioni con Apag. 14
-fisiologia del sonno ................................pag. 14
-il ruolo dellorexina nella veglia pag. 15
-ritmi circadiani e ruolo della melatonina ...pag. 17
-effetti della melatonina su A interazioni con lorexina ....pag. 19
-regolazione della proteina beta-amiloide (A) tramite comportamento veglia-sonno
..pag. 20
Capitolo 3: disturbi del sonno in relazione col morbo di Alzheimer e alterazione dei ritmi
circadiani.pag. 30
-alterazioni dellarchitettura del sonno ....pag. 31
-fisiologia del sonno in corso di AD.....pag. 31
-alterazione dei ritmi circadiani e della produzione di melatonina in pazienti con AD..
..pag. 33
-disturbi primari del sonno presenti con...pag. 36
-classificazione e diagnostica dei disturbi del sonno in AD.pag. 37
-trattamenti farmacologicipag. 38
-terapie cognitivo-comportamentali e fisiologiche per la cura dei disordini circadiani..
..pag. 40
conclusionipag. 43
riferimenti bibliografici..pag. 44
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Introduzione
Nel 2014 si calcolato come i costi di cura e mantenimento dei malatti di Alzheimer si ammontato a
604 miliardi (in dollari americani), questi costi sono stati stimati come l1% del PIL mondiale, la
maggior parte di questi costi (42%) sostenuto dalle famiglie e non rimborsabile, mentre i costi
gravanti sulla sanit ammontano solamente al 16% del totale, sebbene non siano la maggior percentuale
essi sono in rapida crescita, una stima ha concluso come dovrebbero aumentare dell85% dal 2014 al
2030.
Queste stime vanno intese per difetto, in quanto solamente il 6% della popolazione di malati di
Alzheimer risiede attualmente in strutture sanitarie di cura, questo rende difficile stimare il fenomeno
nella sua interezza.
Un altro fattore aggravante e preoccupante come ancora non si sia giunti a conoscere esattamente le
cause eziologiche della malattia, la diagnostica non pu quindi essere certa ma solo probabile, i sintomi
dellAlzheimer si sovrappongono in grande parte con quelli d altre demenze, e, infine, ad ora i metodi
terapeutici impiegati e conosciuti sono in fase sperimentale numerose ricerche vengono condotte
poich non si conosce realmente e in maniera certa come intervenire sul morbo (Prince et al., 2014).
Partendo da questi dati si comprende come LAlzheimer stia diventando, e sia gi, una pandemia, un
problema molto serio legato a una popolazione che mediamente ha unaspettativa di vita sempre pi
alta, questa malattia colpisce in maniera conclamata solamente persone che abbiano pi di 59 anni,
sebbene, come verr di sotto illustrato, il processo degenerativo possa iniziare sin da prima e in maniera
subdola (Prince et al., 2014).
Vista questa diffusione su scala cos ampia ho pensato di dedicare una trattazione al problema
dellAlzheimer, in modo da dare un quadro informativo sintetico e globale, verranno trattate anche le
relazioni di tale malattia con i disturbi del sonno, questo seguendo numerose ricerche che evidenziano
relazioni tra questi due ambiti.
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Lalzheimer una malattia della quale leziologia resta tuttora ignota, non p stato perci possibile
sviluppare ad oggi metodi di cura certi, verr comunque svolta una breve trattazione delle terapie ad
oggi pi in uso e gli studi svolti sulla loro efficacia.
Capitolo 1: Panoramica sulla malattia di Alzheimer;
patogenesi e ruolo della proteina A, sintomatologia,
diagnostica e terapia.
La malattia di Alzheimer, anche detto morbo di alzheimer dal nome dello psichiatra e neuropatologo
tedesco Alois Alzheimer che per primo la identific nel 1906, secondo una stima del 2007 vi erano
26,6 milioni di malati in tutto il mondo, si stima che affligger una persona su 85 a livello mondiale
entro il 2050 ( Prince et al. 2014 ).
Sebbene il fattore principale sottostante allinsorgenza della malattia sia let, stato visto come la
progressione delle disfunzioni cognitive, caratteristiche della patologia, sia dovuto a fattori sia genetici
che ambientali che interagiscono col AD (Alzheimer Desease) stesso (Prince et al., 2014).
La deposizione della proteina beta-amiloide (A) tra in neuroni, agisce come una sorta di collante,
formando placche solubili, questo un processo chiave nella patogenesi di AD che viene associato con
laggregazione della proteina tua in ammassi fibrillari a livello citoplasmatico cellulare, avvolgendone
poi il nucleo, alle disfunzioni sinaptiche, la perdita neuronale e il decadimento cognitivo (Hardy e
Selkoe., 2002; Jack et al., 2010).
Ruolo della proteina beta-amiloide (A) nella patogenesi di AD:
Depositi di A in forma di fibrille amiloidi sono largamente diffusi in corso di AD, per la maggior
parte esse si trovano negli spazi extracellulari tra neuroni, ma sono anche presenti nei vasi sanguigni
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meningei, questo accumulo di placche innesca un processo reattivo infiammatorio mediato
da astrociti e microglia, attivando una risposta immunitaria richiamando macrofagi e neutrofili, i quali
produrranno citochine, interleuchine e TNF -alfa che danneggiano irreversibilmente i neuroni.(
Pappolla et al., 1999 ).
Diversi studi hanno confermato come le placche amiloidi siano la causa della neurodegenerazione
neuronale che avviene in AD, studi genetici hanno identificato diverse mutazioni nel gene APP, queste
mutazioni coincidono con quelle che presentano un gruppo di soggetti affetti da una forma familiare di
AD, altri studi hanno confermato la neurotossicit di A, e infine stato appurato come la deposizione
di amiloide preceda sempre i cambiamenti a livello fibrillare (Pappolla et al., 1999).
Il peptide A prodotto per la maggior parte nel cervello, questo avviene quando la proteina chiamata
APP (Amyloid Precursor Protein) viene scissa dagli enzimi - e - secretasi in differenti isoformi con
diversa lunghezza della catena aminoacidica ( Strooper et al., 2010).
Pi nel dettaglio, la -secretasi taglia la parte finale del peptide A per formare tre tipologie isoformi:
A38, A40 e A42. Queste sono poi rilasciate nel liquido interstiziale (ISF) tramite esocitosi delle
vescicole sinpatiche, un processo controllato dallattivit sinpatica (Braak e Braak., 1991).
Il contributo alla formazione delle placche amiloidi dovuto agli isoformi di A pu variare, ad ora si
sono per riscontrate propriet particolari di alcuni di essi, laddove A40 prodotto in concentrazioni
maggiori, cos A42 pi idrofobico, neurotossico e tendente allaggregazione.
Ulteriori studi hanno scoperto come laggregazione di A in placche sia concentrazione-dipendente,
ovvero, allaumentare del quantitativo di A presente a livello extracellulare cos aumenta anche la sua
tendenza ad aggregarsi in placche (Braak e Braak., 1991).
S anche visto come le alterazioni neuropatologiche causate dalle placche amiloidi extracellulari, cos
come gli accumuli fibrillari intracellulari, sembrino accumularsi procedendo secondo una sequenza
anatomica definita: prima nella corteccia entorinale, poi nellippocampo e infine nel lobo mediale
temporale (Braak e Braak, 1991).
La comprensione dei processi patogenetici riguardanti la proteina amiloide ancora incompleta,
attualmente si pensa che tutto inizi con processi malfunzionanti nella formazione di APP o alterazioni
nello smaltimento metabolico di A, tuttavia sono solo ipotesi, ancora non si sa se il peptide A che
verr successivamente incorporato nelle placche derivi realmente da un processo di produzione
anormale .
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Lunica ipotesi generalmente accettata che alla base della formazione fibrillare vi sia un cambiamento
strutturale di A, la formazione dei cosiddetti foglietti- (sequenza peptidica di aminoacidi che si
dispone linearmente ed in grado di formare legami ad idrogeno) (Braak e Braal., 1991).
Fasi precliniche della malattia di Alzheimer
Alcuni soggetti affetti dai processi fisiopatologici del morbo di Alzheimer non diventano mai
sintomatologici, questa scoperta ha portato a una ricerca verso una migliore definizione dei
biomarcatori e dei profili cognitivi che possano meglio predire la progressione della patologia AD dagli
stadi preclinici e asintomaticie quelli conclamati e clinici (Sparlin et al., 2011).
Al momento, il rischio medio di sviluppare la patologia AD per una persona di 65 anni intorno al
10,5%, studi recenti suggeriscono che controlli con strumenti provvisti di marcatori specifici per i
processi patofisiologici in AD potrebbero aiutare la diagnostica in fase preclinica e ritardare la
progressione della malattia fino al 50%, riducendo cos il rischio di arrivare alle fasi conclamate di AD
al 5,7% (Sparlin et al., 2011).
Infatti studi con modelli animali hanno evidenziato come terapie mirate alla modifica o prevenzione dei
processi di accumulo delle placche abbiano efficacia alquanto limitata una volta che il processo
neurodegenerativo sia gi in atto, da qui la necessit di cercare strumenti per agire sulle fasi precoci, le
fasi presintomatiche e precliniche dove AD pu essere trattato in maniera ottimal (McKhann et al.,
2011 ).
Varie ricerche hanno inoltre scoperto come, tra linizio delle deposizioni anomale di amiloide e i primi
sintomi di declino cognitivo possano intercorrere anche pi di dieci anni (McKhann et al., 2011).
Le ricerche si sono concentrate sul fatto che laccumulo di A potrebbe essere un fattore necessario ma
non sufficiente per produrre manifestazioni cliniche, possibile che queste manifestazioni si producano
solo se a tale accumulo si sommano altri fattori concorrenti quali: disfunzioni sinaptiche,
neurodegenerazione, perdita neuronale e accumuli di filamenti elicoidali intracellulari, il tutto insieme
alla conpresenza di problematiche cognitive legate allet dei soggetti (Sparlin et al., 2011).
Questi studi hanno proposto un modello che spieghi come mai alcuni soggetti dalle fasi precliniche non
arrivino mai alla patologia conclamata mentre altri s, questo stato riscontrato anche da reperti
autoptici che non corrispondono, nel grado di degenerazione istologica riscontrata, al grado di
funzionamento cognitivo che era stato valutato sui soggetti ancora in vita.
Da qui nato il concetto di riserva sia cognitiva che cerebrale (anatomico) che corrisponde alla
capacit del cervello di tollerare insulti e processi patologici senza darne un corrispondente riscorntro a
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livello sintomatologico, ci pu essere dovuto a molti fattori, sia anatomici, come maggiore densit
sinaptica, sia sociali, come ad esempio il coinvolgimento in attivit cognitive stimolanti (Sparlin et al.,
2011).
Diverse ricerche hanno anche provato ad elaborare una scala di indicatori preclinici suggerenti processi
fisiopatologici in corso, che potrebbero poi eventualmente sfociare nella patologia AD.
Questi indicatori sono una triade, che comprende biomarker positivi per laccumulo di A negli spazi
extracellulari, insieme a inizi di processi neurodegenerativi e segni subdoli di declino cognitivo
(McKhann et al., 2011).
Sintomatologia
La malattia accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello (si tratta di
un neurotrasmettitore, ovvero di una molecola fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e
dunque per la memoria e ogni altra facolt intellettiva). La conseguenza di queste modificazioni
cerebrali l'impossibilit per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi, e quindi la morte dello
stesso, con conseguente atrofia progressiva del cervello nel suo complesso.
A livello neurologico macroscopico la mallatia caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel
volume del cervello, dovuta ad atrofia corticale, visibile anche in un allargamento dei solchi cerebrali e
corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni.
In particolare, l'ippocampo una struttura encefalica che svolge un ruolo fondamentale
nell'apprendimento e nei processi di memorizzazione; perci la distruzione dei neuroni di queste zone
ritenuta essere la causa principale della perdita di memoria dei malati.
Il decorso della malattia pu essere diverso, nei tempi e nelle modalit sintomatologiche, per ogni
singolo paziente; esistono comunque una serie di sintomi comuni che si trovano frequentemente
associati nelle varie fasi con cui, clinicamente, si suddivide per convenzione il decorso della malattia. A
una prima fase lieve, fa seguito la fase intermedia, e quindi la fase avanzata/severa; il tempo di
permanenza in ciascuna di queste fasi variabile da soggetto a soggetto, e pu in certi casi durare
anche diversi anni (Smallet al., 1997 ).
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Fasi della malattia di Alzheimer
-Effetti del normale invecchiamento sulla memoria ma senza AD
dimenticanze occasionali
distrazioni
-Primo stadio AD
perdite di memoria a brevet ermine
lievi cambiamenti comportamentali e cognitive
-Stadio intermedio AD
difficolt a ricordare informazioni acquisite recentemente
maggiore aggressivit o passivit
stadi confusionali ripetuti
possibili perdite di autoconsapevolezza
-Stadio avanzato di AD
difficolt di parola
debilitanti deficit cognitive
atteggiamenti ansiosi, violenti o paranoici
La malattia viene spesso anticipata dal cosiddetto mild cognitive impairment (MCI), un leggero calo di
prestazioni in diverse funzioni cognitive, in particolare legate alla memoria, all'orientamento o alle
capacit verbali. Tale calo cognitivo, che comunque frequente nella popolazione anziana, non
necessariamente indicativo di demenza incipiente.
La malattia caratterizzata dai deficit cognitive di tipo mnemonico, il deficit di memoria prima
circoscritto a sporadici episodi nella vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-
going memory (ricordarsi cosa si mangiato a pranzo, cosa si fatto durante il giorno) e della memoria
prospettica (che riguarda l'organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare a un
appuntamento); poi man mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la
memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la
memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda
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l'esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi intermedio-avanzate
della malattia (Small et al., 1997 ).
A partire dalle fasi lievi e intermedie possono poi manifestarsi crescenti difficolt di produzione del
linguaggio, con incapacit nella definizione di nomi di persone od oggetti, difficolt nel ricordare e
produrrele parole, seguiti poi nelle fasi pi avanzate da disorganizzazione nella produzione di frasi e
uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui significati delle parole, neologismi, ecc.). Sempre
nelle fasi lievi-intermedie, la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di documenti,
attivit lavorative di concetto, gestione del denaro, guida dell'automobile, cucinare, ecc.) cominciano a
diventare progressivamente pi impegnative e difficili, fino a richiedere assistenza continuativa o
divenire impossibili.
Nelle fasi intermedie e avanzate, inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali
(vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni comportamentali incoerenti) o
psichiatriche (confusione, ansia, depressione e occasionalmente deliri e allucinazioni). I disturbi
psichiatrici possono andare da lievi turbe comportamentali, a stati confusionali prolungati, con annessi
stati depressivi o ansiosi totalmente incontrollabili dal paziente, fino, nei casi pi estremi, a mostrare
quadri francamente psicotici con perdita dellesame di realt e stati allucinatori simil-schizofrenici. Il
disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero la mancata o confusa consapevolezza
di dove si situati nel tempo, nei luoghi e/o nelle identit personali, proprie o di altri - comprese le
difficolt di riconoscimento degli altri significativi) sintomo frequente a partire dalle fasi intermedie-
avanzate, con aggiunta di difficolt progressive anche nella cura della persona ( Tatsch et al., 2006 ).
Ai deficit cognitivi e comportamentali, nelle fasi pi avanzate si aggiungono infine complicanze
mediche internistiche, che portano a una compromissione progressiva della salute. Una persona colpita
dalla malattia pu vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi clinica di malattia conclamata.
Come sottolineato, col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma
risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa, e possono pertanto
presentare afasia e aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici; pertanto i pazienti,
nelle fasi intermedie e avanzate, necessitano di continua assistenza personale, solitamente erogata da
familiari e badanti, detti caregiver, che sono a loro volta sottoposti ai forti stress tipici di chi assiste i
malati di Alzheimer (Tatsch et al., 2006).
Ecco un elenco schematico ed esasustivo delle maggiori indicazioni sintomatologiche, questi sintomi
presi singolarmente possono essere aspecifici, tuttavia se riscontrati insieme possono essere utili indizi
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per condurre il clinico a inserirli in un quadro sindromico degenerative pi generale, le indagini
strumentali indirizzeranno poi la diagnosi in maniera definitiva.
-Sintomatologia riassuntiva del morbo di Alzheimer (Dubois et al., 2007)
amnesia anterograda: incapacit dell'individuo affetto da morbo di Alzheimer di ricordare eventi
recenti, mentre i malati tendono a mantenere un buon ricordo delle vicende passate;
aprassia: si riferisce all'incapacit di compiere azioni comuni come ad esempio fischiettare, preparare il
caff, cucinare e altro ancora;
agnosia: incapacit di riconoscere cose prima note;
anomia: incapacit a nominare un oggetto pur riconoscendolo;
disorientamento spazio-temporale: accade quando l'individuo malato di Alzheimer non pi in grado
di rispondere a domande come ad esempio "che giorno oggi", "in che mese siamo", "dove ci troviamo
ora";
acalculia: perdita delle capacit di compiere semplici operazioni matematiche;
agrafia: il soggetto ha difficolt di scrittura;
deficit intellettivi: peggioramento delle capacit di ragionamento, giudizio e pianificazione;
cambiamenti nel tono dell'umore
Strumentazioni disponibili per la diagnostica :
La malattia di Alzheimer di solito diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da osservazioni
cliniche, dalla presenza di particolari caratteristiche neurologiche e neuropsicologiche e per l'assenza di
condizioni patologiche alternative.
Sistemi avanzati di imaging biomedico, come tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica
(MRI) la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) o la tomografia a emissione di positroni
(PET) possono essere utilizzate per aiutare a escludere altre patologie cerebrali o altri tipi di
demenza. Inoltre, si possono prevedere il passaggio da fasi prodromiche alla malattia di Alzheimer, Se
sono disponibili, la tomografia a emissione di fotone singolo e la tomografia a emissione di positroni,
possono essere utilizzati per la conferma di una diagnosi di Alzheimer in associazione con le
valutazioni dello stato mentale .In una persona gi affetta da demenza, la SPECT sembra essere
superiore nel differenziare la malattia di Alzheimer da altre possibili cause, rispetto all'analisi della
storia familiare e all'osservazione del paziente I progressi hanno portato alla proposta di nuovi criteri
diagnostici di imaging biomedico. (Mira et al., 1993).
Tecnica PiB-PET (Pazzaglia P., 2008)
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Una nuova tecnica nota come PiB-PET stata sviluppata per visualizzare direttamente e chiaramente
immagini di depositi di beta-amiloide in vivo, utilizzando un radiotracciante che si lega selettivamente
ai depositi A-beta.
La PiB-PET utilizza il carbonio-11 per la scansione PET. Studi recenti suggeriscono che la PiB-PET
precisa all'86% nel predire quali persone, gi affette da decadimento cognitivo lieve, svilupperanno la
malattia di Alzheimer entro due anni, e al 92% in grado di escludere la probabilit di sviluppare il
malattia di Alzheimer.
Un radiofarmaco per PET chiamato 18F AV-45, o florbetapir-fluorine-18, o semplicemente florbetapir,
contenente il pi duraturo radionuclide fluoro-18, stato recentemente realizzato e testato come
possibile supporto diagnostico nella malattia di Alzheimer. Il florbetapil, come il PiB, si lega alla
proteina beta-amiloide, ma grazie all'uso del fluoro-18 ha una emivita di 110 minuti, in rapporto
al tempo di dimezzamento radioattivo PiB che di 20 minuti. La maggior durata permette di
accumulare maggior tracciante nel cervello di persone con malattia di Alzheimer, in particolare nelle
regioni note per essere associate a depositi di beta-amiloide.
La risonanza magnetica volumetrica in grado di rilevare cambiamenti nella dimensione delle regioni
del cervello. L'atrofia di queste regioni si sta mostrando come un indicatore diagnostico della malattia.
Essa pu risultare meno costosa di altre tecniche di imaging attualmente in fase di studio.
Ad oggi non esitono ancora sintomi che possano essere definiti patognomonici, ovvero che se presenti
sono certezza della malattia, ma esistono costellazioni di sintomi simili per quasi tutte le demenze oggi
conosciute, si deve quindi integrare la sintomatologia dellesame obiettivo con le dovute analisi
strumentali e referti istopatologici prima di poter azzardare la diagnosi clinica che viene comunque
confermata a livello patologico solo con l'analisi istologica del cervello post-mortem.
Lo statunitense National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINCDS) e l'Associazione dei
Malati di Alzheimer ha istituito il criterio diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984 (McKhann et al.,
1984). Questo criterio richiede che la presenza di deficit cognitivi e una sospetta sindrome di demenza
debbano essere confermati da test neuropsicologici per porre la diagnosi clinica di Alzheimer. Una
conferma istopatologica, tra cui un esame al microscopio del tessuto cerebrale (eseguibile solo post-
mortem) necessaria per una conferma della diagnosi definitiva a posteriori.
Sono otto gli ambiti funzionali cognitivi pi comunemente compromessi: memoria, linguaggio, abilit
percettiva, attenzione, abilit costruttiva, orientamento, risoluzione dei problemi e capacit funzionali.
Questi ambiti cognitivi sono equivalenti ai criteri della NINCDS ADRDA, come elencati
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nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV-TR) pubblicato dalla American
Psychiatric Association.
Diversi test di screening neuropsicologico vengono utilizzati per la diagnostica nei casi di Alzheimer. i
test valutano diverse funzioni e competenze cognitive, come il saper copiare disegni simili a quelli
mostrati nella foto, ricordare parole, leggere e sottrarre numeri in serie.
Test neuropsicologici come il Mini Mental State Examination (MMSE) o come il Recognition Memory
for Words or Faces (RMW/RMF), sono ampiamente utilizzati per valutare i disturbi cognitivi che
vengono considerati per la formulazione della diagnosi. Una batteria di test pi completa necessaria
per garantire la massima affidabilit dei risultati, in particolare nelle prime fasi della malattia, lesame
neuropsicologico deve vertere ad esaminare tutte le funzioni cognitive, per avere unidea esaustiva di
cosa sia stato danneggiato e quindi poter proprorre unipotesi pi esatta dello stato della malattia,
importante anche lesame della prassia del paziente, per svelare eventuali problematiche sottese di
tipo neuropsicologico quali: adiadococinesia, ecoprassia o perseverazione motoria (Tierney et al.,
2005).
Oltre allesame neuropsicologico si deve procedere all'esame neurologico, il quale per, nelle prime
fasi della malattia solitamente pu trarre in inganno, presentando risultati normali.
Ulteriori esami neurologici sono cruciali nella diagnosi differenziale di Alzheimer dalle altre malattie.
Colloqui con gli altri membri della famiglia sono inoltre utilizzati nella valutazione funzionale della
malattia. I caregiver possono, infatti, fornire importanti informazioni sulla di vita quotidiana, cos come
la diminuzione, nel tempo, della funzione mentale della persona (Tierney et al., 2005).
Il punto di vista di chi assiste il malato particolarmente importante, dato che una persona con
Alzheimer spesso inconsapevole del suo deficit, a volte le famiglie hanno difficolt nella rilevazione
esatta dei primi sintomi di demenza nelle sue fasi iniziali, e per questo non riescono sempre a
comunicare informazioni accurate al medico.
Un altro indicatore oggettivo delle prime fasi della malattia l'analisi del liquido cerebrospinale per la
ricerca di beta-amiloide o di proteine tau. La ricerca di queste proteine in grado di prevedere
l'insorgenza della malattia di Alzheimer con una sensibilit compresa tra il 94% e il 100%. Quando
utilizzata in combinazione con le tecniche di neuroimaging esistenti, i medici sono grado di identificare
i pazienti che stanno gi sviluppando la malattia. Gli esami del liquido cerebrospinale sono disponibili
pi facilmente, a differenza delle tecnologie di neuroimaging pi moderne.
Altri test clinici supplementari forniscono informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche della
malattia, o vengono utilizzati per escludere altre diagnosi. comune eseguire test di
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funzionalit tiroidea, valutare i livelli di vitamina B12, escludere la sifilide, escludere problemi
metabolici (tra cui test per la funzione renale, i livelli di elettroliti e per il diabete), valutare i livelli
di metalli pesanti (ad esempio il piombo e il mercurio), e lanemia. anche necessario escludere la
presenza di sintomatologia psichiatrica, come deliri, disturbi dellumore, disturbi del pensiero di natura
psichiatrica, o pseudodemenze depressive (Wade et al., 1987).
In particolare vengono utilizzati test psicologici per la rilevazione della depressione, dal momento che
la depressione pu essere concomitante con l'Alzheimer, essere un segno precoce di deficit cognitivo, o
esserne addirittura la causa.
Terapie farmacologiche e cognitivo-comportamentali
Per quanto riguarda terapie farmacologiche mirate alla risoluzione o riduzione dei sintomi
neuropsichiatrici e cognitivo-comportamentali dei pazienti con AD ad oggi non si hanno ancora
conferme empiriche, un campo ancora in ampia fase di studio, sono pochi gli studi che hanno trovato
risultati attendibili e significativi (Kaycee et al., 2005).
Kaycee et al. 2005 hanno testato due classi di farmaci, antipsicotici tipici e atipici, per la cura dei
sintomi neuropsichiatrici in AD, hanno trovato come gli antipsicotici tipici mostrino unefficacia quasi
nulla insieme ad un numero di effetti collaterali dannosi molto alto; la classe di antipsicotici atipici
mostra poca efficacia ma produce un ridotto numero di effetti collaterali a bassi dosaggi, purtroppo
aumenta considerevolmente i rischi di ictus.
Brian L. ha condotto una serie di studi per il trattamento farmacologico dei cosiddetti BPSD (
Behavioural and Psychological Symptoms in Dementia), questo acronimo include sia manifestazioni
comportamentali direttamente osservabili quali agitazione e peregrinazione, sia sintomi psicologici
come ansia e depressione; sono stati testati farmaci per la ricaptazione della serotonina ( per
ricaptazione si intende un processo mediante il quale il neurotrasmettitore presente nello spazio
intersinaptico viene riassorbito a livello della membrana presinaptica e cessa il suo effetto). Questi
farmaci mostrano una buona efficacia unitamente a scarsi effetti collaterali soprattutto nella riduzione
di sintomi psicologici e umorali.
Brian L. ha anche effettuato studi sullefficacia di farmaci che inibiscano lenzima colinesterasi
(responsabili della scissione dellacetilcolina in acido acetico e colina, permettendo quindi la
trasmissione degli impulsi nervosi), i risultati mostrano come questi farmaci diminuiscano i sintomi
psicotici, in particolare le allucinazioni.
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Gli studi condotti da Kaycee et al. ,sempre su farmaci inibitori della colinesterasi, confermano una
buona efficacia nel rallentare la progressione di sintomi cognitivi e psicopatologici.
Approcci terapeutici di tipo cognitivo-comportamentale sia con pazienti affetti da AD e altre demenze
sia con pazienti della stessa et ma sani, hanno mostrato nel tempo unottima efficacia nel trattare
soprattutto i disturbi del sonno presenti in queste patologie; lefficacia in pazienti con demenze
ristretta per solo agli stadi precoci o intermedi della malattia, una volta che il soggetto ha raggiunto un
certo grado di compromissione cognitiva questi approcci perdono qualsiasi efficacia. Queste terapie
vengono svolte insegando al paziente a gestire e attuare tutta una serie di tecniche quali: controllo dello
stimolo, restrizione del sonno, rilassamento muscolare progressivo, biofeedback e educazione alligiene
del sonno e intenzioni paradossali (Bliwise et al., 1995).
Nonostante questo limite, si visto come interventi di tipo comportamentale e/o cognitivo possano
migliorare, almeno temporaneamente, la qualit di vita di pazienti affetti da AD, gli interventi pi
efficaci sono quelli che implicano unabituazione della persona alligiene del sonno, se la qualit
effettiva del osnno del paziente migliora allora si nota un miglioramento delle funzioni cognitive che
permette di lavorare sullabituazione a schemi procedurali e sullapprendimento di scorciatoie
cognitive per compensare almeno parzialmente i deficit.
La terapia cognitivo-comportamentale anche utile per aiutare il paziente ad assumere maggiore
controllo e ridurre gli episodi di confusione o le sintomatologie di tipo psichiatrico, questi interventi
psicologici aiutano a gestire ansia, depressione, e umore incontrollato; alcuni pazienti non peggiorano
significamente i loro deficit cognitivi, per coloro che invece mostrano una ocntinua progressione della
malattia, arrivati a un certo livello, quando i deficit cognitivo e il decadimento intellettivo sono troppo
avanzati, meglio insegnare strategie comportamentali di gestione del paziente al caregiver (Brian L.,
2002).
Le terapie comportamentali nonostante la loro comprovata efficacia sono state oggetto di un numero di
studi limitati, ma in tutti emerso come al termine del trattamento la qualit del sonno del paziente
risulti aumentata cos come la latenza del sonno e in generale anche il tempo totale del sonno
incrementato con una netta diminuzione degli episodi di risveglio notturno, questi studi hanno mostrato
come si possa predire in generale un ottimo risultato per i pazienti sani in terapia comportamentale per
disturbi del sonno, sorprendentemente la predizione del risultato resta molto anche anche per pazienti
affetti da demenze (Brian L., 2002).
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Capitolo 2: fisiologia del sonno, ritimi circadiani, ruolo dellorexina e melatonina nel ciclo veglia-sonno e interazioni con A. Il sonno un comportamento ancora poco compreso, non se ne conosce ancora con certezza la
funzione, tuttavia esitono diverse teorie; la teoria del sonno come mezzo di recupero energetico e
consolidamento mnemonico, avvenenti rispettivamente durante le fasi NREM e REM, la teoria della
ocnservazione dellenergia spiega invece come gli uomini, in quanto mammiferi omeotermici abbiano
bisogno del sonno per ridurre lattivit metabolica e preservare energia, vi sono anche teorie riguardanti
lutilit evolutiva del sonno per attrarre meno i predatori e infine la teoria della pulizia, che postula
come il sonno serva al cervello per autoripulirsi, emerso che mentre si dorme il cervello ha un
sofisticato sistema di autopulizia, che sfrutta lespansione in volume di una rete di canali tra i neuroni
che permette al liquido cerebrospinale di scorrervi in misura maggiore. Questo processo permette di
smaltire prodotti di scarto come le proteine beta-amiloidi e avviene con maggiore efficienza durante il
sonno, con una diminuzione delle dimensioni delle cellule fino al 60 per cento, che lascia pi spazio ai
canali. Questo risultato suggerisce che l'effetto ristoratore del sonno sia legato almeno in parte a questo
meccanismo di smaltimento dei prodotti di scarto del metabolismo, con potenziali implicazioni per la il
mantenimento della funzionalit cerebrale.
Ad oggi queste rimangono ancora teorie non empiricamente provate, ci che si sa per certo come un
essere umano, se sottoposto a periodi di deprivazione di sonno mostri molte anomalie funzionali quali:
abbassamento dei livelli del sistema immunitario, minore reattivit muscolare, maggior aritimia nel
battito e rischio di problem cardiaci, I sintomi pi evidenti compaiono per a livello cerebrale con
presenza di irritabilit, confusion, calo delle prestazioni cognitive fino a sintomi allucinatori e simil-
ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) (Druker-Colin R. 1979).
Fisiologia del sonno
Il sonno uno stato fisiologico complesso, caratterizzato da coscienza ridotta o assente, da unattivit
sensoriale sospesa e inattivit della quasi totalit dei muscoli volontari.
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Il sonno e la veglia sono due comportamenti complementari e collegati, se avviene luno non pu
esserci anche laltro in un dato momento, alla base della loro alternanza e regolazione stanno una serie
di intricate meccanismi cerebrali, I quali possono essere riassunti in due vie; una per generare il sonno e
una per generare la veglia (Slats et al., 2013).
Lo stato di veglia generato da un circuito chiamato Ascending Arousal System (AAS), questo
ocnsiste in un gran numero di cellule monoaminergiche localizzate nelle formazioni reticolari del
tronco cerebrale, nellipotalamo e nel proencefalo basale.
I meccanismi attivi durante il sonno invece, vengono attivati in buona parte dal nucleo preottico
ventrolaterale (VLPO) dellipotalamo.
I sistemi della veglia e del sonno non lavorano separatamente, hanno anzi numerose reti inibitrici che si
influenzano reciprocamente, questa interazione risulta in un sistema detto flip-flop dove si passa
rapidamente da uno stato allaltro in maniera estremamente rapida, senza stati intermedi.
Un possibile mediatore di questo meccanismo stato individuate nel neuropeptide orexina, I neuroni
che lo producono hanno ampie proiezioni verso tutto CNS (Central Nervous System), con un alto
numero sul totale delle proiezioni diretto verso I meccanismi regolatori della veglia, come ad esempio
AAS (Slats et al., 2013).
Il ruolo dellOrexina nella veglia
stato visto che iniezioni a livello ICV (IntroCerebralVascular) di orexina tipo A e tipo B nei ratti, se
effettuate durante il periodo di luce, che per loro lequivalente del periodo notturno per gli umani,
aumenta il tempo della veglia e diminuisce il sonno REM e NREM.
I neuroni orexinici originano nellipotalamo e sono localizzati quasi esclusivamente nellLHA (Later
Hypotalamic Area) e nel nel talamo posteriore. Questi neuroni sono di dimensioni e forma variabili, si
pensa che il loro numero sia intorno ai 3.000 nel cervello dei ratti e 7.000 in quello umano.
Dalle regioni sopra menzionate i neuroni orexinici proiettano ampiamente allintero neurasse,
escludendo il cervelletto. Evidenziando con dei marcatori stato visto come le i cricuiti di questi
neuroni orexinici proiettino molto verso il nucleo paraventricolare del talamo, il nucleo arcuato e nel
locus coeruleus (LC) contenente neuroni noradrenergici, il raphe dorsale (DR) che contiene neuroni
serotoninergici (Sakurai T., 2007).
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I neuroni producenti orexina sono attivi durante la veglia, hanno un influenza eccitatoria sui neuroni dei
nuclei sopracitati, lorexina deputata quindi a sostenere lattivit di detti nuclei.
Alcuni studi hanno indicato come leffetto dellOrexina sulla veglia sia largamente mediato
dallattivazione del sistema istaminergico attraverso i recettori per Orexina tipo 2.
Topi esibenti schemi abnormi nel comportamento sonno-veglia, dovuti a uniperattivit dei neuroni
orexinici, hanno un sonno NREM frammentato durante il periodo di luce e atonia incompleta con
attivit mioclonica anormale durante il sonno REM, questi risultati indicano che i neuroni oressinici
hanno bisogno di essere spenti per mantenere un sonno NREM consolidato e latonia muscolare che
accompagna il sonno REM, ma, devono invece essere attivati durante il periodo di veglia.
A conferma di questa ipotesi stato appurato che usando un marker dellattivit neuronale in neuroni
orexinici nei ratti, si visto che la loro attivit aumenta con il buio, il periodo attivo per i topi, dove lo
stato di veglia dominante. Infatti i livelli di orexina nel liquido cerebrospinale hanno un picco durante
il periodo di buio e decrescono durante il periodo nel quale lo stato di sonno dominante (Slats et al.,
2013).
Mileykovskiy et al. Hanno registrato attivit ortodromiche e antidromiche dei nuclei VTA e LC per
identificare lesatta collocazione dei neuroni orexinici nel cervello dei topi.
Lee et al. Hanno trovato che i neuroni oressinici dei topi scaricano durante la veglia attiva, queste
scariche diminiuscono durante la veglia rilassata, e cessano, almeno virtualmente, durante sia il sonno
REM che NREM. I neuroni oressinici tornano a incrementare le scariche prima della fine del sonno
REM, infatti la loro riattivazione predittiva di un prossimo risveglio, sebbene i numeri delle cellule
esaminate in questi esperimenti siano troppo piccoli per avere un quadro completo dellattivit dei
neuroni oressinici durante il ciclo veglia-sonno, questi studi hanno permesso di avere evidenze pi forti
del fatto che le cellule sono attivate durante la veglia e inibite durante il sonno.
Durante lo stato di veglia i neuroni orexinici mandano segnali eccitatori in direzione dei neuroni
monoaminergici, i quali poi rispondono con feedback inibitorii. Questo sistema potrebbe essere alla
base del mantenimento dello stato di veglia, infatti si visto come nei topi, antagonisti dei recettori
istaminici diminuiscono lo stato di veglia, suggerendo come questo circuito possa essere essenziale per
lespressione dellorexina (Sakurai T., 2007).
Una lieve diminuzione degli input verso i neuroni monoaminergici ha come effetto una ridotta
influenza inibitrice verso i neuroni orexinici. Gli stessi neuroni orexinici risultano quindi meno inibiti e
maggiormente attivi, aumentano quindi linfluenza eccitatoria nei confronti delle cellule
monoaminergiche per mantenere la loro attivazione.
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Queste cellule monoaminergiche a loro volta mandano proiezioni eccitatorie verso il talamo e la
corteccia cerebrale, mandando contemporaneamente proiezioni inibitrici verso il VLPO che un centro
del sonno.
Lo stato di sonno invece, sopravviene quando i neuroni VLPO sono attivati e mandano quindi
proiezioni inibitorie verso i neuroni monoaminergici e oressinici (Slats et al., 2013).
Un esperimento ha mostrato come, se i neuroni oressinici sono rimossi, i neuroni monoaminergici e
VLPO mettono in atto un circuito mutualmente inibitorio il quale pu causare transizioni tra gli stati di
veglia e sonno brusche e involontarie causando di fatto i sintomi della narcolessia. In questo circuito
lattivit in una delle parti spegne gli input inibitori dellaltra, e quindi disinibisce la propria azione,
che non pi regolata dalla controparte, in questo caso si possono avere brusche transizioni dalla
veglia al sonno e viceversa, questo genere di cose accade ad esempio nel disturbo di
narcolessia/cataplessia, dove a causa di una disfunzione oressinica episodi improvvisi di sonno si
inseriscono durante la veglia della persona.
In definitiva, quando lattivit da una parte comincia a sopraffare quella dellaltra, il sistema potr
solamente andare in favore di due possibili estremi, con un meccanismo flip-flop senza passare per
stadi intermedi, poich anche una seppur lieve perturbazione dellequilibrio dar a uno dei due lati un
vantaggio totale quanto veloce e non compensabile, questo porta a comprendere come loressina agisca
sul sistema sonno-veglia come un mediatore, permettendo quindi una transizione pi graduale tra i due
stati e impedendo che luno subentri nellaltro (Sakurai T. 2007).
Ritmi circadiani e funzione della melatonina
In cronobiologia e in cronopsicologia, un ritmo circadiano un ritmo caratterizzato da un periodo di
circa 24 ore. Il termine "circadiano", fu coniato da Franz Halberg, viene dal latino circa diem e
significa appunto "intorno al giorno". Esempi di ritmo circadiano sono il ritmo veglia-sonno, il ritmo di
secrezione del cortisolo e di varie altre sostanze biologiche, il ritmo di variazione della temperatura
corporea e di altri parametri legati al sistema circolatorio. Oltre ai ritmi circadiani sono stati identificati
e studiati vari ritmi circasettimanali, circamensili, circannuali.
I ritmi circadiani dipendono da un sistema circadiano endogeno, una sorta di complesso "orologio
interno" all'organismo che si mantiene sincronizzato con il ciclo naturale del giorno e della notte
mediante stimoli naturali come la luce solare e la temperatura ambientale, ma anche stimoli di natura
sociale, come gli orari dei pasti. In assenza di questi stimoli sincronizzatori (per esempio in esperimenti
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condotti dentro grotte o in appartamenti costruiti apposta) i ritmi continuano ad essere presenti, ma il
loro periodo pu assestarsi su valori diversi, per esempio il ciclo veglia-sonno tende ad allungarsi fino a
36 ore, mentre il ciclo di variazione della temperatura corporea diventa di circa 25 ore (Mitler et al.,
1977 ).
I meccanismi di regolazione circadiana di sonno e veglia sono organizzati tramite un pacemaker
localizzato nel nucleo soprachiasmatico (SCN) che serve come orologio biologico (Jin et al., 1999;
Reppert and Weaver, 2002).Questo nucleo si visto essere il maggiormente attivo durante il giorno, il
SCN (Suprachiasmatic Nucleus) e i ritmi circadiani seguono un reset su base giornaliera, questo
meccanismo di reset segue input luminosi arrivanti sulla retina durante il periodo di luce e, durante il
periodo di buio segue le secrezioni di melatonina da parte della ghiandola pineale (Pappolla et al.,
2000).
Il SCN proietta principalmente attraverso una via indiretta verso il VLPO e verso i neuroni ipocretinici
attraverso i quali il SCN influenza il sistema regolatorio veglia-sonno.
Il SCN inibisce quindi VLPO e attiva lipocretina, questo un promotore dello stato di veglia. Uno dei
maggiori fattori regolatori tramite i quali SCN influenza il ritmo circadiano lormone melatonina
(Sakurai T., 2007)..
A supporto di questa idea vi un consistente corpus di dati raccolto nella seguente ricerca condotta da:
Slats et al., 2013.
La melatonina o: N-acetil-5-metocitripamina, una dei segnali pi importanti generati da SCN,
sintetizzata a partire dalla serotonina, la quale convertita in N-acetilserotonina e da qui in melatonina
vera e propria grazie allazione dellenzima idrossil-indol-O-metiltranferasi. Questa sintesi avviene
principalmente nella ghiandola pineale durante la fase di buio del ciclo circadiano. Una volta formata,
la melatonina rilasciata sia nei capillari sia tramite il terzo ventricolo fino dentro il CSF (Slats et al.,
2013).
Il SCN a sua volta si connette alla ghiandola pineale tramite un percorso inibitorio indiretto, questo
percorso consiste nel fatto che, durante la fase di luce quando SNC attivo, la produzione di
melatonina inibita, mentre, durante la fase di buio lattivit di SNC inibita, permettendo quindi la
ghiandola pineale di produrre melatonina (Slats et al., 2013).
Siccome la melatonina influenzata dal ciclo luce-buio, la sua produzione segue il ritmo circadiano, in
genere linizio della secrezione di melatonina durante la notte precede di 2 ore lorario di inzio della
fase di sonno abituale di una persona (Slats et al., 2013).
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A livello cellulare questa ritmicit circadiana di SCN e della ghiandola pineale regolata tramite
complesse interazioni tra diversi sistemi e fattori di trascrizione, questi sono comunemente descritti
come geni CLOCK i quali rappresentano il nostro sistema interno di misurazione del tempo (Slats et
al., 2013).
La melatonina ha una grande variet di funzioni fisiologiche tra le quali: regolazione temperatura
corporea, maturazione sessuale, umore, funzioni immunitarie, meccanismi antiossidanti e funzioni
cardiovascolari. Ciononostante la sua funzione pi rilevante rimane la relazione con il ritmo circadiano
e il sonno. Purtroppo gli esatti effetti della melatonina nel favorire il sonno restano ancora ignoti,
tuttavia sono state ad oggi scoperte numerose interazioni, grazie alla loro relazione con i due sottotipi
di recettori per la melatonina (MT1 eMT2) (Sakurai T., 2007)..
MT1 un gene particolarmente espresso in SCN ed coinvolto nel processo inibitorio del meccanismo
circadiano generante la veglia, quindi un promotore del sonno (Slats et al., 2013).
Oltre a questo effetto diretto sul sonno, la melatonina ha anche leffetto di aumentare la durata del
ritmo circadiano negli umani, questo avviene agendo sui recettori MT2 in SCN. Una somministrazione
di melatonina a livello orale induce lo stato di sonno, e se il soggetto sottoposto a EEG si possono
notare aumentate onde delta e theta, e scatti del fuso (Sakurai T., 2013).
In ogni caso, leffetto di spostamento circadiano che avviene grazie alla melatonina fase-dipendente,
rispetto alla fase del ritmo circadiano in corso in un dato momento. Melatonina somministrata durante
il pomeriggio e la prima serata fa avanzare lorologio circadiano, mentre la melatonina se
somministrata nella seconda met della notte o alle prime luci del giorno ha leffetto opposto, ovvero
rallenta il ritmo circadiano (Slats et al., 2013).
Questi studi indicano che la melatonina esercita una complessa influenza sullo stato di sonno, questo
effetto viene esercitato da un lato tramite la regolazione circadiana di sonno e veglia, e dallaltro parte
tramite un effetto che promuove direttamente lo stato di sonno (Slats et al., 2013).
Effetti della melatonina su A e interazione con lorexina
Gli effetti antiamiloidogenici della melatonina sono stati dimostrati da diversi studi condotti sia in vitro
che su animali (Slats et al., 2013; Pappolla et al., 2000).
La melatonina riduce la secrezione di derivati e interferisce con la maturazione della proteina APP,
questo porta a pensare che la melatonina stessa potrebbe quindi interferire con la formazione della
proteina amiloide; infatti, in diversi studi condotti su pi linee cellulari si visto come i livelli delle
secrezioni di APP e suoi derivati diminuisse in seguito a somministrazione di melatonina, alla
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diminuzione di APP faceva seguito un ridotto quantitativo di A riscontrato, sfortunatamente leffetto
cessava non appena la melatonina iniettata veniva estratta.
La melatonina ha anche mostrato un effetto significativo nel diminuire la formazione di foglietti- cos
come di ammassi neurofibrillari, sono state certificate anche sue propriet antiossidanti, queste scoperte
hanno aperto possibilit sulluso della melatonina a livello terapeutico, sebbene siano possibilit non
ancora studiate la teoria sarebbe semplice; partendo infatti dai foglietti-, i quali impediscono la
degradazione proteolitica di A consentendone quindi laccumulo, se si somministrasse melatonina si
potrebbe evitare tale accumulo e consentire lo smaltimento, cos facendo si diminuirebbe la
neurotossicit a livello cerebrale (Pappolla et al., 2000).
In studi condotti su topi Tg2576 di 4 mesi det, la somministrazione di melatonina tramite iniezione
inibisce parzialmente la crescita dei livelli di A tipica di quellet, questo porta a un aumento della
sopravvivenza del topo stesso. Questo esperimento stato replicato su topi dello stesso tipo ma di 15
mesi det, in questo caso il trattamento con melatonina non ha sortito alcun effetto neanche dopo 4
mesi di somministrazioni continue, i topi di 15 mesi det sono gi in uno stadio avanzato di accumulo
di A, questo ha portato alla conclusione che la melatonina abbia un effetto benefico solo se
somministrata negli stadi iniziali di tale accumulo (Slats et al., 2013).
La melatonina ha anche un effetto attenuante sulla iperfosforilazione della proteina tau
(liperfosforilazione di tale proteina alla base di numerose e gravi patologie chiamate taupatie), questa
proteina, quando iperfosforilata, ha anche un ruolo significativo nella patogenesi di AD, questo effetto
stato accertato sia in studi in vitro che in vivo.
Gli studi in vivo hanno somministrato dellaloperidolo (farmaco neurolettico, antipsicotico e sedativo)
nel ventricolo laterale e cavit peritoneale di topi da laboratorio, questo farmaco compromette la
memoria spaziale ma promuove anche liperfosforilazione, ebbene se si eseguivano somministrazioni
di melatonina insieme o prima di quelle di aloperidolo la ritenzione della memoria spaziale era molto
migliorata e liperfosforilazione arrestata (Slats et al., 2013).
Studi recenti e ancora poco approfonditi suggeriscono come, partendo da studi sui ratti che hanno
accertato come i neuroni orexinici in questi ratti innervino direttamente la ghiandola pineale, si giunti
a supporre che lorexina possa regolare in maniera diretta la sintetizzazione di melatonina.
Un effetto dellorexina sulla melatonina stato riscontrato in studi sulle pecore, dove si visto come
lorexina inibisca la sintesi di melatonina durante giornate brevi mentre invece la stimoli in maniera
proporzionale allallungamento della giornata.
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Questi studi hanno anche dimostrato lesistenza di un ritmo circadiano che regola la plastici sinaptica
dei neuroni orexinici a livello della ghiandola pineale, questo suggerisce come la produzione di
melatonina possa essere regolata dallattivit sinaptica dei neuroni orexinici che a sua volta si esprime
in base a un ciclo giornaliero definito (Slats et al., 2013).
Regolazione della proteina beta-amiloide (A) tramite il comportamento veglia-sonno
Lo studio di Kang et al. ha mostrato come il peptide orexina sia implicato nella regolazione dei livelli
di proteina beta-amiloide, e conseguentemente influisca anche sul suo accumulo in placche a livello
cerebrale, illustrer quindi di seguito le varie fasi dellesperimento di Kang et al. Fino a come sono
giunti a scoprire il ruolo dellorexina.
Kang et al. hanno studiato il metabolismo della proteina beta-amiloide, per farlo hanno deciso di
monitorare i livelli ippocampali di A usando microdialisi in vivo usando due gruppi di topi, il primo
composto da topi selvatici, il secondo da topi transgenici (Tg2576) che esprimono una forma mutata
della proteina APP, precursore di A.
La proteina A stata iniettata nei topi transgenici a 3 mesi di et, molti mesi prima che la deposizione
di beta-amiloide inizi nei nel cervello dei topi, in seguito alliniezione stata riscontrata una variazione
diurna nei livelli di beta-amiloide, si visto come questi livelli fossero aumentati significativamente
durante il periodo diurno, al contrario non vi erano incrementi significativi nei livelli di A durante la
fase notturna.
I livelli di beta-amiloide nellISF fluttuavano in un periodo di 24 ore con i livelli nelle ore di luce che si
assestavano attorno al 75% in pi che nei livelli riscontrati nelle ore di oscurit, si trovato che i livelli
di A sono significativamente correlati con il tempo totale delle veglia (fig. C-D) questi stessi livelli
erano invece inversamente correlati con il tempo del sonno (Kang et al., 2007).
Questa correlazione negativa tra concentrazione di A ed ore di sonno era ancora maggiore durante le
fasi di sonno non REM (fig.S1), questa fluttuazione nei livelli di A ha spinto i ricercatori a capire
come mai avvenisse questo fenomeno, per iniziare hanno deciso di misurare i livelli di proteina APP
che il precursore di A, in particolare dei frammenti terminali di proteina APP chiamati: A140 e
A142, questo per vedere se la differenza di concentrazione di A partisse direttamente da una ridotta
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produzione dovuta a una minor concentrazione di APP, si visto tuttavia come la proteina APP non
differisse in maniera significativa tra i periodi di luce e oscurit nel totale di campioni prelevati da
tessuti ippocampali, da questo stato dedotto che la concentrazione di A in ISF sia probabilmente
regolata indipendentemente dal quantitativo totale della proteina presente a livello intracellulare e sulla
membrana (Kang et al., 2007).
Per poter confermare il risultato fino ad ora conseguito, i ricercatori hanno cercato di capire se fosse
legato alla particolarit dei topi usati fino ad ora o se fosse generalizzabile, stata quindi usata una
seconda tipologia di topi denominata C57BL6, questi ultimi hanno mostrato a loro volta una differenza
significativa nei livelli di A presenti nel liquido ISF, tra le fasi di luce e oscurit, (FIg.1,E e F).Questo
ha condotto alla conclusione che le variazioni diurne nei livelli di A siano un normale processo della
fisiologia cellulare.
Siccome fino ad ora era emerso come esistesse una apparente correlazione tra periodo di luce e
incremento dei livelli di A nellISF, il gruppo di ricercatori ha quindi testato quando uno stimolo
luminoso potesse avere effetti su queste variazioni di A, usando sempre dei topi C57BL6, hanno
misurato i livelli di A per un periodo complessivo di due giorni in condizioni di illuminazione
costante, la teoria alla base di questa condizione sperimentale era che, se i livelli di A fossero davvero
influenzati dalla luce della fase diurna non dovrebbero quindi calare in condizioni di continua
illuminazione. Queste aspettative sono state disattese, in quanto si sono riscontrate fluttuazioni diurne
nei livelli di A, si visto come venga mantenuto anche il comportamento di alternanza veglia-
sonno(fig. 1, G e H).
Da ci i ricercatori hanno dedotto che le fluttuazioni nei livelli di AB siano collegate al ciclo veglia-
sonno piuttosto che allesposizione a condizioni di luce o oscurit.
La fase successiva prevedeva il passaggio alla sperimentazione umana, si quindi passato ad valutare i
livelli di liquido cerebrospinale (CSF) tramite lutilizzo di un catetere lombare su un periodo di 33 ore,
si sono quindi riscontrate chiare prove di fluttuazioni di livelli di beta-amiloide nel CSF. I livelli di A
sono aumentati per tutto larco della prima giornata con un picco di pomeriggio, si passati a una fase
di decrescita lungo larco notturno, i livelli sono poi tornati ad aumentare per tutto larco della seconda
giornata (Fig. 1I) (Kang et al., 2007).
I risultati fino ad ora visti mostrano come le concentrazioni di A correlino con lo stato di veglia, fasi
successive dellesperimento, nel quale si tornati alla sperimentazione sui topi, hanno visto come sia in
effetti larco di durata dello stato di veglia ad essere associato con livelli pi alti di A , questi livelli
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persistono uguali anche se questo stato prolungato oltre il normale, come in condizioni di
deprivazione del sonno, questo risultato stato mantenuto anche in condizioni manipolate con uso di
recettori antagonisti del fattore di rilascio della corticotropina (CRF) tramite il quale vengono
aumentati i valori di A (Fig 2.) (Kang et al., 2007).
Visto che anche CRF risultava ininfluente sulla modulazione dei livelli di A, Kang et al. Hanno quindi
preso in considerazione lOrexina, essa una molecola regolante lo stato di veglia e altre importanti
funzioni fisiologiche, altres fortemente implicata nella narcolessia/ cataplessia a in vari disordini del
sonno e stato di veglia, un ulteriore fattore che lascia pensare che lorexina possa essere implicata nella
modulazione di A il fatto che il rilascio di orexina da parte dei neuroni ipotalamici mostra una
fluttuazione diurna simile a quella dei livelli di A. Per testare questa teoria sono state fatte iniezioni
intrecerebroventricolari presso dei recettori per lorexina a livello ippocampale, questo ha mostrato
come i livelli di A siano maggiori presso questi recettori durante la fase di veglia con iniezione
piuttosto che la precedente fase di veglia senza (Fig. 3, A-B)(Kang et al., 2007).
La famiglia delle orexine (orexina-A e orexina-B) ha due sottotipi di recettori: il recettore dellorexina
tipo 1 (OXR1) e il recettore per lorexina tipo 2 (ORX2). Kang et al. hanno quindi iniettato
almorexant, una soluzione contenente recettori antagonisti dellorexina, il cui scopo era vedere come il
blocco dei recettori per i segnali endogeni di orexina potesse influenzare i valori di A. Questa
somministrazione portata avanti per un arco di 24 ore ha effettivamente abbassato i livelli di A in ISF
e abolito le naturali variazioni fisiologiche(Fig. 3 D-E). La rimozione di almorexant ha
immediatamente prodotto un ritorno ai ritmi diurni dei livelli di beta-amiloide durante tutto il seguente
periodo di 24 ore. I controlli hanno confermato che le somministrazioni intracerebroventricolari con un
placebo non influenzano i livelli di A (Fig. S3 C-D).Lalmorexant produce una decrescita del totale di
tempo passato in fase di veglia approssimativamente del 10% (Fig. 3F) (Kang et al., 2007).
Siccome il comportamento veglia-sonno modula i livelli di A, e questi aumentano con la veglia e
diminuiscono col sonno, la rilevazione successiva, patendo dallidea che i livelli inferiori di influenzare
i valori di A durante il sonno potessero dipendere da un suo smaltimento in quella fase, ha analizzato
se la deprivazione cronica di sonno potesse arrivare a influire sulla deposizione di placche amiloidi
(fattore patogenetico dell Alzheimer) nel cervello. Per questo esperimento sono stati selezionati i topi
transegenici APP del genotipo APPswe/PS1dE9, i quali sono stati sottoposti a deprivazione cronica di
sonno per ben 20 ore al giorno per 21 giorni. Gli animali con restrizione del sonno hanno mostrato una
deposizione di placche amiloidi marcatamente superiore se confrontata con i controlli (Fig. 4-G).E
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stato inoltre osservato un significativo aumento nel peso delle placche amiloidi usando i topi Tg2576
(Fig. S4). Un trattamento sistematico con almorexant una volta al giorno per 8 settimane ha
significativamente abbassato la formazione di placche in diverse regioni cerebrali di topi
APPswe/PS1dE9 in unet nella quale le placche sono solo in formazione (Fig. 4H).(Kang et al., 2007).
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Figura 1.
Mostra il ritmo diurno dei livelli di A presenti in ISF nellippocampo dei topi confrontati con i livelli
di A in CSF nelle controparti umane. (A) Livelli di A in ISF nelluomo espressi come percentuale
dei livelli basali di A in ISF in topi Tg2576 lungo 6 periodi di luce-buio con il numero totale di minuti
passati in stato di veglia per ciascuna ora negli stessi topi.(B,C) significa che i livelli di A in ISF dei
topi, erano pi alti del 24,4% durante i periodi di buio e 167 minuti in pi erano passati in stato di
veglia durantegli stessi periodi.(D) mostra che i livelli di A correlano con il numero di minuti passati
in stato di veglia per ciascuna ora.(E,F) Mostra i livelli di A, che risultano essere il 18.5% pi alti nel
periodo di buio e i minuti passati in stato di veglia lungo un periodo di 2 giorni nei topi C57BL6, i
minuti di veglia sono superiori di 223 nel periodo di buio. (G,H) In condizione di illuminazione
costantei livelli di A erano superiori del 22.7% durante il periodo di buio,in questo stesso periodo i
minuti in stato di veglia erano 114 in pi che nel periodo di luce.(I) i livelli di A140 dei soggetti
umani sono espressi tramite percentuale dei livelli basali di A140 riscontrati ad ogni ora in CSF su
un arco di 33 ore. I picchi significativi nei livelli di A140 (barra nera) sonodalle 08-10 dove erano
del 27.6% pi alti della media dei livelli di A (barra grigia).
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26
Figura 2.
(A) Topi sottoposti a
deprivazione acuta di sonno (SD
sleep-deprivation, linea tratteggiata
grigia) per la durata di 6 ore
dallinizio del periodo di luce. La
condizione di SD evita la normale
diminuzione nei livelli di A che si verifica durante questo periodo. (B) La media dei livelli di A in
ISF durante la deprivazione di sonno sono il 16.8% pi alti se comparati con quelli del periodo di luce
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24 ore prima (linea nera tratteggiata). (C) Gli animali passano 126 minuti in pi svegli durante la
condizione di SD. (D) I topi sono sottoposti a deprivazione di sonno (linea tratteggiata grigia) dallinizo
del periodo di luce. (E) La media dei livelli di A in ISF durante SD superiore del 33.7% se
confrontata con le medie del periodo di luce 24 ore prima (linea tratteggiata nera). (F) I topi passano
136 minuti in pi svegli durante la condizione di SD.
Figura 3.
Mostra gli effetti
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delloressina e del duplice recettore antagonista nei livelli di A sui topi Tg2576. (A) una quantit pari
a 1.5 pmole/ora di orexina stata infusa tramite ICV per la durata di 6 ore allinizio del periodo di luce.
Queste iniezioni hanno stabilizzato i livelli di A ai livelli presenti nel periodo di buio, effettivamente
mantenendo i topi svegli pi a lungo. (B,C) iniezione di orexina aumenta i livelli di A durante il
periodo di luce e quindi abolisce la normale differenza del 20% tra i livelli dei periodi di luce e buio,
inoltre, liniezione di orexina aumenta il totale dei minuti passati in stato di veglia durante il periodo di
luce di 163 se confrontati con quelli del periodo di luce delle 24 ore precedenti. (D) sono state
iniettate13.9nmole/ora di almorexant via ICV per 24 ore partendo dallinizio del periodo di buio (n=8)
liniezione come effetto ha mantenuto bassi i livelli di A anche durante il periodo di luce. (E) La
media dei livelli di A differisce del 29% tra i periodi di buio e luce durante i giorni di controllo senza
iniezioni, per quanto non ci fosse differenza tra questi due stessi periodi durante le 24 ore di infusione
di almorexant. (F) In corso di trattamento di almorexant, il numero di minuti in stato di veglia
diminuito di 108 minuti su un periodo di 24 ore se confrontato con i giorni di controllo.
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Figura 4.
Mostra la deposizione delle placche amiloidi dopo una restrizione cronica del periodo di sonno e un
blocco dei recettori dellorexina nei topi transgenici tipo APPswe/PS1dE9. (A) I topi sottoposti a
restrizione di sonno per 21 giorni mostrano una deposizione di placche amiloidi significativamente pi
grande in molteplici sottoregioni della corteccia se confrontati con topi di controllo aventi la stessa et.
Fotomicrogrammi rappresentanti le placche sono mostrati in (C) placche nel bulbo olfattivo in
condizione di restrizione di sonno e (B) stesso bulbdo nei topi di controllo, (E) corteccia piriforme in
topi nella condizione di restrizione di sonno e (D) corteccia piriforme nei controlli, e, infine (G)
corteccia entorinale in condizione di restrizionerestrizione di sonno e (F) stessa corteccia nei controlli
.(H) I topi trattati con iniezioni giornaliere di almorexant per 8 settimane mostrano una quantit
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significativamente inferiore di deposizione di placche amiloidi in varie sottoregioni corticali se
confrontate con controlli della stessa et.
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Capitolo 3: Disturbi del sonno in relazione col morbo di Alzheimer e
alterazione dei ritmi circadiani.
Cambiamenti nelle abitudini del sonno sono parte del normale processo di invecchiamento, ci
comporta naturalmente con laumentare dellet della persona, un corrispondente aumento della
frammentariet del sonno cos come dei risvegli notturni e degli episodi di sonno durante la giornata.
Queste tendenze sono ulteriormente peggiorate se la persona stessa affetta da un qualsiasi tipo di
processo neurodegenerativo o demenza ( Bliwise, 1993 ).
Nella demenza neurodegenerativa che AD, oltre ai sintomi comunemente visti come marchio della
malattia, ovvero la degenerazione dei processi cognitivi, i disturbi del sonno sono i secondi sintomi pi
diffusi, e spesso sono dirompenti, comportando gravi menomazioni nella qualit di vita dei pazienti e
dei loro familiari, si stima ad oggi che pi del 45% dei pazienti affetti da AD presenti disturbi del sonno
clinicamente rilevanti (Bliwise, 1993).
I disturbi del sonno clinicamente rilevanti sembrano insorgere ad uno stadio gi avanzato della
malattia, e sono il maggiore fattore di rischio per una prematura ospedalizzazione del paziente.
Per prima cosa si deve parlare delle strumentazioni pi usate per la misurazione dei disturbi del sonno
in pazienti con AD, la polisonnografia (PSG) lo strumento delezione per questo tipo di indagini,
tuttavia molti pazienti soprattutto negli stadi pi avanzati della malattia non riescono a tollerare tutte le
procedure di laboratorio necessarie per lutilizzo del macchinario.
Altro strumento sarebbero i questionari autoriferiti, quali il Pittsburgh sleep quality index o lo sleep
disorder questionnaire, questi strumenti sembrano essere di valore limitato, questo perch i pazienti con
AD spesso tendono a sottostimare i loro disturbi, il calo cognitivo tende a diminuire memoria e
consapevolezza, anche in fasi precoci della patologia (Bliwise, 1993).
Lattigrafia del polso sembra invece essere lo strumento di maggior utilizzo a disposizione, usato per
valutare inattivit vs attivit o sonno vs veglia, e pu raccogliere dati per un periodo fino a 24 ore.
Ancoli-Israel et al. Valutando lefficacia dello strumento su un gruppo di pazienti che viveva in casa e
non in strutture ospedaliere, hanno trovato come lattigrafia abbia correlazioni significative coi tracciati
EEG e unaltissima sensibilit (87% per la veglia e 90% per il sonno ) che molto maggiore rispetto
alle osservazioni comportamentali ( Ancoli-Israel et al., 2003).
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Alterazioni dellarchitettura del sonno
I pazienti affetti da AD mostrano un aumentato numero di episodi di risveglio e veglia notturan dopo
linizio della fase di sonno, questi episodi aumentano sempre pi col progredire della patologia insieme
a un aumento della latenza del sonno, questi due fattori combinati sono responsabili quindi di una
riduzione del tempo totale dedicato al sonno, che a sua volta ha come ripercussioni agitazione notturna
e sonnolenza diurna (Slats et al., 2013).
Nella patologia di AD sono compresenti anche alterazioni delle varie fasi del sonno, infatti questi
pazienti mostrano un EEG a onde lente sia durante il sonno che la veglia, ci rende alquanto difficile
discriminare gli stati NREM da quelli SWS (Slow Wave Sleep ).
Il sonno REM ridotto quantitativamente in pazienti con AD, anche se il numero totale di episodi di
sonno REM per notte rimane intatto, tipico anche il rallentamento dellEEG durante le fasi REM che
hanno questi pazienti, il fenomeno cos singolare del morbo AD che stato proposto come marchio
biologico tipico della patologia (Slats et al., 2013).
Hassainia et al. Hanno osservato, durante le fasi REM registrate su pazienti con AD, come si verifichi
un aumento nellattivit delle onde delta e theta con una concomitante diminuzione delle onde alpha e
beta, queste alterazioni sono state riscontrate maggiormente nelle regioni frontali e parieto-temporali e
potrebbero essere correlate con la degenerazione delle strutture colinergiche nel tronco encefalico e nel
proencefalo (Slats et al., 2013).
Fisiologia del sonno in corso di AD
Negli stadi clinici della patologia di Alzheimer i sistemi di regolazione del sonno sono compromessi e
indeboliti, diversi elementi anatomici vengono compromessi a livello funzionale quali, diversi elementi
del circuito AAS, il nucleo basale di Meynert nel proencefalo, il talamo, che coinvolto nello stato di
veglia e risulta pesantemente compromesso, con cambiamenti nelle concentrazioni neurofibrillari che
sono riscontrabili nel nucleo anteroventrale e ,anche se in misura minore, nel nucleo reticolare. Sono
compromessi anche diversi nuclei del tronco tra i quali: il locus coeruleus che mostra una perdita fino
al 70% dei suoi neuroni in corso di AD, i nuclei del raphe superiori e le formazioni reticolari
tegmentopontine. la compromissione di questi questi nuclei e in generale delle regioni superiori e
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dorsali del tronco encefalico pu portare a una mancata soppressione dellattivit motoria durante il
sonno REM (Slats et al., 2013).
Studi recenti condotti sulla fisiologia cerebrale in corso di AD hanno confrontato ipotalami di pazienti
affettti con quelli di controlli sani e hanno trovato come quelli appartenenti a pazienti con AD
mostrassero una notevole riduzione dei neuroni immunoreattivi allipocretina-1, questo ha evidenziato
una possibile ridotta produzione di ipocretina nella fisiologia alterata di pazienti con AD, infatti
concentrazioni minori di ipocretina-1 sono state riscontrate in studi effettuati post-mortem sul CSF
(Cerebrispinal Fuid) di pazienti affetti da AD; sfortunatamente questi risultati non sono stati replicati
dallesame di CSF estratto a livello lombare da pazienti con AD ancora in vita, nei quali i livelli di
ipocretina risultano essere nella norma (Slats et al., 2013).
Un altro studio ha accertato che i livelli di ipocretina dei pazienti con AD seguono normalmente le
variazioni dettate dai ritmi circadiani se confrontati con quelli di pazienti sani, tuttavia sono stati
riscontrati livelli pi bassi di A42 che correlavano con una media generale inferiore nei livelli di
ipocretina-1, a una maggior ampiezza del ritmo circadiano dellipocretina che risultava quindi alterato.
Un altro studio mostra come i livelli di ipocretina-1 nel CSF di pazienti con AD sia significativamente
correlato con la frammentariet dello stato di veglia.
In corso di AD il numero di neuroni secernenti ipocretina diminuisce, anche se non fanno altrettanto i
livelli di ipocretina, la motivazione alla base della discordanza di questi due dati non ancora stata
chiarita a livello empirico, lascia solamente intendere una disconnessione funzionale, ancora
sconosciuta, dei sistemi producenti ipocretina ( Slats et al., 2013).
Estesi danni nella fisiologia cerebrale sono appurati in corso di AD, questa compromissione altera e
distrugge anche le strutture che regolano i ritmi circadiani, patologia e compromissione di SCN
(Suprachiasmatic Nucleus), il quale un nucleo dell'ipotalamo, formato da gruppi di neuroni, che
contribuisce alla regolazione dei ritmi circadiani endogeni, l'orologio biologico, che mantiene invariati
i processi fisiologici ripetitivi come i cicli della fame e del sonno.
Il nucleo contiene alcuni tipi di cellule, vari peptidi, come la vasopressina e il peptide intestinale
vasoattivo, e neurotrasmettitori, che consentono l'interazione con molte altre parti del cervello.
Le lesioni anatomiche e funzionali di SCN aumentano con il progredire di AD e del deterioramento
cerebrale globale, queste infine portano ad atrofia di SCN con conseguente diminuzione del volume
della struttura anatomica e del numero di cellule presenti in essa, questi dati sono stati raccolti in studi
post-morte, dove il SCN di pazienti con AD stato confrontato con quello di controlli sani (Slats et al.,
2013).
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Diversi studi hanno evidenziato una netta diminuzione dei neuroni contenenti vasopressina (ADH) e
neurotensina (NT) in AD, la vasopressina implicata nella modulazione dellattivit renale e
cardiaca,nella pressione arteriosa, temperatura corporea e soprattutto nella ritenzione mnemonica e nei
riflessi sinaptici, questo potrebbe spiegare linsorgenza di alcuni gravi deficit cognitivi e mnemonici in
AD. La neurotensina invece un peptide neuromodulatore della trasmissione dopaminergica, la cui
disfunzione alla base di differenti disturbi psichiatrici, questo potrebbe spiegare linsorgenza dei
problematiche del sonno e disturbi dellumore e simil-psicotici spesso associati a AD.
Una diminuzione dellmRNA (RNA messaggero) per la produzione di vasopressina e neurotensina
gi presente nelle fasi precliniche di AD (Slats et al., 2013).
Alcuni studi hanno riscontrato cambiamenti fisiologici simili a quelli umani in modelli animali, topi
transgenici (3xTG) modificati per esprimere mutazioni genetiche delle proteine APP, PS-1 e tau ( la
principali proteina implicate nella fisiopatologia di AD negli esseri umani) esibivano una significativa
diminuzione di cellule contenenti vasopressina presenti in SCN nonch unevidente formazione di
ammassi neurofibrillari, questo gi prima dellinizio della patologia tau e quindi gi prima che fossero
presenti le caratteristiche fisiopatologiche tipiche di AD.
Infine, in SCN di pazienti con AD si vista una diminuzione dei recettori MT-1 (melatonina-1), questa
diminuzione avviene gi normalmente con linvecchiamento, ma negli stadi avanzati di AD molto pi
marcata, questa ampia riduzione per non stata riscontrata negli stadi precoci della malattia.
Alterazioni dei ritmi circadiani e della produzione di melatonina in pazienti con AD
La distruzione dei ritmi circadiani in pazienti affetti da AD pu portare a una procrastinazione del
sonno notturno, al fenomeno del sundowning, fenomeno confusionale serale che affligge i pazienti
affetti da demenza, e infine si pu arrivare a un meccanismo sonno-veglia totalmente invertito, dove gli
episodi di sonno avvengono qusi esclusivamente di giorno mentre la veglia di notte (Wu e Swaab.,
2007).
Il sundowning, gi sopra accennato un disturbo comportamentale che colpisce chi soffre di demenza,
in gran parte determinato dallalterazione dei ritmi circadiani e si sviluppa o comunque si acuisce nel
tardo pomeriggio o nella prima serata, il 10-25% dei pazienti affetti da AD mostra questi disturbi del
comportamento che includono: confusione notturna, agitazione o peregrinazioni).
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Il sundowning comporta molteplici aspetti, in genere si verificano ridotta capacit di mantenimento
attenzionale diretto verso stimoli esterni, linguaggio e ideazione disorganizzati, agitazione psicomotoria
e peregrinazioni spesso unite con comportamenti stereotipati e ripetitivi, tutto questo sintomo di uno
stato confusionale acuto, che a volte sfocia in disturbi della percezione quali allucinazioni e quadri di
delirium unitamente a turbe dellumore. Di solito i quadri simil-deliranti tendono a comparire nel tardo
pomeriggio laddove lagitazione pu essere presente lungo tutto larco giornaliero soprattutto negli
stadi pi avanzati di AD (Wu e Swaab., 2007).
Il momento di insorgenza del fenomeno sundowning riflette il livello di deteriorazione del ritmo
circadiano e si pensa sia correlato a un ritardo nel ritmo della temperatura corporea, tuttavia alcune
regolarit sono state identificate, si visto che il picco dei vagabondaggi avviene in genere tra le 7 e le
10 di sera, nonostante ale differente idiosincratiche tra vari pazienti sulle altre manifestazioni del
sundowning (Wu e Swaab., 2007).
Le compromissioni e progressive distruzioni del ritmo circadiano del comportamento veglia-sonno
osservate in corso di AD sono accompagnate da disfunzioni di molti altri ritmi su base circadiana di
altri meccanismi corporei, come ad esempio la temperatura corporea, lattivit motoria, stato di arousal
e la secrezione di diversi ormoni. Fra tutti questi cambiamenti resta comunque che lampiezza dei ritmi
circadiani nel ciclo veglia-sonno probabilmente il cambiamento di maggior entit (Wu e Swaab.,
2007).
Le alterazioni dei ritmi circadiani sembrano mediate in larga misura dalla degenerazione del nucleo
soprachiasmatico dellipotalamo (SCN), dove sono state riscontrate estese lesioni fisiopatologiche in
corso di AD.
La ghiandola pineale come struttura anatomica non direttamente colpita nella patologia di Alzehimer,
viene per compromessa lespressione dei geni denominati CLOCK che controllata da questa
ghiandola.
Questi geni denominati CLOCK (Circadian Locomotor Output Cycles Kaput) hanno il compito sia di
assicurare la continuazione dei ritmi circadiani interni, sia di influire sullampiezza di tali ritmi, in
breve sono attivatori del meccanismo fisiologico che genera i ritmi circadiani.
Negli stadi sia clinici che preclinici di AD lespressione diurna di questi geni CLOCK persa, questo
porta alla conseguente perdita anche della sincronizzazione tra ritmi circadiani e attivit delle strutture
cerebrali ad essi collegate o da essi regolate, questa perdita di sincronia potrebbe essere dovuta a una
diminuita attivit di SCN con conseguente produzione anomala di melatonina che a sua volta non
correla pi con lespressione dei geni CLOCK.
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Questo quadro stato visto anche su modelli animali, ad esempio nei topi, dove, se vengono distrutte le
connessioni funzionali tra SCN e ghiandola pineale porta a una distruzione dellabituale schema
circadiano notte-giorno che serve per la corretta espressione dei geni CLOCK, questi modelli animali
riproducono in maniera estremamente precisa gli effetti di AD sugli esseri umani, cos bene in effetti
che stata proposta una teoria basata su questi esperimenti dove si suggerisce come in corso di AD, sia
in stadi clinici che preclinici, lattivit alterata di SCN porti a una disregolazione dellattivit della
ghiandola pineale, che di solito avviene tramite output di SCN, che a sua volta porta a una perdita di
sincronizzazione tra la ghiandola stessa e i ritmi circadiani.
Altri studi hanno trovato come nella fisiologia in corso di AD potrebbe essere danneggiata anche la
regolazione noradrenergica della ghiandola pineale da parte di SCN, questo stato ipotizzato visto che
lespressione ritmica dei recettori noradrenergici nei pinealociti (cellule componenti la ghiandola
pineale) perduta (Slats et al., 2013).
Successive ricerche sulle alterazioni funzionali hanno trovato come, gi nelle fasi precliniche di AD, la
serotonina, principale precursore della melatonina, sia significativamente diminuito.
I livelli di melatonina diminuiscono normalmente con linvecchiamento, ma i pazienti con AD hanno
un calo decisamente pi elevato, questo stato confermato da studi su pazienti vivi e post-mortem
effettuati sui livelli di melatonina in CSF.
Si riscontra una marcata diminuzione nei livelli di melatonina rispetto alla media dei controlli sani sin
dalle fasi precoci di AD, con il progredire della patologia scompare anche il ritmo circadiano della
melatonina, questo porta di conseguenza anche a una secrezione altamente irregolare in questi pazienti,
questa irregolarit ha come effetto terminale una regolazione alterata del ocmportamento del sonno, il
quale non viene pi favorito seguendo un ritmo preciso e pu portare a disturbi come frequenti risvegli
notturni o episodi di intrusione del sonno durante le ore diurne (Slats et al., 2013).
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Distrub primari del sonno presenti con AD.
I pazienti affetti da AD possono essere affetti da una grande variet di disturbi primari del sonno, questi
comprendono sia disturbi occorrenti la notte, come linsonnia, ma anche intrusioni del sonno durante il
giorno.
Linsonnia pu essere definita come la difficolt a iniziare e/o mantenere il sonno, ci spesso
associato con una generale compromissione del funzionamento diurno. In AD la latenza del sonno,
ovvero il tempo che intercorre tra landare a letto e leffettivo addormentamento, aumenta
notevolmente, mentre il tempo totale del sonno effettivo diminuisce (Vitiello et al., 1990;
Weldemichael e Grossberg, 2010), i pazienti sono inoltre soggetti a sonno frammentato con frequenti
risvegli e allungati periodi di veglia durante la notte insieme con risvegli presto la mattina che dai
resoconti dei caregivers diventano pi frequenti (Tractenberg et al., 2005).
Altri disturbi del sonno che si manifestano in corso di AD sono i cosiddetti SRBD (Sleep Related
Breath Disorders ), le interazioni tra AD e questi disturbi sono complesse e ancora infa se di studio,
tuttavia emerso come il pi comune di questi disturbi detto apnea e ipopnea ostruttiva del sonno o
OSAH sia associata sia con il deterioramento di importanti funzioni attentive sia mnemoniche
(Tractenberg et al., 2005).
Ancora non chiaro se i SRBD possano contribuire direttamente alla disfunzione neuronale causando
ipossia, o se questo avvenga perch creano maggiore frammentariet nel sonno (numerosi risvegli
dovuti a cessazione dellatto respiratorio, vi anche lipotesi che questi disturbi possano essere
secondari a lesioni vascolari o neurodegenerative del tronco. Gli SRBD potrebbero anche agire come
un fattore indipendente ma precipitante la comparsa di sintomi cognitivi in pazienti prima in stadio
preclinico (Peter-Derex et al., 2014).
La sindrome OSAH invece associata a una riduzione del sonno REM, e, come nei SRBD anche
allaumento dei risvegli notturni, quando questi avvengono sono spesso accompagnati da stati
confusionali. Indagini successive hanno preso in considerazione larelazione tra apnee del sonno in
pazienti con AD e lesioni neurodegenerative, linterconnessione che ne emersa si presenta a doppio
filo; da un lato lesioni nei centri respiratorii del tronco encefalico sembrano favorire il fenomeno
apneico, dallaltro sono le apnee stesse che possono influire sulle componenti cerebro-vascolari
peggiorando i sintomi neurologici (Peter-Derex et al., 2014).
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Un altro disturbo del sonno che si presenta frequentemente in pazienti con AD la Restless Legs
Syndrome o RLS, ovvero movimenti degli arti, in particolare delle gambe, che avvengono
ripetutamente durante il sonno.
Sono stati effettuati studi che hanno portato alla luce come la RLS sia spesso associata ad agitazione
notturna nonch a una diminuzione del tempo totale di sonno, questo a sua volta pu peggiorare i
sintomi cognitivi o addirittura accelerare la degenerazione cognitiva globale, alla RLS associata
molto spesso (80% dei casi ) un disturbo secondario chiamato PLMS (Periodic Limbs Movement in
Sleep ) che si presenta con movimenti degli arti simili a quelli di RLS, tuttavia il ruolo di PLMS
nellalterazione del sonno tuttora equivoco (Peter-Derex et al., 2014).
Classificazione e diagnostica dei disturbi del sonno in AD
Una volta appurati quali siano i principali distrubi e come agiscano, rimane il problema della
diagnostica, nel 2003 vennero proposti criteri per aiutare una corretta identificazione dei disturbi del
sonno che sono associati con AD, in breve questi criteri assumevano che il paziente fosse
diagnosticabile come avente disturbi del sonno correlati alla patologia AD nel caso vi fosse una
lamentela soggettiva di insonnia e/o eccessiva sonnolenza durante il giorno, queste lamentele dovevano
poi essere uccessivamente confermate da polisonnografia, actigrafia o osservazioni strutturate delle fasi
di sonno. Il disturbo deve comportare almeno due dei seguenti criteri: aumento della durata dello stato
di veglia dopo linizio del sonno, diminuzione del tempo totale di sonno, scarsa continuit dello stato di
veglia durante il giorno e/o desincronizzazione dei ritmi circa