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Le Monnier

Prefazione di Lucio Caracciolo

Traduzione di Dario Fabbri

Hans Kundnani

L’Europasecondo Berlino

DENTRO LA STORIA

Il paradosso della potenza tedesca

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6. L’Europa e il mondo

La risposta tedesca alla crisi dell’euro può essere compresa sol­tanto attraverso i cambiamenti avvenuti nel Paese a partire dalla riu­nificazione. Nel 2010 la Germania era una «repubblica diversa» da quella di Bonn, sebbene non così diversa come in molti temevano alla fine della guerra fredda. La sua politica estera era segnata da un misto di continuità e cambiamento. Negli anni Novanta, la cultu­ra strategica tedesca si era omologata a quella francese e britannica, con il governo di Berlino pronto ad usare la forza per ragioni umani­tarie. Ma a partire dal 2000, mentre si affermava nella memoria col­lettiva nazionale la descrizione dei tedeschi come vittime invece che carnefici, l’opposizione agli interventi militari è tornata a crescere. E da allora la Repubblica Federale non ha avuto la capacità o la volon­tà di praticare una compensatoria forma di «checkbook diplomacy».

Nel 2010 la Germania si considerava una nazione «normale» nel senso teorizzato da Egon Bahr: un concetto che nell’Historikerstreit apparteneva all’estrema destra e che negli anni Duemila era stato riadattato e adottato dalla sinistra. Si era affermata l’idea, svilup­pata da politici socialdemocratici come Bahr e da pensatori d’estre­ma destra come Nolte, che la politica estera non dovesse più esse­re «ostaggio di Auschwitz», come affermato nel 1981 da Helmut Schmidt. Come ogni altro Stato sovrano, la Germania doveva es­sere libera di articolare e perseguire il suo interesse nazionale, an­che a costo di allontanarsi dagli alleati europei e occidentali. Era la rivincita della peculiare «via tedesca» – un modello che si rifaceva agli albori del nazionalismo germanico – superiore al pensiero an­glosassone in materia di strategia ed economia.

Se da un punto di vista geopolitico la Germania era più libe­ra che nella guerra fredda – quando dipendeva dagli Stati Uniti e

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dalla NATO per proteggersi dall’Unione Sovietica e necessitava dell’integrazione comunitaria per riabilitarsi a livello internazio­nale – sul piano economico appariva maggiormente inibita. Dopo la riunificazione, soprattutto a causa della globalizzazione, l’ex­port teutonico aveva attraversato un momento di difficoltà, ma negli anni Duemila s’era adattato al nuovo contesto e aveva acqui­sito competitività. Benché fosse il risultato della riduzione degli stipendi e della favorevole congiuntura internazionale, i tedeschi erano orgogliosi del loro modello di sviluppo. Ben presto però proprio il «nazionalismo dell’export» avrebbe complicato la crisi dell’euro, costringendo Berlino a scegliere tra Europa e resto del mondo: le priorità della sua politica estera. Così nel settembre del 2012 George Soros ha invitato la Germania ad «uscire» dall’euro­zona se non voleva «fungere da guida» 1.

Esplosa nel 2010, la crisi greca ha posto la Repubblica Federale in una posizione di potere tanto straordinaria quanto inedita nella sto­ria dell’Unione europea. Come principale creditore in un’area mone­taria composta da Stati sovrani, Berlino ha imposto le sue condizioni alle nazioni debitrici promettendo di garantire per il loro disavanzo e riducendo così i tassi di interesse sullo stesso. Gli Stati membri inde­bitati – come la Grecia – in teoria potrebbero abbandonare l’euro e svalutare la propria moneta, ma poiché non esiste un meccanismo per uscire dall’eurozona, l’effetto sulla loro economia sarebbe devastan­te. Sicché non hanno potuto far altro che accettare le richieste della Germania, peraltro frutto di una narrazione partigiana degli eventi.

Per Berlino la crisi è stata causata dagli altri. Malgrado nel 2003 la Repubblica Federale sia stata la prima nazione a violare i para­metri del patto di stabilità, per i tedeschi il crollo è stato provocato dall’irresponsabilità fiscale degli altri Stati membri. Poco conta che durante il precedente boom le banche tedesche abbiano irrespon­sabilmente prestato enormi cifre di denaro alle nazioni oggi mag­giormente in difficoltà – nel giugno del 2009 la Grecia doveva 38,6 miliardi agli istituti di credito teutonici – né sembra rilevante che sia stata la riunificazione a determinare la nascita della moneta uni­ca 2. I tedeschi si sentono vittime della crisi, una percezione ribadi­ta dalla memoria collettiva affermatasi negli anni Duemila. Anche per questo in un articolo apparso nel marzo del 2010 sulla «Süd­deutsche Zeitung» Joschka Fischer ha criticato «la poca consapevo­lezza storica» dei suoi connazionali 3.

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L’analisi tedesca della crisi riflette il generale sentimento di vit­timismo. Paradosso per un Paese che si percepisce come «post­nazionale», politici ed economisti hanno interpretato le difficoltà dell’eurozona con parametri esclusivamente nazionali, guardando singolarmente ad ogni Stato membro senza concentrarsi sul siste­ma generale. A loro parere, la crisi sarebbe semplicemente frutto della mancanza di disciplina fiscale delle nazioni indebitate e non già conseguenza dell’interazione tra economie diverse all’interno di un’architettura monetaria mal concepita. Le riforme economiche approvate dal governo Schröder negli anni Duemila non avrebbe­ro partecipato in nessuna misura a minare il sistema. Né Berlino ri­conosce le cause macroeconomiche del collasso, specie gli squilibri provocati dal surplus commerciale di alcune nazioni.

Affidandosi esclusivamente alla narrazione interna, il governo Merkel si è prefisso tre obiettivi. In primo luogo, prevenire la nasci­ta di un sistema di trasferimenti in cui gli Stati membri fiscalmente più responsabili finiscano per pagare per quelli indebitati. Tenere in vita l’euro, anzitutto perché l’export tedesco beneficia della de­bolezza della moneta unica. Infine mantenere la stabilità dei prezzi, ovvero combattere l’inflazione che penalizza gli esportatori e ridu­ce il valore dei risparmi. Non potendo avere tutto e nello stesso mo­mento, nei due anni successivi Berlino è stata costretta a scendere a compromessi su tutti e tre i principi.

Proprio per bloccare l’approvazione di un meccanismo di tra­sferimenti e per opporsi al bailout della Grecia, nella primavera del 2010 la Merkel si è aggrappata all’articolo 125 del trattato di Maa­stricht che proibisce esplicitamente agli Stati membri di pagare per gli altri (anche se secondo alcuni avrebbe potuto usare un altro arti­colo). Ciò nonostante, nel maggio dello stesso anno è stata costretta ad avallare un pacchetto di salvataggio da 750 miliardi di euro e la creazione del Fondo europeo di stabilità finanziaria, da usare come ancora di salvataggio per le nazioni più indebitate. In cambio la can­celliera ha ottenuto il coinvolgimento del Fondo monetario interna­zionale che, assieme alla Commissione europea e alla Banca centra­le, da allora compone la cosiddetta troika. Ad Atene è stato chiesto di realizzare dolorosi tagli alla spesa pubblica e agli stipendi, men­tre Berlino si rifiutava di approvare misure che stimolassero la do­manda. L’approccio era asimmetrico: deflazione alla «periferia» del continente e nessuna inflazione al «centro» 4.

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Nel 2011 il disastro greco si è trasformato nella crisi generale dell’euro. I mercati finanziari, che fino ad allora avevano valutato pressoché olisticamente il debito degli Stati membri, hanno comin­ciato a temere non solo l’insolvenza della Grecia ma anche il default di altre nazioni dell’eurozona. Data l’opposizione tedesca ad au­mentare la grandezza del «firewall» comunitario, nello stesso perio­do gli intessi pagati sui buoni del tesoro da Paesi come l’Italia – un membro fondatore dell’UE – hanno raggiunto livelli insostenibili. Sempre più economisti vedevano nella mutualizzazione del debito, attraverso la creazione degli eurobond, l’unica soluzione possibi­le, ma i politici tedeschi, temendo l’«azzardo morale», hanno man­tenuto sul tema una scientifica ambiguità e sfruttato il momento per insistere sulle nazioni indebitate affinché realizzassero riforme strutturali. Così Berlino si è servita degli andamenti del mercato del debito per imporre disciplina fiscale all’eurozona.

Qualcuno ha interpretato la rigida risposta della Merkel alla cri­si come un ritorno alla classica politica di potenza tedesca. «Bild», il più venduto quotidiano di Germania, nel marzo del 2010 ha para­gonato la cancelliera a Bismarck, per essersi opposta al bailout del­la Grecia, salvo poi definire i tedeschi «i fessi d’Europa» per aver accettato il pacchetto di salvataggio. Alcuni ex cancellieri hanno mostrato di temere l’abbandono da parte della Merkel dei principi guida della politica estera della Germania Ovest e la riesumazione della strategia del XIX secolo. Nel giugno 2010 Helmut Schmidt ha accusato il governo di trattare la Francia con «pomposità guglielmi­na» 5 e nel 2011 Helmut Kohl ha consigliato alla Merkel, in passato sua erede designata, di non «buttare tutto alle ortiche» 6.

Più assertiva in Europa, nel frattempo la Germania ha intensi­ficato anche i rapporti con alcune nazioni emergenti non occiden­tali: quelle che il ministero degli Esteri definiva «le potenze che modellano la globalizzazione» (Gestaltungsmächte) 7. Su tutte la Ci­na che, con la domanda europea in picchiata, era divenuta cruciale per l’economia nazionale. Nel 2011 la Repubblica Popolare riceveva quasi il 7% dell’intero export tedesco: il terzo mercato in ordine di importanza. E presto avrebbe superato gli Stati Uniti (il principale acquirente extraeuropeo di prodotti «made in Germany») e perfi­no la Francia. In base ad alcuni calcoli, nel 2011 le esportazioni ver­so la Cina rappresentavano lo 0,5% della crescita nazionale, l’equi­valente di 13 miliardi di euro 8.

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Oltre ai legami economici, si erano rafforzate anche le relazio­ni diplomatiche bilaterali. Accompagnato da 13 ministri, nel giu­gno del 2011 il premier cinese Wen Jiabao si è recato in visita a Ber­lino per un incontro tra i due governi al completo: un onore che in precedenza la Germania aveva condiviso solamente con nazio­ni amiche come Francia e Israele e più di recente con l’India. Stes­so discorso per la Cina che per la prima volta stabiliva un così alto meccanismo negoziale con un membro dell’Unione europea. Prova evidente della straordinaria importanza riconosciuta alla Germa­nia: per Pechino di gran lunga l’attore europeo più rilevante.

Con la bocciatura nel 2005 della costituzione europea da parte di francesi e olandesi, la Cina aveva modificato il modo di guarda­re al continente 9. Da allora aveva iniziato a concentrarsi sui singo­li Stati più che sulle istituzioni comunitarie, sebbene l’Unione eu­ropea si fosse dotata di un ministro degli Esteri (con tanto di corpo diplomatico) e avesse provato a relazionarsi con il gigante asiatico in modo più coerente e strategico. I diplomatici tedeschi avevano anche provato a sostenere la PESC, ma l’avvento della crisi – con il rafforzamento della Germania, l’indebolimento della Francia e la marginalizzazione del Regno Unito – ha accentuato ulteriormente il pragmatismo di Pechino. «Se vuoi ottenere qualcosa a Bruxelles al­lora vai a Berlino» 10, ha dichiarato un funzionario cinese nel 2012.

Le relazioni bilaterali sono state corroborate anche dalla posi­zione – antitetica a quella americana – che i due Paesi hanno adot­tato nel dibattito in tema di economia globale. Ancorché diverse in termini demografici e di sviluppo, Cina e Germania mostrano so­miglianze strutturali e ricoprono pressoché lo stesso ruolo nel si­stema economico internazionale. Martin Wolf ha perfino realizza­to una crasi con i nomi dei due principali esportatori del globo: «Germancina» (Chermany) 11. Date le similitudini, Pechino e Berli­no hanno attuato un’identica politica macroeconomica. In formula: provocare pressione deflazionaria, rifiutandosi di risolvere gli squi­libri economici. Di fatto un allineamento tedesco­cinese, determi­nato anche dal desiderio di riformare i mercati finanziari e la gover­nance economica mondiale.

Con un comunicato congiunto sulla «partnership strategica» creata anni prima da Schröder e Wen, nel 2010 i governi dei due Paesi hanno affermato d’essere impegnati a risolvere la crisi finan­ziaria ed economica 12 e di condividere, in quanto terza e quarta

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economia del mondo, nonché nazioni dedite al commercio e all’ex­port, rilevanti interessi comuni. Su tutti, la predilezione per l’«eco­nomia reale». Inoltre Berlino prometteva di sostenere attivamente il riconoscimento della Cina come «economia di mercato» da parte dell’Unione europea.

L’atteggiamento tedesco­cinese ha provocato numerosi scontri con gli Stati Uniti. Nazioni creditrici, Cina e Germania hanno en­trambe criticato il quantitative easing varato dalla Federal Reserve e al summit G20 del 2010 si sono schierate contro il progetto ameri­cano di limitare il surplus delle partite correnti che può vantare un singolo Stato. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha af­fermato in un’intervista dello stesso anno che «chiunque crede che la Cina sia un problema deve pensare lo stesso della Germania» 13. E la Repubblica Federale è divenuta in seguito un ‘problema’ più grande della Cina, il cui attivo nella bilancia commerciale è sceso dai 300 miliardi del 2008 ai 155 miliardi del 2011.

Alcuni analisti cinesi hanno scorto ulteriori somiglianze tra i due Paesi. Come la Repubblica Popolare era una potenza emer­gente a livello globale, la Germania lo era all’interno dell’Europa. Entrambe in passato erano state riluttanti ad assumersi le proprie responsabilità e, a causa delle crescenti aspettative nei loro con­fronti, nell’ultimo periodo sono state fortemente attaccate dal re­sto del mondo e dagli Stati Uniti. Critiche che hanno avvicinato Wen e la Merkel. «Siamo nella stessa situazione» 14, ha stabilito un analista cinese.

La dipendenza dalla domanda estera ha costretto Berlino in una situazione insostenibile. Per ridurre gli squilibri interni all’eurozo­na, la Germania avrebbe dovuto diminuire la propria competitività nei confronti degli altri Stati membri, ma questo avrebbe minato il suo modello basato sull’export e l’appetibilità dell’industria tedesca in rapporto alle emergenti economie extraeuropee. In linea teorica Berlino desiderava che le nazioni debitrici dell’UE diventassero più competitive ma non poteva accettare che, come conseguenza, la Re­pubblica Federale lo fosse meno. Peraltro la Germania non poteva neanche abbandonare l’euro, giacché una più forte moneta tedesca o del Nord Europa avrebbe danneggiato l’export.

L’ambiguo atteggiamento della Merkel e i sempre più stretti rap­porti con le potenze emergenti (su tutte la Cina), hanno indotto al­cuni analisti a chiedersi se Berlino avesse intenzione di abbandona­

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re l’Europa per inseguire una nuova Weltpolitik. Mentre l’economia tedesca – sostenuta anche dalla fuga di capitali dalla periferia del continente – viveva un nuovo boom e le altre nazioni europee spro­fondavano nella crisi, molti si chiedevano se la Repubblica Federale volesse «muoversi nel mondo in solitaria» 15. D’altronde le piccole e medie imprese teutoniche, attirate dagli alti tassi di crescita dei mer­cati emergenti 16, parevano aver perso interesse nell’euro. Eppure, come nel XIX secolo, la geografia rendeva illusorio pensare che la Germania potesse fare a meno dell’Europa, se pur solo come mer­cato per le sue esportazioni e come mezzo per svalutare la moneta.

Non a caso nell’estate del 2011 la Merkel ha adottato un approc­ciò più attivo alla crisi 17. I suoi consiglieri non potevano garantirle che l’uscita dall’euro di una nazione come la Grecia non scatenas­se il contagio o addirittura il collasso della moneta unica: uno sce­nario devastante anche per Berlino. Così si è industriata per tenere Atene nell’eurozona, anche se questo avrebbe significato assumersi la responsabilità del debito europeo e ulteriori bailout. La proposta di «più Europa» non le ha impedito comunque di respingere una maggiore mutualizzazione del debito in forma di eurobond. A pun­tellare la sua posizione è intervenuta anche la corte costituzionale tedesca, che aveva riconosciuto come legittimi il bailout della Gre­cia e la creazione del Fondo europeo di stabilità finanziaria, ma nel settembre 2011 ha stabilito che gli eurobond avrebbero violato la Legge Fondamentale e che per realizzare la condivisione del debito sarebbe stato necessario modificare la costituzione.

Berlino si è concentrata allora sulla riduzione del debito pub­blico degli Stati membri e sull’aumento della competitività dell’eu­rozona. In realtà, almeno fino allo scoppio della crisi, il problema principale era stato l’eccessivo debito privato di nazioni come Irlan­da e Spagna, ma i tedeschi hanno continuato ad interpretare la crisi attraverso il prisma greco (nella definizione di Paul Krugman: «l’el­lenizzazione» del dibattito sull’euro) 18. Di qui l’approvazione di una serie di misure pensate per risolvere ciò che la Germania chiama «crisi del debito» (Schuldenkrise) e che giudica frutto dell’irrespon­sabilità fiscale. Come parte del cosiddetto «six­pack», è stata intro­dotta una nuova macroeconomic imbalance procedure, che penalizza­va soprattutto le nazioni con un deficit commerciale. Inoltre il fiscal compact, concordato nel Consiglio europeo del dicembre 2011, ri­chiedeva agli Stati membri di adottare un provvedimento che pre­

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scrivesse la parità di bilancio, del tutto simile all’emendamento ap­provato in Germania nel 2009.

Tanta austerity ha avuto effetti drammatici in nazioni come la Grecia – il cui PIL nel 2012 era inferiore del 20% a quello del 2007 – ma non aveva risolto il problema dello «spread» sui titoli di Stato che molti economisti ritenevano cruciale. A loro avviso, un «feed­back loop» tra bad banks, le società bancarie che ricevono crediti anomali, e debito sovrano aveva reso l’insolvenza una profezia au­to­avverantesi. La Banca centrale europea ha adottato alcune misu­re per spezzare tale legame – su tutte, il programma di acquisto di buoni del tesoro, il cosiddetto «long­term refinancing operations» (LTRO), voluto dal nuovo governatore Mario Draghi – ma nell’esta­te del 2012, mentre gli interessi sul debito tedesco erano scesi ai mi­nimi storici, quelli sul disavanzo italiano e spagnolo erano tornati a livelli intollerabili. Nel giugno del 2012, la Merkel ha annunciato che non avrebbe mai accettato gli eurobond.

Pochi giorni più tardi il presidente francese François Hollan­de, il premier italiano Mario Monti e il suo omologo spagnolo Ma­riano Rajoy hanno unito le forze per battere la Germania. In occa­sione del Consiglio europeo hanno concordato che il meccanismo di stabilità (MES), il successore permanente del fondo europeo di stabilità finanziaria, avrebbe potuto ricapitalizzare direttamente le banche delle nazioni in difficoltà. Gran parte dell’eurozona ha con­siderato questa la svolta capace di arrestare la caduta libera, ma per l’opinione pubblica tedesca si era invece trattato di una sconfitta. Lo «Spiegel» ha titolato: «la notte in cui la Merkel perse» 19. Il me­se successivo a Londra Draghi ha promesso di fare «tutto ciò che ci vuole» per salvare l’euro e poco dopo ha annunciato un programma di acquisto illimitato di titoli di Stato sul mercato secondario per ri­durre il differenziale tra i vari Stati membri, le cosiddette «outright monetary transactions» (OMT). Molti tedeschi, tra questi il presi­dente della Bundesbank Jens Weidmann, l’unico tra i 23 membri del consiglio direttivo della BCE a votare contro l’iniziativa di Dra­ghi, hanno ritenuto le operazioni OMT l’inizio di una strisciante mutualizzazione del debito, proprio il sistema di trasferimenti che Berlino voleva eludere dall’inizio della crisi.

A differenza degli economisti anglosassoni che vedevano nella deflazione il pericolo maggiore, la Germania temeva che le misure adottate dalla BCE causassero un aumento dell’inflazione. In una

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copertina dell’agosto 2012, ancora lo «Spiegel» ha annunciato che la politica monetaria europea rappresentava un’espropriazione (Ent­eignung) dei risparmi tedeschi, un termine che evocava la confisca delle proprietà ebraiche da parte dei nazisti 20. In un discorso pro­nunciato a Francoforte nel settembre dello stesso anno, Weidmann ha addirittura paragonato Draghi al diavolo. Nel 180° anniversario della morte di Goethe, ha raccontato all’uditorio la scena della cre­azione dei soldi tratta dal primo Atto del Faust, in cui Mefistofe­le persuade con effetti disastrosi l’imperatore a stampare moneta. Per Weidmann, Goethe aveva riconosciuto «il principale problema della politica monetaria attuale» e «la correlazione potenzialmente pericolosa tra creazione di moneta, finanza statale e inflazione» 21.

Per molti l’eurozona non era ancora abbastanza integrata, eppu­re alla fine del 2012 la crisi aveva comunque prodotto più «Europa» di quanto la Merkel e altri europeisti desiderassero 22. Il trauma fi­nanziario aveva indotto gli Stati membri a trasferire ulteriore pote­ri a Bruxelles, nella sfera economica ma non soltanto. Uno svilup­po che in altre circostanze sarebbe stato impossibile. Nell’estate del 2012 il presidente del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, ha elaborato una serie di step «per creare una vera unione monetaria ed economica». Tra questi: l’unione bancaria, fiscale e perfino poli­tica 23. In una lezione all’Università di Oxford, il ministro delle Fi­nanze tedesco Wolfgang Schäuble, tra i membri più europeisti del gabinetto Merkel, ha affermato che «lungi dal distruggere il proget­to europeo, la crisi ne aveva provocato l’avanzamento» 24.

La nuova integrazione, però, differiva largamente da quella rea­lizzata in precedenza. Diversamente dagli albori del progetto co­munitario, negli anni Dieci il trasferimento di sovranità da parte degli Stati membri non è stato pienamente volontario. In apparenza i singoli governi avevano spontaneamente ceduto ulteriori preroga­tive a Bruxelles, ma come specificato da molti leader europei (com­presa la Merkel) semplicemente non esisteva alternativa. In un cer­to senso si trattava di un’integrazione «con la pistola alla tempia».

Per risolvere i difetti dell’architettura monetaria, l’Unione euro­pea ha approvato, su ispirazione tedesca, un più rigido impianto di regole e penalità. La crisi aveva palesato la fragilità del sistema di Maastricht, già riformato dopo la sospensione del patto di stabili­tà da parte di Francia e Germania, che negli anni non era riuscito a rea lizzare la convergenza economica. La volontà tedesca di elabo­

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rare nuove regole e di farle rispettare 25 ha partorito il «Maastricht III» che, basato sulle rigide misure del fiscal compact, era più severo e allergico alle eccezioni dei suoi due predecessori.

Dalla crisi pareva essere emersa una Unione europea repressiva, in cui la coercizione rivestiva un ruolo più rilevante che in passato. Una trasformazione che ha provocato notevole tensione tra gli Stati membri (tra le nazioni con un surplus e quelle con un deficit com­merciale) e all’interno dei vari Paesi (tra classe dirigente e cittadini). In particolare la troika – il trio, composto da BCE, Commissione europea e Fondo monetario internazionale, incaricato di applicare l’austerità – ha cominciato ad essere vista alla stregua di una forza di occupazione. Era un’Europa lontana anni luce dalla visione dei padri fondatori. Nel dicembre del 2011, dopo l’approvazione del fi­scal compact, Ian Traynor ha scritto sul «Guardian» che dalla crisi era nata «un’unione triste, fatta di penalità, punizioni, disciplina e crescente risentimento» 26.

Oltre che repressiva, l’Europa stava diventando più tedesca. Giacché aveva accettato di condividere la responsabilità del debi­to continentale, la Germania pretendeva maggiori poteri. Il nuovo corso, ancorché accolto con favore da chi auspicava un più deciso impegno per l’euro, ha accresciuto il timore della potenza teutoni­ca. E Berlino ha sfruttato lo straordinario potere ottenuto per far valere la sua politica economica, basata sulla peculiare esperien­za tedesca. In sintesi: la Germania ha provato ad universalizzare la sua storia e a ridisegnare l’Europa a propria immagine. Ne è de­rivato che molte nazioni debitrici, come Grecia e Italia, hanno co­minciato a pensare l’austerity come ordinata da Berlino. In breve tempo la forza d’occupazione era diventata la sola Germania. Tale identificazione ha reso maggiormente complessa l’applicazione del­le norme e provocato il riemergere di memorie collettive legate alla seconda guerra mondiale.

Per alcuni la strategia tedesca era una forma di imperialismo economico. Specie il modello asimmetrico adottato dall’inizio della crisi: deflazione alla periferia, senza inflazione in Germania. «Non è un’unione monetaria. È un impero» 27, ha esclamato Martin Wolf nel maggio del 2012. Così George Soros ha sottolineato come i ter­mini «centro» e «periferia» siano normalmente usati per descrivere una relazione di tipo imperiale, piuttosto che geografica. E si è det­to preoccupato per un’Europa perennemente divisa tra nazioni con

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un surplus commerciale e nazioni con un deficit: di fatto «un im­pero tedesco con la periferia come hinterland» 28. Ormai il pericolo non era più che la Germania abbondonasse l’Europa, quanto che, come in passato, la dominasse.

Per un breve momento è parso addirittura che – come nel 1790 il segretario al Tesoro USA Alexander Hamilton accettò di accol­larsi il debito dei vari Stati – Berlino fosse disposta a raggiungere un compromesso con il resto d’Europa: responsabilità per il debito altrui, in cambio dell’unione politica. Nella seconda metà del 2012 si è discusso a lungo proprio di un’unione politica, che avrebbe ne­cessitato della modifica dei trattati europei e di un referendum da indire in Germania, in base all’articolo 146 della Legge Fonda­mentale come invocato da Jürgen Habermas nel 1990 29. Ma non era chiaro se nazioni come la Francia avrebbero accettato l’accor­do, né se i tedeschi lo avrebbero approvato alle urne. Così all’inizio del 2013 Berlino ha abbandonato l’idea, anche perché le operazio­ni OMT avevano relativamente smorzato la crisi e ridotto la pres­sione sulla cancelliera Merkel. In Europa il problema della poten­za tedesca rimaneva irrisolto.

Benché la risposta alla crisi abbia aumentato la percezione di un dominio germanico sull’Europa, Berlino ha continuato a respinge­re le richieste di una maggiore partecipazione alla risoluzione del­le crisi internazionali e alla sicurezza continentale in relazione alla propria taglia. Il bilancio della difesa rimaneva fermo all’1,3% del PIL. Il fenomeno era diffuso in tutto il continente, tanto che nel 2010 il segretario americano alla Difesa Robert Gates ha parlato di «demilitarizzazione dell’Europa» 30. Ma nonostante avessero ridot­to il proprio budget per far fronte alla crisi (nel caso francese sot­to richiesta tedesca), Francia e Regno Unito continuavano a spen­dere notevolmente di più della Germania in rapporto al PIL e non rinunciavano a proiettare la propria potenza nel mondo. Il rischio dunque non era soltanto che nascesse una NATO «a due velocità», come paventato da Gates, ma anche un’Europa a due velocità, divi­sa tra fornitori e consumatori di sicurezza 31.

La riluttanza tedesca ad affrontare le crisi internazionali è stata plasticamente dimostrata dal rifiuto a votare in seno al consiglio di Sicurezza dell’ONU la risoluzione che autorizzava l’intervento mi­litare contro la Libia. La ratio era impedire al regime di Gheddafi di massacrare i manifestanti filodemocratici di Bengasi. In quell’oc­

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casione la Germania non solo ha rotto con gli Stati Uniti, ma anche con la Francia. Addirittura per evitare che partecipassero alla mis­sione NATO, Berlino ha richiamato in patria 70 suoi uomini che pi­lotavano gli aerei AWACS nel Mediterraneo. Rispetto ai tempi della guerra in Kosovo, la situazione era radicalmente cambiata. Non so­lo per la mancata partecipazione all’intervento in Libia. Questa vol­ta l’olocausto era totalmente assente dal dibattito politico interno.

Poche settimane più tardi si è anche scoperto che il governo te­desco aveva segretamente chiuso un affare da 1,5 miliardi di euro per la vendita di 200 carrarmati Leopard 2 all’Arabia Saudita, pro­prio mentre Riad inviava proprie truppe in Bahrein per contribuire alla repressione delle locali manifestazioni democratiche 32. L’asten­sione sulla Libia e l’affaire saudita palesavano le difficoltà incontra­te da Berlino nel rispondere coerentemente alle primavere arabe. Ma la vendita dei carrarmati si inseriva anche nel boom dell’export tedesco di armamenti. Nello stesso periodo il governo federale ha approvato la vendita di armamenti agli Emirati Arabi Uniti per un valore di 1,2 miliardi di euro e di fregate e veicoli da trasporto trup­pe Fuchs all’Algeria. Lo «Spiegel» ha sintetizzato la «dottrina Mer­kel»: non intervenire, ma vendere armi 33. Dal canto suo il governo ha spiegato di voler difendere l’industria nazionale della difesa, in una fase in cui le altre potenze occidentali riducevano il loro budget.

La vendita di armamenti è sempre stato un punto debo­le nell’identità di «potenza civile» della Repubblica Federale. Per quanto aborrisse la forza come strumento di politica estera, a diffe­renza del Giappone, la Germania non ha mai smesso di vendere ar­mi all’estero. Nel 2000 il governo Schröder approvò nuove diretti­ve sul tema, ma questo consentì comunque agli esportatori locali di beneficiare negli anni successivi della positiva congiuntura interna­zionale. Tra il 2006 e il 2010 la Germania è divenuta il terzo espor­tatore mondiale di armamenti dopo Stati Uniti e Russia, con l’11% del mercato globale rispetto al 7% della Francia e al 4% del Regno Unito 34. Nel 2011 per la prima volta i permessi di vendita hanno raggiunto i cinque miliardi di euro e il 42% di questi erano destina­ti a nazioni non appartenenti alla NATO 35. Come ogni industriale tedesco, anche i produttori di armamenti puntavano sempre più sui Paesi emergenti, molte di questi non democratici.

La contraddizione tra l’azione di Berlino in Europa e nel re­sto del mondo era palese. Tanto era aggressiva nell’eurozona, tan­

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to stranamente dimessa nel globo. I diplomatici tedeschi insiste­vano che, dati i fallimenti dell’interventismo occidentale in Iraq e altrove, il loro modus operandi s’era dimostrato più funziona­le. Secondo tale visione, le nazioni emergenti sono delle potenze che modellano la globalizzazione (Gestaltungsmächte), con le quali sviluppare «partnership strategiche» per migliorare la governance mondiale. Uno schema inserito nel multilateralismo e non un’al­ternativa ad esso. La Germania così poteva simultaneamente pro­muovere il modello di integrazione europea e vendere automobili, macchinari e armamenti.

Perseguire due strategie distinte di politica estera, in Europa e nel mondo, aveva una sua logica. In un influente pamphlet prepa­rato nel 1999 per il think tank Demos, il diplomatico britannico Robert Cooper distingueva tra un «mondo moderno», composto di Stati­nazioni, equilibrio di potenza e forza militare; e un «mon­do postmoderno» e «postvestfaliano» in cui la distinzione tra po­litica estera e interna è sfumata, la sicurezza collettiva ha sostituito l’equilibrio tra nazioni e la forza militare non è più uno strumento legittimo 36. Mentre i membri dell’Unione europea sono «Stati post­moderni che vivono in un continente postmoderno», il resto del mondo esiste ancora in era «moderna». Per cui gli europei si «devo­no abituare ad applicare due standard operativi diversi» 37, agendo in nome della cooperazione e del diritto sul continente e utilizzan­do «i più duri metodi dell’era precedente, come l’uso della forza», quando interagiscono con Stati «moderni» 38.

Tuttavia la politica estera tedesca era l’esatto opposto del mo­dello Cooper. Nessun membro dell’Unione europea avrebbe an­che solo minacciato di ricorrere alla forza militare nel continente e la Repubblica Federale era riluttante perfino a farne uso nel resto del mondo, ma la crisi aveva dimostrato che Berlino era disposta a utilizzare la potenza economica – un’altra forma di hard power – per decidere le sorti dell’Europa, come previsto dall’espansioni­smo germanico pre 1945 39. Invece fuori dal continente la Germa­nia rifiutava sia lo strumento militare che quello economico per raggiungere i suoi scopi strategici, convinta di poter contare solo sul soft power. Quasi il globo non fosse che un gigantesco merca­to per l’export.

Se ne deduce che la Germania non possa più considerarsi una «potenza civile». Se tra il 1945 e il 2000, assieme al Giappone, è sta­

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ta la nazione che più di ogni altra si è avvicinata all’idealtipo elabo­rato da Hanns Maull, con la politica estera realista adottata negli an­ni Duemila aveva relegato il multilateralismo in secondo piano. Né è tornata ad essere una grande potenza nel senso classico del termi­ne. Dopo la crisi greca in molti hanno suggerito che la Repubblica Federale avesse riesumato l’atteggiamento bellicoso ed espansioni­stico del XIX secolo, ma Berlino non impiega la forza militare e per i tedeschi questo rappresenta una definitiva rottura con il passato.

Dunque la Germania è nuovamente un paradosso. È al tempo stesso potente e debole: come alla fine del XIX secolo appare soli­da all’esterno e si percepisce vulnerabile all’interno. Non vuole ‘gui­dare’ nelle relazioni internazionali e si oppone alla mutualizzazione del debito, anche se prova a ridisegnare l’Europa a sua immagi­ne per renderla più ‘competitiva’: la potenza tedesca è caratterizza­ta da uno strano mix di assertività economica e astinenza milita­re. Berlino si serve del suo peso economico per ingerire sugli Stati dell’Unione europea (in questo senso è «normale»), ma non punta – come Francia e Regno Unito – ad estendere la sua influenza fuori dal continente, dove intende soprattutto vendere auto e macchinari e dove non usa la forza (ciò la rende «anormale»).

Per comprendere il paradosso della potenza tedesca può esse­re utile il concetto di «geoeconomia» elaborato da Edward Lutt­wak 40. In un articolo pubblicato su «The National Interest» nel 1990 – proprio nello stesso periodo in cui Maull applicava al­la Germania il modello di potenza civile – Luttwak sostenne che «nelle relazioni internazionali gli strumenti del commercio stava­no sostituendo quelli militari: con il capitale disponibile al posto della potenza di fuoco, l’innovazione civile al posto dello sviluppo tecnico­militare e la penetrazione dei mercati al posto di basi e for­tini» 41. Anche se ormai gli Stati utilizzavano uno strumento piut­tosto che un altro, le relazioni internazionali avrebbero continua­to a rispettare «la logica della guerra» che è «conflittuale, a somma zero e paradossale» 42. Il termine geoeconomia serviva ad indicare questo «misto di logica del conflitto e strumenti del commercio o, come avrebbe scritto Clausewitz, la logica della guerra nella gram­matica del commercio» 43.

Gli eventi dei due decenni successivi sembrarono confutare la tesi di Luttwak sul passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia. I conflitti etnici e regionali degli anni Novanta e l’11 settembre co­

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strinsero le nazioni occidentali ad usare la forza militare. Perfino la Germania, notoriamente riluttante nel fare la guerra, subì una notevole pressione affinché partecipasse non solo finanziariamente ma con proprie truppe alla risoluzione delle crisi. Nel mondo post guerra fredda sembrò addirittura che la forza militare convenziona­le fosse divenuta più importante che in passato. Al contrario, gli svi­luppi successivi – su tutti l’erosione del primato globale americano da parte delle potenze emergenti (in primis la Cina) – inducono a ri­valutare il pensiero di Luttwak.

Il concetto di geoeconomia è particolarmente utile per spiega­re come la Germania utilizzi con aggressività il suo potere in Euro­pa. Nel resto del mondo la Repubblica Federale è una potenza geo­economica di tipo «soft» che si concentra quasi esclusivamente sui propri obiettivi economici. Ma all’interno dell’eurozona, dove una competizione a somma zero tra il centro e la periferia pare aver so­stituito la precedente condizione ideale, sfrutta la sua forza per co­stringere gli altri accettare la sua agenda. Sicché nel vecchio conti­nente la Germania si comporta come una potenza geoeconomica di tipo «duro» o luttwakiano, che usa gli strumenti economici in ma­niera più clausewitziana che kantiana.

La natura di una potenza geoeconomica è determinata dal ruolo rivestito dallo Stato in economia. Luttwak riconosce che «malgrado occupino pressoché tutto lo spazio politico mondiale, gli Stati ge­stiscono solo una parte dello spazio economico totale» 44. Esistono diverse forme di convivenza tra Stati geoeconomici attivi e aziende private: in alcuni casi la coabitazione è intensa e in altri blanda; in alcune circostanze sono gli Stati che guidano le grandi aziende per raggiungere i loro fini e in altre sono le industrie che provano a ma­nipolare politici e burocrati 45. La Germania rappresenta un caso di «reciproca manipolazione». Le imprese teutoniche pretendono dal­lo Stato federale politiche che promuovano i loro interessi e in cam­bio aiutano la classe dirigente a stimolare la crescita a e a creare oc­cupazione, gli unici indici di successo nella politica tedesca.

La coesistenza è molto intensa tra lo Stato federale, specie il mi­nistero dell’Economia, e gli esportatori. L’enorme contributo alla crescita fornito dall’export rende i politici dipendenti dalle multi­nazionali, ma queste a loro volta hanno bisogno del governo giacché realizzano gran parte dei loro affari in nazioni come Cina e Russia, dove il settore pubblico domina l’economia. Con l’aumento, a par­

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tire dall’era Schröder, della percentuale di PIL creata dall’export, era inevitabile che le imprese tedesche aumentassero la propria in­fluenza sulla politica estera nazionale.

Ovviamente la Germania non è l’unica nazione geoeconomica ‘attiva’ del mondo. Altri Stati, come la Cina, si servono di mezzi eco­nomici per realizzare i loro scopi strategici. La Repubblica Popola­re, però, ambisce a diventare una grande potenza nel senso classico del termine: in questa fase di ascesa utilizza principalmente il pote­re economico, ma è pronta se necessario a ricorrere alla forza mili­tare (ciò che Luttwak chiama «modalità superiore»). Per gli analisti cinesi un «potere nazionale completo» si basa su un «profilo equi­librato di potenza» che include forze armate, potere politico e po­tenza economica 46. Pe questo la politica estera di Pechino può esse­re ritenuta una forma di neomercantilismo. La Germania invece è una combinazione unica di assertività economica e astinenza milita­re. Di fatto il più puro esempio di potenza geoeconomica al mondo.

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