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8/2014

Novità dal Forum – Rassegna 8/2014

INDICE

TEMI DI ATTUALITA’ – SISTEMI ELETTORALI

Mezzogiorno e seggi europei quattro anni dopo la sentenza della Corte Costituzionale 271 del 2010

– M. Betzu

TEMI DI ATTUALITA’ – SEGRETO DI STATO E SERVIZI DI INFORMAZIONE

L’intelligence italiana a sette anni dalla riforma – A. Soi

I PAPER DEL FORUM

La “nuova” Provincia: l’avvio di una rivoluzione nell’assetto territoriale italiano – M. Gorlani

Brevi riflessioni in tema di sostanziale disconoscimento del diritto costituzionale d’asilo nella

recente giurisprudenza di legittimità – E. Xhanari

GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014

Discontinuità argomentativa nei giudizi su norme regionali di re inquadramento del personale di

enti di diritto privato e di diritto pubblico regionali (sent. 202/2014) – S. De Gotzen

Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi (sent. 39/2014) – G. Di Cosimo

GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2013

La Corte costituzionale continua (giustamente) a non prendere sul serio il federalismo demianiale –

A. Ridolfi (sent. 22/2013)

GIURISPRUDENZA – GIURISDIZIONI AMMINISTRATIVE

I diritti delle persone con disabilità ed il ruolo dell’associazionismo (nota a TAR Lazio sent. n.

3851/2014) – S. Carnovali

GIURISPRUDENZA – GIURISDIZIONI ORDINARIE

Non desiderare i figli d’altri? (Tribunale Civile di Roma, ordinanza 8 agosto 2014)- L. D Angelo

Tribunale per i minorenni di Roma, sent. 30 luglio 2014 (in materia di adozione)

EUROSCOPIO – NOTE DALL’EUROPA

Elezioni europee 2014: questa volta è diverso – M. Cartabia

AUTORECENSIONI

Salvatore Prisco, Costituzione, diritti umani, forma di governo (2014)

Fabio Dell’Aversana, Le libertà economiche in Internet: competition, net neutrality e

copyright (2014)

Mezzogiorno e seggi europei quattro anni dopo la sentenza della Corte

Costituzionale 271 del 2010*

di Marco Betzu**

(28 agosto 2014)

Nelle elezioni europee del 2014 il Ministero dell’Interno finalmente ha distribuito i seggi tra

le cinque circoscrizioni in proporzione alla rispettiva popolazione, come previsto dall’art. 2

della l. 18/1979, secondo indicazioni già proposte in riferimento a precedenti votazioni (cfr.

Betzu – Ciarlo, La sottrazione dei seggi europei al Mezzogiorno, in Giur. cost., 2010, 903

ss.). Invece, in nome dell’art. 21.1, n. 3, della stessa l. 18/1979, per oltre trent’anni era

stato utilizzato un complesso sistema di calcolo che, nell’assegnazione finale dei seggi alle

liste concorrenti nelle singole circoscrizioni elettorali, finiva per utilizzare il diverso

parametro dei votanti. Era facile notare l’antinomia tra le due disposizioni: quella generale

e successiva (l’art. 2 della l. 18/’79 è stato sostituito dall’art. 1 della l. 61/1984) attribuiva i

seggi in proporzione al numero degli abitanti, quella particolare e precedente (l’art. 21.1, n.

3) utilizzava un meccanismo di calcolo che conduceva a un risultato applicativo riferito ai

votanti, portando a favorire le circoscrizioni con una maggiore affluenza al voto, di fatto le

regioni del Nord Italia, alle quali veniva assegnato un numero di seggi superiore a quello

ad esse spettante assumendo come base di calcolo gli aventi diritto al voto (cfr. Tarli

Barbieri, La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni nelle elezioni europee: ovvero

quando il Consiglio di Stato “riscrive” una legge elettorale, in Forum di Quaderni

costituzionali - Rassegna, n. 6/2014).

Il Tar Lazio, con ordinanza n. 1633/2009, sollevò questione di legittimità costituzionale

della norma particolare di cui al citato art. 21. La Corte costituzionale preferì non decidere,

dichiarando la questione inammissibile perché rimessa alla discrezionalità del legislatore

(n. 271/2010). Giustamente si è parlato di un’occasione persa, di un non liquet (M.

Esposito, Le circoscrizioni elettorali come elemento costitutivo della configurazione

giuridica della rappresentanza politica, in Giur. cost., 2011, 2576 ss.).

Non deve sorprendere allora che un ricorrente abbia voluto insistere dinnanzi al Consiglio

di Stato, sviluppando le tesi da noi avanzate: che i seggi debbano essere distribuiti sulla

base della popolazione residente nei territori è, del resto, un principio fondamentale della

rappresentanza politica, cui è stata data attuazione anche in ordinamenti nei quali da

tempo immemore era invalsa l’antica pratica del malapportionment, ossia il ritaglio dei

* Scritto sottoposto a referee.1 1

collegi in maniera sproporzionata rispetto alla consistenza demografica (basti ricordare la

riforma dei borghi putridi del 1832 in Gran Bretagna e la storica sentenza Baker v. Carr del

1962 della Corte Suprema degli Stati Uniti). Il Consiglio di Stato (sez. V, n. 2886/2011) ha

accolto il ricorso, valorizzando il rinvio che l’art. 51 della l. 18 fa al d.P.R. 631/1957, il cui

art. 83.1, n. 8, prevede una procedura di correzione che consente ad ogni circoscrizione di

ottenere tanti seggi quanti quelli ad essa spettanti in base alla propria popolazione.

La problematica involgeva due piani: quello politico istituzionale, incentrato sul fenomeno

dello slittamento dei seggi da una circoscrizione all’altra; quello giuridico formale,

riguardante la strada percorribile de iure condito per neutralizzarlo.

Il fenomeno dello slittamento dei seggi è da tempo stigmatizzato, evidenziandone la

portata distorsiva «della proporzione nella rappresentanza delle singole circoscrizioni»

(Luciani, Il voto e la democrazia, 1991, 43). Pur trattandosi di una questione complessa,

ritenere che l’inconveniente fosse di modeste dimensioni o di limitata rilevanza pratica

(come scriveva Russo, Collegi elettorali ed eguaglianza del voto, 1998, 30) significava, tra

l’altro, sottovalutarne gli effetti punitivi che sistematicamente si sono prodotti a carico delle

circoscrizioni Meridione ed Isole, ove storicamente si è sempre registrata una minore

affluenza al voto.

Inoltre, a suo tempo abbiamo avuto modo di dimostrare come collegare l’attribuzione dei

seggi all’effettiva percentuale dei votanti dia luogo a risultati applicativi connotati da

inaccettabile casualità, perché dipendenti non soltanto dall’affluenza al voto nella singola

circoscrizione, ma anche da quella registrata nelle altre. Non si tratta banalmente di

affermare la prevalenza della rappresentanza territoriale su quella politica, ma, al

contrario, di assicurare ad ogni cittadino che il suo voto abbia lo stesso valore a

prescindere dalla circoscrizione in cui è espresso. Se è vero che «sono gli abitanti e non il

territorio a dover essere rappresentati» (Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, 1991, 441),

non è men vero che ancorare l’effettiva rappresentanza politica di una parte del Paese al

criterio del divario partecipativo, rispetto alle altre, significa sotto-rappresentarne la

popolazione. Basti pensare alla già richiamata variazione percentuale dei seggi assegnati

alle regioni del Mezzogiorno in forza del meccanismo di cui all’art. 21.1, n. 3, rispetto a

quelli attribuiti ex art. 2: circa -12,9% nel 1999, - 14,29% nel 2004, - 19,23% nel 2009

(riferimenti analitici in Betzu – Ciarlo, op. cit., 904 ss.).

Sul piano giuridico formale non sembra condivisibile la tesi secondo cui il giudice

amministrativo avrebbe fatto «diventare deputato europeo l’unico ricorrente che ha avuto

l’ardire di insistere su tesi totalmente infondate», emettendo una decisione «totalmente

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arbitraria» o fondata su «argomentazioni interpretative e logiche che gridano vendetta al

cielo» (Fusaro, Quando il Consiglio di Stato irride alla Corte costituzionale ovvero degli

sberleffi di Palazzo Spada alla Consulta (e alla ragione), in Quad. cost., 2011, 657 ss.).

Infatti il Consiglio di Stato ha desunto la prevalenza del principio dell’attribuzione dei seggi

su base demografica sia dall’applicazione del criterio cronologico, sia dalla natura di

disposizione di principio dell’art. 2. Nulla di rivoluzionario, pertanto, ma ordinaria attività

ermeneutica delle disposizioni applicabili al caso concreto.

Tanto è stato confermato dalle S.U. della Corte di Cassazione (n. 4769/2012) che,

chiamate a verificare il rispetto da parte del Consiglio di Stato dei limiti esterni della sua

giurisdizione, ne hanno escluso il superamento. Superamento che, ad onta di contrarie

argomentazioni (cfr. Tarli Barbieri, op. cit.), è stato escluso dalle S.U. anche rispetto ai

successivi passaggi concernenti l’individuazione di una susseguente lacuna legis ed il suo

riempimento mediante l’integrazione della disciplina legislativa con quella dettata dal

d.P.R. 361/1957, che pur non costituendo una soluzione costituzionalmente obbligata, era

pur sempre la soluzione legislativamente prevista: «attività, queste, tutte riconducibili

all’interpretazione della legge, secondo il dettato dell'art. 12, comma 2, delle disposizioni

sulla legge in generale» (Cass., S.U., n. 4769/2012).

Al di là delle considerazioni già da noi prospettate in passato e che sono state

sostanzialmente recepite dalla giurisprudenza amministrativa, dalle Sezioni Unite della

Corte di Cassazione e dal Ministero dell’Interno, deve sottolinearsi come il sistema che ne

è risultato appare dotato di una superiore razionalità. Consentire uno slittamento dei seggi

ex post, sulla base di variabili non conoscibili ex ante nella loro portata applicativa

concreta, significava falsare il “gioco elettorale”, non consentendo nemmeno agli attori

politici di determinarsi razionalmente nelle proprie strategie elettorali. Le competizioni

elettorali possono essere considerate un gioco strategico competitivo, nel quale gli attori

coinvolti sono giocatori razionali, potenzialmente in grado di scegliere l’opzione di valore

più elevato. Ciò, però, è possibile solo se tutti agiscono all’interno di un quadro di regole i

cui esiti applicativi abbiano un sufficiente grado di prevedibilità. Al contrario, ove questi

siano incoerenti o contraddittori non soltanto la rappresentanza ne esce distorta, ma lo

stesso gioco viene falsato.

In tanto un sistema elettorale funziona, anche in quanto sia in grado di raggiungere il

punto di equilibrio tra due principi potenzialmente confliggenti: quello della proporzionalità

politica e quello della rappresentanza degli elettori residenti in un certo territorio (cfr.

Pinelli, Eguaglianza del voto e ripartizione dei seggi tra circoscrizioni, in Giur. cost., n.

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4/2010, 3322 ss.). Sacrificare del tutto il secondo significa vulnerare un «tassello

ineliminabile della democrazia» (Bin, Rappresentanti di cosa? Legge elettorale e territorio,

in le Regioni, n. 4/2013, 662), ma anche favorire inedite contiguità tra radicalismi etnico

territoriali e populismi (cfr. Ciarlo, Voto europeo e trasformazioni delle affinità politiche, in

Forum di Quaderni costituzionali - Rassegna, n. 6/2014), minando alla radice le basi

stesse della rappresentanza politica.

In occasione delle elezioni europee del 2014 l’incoerenza del sistema è stata finalmente

eliminata, nel senso da noi auspicato quattro anni fa. Conformandosi al parere espresso

dalla I sezione del Consiglio di Stato (n. 4748/2013), il Ministero dell’Interno ha applicato la

disciplina correttiva prevista per la Camera dei deputati dall’art. 83.1, n. 8 del d.P.R.

361/1957, neutralizzando la già denunciata portata discriminatoria che era propria dell’art.

21.1, n. 3. Una scelta giuridicamente corretta, che ripristina il diritto dopo una lunga fase

politica segnata da pratiche volte a favorire surrettiziamente una parte del Paese.

** Ricercatore t.d. di Diritto costituzionale nell’Università di Cagliari

Il presente articolo è stato prodotto durante l’attività di ricerca finanziata con le risorse del P.O.R.SARDEGNA F.S.E. 2007-2013 - Obiettivo competitività regionale e occupazione, Asse IV Capitale umano,Linea di Attività l.3.1 “Avviso di chiamata per il finanziamento di Assegni di Ricerca”.

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L’intelligence italiana a sette anni dalla riforma

di Adriano Soi*

(3 settembre 2014)

La riforma dell’intelligence italiana ha compiuto sette anni: il ”Sistema di informazione

per la sicurezza della Repubblica” fu infatti istituito dalla legge 3 agosto 2007, n. 124,

approvata con ampio consenso parlamentare, mentre addirittura all’unanimità, e in

sede legislativa in entrambi i rami del Parlamento, è stata approvata la legge 7 agosto

2012, n. 133, che ha ritoccato alcuni importanti aspetti della riforma e ha rafforzato le

attività di informazione a tutela delle infrastrutture critiche e della sicurezza informatica

nazionale Non si è trattato, dunque, di una “riforma della riforma”: il legislatore non è

tornato sui propri passi ma, al contrario, ha concluso il lavoro iniziato nel 2007,

definendo compiutamente il disegno del “Sistema di informazione per la sicurezza della

Repubblica”.

L’idea di “sistema” - principio ispiratore del nuovo modello di organizzazione

dell’intelligence italiana - e il potenziamento dei poteri del Comitato parlamentare per la

sicurezza della Repubblica (COPASIR) si sono progressivamente confermati, in questo

primo settennio di vigenza della riforma, come i due pilastri su cui è basato l’edificio

progettato nelle sue linee fondamentali dal legislatore del 2007 e completato da una

nutrita serie di regolamenti attuativi, approvati dal Governo dopo aver acquisito, ed in

larga parte recepito, i pareri espressi dal Comitato parlamentare (cfr. la relazione al

Parlamento licenziata dal COPASIR il 23 gennaio del 2013 e pubblicata negli Atti

parlamentari come Doc. XXXIV n. 7).

Il vecchio modello costruito dalla legge n. 801 del 1977 – due Servizi dipendenti da due

Ministri, sottoposti a un debole potere di coordinamento del Presidente del Consiglio dei

Ministri e ad un ancor più debole controllo parlamentare – era figlio della Guerra

Fredda, un tempo in cui la dimensione della sicurezza nazionale era innanzitutto e

soprattutto militare. Ciò giustificava l’esistenza di un Servizio d’informazione

interamente militare (il SISMI) operante in un regime di forte separatezza rispetto a

quello civile (il SISDE), impegnato nella diversa, ma altrettanto ardua missione di

contrasto al terrorismo e all’eversione.

Tuttavia, dopo la caduta del muro di Berlino, all’inizio degli anni Novanta del secolo

scorso, quel modello perse rapidamente ragion d’essere, perché sempre meno

rispondente alle nuove caratteristiche della “minaccia” e completamente inadatto a far

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uscire i Servizi da un passato in cui l’aggettivo “segreto” evocava accuse e sospetti di

deviazioni dai fini istituzionali molto di più di quanto non rinviasse alle imprescindibili

esigenze della sicurezza nazionale.

La riforma prese atto, con buona visione strategica, del mutamento dei tempi, segnato

dall’instaurarsi di uno scenario mondiale ormai multipolare dal punto di vista della

sicurezza e totalmente globalizzato dal punto di vista economico.

La “minaccia” stava diventando sempre più globale e asimmetrica (cioè portata anche

da attori non statali, dal terrorista allo hacker) e riguardava sempre meno la dimensione

territoriale della sovranità, mandando definitivamente in pensione la difesa della soglia

di Gorizia e prendendo di mira, invece, le infrastrutture critiche del Paese così come le

sue proiezioni internazionali, tanto pubbliche che private, il patrimonio tecnologico delle

sue aziende o la sua capacità di garantirsi un adeguato approvvigionamento

energetico.

Tutto ciò era sicuramente ben presente al legislatore quando ha scritto le due norme-

chiave della legge n. 124 del 2007, vale a dire gli articoli 6 e 7, che ampliano, in

maniera perfettamente simmetrica, le missioni delle due Agenzie di informazione.

All’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) accanto e oltre alla ricerca di tutte

le informazioni “utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della

Repubblica, anche in applicazione di accordi internazionali, dalle minacce provenienti

dall’estero” – formula che riprende assai da vicino quella usata per il SISMI dalla

vecchia legge 24 ottobre 1977, n. 801 – vengono infatti attribuite le attività informative

oltre confine “a protezione degli interessi politici, militari, economici, industriali e

scientifici dell’Italia”.

Questo stesso elenco di finalità della ricerca informativa viene affiancato per l’Agenzia

informazioni e sicurezza interna (AISI) al compito di ricercare “tutte le informazioni utili a

difendere, anche in attuazione di accordi internazionali, la sicurezza interna della

Repubblica e le istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento, da

ogni minaccia, da ogni attività eversiva e da ogni forma di aggressione criminale”,

formula che riecheggia quella contenuta nella legge n. 801 per indicare le missioni del

SISDE.

Il cuore della riforma è qui, in quest’ampia elencazione di interessi alla cui tutela

l’intelligence è chiamata a concorrere fornendo al Governo il proprio supporto

normativo.

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Non sembra azzardato rinvenire in tale elenco la prima declinazione legislativa, dal

1948 a oggi, dell’interesse nazionale, estesa dalla tradizionale dimensione politico-

militare a quella economica, messa progressivamente in primo piano dalla

competizione globale.

Torna alla mente un passo della sentenza n. 86 del 1977, nel quale la Corte

costituzionale identificava il fondamento del segreto politico-militare nei “supremi

interessi che valgono per qualsiasi collettività organizzata a Stato” e “possono

coinvolgere la esistenza stessa dello Stato”; “interessi istituzionali”, sottolineava ancora

la sentenza, che “devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono

nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono”.

La Corte pur non usando direttamente l’espressione “interesse nazionale”, ne richiama

il nucleo indefettibile mediante il ricorso alla classica formula ciceroniana della salus rei

pubblicae e non la riferisce solo allo “Stato-ordinamento” ma anche allo Stato-comunità.

Per un verso, dunque, la sentenza mette in risalto come questo interesse rivesta

carattere “istituzionale”, si ponga come “un interesse costituzionale superiore” ed esuli

nettamente dall’indirizzo politico contingente, legato a Governi e maggioranze.

D’altro canto, se ben si guarda, il riferimento allo “Stato-comunità” anticipa il dibattito

scientifico e l’evoluzione politica che nel mondo occidentale, a partire dagli anni Ottanta,

hanno condotto al progressivo ampliamento delle nozioni di interesse nazionale e di

sicurezza nazionale, estendendole oltre l’originario ambito “politico e militare” –

classicamente riferito alla difesa dello Stato-ordinamento e dei suoi elementi costitutivi -

fino ad includere interessi di natura economica, scientifica e industriale.

Questo è proprio il “perimetro” tracciato dalla legge n.124 del 2007 per inscrivervi le

nuove missioni dell’intelligence italiana, un perimetro in cui si muovono soggetti pubblici

e privati e che coincide, in buona sostanza, con lo spazio dello Stato- comunità.

Rileggendo oggi la sentenza n. 86 del 1977, troviamo così complessivamente delineata

e posta alla base della sicurezza nazionale quell’idea che oggi siamo soliti sintetizzare

descrittivamente nell’espressione “sistema-Paese”; il sistema-Paese chiamato in causa

dalla competizione globale almeno quanto questa coinvolge le singole imprese, il

sistema-Paese portatore del complesso degli interessi nazionali alla cui difesa i Servizi

di intelligence sono chiamati dalla legge a concorrere fornendo informazioni ai decisori

di Governo

Come dicevamo, questo appare, ogni giorno di più, il quadro di riferimento tenuto

presente dal legislatore nell’improntare la riforma all’idea di “sistema”.

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Se il perimetro da difendere è quello descritto – ampio, complesso, articolato, fatto di

istituzioni, ministeri, installazioni militari, apparati e aziende pubbliche, ma anche di

imprese private di rilevanza strategica, di infrastrutture critiche sia pubbliche che

private, e via elencando - e se la minaccia è quella che abbiamo prima delineata -

globale quanto alla provenienza, trasversale per settori interessati e asimmetrica

quanto agli attori - i Servizi non possono più operare come “monadi” e devono

rinunciare ad una applicazione indiscriminata, “a tappeto” del binomio

riservatezza/separatezza.

Per massimizzare, in quantità e qualità, le acquisizioni informative occorre, in primo

luogo, saper “mettere a sistema” tutte le informazioni disponibili per trasformarle in

conoscenza. A questo fine mira l’istituzione del “Sistema di informazione per la

sicurezza”, in cui il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) posto alle

dipendenze del Presidente del Consiglio dei ministri, ha innanzitutto il compito di

portare a sintesi unitaria l’attività di ricerca informativa delle due Agenzie.

La seconda, fondamentale novità introdotta dalla riforma, è la previsione di una fitta

trama di relazioni tra il Sistema-intelligence e il resto della Pubblica Amministrazione

(Forze Armate e di polizia, ministeri, amministrazioni pubbliche, enti, anche a

ordinamento autonomo ed enti ricerca, sia pubblici che privati) per consentire al primo

di acquisire, e in qualche caso anche fornire, informazioni utili alla sicurezza della

Repubblica.

E’ evidente che questa trama di relazioni deve essere sviluppata mantenendo i

necessari livelli di sicurezza, ciò che pone problemi inediti e, certamente, rende i Servizi

un po’ meno “segreti”.

E tuttavia, se questo è un prezzo, merita di essere pagato: infatti, solo ripensando

l’intelligence per quello che è - un settore della Pubblica Amministrazione, collegato con

gli altri e come gli altri tenuto ad operare in base alla legge, pur svolgendo attività “non

convenzionali” – è oggi possibile realizzare quelle sinergie informative indispensabili per

garantire al sistema-Paese una cornice informativa di sicurezza adeguata ai tempi.

I rischi aggiuntivi, in termini di tenuta della sicurezza delle informazioni, che certamente

si affrontano in questo modo, sono largamente bilanciati dal guadagno, in termini di

legittimazione, che ai Servizi deriva da una maggiore conoscenza delle loro attività da

parte degli altri settori dell’Amministrazione e dell’opinione pubblica.

In questo stesso senso, sia pure su un diverso piano, opera il controllo parlamentare,

l’altro pilastro della riforma: l’esistenza di un soggetto di alto livello politico-istituzionale,

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impegnato nella verifica - “in modo sistematico e continuativo” (art. 30, comma, 2 della

legge n. 124 del 2007) e con strumenti assai più incisivi che in passato - della

rispondenza dell’attività degli organismi informativi al dettato costituzionale e legislativo,

nonché all’”esclusivo interesse” della Repubblica - rappresenta una fondamentale

garanzia di trasparenza nei confronti di tutta l’opinione pubblica, rafforzando

l’applicazione del principio-base degli ordinamenti democratici, in virtù del quale il

“segreto” rappresenta l’eccezione alla regola generale della pubblicità.

Una riforma che incide così profondamente su assetti e rapporti da cui dipende in larga

misura la sicurezza della Repubblica, difficilmente può affermarsi se non è

accompagnata da una nuova cultura.

Quella “cultura della sicurezza” di cui parla espressamente la riforma affidandone al DIS

la “promozione e diffusione”, con una norma assolutamente innovativa per la comunità

intelligence italiana.

Sulla scorta di fortunate esperienze straniere (ad esempio quelle maturate in Canada,

Stati Uniti, Spagna e Romania) il DIS ha interpretato lo svolgimento di questa missione

nella forma di un’“apertura” verso il mondo accademico, volta a creare collaborazioni

con i singoli atenei per la messa a punto di iniziative formative riguardanti l’ intelligence

e la sicurezza nazionale.

In tale quadro si inserisce anche la serie di conferenze tenute dai vertici politico-

istituzionali del Sistema di informazione in diverse sedi universitarie, per favorire la

conoscenza dell’organizzazione e delle missioni dell’intelligence nazionale.

Grazie a questo lavoro e alla maggiore disponibilità di documenti pubblici riguardanti i

Servizi di informazione che offrono materiale di studio e dibattito (le relazioni annuali del

Governo e del COPASIR, i documenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla

sicurezza informatica e cibernetica del Paese, gli interventi pubblici dei Presidenti del

Consiglio dell’ultimo triennio) sta ora crescendo il numero di insegnamenti, corsi di

perfezionamento e master in materia di intelligence e sicurezza attivi nelle nostre

Università, pubbliche e private. Il cammino è ancora lungo ma la via è tracciata.

* Prefetto, responsabile della comunicazione istituzionale del Dipartimento informazioni

per la sicurezza

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La “nuova” Provincia: l'avvio di una rivoluzione nell'assetto territorialeitaliano

di Mario Gorlani*(31 agosto 2014)

SOMMARIO: 1. L’ondivago percorso di riforma dell’ente di area vasta – 2. La leggeDelrio: le Province (per il momento) non vengono abolite, ma trasformate – 3.Profili di criticità costituzionale della nuova disciplina - 4. La forma di governo dellanuova Provincia e il sistema elettorale del Presidente e del Consiglio – 5. Lefunzioni della nuova Provincia – 6. Conclusioni

1. L’ondivago percorso di riforma dell’ente di area vasta

Anni, anzi decenni di tentativi di intervento sull’organizzazione territorialedel nostro Paese e, in particolare, sulla sorte delle Province1, hanno da ultimoportato all’approvazione della legge n. 56 del 7 aprile 2014 (cosiddetta “legge“Delrio”) che, in attesa dell’annunciata revisione – ad oggi in itinere – del Titolo Vdella Costituzione2, ridisegna (e ridimensiona) l’identità istituzionale dell’enteprovinciale, nel suo profilo politico-rappresentativo, nella sua forma di governo enelle competenze che sarà chiamato ad esercitare.

Sarebbe vano, però, cercare nelle riforme degli ultimi anni una linea dicontinuità con la nuova normativa, perché la legge Delrio segna un deciso cambiodi rotta, addirittura opposta, a quella impressa da molte, se non da tutte, le ultimeleggi in materia (legge 142 del 1990; legge 81 del 1993; legge 59 del 1997 ed.lgs. 112 del 1998; l. cost. 3 del 2001), che hanno implementato la dimensioneprovinciale, in nome dei principi di sussidiarietà e adeguatezza. Con la riforma delTitolo V e con le riforme legislative e amministrative degli anni ’90, infatti, si érafforzato il ruolo delle Province, valorizzandone il profilo politico, mediantel’elezione diretta del loro presidente, e arricchendone il catalogo delle funzioni, siadi programmazione e pianificazione territoriale, sia di quelle più direttamenteoperative nei settori della edilizia scolastica, della formazione professionale, delturismo, della caccia e della pesca, della viabilità, dei trasporti, dell’ambiente e deirifiuti, del lavoro; le stesse Regioni, tradizionalmente diffidenti nei confronti delleProvince, non hanno esitato a subdelegare a queste ultime molte nuovecompetenze di cui sono state investite a partire dal d.lgs. 112 del 1998 e dallalegge costituzionale n. 3 del 20013. Ciò, peraltro, in linea con l’esperienza della

1 Per una ricostruzione di tali tentativi cfr. C. SPERANDII, La ristrutturazione territoriale e istituzionale delleProvince italiane, in www.issirfa.cnr.it.2 Come noto, il disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura dal Senato l’8 agosto 2014, oltrealla riforma del Titolo V, contiene disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzionedel numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione delCNEL.3 Per avere un’idea, in Lombardia sono oltre 100 le deleghe conferite mediamente dalla Regione alleProvince, a cui si aggiungono le numerose funzioni proprie derivanti da leggi dello Stato. Numeri analoghisi ritrovano anche nelle altre Regioni.

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maggioranza dei Paesi europei4 e con il pensiero di non pochi studiosi, che hannodifeso (e continuano a difendere) l’importanza della Provincia quale essenzialeelemento organizzativo delle funzioni a livello locale5.

La spinta decisiva ad un ridimensionamento, se non addirittura ad unaabolizione, delle Province, anche se può vantare ascendenze lontane, risalentiall’epoca della Costituente6, è quindi molto più recente7, a partire da metà dellaXVI legislatura, in coincidenza con l’aggravarsi della crisi del nostro debitopubblico. Da lì prende le mosse un percorso che giunge in breve “ad un punto dinon ritorno”8 e che si sostanzia prima, nella XVI legislatura, in una serie diinterventi legislativi d’urgenza, mai però attuati per l’intervento della Cortecostituzionale; e poi, nel corso della corrente legislatura, nella legge Delrio; comese, dopo decenni di un’inerziale propensione all’espansione delle funzioniprovinciali9, il legislatore, convinto dalla situazione emergenziale dei conti pubblici,avesse trovato il colpo di reni necessario per invertire la tendenza, e per darefinalmente corpo ad un progetto risalente, maturo nei tempi ma mai attuato10.

Sarebbe utile fermarsi a riflettere sulle ragioni di un così prolungatoimmobilismo riformatore, e addirittura di un indirizzo legislativo degli anni passatiantitetico rispetto ai propositi che l’avevano animato; e ci si dovrebbe domandarese la difficoltà di abolire o trasformare prima di oggi le Province sia stata il frutto diuna sorta di schizofrenia legislativa, o delle normali e ordinarie resistenze che

4 La maggioranza dei Paesi europei conosce il secondo livello locale (19 su 28, gli altri 9 sono Paesi dipiccole dimensioni o con una tradizione amministrativa particolare). In 17 su 19 il secondo livello locale èelettivo, e non è di secondo grado. Solo in Spagna e Finlandia gli organi di governo sono elettiindirettamente (dai consiglieri dei comuni compresi nel territorio provinciale), ma ciò dipende dal fatto chela Provincia svolge in realtà compiti comunali, soprattutto a favore dei Comuni più piccoli: cfr., su questodato, il volume di Astrid “Semplificare l’Italia. Stato, Regioni, Enti locali”, a cura di F. BASSANINI e L.CASTELLI, 2007. Come spesso accade in occasione di riforme di sistema, la comparazione con gli altri Paesicattura l’attenzione degli studiosi: cfr. C. BACCETTI, Il ruolo dell’ente intermedio in Europa, Caratteriistituzionali e politici del livello di governo intermedio in alcuni paesi europei (Belgio, Francia, Germania,Polonia, Regno Unito e Spagna). Spunti introduttivi ad una comparazione con l’Italia, www.upitoscana.it.5 Cfr., tra gli altri, G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia. Audizionedavanti alla I commissione della Camera 30 luglio 2009, in www.federalismi.it, n.17/2009, che sottolinea“la configurazione della Provincia come comunità territoriale: il che rappresenta un dato oggettivo e nonartificiale, ossia legato ad un substrato socio-politico di appartenenza collettiva unitaria, con una precisaidentità (che si atteggia ovviamente in modo parzialmente diverso nelle aree metropolitane)”.6 Per una sintesi del dibattito in Assemblea costituente cfr. S. MANGIAMELI, La Provincia, l’area vasta e ilgoverno delle funzioni nel territorio. Dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale ,in www.issirfa.cnr.it., 3-4.7 Tanto che nel disegno di legge per l’approvazione del Codice delle autonomie locali, risalente al novembre2009, il catalogo delle funzioni fondamentali delle Province viene integralmente confermato.8 Così B. CARAVITA e F. FABBRIZZI, Riforma delle Province. Spunti di proposte a breve e lungo termine, inwww.federalismi.it, n. 2/2012.9 M. DI FOLCO, Le Province al tempo della crisi, in www.rivistaaic.it, parla di una “fase recessiva delprincipio autonomistico, in netta contrapposizione con la stagione che, dagli anni novanta dello scorsosecolo, ne aveva viceversa visto la progressiva concretizzazione, dapprima sul piano della legislazioneordinaria e poi su quello delle regole costituzionali”.10 Cfr., tra i molti che sono intervenuti sul tema in questi anni, T. GROPPI, Soppressione delle Province enuovo Titolo V (Audizione davanti alla I Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, 30luglio 2009), in www.federalismi.it, n.15/2009, che parla di “annosa questione della soppressione dellaProvince … che ciclicamente si ripresenta fin dagli albori del Regno d’Italia per attraversare l’Assembleacostituente e il dibattito sulla organizzazione territoriale dello Stato nell’epoca repubblicana”. Cfr., anche L.VANDELLI, Poteri locali, Bologna, 1990, 289.

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accompagnano qualsiasi riforma di sistema, oppure ancora se non sia laconseguenza di un’oggettiva necessità dell’ente, non surrogabile mediante formeassociative tra Comuni o altre circoscrizioni di decentramento territoriale, comeinsegna l’esperienza deludente dei comprensori negli anni ’70, nella primastagione di avvio dell’esperienza delle Regioni ordinarie11.

E’ un dato, infatti, che un numero sempre crescente di serviziamministrativi diffusi sul territorio individuano in forme di aggregazionesovracomunale la loro dimensione necessaria, se non ottimale: dal servizio idricoalle reti di distribuzione del gas; dal trasporto locale alla localizzazione dellediscariche; dai piani cave alle aziende speciali consortili per i servizi alla persona;dalla pianificazione territoriale alle politiche ambientali12; a riprova di un crescenteampliamento di prospettiva nella gestione delle funzioni amministrative locali,frutto di uno sviluppo demografico e urbanistico che da tempo, e non solo intornoai principali centri urbani, ha reso evidente l’inadeguatezza delle storichecircoscrizioni comunali13.

Storicamente le Province sono nate e si sono affermate come il livellotipizzato del decentramento amministrativo statale, sul modello dei dipartimentifrancesi, con a capo il prefetto e con un profilo marcatamente burocratico-funzionale, il cui scopo, secondo la legge Rattazzi n. 3702 del 23 ottobre 1859che per prima le aveva istituite, era quello di assicurare che “da qualunque luogodel territorio fosse possibile arrivare al centro dell’amministrazione, ossia alcapoluogo, in una giornata di viaggio”14; con circoscrizioni che combinavanoragioni storico-geografiche, assetti urbanistico-demografici e opzioni di razionalitàamministrativa15: in altre parole, i confini delle Province furono definiti sulla base ditradizioni di natura storica, ma anche di una naturale gravitazione di determinatecomunità intorno ad un capoluogo di riferimento16, nonché di più cartesianeragioni di omogeneità dimensionale e demografica.

11 Per un riferimento alla ratio della istituzione dei comprensori si veda F. BASSANINI, Le Regioni tra Stato ecomunità locali, Bologna, 1976, 323 ss.12 Ma proprio questa diversa articolazione delle funzioni pubbliche pone il problema della loro dimensionegeografica di gestione, che varia da settore a settore: così R. BIN, Il nodo delle Province, cit., 17; e talevariabilità pone, a sua volta, il problema della adeguatezza della Provincia a fare da unico punto diriferimento per ciascuna di esse.13 La questione della dimensione inadeguata dei livelli territoriali esistenti, sia di quello comunale sia diquello provinciale, rispetto alla gran parte dei servizi e degli interventi attribuiti alla competenza locale, hasempre rappresentato il nodo critico con cui qualunque ipotesi di riforma si è dovuta confrontare: si veda, inquesto senso, ancora F. BASSANINI, Le Regioni tra Stato e comunità locali, cit., 323-324, secondo cui “nelpresente assetto dell’amministrazione locale, com’è noto, i Comuni presentano dimensioni moltodisomogenee (anche in relazione a fattori storici connessi allo sviluppo dell’amministrazione locale negliordinamenti preunitari) e talora insufficienti rispetto alla dimensione ottimale di gran parte dei servizi e degliinterventi attribuiti alla competenza comunale; mentre le Province rappresentano, non di rado, nell’attualeconfigurazione, circoscrizioni artificiali, non coincidenti neppure esse (di solito per eccesso) con areeterritoriali adeguate allo svolgimento ottimale di servizi o interventi «di area vasta»”. Di qui la proposta didar vita a Province-comprensori, di numero superiore a quello attuale, dimensionate più correttamenterispetto alle esigenze di programmazione e gestione dei servizi di area vasta.14 Così G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia, cit., 8.15 Come osserva ancora R. BIN, Il nodo delle Province, cit., “siccome i comuni sono un capillare con cui ilsistema burocratico comunica con il sistema democratico, e quindi può essere un luogo critico per l’assettodei pubblici poteri e per la tutela della legalità, a livello di Provincia si era organizzato anche l’apparato dicontrollo sulle attività dei Comuni. In questa veste, è giusta una ripartizione razionale – demografica egeografica – del territorio, e una identità delle funzioni”.

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Muovendo dal decentramento delle funzioni statali è risultato naturaleidentificare le Province, per evitare dispendiose duplicazioni e problematiciconflitti, anche come la naturale dimensione dell’ente di area vasta, con unaprogressivamente crescente fisionomia politico-rappresentativa, sia in virtùdell’elezione diretta dei suoi organi di governo, sia in ragione dell’attribuzione difunzioni e competenze che comportavano scelte di natura politica17.

La Provincia, quindi, ha continuato ad esistere – e, se così si può dire, aprosperare, visti alcuni eccessi moltiplicatori, derivanti da spinte puramentelocalistiche, che hanno portato le Province a crescere da 92 a 110 in pochi anni –per fare da punto di caduta del decentramento amministrativo statale e regionalee, contestualmente18, per dare un’entificazione politica agli interessi di area vasta,nella consapevolezza che la “polverizzazione” dei Comuni, specie in alcuneRegioni settentrionali, imponesse forme di coordinamento, di pianificazione e digestione allargata dei servizi.

Ciò nonostante, mentre si è andata rafforzando nella sua identità politico-istituzionale, la Provincia è stata il primo obiettivo polemico dei propositi di riformadell’assetto territoriale. Se ne discusse a lungo in assemblea costituente, conl’idea di abolirla; se ne è parlato nei decenni successivi, in particolare conl’istituzione, nel 1970, delle Regioni ordinarie, che sembravano togliere spazio alleProvince e che, peraltro, nell’organizzazione decentrata delle loro funzioni,tentarono esperienze di decentramento alternative, come i comprensori.

Poi, dopo quasi un ventennio (1990-2008) nel quale le Province hannovisto crescere il loro ruolo, si è ricominciato a ipotizzare, con insistenza, un lororidimensionamento nella XVI legislatura, quando, all’insegna di proclamate edindifferibili esigenze di risparmio e spending review19, la Provincia è tornataall’attenzione del legislatore, nell’ambito della copiosa legislazione emergenzialedi questi anni, dettata dalla crisi economica e finanziaria, il cui filo conduttore èstato una supposta esigenza di riduzione dei costi, più che un’esigenza di riordino

16 Parla di gravitazione tra il territorio in cui sono disseminati gli enti di primo livello, i comuni, e il centrourbano più importante, il capoluogo, G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, cit., 2.17 Lo sottolinea R. BIN, Il nodo delle Province, cit.18 Una delle novità introdotte dalla legge Delrio è però, in prospettiva, il venir meno della coincidenza tracircoscrizioni di decentramento statale e dimensione dell’area vasta di esercizio delle funzioni locali: ai sensidell’art.1, co. 147, infatti, “fermi restando gli interventi di riduzione organizzativa e gli obiettivi complessividi economicità e di revisione della spesa previsti dalla legislazione vigente, il livello provinciale e delle cittàmetropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza perl'organizzazione periferica delle pubbliche amministrazioni. Conseguentemente le pubblicheamministrazioni riorganizzano la propria rete periferica individuando ambiti territoriali ottimali di eserciziodelle funzioni non obbligatoriamente corrispondenti al livello Provinciale o della città metropolitana”.Peraltro, ai sensi del successivo co. 148, “le disposizioni della presente legge non modificano l'assettoterritoriale degli ordini, dei collegi professionali e dei relativi organismi nazionali previsto dalle rispettiveleggi istitutive, nonché delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura”. Si profila così ilrischio di una notevole disomogeneità nella distribuzione territoriale dei vari servizi, che imporrà allegislatore uno sforzo supplementare di razionalizzazione.19 Cfr. S. MANGIAMELI, La Provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni nel territorio , cit., 7, che notache il quadro costituzionale definito con la riforma del Titolo V avrebbe necessitato di una coerenteattuazione da parte soprattutto del legislatore statale, ma, in realtà, “il processo riformatore si è arrestatosubito dopo la revisione costituzionale del Titolo V e dal 2001 ad oggi, alla mancata attuazione della riformacostituzionale, testimoniata ancora in questa legislatura dalle vicende del ddl sulla carta delle autonomie, si èaggiunta la crisi economica che ha generato una legislazione dai contenuti economico-finanziari, ma che nonha esitato ad agire anche sui profili istituzionali.”

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dell’assetto territoriale italiano20. Sulla spinta di una battente vulgata mediatica, leProvince (ma anche le Regioni e i Comuni) sono state presentate e percepite, piùche nella loro dimensione di enti di valorizzazione della partecipazionedemocratica, come “una diseconomia da eliminare con le decisioni radicalinecessarie a fronteggiare l’emergenza”21.

Il primo provvedimento22 che nella scorsa legislatura ha perseguitol’obiettivo del depotenziamento e della progressiva dismissione della Provincia èstato il decreto-legge n. 201 del 6 dicembre 2011 (c.d. decreto “Salva Italia”),approvato dal governo Monti e convertito nella l. n. 214 del 22 dicembre 2011.Con esso si è disposta la cancellazione dell’elezione diretta degli organiprovinciali di governo, la drastica riduzione del numero dei consiglieri provinciali23

e la soppressione delle relative giunte; e, per altro verso, un sostanzialesvuotamento delle funzioni attribuite alla Provincia.

Quanto alle funzioni, sarebbero rimaste in capo alla Provinciaesclusivamente quelle di indirizzo politico e di coordinamento delle attività deiComuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo lerispettive competenze: tutte le altre sarebbero dovute essere trasferite ai Comuni,“salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalleRegioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”(art. 23, co. 18, d.l. 201/2011).

Il d.l. n. 201 del 2011 ha suscitato l’immediata reazione di molte Regioni,che l’hanno impugnato innanzi alla Corte costituzionale, tanto da indurre ilgoverno Monti a cambiare completamente strategia: il d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (neltesto risultante dalla legge di conversione n. 135 del 7 agosto 2012), neldeterminarne le funzioni fondamentali, ha segnato il recupero alla Provincia dialcune competenze di area vasta; al contempo, però, ha optato per “uncomplesso procedimento di razionalizzazione territoriale ispirato a criteri diottimalità dimensionale e demografica”24. L’opzione del legislatore del 2012, inaltre parole, è andata nel senso di conservare le Province nella lorocaratterizzazione tradizionale e di conseguire gli auspicati risparmi mediante unaloro riduzione di numero (tanto che le Province delle Regioni ordinarie passano,nel progetto, da 86 a 54). I criteri, definiti nella delibera del Consiglio dei ministridel 20 luglio 201225, sono stati poi riversati nell’art. 2 del d.l. 5 novembre 2012, n.

20 Parla di “legislazione emergenziale della XVI legislatura” A. DEFFENU, Il ridimensionamento delleProvince nell’epoca dell’emergenza finanziaria tra riduzione delle funzioni, soppressione dell’elezionediretta e accorpamento, in www.osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2012.21 Cfr. S. STAIANO, Le autonomie locali in tempi di recessione: emergenza e lacerazione del sistema, inwww.federalismi.it, n. 17/2012, 1 ss.22 In precedenza c’erano stati altri interventi di portata più circoscritta, volti ad incidere soltanto sullacomposizione numerica degli organi di governo provinciale.23 In particolare il comma 16 dell’art. 23 aveva previsto che il consiglio provinciale fosse composto da nonpiù di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia, mentreil successivo comma 17 stabiliva che il presidente della Provincia fosse eletto dal consiglio provinciale tra isuoi componenti.24 Cfr. la deliberazione del Consiglio dei ministri 20 luglio 2012, che indica in 2500 kmq la dimensioneminima e in 350.000 abitanti il numero minimo di popolazione residente.25 Tra i tanti profili di dubbia legittimità costituzionale del processo di riforma delle Province della XVIlegislatura, il più eclatante è consistito nell’aver affidato ad una delibera del Consiglio dei ministri ladeterminazione dei criteri di riduzione e accorpamento delle Province, che solo successivamente è statoriversato in un decreto-legge.

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188; ma il decreto legge è stato lasciato cadere senza conversione a finelegislatura, anche per le accese opposizioni politiche che esso ha suscitato,specialmente da parte delle Province interessate.

La stagione delle riforme provinciali, coincidente con l’ultima parte della XVIlegislatura, è così finita su un binario morto, anche perché la Corte Costituzionale,con la sentenza n. 220/201326, ha reso giustizia della fretta con cui il Governo e ilParlamento avevano agito, dichiarando l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 23del d.l. 201 del 2011, sia degli artt. 17 e 18 del d.l. 95 del 2012, appuntando le suecensure principalmente – se non esclusivamente – sulla violazione dell’art. 77Cost.: “il decreto-legge, infatti, è un atto destinato a fronteggiare casi straordinaridi necessità e urgenza, e non è strumento normativo utilizzabile per realizzareuna riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nelpresente giudizio”.

All’aprirsi della XVII legislatura, dunque, i tentativi di riformare le Provinceerano tutti falliti, ancorché il tema restasse al centro del dibattito politico27.

2. La legge Delrio: le Province (per il momento) non vengono abolite, matrasformate

Con l’insediamento del governo Letta all’inizio della XVII legislatura il temadella riforma delle Province è stato ripreso e rilanciato28. Abbandonati i propositi diriduzione/razionalizzazione demografica e geografica delle Province esistenti, esolo temporaneamente quelli di abolizione29, si è tornati alla configurazione dellaProvincia come ente di secondo livello, secondo l’impostazione propria del d.l. n.201 del 2011, con organi di governo eletti dai sindaci e dai consiglieri comunalidel territorio, titolare di poche competenze gestionali dirette e, soprattutto, difunzioni di coordinamento, supporto e pianificazione delle funzioni comunali.

26 La sentenza n. 220 del 2013 della Corte costituzionale può leggersi in Giur. Cost., 2013, 3157 ss., con notedi N. MACCABIANI, Limiti logici (ancor prima che giuridici) alla decretazione d’urgenza nella sentenzadella corte costituzionale n. 220 del 2013, e di G. SAPUTELLI, Quando non è solo una “questione diprincipio”. I dubbi di legittimità non risolti della “riforma delle Province”.27 Nei programmi delle forze politiche per le elezioni del febbraio 2013 l’abolizione delle Province mediantemodifica costituzionale, compare nel programma del PDL, del Movimento 5 Stelle, di Scelta Civica e dellaLega Nord. Invece, “per quanto attiene l’ente intermedio il PD ritiene che le sue funzioni mantenganoancora oggi attualità e che si debba semmai aprire una approfondita riflessione, guardando alle miglioriesperienze europee sulla forma più innovativa e capace di dare risultati”. I programmi sono riportatiall’indirizzo http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/25_elezioni.28 Il 20 agosto 2013 il governo Letta ha presentato alla Camera il disegno di legge C. 1542, intitolato"Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni", che è statoapprovato in prima lettura il 21 dicembre 2013, approvato con modifiche dal Senato il 26 marzo 2014 e poiapprovato definitivamente in seconda lettura dalla Camera il 3 aprile 2014, dopo l’insediamento del governoRenzi.29 Come spiega la Relazione accompagnatoria del disegno di legge n. 1542, “la premessa fondamentale cheorienta tutto il disegno di legge … è di anticipare la prospettiva contenuta nel disegno di legge costituzionaledeliberato dal Governo nel Consiglio dei ministri del 5 luglio 2013. Tale testo reca il titolo di abolizionedelle Province e prevede che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale, lemodalità e le forme di esercizio delle loro funzioni siano individuate da parte dello Stato e delle Regioni,sulla base di una legge dello Stato che definirà criteri e requisiti generali”.

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E’ da queste premesse che nasce la legge Delrio, che – nella non insolitatecnica legislativa italiana della provvisorietà30 – si avvia a trasformare le Provincein enti ben diversi da quelli che conosciamo.

La legge n. 56 del 2014 non abolisce le Province e non ne ridisegna iconfini territoriali, ma si limita a innovare radicalmente la loro forma di governo e aridefinire il perimetro delle loro competenze. Essa positivizza i proclami elettoralidelle principali forze politiche, ancorché si muova in controtendenza, comeabbiamo visto, rispetto ad un processo di valorizzazione delle Province,rafforzatosi negli ultimi anni, come ente di prossimità dei cittadini al pari deiComuni e, anzi, in molti ambiti, più efficace di quest’ultimi per un’azione di tutela epromozione del territorio31.

Gli organi della Provincia non sono più eletti direttamente dai cittadini, eperdono così il loro tratto politico-rappresentativo in senso proprio: la loro baseelettorale sta ora nei consiglieri comunali e nei sindaci in carica nei Comuni delterritorio provinciale32; viene meno l’organo esecutivo, a favore di una gestionecollegiale di presidente e consiglio delle funzioni provinciali, coerente con laprogressiva cancellazione di competenze gestionali dirette; viene peraltro menoanche il rapporto fiduciario tra presidente e consiglio provinciale, a ulterioreriprova dell’indebolimento del profilo politico dell’ente; infine, viene istituito unnuovo organo – l’assemblea dei sindaci – chiamato a svolgere funzionipropositive, consultive e di controllo e coinvolto nel procedimento di approvazionedel bilancio e dello statuto.

L’ “area vasta”, pur conservando i confini delle odierne Province, cessacosì di essere un’entità autonoma, capace di esprimere un proprio indirizzopolitico, ma si avvia a diventare una ripartizione funzionale e un tavolo tecnico diconfronto tra i Comuni interessati, sulla falsariga di esperienze come le Comunitàmontane, i distretti socio-sanitari e gli ambiti territoriali di gestione delle risorseidriche e del gas.

Emerge “… chiaramente il disegno di una Repubblica delle autonomiefondata su due soli livelli territoriali di diretta rappresentanza delle rispettiveComunità: le Regioni e i Comuni. A questi si accompagna un livello di governo diarea vasta, chiaramente collocato in una visione funzionale più ad una razionale ecoerente organizzazione dell’attività dei Comuni insistenti sul territorio che non adun livello di democrazia locale espressione della Comunità metropolitana”33.

30 “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme diattuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge” (art.1, co. 51): si tratta di una formula che diregola assume il carattere di impegno politico del legislatore ad approvare, in un domani non lontano, quelloche non è stato possibile deliberare oggi; ma che, nel caso specifico, vuole anche essere un modo persottrarre ai dubbi di costituzionalità una disciplina che “depotenzia” le Province e toglie loro il caratteredirettamente elettivo, a Costituzione invariata.31 Come nota G. C. DE MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia, cit., 9, laProvincia si configura come necessaria regista dello sviluppo locale e dei servizi a rete, a fronte di unComune da intendere come punto di riferimento principale per i servizi di base alla persona.32 Nel disegno di legge iniziale, presentato dal governo, l’elettorato attivo del Presidente e del consiglioprovinciale spettava esclusivamente ai sindaci. Nel corso dell’iter parlamentare è stato poi esteso anche aiconsiglieri comunali. Sulle perplessità suscitate dalla prima ipotesi si veda O. CHESSA, La forma di governoprovinciale nel DDL n. 1542: profili d’incostituzionalità e possibili rimedi, in www.federalismi.it, n.25/2013, 6.33 Lo puntualizza la Relazione accompagnatoria del disegno di legge C. 1542, inwww.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0009111.pdf, 2.

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Come è stato sottolineato in un documento congiunto di Anci e Upi34, “sitratta di una riforma che, semplificando il sistema istituzionale locale inapplicazione del principio di sussidiarietà, affida ai Comuni il ruolo di istituzionebase su cui, secondo i principi di differenziazione e adeguatezza, si costruisconole Città metropolitane e le nuove Province. Si tratta di una straordinariatrasformazione istituzionale – continua il documento – che dà sostanza alprincipio di semplificazione e che consentirà di realizzare una gestione dellefunzioni locali intese in senso lato in modo sinergico e sulla base di unarappresentanza di secondo grado che dovrà esaltare l’interesse della comunitàrispetto alle decisioni di più ampio raggio”. Al netto dell’enfasi che accompagna ildocumento, esso coglie l’essenza della riforma: superare il dualismo politico eistituzionale tra Comuni e Province, per fare delle seconde gli strumenti “ancillari”rispetto agli interessi e alle funzioni dei primi35, in una logica di “semplificazione”dell’assetto territoriale italiano, ad oggi frammentato fra troppi livelli di governodirettamente rappresentativi36.

La vocazione della Provincia – o di quello che ne resterà – diventa cosìessenzialmente, se non esclusivamente, tecnica e funzionale, lasciando alle sedidi concertazione tra Comuni, da un lato, e alla Regione, dall’altro lato, lefondamentali scelte politiche riguardanti il territorio e le comunità ivi insediate.Anticipando i propositi di riforma costituzionale, la Provincia come ente esce daquel circuito della “sovranità” che trova la sua positivizzazione negli artt. 1, 5 e114 Cost., per rispondere esclusivamente – se ed in quanto saranno conservatedal legislatore – ad esigenze di buon andamento (art. 97 Cost.), di sussidiarietà edi adeguatezza (art. 118, co.1, Cost.). Si tratta di un cambio di prospettiva (e diriferimenti costituzionali) di non poco conto, perché implica il rimettereinteramente alla discrezionalità del legislatore la scelta di conservare le Province,oppure di dismetterle in nome di diverse e più efficaci scelte di funzionalitàamministrative; e non a caso su tale profilo, come vedremo37, si sono appuntate leprincipali censure di incostituzionalità della disciplina.

La legge Delrio abbandona, invece, il progetto di un riaccorpamento e diuna riduzione delle Province. Difficile prevedere se si tratterà soltanto di unaccantonamento provvisorio del progetto, che sarà ripreso una volta approvata lariforma costituzionale del Titolo V; o se, al contrario, proprio il venir meno delladimensione politica dell’ente, a favore di una sua vocazione strettamente

34 Anci e Upi, L’attuazione della legge 56/14: il riordino delle funzioni delle Province e delle Cittàmetropolitane e l’accordo in conferenza unificata, Roma, 3 luglio 2014, in www.upinet.it.35 F. PIZZETTI, Una grande riforma di sistema. Scheda di lettura e riflessioni su Città metropolitane,Province, Unioni di Comuni: le linee principali del ddl Delrio, in www.affariitaliani.it., 6, nota che “la veracaratteristica della nuova Provincia è di essere un ente di area vasta con un numero limitato e definito difunzioni fondamentali, sostanzialmente pensato per essere «servente» i Comuni e dare risposta alle esigenzelegate ai servizi sul territorio”.36 Il tema della semplificazione istituzionale, accanto a quella legislativa e amministrativa, è da tempo alcentro dell’attenzione del legislatore e della dottrina, partendo dal presupposto che, nel nostro ordinamento,abbiamo ben quattro livelli politico-rappresentativi (oltre all’Unione europea), tutti organizzati in formeanaloghe e con molteplici sovrapposizioni e confusioni di ruolo: cfr. anche il documento della Conferenzadelle Regioni e Province autonome del 14 gennaio 2014, in www.regioni.it. In dottrina, ex multis, G.MELONI, La semplificazione istituzionale-amministrativa e la riforma costituzionale, inwww.amministrazioneincammino.it; F. MERLONI, Il riordino del sistema istituzionale e l’individuazionedelle funzioni delle autonomie locali, in www.astrid-online.it.37 Cfr. infra par. 3.

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funzionale, costituirà la premessa per un aumento delle Province qualicircoscrizioni ottimali di aggregazione delle funzioni comunali.

Infine la legge Delrio riguarda tutte le Regioni, ad eccezione della Valled’Aosta e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Ai sensi dell’art.1, co.145, infatti, “entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge,le Regioni a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e la Regionesiciliana adeguano i propri ordinamenti interni ai principi della medesima legge. Ledisposizioni di cui ai commi da 104 a 141 sono applicabili nelle Regioni a statutospeciale Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta compatibilmente con le norme deirispettivi statuti e con le relative norme di attuazione, anche con riferimento allalegge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”. Benché il legislatore statale non lequalifichi espressamente come tali, quelli contenuti nella legge Delrio devonoperciò intendersi come “norme fondamentali di riforma economico-sociale” e/ocome “principi fondamentali dell’ordinamento giuridico”, capaci di imporsi sullapotestà legislativa primaria delle Regioni a statuto speciale.

La “nuova” vocazione della Provincia trova, come vedremo, premessa esviluppo coerente nella sua configurazione organizzativa e nelle funzioni che adessa vengono mantenute, anche se non tutte le soluzioni adottate appaionoconvincenti. Ma prima di affrontare tali profili, è opportuno soffermarsi sui dubbi dilegittimità costituzionale che la disciplina solleva.

3. Profili di criticità costituzionale della nuova disciplina

Secondo una tecnica di formulazione non inconsueta nella legislazionerecente38, la legge Delrio annuncia, nel co. 51, un’imminente “riforma del titolo Vdella parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione”,intendendo così conferire alla disciplina che introduce un caratteredichiaratamente transitorio39. Nella formula si avverte l’eco del progetto di riformacostituzionale proposto dal governo Renzi40, che prevede tra l’altro lacancellazione di ogni menzione delle Province contenuta nel testo costituzionale.

Approvando la riforma delle Province con legge ordinaria, anzichémediante lo strumento della decretazione d’urgenza, Governo e Parlamentohanno inteso superare le ragioni che avevano indotto la Corte costituzionale, conla sentenza n. 220/2013, a dichiarare l’illegittimità costituzionale dei precedentitentativi di riforma, attuati mediante decreti-legge41.

38 Utilizzata, tra gli altri, anche nell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 che, “in attesa dellariforma del Titolo I della parte II della Costituzione”, ipotizzava la istituzione di una Commissionebicamerale per le questioni regionali integrata con rappresentanti di Regioni, Province, Città metropolitane eComuni, chiamata a pronunciarsi in via consultiva e parzialmente vincolante sulle principali leggi in materiaregionale: ma la modifica dei regolamenti parlamentari necessaria per dar vita a tale organismo non è maistata approvata.39 Come peraltro dichiarato nella stessa Relazione accompagnatoria al disegno di legge.40 Identificato come A.S. 1429, in www.senato.it. Quando è stato presentato, il disegno di legge Delrio avevaquale riferimento il disegno di legge costituzionale deliberato dal Consiglio dei ministri il 5 luglio 2013, ilcui oggetto era soltanto l’abolizione delle Province, e non anche le ulteriori revisioni della II parte dellaCostituzione proposte con il disegno di legge costituzionale Renzi.41 Nella parte della Relazione accompagnatoria dedicata all’analisi tecnico-normativa (pag. 14) del disegnodi legge Delrio si legge: “il disegno di legge interviene a seguito della recente sentenza della Corte

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La Corte, infatti, aveva statuito che “ben potrebbe essere adottata ladecretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoliaspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura ecomposizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politicadel Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava … in sensocontrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplinaordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione,è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale,trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo èaperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce,nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità ed’urgenza»”; tanto più che “dalla disposizione sopra riportata non risulta chiaro sel’urgenza del provvedere – anche e soprattutto in relazione alla finalità dirisparmio, esplicitamente posta a base del decreto-legge, come pure del rinvio –sia meglio soddisfatta dall’immediata applicazione delle norme dello stessodecreto oppure, al contrario, dal differimento nel tempo della loro efficaciaoperativa. Tale ambiguità conferma la palese inadeguatezza dello strumento deldecreto-legge a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trovale sue motivazioni in esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiedeprocessi attuativi necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendereindispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, chemal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge,secondo il disegno costituzionale” 42.

Nella stessa sentenza la Corte ha preso in esame anche il parametrodell’art. 133, co.1, Cost., sul procedimento di revisione delle circoscrizioniProvinciali, e anche per questo è giunta alla conclusione che la strada deldecreto-legge risulta inappropriata e perciò non conforme a Costituzione: “emergedalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica –che va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – trail decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità eurgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non puòidentificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa nonpuò che essere frutto di una maturazione e di una concertazione tra enti nonsuscettibile di assumere la veste della straordinarietà, ma piuttosto quella

costituzionale n. 220 del 2013 che ha dichiarato l’incostituzionalità di alcune norme sul riordino di entilocali contenute in due distinti strumenti normativi approvati nella preedente legislatura. L’incostituzionalitàè determinata sostanzialmente dall’uso del decreto-legge in materie ritenute dalla sentenza riservate allalegge”. Ancora: “la materia risulta di competenza esclusiva dello stato, ai sensi dell’art. 117, co.2, lettera p),della Costituzione. Per quanto riguarda le competenze delle regioni a statuto ordinario, si chiarisce che,anche prevedendo incisive competenze per le città metropolitane, restano comunque ferme le funzioni diprogrammazione e coordinamento delle regioni, nelle materie di cui all’art. 17, commi terzo e quarto, dellaCostituzione … L’intervento regolatorio è comunque sottoposto alla Conferenza unificata”. Infine: “ildisegno di legge detta in particolare disposizioni finalizzate a valorizzare proprio i principi di cui all’articolo118 della Costituzione, ridisegnando l’assetto istituzionale e le funzioni degli enti locali e delle formeassociative, assegnando a ciascun soggetto il ruolo che sembra più rispondente ai principi medesimi”.42 I commenti sulla sentenza sono principalmente centrati sui limiti della decretazione d’urgenza: cfr., adesempio, R. DICKMAN, La Corte si pronuncia sul modo d’uso del decreto-legge, in www.giurcost.org, Studie commenti, 2013; A. SEVERINI, La riforma delle Province, con decreto legge, “non s’ha da fare”, inwww.rivistaaic.it; M. MASSA, Come non si devono riformare le Province, in www.forumcostituzionale.it; G.DI COSIMO, Come non si deve usare il decreto legge, in www.forumcostituzionale.it.

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dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla Costituzione, in relazione abisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali”43.

La Corte non è entrata nel merito degli altri profili di censura sollevati dalleRegioni ricorrenti, ritenendoli assorbiti nella prima e principale ragione diillegittimità: si lamentava infatti anche la violazione dell’art. 5 Cost., in quanto lanormativa censurata applica una logica inversa a quella del decentramento edell’autonomia; la vanificazione del riconoscimento delle Province come enticostitutivi della Repubblica, dotati di autonomia e funzioni proprie, secondo ildisposto dell’art. 114 Cost.; la violazione degli artt. 117, 118 e 119, checonterrebbero una riserva costituzionale di funzioni a favore delle Province; ilcontrasto con la Carta europea delle autonomie locali.

Anzi, la Corte costituzionale ha puntualizzato che “le considerazioni cheprecedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore e nonportano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa interveniresolo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere unodegli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso lagaranzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un attonormativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali chesuperino i limiti di misure meramente organizzative”44.

Nonostante il parziale via libera della Corte, restano nondimeno gli ulterioriprofili di dubbia conformità con la Costituzione della legge Delrio, che parte delladottrina non ha mancato di segnalare45.

La riforma, infatti, deve fare i conti con la piena vigenza di quel Titolo Vdella Costituzione che attende ancora di essere compiutamente attuato e cheavrebbe dovuto “accentuare con chiarezza il ruolo sussidiario delle Province,rispetto ai Comuni, per il quale tutte le funzioni comunali, anche quelle piùcaratterizzanti, nei casi in cui questi enti presentino una naturale inadeguatezza ole funzioni medesime non siano a loro rapportabili, per il principio didifferenziazione, possono essere assicurate ai cittadini dall’azione della Provincia,la quale, in una evenienza del genere, si deve considerare ente di prossimità alpari del Comune”46; così che è lecito dubitare della legittimità di un’operazionelegislativa che, a Costituzione invariata e in senso contrario alle indicazioni dellaCarta fondamentale, da un lato svuota di funzioni l’ente provinciale, trasferendoleverso il basso (ai Comuni o a forme associative tra i Comuni stessi), verso nuoveforme aggregative da definire o riportandole a livello regionale; e, dall’altro lato,cancella il carattere direttamente politico-rappresentativo dell’ente, facendonesostanzialmente un’organizzazione associativa dei Comuni.

43 Cfr. punto 12.2. del Considerato in diritto.44 Punto 12.1. del Considerato in diritto.45 Cfr., in merito al disegno di legge AC n. 1542, poi divenuto legge Delrio, una raccolta dei resocontiparlamentari e dei documenti per le audizioni, in www.astrid-online.it. Ivi cfr. tra l’altro gli appunti di L.VANDELLI e G. C. DE MARTIN. V. inoltre P. P. PORTALURI, Transizioni incessanti. (Appunti sul d.d.l. AC n.1542 “svuotaprovince”), in www.federalismi.it, n. 23/2013; O. CHESSA, La forma di governo provincialenel DDL n. 1542: profili d’incostituzionalità e possibili rimedi, ibidem, n. 25/2013; gli atti del seminario IlDdl Delrio e il governo dell’area vasta, organizzato da Federalismi.it il 13 dicembre 2013, ibidem, n.1/2014; gli atti del seminario sulla riforma del sistema delle autonomie locali, tenutosi a Roma, presso laLUISS il 24 novembre 2013 (in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 9 dicembre 2013).46 Cfr. S. MANGIAMELI, La Provincia, l’area vasta e il governo delle funzioni nel territorio, cit., 7.

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Parrebbe ostare a tale opzione la formulazione dell’attuale art. 114 Cost., incombinato disposto con gli artt. 1 e 5 Cost. che definisce (anche) le Provincecome enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissatidalla Costituzione47; nonché le altre disposizioni costituzionali contenute nel TitoloV, ed in particolare l’art. 118, co.1, Cost., che, attraverso la combinazione disussidiarietà e adeguatezza, vede nelle Province il naturale terminale di moltefunzioni di area vasta.

Tre sono le principali censure che possono essere mosse contro l’attualedisciplina.

Innanzitutto, se il principio autonomistico dell’art. 5 Cost. è inscindibilmentee intrinsecamente connesso con il metodo democratico, tale metodo non potrebbeessere frustrato dal legislatore nazionale, nell’esercizio della competenza ad essoriconosciuta dall’art. 117, co.2, lett. p), Cost48. E’ questo un aspetto su cui si sonoparticolarmente concentrate le critiche al disegno di legge nel corso del suo iterparlamentare: si è osservato, infatti, che “se la Repubblica italiana deve essere«democratica» e se, ai sensi dell’art. 114, la Repubblica «è costituita dai Comuni,dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato», allora per laproprietà transitiva ciascuno degli enti costitutivi deve essere a sua volta«democratico», cioè organizzato al proprio interno in modo da rispecchiare ilprincipio di sovranità popolare”49. Il punto critico essenziale della riforma staproprio qui: nell’aver “dimenticato” le ragioni di valorizzazione della partecipazionedemocratica e di pluralismo politico e istituzionale che sono state alla basedell’affermazione della Provincia come ente territoriale autonomo erappresentativo, e nell’averle “piegate” ad una logica funzionalistica o, peggio, dimera contingenza finanziaria.

47 Come osserva V. ONIDA, Parere sui profili di legittimità, cit., 27, “anche se di per sé l’elezione diretta oinvece di secondo grado dei titolari degli organi degli enti territoriali non appare formalmente vincolata dallaCostituzione, è però certo che le Province siano configurate come enti rappresentativi delle popolazionilocali, e non come enti espressione «associativa» dei Comuni”.48 Cfr., sul punto, le perplessità di L. VANDELLI, La Provincia italiana nel cambiamento: sulla legittimità diforme ad elezione indiretta, in www.astrid-online.it (8 ottobre 2012), 6. Si vedano anche le considerazioni diG. SAPUTELLI, Quando non è solo una “questione di principio”, cit., 3252, che, richiamando l’insegnamentodi CARLO ESPOSITO – Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, inID., La costituzione italiana, Padova, 1954, 80-82 – ricorda che il proprium dell’autonomia riconosciuta aglienti locali sta nel collegamento con la vita sociale, e che la disposizione costituzionale garantirebbe sia ilcittadino, nella partecipazione attiva alla vita degli enti territoriali, sia la molteplicità e la posizionecomplessiva degli enti locali.49 Cfr. O. CHESSA, La forma di governo provinciale nel ddl n. 1542: profili di incostituzionalità e possibilirimedi, cit., 11. Cfr. anche C. PADULA, Quale futuro per le Province? Riflessioni sui vincoli costituzionali inmateria di Province, in Le Regioni, 2, 2013, 375, che insiste in particolare sulla elettività degli organifondamentali degli enti costitutivi della Repubblica. Cfr. anche B. CARAVITA DI TORITTO, Abrogazione orazionalizzazione delle Province, in www.federalismi.it, 20 settembre 2006, il quale, richiamando la nozionedi autonomia ex art. 5 Cost., ritiene che impedisca “la costruzione della Provincia come ente di secondogrado (e quindi la riduzione della politicità dell’ente)”; P. CARETTI, Sui rilievi di incostituzionalitàdell’introduzione di meccanismi di elezione indiretta negli organi di governo locale , in Astrid Rassegna,2013, n. 19, 2, 3. Contra però, F. BASSANINI, Sulla riforma delle istituzioni locali e sulla legittimitàcostituzionale della elezione in secondo grado degli organi delle nuove province , in Astrid Rassegna, n.19/2013, 4-5; E. GROSSO, Possono gli organi di governo delle Province essere designati mediante elezioni“di secondo grado”, a Costituzione Vigente?, in Astrid Rassegna n. 19/2013, 1-2; F. PIZZETTI, La riformaDelrio tra superabili problemi di costituzionalità e concreti obiettivi di modernizzazione e flessibilizzazionedel sistema degli enti territoriali, in Astrid Rassegna, n. 19/2013, 12.

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In secondo luogo, se la natura della Provincia quale ente autonomo,pariordinato a quello delle altre istituzioni territoriali, ha trovato consacrazionenell’art. 114 Cost., la riduzione delle funzioni provinciali al solo “indirizzo ecoordinamento” di quelle comunali ne disconoscerebbe tale natura.

In terzo luogo, tenuto conto che gli artt. 117, 118 e 119 Cost. pongono unariserva costituzionale di funzioni a favore delle Province – l’art. 117, co.6,attribuisce alle Province una potestà regolamentare per la disciplina di funzioniproprie; l’art. 118 riconosce ad esse la titolarità di funzioni proprie o conferite dallalegge statale o regionale; l’art. 119 riconosce un’autonomia di spesa e di entrata,con risorse derivanti anche dall’imposizione tributaria direttamente esercitata –l’integrale cancellazione di tali potestà e di tali profili di autonomia si scontra con ilcarattere vincolante del testo costituzionale50.

A queste perplessità si aggiungono anche profili di dubbia conformità dellariforma delle Province alla Carta europea dell’autonomia locale51: perplessità checolpivano sia il sostanziale “svuotamento di identità e di funzioni” operato con ild.l. n. 201 del 2011, convertito nella legge 214 del 2011, sia il d.l. 95 del 2012,convertito con modificazioni nella legge 1135 del 2012, che ha mirato ad unriordino delle Province, più che ad una loro surrettizia soppressione, ed unacomplessiva riduzione degli enti di area vasta in base a criteri e requisiti minimidefiniti con riguardo alle dimensioni territoriali e demografiche52; ma che possonoessere estese anche alla legge Delrio.

A queste perplessità la legge Delrio dà una risposta autoproclamandosiespressamente provvisoria53, in attesa della revisione del titolo V che, stando allaversione approvata dal Senato in prima lettura l’8 agosto 2014, cancella ogniriferimento costituzionale alle Province, rimettendo così al legislatore ordinarioogni determinazione in proposito.

La provvisorietà della disciplina parrebbe superare i rilievi critici cheabbiamo evidenziato. E tuttavia, se tale provvisorietà dovesse prolungarsi, comespesso accade nel nostro Paese, non è improbabile che la Corte costituzionale sirisolva ad accogliere una o più tra le probabili censure di costituzionalità; dall’altrolato, non è detto che, nonostante la dichiarata provvisorietà, la Corte non giunga a

50 Cfr. A. DEFFENU, Il ridimensionamento delle Province nell’epoca dell’emergenza finanziaria trariduzione delle funzioni, soppressione dell’elezione diretta e accorpamento, inwww.osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2012, 11.51 Cfr. G. BOGGERO, La conformità della riforma delle Province alla Carta europea dell’autonomia locale,in www.federalismi.it, n. 20/2012; O. CHESSA, La forma di governo provinciale, cit., 18. Anche i ricorsi dialcune Regioni contro il d.l. 201/2011 e contro il d.l. 95/2012 evocavano tale profilo.52 Cfr. V. ONIDA, Parere sui profili di legittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l. n. 95 del 202, convertitoin legge n. 135 del 2012, in tema di riordino delle Province e delle loro funzioni, in www.federalismi.it.53 Come osserva M. C. ROMANO, Enti locali. Provincia e Città metropolitana, in www.treccani.it,“l’intervento legislativo si caratterizza per la provvisorietà della disciplina, pervasa di contenuti transitori,sia rispetto alla riallocazione delle funzioni tra i nuovi enti di area vasta (Province e Città metropolitane), siarispetto ai tempi e ai meccanismi procedurali che dovranno scandire l’attuazione della riforma. Per quantoriguarda direttamente le Province, queste ultime resterebbero temporaneamente come enti di area vasta,titolari prevalentemente di funzioni di coordinamento e di indirizzo essenziale (pianificazione territorialeprovinciale di coordinamento, tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto inambito provinciale, programmazione provinciale della rete scolastica), e più limitatamente di compitigestionali (gestione dell’edilizia scolastica, esercizio – d’intesa con i Comuni – delle funzioni dipredisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio) adifferenza di quanto veniva disposto dall’art. 17, d.l. n. 95/2012”.

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dichiarare l’incostituzionalità della legge Delrio fin da subito. Ed è per questo chediventa essenziale, per evitare inimmaginabili scompensi istituzionali, che arrivi inporto al più presto la revisione costituzionale, così da far combaciare normazioneprimaria e normazione superprimaria.

4. La forma di governo della nuova Provincia e il sistema elettorale delpresidente e del consiglio

Se la parola d’ordine che ha guidato le più recenti scelte istituzionali è la“semplificazione”, non ne poteva restare immune l’organizzazione interna dellanuova Provincia, ed in particolare la sua “forma di governo”54, se è lecito utilizzarequesta espressione per un ente che ha perduto il suo carattere politico-rappresentativo; anche se non è detto che le soluzioni prescelte vadanoeffettivamente verso una semplificazione della governance dell’ente, quanto menosotto il profilo dell’efficacia decisionale e della chiarezza nella distinzione dei ruoli.

Gli organi di governo propriamente provinciali saranno soltanto due, inluogo dei tre attuali: presidente e consiglio provinciale, mentre non è più previstala giunta (che, peraltro, come vedremo, potrà essere ricreata in forma indirettaattraverso le deleghe del presidente a singoli consiglieri). Ad essi si affiancherà unorgano di nuova istituzione: l’assemblea dei sindaci dei Comuni del territorioprovinciale.

Ai sensi dell’art. 1, co. 55, della legge Delrio, “il presidente rappresental’ente, convoca e presiede il consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci,sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti;esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto”.

In attesa di capire se e quali ulteriori spazi potrà concedere lo statuto allafigura presidenziale, la formula del co. 55 ricorda i compiti del presidente stabilitidall’attuale art. 50, co.1-2-3, del Tuel; manca però il ruolo di guida della giunta,che è stata soppressa; manca ogni riferimento al potere di nomina deiresponsabili degli uffici e dei servizi, di attribuzione e definizione degli incarichidirigenziali e di quelli di collaborazione esterna; manca il potere di nomina, revocae designazione dei rappresentanti dell’Ente presso enti, aziende, istituzioni55.

In tal modo il futuro presidente non avrà poteri decisionali propri, maessenzialmente compiti di rappresentanza dell’ente, di sovrintendenza del correttofunzionamento di uffici e servizi e di coordinamento e impulso dell’attività del

54 Anche se la riduzione degli organi di governo e del numero dei loro componenti risponde non solo (o nontanto) alla logica della semplificazione, quanto a quella del contenimento dei costi, in chiave di reazione allapolemica “anticasta” che da alcuni anni anima il dibattito pubblico del nostro Paese.55 Non è chiaro se tali omissioni siano volute, oppure siano una mera dimenticanza: nel primo caso sipotrebbe ipotizzare che il legislatore abbia ritenuto che, venendo meno le funzioni gestionali dell’ente, nonci sia più bisogno di procedere alla nomina dei responsabili dei vari servizi, né che ci siano più nomine dirappresentanti dell’ente in altri enti o aziende esterne. Più probabile, però, che l’omissione sia il frutto di unascarsa capacità di previsione di come si articolerà concretamente la vita dell’ente; in questo caso, saràpossibile ovviare a tale omissione in sede di redazione dello statuto, che, come vedremo, potrà offrirel’occasione per una migliore organizzazione interna del nuovo ente. D’altra parte, e in alternativa, anche inomaggio al ripetuto richiamo al principio di collegialità, si può ritenere che le nomine in questione sarannodi appannaggio dell’intero consiglio: il che varrebbe ad esaltare la dimensione trasversale e concertata dellagestione dell’ente, rispetto ad una gestione più verticistica.

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consiglio e dell’assemblea dei sindaci: in coerenza con il fatto che nonrappresenta più i cittadini, ma i Comuni che compongono la Provincia, e che nonpuò vantare un rapporto fiduciario con un consiglio composto a sua immagine esomiglianza, come avviene oggi grazie al premio di maggioranza a favore delleliste collegate al vincitore della competizione monocratica. Se così si può dire, ilpresidente sarà chiamato più ad un ruolo di mediatore e di “facilitatore” deldialogo tra i Comuni, piuttosto che a ruoli decisionali e di leadership, con unprofilo politico “sbiadito” rispetto a quello attuale.

Il presidente è eletto, con voto ponderato, da un corpo elettorale ristretto,formato dai consiglieri comunali e dai sindaci (ma non dagli assessori) dei Comunidella Provincia: un corpo elettorale il cui numero varia dai 142 “grandi elettori” diPrato ai 2858 di Cuneo56, a seconda del numero di Comuni presenti in ciascunaProvincia e della loro popolazione.

Per la presentazione di una candidatura sarà necessaria la sottoscrizionedi almeno il 15% degli aventi diritto: si tratta di una soglia piuttosto elevata, chevale, da un lato, a restringere la competizione elettorale a pochi candidati,dall’altro lato, a rendere problematica la candidatura di outsiders o di esponenti diforze minori o poco rappresentate a livello amministrativo, come il Movimento 5Stelle.

Per l’elezione del presidente (ma anche del consiglio) la legge utilizza ilsistema del voto ponderato, ai sensi dei commi 33 e 34 dell’art. 1 della leggeDelrio.

Il co. 33 ripartisce i Comuni della Città metropolitana (e della Provincia) in 9fasce: a) Comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti; b) Comuni conpopolazione superiore a 3.000 e fino a 5.000 abitanti; c) Comuni con popolazionesuperiore a 5.000 e fino a 10.000 abitanti; d) Comuni con popolazione superiore a10.000 e fino a 30.000 abitanti; e) Comuni con popolazione superiore a 30.000 efino a 100.000 abitanti; f) Comuni con popolazione superiore a 100.000 e fino a250.000 abitanti; g) Comuni con popolazione superiore a 250.000 e fino a500.000 abitanti; h) Comuni con popolazione superiore a 500.000 e fino a1.000.000 di abitanti; i) Comuni con popolazione superiore a 1.000.000 di abitanti.

L’indice di ponderazione per ciascuna delle fasce demografiche èdeterminato sulla base del peso percentuale che la popolazione complessiva deiComuni appartenenti ad una determinata fascia hanno sulla popolazionecomplessiva della Provincia; fermo restando che un singolo Comune non puòcomunque superare il 45% dei voti complessivi disponibili e che nessuna fasciademografica può superare il 35% dei voti complessivi disponibili. In questo caso ilvalore percentuale eccedente è assegnato in aumento al valore percentuale dellefasce demografiche cui non appartiene il Comune, ripartendolo fra queste inmisura proporzionale alla rispettiva popolazione.

La percentuale di ciascuna fascia demografica viene poi divisa per ilnumero complessivo di sindaci e consiglieri dei Comuni appartenenti a quellafascia e moltiplicato per 1000. In tal modo, ciascun elettore degli organi provinciali(sindaci o consiglieri comunali) dispone di un pacchetto di voti, variabile da alcunedecine ad alcune centinaia, espressi necessariamente in modo univoco ericonoscibili sulla base del colore della scheda di voto (di colore diverso a

56 Per questi dati si veda la Circolare del Ministero dell’Interno 1° luglio 2014, cit.

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seconda della fascia demografica) e dal cui computo si ricavano i risultati delleelezioni57.

L’obiettivo del sistema di ponderazione è quello di far sì che il voto diciascun elettore pesi in proporzione al peso demografico della fascia diappartenenza. Così, se il Comune capoluogo vale il 15% della popolazionecomplessiva provinciale, il voto dei 33 elettori che esso esprime vale circa il 15%del totale dei voti disponibili.

Risulterà eletto presidente il candidato che otterrà il maggior numero di votiponderati, nell’unico turno di votazione. Egli rimane in carica per 4 anni, salvoche, per qualunque ragione, non venga meno la sua carica nel Comune diprovenienza, perché la sussistenza della seconda è condizione essenziale per lapermanenza della prima58.

Il presidente non sarà legato al consiglio da un rapporto fiduciario; la lorostessa elezione non sarà sempre contestuale, se non la prima volta, perché lacarica dei consiglieri provinciali dura soltanto 2 anni; salva la possibilità che, nellaterza elezione del consiglio, i due organi tornino ad allinearsi. Possibilità, ma noncertezza, perché – vista la necessaria coincidenza tra carica nei Comuni e caricain Provincia – può accadere che la durata dell’uno o dell’altro organo subiscainterruzioni anticipate.

Ne consegue che, pur se probabile, non è affatto detto che lacomposizione del consiglio provinciale rispecchi l’orientamento politico delpresidente: trattandosi di elezioni disgiunte e non reciprocamente condizionantesi,se non sul piano delle ordinarie dinamiche politiche, la scelta del presidentepotrebbe cadere su una personalità indipendente non supportata da unamaggioranza omogena in consiglio, o essere condizionata dal quorumparticolarmente alto – 15% degli aventi diritto – richiesto per la presentazionedella candidatura; mentre la composizione del consiglio sarà meno orientabile, siaperché il quorum di presentazione delle candidature è più basso, sia perché iconsigli comunali sono ricchi di candidati indipendenti e liste civiche nonfacilmente riconducibili ad una disciplina di partito.

Il consiglio è l’organo di indirizzo e controllo, propone all’assemblea lostatuto, approva regolamenti, piani, programmi; approva o adotta ogni altro attoad esso sottoposto dal presidente della Provincia; esercita le altre funzioniattribuite dallo statuto. Su proposta del presidente adotta gli schemi di bilancio;poi, a seguito del parere espresso dall’assemblea dei sindaci, con i voti cherappresentino almeno un terzo dei Comuni e la maggioranza della popolazione, ilconsiglio approva in via definitiva i bilanci dell’ente. Rispetto a quanto si è dettoper il presidente, per il consiglio il “dimagrimento” dei compiti rispetto a quantoprevede l’odierno art. 42 del Tuel è ancora più evidente, non essendo nemmenocontemplata una norma di chiusura che definisca chi debba esercitare le funzionisenza un titolare preventivamente identificato dalla legge statale o regionale diconferimento. Una volta di più, toccherà allo statuto colmare la lacuna,prevedendo un criterio generale di riparto dei compiti tra presidente e consiglio.

57 Le linee guida per lo svolgimento del procedimento elettorale sono riportate nella Circolare 1° luglio 2014del Ministero dell’Interno, consultabile sul sito www.affariregionali.it.58 Non sono invece previsti strumenti nelle mani del consiglio per sfiduciare il presidente, coerentemente conil fatto che quest’ultimo trae la sua investitura e la sua legittimazione dai sindaci e dai consiglieri comunali,e non dal consiglio stesso.

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Il consiglio provinciale sarà composto da un numero massimo di 16componenti più il presidente, nelle Province con popolazione superiore a 700.000abitanti; da 12 componenti più il presidente nelle Province con popolazionecompresa tra 300.000 e 700.000 abitanti; da 10 componenti più il presidente nelleProvince con popolazione inferiore a 300.000 abitanti.

La competizione elettorale per l’elezione del consiglio avviene sulla base diliste, composte da un numero minimo di candidati, pari al 50% dei componenti ilconsiglio, ad un massimo pari al numero dei componenti il consiglio stesso. Ilcorpo elettorale è lo stesso – consiglieri comunali e sindaci59 – previsto perl’elezione del presidente.

Rispetto al sistema elettorale introdotto con la legge 81/1993, basato sullaripartizione del territorio provinciale in collegi uninominali secondo le disposizionidella legge n. 122 del 1951, viene meno il riferimento ai collegi 60: le liste dicandidati saranno uniche per tutto il territorio provinciale, con il rischio cherilevanti zone o fasce demografiche risultino sotto rappresentate o non abbianovoce in consiglio. Dovrà perciò essere cura dei presentatori fare in modo digarantire una rappresentanza adeguata di tutto il territorio provinciale e di tutte lefasce demografiche dei Comuni.

Viene previsto l’obbligo di assicurare la rappresentanza di genere almenoal 40%, pena la riduzione d’ufficio della liste fino alla loro inammissibilità, sescendono sotto il numero minimo di candidati61.

Sulla base dell’esito del voto, saranno proclamati eletti i candidati più votatia seguito di ponderazione, a prescindere dai voti ottenuti dalla lista diappartenenza. Le liste elettorali avranno quindi esclusivamente una funzione diveicolo per la presentazione delle candidature, ma non saranno invece lapremessa dell’articolazione politica del consiglio. Tutti i candidati, infatti, in sede discrutinio, verranno collocati in un’unica graduatoria formata sulla base dellepreferenze individuali ponderate di ciascuno, e saranno proclamati eletti i piùvotati62.

59 Rispetto a quanto era stato previsto nell’art. 23, co.16, de d.l. 201 del 2011, che parlava di elettorato attivoriconosciuto genericamente agli “organi elettivi dei Comuni”, la legge Delrio scioglie ogni incertezza inproposito, chiarendo che esso spetta sia ai sindaci che ai consiglieri comunali. In tal modo, come osserva S.BELLOTTA, Il sistema elettorale nelle nuove Province, enti di secondo livello. Prime riflessioni sul disegnodi legge in materia, in www.federalismi.it, n.14/2012, 8, si assicura una maggiore rappresentanza di tutte lecomponenti politiche esistenti sul territorio.60 S. BELLOTTA, Il sistema elettorale nelle nuove Province, enti di secondo livello , cit., 12, osserva che il“collegio unico provinciale ha sì il pregio di semplificare le modalità e l’organizzazione stessa delleprocedure elettorali, concentrando tali procedure in un solo collegio, ma anche il difetto di non garantire unaomogenea rappresentanza territoriale”.61 Ma la disposizione sull’equilibrio nella rappresentanza di genere non si applica per cinque annidall’entrata in vigore della legge 23 novembre 2012, n. 215, “Disposizioni per promuovere il riequilibriodelle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali.Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nellepubbliche amministrazioni”.62 Lo si ricava dall’art. 1, co. 77, legge Delrio, secondo cui “l’ufficio elettorale, terminate le operazioni discrutinio, determina la cifra individuale ponderata dei singoli candidati sulla base dei voti espressi eproclama eletti i candidati che conseguono la maggiore cifra individuale ponderata. A parità di cifraindividuale ponderata, è proclamato eletto il candidato appartenente al sesso meno rappresentato tra glieletti; in caso di ulteriore parità, è proclamato eletto il candidato più giovane”. La disposizione non fa alcuncenno al conteggio dei voti di lista o ad un riparto dei seggi tra le diverse liste, prodromico alla successivaassegnazione dei seggi ai candidati più votati. Conferma questa interpretazione anche la Circolare 1° luglio

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L’assemblea dei sindaci ha poteri propositivi, consultivi e di controllosecondo quanto disposto dallo statuto. Essa inoltre adotta o respinge lo statutoproposto dal consiglio ed esprime un parere – da ritenere vincolante – suglischemi di bilancio della Provincia adottati dal consiglio su proposta del presidente.

L’assemblea dei sindaci63 approva gli atti di sua competenza mediante ladoppia maggioranza di 1/3 dei Comuni e 1/2 della popolazione complessivamenteresidente. Non è però previsto il voto ponderato, così che questa formulazionedella doppia maggioranza tende a ridurre il peso politico del capoluogo e adaccrescere quello dei Comuni minori. E’ da prevedere che tale doppiamaggioranza sarà particolarmente mutevole e aleatoria, specialmente inconsiderazione della non ben definita identità politica di molti sindaci, chepotrebbero essere portati ad aggregazioni e riaggregazioni di volta in voltadiverse.

Come si è detto, è stata abolita la giunta, anche in linea con il fatto che lefunzioni dell’ente sono più pianificatore e programmatorie che non gestionali; ma ilcomma 66 dell’art. 1 della legge Delrio stabilisce che “il presidente della Provinciapuò nominare un vicepresidente, scelto tra i consiglieri provinciali, stabilendo leeventuali funzioni a lui delegate e dandone immediata comunicazione al consiglio.Il vicepresidente esercita le funzioni del presidente in ogni caso in cui questi siaimpedito. Il presidente può altresì assegnare deleghe a consiglieri provinciali, nelrispetto del principio di collegialità, secondo le modalità e nei limiti stabiliti dallostatuto”.

Il ricorso alle deleghe sarà pressoché obbligato, non solo per il doppioimpegno non remunerato a cui saranno chiamati presidente e consiglieriprovinciali, ma anche perché la logica del nuovo ente va verso una gestionecollegiale e condivisa delle funzioni: la norma cioè fa pensare, una volta di più, adun consiglio attivo e pienamente partecipe delle funzioni che fanno capo allaProvincia.

Lo statuto, negli spazi lasciati liberi dalla legge Delrio, potrà arricchire lefunzioni dei diversi organi, fermo il divieto di alterare le funzioni fondamentalidefinite dalla legge. E questo ci dice, fin da ora, l’importanza che assumerà ilpassaggio statutario64.

Da quel che si è detto emergono i tratti di una forma di governo dai confiniincerti65, senza una chiara distinzione di ruoli tra i diversi organi e senza una nettapreminenza di uno sugli altri, come oggi avviene con il presidente della Provincia

2014 del Ministero dell’Interno, cit., 17. Tale interpretazione, tuttavia, non sembra del tutto coerente conquanto statuito dall’art. 1, co. 78, della legge Delrio, secondo cui, in caso di subentro in un seggio rimastovacante per qualunque causa, si attinge al più votato della medesima lista. Sarebbe utile, sul punto, unsollecito intervento del legislatore, per chiarire la questione ed evitare così probabili futuri contenziosi. 63 A cui O. CHESSA, La forma di governo provinciale, cit., 6, nega il carattere di “organo di rappresentanzapolitica”, sia per ragioni di ordine funzionale che strutturale.64 Va peraltro ricordato che l’assemblea dei sindaci approva le modifiche statutarie conseguenti al disegno dilegge in esame, entro sei mesi dalla elezione dei nuovi organi Provinciali. Nel caso di Province in scadenzanel 2014 (per le quali, si è ricordato, sono previste le elezioni di secondo grado entro il 30 settembre 2014),l’approvazione delle modifiche statutarie dovrà avvenire entro il 31 dicembre 2014; e il lavoro preparatorio èsvolto dal Consiglio provinciale, che nei primi mesi dovrà occuparsi soltanto di quello. In caso di mancataadozione delle modifiche statutarie entro la predetta data, il Governo eserciterà il potere sostitutivo ai sensidell’articolo 8 della legge n. 131 del 2003. Solo per le Province in scadenza nel 2014 (per le quali, si èricordato, l’approvazione delle modifiche statutarie da parte dell'assemblea dei sindaci ha il termine del 31dicembre 2014) è previsto un termine per l'esercizio del potere sostitutivo statale, ossia il 30 giugno 2015.

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eletto direttamente dai cittadini e rafforzato dalle regole elettorali e dalla clausolasimul stabunt simul cadent. Avremo così un ente a geometrie variabili, con unaspiccata propensione concertativa tra i suoi vari componenti: il che accentua ilrischio che la Provincia possa faticare a fare sintesi tra i diversi interessi che ilterritorio esprime, e sia piuttosto portata a complessi compromessi o scambi tra lerivendicazioni dei Comuni.

La conformazione della competizione elettorale, inoltre, suggerisce lanecessità di ampie alleanze trasversali, anche perché il presidente non ha unamaggioranza in consiglio, e comunque questa può mutare in corso di mandato66;ma questo risponde alla logica di un ente che non esprimerà più (o non dovrebbeesprimere) una linea politica propria, ma “ancillare” alle esigenze dei Comuni chelo compongo.

5. Le funzioni della nuova Provincia

Poiché lo scopo della legge Delrio è quello di ridefinire l’identitàistituzionale della Provincia, insieme al ridisegno della sua forma di governo edella rappresentatività dei suoi organi si è dato avvio ad un processo diriordino/redistribuzione delle competenze tra i livelli territoriali.

Il senso complessivo di tale processo si muove intorno a due capisaldi: daun lato, valorizzare il più possibile il livello comunale, in forma singola o,preferibilmente, associata; dall’altro lato, ridurre il più possibile le competenzelasciate in capo alla Provincia, anche per facilitare il futuro compito del legislatorestatale e regionale, chiamato presumibilmente ad abolire le Province e adindividuare nuove forme identificative dell’ente di area vasta.

Il primo caposaldo si legge nel co. 89 dell’art. 1 della legge, che pone lepremesse per un massiccio trasferimento di un gran numero delle funzioniattualmente esercitate dalle stesse Province e indica nelle forme associative traComuni67 il punto di caduta di molte di esse. Tutte le funzioni provinciali diverseda quelle del comma 85, infatti, dovranno essere riallocate in attuazionedell’articolo 118 della Costituzione, nonché al fine di conseguire le seguentifinalità: a) individuazione dell'ambito territoriale ottimale di esercizio per ciascunafunzione; b) efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte deiComuni e delle unioni di Comuni; c) sussistenza di riconosciute esigenze unitarie;d) adozione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio tra gli enti territoriali

65 Particolarmente critico sulla configurazione della forma di governo provinciale è O. CHESSA, La forma digoverno provinciale, cit., 8, che osserva che “una forma di governo in cui organi rappresentativi di II gradonon sono responsabili politicamente dinanzi ad un organo rappresentativo di I grado, non soddisfa ilconcetto democratico di rappresentanza politica, né quindi appare conforme al principio di sovranitàpopolare. Peraltro la rappresentanza elettiva diretta, ossia l’assemblea dei sindaci, ha un rilievo decisamentemarginale nei processi decisionali dell’ente: nel nuovo modello di sistema provinciale il funzionamento dellaforma di governo s’impernierebbe esclusivamente sull’iniziativa, l’indirizzo e le funzioni degli organi aelezione indiretta”.66 Non a caso, il percorso politico che sta conducendo all’appuntamento delle prime nuove elezioniprovinciali, fissate per il prossimo 12 ottobre, sta vedendo in molte Province italiane lo sforzo di dar vita adalleanze trasversali ampie, che potrebbero addirittura sfociare in una lista unica per l’elezione del consiglioprovinciale, formata dai rappresentanti dei vari partiti.67 A cui la stessa legge Delrio dedica numerose disposizioni, dal co. 105 al co. 139 dell’art. 1.

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coinvolti nel processo di riordino, mediante intese o convenzioni. Sono altresìvalorizzate forme di esercizio associato di funzioni da parte di più enti locali,nonché le autonomie funzionali68.

Alla scelta del legislatore di enfatizzare il livello comunale si accompagna laconsapevolezza “che i confini geografici dei Comuni non siano adatti, vuoi pereccesso (conurbazioni), vuoi per difetto (piccoli paesi), ad una produttiva gestionedei servizi”69; per questo soprattutto le “unioni di comuni” assurgono a formaorganizzativa privilegiata per perseguire gli obiettivi di efficienza e razionalitàdimensionale senza calpestare identità municipali fortemente radicate nellecomunità locali; ciò a dispetto del fatto che l’esperienza di questi ultimi anni, cheha seguito in molte leggi di settore un’ispirazione analoga, ha spesso dimostratoche l’unione di comuni può risultare un fattore di appesantimento burocratico e diduplicazione di uffici, anziché di semplificazione. La formulazione del co. 89 èperò sufficientemente aperta da lasciare spazio ad una pluralità di soluzioni,variabili in relazione a ciascuna funzione.

Come si è detto, le Province non vengono cancellate e conservano unaserie di funzioni fondamentali di area vasta, che il co. 85 compendia nel seguenteelenco: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela evalorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; b) pianificazione deiservizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia ditrasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonchécostruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazionestradale ad esse inerente; c) programmazione provinciale della rete scolastica,nel rispetto della programmazione regionale; d) raccolta ed elaborazione di dati,assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; e) gestione dell’ediliziascolastica; f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale epromozione delle pari opportunità sul territorio provinciale70. La Provincia puòaltresì, d’intesa con i Comuni, esercitare le funzioni di predisposizione deidocumenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizioe di organizzazione di concorsi e procedure selettive.

La ratio dell’elenco contenuto nell’art. 1, co. 85, della legge Delrio richiamal’art. 21, co. 4, della legge 5 maggio 2009, n. 4271, che considerava quali funzionifondamentali provinciali di cui assicurare il finanziamento, oltre alle funzioni68 In via transitoria, però, le funzioni che nell’ambito del processo di riordino sono trasferite dalle provincead altri enti territoriali continuano ad essere da esse esercitate fino alla data dell’effettivo avvio di esercizioda parte dell’ente subentrante; tale data è determinata nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dicui al comma 92 per le funzioni di competenza statale ovvero è stabilita dalla regione ai sensi del comma 95per le funzioni di competenza regionale.69 Così G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Il vero irrinunciabile ruolo della Provincia e le sue funzionifondamentali, in www.federalismi.it, n. 6/2013, 5, che peraltro ritiene, come altri, che tale circostanzagiustifichi il mantenimento delle Province, e non la loro soppressione a favore di altre forme associative traenti locali, specialmente in considerazione di essenziali esigenze di programmazione territoriale.70 Le Province di cui al comma 3, secondo periodo (montane), esercitano altresì le seguenti ulteriori funzionifondamentali: a) cura dello sviluppo strategico del territorio e gestione di servizi in forma associata in basealle specificità del territorio medesimo (nota bene che, da questa funzione, possono derivare potenzialitàmolto ampie a favore della nuova Provincia); b) cura delle relazioni istituzionali con province, provinceautonome, regioni, regioni a statuto speciale ed enti territoriali di altri Stati, con esse confinanti e il cuiterritorio abbia caratteristiche montane, anche stipulando accordi e convenzioni con gli enti predetti.71 Recante la “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 dellaCostituzione”.

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generali di amministrazione, di gestione e di controllo, le funzioni di istruzionepubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica, le funzioni nel campo dei trasporti, lefunzioni riguardanti la gestione del territorio, le funzioni nel campo della tutelaambientale, le funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi delmercato del lavoro.

Si tratta in ogni caso di un elenco di funzioni fondamentali “eterogeneo”, nelquale rientrano sia competenze puntuali, come la “pianificazione territorialeprovinciale di coordinamento”, sia funzioni amministrative più generali, come la“tutela e valorizzazione dell’ambiente72; e, d’altra parte, sia funzioni dipianificazione/programmazione, come appunto la “pianificazione territoriale” o la“programmazione della rete scolastica”, sia funzioni gestionali dirette come la“costruzione e gestione delle strade provinciali”, la “gestione dell’ediliziascolastica”, la gestione delle gare d’appalto per conto dei Comuni73. Peraltro, è unelenco a maglie larghe, che potrà essere riempito di tutte le funzionicomplementari a quelle attribuite dalla nuova normativa74.

Dall’elenco delle funzioni fondamentali mantenute in capo alla Provinciascompaiono invece alcuni compiti che, a partire dagli anni ’90, erano entrati nellamission istituzionale dell’ente: la tutela e valorizzazione delle risorse idriche edenergetiche, la valorizzazione dei beni culturali, la protezione della flora e dellafauna, parchi e riserve naturali, la caccia e pesca nelle acque interne,l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, il rilevamento,disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche esonore, i servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazionestatale e regionale, secondo l’elenco contenuto nell’art. 14 della legge 142 del

72 Lo osserva il documento congiunto Anci-Upi, cit., 3, che richiama la necessità di procedere secondo iseguenti principi e criteri: 1) l’attribuzione alle Province delle diverse attività amministrative riconducibilialle nuove funzioni fondamentali elencate nel comma 85, lett. a) b) c) d) e) f); 2) la ricomposizione in modoorganico in capo alle Province di tutte le competenze che sono esercitate da altri soggetti amministrativi eche invece rientrano nelle funzioni fondamentali; 3) l’eventuale trasferimento ad altri livelli di governo dellecompetenze amministrative oggi svolte dalle Province che non rientrano nelle loro funzioni fondamentali.73 G. CLEMENTE DI SAN LUCA, Il vero irrinunciabile ruolo della Provincia e le sue funzioni fondamentali,cit., 6, è critico rispetto alla scelta di affiancare, nello stesso ente provinciale, funzioni di programmazione efunzioni di gestione, per due motivi di fondo: “da un canto, la ‘testa’ – per usare una espressione gergale maefficace – di chi deve gestire non è, o assai di rado può essere, la stessa di chi deve programmare. Chi devepensare per rispondere ai bisogni dell’oggi difficilmente può con serietà, preoccuparsi dello sviluppo, diimmaginare e leggere il futuro. D’altro canto, non può essere valutata l’esperienza, ormai storica, che hadimostrato la ‘naturale’ inclinazione del potere politico a pratiche di ‘sottogoverno’, tanto che non è affattoperegrino ipotizzare un cattivo esito della programmazione nelle mani degli stessi soggetti che sonoimpegnati nella gestione attiva”. Le uniche competenze gestionali che, secondo l’A., dovrebbe esserericonosciute alle Province attengono alla verifica in senso lato delle modalità di svolgimento delle funzionicomunali.74 Cfr. il documento Anci-Upi, cit., 3: “Ad esempio: se parliamo di «tutela e valorizzazione dell’ambiente» edi «regolazione della circolazione stradale», ciò rende implicito il mantenimento delle funzioni di poliziaProvinciale. Analogamente, dentro la voce «tutela e valorizzazione dell’ambiente» devono essere ricompresele competenze amministrative sui controlli e autorizzazioni ambientali, su caccia e pesca, protezione dellaflora e della fauna, gestione dei parchi e delle aree protette, organizzazione dello smaltimento dei rifiuti alivello Provinciale. Lo stesso tipo di approccio deve valere per le funzioni relative alla «programmazioneProvinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale» e alla «gestione dell’ediliziascolastica». Una lettura sistematica delle disposizioni sulle funzioni fondamentali dei comuni e delleprovince porta a concludere che restano in capo alle Province sia le attuali competenze in materia diprogrammazione della rete scolastica, di orientamento scolastico e diritto allo studio, sia le competenze inmateria di gestione dell’edilizia scolastica delle scuole superiori”.

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1990 e poi trasfuso nell’art. 19 del Tuel (d.lgs. 267 del 2000); a cui si aggiunge ilruolo nel mercato del lavoro, con l’incontro tra la domanda e l’offerta d’impiego,riconosciuto dalle riforme Bassanini75.

Ora, se alcune di queste funzioni possono essere fatte rientrare nell’ampiadizione dell’art. 1, co.85, lett. a), della legge Delrio, laddove fa riferimento alla“tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza”, per altrel’omissione non è del tutto comprensibile, se non nell’ottica del disegno di futuraabolizione dell’ente; con il rischio che, se il legislatore non interverrà a correggerel’elenco, si creino vuoti amministrativi o confusione in settori delicati76.

Infine, nella logica della semplificazione e della concentrazione dellefunzioni in capo ad un unico centro decisionale, il comma 90 prevede lasoppressione di enti o agenzie di ambito provinciale o sub provinciale, perconcentrare nella Provincia tutte le funzioni che ad essa competono.

6. Conclusioni

Da quanto abbiamo sin qui osservato emerge che la nuova Provinciaprenderà le mosse in un contesto di grande incertezza: in ordine al quadrocostituzionale di riferimento e alla conformità della disciplina a quello attuale; inordine alla funzionalità della forma di governo e all’efficacia dei raccordi con iComuni; in ordine alla sorte finale di molte delle competenze attualmenteesercitate dalle Province. Non è difficile prevedere che, nei primi mesi o anni, sinavigherà letteralmente a vista, con sperimentazioni da un lato, resistenze alcambiamento dall’altro, e con un notevole rischio di confusione del quadroistituzionale complessivo.

Sarebbe stato preferibile attendere la conclusione del processo di riformacostituzionale all’esame del Parlamento, così da avere un quadro più chiaro dellacornice di riferimento e da fugare molti dei rilievi di costituzionalità che sono statimossi; così come non sarebbe stato inutile coinvolgere maggiormente le Regioniin questo processo di riforma del sistema territoriale locale, lasciando a ciascunadi esse più spazio nella scelta della tipologia e della dimensione ottimale dell’entedi area vasta; ma è noto che, su questo punto, le principali resistenze giungonoproprio dagli enti locali, che hanno sempre cercato nello Stato un ombrelloprotettivo dalle ingerenze regionali77.75 Cfr. l’ “Analisi di alcune funzioni fondamentali delle Province per l’individuazione del fabbisognostandard”, ricerca sull’attuazione del federalismo fiscale nelle province coordinata da FRANCESCO DELFINO,in www.upinet.it.76 A riprova dell’andamento ondivago del legislatore sul ruolo delle Province, va ricordato che nel disegno dilegge per l’approvazione del Codice delle autonomie locali (18 novembre 2009), a tali enti venivanoassegnate, quali funzioni fondamentali, anche “l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale diambito sovra comunale, la protezione civile, la prevenzione delle aree ad elevato rischio ambientale, lefunzioni di autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato in ambito provinciale”, oltre a tutte lealtre funzioni richiamate nel testo. Cinque anni dopo lo scenario è completamente mutato, come emergedalla lettura del co. 85 dell’art. 1 della legge Delrio.77 Si sofferma in particolare sulla reciproca diffidenza tra Regioni ed enti locali R. BIN, Il nodo delleProvince, cit., 15, che osserva che “il fatto che ancor oggi condiziona più pesantemente l’assetto dei poterilocali e ne impedisce uno sviluppo razionale … [è] la separazione – anzi, assai spesso, la contrapposizione –tra regioni e enti locali, rimasti quest’ultimi sino ad oggi soggetti alla potestà legislativa esclusiva delloStato. Questa separazione ha impedito non solo alla regione di modellare l’assetto dei «suoi» enti locali, ma

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Soprattutto, sarebbe forse stato preferibile resistere alle sirene dellaspending review, e riflettere più a fondo se a non essere più attuali come entipolitico-amministrativi di prossimità siano oggi gli 805778 Comuni, piuttosto che leProvince: si vuole dire che, nel contesto odierno, i Comuni hanno ragioned’essere come terminali di gestione delle funzioni amministrative fondamentali,meno invece come luoghi della decisione politica sulle principali esigenze dellecomunità locali, quale l’uso del territorio, lo sviluppo economico, le infrastrutture, iservizi sociali, la gestione dei rifiuti e delle principali risorse. Per tutte questeesigenze la dimensione provinciale appare ormai come una dimensione minimaimprescindibile, anche per sottrarre decisioni particolarmente rilevanti a logichepuramente localistiche o a pratiche corruttive purtroppo assai diffuse.

La legge Delrio ha fatto però una precisa scelta di segno diverso: ha sceltocioè di depotenziare la dimensione politica dell’ente Provincia, facendone unorganismo di coordinamento tra Comuni, ancorché abbia lasciato ad esso alcunefunzioni fondamentali che possono rivelarsi tutt’altro che secondarie:pianificazione territoriale, infrastrutture stradali, tutela ambientale, oltre ad altriservizi generali il cui ambito ottimale può coincidere con il territorio provinciale.Ma, soprattutto, ha scelto il modello di ente non direttamente investito dallalegittimazione elettorale, che dovrà svolgere le proprie funzioni su baseconsensuale e collaborativa, non avendo l’autorità di compiere scelte politicheautonome rispetto all’indirizzo concordato dai Comuni rappresentati.

Lo scopo della riforma è quindi quello di valorizzare il dialogointercomunale, e di cancellare progressivamente l’entificazione politica dell’areavasta; anche perché non è detto che la Provincia corrisponda al livello ideale diorganizzazione dei servizi di area vasta sul territorio regionale. In quest’otticasaranno i Comuni i veri protagonisti della riforma, perché la chiave della suaefficacia sta proprio nella loro capacità di superare la logica di unacontrapposizione politica con il livello provinciale, e di vedere invece inquest’ultimo un punto naturale di definizione e di coordinamento di decisioni che liriguardano tutti, oltre che un momento di efficienza della loro azione; in attesa chela riforma costituzionale in itinere contribuisca a chiarire e a dare un assettodefinitivo ad un’organizzazione territoriale le cui linee di sviluppo seguite in questiultimi anni hanno mostrato i loro limiti e che richiede pressantemente unaprofonda riscrittura.

* Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi diBrescia

anche agli enti locali di concepire come «propria» la regione”.78 Secondo il dato al 1° gennaio 2014 ricavabile dal sito www.tuttitalia.it.

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1

Brevi riflessioni in tema di sostanziale disconoscimento del diritto costituzionale d’asilo nella recente giurisprudenza di legittimità*

di Elton Xhanari** (31 agosto 2014)

Sommario: I. L’art. 10, comma 3, Cost.: un diritto soggettivo perfetto? – II. L’evoluzione giurisprudenziale in relazione al diritto d’asilo costituzionale. – III. L’attuale sistema di protezione internazionale e il diritto umanitario interno. – IV. Riflessioni conclusive: diritto “attuato” o diritto “disconosciuto”? I. L’art. 10, comma 3, Cost.: un diritto soggettivo perfetto?

La finalità del presente lavoro è duplice. Anzitutto si tenterà di evidenziare l’insieme

dei presupposti e delle condizioni per azionare il diritto d’asilo costituzionale e quella fitta

rete di tutele dello “straniero che fugge” prevista dall’ordinamento positivo. Si analizzerà,

successivamente, il percorso seguito dalla giurisprudenza di legittimità che, nella

colpevole e perdurante inerzia del legislatore, ha provato a dare applicazione all’art. 10,

comma 3, della Costituzione. In conclusione si proverà a rispondere alla domanda se, ad

oggi, il diritto costituzionale di asilo abbia ancora margini di espansione o se, come ritiene

la Cassazione, esso sia già stato «pienamente attuato».

La chiarezza della disposizione costituzionale, nonché il vivace dibattito sviluppatosi

in sede di Assemblea costituente, consentono all’interprete una ricostruzione

relativamente agevole della norma di cui all’art. 10, c. 3, della Costituzione1. Dottrina

pressoché unanime ritiene che «ove si accerti che allo straniero sono negate libertà

politiche e civili fondamentali nel suo Paese, il diritto all’asilo resta acclarato»2.

Prescindendo, dunque, da qualsivoglia vis persecutoria di organi pubblici od

organizzazioni private, gli stranieri (o gli apolidi) sono titolari del diritto d’asilo

costituzionale in ogni caso in cui trovino «repugnante alla loro coscienza civile e morale

vivere in uno Stato autoritario»3. Per fruire del diritto d’asilo sono pertanto necessari e

sufficienti due sole condizioni: da un lato, che nel Paese di provenienza ci sia una

situazione effettiva d’illiberalità; dall’altro lato, che tale situazione obiettiva sia il fattore

* Scritto sottoposto a referee.

1 Art. 10, comma 3, Costituzione: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». 2 C. ESPOSITO, Asilo (diritto di), in Enciclopedia del Diritto, vol. III, Milano, 1958. In senso conforme, si veda P.

BONETTI, Il diritto d’asilo nella Costituzione italiana, in C. FAVILLI (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, Padova, 2011; M. BENVENUTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, Padova, 2007; F. RESCIGNO, Il diritto di asilo, Roma, 2012; M. ASPRONE, Il diritto d'asilo e lo status di rifugiato, Roma, 2012. 3 A. CASSESE, Il diritto di asilo territoriale degli stranieri, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione:

principi fondamentali art.1-12, Bologna, 1975, p. 536.

2

determinante per spingere lo “straniero che fugge” a cercare protezione presso lo Stato

italiano.

La tesi sottostante a tale visione, ossia «della rispondenza a natura umana delle

libertà garantite dalla Costituzione italiana»4, per cui qualunque essere umano deve

poterne godere, è senza dubbio affascinante5. Pertanto, se nel Paese straniero di cui si è

cittadini o in cui si risiede abitualmente (nel caso dell’apolide) ciò non accadesse, allora

l’Italia deve poter essere un porto sicuro. Almeno nelle intenzioni del costituente.

Alla luce di queste considerazioni si può affermare che l’asilo costituzionale individui

con chiarezza sia i destinatari della norma (gli stranieri e, in via d’interpretazione

analogica, gli apolidi) che i presupposti oggettivi per la sua applicazione (l’effettivo

impedimento dell’esercizio dei diritti liberal-democratici previsti dalla Costituzione italiana

nei rispettivi Paesi di provenienza). Per fruire del diritto d’asilo non è invece richiesta la

presenza (o anche solo il timore) di un’attività persecutoria e pertanto non vi è la necessità

che lo straniero esterni, entro i confini dello Stato di provenienza, il disagio morale di vivere

in un regime illiberale. In altri termini la nostra Carta fondamentale, al fine di riconoscere il

diritto d’asilo, non pretende “atti d’eroismo” ma richiede solo la fuga, ossia il fatto che lo

straniero abbia trovato il modo di recarsi presso le frontiere italiane6.

In proposito si deve evidenziare che, in attuazione del diritto costituzionalmente

garantito, il legislatore ordinario non potrebbe in alcun modo alterare la causa di

giustificazione dell’istituto che, come appena osservato, prescinde dall’esistenza di

qualsiasi intento persecutorio. E non potrebbe nemmeno limitare l’ambito soggettivo degli

aventi diritto d’asilo, ad esempio escludendo categorie di stranieri provenienti da Paesi

considerati per presunzione legislativa assoluta come “sicuri”. Il riconoscimento del diritto

d’asilo deve dipendere infatti da una valutazione individuale e soggettiva.

Il legislatore dovrebbe quindi limitarsi a disciplinare le procedure per il

riconoscimento e per la revoca del diritto in argomento, nonché le condizioni «di

permanenza dello straniero nel territorio della Repubblica»7. Condizioni che, in ogni caso,

non potrebbero essere deteriori rispetto a quelle riconosciute allo straniero in generale,

4 C. ESPOSITO, Asilo (diritto di), cit. 5 Ricostruendo la “volontà storica” dei costituenti l’unica categoria che essi paiono voler escludere dal novero dei titolari del diritto d’asilo è quella dei “carnefici”. Si tratta di coloro che si sono adoperati a rovesciare manu militari una forma di Stato democratica al fine di instaurarvi un regime illiberale. Ad essi non può venir riconosciuto il diritto d’asilo costituzionale né nel caso in cui tale tentativo fallisca ed essi rischino di essere legalmente perseguiti nel proprio Paese, né nel caso in cui il tentativo abbia successo ma poi i responsabili decidano di abbandonare tale Paese. Si veda A. CASSESE, Il diritto di asilo territoriale degli stranieri, cit. 6 Tesi tutt’altro che pacifica in seno all’Assemblea costituente. La posizione comunista, infatti, al fine di riconoscere il diritto d’asilo prevedeva che lo straniero fosse perseguitato per aver difeso i diritti della libertà e del lavoro. 7 M. BENVENUTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, cit., p. 139.

3

considerando il favor costituzionale previsto nei confronti di tale particolare categoria.

L’ampiezza della garanzia costituzionale unitamente all’inerzia protratta del

legislatore portano ad affrontare una prima questione di fondo: la riserva assoluta di legge

posta dalla disposizione costituzionale in argomento non rischia di degradare la norma in

esame a poco più che un “buon auspicio” ovvero a una norma meramente

programmatica? Del resto la sua fedele applicazione potrebbe comportare difficoltà

oggettive, visto che l’abbondanza di Stati autoritari ed illiberali presenti sul pianeta

potrebbe costringere l’Italia ad accogliere milioni di stranieri potenzialmente accalcati

presso le frontiere.

Per scongiurare questa eventualità sarebbe sufficiente accogliere il principio

costituzionale in una dimensione non assolutistica, senza con ciò abbandonare la tesi che

alla legge ordinaria sia preclusa la possibilità di porre limiti quantitativi al diritto d’asilo

costituzionale. Se infatti si deve certamente rifiutare l’idea di un asilo “contingentato”, allo

stesso tempo nulla vieta che l’istituto di cui all’art. 10, comma 3, Cost., possa incontrare un

limite fisiologico nell’esigenza di bilanciamento con altri beni costituzionali di pari livello. Un

limite di questo tipo è ad esempio riscontrabile all’art. 16, comma 1, Cost. 8, in base al

quale sarebbe possibile limitare l’ingresso e il soggiorno degli stranieri richiedenti il diritto

d’asilo per «motivi di sanità o di sicurezza» stabiliti dalla legge in via generale9.

II. L’evoluzione giurisprudenziale in relazione al diritto d’asilo costituzionale.

Se è vero che un diritto soggettivo esiste solo nella misura in cui può venire tutelato

dagli organi giurisdizionali, allora il c.d. “diritto d’asilo costituzionale” rappresenta un caso

esemplare di tutela rimasta esclusivamente “sulla carta” per oltre mezzo secolo. A

contribuire a questa grave lacuna nella tutela effettiva del diritto d’asilo è stato innanzi tutto

il legislatore, che di fatto non ha mai inteso dar seguito alla riserva di legge assoluta

prevista al terzo comma dell’art. 1010. Il suo sforzo maggiore è stato semmai quello di

confondere due piani ben distinti, ossia quello dell’asilo e quello del rifugio, legiferando

solo su quest’ultimo11 ma utilizzando (decisamente e colpevolmente a sproposito) il

8 Art. 16, comma I, Cost: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata per ragioni politiche». 9 M. BENVENUTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 148. 10 In questo senso Cassese ritiene che la riserva di legge precluda agli organi di potestà regolamentare di intervenire nella disciplina e allo stesso tempo inviti il legislatore ordinario ad «integrare legislativamente il dettato costituzionale» (A. CASSESE, Il diritto di asilo territoriale degli stranieri, cit., p. 534). 11 Si possono ad esempio citare: a) La c.d. “Legge Martelli” (n. 39/1990), il cui art. 1, comma 11, disponeva che «I richiedenti asilo che hanno fatto ricorso alle disposizioni previste per la sanatoria dei lavoratori immigrati non perdono il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato»; b) La c.d. legge “Bossi-Fini” (n. 189/2002), che prevedeva che per

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termine «asilo». Il contesto geopolitico della seconda metà del secolo scorso (la divisione

in blocchi, l’assenza della distinzione cittadini comunitari/cittadini extracomunitari, il minore

impatto delle migrazioni di massa dai Paesi dell’emisfero meridionale, ecc.) e una certa

“sottovalutazione” dei problemi anche da parte della dottrina, hanno finito per provocare

una sorta di colpevole silenzio sul tema dell’asilo politico così come concepito dal

Costituente.

E allora non ci si deve stupire se tutto il peso di una norma così progressista e

garantista e così piena d’implicazioni (ideali e concrete)12 sia caduto interamente sulle

spalle di una giurisprudenza di legittimità dimostratasi nell’ultimo quindicennio giocoforza

ondivaga, mutevole e immemore rispetto al dettato costituzionale.

Punto di partenza nella ricostruzione di tale percorso giurisprudenziale rimane una

non troppo datata pronuncia della Cassazione13 che, conferendo al giudice ordinario la

giurisdizione in tema d’asilo costituzionale, afferma alcuni importanti principi. In primis, la

Suprema Corte sostiene che lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo

esercizio delle libertà democratiche garantite nella Costituzione italiana gode ai sensi

dell’art. 10, comma 3, Cost. di un «vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento

dell’asilo». Dalla disposizione costituzionale, infatti, è possibile ricavare una norma dal

carattere immediatamente precettivo dato che «seppure [essa] in parte necessita di

disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la

fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto d’asilo». Con una motivazione che

appare chiara e del tutto condivisibile, la Corte sostiene che la causa di giustificazione del

diritto d’asilo debba essere rintracciata nell’«impedimento all’esercizio delle libertà

democratiche» ponendo l’accento, in particolare, sul carattere “effettivo” di tale illiberalità.

In secondo luogo, alla domanda se la disciplina prevista in materia di rifugio14, volta a

recepire nel nostro ordinamento la Convenzione di Ginevra, fosse applicabile anche agli

asilanti costituzionali, la Cassazione ritiene debba rispondersi negativamente. Dal punto di

vista soggettivo, infatti, rifugiati e asilanti non coincidono, poiché la categoria dei primi «è

vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, fosse necessario presentare «domanda d’asilo». 12 Appare sintomatica dell’ideologia di fondo in seno alla Costituente l’enfasi con cui l’on. Tonello sosteneva che «nella Costituzione deve essere messo limpido il concetto che sacra deve essere l’ospitalità». L’on. Nobile, d’altro canto, affermava che fosse fuori discussione concedere il diritto d’asilo «ai rifugiati politici isolati». Sarebbe sorto più di un problema, però, nel caso in cui battessero «alle nostre porte migliaia di profughi politici di altri Paesi e noi saremmo costretti a dar loro asilo senza alcuna limitazione, quando restrizioni potrebbero venir consigliate anche da ragioni di carattere economico» (Camera dei Deputati, Segretariato Generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori

preparatori dell’assemblea costituente, Roma, 1976, p. 800). 13 Cassazione Civile, Sezioni Unite, 26 maggio 1997, n. 4674. 14 All’epoca ci si riferiva alla c.d. “Legge Martelli” (n. 39/1990) che disciplinava l’iter di richiesta e riconoscimento dello status di rifugiato plasmato sulla disciplina della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata dall’Italia con l. n. 722 del 1954.

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meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo». «Il fattore determinante per

l’individuazione del rifugiato», prosegue la Corte, «è, se non la persecuzione in concreto,

un fondato timore di essere perseguitato», mentre la norma costituzionale prevede

semplicemente l’effettivo impedimento «dell’esercizio delle libertà democratiche». In altri

termini, riportando il ragionamento sul piano teorico della distinzione fra genus e species,

se tutti i rifugiati possono essere titolari del diritto d’asilo, non tutti gli asilanti costituzionali

possono essere nelle condizioni giuridiche e di fatto per ottenere il riconoscimento dello

status di rifugiato. Se si pone l’attenzione alle cause di giustificazione dei due diversi istituti

si può affermare che «l’effettivo impedimento nell’esercizio delle libertà democratiche»

racchiude in sé anche «la persecuzione in concreto o almeno il fondato timore di essere

perseguitato». Mentre può non valere l’inverso.

Tuttavia, la Suprema Corte è laconica su un punto focale, cioè su quale sia la

concreta portata dei diritti degli asilanti in assenza di una legge di applicazione dell’art. 10,

comma 3. Qui la Corte si limita ad affermare che «null’altro viene garantito se non

l’ingresso nello Stato».

Nel giro di poco più di un quinquennio, la Corte di Cassazione imbocca un’altra

strada e inaugura un nuovo orientamento, relegando l’asilo costituzionale in uno spazio

angusto e marginale tramite un iter argomentativo non sempre lineare15. Prende corpo

l’idea secondo cui il contenuto del diritto d’asilo ai sensi dell’art. 10, comma 3, Cost., in

assenza di una legge ordinaria d’applicazione, «deve intendersi come diritto di accedere

nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato».

In estrema sintesi, nelle more del procedimento amministrativo (ed eventualmente

giurisdizionale) per il riconoscimento dello status di rifugiato in conformità alla

Convenzione ginevrina, lo straniero non è, come parrebbe logico, un richiedente rifugio,

bensì un asilante16. Il salto logico è notevole e di non facile comprensione. Il permesso di

soggiorno temporaneo17 in attesa di verificare le condizioni per ottenere lo status di

rifugiato, in realtà, deriverebbe dal diritto d’asilo costituzionale. Partendo da tali premesse,

la Cassazione è giunta a sostenere persino che, preso atto della lacuna legislativa, «il

diritto d’asilo, che può essere esercitato alle condizioni stabilite dalla legge, in realtà non

15 Cassazione Civile, Sezione I, 4 maggio 2004, n. 8423; Cassazione Civile Sezione I, 1 settembre 2006, n. 18941; Cassazione Civile, Sezione I, 8 novembre 2007, n. 23352. 16 Fra le tante critiche mosse a tale orientamento giurisprudenziale, si veda in particolare, l’aspro commento di L. MELICA, La Corte di cassazione e l’asilo costituzionale: un diritto negato? Note alle recenti sentenze dalla 1^ sezione

della Corte di cassazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 4/2006, p. 57 e ss. 17 Al tempo il riferimento normativo era ancora l’art. 1, c. 5 della legge n. 39/1989.

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c’è»18. E ancora, «l’esistenza di un autonomo diritto di asilo» si ritiene essere, apertis

verbis, «inconsistente»19. Nell’inerzia del legislatore, il nuovo corso giurisprudenziale

riduce a ben poca cosa il diritto d’asilo costituzionale. Riecheggia, dunque, l’antica, insana

polemica della prima metà degli anni ’50 sui limiti e la portata delle disposizioni

costituzionali, sulla precettività dei diritti fondamentali anche in assenza dell’intervento del

legislatore ordinario.

Il diritto d’asilo, seppur proclamato in maniera solenne ed enfatica nei principi

fondamentali della Carta repubblicana, diviene un istituto dalla minima consistenza,

appiattito sullo status di rifugiato nonostante quest’ultimo poggi su ben altre motivazioni

giuridicamente apprezzabili.

Dopo due fondamentali interventi del legislatore in tema di protezione

internazionale, in applicazione di altrettante direttive europee20, la Cassazione abbandona

la sua giurisprudenza restrittiva per approdare ad una interpretazione vagamente

“internazionalistica” in materia di asilo costituzionale. In sintesi, la Suprema Corte supera

esplicitamente «la giurisprudenza di cui a Cass. 18940/2006, per la quale il diritto di cui

all'art. 10, c. 3, Cost. degraderebbe a mera posizione processuale o strumentale» ma

continua a ritenere che non sussiste margine d’applicazione diretta dell’asilo

costituzionale21. E ciò non perché la garanzia costituzionale sia di fatto inconsistente in

assenza di legge d’applicazione, bensì perché essa sarebbe stata interamente attuata in

virtù degli interventi legislativi nell’ambito del c.d. «sistema pluralistico di protezione

internazionale»22. In altre parole, alla luce del quadro di tutele assicurate all’interno di

questo sistema, non sarebbe più necessaria una specifica legge di attuazione dell’asilo

costituzionale. Esso, infatti, secondo tale tesi, «è interamente attuato e regolato attraverso

la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato,

dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi

umanitari» ex art. 5. comma 6, del testo unico sull’immigrazione.

La Cassazione ha aggiunto diversi tasselli a tale ragionamento in pronunce

successive anche recenti23, sostenendo, con maggior chiarezza, che il sistema di

18 Cassazione Civile Sezione I, 1 settembre 2006, n. 18941. La Suprema Corte ritiene «sicuramente fondato», tale ragionamento formulato dal giudice di merito (nel caso di specie la Corte d’Appello di Firenze). 19 Cassazione Civile, Sezione I, 8 novembre 2007, n. 23352. 20 Si tratta della direttiva UE 2004/83, recepita mediante il d. lgs. n. 251/2007 (c.d. “direttiva qualifiche”) che detta le norme sul riconoscimento dello status di rifugiato e di soggetto protetto in via sussidiaria, nonché della direttiva UE 2005/2007, recepita mediante il d. lgs. 25/2008 (c.d. “direttiva procedure”) che prevede norme minime sulle procedure per il riconoscimento e la revoca degli status di cui sopra. 21 Cassazione Civile, Ordinanza del 26 giugno 2012, n. 10686. 22 Cassazione Civile, Sezione VI, Sentenza del 10 gennaio 2013, n. 563. 23 Cassazione Civile, Sezione VI, Sentenza del 29 novembre 2013, n. 26887; Cassazione Civile, Sezione VI, Sentenza

7

protezione internazionale (precisamente la protezione sussidiaria), nonché la protezione

residuale interna (tutela umanitaria), rispondono all’esigenza di «includere nel sistema [...]

situazioni di pericolo di danno grave per l’incolumità personale o altre rilevanti violazioni

dei diritti umani delle persone, non riconducibili al modello persecutorio del rifugio, perché

generate da situazioni endemiche di conflitto e violenza interna, dall’inerzia o connivenza

di poteri statuali o da condizioni soggettive di vulnerabilità non emendabili nel paese di

provenienza». Ciò ha portato il medesimo giudice a ritenere, forse con troppa enfasi, che

le due figure di protezione internazionale (rifugio e protezione sussidiaria) e la misura

umanitaria interna, residuale ed atipica, «hanno finalmente determinato l’attuazione del

diritto d'asilo costituzionale».

Per provare a comprendere questo orientamento giurisprudenziale appare

opportuno porsi la seguente (non retorica) domanda: nell’attuale quadro normativo, colui al

quale venga impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche

garantite dalla Costituzione italiana gode di una qualche tutela, anche se non denominata

propriamente asilo, nel territorio della Repubblica?

Dopo aver analizzato la ratio del diritto d’asilo costituzionale, si deve ora focalizzare

l’attenzione sulle misure di tutela dello “straniero che fugge” presenti nel nostro

ordinamento e solo dopo tale ulteriore indagine si potranno da ultimo sovrapporre i due

piani al fine di evidenziare eventuali coincidenze e/o discrepanze.

III. L’attuale sistema di protezione internazionale e il diritto umanitario interno.

Grazie alla spinta comunitaria, l’insoddisfacente quadro legislativo nazionale sulla

tutela e protezione dei “migranti non economici”24 ha subito un notevole miglioramento sia

in relazione agli aspetti sostanziali (condizioni di riconoscimento e di revoca dei diversi

status) sia per ciò che riguarda gli aspetti procedurali (iter amministrativo ed eventuale

tutela giurisdizionale).

La disciplina in materia è regolata dalla direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/83/CE,25

del 13 gennaio 2014, n. 506. 24 Sono tutti quegli stranieri che abbandonano il proprio Paese d’origine per motivi diversi ed in genere più gravi rispetto alla ricerca di occupazione oppure di condizioni di vita migliori. 25Lo scopo principale della direttiva, ai sensi del considerando 6, è quello «di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale» e «di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri». Il fine secondario è che «il ravvicinamento delle norme relative al riconoscimento e agli elementi essenziali dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria, dovrebbe contribuire a limitare i movimenti secondari dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, nei casi in cui tali movimenti siano dovuti esclusivamente alla diversità delle normative» (considerando 7).

8

rifusa, da ultimo, nella direttiva 13 dicembre 2011 n. 2011/95/UE26, o nuova direttiva

qualifiche, attuata recentemente col d. lgs. 21 febbraio 2014 n. 18, entrato in vigore il 22

marzo 2014. Per la parte che interessa più nello specifico il presente lavoro, la nuova

direttiva qualifiche si (ri)propone l’obiettivo di introdurre «definizioni comuni per quanto

riguarda il bisogno di protezione internazionale intervenuto fuori dal Paese d’origine (sur

place), le fonti del danno e della protezione, la protezione interna e la persecuzione, ivi

compresi i motivi di persecuzione»27. Senza perdere di vista l’attuazione per mezzo del d.

lgs. n. 18/201428 s’inquadrerà succintamente l’odierno diritto positivo individuando quali

categorie dei cc.dd. “stranieri che fuggono”, potrebbero giovarsi in Italia di quella

protezione definita “internazionale” (rifugiati e beneficiari di protezione sussidiaria) ma in

realtà disciplinata a livello di Unione Europea. Infine si analizzerà la protezione umanitaria

tutta interna al nostro ordinamento, prevista come garanzia residuale di chiusura, ossia

come “valvola di sfogo”, dell’intero sistema.

a. Status di rifugiato.

Ai sensi dell’art. 2, lett. e) del decreto qualifiche (d.lgs. 251/2007 come modificato

dal d.lgs. 18/2014), viene definito rifugiato lo straniero (o l’apolide) il quale non intende far

ritorno nel Paese d’origine (o, per l’apolide, in quello di precedente dimora abituale) a

causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,

appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinione politica. Da un lato, quindi,

deve sussistere un rischio oggettivo di persecuzione individuale e dall'altro lato una

personale, fondata paura del richiedente di subire una lesione della sua integrità psico-

fisica per i motivi di cui sopra. Come si può agevolmente evincere, la figura giuridica del

rifugiato riproduce fedelmente le condizioni previste dalla Convenzione di Ginevra del 28

luglio 1951, essendo quindi decisiva una vis persecutoria concreta o almeno fondatamente

temuta.

b. Straniero (o apolide) ammissibile alla protezione sussidiaria.

Il decreto qualifiche, sempre all’art. 2, prosegue con la lett. g) definendo la seconda

26 Nel considerando 1 della direttiva 2011/95/CE si chiarisce come fosse «necessario apportare una serie di modifiche sostanziali alla direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004 [....]. È quindi opportuno provvedere, per ragioni di chiarezza, alla rifusione di tale direttiva». 27 Considerando 25, direttiva 2011/95/CE. 28 Atto legislativo che è andato a modificare in specifici punti il precedente d.lgs. 251/2007 producendo come risultato più tangibile il superamento del trattamento concreto dei rifugiati e dei protetti in via sussidiaria. Ad ambo le categorie, infatti, ora si rilascia un permesso di soggiorno di cinque anni (precedentemente i protetti in via sussidiaria potevano godere di un permesso di soggiorno di soli tre anni) ed usufruiscono delle medesime agevolazioni per il ricongiungimento familiare, per il riconoscimento delle qualifiche professionali, dei diplomi, dei certificati e di altri titoli conseguiti all’estero. In altre parole si eleva lo standard di trattamento dei protetti in via sussidiaria, parificandolo ai rifugiati ai sensi della Convenzione ginevrina.

9

categoria della protezione internazionale. Si tratta della protezione sussidiaria riservata ai

cittadini stranieri nei cui confronti non è rinvenibile una vis persecutoria individuale, motivo

per il quale essi non possiedono i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati. Se gli

stranieri ammissibili alla protezione sussidiaria ritornassero nel Paese d’origine (o di

precedente dimora abituale per gli apolidi), correrebbero un rischio effettivo di subire «un

grave danno». E, proprio a causa di tale rischio, essi non vogliono avvalersi della

protezione di detto Paese.

Il «grave danno» richiesto dalla disposizione nazionale, conformemente alla

disciplina di livello sovranazionale29, viene tipizzato come segue: a) la condanna a morte o

l’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano

o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese d’origine30; c) la minaccia grave e

individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in

situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

L’apparente contraddizione sub c), per cui, da un lato si evidenzia il carattere

generale della violenza (tipica peraltro in ogni conflitto armato) e dall’altro si richiede una

minaccia grave ed individuale alla vita, viene risolta dalla Corte di Giustizia col seguente

percorso logico. Colui che intende accedere alla protezione sussidiaria è, «in via

eccezionale», esonerato dall’onere di provare «la minaccia grave ed individuale» se la

violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso nel Paese d’origine

«raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile»

che ne faccia ritorno, «correrebbe per la sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di

subire la detta minaccia»31. Ne consegue che l’onere per l’individuo di dimostrare di

essere minacciato in modo grave e individuale per situazioni che afferiscono alla propria

persona sarà tanto minore quanto maggiore sarà il grado di violenza indiscriminata nel

Paese d’origine32.

c. Protezione umanitaria.

29 Art. 14 d. lgs 251/2017 che attua l’art. 15 direttiva 2004/83/CE, ora art. 15 direttiva 2011/95/UE. 30 La disposizione riproduce quasi pedissequamente l’art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987. Secondo la Corte di Strasburgo (sentenza dell’8 luglio 2004, Ilaşcu c. Moldavia e Russia, ricorso n. 48787/99 (Grande Chambre)) «il termine tortura designa ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenza acuti, sia fisici che mentali, allo scopo di ottenere da essa o un’altra persona informazioni o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coercizione un’altra persona o per qualunque ragione che sia basata su una discriminazione di qualsiasi tipo, a condizione che il dolore o la sofferenza siano inflitti da o su istigazione o con il consenso o l’acquiescenza di un pubblico ufficiale o altra persona che svolga una funzione ufficiale». 31 Sentenza della Corte di giustizia nella causa C-465/07, 17 febbraio 2009. 32

E. G. CORTESE, G. RATTI, M. VEGLIO, S. VITRÒ, Lo straniero e il giudice civile, Torino, 2014, p. 399.

10

Ai sensi dell’art. 5, comma 6, del testo unico sull’immigrazione33 allo straniero che

non possiede i requisiti per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato e che non può

neppure beneficiare della protezione sussidiaria, viene concesso un ultimo, residuale

strumento di tutela di natura umanitaria e di derivazione puramente nazionale. Egli, infatti,

ove «ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi

costituzionali o internazionali dello Stato italiano», può ottenere un permesso di soggiorno

per motivi umanitari, di durata semestrale, rinnovabile e convertibile in permesso di

soggiorno per motivi di lavoro.

Nell’ordinamento vigente concorrono due canali per ottenere tale titolo di soggiorno.

È possibile, infatti, rivolgersi alle Commissioni territoriali richiedendolo come misura

residuale alla protezione internazionale (e in tal caso il Questore, che materialmente

sottoscrive il provvedimento, non può esercitare alcun potere discrezionale) oppure

direttamente allo stesso Questore che potrà concedere il permesso di soggiorno

nell’esercizio del proprio potere discrezionale. Contro il diniego di tale protezione

umanitaria è possibile adire il giudice ordinario. Ebbene, la Suprema Corte ha affermato

come la protezione umanitaria condivida «l’identità della natura giuridica» con le altre

misure di protezione internazionale (rifugio e protezione sussidiaria) «in quanto situazioni

tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali» 34. Appurato che la

giurisdizione in materia è quella ordinaria (proprio perché la protezione umanitaria è un

diritto soggettivo e non un interesse legittimo), la Cassazione ha precisato che «per il

riconoscimento della protezione umanitaria» si prevede la sussistenza di un pericolo di

persecuzione ai danni del richiedente, ove «tale persecuzione non giustifichi addirittura il

riconoscimento dei più favorevoli status di rifugiato o di protezione sussidiaria»35 oppure si

richiede «l’esposizione ad un elevato rischio personale ovvero ad una situazione

soggettiva di vulnerabilità [...]»36.

Ed è la medesima Cassazione ad ammettere che l’art. 5, comma 6, del testo unico

sull’immigrazione «non definisce i seri motivi di carattere umanitario [...]» ma essi devono

essere identificati facendo riferimento alle convenzioni universali o regionali nonché in

33

D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. “legge Turco-Napolitano” e successive modifiche). 34 Cassazione, Sezioni Unite, 9 settembre 2009, n. 19393. La Corte afferma inoltre che «la situazione giuridica soggettiva dello straniero che richieda il permesso di soggiorno per motivi umanitari, pertanto gode quanto meno della garanzia Costituzionale di cui all’art. 2 Cost., sulla base della quale, anche ad ammettere, sul piano generale la possibilità di bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente tutelate, [...], esclude che tale bilanciamento possa essere rimesso al potere discrezionale della P.A., potendo eventualmente essere effettuato solo dal legislatore, nel rispetto dei limiti costituzionali». 35 Cassazione, 20.07.2012, n. 12764. 36 Cassazione, 9.01.2013, n. 359.

11

forza dell’art. 2, Cost. nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo.37

d. Protezione temporanea.

Per completare il quadro appare utile richiamare sia pur brevemente anche la c.d.

“protezione temporanea”, ovvero una tutela eccezionale, transitoria ed immediata a favore

non dei singoli stranieri che ne facciano richiesta, bensì di interi gruppi. Si tratta pertanto,

più che di un diritto soggettivo, di un interesse legittimo38.

Ai sensi dell’art. 20 del testo unico, il Presidente del Consiglio dei Ministri, con

proprio decreto e nei limiti delle risorse disponibili, stabilisce le misure di protezione

temporanea da adottarsi, anche in deroga alle altre disposizioni in materia d’immigrazione,

«per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di

particolare gravità» in Paesi che non appartengono all’Unione Europea. Il decreto39

concede una protezione straordinaria ed urgente ad un intero gruppo di migranti, in caso

di massiccio afflusso presso il territorio della Repubblica ed in attesa che si metta in moto

ciò che si usa, forse impropriamente, definire “sistema asilo”. Il permesso di soggiorno

concesso ai sensi di tale atto, infatti, non preclude la possibilità di presentare in seguito

una richiesta di protezione internazionale ovvero umanitaria ai sensi dell’art. 5 comma 6,

del medesimo testo unico.

IV. Riflessioni conclusive: diritto “attuato” o diritto “disconosciuto”?

Dovendo ora riprendere le fila del ragionamento, si tenterà di rispondere alla

domanda centrale della presente indagine, ossia se davvero il diritto d’asilo costituzionale

sia correttamente e adeguatamente attuato dalle misure a tutela dello “straniero che

fugge” di cui abbiamo brevemente trattato nel paragrafo che precede.

Come si è già osservato, la ratio dell’art. 10, comma 3, della Costituzione

immaginava l’ammissione all’interno dei confini repubblicani, in qualità di asilanti, di tutti gli

stranieri che con una definizione non più attuale chiameremmo extracomunitari (e degli

apolidi) i quali trovino «repugnante alla loro coscienza civile e morale vivere in uno Stato

autoritario». Se «l’effettivo impedimento» dell’esercizio dei diritti liberal-democratici previsti

dalla Costituzione italiana nei rispettivi Paesi di provenienza rappresenta il solo

presupposto all’applicazione del diritto d’asilo costituzionale, allora la risposta al quesito

iniziale appare del tutto agevole: le attuali forme di protezione dei migranti non economici

37 Cassazione, Sezioni Unite, 9.09.2009, n. 19393. 38 E. G. CORTESE, G. RATTI, M. VEGLIO, S. VITRÒ, Lo straniero e il giudice civile, cit., p. 609. 39 Da ultimo si ricordi quello del 5 aprile 2011 recante «Misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini provenienti dal Nord-Africa affluiti nel territorio italiano dall’1 gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011».

12

non soddisfano le esigenze di tutela degli asilanti sottese all’art. 10, terzo comma, della

Costituzione. Questa conclusione potrebbe apparire quantomeno semplicistica se non si

considerasse con il dovuto riguardo la perdurante assenza di una legge di attuazione del

diritto costituzionale d’asilo, circostanza che obiettivamente rende la situazione molto

complessa anche per gli interpreti, trattandosi di una lacuna difficilmente colmabile dai soli

giudici.

Resta il fatto che la protezione internazionale di matrice eurounitaria nonché quella

derivante dalla Convenzione di Ginevra non riescono da sole a coprire le esigenze sottese

al diritto costituzionale di asilo. Il riconoscimento dello status di rifugiato, infatti, richiede

una vis persecutoria, mentre per beneficiare della protezione sussidiaria deve esistere, nel

caso di rientro nel Paese d’origine, un rischio effettivo di subire un grave danno

puntualmente tipizzato dalle disposizioni legislative in materia. Né si può realisticamente

ritenere che la norma di chiusura del diritto interno di cui all’art. 5, comma 6, testo unico

racchiuda in sé una soddisfacente risposta alle esigenze di tutela collegate al diritto di

asilo affermato nella nostra Carta costituzionale. I «seri motivi, in particolare di carattere

umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano»

richiesti dalla disposizione possono, in via interpretativa, risultare troppo vaghi e poco

stringenti rispetto ai margini di discrezionalità dell’interprete di turno, sia esso la

Commissione territoriale, il Questore o persino il giudice40.

Per una maggior chiarezza valga l’esempio di uno straniero che, giunto in Italia,

lamenti in patria una significativa compressione del diritto d’espressione oppure della

libertà di religione. Si ponga come ulteriore elemento che il protagonista di tale finzione

intellettuale non abbia mai avuto l’ardire di contestare il regime liberticida ovvero di

professare un culto vietato, ma ciò non di meno senta nel suo animo di non poter più

continuare a vivere in una dittatura simile. Si pensi insomma a un cittadino che,

esternamente, ha sempre rispettato le restrizioni liberal-democratiche del Paese d’origine

e che, se venisse rimpatriato, continuerebbe a farlo senza quindi rischiare alcuna

persecuzione.

Ebbene, questo soggetto, benché rientrante nell’alveo degli aventi diritto all’asilo

costituzionalmente garantito, è ad oggi escluso sia dalla possibilità di ottenere lo status di

rifugiato (non potendosi configurare il fondato timore di una persecuzione) sia dal beneficio 40 Senza pretesa d’esaustività, nella prassi applicativa il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato concesso in una variegata pluralità di casi: in presenza di condizioni mediche di significativa gravità; a favore di genitori di figli minori e comunque per la tutela delle categorie vulnerabili; in caso di situazioni individuali che, a causa di un soggiorno prolungato in Italia, mostrano una erosione progressiva dei legami col Paese di provenienza. Si veda E. G. CORTESE, G. RATTI, M. VEGLIO, S. VITRÒ, Lo straniero e il giudice civile, cit., p. 607.

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della protezione sussidiaria (non essendovi né una situazione di conflitto né un rischio

effettivo, in caso di rimpatrio, di subire una condanna a morte, torture o trattamenti inumani

o degradanti).

In una simile ipotesi residuerebbe soltanto la protezione umanitaria interna ex art. 5,

comma 6, testo unico sull’immigrazione. Astrattamente non si può escludere a priori che

l’autonomia interpretativa di quanti sono chiamati a valutare i «seri motivi» ex art. 5,

comma 6, possa condurli a fornire anche a costui un titolo di soggiorno per poter risiedere

legalmente in Italia. In concreto, tuttavia, è più facile prevedere che in un caso simile la

richiesta d’asilo non troverebbe accoglimento. In altri termini sembra più realistica, anche

alla prova dei fatti, l’ipotesi che i «seri motivi» cui allude il citato art. 5, senza una più

stringente specificazione e un esplicito aggancio all’asilo nella sua dimensione

costituzionale, non soddisfino appieno le esigenze di tutela imposte dalla Carta.

La protezione umanitaria, in definitiva, si rivela un istituto troppo evanescente per

poter sorreggere un diritto fondamentale. In gioco c’è il «dovere d’ospitalità» della

Repubblica italiana nonché l’idea tanto ambiziosa quanto affascinante che i diritti liberal-

democratici previsti dalla Costituzione corrispondano alla natura umana e quindi che essi,

in linea di principio, debbano essere garantiti a tutti. Si può ritenere che con l’avvento di un

quadro più efficace e lineare di protezione internazionale ed umanitaria, l’asilo

costituzionale sia stato per così dire accantonato, nonostante abbia in realtà una portata

più vasta, dovendosi applicare ad una categoria più ampia di “stranieri che fuggono”

rispetto a quanto disposto dalla normativa vigente. Il viaggio verso la piena

implementazione del diritto d’asilo, quasi settant’anni dopo il varo della Costituzione,

purtroppo non può ancora considerarsi concluso. Viene anzi da chiedersi se siamo di

fronte ad un diritto fondamentale caduto in desuetudine.

** Dottorando di Ricerca in Diritto Costituzionale Italiano ed Europeo - Università degli Studi di Verona.

Discontinuità argomentativa nei giudizi su norme regionali di reinquadramento del personale di enti di diritto privato e di diritto pubblico

regionali (nota a sent. 202 del 2014)

di Sandro De Gotzen

(in corso di pubblicazione in Le Regioni, 2014)

1.Il percorso giurisprudenziale della Corte costituzionale nei giudizi sullalegittimità del trasferimento di personale da enti regionali al ruolo regionalerisulta frastagliato e non univoco: diversi sembrano essere i parametri alla cuistregua vengono valutate le norme regionali di reinquadramento e diverse leconseguenze tratte nel merito delle diverse fattispecie.

La sentenza 202/2014 ha riguardo al trasferimento di personale da Consorzio dibonifica ad altro Consorzio della medesima Regione, cioè da pubblico apubblico, sulla base di legge regionale. La statuizione della Corte va inquadrataalla luce di alcuni recenti precedenti, che costituiscono le tappe più significative,sembra, dello sviluppo della giurisprudenza costituzionale.

Un prima tappa sembra costituita dalla sentenza 227/2013, dall’ampiamotivazione che si rifà per molti aspetti a precedenti giurisprudenziali piùrisalenti: riconosce il trasferimento automatico “nei casi di passaggio di funzionida un ente pubblico ad un altro”, ma non “come nella specie, da una società didiritto privato, ancorché in mano pubblica, all’amministrazione della Regione(sent n. 226 del 2012)”. Nitido ed esplicito il principio di diritto enunciato,imperniato sul criterio della necessarietà del pubblico concorso: la Cortestatuisce che “<<l’automatico trasferimento dei lavoratori presuppone unpassaggio di status – da dipendenti privati a dipendenti pubblici (ancorché inregime di lavoro privatizzato) - che … non può avvenire in assenza di una provaconcorsuale aperta al pubblico (in tal senso, sent. n.226 del 2012)>>”. “Il dirittoall’inserimento nell’organico dell’ente dev’essere invece, … escluso in capo aidipendenti illo tempore assunti da società controllate senza il ricorso aprocedure selettive pubbliche “equivalenti””.

La mancanza di un concorso pubblico impedisce l’accesso all’impiego di ruolopresso l’amministrazione regionale di personale proveniente dalla societàregionale Gestione Immobili Friuli- Venezia Giulia spa. La sentenza 227/2013ammette esplicitamente il trasferimento automatico di personale da ente pubblicoregionale ai ruoli regionali, negando viceversa il trasferimento nel caso dipassaggio da ente privato, ancorché in mano pubblica (punto 4.2. in dir.). Lasentenza 227/2013 ammette il trasferimento solamente sulla base delpresupposto dell’esistenza di un previo pubblico concorso, che si suppone

esistente nel caso di impiego presso un ente pubblico1, esclusi i casi di derogaeccezionale all’obbligo di concorso2.

L’orientamento della sentenza 227/2013 sembra conforme alla precedentegiurisprudenza della Corte costituzionale. Ma successive decisioni, tra cuiquella in commento – 202/2014 – si discostano dal filone in cui rientra lasentenza 227/2013.

2. Una successiva sentenza , la 17 del 2014, decide in difformità, negando iltrasferimento del personale, da ente pubblico regionale ad amministrazioneregionale, facendo richiamo non al criterio del pubblico concorso, ma al limitedell’ordinamento civile.

La sentenza dichiara la illegittimità di norma legislativa regionale che prevedeche in caso di mancato rinnovo o mancato conferimento dell’incarico alpersonale dirigente di ruolo nelle aziende per il diritto allo studio universitario,esso transita direttamente nei ruoli regionali.

La Corte argomenta basandosi sulla considerazione del limite dell’ordinamentocivile: rileva che ”la norma regionale impugnata … incide su un istituto, quale è lamobilità, che certamente afferisce alla disciplina del rapporto di lavoro pubblico(privatizzato)”. Se ne ricava che “Essa invade, quindi, una sfera di competenzalegislativa che l’art. 117, secondo comma, lett. l) Cost. riserva esclusivamenteallo Stato”. Tale orientamento, va notato, non è costante: la precedentesentenza 388 /2004 della Corte costituzionale, ad esempio, fa salva la normastatale che stabilisce il procedimento di ricollocazione del personale eccedentedi pubbliche amministrazioni presso le amministrazioni regionali e degli entilocali, senza invocare il limite dell’ordinamento civile, ma gli artt. 4 e 120 Cost3.

La fattispecie considerata, peraltro, è ancora quella del trasferimento delpersonale, da ente pubblico regionale ai ruoli della Regione. Il richiamoall’ordinamento civile fa sì che la Corte decida sulla medesima fattispecie –trasferimento automatico del personale da ente pubblico regionale – nel sensodella illegittimità della norma regionale che la prevede. La sentenza 227/2013 e

1 La sentenza 134/2014 della Corte costituzionale valorizza, in una fattispecie di trasferimento di contratti di lavoro da ente privato ad una azienda sanitaria, la insussistenza di un concorso pubblico, nel senso che a tale mancanza si ricollega la mancata immissione nell’organico della azienda sanitaria.2 S.DE GOTZEN, Il principio del pubblico concorso ed eccezioni alla regola per motivi di pubblico interesse. Concorsi riservati e utilizzo di graduatorie esistenti, in Le Reg., 2013, p. 642 ss.3 Sull’impiego del richiamo all’ordinamento civile da parte della sentenza 17/2014 che sembraassestarsi sulla linea per cui tutte le regole inerenti al rapporto di lavoro attengono all’areadell’ordinamento civile S. DE GOTZEN, Procedure di mobilità nel lavoro pubblico, assegnazioni a mansionisuperiori dirigenziali tra organizzazione regionale e “ordinamento civile”, in corso di pubblicazione in LeReg. 2014

la sentenza 17/2014 decidono sulla medesima fattispecie in senso opposto. Lasentenza 17/2014 sembra statuire in generale la illegittimità di norme regionaliche in caso di passaggio di funzioni da un ente pubblico regionaleall’amministrazione regionale prevedano il trasferimento del personale, mentrela sentenza 227/2013 statuisce la legittimità di simili disposizioni, sulla base delcriterio del previo concorso pubblico.

In questo caso il “diritto privato” vien ad impedire il passaggio del personaledall’ente pubblico regionale ai ruoli regionali. Ci si potrebbe chiedere se inveceche con la considerazione della violazione dell’ordinamento civile la diversità didecisione nel merito dipenda piuttosto dalla circostanza che nel caso dellasentenza 17/2014, in cui si tratta di un mancato incarico dirigenziale, non vi èassoluta necessità del trasferimento, per cui potrebbe diventare rilevante il temadella mobilità; mentre la 227/2013 contemplerebbe un’ ipotesi di necessità deltrasferimento, dovuto alla soppressione dell’ente, con riassorbimento dellefunzioni nell’amministrazione regionale per cui il trasferimento ai ruoli regionali daaltro ente pubblico regionale soddisferebbe alla necessità di collocazione delpersonale.

3. La successiva sentenza 202/2014 affronta il problema della norma di leggeregionale che dispone il trasferimento di personale, questa volta da consorzio dibonifica ad altro consorzio, pubblico-pubblico. La questione incidentale è ritenutainammissibile.

Si osserva che nella sentenza 202 non sembra emergere né la questione delconcorso pubblico, né quella dell’interferenza con l’ordinamento civile.L’elaborata motivazione della sentenza 202 si richiama alla necessità dellainterpretazione costituzionalmente orientata della norma regionale che parrebbedisporre un trasferimento automatico del personale del Consorzio di bonifica airuoli regionali. L’interpretazione costituzionalmente orientata fa si che lacomplessa situazione (il consorzio di bonifica è stato soppresso in epocarisalente, vari aspetti del rapporto di lavoro debbono essere chiariti ed affrontati ela disposizione “non corredata da alcuna istruttoria e da alcun criterio dirazionalizzazione del trasferimento, inciderebbe in modo negativo sull’assettoorganizzativo del consorzio ricorrente” (punto 1.1 in dir.). Il Consorzio, chedovrebbe essere destinatario del personale, secondo le indicazioni della leggeregionale, precisa di aver già svolto, per svariati anni, le funzioni del consorziosoppresso con proprio personale.

La sentenza 202 statuisce che interpretata la norma regionale impugnataconformemente al principio di buon andamento, essa “si limita ad esprimere lavolontà del legislatore regionale di porre rimedio ad una situazione di inerziaamministrativa” (punto 2.2. in dir.), mentre le modalità del trasferimento sono dicompetenza dell’amministrazione regionale e non del legislatore:l’amministrazione deve svolgere l’attività conoscitiva richiesta dalla complessasituazione sottostante. La Corte sottolinea come “agli adempimenti propedeuticial trasferimento del personale, data la loro complessità , non poteva provvedereil legislatore regionale”. Quindi, “la norma impugnata può essere interpretatacome un mero sollecito alla conclusione della procedura, della quale dettiadempimenti costituiscono presupposto indefettibile”.

Il procedimento liquidatorio è ”propedeutico alla presa in carico dell’ entedisciolto”. Sembra sia necessaria tra l’altro, “una articolata e ponderata istruttoriaattinente alle singole posizione del personale da trasferire (punto 2.3 in dir.).Questa previsione pare implicare la considerazione dell’esistenza alla base diciascun rapporto di lavoro, di un concorso pubblico. La linearità dellamotivazione avrebbe forse richiesto la esplicita menzione di tale presupposto.

Resta di chiarire se al trasferimento possano ostare considerazioni attinentiall’ordinamento civile, dato che la sentenza 202 non ne fa menzione.

La menzione esplicita da parte della sentenza 202 del momento istruttorio edecisorio affidato all’amministrazione regionale non deve, a nostro avviso,ritenersi caratterizzante della fattispecie, dato che anche negli altri casi, quandosi tratta di trasferimento generale e automatico, parte del processo decisorio edistruttorio è riservato all’amministrazione regionale o dell’ente al quale ilpersonale è trasferito: non vi è, in effetti, una fattispecie affidata in toto allegislatore regionale ed altre viceversa nelle quali e solo nelle quali entra laconsiderazione di un procedimento amministrativo. differente evidenziazionedel momento del procedimento amministrativo risponde all’esigenza disottolineare le conseguenze dell’interpretazione della norma regionale ditrasferimento del personale conforme al parametro costituzionale del buonandamento, a fronte di un procedimento liquidatorio dell’ente assai complesso.Si deve pensare che anche nella fattispecie di cui alla sentenza 202 vi è untrasferimento automatico del personale, ma che in questa come nelle altrefattispecie vi sia comunque un momento di procedimento amministrativo, nelquale si accerta, per lo meno, la presenza di un concorso pubblico comepresupposto del singolo rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Quientra in gioco la necessità di ricollocazione del personale del Consorziosoppresso (il cui stato giuridico nel periodo precedente riesce difficile definire)

così che la misura organizzativa del trasferimento del personale risultanecessaria.

4. Si possono, quindi, considerare congiuntamente ed in parallelo le trefattispecie sopra trattate brevemente, mettendo in evidenza come la Cortedecida in base a parametri diversi: nel primo caso, la Corte ammette iltrasferimento da ente pubblico ed ente pubblico (sulla base dell’esistenza delrequisito del pubblico concorso alla base del singolo rapporto di lavoro), negandoinvece il passaggio da ente privato, anche se in mano pubblica. La sentenza,dati anche gli espliciti richiami giurisprudenziali sembra far riferimento ad unposizione consolidata sul punto.

Le due decisioni più recenti sembrano uscire dal consolidato sentierogiurisprudenziale: ma si tratta di discontinutà solamente argomentativa.Nelsecondo caso, quello deciso dalla sentenza 17/2014, basandosi sul criterio dell’ordinamento civile, la Corte nega il passaggio del personale anche da entepubblico ad ente pubblico, sul presupposto che ogni intervento sul rapporto dilavoro del personale incida sull’ordinamento civile. Va da sé che caratterizza lafattispecie la mancanza di necessarietà del trasferimento, dato che iltrasferimento ai ruoli regionali dipende da un mancato incarico dirigenziale e nondalla soppressione dell’ente.

Nel terzo caso, quello deciso dalla sentenza 202/2014, che riguarda come laprima fattispecie un’ ipotesi di trasferimento necessario si ammette iltrasferimento del personale da ente pubblico ad ente pubblico (come nel caso dicui alla sentenza 227/2013), previa congrua istruttoria amministrativa che deveseguire la decisione di indirizzo del legislatore regionale, che si articola in attivitàconoscitiva più ampia che l’accertamento del previo concorso pubblico, che nonpare possa mancare, secondo l’impostazione dominante della giurisprudenzacostituzionale, in tutte le fattispecie considerate.

Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi(nota a sent. 39/2014)

di Giovanni Di Cosimo(in corso di pubblicazione in “Le Regioni”, 2014)

1. La chilometrica sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2014 prende in esame unodei decreti legge del Governo Monti che tentano di mettere sotto controllo la spesapubblica. Le Regioni ricorrenti dubitano della costituzionalità di talune disposizioni cherafforzano i controlli sulla gestione economico-finanziaria regionale. Sollevano variequestioni, due delle quali affrontano aspetti legati alle fonti del diritto che meritano diessere segnalati.

2. La prima questione verte attorno alla controversa natura di un atto sul rendicontoannuale dei gruppi consiliari dei consigli regionali. Si tratta di un decreto del Presidente delConsiglio dei ministri che, in base a una disposizione del decreto legge, riprende le lineeguida approvate in Conferenza Stato-Regioni1. Il dpcm è il risultato finale di una di quelleatipiche catene di produzione normativa che sempre più frequentemente caratterizzano lalegislazione. In questo caso la sequenza comprende un atto governativo (il decreto legge)che rimanda a un altro atto governativo (il dpcm) tenuto a recepire la deliberazione (lelinee guida) di un organo di raccordo fra livelli di governo (la Conferenza Stato-Regioni).

In generale, le linee guida sono prive di efficacia normativa, ma va valutato caso percaso se il singolo atto sia qualificabile come fonte del diritto di livello sublegislativo 2. Unadelle Regioni ricorrenti sostiene che la disposizione del decreto legge attribuisce un«potere sostanzialmente normativo» alla Conferenza Stato-Regioni e al Presidente delConsiglio e, di conseguenza, viola la disposizione costituzionale sulla potestàregolamentare3.

La Corte muove dalla premessa che la disposizione del decreto legge si collocanell’ambito della materia concorrente “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamentodella finanza pubblica”4. Tuttavia non ravvisa una violazione del sesto comma dell’art. 117Cost., che per le materie concorrenti assegna la competenza regolamentare alle Regioni,perché il dpcm è «privo di contenuto normativo» e si limita «ad indicare i criteri e le regoletecniche» per assicurare l’«omogeneità nella redazione dei rendiconti annuali di eserciziodei gruppi consiliari»5. In sostanza, la Regione sostiene che il decreto legge prevede unafonte secondaria statale in materia concorrente e dunque viola il sesto comma dell’art. 117Cost. La Corte risponde che non sussistono le condizioni per ipotizzare una simileviolazione dato che l’atto statale manca di contenuto normativo.

3. La sottolineatura del carattere tecnico del dpcm richiama la giurisprudenzacostituzionale secondo cui le norme tecniche contenute in atti sublegislativi statali

1 Dpcm 21 dicembre 2012 adottato sulla base dell’art. 1 comma 9 del dl 174/2012.2 R. Bin, La scarsa neutralità dei neologismi. Riflessioni attorno a soft law e a governance, in Per il 70. compleannodi Pierpaolo Zamorani. Scritti offerti dagli amici e dai colleghi di Facoltà, a cura di L. Desanti, P. Ferretti, A.D.Manfredini, Milano, 2009, 24 s.3 In realtà, le linee guida sono frutto di un testo presentato dalle Regioni in Conferenza Stato-Regioni il 6 dicembre2012 (e deliberato il giorno prima in Conferenza delle Regioni).4 Punto 2. cons. dir.5 Punto 6.3.9.3. cons. dir.

vincolano le Regioni6. In particolare, la giurisprudenza costituzionale ha salvatoregolamenti statali recanti norme tecniche accusati di ledere le competenze regionali7.

Una di queste pronunce prende in esame un decreto legge che attribuisce a un decretoministeriale la definizione delle modalità dell’assoggettamento al Patto di stabilità internodelle società in house (sent. 46/2013). La Regione ricorrente eccepisce che si rientra inmateria concorrente per la quale lo Stato non ha competenza regolamentare. Per la Corte,invece, il problema non si pone perché il decreto ministeriale costituisce «un atto che nonha contenuti normativi, ma che adempie esclusivamente ad un compito di coordinamentotecnico, volto ad assicurare l’uniformità degli atti contabili in tutto il territorio nazionale» edunque non viola l’art. 117 sesto comma Cost.

Proprio come nella sentenza in commento, la chiave della decisione sulle società inhouse è nella asserita mancanza di contenuti normativi che rende inapplicabile ilparametro costituzionale sulla potestà regolamentare. La valutazione decisiva riguardaperciò la verifica del carattere normativo o tecnico dell’atto statale, dato che nel secondocaso l’atto rimane esterno all’area di applicazione del sesto comma dell’art. 117 Cost.

4. La sentenza cita alcuni precedenti a sostegno della tesi del carattere tecnico del dpcmsul rendiconto annuale dei gruppi consiliari. Uno di questi annulla una legge regionale cheviola alcuni prìncipi costituzionali specificati dalla legge 281/1970 sugli ordinamentifinanziari delle Regioni (sent. 309/2012)8. Un’altra pronuncia qualifica la corretta redazionedel rendiconto finanziario come un principio fondamentale di coordinamento della finanzapubblica e dunque giudica incostituzionale la legge regionale che non lo rispetta (sent.138/2013). Come si vede, questi precedenti che la sentenza richiama a sostegno della tesidel carattere tecnico, in realtà attribuiscono valore normativo alle regole contabili.

Si potrebbe pensare che il differente orientamento dipenda dalla forma dell’atto,considerato che le pronunce precedenti riconoscono il valore normativo delle regolecontabili in coerenza con la sicura natura normativa degli atti che le contengono (leggiordinarie). Ma non è vero l’inverso: la forma del decreto (del Presidente del consiglio) nonimplica necessariamente la mancanza di contenuti normativi, occorre valutare caso percaso. Essendo comune a molti atti, la forma del decreto non consente di distinguere gli attinormativi da quelli non normativi, ragion per cui occorre applicare il criterio sostanziale9.

Del resto, la Regione ricorrente sostiene che l’atto sul rendiconto annuale dei gruppiconsiliari sia espressione di un «potere sostanzialmente normativo» senza eccepire sullasua forma. L’indagine non va perciò riferita all’atto ma alle singole disposizioni normative10.In altre parole, l’indagine deve svolgersi sul piano sostanziale della generalità eastrattezza delle norme, piuttosto che sul piano formale dei parametri esteriori diidentificazione dell’atto (in particolare, nomen juris e procedimento formativo).

5. In forza dell’art. 1 comma 2 del dpcm sul rendiconto annuale dei gruppi consiliari le lineeguida si compongono di due parti: “prescrizioni” (all. A) e modello di rendicontazione (all.B). Esaminate sul piano sostanziale le due parti rivelano caratteristiche diverse. Il modello

6 Per es. sent. 201/2012 relativa alle norme tecniche per le costruzioni dettate con un decreto ministeriale. La categoriadelle norme tecniche in una certa misura è dubbia visto che non esiste una definizione univoca di “tecnica” (F. Salmoni,Le norme tecniche, Milano, 2001, 25). La Corte ha suggerito che le norme tecniche siano prescrizioni basate sulleacquisizioni delle scienze esatte (sent. 61/1997). Ma un margine di ambiguità resta comunque nelle situazioni diincertezza scientifica (sulle caratteristiche del metodo scientifico che possono dar luogo a incertezza cfr. laComunicazione della Commissione del 2 febbraio 2000 relativa al principio di precauzione). 7 Per es. la sent. 31/2001 relativa al regolamento che definisce le caratteristiche tecniche delle piste ciclabili, che laCorte salva sul presupposto che «la definizione di standard e prescrizioni tecniche finalizzati all’incolumità e allasicurezza stradale» costituisce una competenza che trascende la dimensione regionale.8 Artt. 81 comma 4, 117 comma 2 lett. e), coordinamento della finanza pubblica ex art. 117 comma 3 Cost.9 G.U. Rescigno, L’atto normativo, Bologna, 1998, 22.10 L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 44.

di rendicontazione sembra avere effettivamente carattere tecnico, dal momento cheappresta uno schema nel quale sono elencate le voci contabili che i gruppi consiliaridevono compilare. Per questa parte la valutazione della sentenza, che si fondasull’obiettivo dell’omogenea redazione dei rendiconti, pare tutto sommato condivisibile11.

Invece le prescrizioni, prima ancora di essere funzionali all’omogenea redazione deiconti, regolamentano l’attività dei gruppi consiliari: per esempio, stabiliscono che icontribuiti erogati ai gruppi non possono essere utilizzati per finanziare i partiti; che icontributi non possono essere utilizzati per rapporti di collaborazione a titolo oneroso conparlamentari, parlamentari europei ecc. Ripartite in cinque articoli divisi in commi, leprescrizioni presentano il carattere dell’astrattezza, dato che sono destinate ad essereapplicate tutte le volte che si verifica la situazione prevista (l’inserimento delle spese nelrendiconto), e il carattere della generalità (tutti i gruppi consiliari devono attenersi alleprescrizioni).

Sarebbe stato dunque opportuno distinguere fra le due parti delle linee guida, rilevandoche le prescrizioni assumono valore sostanzialmente normativo in forza della lorogeneralità e astrattezza; e che, di conseguenza, questa parte del dpcm sul rendicontoannuale dei gruppi viola il sesto comma dell’art. 117 Cost. che limita alle materie esclusivela competenza regolamentare dello Stato.

Del resto, in una precedente occasione la Corte ha riconosciuto il valore normativo di undecreto interministeriale recante linee guida proprio ragionando sul piano della generalitàe astrattezza. «Ricorrono, nella specie, gli indici sostanziali che la giurisprudenza costantedi questa Corte assume a base della qualificazione degli atti come regolamenti (…). Il d.m.10 settembre 2010 contiene norme finalizzate a disciplinare, in via generale ed astratta, ilprocedimento di autorizzazione alla installazione degli impianti alimentati da fontirinnovabili, alle quali sono vincolati tutti i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività inquestione» (sent. 275/2011).

6. La sentenza è più convincente quando affronta l’altra questione in tema di fonti deldiritto. Riguarda le modalità di controllo da parte delle sezioni regionali della Corte deiconti dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi approvati con legge regionale. Ildecreto legge stabilisce che a seguito del controllo potrebbe scattare l’obbligo dimodificare la legge di approvazione del bilancio o del rendiconto (per rimuovere leirregolarità riscontrate o per ripristinare l’equilibrio di bilancio). In caso negativo, «èpreclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancatacopertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria»12. Scatta, cioè, quello chela sentenza definisce «un vero e proprio effetto impeditivo dell’efficacia della leggeregionale»13.

Un simile potere della Corte dei conti di vincolare le leggi regionali e di privarle dei loroeffetti, da un lato vìola la sfera di competenza legislativa delle Regioni, dall’altro introduceuna nuova forma di controllo di legittimità costituzionale delle leggi regionali che«illegittimamente si aggiunge a quello effettuato dalla Corte», visto che il controllo ha«come parametro, almeno in parte, norme costituzionali»14.

Il controllo inibitorio della Corte dei conti si sarebbe sovrapposto al controllo dicostituzionalità col rischio di pronunce contraddittorie: in ipotesi leggi regionali usciteindenni dal controllo di costituzionalità avrebbero potuto essere bloccate dalla Corte deiconti per violazione dei parametri costituzionali in materia economico finanziaria (artt. 119

11 A meno che non si debba pensare che, in quanto allegato, il modello ha lo stesso valore normativo dell’art. 1 comma2 che lo prevede. Ma questo modo di ragionare, valido in generale (per es. per la legge di bilancio), in questo caso nonconsentirebbe di apprezzare la diversità fra i due allegati di cui si compongono le linee guida.12 Art. 7 comma 1 dl 174/2012.13 Punto 6.3.4.3. cons. dir.14 Punto 6.3.4.3. cons. dir.

sesto comma e 81)15. Un doppio giudizio, irrazionale e fonte di incertezza, che la sentenzaha opportunamente cassato.

15 Senza considerare la lesione della discrezionalità politica derivante dall’obbligo di modificare la legge di bilanciosecondo le linee prospettate dall’esito del controllo (F. Guella, Il carattere “sanzionatorio” dei controlli finanziari difronte alle prerogative dei Consigli regionali e dei gruppi consiliari: ricadute generali delle questioni sollevate dalleautonomie speciali, in Corte cost. 39/2014, in osservatorioaic, aprile 2014).

La Corte costituzionale continua (giustamente) a non prendere sul serio il

federalismo demaniale: osservazioni a proposito della sentenza n. 22/2013*

di Andrea Ridolfi**

(4 agosto 2014)

SOMMARIO: 1. Le questioni procedurali. – 2. L’art. 119 Cost. e il federalismo demaniale. –

3. La giurisprudenza costituzionale sul d.lgs. n. 85/2010. – 4. Considerazioni conclusive

1. Le questioni procedurali

Con la sentenza n. 22/2013, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di

legittimità costituzionale sollevate dal Governo nei confronti dell’art. 7, comma 3; 11,

lettera c), e 14 della l. reg. Liguria 7 febbraio 2012, n. 2. La Corte ha altresì dichiarato

inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti della intera

legge, nonché delle questioni nei confronti degli artt. 1, 4, 5, 6, 8, 16 e 17 della medesima

legge promosse con riferimento all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. La Corte, infine, ha

dichiarato estinto il giudizio in ordine alle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei

confronti degli artt. 15, commi 2 e 3; 26, comma 2; e 38, comma 5, lett. c) della medesima

legge, e cessata la materia del contendere a proposito dell’art. 38, comma 5, lettera a),

nonché dell’art. 47 della medesima legge.

Un primo rilevo che può essere avanzato è che, in questi ultimi anni, proprio nell’ambito

del giudizio in via principale, si è assistito ad un gran numero di dichiarazioni di

inammissibilità della questione proposta1, e di cessazioni della materia del contendere2,

sintomo di una conflittualità esasperata tra Stato e Regioni3, la cui causa principale va

* Scritto sottoposto a referee.1 Per quanto riguarda le declaratorie di inammissibilità, si vedano C. Cost., dec. nn. 10, 15, 16, 40, 45, 52, 119, 121,156, 172, 181, 186, 200, 201, 208, 221, 233, 254, 269, 278, 299, 309, 312, 324, 325, 326 e 331 del 2010; 7, 8, 33, 35,36, 43, 61, 68, 79, 88, 128, 129, 185, 205 e 227 del 2011; 20, 32, 64, 80, 99, 100, 108, 115, 149, 151, 173, 183, 184,187, 188, 193, 198, 199, 200, 241, 244, 246, 256, 298, 299, 300, 309 e 311 del 2012; 3, 4, 8, 18, 20, 22, 26, 41, 46, 54,62, 77, 138, 141, 162, 205, 212, 218, 219, 220, 221, 222, 225, 229, 230, 234, 239, 246, 254, 255, 256, 259, 272, 273,274, 285, 288, 292, 298, 307, 309, 311, 312 e 315 del 2013; 8, 11, 17, 23, 28, 31, 35, 36, 39, 40, 44, 49, 61, 62, 79, 85,88, 104, 138, 145, 165, 175, 181 e 189 del 2014; ecc.2 Per quanto riguarda la dichiarazione di cessazione della materia del contendere si vedano C. Cost., dec. nn. 1, 2, 4, 40,52, 57, 74, 75, 112, 117, 118, 121, 125, 126, 136, 150, 155, 159, 161, 175, 179, 183, 199, 212 e 357 del 2010; 2, 57, 68,76, 89, 153, 166, 192, 226, 238, 251, 310, 315, 316 e 325 del 2011; 11, 12, 20, 27, 28, 32, 50, 62, 74, 86, 90, 114, 137,145, 148, 151, 157, 158, 173, 193, 200, 217, 226, 228, 241, 243, 267, 297, 300, 305, 308, 309 e 311 del 2012; 3, 18, 22,30, 31, 53, 68, 73, 84, 218, 219, 241, 273, 286, e 298 del 2013; 19, 44, 54, 129, 141, 144, 160, 181 del 2014; ecc.3 Si veda, in proposito, V. ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti tra Stato e Regione. Profili processuali, in AA.VV.,Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale. Atti del Convegno (Trieste, 26-28 maggio 1986), Milano1988, pp. 181 ss., il quale, nella seconda metà degli anni ’80, sottolineava come il giudizio in via principale fosse unasorta di genere minore nell’attività della Corte.

cercata nella revisione costituzionale del 20014, conflittualità che la crisi economica del

2008, lungi dall’attenuare, ha vieppiù accentuato5.

Per quanto riguarda l’inammissibilità della impugnazione di una intera legge, va detto che,

se è vero che nel giudizio in via principale non c’è il limite della rilevanza della questione,

c’è tuttavia quello della pertinenza dei vizi evidenziati e della sufficiente determinatezza

dell’oggetto6, anche se poi la stessa Corte ha ammesso la possibilità di un suo potere

interpretativo/correttivo7. È interessante notare il maggiore rigore introdotto dalla Corte in

ordine alla ammissibilità delle questioni proposte, in conseguenza della «svolta» operata

tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 sul versante del giudizio incidentale8, e poi

4 Sull’aumento della conflittualità tra Stato e Regioni, in virtù della revisione costituzionale del Titolo V, si soffermanoA. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, V ed., Torino 2014, pp. 261-262; N. VICECONTE,Criticità del regionalismo italiano e giustizia costituzionale: le novità del 2011 in tema di contenzioso Stato-Regioni, inRivista AIC 2012, n. 2 (12-6-2012); ID., La giurisprudenza costituzionale Stato-Regioni: le novità del 2010, in RivistaAIC 2011, n. 3 (12-7-2011); ID., La giurisprudenza costituzionale Stato-Regioni nel 2009, in Rivista AIC 2010, n. 0 (2-7-2010); A. CELOTTO, F. MODUGNO, La giustizia costituzionale, in F. MODUGNO (a cura di), Lineamenti di dirittopubblico, II ed., Torino 2010, pp. 659 ss., spec. pp. 708 ss.; I. SIGISMONDI, La riforma del giudizio di costituzionalità invia principale, nell’ambito della revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, in F. MODUGNO, P.CARNEVALE (a cura di), Trasformazioni della funzione legislativa, IV. Ancora in tema di fonti del diritto e rapportiStato-Regione dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Napoli 2008, pp. 337 ss., spec. pp. 363 ss.; L.RONCHETTI, N. VICECONTE, La giurisprudenza costituzionale, in AA.VV., Quarto rapporto annuale sullo stato delregionalismo in Italia, a cura di A. D’Atena, Milano 2007, pp. 133 ss.; G. CERACCHIO, Profili “quantitativi” delcontenzioso costituzionale, ivi, pp. 123 ss.5 Sul rapporto tra crisi economica e trasformazioni del regionalismo, rinvio a S. MANGIAMELI, La nuova parabola delregionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2012, n. 5, pp.711 ss.; ID., Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico – Relazione al XXVIII Convegno Annualedell’AIC, in Rivista AIC 2013, n. 4 (18-10-2013). Sulla incidenza della crisi economica nell’ambito della giurisprudenzacostituzionale, rinvio a M. BENVENUTI, La Corte costituzionale, in F. ANGELINI, M. BENVENUTI (a cura di), Il dirittocostituzionale alla prova della crisi economica. Atti del Convegno di Roma, 26-27 aprile 2012, Napoli 2012, pp. 375ss.; A. DOMINICI, Corte costituzionale e crisi economica: analisi della recente giurisprudenza della Cortecostituzionale in materia di legislazione anticrisi, in Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana 2011, n. 4, pp.22 ss. 6 Si vedano A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, IV ed., Milano 2004, p. 291 (che cita C. Cost., sent. nn.154/1972; 140/1976; 85/1990; 291/1995; 438/2002; 213, 303 e 376 del 2003); ID., Corso di giustizia costituzionaleplurale, Milano 2012, p. 310 (che cita C. Cost., sent. nn. 93, 94, 303, 315 del 2003; 43, 74, 134, 185 e 238 del 2004; 50,95, 106, 270, 279 e 360 del 2005; 22, 39, 59 e 253 del 2006; 98/2007; 54 e 225 del 2009; 45, 68, 141, 178, 223, 246 e300 del 2010; 43 e 190 del 2011; 159, 160 e 178 del 2012); G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale,Bologna 2012, p. 328 (che citano C. Cost., sent. n. 251/2009).7 Si veda A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., p. 291 (che cita C. Cost., sent. n. 93/2003); G. ZAGREBELSKY,V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 328 (che citano C. Cost., sent. nn. 274/2003 e 159/2005).8 Sulla svolta operata dalla giurisprudenza costituzionale, si vedano V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II.L’ordinamento costituzionale italiano. Le fonti normative. La Corte costituzionale, V ed., Padova 1984, pp. 290 ss.; M.LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale , Padova 1984, spec. pp. 1 ss., 137ss.; A. CERRI, La giurisprudenza costituzionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico 2001, n. 4, pp. 1325 ss., spec.pp. 1349 ss.; ID., Corso di giustizia costituzionale, cit. p. 181; ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., p. 195;E. LAMARQUE, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari 2012, pp. 76-77, 99-100. Perplessitànei confronti delle decisioni di inammissibilità erano state sollevate da L. CARLASSARE, Le decisioni di inammissibilitàe di manifesta infondatezza della Corte Costituzionale, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Cortecostituzionale, cit., pp. 27 ss., spec. pp. 67 ss., ove rilevava che il ricorso frequente alle decisioni processuali fossecriticabile per l’uso pretestuoso che ne veniva fatto. Critici sono anche A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti digiustizia costituzionale, cit., pp. 146-147, secondo i quali, a partire, dal 1980, la Corte ha enormemente accresciuto ilnumero di queste pronunce, estendendone oltremodo la portata e finendo con l’annullare la distinzione tra decisioni direstituzione degli atti al giudice a quo e decisioni di inammissibilità.

esteso anche a quello in via principale9: se nelle sentenze nn. 154/1972 e 140/1976 la

Corte aveva ammesso l’impugnazione dell’intera legge, nella sentenza n. 85/1990,

richiamando le sentenze nn. 517/1989, 1111/1988 e 459/1989, la Corte aveva sottolineato

che ogni questione di costituzionalità sollevata nei ricorsi in via principale doveva essere

adeguatamente motivata, in modo da consentire alla Corte di determinare in maniera

inequivocabile l’oggetto della questione sottoposta e di verificare l’eventuale arbitrarietà,

pretestuosità o astrattezza dei dubbi di legittimità prospettati10. Proprio perché questo è

ormai un punto non più in discussione, la Corte nella sentenza n. 22/2013 non cita

neanche la propria giurisprudenza precedente, ma si limita a parlare genericamente di un

consolidato orientamento11.

D’altra parte, la mancanza di motivazione degli specifici profili di contrasto delle

disposizioni censurate con il parametro di riferimento evocato è alla base della

dichiarazione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei

confronti degli artt. 1, 4, 5, 6, 16 e 17 della legge regionale, perché anche in questo caso

risulta impossibile individuare uno specifico oggetto di censura12. Per quanto riguarda,

invece, la cessazione della materia del contendere, è una diretta conseguenza del giudizio

in via principale, essendo questo un giudizio di parti13, e, come tale, nella piena

disponibilità di esse14. Questione discussa in dottrina è se la disponibilità del giudizio sia o

9 Cfr., in proposito, M. LUCIANI, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, cit., pp. 5(nota 9) e 62, ove sottolinea come le declaratorie di inammissibilità, nate nell’ambito del giudizio incidentale, inizino, apartire dal 1981-1982, a comparire anche nei giudizi in via di azione. In senso simile, si veda anche A. CERRI, Corso digiustizia costituzionale, cit., p. 302, il quale sottolinea come l’istrumentario decisionale della Corte si sia formato inprevalenza nel giudizio in via incidentale, e risenta dei fattori «concreti» e «casistici» propri di quel giudizio. Dubbi neiconfronti della estensione delle decisioni elaborati nel giudizio in via incidentale erano stati sollevati da V. ONIDA, Igiudizi sulle leggi nei rapporti tra Stato e Regione, cit., pp. 198 ss. 10 Cfr. C. Cost., sent. n. 85/1990, n. 2 del Considerato in diritto. Per quanto riguarda la giurisprudenza più recente sullanecessità che le impugnative in via principale siano adeguatamente motivate, si vedano, ex multis, C. Cost., sent. nn.360 e 450 del 2005; 139/2006; 119/2010; 199/2012; ecc.11 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 3 del Considerato in diritto. Si veda, tuttavia, G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ,Giustizia costituzionale, cit., p. 328, che sottolineano come l’impugnazione di un intero atto legislativo sia ammissibilequando riguarda normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure (viene citata in proposito C. Cost. sent. n. 201 del2008), laddove, invece, è da considerare inammissibile quando ciò non consenta la individuazione della questioneoggetto dello scrutinio di costituzionalità (vengono citate in proposito C. Cost., sent. nn. 264/1996 e 59/2006).12 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 4 del Considerato in diritto. 13 Così F. SORRENTINO, Lezioni sulla giustizia costituzionale raccolte dal dott. Salvatore Mileto, Torino 1990, p. 44; A.CELOTTO, La Corte costituzionale, Bologna 2004, p. 73; G. AZZARITI, Appunti per le lezioni: Parlamento, Presidentedella Repubblica, Corte costituzionale, Torino 2010, p. 172. Più sfumata è, invece, la posizione di G. ZAGREBELSKY, V.MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., pp. 320-321, secondo i quali l’ordinamento vigente, nel qualificare il giudiziocome giudizio sulle leggi e non come conflitto di attribuzioni legislative, sembrerebbe avere accolto la prospettiva delcarattere oggettivo del giudizio, ripudiando quella del giudizio di parti. Tuttavia, proseguono i due studiosi, se sianalizza la giurisprudenza costituzionale successiva alla revisione del 2001, essa è in prevalenza caratterizzata dalladeterminazione della spettanza delle competenze legislative, secondo i nuovi assetti posti in essere dalla stessa riforma.14 Cfr. A. CELOTTO, F. MODUGNO, La giustizia costituzionale, cit., p. 711, che sottolineano anche l’intrinseca politicitàdi questo tipo di giudizio. In senso simile, anche L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova 1991, pp. 735-736. Sullapoliticità del ricorso insistono anche A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 256, che,tuttavia, sottolineano anche il fatto che esso debba essere sorretto da una congrua motivazione specificamente costituitada argomenti di diritto. Diversa è la posizione di G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 325,

meno in contrasto con la funzione del ricorso governativo come strumento di tutela

dell’integrità dell’ordinamento costituzionale nel suo complesso15.

2. L’art. 119 Cost. e il federalismo demaniale

Se sulle questioni procedurali, quindi, la sentenza non sembra particolarmente innovativa,

i punti dove la sentenza presenta profili di interesse, a mio avviso, sono costituiti dalla

interpretazione del d.lgs. n. 85/2010. La sentenza n. 22/2013 costituisce, infatti, dopo la

sentenza n. 339/2011 e la n. 284/2012, la terza pronuncia in cui il nostro organo di

giustizia costituzionale si è occupato del controverso d.lgs. n. 85/2010, in tema di

federalismo demaniale16. Comune alle tre diverse pronunce è il fatto che la Corte ne abbia

dato una interpretazione restrittiva, il che porta ragionevolmente a ritenere che quella della

Corte sia ormai una vera e propria interpretazione consolidata, e non, invece, un qualcosa

di estemporaneo.

secondo cui non si tratta di piena disponibilità dell’azione da parte del ricorrente, in quanto, per determinarsi l’effettoestintivo, occorre che le parti costituite accettino la rinuncia: di conseguenza, viene riconosciuta la rilevanza di uninteresse che trascende quello del solo ricorrente. Sulla politicità del giudizio in via principale, si vedano anche V.CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, cit., pp. 309-310; A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., pp.287 ss.; ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., pp. 308 ss.15 In questo senso, G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1977, pp. 140 ss.; G. ZAGREBELSKY, V.MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., p. 325. Di diverso avviso sembra A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale,cit., p. 307; ID., Corso di giustizia costituzionale plurale, cit., p. 336, secondo cui la gestione politica delle competenze,insieme con i requisiti della legittimazione e dell’interesse escludono azioni e ricorsi puramente astratti, mossi cioè daragioni di mera legalità, ma disancorati dall’effettiva cura degli interessi sociali. Qualche dubbio è avanzato anche da V.CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, cit., pp. 308-309, secondo il quale, se l’impugnativa fosse rivolta allatutela dell’ordine costituzionale delle competenze, la proposizione di essa dovrebbe essere, a rigore, doverosa, e mal sigiustificherebbe la possibilità della rinuncia. Sulla funzione del ricorso statale come mezzo di tutela dell’ordinamento sisofferma L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., pp. 738-739. Si veda, infine, E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI,Giustizia costituzionale, III ed., Torino 2011, pp.151-152, che parlano di un’evidente ambiguità data dalla compresenzadi elementi propri del modello astratto del giudizio di costituzionalità delle leggi ed elementi del modello concreto delconflitto di attribuzioni legislative.16 Sul federalismo demaniale, si vedano L. ANTONINI, Il primo decreto legislativo di attuazione della legge n. 42/2009:il federalismo demaniale in www.federalismi.it, n. 25/2009 (30-12-2009); M. ANTONIOL, Il federalismo demaniale. Ilprincipio patrimoniale del federalismo fiscale, Padova 2010; G.F. FERRARI (a cura di), Il federalismo demaniale. Attidel Seminario (Roma, 11 marzo 2010), Torino 2010; F. SCUTO, Il federalismo patrimoniale, in www.astrid-online.it, n.3/2010 (9-2-2010); ID., Federalismo demaniale ed enti territoriali, in P. BILANCIA (a cura di), Modelli innovativi digovernance territoriale. Profili teorici e applicativi, Milano 2011, pp. 201 ss.; F. PIZZETTI, Editoriale. Il federalismodemaniale: un buon segnale verso un federalismo fiscale «ben temperato», in Le Regioni 2010, n. 1-2, pp. 3 ss.; E.BUGLIONE, Attuazione della l. 42/2009, Atto Primo: il federalismo demaniale. Una scelta opportuna?, in Rassegnaparlamentare 2010, n. 3, pp. 697 ss.; R. GALLIA, Il federalismo demaniale, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2010,n. 3, pp. 967 ss.; A. POLICE, Il federalismo demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni locali?, in Giornale didiritto amministrativo 2010, n. 12, pp. 1233 ss.; G. LO CONTE, «Federalismo demaniale» e regime giuridico dei benipubblici, in Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana 2011, n. 1, pp. 23 ss.; D. SICLARI, Il d.lgs. n. 85 del2010 in materia di federalismo patrimoniale nel processo di attuazione dell’art. 119 della Costituzione , in Rivista AIC2011, n. 2 (8-2-2011); A. LEZZI, Federalismo demaniale. Prime riflessioni sul decreto legislativo 28 maggio 2010, n.85, in Rivista giuridica dell’ambiente 2011, n. 2, pp. 229 ss.; F. ZAMMARTINO, Alcune considerazioni sul federalismodemaniale, in www.giustamm.it, n. 7/2011; P. MADDALENA, I beni comuni nel codice civile, nella tradizioneromanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, ivi, n. 19/2011 (5-10-2011), pp. 16 ss.; V. CAPUTI

IAMBRENGHI, Il federalismo demaniale, in www.ius-publicum.com; F. COSTANTINO, La dismissione del patrimonioimmobiliare e la foresta di Sherwood (11-05-2012), in www.apertacontrada.it; A. RIDOLFI, La proprietà, in F.ANGELINI, M. BENVENUTI, Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, cit., pp. 151 ss., spec. pp. 172 ss.;R. BIN, G. FALCON (a cura di), Diritto regionale, Bologna 2012, pp. 294 ss.

Come è noto, il d.lgs. n. 85/2010 trova la sua ragion d’essere nell’art. 119 Cost. 17, come

novellato dalla l. cost. n. 3/2001, che, nel prefigurare una autonomia finanziaria originaria

della Regione18, prevede, quasi a mo’ di corollario, la garanzia per gli enti territoriali di

poter disporre di un proprio patrimonio. In questo senso, il nuovo testo dell’art. 119 Cost. è

volto a garantire la coerenza tra la disponibilità dei mezzi e la titolarità delle funzioni 19.

Come tutti gli enti chiamati ad espletare pubbliche funzioni, infatti, anche le Regioni

necessitano di risorse economiche: i mezzi finanziari di cui questi enti dispongono non

possono non riflettersi sul contenuto delle decisioni politiche adottabili nell’esercizio delle

loro stesse competenze20.

Sebbene la dottrina abbia messo in evidenza la singolarità di questa disposizione

costituzionale21, la possibilità che Regioni ed enti locali abbiano un proprio demanio ed un

proprio patrimonio non è, di per sé, un qualcosa di peregrino, ma è suffragato anche

dall’analisi comparatistica. Uno studioso dei sistemi federali come Kenneth Wheare ha

rilevato come il principio federale richieda che, sia il governo centrale che i governi locali,

per essere indipendenti nella loro sfera di competenza, debbano avere sotto il loro

17 Sulle problematiche riguardanti il nuovo art. 119 Cost. e la sua attuazione, si vedano F. MODUGNO, A. CELOTTO, M.RUOTOLO, Aggiornamenti sulle riforme costituzionali (1998-2002), Torino 2003, pp. 59 ss.; L. ANTONINI, La vicenda ela prospettiva dell’autonomia finanziaria regionale: dal vecchio al nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni 2003, n. 1, pp.11 ss.; A. BRANCASI, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., ivi, pp. 41ss.; R. BIFULCO, Le Regioni. La via italiana al federalismo, Bologna 2004, pp. 112 ss.; S. BARTOLE, R. BIN, G.FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, II ed., Bologna 2005, pp. 193 ss.; G. FRANSONI, G. DELLA CANANEA, Art. 119, inR. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario della Costituzione, Volume Terzo: Artt. 101-139;Disposizioni transitorie e finali, Torino 2006, pp. 2358 ss.; E. BUGLIONE, La finanza, in AA.VV., Quarto rapportoannuale sullo stato del regionalismo in Italia, cit., pp. 331 ss.; ID., La finanza delle Regioni a statuto ordinario: unbilancio di legislatura e un confronto con quelle a Statuto speciale, in AA.VV., Sesto rapporto sullo stato delregionalismo in Italia, a cura di A. D’Atena, Milano 2011, pp. 553 ss.; ID., Autonomia finanziaria e federalismo fiscale:il caso delle Regioni a statuto ordinario, in S. MANGIAMELI (a cura di), Il regionalismo italiano dall’Unità allaCostituzione e alla sua riforma, Volume I. Atti delle giornate di studio (Roma, 20-22 ottobre 2011), Milano 2012, pp.437 ss.; S. SPUNTARELLI, L’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali, in F. MODUGNO, P. CARNEVALE,Trasformazioni della funzione legislativa, IV, cit., pp. 275 ss.; E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici: artt. 822-830,in AA.VV., Il Codice Civile: Commentario fondato da P. Schlesinger e continuato da F.D. Busnelli, Milano 2008, pp.72 ss., 200-201, 264 ss.; M. RUOTOLO, Le autonomie territoriali, in F. MODUGNO, Lineamenti di diritto pubblico, cit.,pp. 497 ss., spec. pp. 517 ss.; M. ANTONIOL, Il federalismo demaniale, cit., pp. 11 ss.; A. D’ATENA, Diritto regionale,Torino 2010, pp. 197 ss.; F. COVINO, “Federalismo fiscale” e collaborazione debole nell’attuazione dell’art. 119 dellaCostituzione, in Rivista AIC 2010, n. 0 (2-7-2010); T.E. FROSINI, Paese che vai, federalismo (fiscale) che trovi…, ivi;M. CAMMELLI, Il federalismo fiscale tra i gattopardi, ne Il Mulino 2011, n. 1, pp. 21 ss.; F. SCUTO, Nuove sfide digovernance territoriale nel federalismo fiscale, in P. BILANCIA, Modelli innovativi di governance territoriale, cit., pp.173 ss.; AA.VV., Seminario giuridico Svimez su «Lo stato di attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42 in materia difederalismo fiscale» (Roma, 14 marzo 2011), in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2011, n. 3, pp. 821 ss.; F. MINNI,Cosa resterà di questo federalismo fiscale, in Autonomie locali e servizi sociali 2012, n. 1, pp. 67 ss.; T. MARTINES, A.RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, IX ed., Milano 2012, pp. 277 ss.; R. BIN, G. FALCON, Dirittoregionale, cit., pp. 265 ss.18 Cfr. E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., p. 72, secondo i quali l’autonomia finanziaria della Regione vieneconcepita come strumento per rafforzare la separatezza dell’ente autonomo territoriale nei confronti dello Stato.19 Cfr. E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., p. 201.20 Così A. D’ATENA, Diritto regionale, cit., p. 197.21 Cfr., in questo senso, E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., p. 74, secondo cui, nel quadro delle Costituzionieuropee, non è presente una disposizione che riporti a livello costituzionale la problematica dei beni pubblici e dellatitolarità di essi, concependoli quali ulteriori risorse per la finanza territoriale.

controllo indipendente risorse finanziarie sufficienti ad assolvere le loro funzioni

esclusive22. Tra i mezzi attraverso cui sia i governi centrali che quelli regionali possono

trarre delle entrate Wheare ha indicato anche le proprietà demaniali23.

Questione ulteriormente diversa è se la mancata menzione del termine demanio nel nuovo

testo dell’art. 119 Cost. possa significare che i beni rientranti nella garanzia costituzionale

siano solo i beni patrimoniali o anche i beni demaniali. Le posizioni della dottrina sono

state alquanto articolate al loro interno24: c’è chi ha visto nel mancato uso del termine una

conferma dell’orientamento volto a superare la tradizionale distinzione codicistica tra beni

demaniali e beni patrimoniali25; c’è chi ha ritenuto che la nuova formulazione sia

sostanzialmente frutto di una lacuna o di un errore da parte del legislatore costituzionale 26;

chi, invece, ha ritenuto che la novella non avrebbe voluto vietare il regime demaniale dei

beni territoriali, ma solo renderlo costituzionalmente non obbligatorio27; e chi, infine, ha

sottolineato che la nozione di patrimonio accolta dal nuovo testo dell’art. 119 Cost. opera

su un versante distinto rispetto a quello delle coordinate civilistiche dell’istituto28.

Fin dalla sua approvazione, il d.lgs. n. 85/2010 è stato oggetto di valutazioni contrastanti:

c’è chi ne ha difeso a spada tratta i suoi aspetti essenziali contro possibili

strumentalizzazioni da parte dei giornali29, chi ha sottolineato la sua importanza in ordine

all’attuazione del nuovo art. 119 Cost.30, o ai fini della trasparenza e responsabilità nei

22 Così K.C. WHEARE, Del governo federale, tr. it. a cura di S. Cotta, II ed., Bologna 1997, p. 173.23 Così nuovamente K.C. WHEARE, Del governo federale, cit., pp. 176-177. In senso simile, si veda anche G. FRANSONI,G. DELLA CANANEA, Art. 119, cit., p. 2375.24 Cfr. R. BIN, G. FALCON, Diritto regionale, cit., p. 294.25 In questo senso, G. FRANSONI, G. DELLA CANANEA, Art. 119, cit., p. 2375; F. SCUTO, Il federalismo patrimoniale,cit., pp. 2-3. Sulla necessità di superare la distinzione codicistica tra beni demaniali e beni patrimoniali si veda anche E.REVIGLIO, Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà, in Politicadel diritto 2008, n. 3, pp. 531 ss.; U. MATTEI, E. REVIGLIO, S. RODOTÀ (a cura di), Invertire la rotta. Idee per unariforma della proprietà pubblica, Bologna 2007; A. LUCARELLI, Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela deidiritti fondamentali. Il progetto di riforma del codice civile: un’occasione perduta?, in Rassegna di diritto pubblicoeuropeo 2007, n. 2, pp. 11 ss.26 In questo senso, F. ZAMMARTINO, Alcune considerazioni sul federalismo demaniale, cit., p. 5, il quale, a sua volta,cita F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma 2009, p. 720.27 In questo senso, M. ANTONIOL, Il federalismo demaniale, cit., pp. 14-15. 28 In questo senso, E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., pp. 74-75, secondo i quali, dagli artt. 42 e 119deriverebbe il principio secondo cui spetterebbe al legislatore statale assegnare agli enti del pluralismo territoriale i beniindispensabili per l’adempimento delle funzioni di competenza, seguendo una sorta di tendenziale parallelismo tra latitolarità del bene e la responsabilità della funzione amministrativa: in questa prospettiva, il patrimonio degli entiterritoriali va inteso in senso ampio, in quanto costituito non solo dai beni, ma anche da risorse finanziarie, in modo cheesso possa corrispondere alle esigenze organizzative e di funzionamento. 29 Si veda T.E. FROSINI, Paese che vai, federalismo (fiscale) che trovi…, cit., pp. 3-4.30 Cfr. F. PIZZETTI, Editoriale, cit., p. 3; F. SCUTO, Il federalismo patrimoniale, cit., p. 3; D. SICLARI, Il d.lgs. n. 85 del2010 in materia di federalismo patrimoniale nel processo di attuazione dell’art. 119 della Costituzione , cit., p. 1. Nellostesso senso, M. BELLETTI, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza costituzionaletra tutela di valori fondamentali, esigenze strategiche e di coordinamento della finanza pubblica, Roma 2012, pp. 276-277, secondo il quale con questo decreto trova applicazione la clausola di residualità e sussidiarietà che caratterizzal’intero impianto del Titolo V, poiché il patrimonio è di preferenza ceduto agli enti territoriali, fatta eccezione per quellaparte di patrimonio che espressamente rimane nella disponibilità statale.

processi di valorizzazione degli immobili31, chi, invece, ne ha evidenziato le contraddizioni

logiche e le molteplici criticità32, in particolare per quello che riguarda il settore dei beni

culturali33, sino ad arrivare a parlare, in alcuni casi, di un’inopportunità (politica) dello

stesso34, e, in altri casi, addirittura di una sua evidente incostituzionalità35. La Corte,

tuttavia, non è arrivata sino al punto di dichiaralo incostituzionale, ma lo ha privato di effetti

concreti in via interpretativa.

3. La giurisprudenza costituzionale sul d.lgs. n. 85/2010

Come detto, la prima sentenza in cui la Corte ha avuto a che fare con il d.lgs. n. 85/2010 è

stata la n. 339/201136. Il Governo aveva impugnato l’art. 14 l. reg. Lombardia n. 19 del 23

dicembre 2010 per contrasto con l’art. 117 Cost., al che la Regione aveva eccepito che la

gestione amministrativa del demanio idrico era stata trasferita a Regioni ed enti locali sin

dagli anni ‘9037: in questo contesto, proseguiva la Regione, nell’attribuire ad enti locali e

Regioni un proprio patrimonio, il federalismo demaniale completava il disegno riformatore,

pur se era la stessa Regione ad ammettere che non erano ancora intervenuti i decreti

attuativi38. A queste affermazioni la Corte rispondeva che era proprio l’art. 5 del d.lgs. n.

85/2010 ad escludere dal trasferimento una nutrita serie di beni ed infrastrutture, con una

31 Si veda L. ANTONINI, Il primo decreto legislativo di attuazione della legge n. 42/2009, cit., pp. 2-3.32 Sulle criticità del testo, si sofferma A. POLICE, Il federalismo demaniale, cit., spec. pp. 1234-1235, il quale, oltre asottolineare la confusione con cui vengono affastellati i principi della devoluzione, rileva come il principio dellasemplificazione debba essere letto nel senso della pura e semplice dismissione per esigenze di cassa. Sottolinea lemolteplici criticità anche R. GALLIA, Il federalismo demaniale, cit., pp. 971 ss., ad avviso del quale la rigidità per unuso prioritario finalizzato al risanamento del debito pubblico, locale e nazionale, finisce per attribuire al provvedimentouna finalità prevalentemente congiunturale. Sul conflitto tra valorizzazione e dismissione si sofferma anche A. LEZZI,Federalismo demaniale, cit., pp. 232 ss., 244 ss., che mette in evidenza un ulteriore punto critico, ovvero la scarsacompatibilità di queste disposizioni legislative con quelle codicistiche. Sulle criticità del d.lgs. n. 85/2010, inoltre, siaconsentito il rinvio a F. ZAMMARTINO, Alcune considerazioni sul federalismo demaniale, cit., pp. 33 ss.; A. RIDOLFI, Laproprietà, cit., pp. 173 ss.33 Sulle criticità del federalismo demaniale in materia di beni culturali si veda A.L. TARASCO, Il federalismo demanialee la sussidiarietà obliqua nella gestione dei beni culturali, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2011, n. 4, pp. 1069 ss.,spec. pp. 1084 ss.; S. SETTIS, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile,Torino 2010, pp. 293-294; ID., Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino 2012, pp. 95 ss.34 Sulla inopportunità della approvazione del decreto legislativo insiste in particolare E. BUGLIONE, Attuazione della l.42/2009, Atto Primo, cit., spec. p. 705, secondo cui, prima di pensare al federalismo demaniale, sarebbe stato megliocompletare le informazioni sul valore e la consistenza dei beni da trasferire, e definire la struttura delle entrate propriedegli enti territoriali e del sistema di perequazione. 35 Si veda P. MADDALENA, I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione dellaRepubblica italiana, cit., p. 17, secondo il quale esso violerebbe gli artt. 1, 2, 3, 5, 42, 43, 76, 117 e 120 Cost. Di dubbidi costituzionalità parla anche G. LO CONTE, «Federalismo demaniale» e regime giuridico dei beni pubblici, cit., p. 27,secondo cui il d.lgs. n. 85/2010 si inserirebbe nell’ambito del processo di scomposizione degli schemi della demanialità.36 Sulla sentenza n. 339/2011, si veda il commento di A. CERRI, L’autonomia regionale in tema di organizzazione el’esclusiva competenza statale in tema di ordinamento civile: spunti e riflessioni a partire dalla sentenza n. 339 del2011 della Corte costituzionale, ne Il Foro Italiano 2012, n. 5, col. 1361 ss.; 37 Cfr. C. Cost., sent. n. 339/2011, n. 3.3 del Ritenuto in fatto.38 Cfr. C. Cost., sent. n. 339/2011, n. 3.3 del Ritenuto in fatto.

formula abbastanza elastica, per cui era necessario attendere i decreti attuativi per una

identificazione più precisa dei beni e delle infrastrutture oggetto di trasferimento39.

Nella successiva sentenza n. 284/2012, la Corte si è trovata a decidere sul ricorso della

Regione Veneto contro l’art. 27 del d.l. n. 201/2011. La Regione, in particolare, contestava

la normativa introdotta in tema di valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione

del patrimonio immobiliare pubblico perché, a suo dire, attribuiva un ruolo determinante

alla Agenzia del Demanio anche per quanto riguardava i beni di proprietà delle Regioni e

degli altri enti territoriali, dando perciò, l’intendimento di devolvere nuovamente allo Stato

questo compito, laddove, invece, proprio il d.l.gs. n. 85/2010 avrebbe trasferito larga parte

di essi alle Regioni40. Pur lasciando insoluta la questione della operatività (o meno) del

d.lgs. n. 85/2010, la Corte ha replicato che le doglianze della Regione circa il ruolo

esorbitante della Agenzia del Demanio non erano persuasive41. Secondo la Corte, infatti, il

nucleo della disciplina dettata dal d.l. n. 201/2011 era quello di dettare meccanismi

multisettoriali riconducibili alla manovra finanziaria, e perciò attribuibili alla materia

«coordinamento della finanza pubblica»42, laddove, invece, la prospettiva evocata dalla

Regione era ispirata da una visione «patrimonialistica»43. Di conseguenza, il ruolo

attribuito alla Agenzia del Demanio appariva in linea con la gamma di interventi che alla

stessa erano stati via via riservati per conseguire un obiettivo di razionalizzazione e

valorizzazione della gestione del patrimonio immobiliare e con gli obiettivi di

coordinamento della finanza pubblica e di riduzione delle spese44.

Per quanto riguarda, infine, la sentenza n. 22/2013, va osservato che, pur invocando

costantemente il d.lgs. n. 85/2010 a fondamento delle proprie pretese, sia lo Stato che la

Regione Liguria ritengono che esso non sia in grado di produrre effetti giuridici sino ai

decreti attuativi. In particolare, nei motivi di impugnazione della legge regionale ligure lo

Stato sottolinea che permarrebbe ancora la separazione tra la gestione amministrativa dei

beni (di competenza regionale) e aspetto dominicale degli stessi (di competenza statale),

pur in presenza dell’art. 3 d.lgs. n. 85/2010 (che prevede il trasferimento alle Regioni dei

beni del demanio marittimo), in quanto il trasferimento è subordinato alla adozione dei

decreti del Presidente del Consiglio de Ministri non ancora emanati45. A questa

osservazione, la Regione replica che l’impugnativa dello Stato muova da una erronea

39 Cfr. C. Cost., sent. n. 339/2011, n. 4.2 del Considerato in diritto. 40 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 1 del Ritenuto in fatto.41 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 3 del Considerato in diritto. 42 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 4 del Considerato in diritto. 43 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 5 del Considerato in diritto. 44 Cfr. C. Cost., sent. n. 284/2012, n. 8 del Considerato in diritto. 45 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 1 del Ritenuto in fatto.

premessa, dal momento che la normativa impugnata sarebbe stata adottata

esclusivamente nella attuazione del federalismo demaniale, e ciò emergerebbe

chiaramente dalle modifiche apportate all’art. 2 della legge regionale impugnata, chiarendo

perciò che nulla muterà sino alla data di entrata in vigore dei decreti attuativi46.

Ma il d.lgs. n. 85/2010 viene invocato anche con riferimento alle altre questioni sollevate.

Secondo lo Stato, l’art. 11 l. reg. Liguria si porrebbe in contrasto con l’art. 5, comma 2,

d.lgs. n. 85/2010, che escluderebbe dal trasferimento una serie di beni demaniali

marittimi47. Secondo la Regione Liguria, invece, la censura sull’art. 7 della legge regionale

è infondata, poiché nella normativa transitoria viene esplicitamente affermato che la nuova

normativa entra in vigore solo dopo l’adozione dei decreti attuativi da parte del Presidente

del Consiglio, così come errata sarebbe l’interpretazione statale dell’art. 15 della stessa

legge regionale in materia di sdemanializzazione, in quanto, nel richiamare l’art. 4, comma

1, d.lgs. n. 85/2010, la legge ligure escluderebbe dal trasferimento alla Regione beni

appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale, che restano assoggettati al

regime previsto dal codice civile e dal codice della navigazione48.

La Corte ha accolto in pieno i rilievi della Regione Liguria, sottolineando come l’art. 7 della

legge regionale non possa essere interpretata come devolutivo di esorbitanti attribuzioni

dominicali o di funzioni non ancora trasferite, in virtù del fatto che la stessa normativa

transitoria esclude espressamente che le funzioni statali esercitate sui beni di cui al d. lgs.

n. 85/2010 possano essere esercitate dalla Regione prima dell’emanazione dei previsti

decreti del Presidente del Consiglio dei ministri49. Infondata è anche l’interpretazione

addotta dal Governo a sostegno dell’impugnazione dell’art. 11 l. reg. Liguria, in quanto la

disposizione chiaramente puntualizza che gli stessi entrano a far parte di quel regime solo

se appartenenti alla Regione per acquisizione a qualsiasi titolo. Di conseguenza, prosegue

la Corte, è evidente che non potranno considerarsi appartenenti al demanio regionale quei

beni che, a norma del richiamato art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 85/2010, sono esclusi dal

trasferimento alle Regioni50.

4. Considerazioni conclusive

Da quanto detto, emerge chiaramente che la Corte costituzionale non considera

applicabile il d.lgs. n. 85/2010, ma lo subordina all’adozione dei decreti attuativi. Una

46 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 4 del Ritenuto in fatto. 47 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 1 del Ritenuto in fatto, e n. 1 del Considerato in diritto.48 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 2 del Ritenuto in fatto. 49 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 7.1 del Considerato in diritto. 50 Cfr. C. Cost., sent. n. 22/2013, n. 7.2 del Considerato in diritto.

interpretazione minimalista sembra emergere anche dall’analisi della giurisprudenza

amministrativa: pur se il d.lgs. n. 85/2010 è stato invocato da qualche T.A.R. per

argomentare alcune decisioni51, prevale una interpretazione restrittiva a livello di Consiglio

di Stato52. Peraltro, l’impossibilità per il d.lgs. n. 85/2010 di essere operativo prescindendo

da ulteriori decreti di attuazione era stata prontamente colta da quella parte della dottrina

che ne aveva rilevato l’inopportunità53.

La Corte si è, perciò, mossa in controtendenza rispetto ai processi di disgregazione del

demanio statale, processi tanto evidenti da fare parlare alcuni studiosi addirittura di una

parabola declinante di esso54. Si riscontra, infatti, un’evidente continuità tra la

giurisprudenza costituzionale successiva al d.lgs. n. 85/2010 e quella precedente, con la

quale la Corte aveva ripetutamente sostenuto che l’assetto della proprietà pubblica

rimaneva inalterato fino alla completa attuazione del nuovo testo dell’art. 119 Cost.,

escludendo il trasferimento automatico dei beni sulla scorta della competenza legislativa in

una determinata materia55. In particolare, nella sentenza n. 427/2004, la Corte,

richiamando la precedente sentenza n. 98/1997, aveva sottolineato che il nuovo art. 119

Cost. non dettasse alcuna regola in ordine all’individuazione dei beni oggetto della

attribuzione, con la logica conseguenza che, fino alla approvazione della legge di

attuazione dell’ultimo comma di esso, i beni rimanevano nella piena proprietà e

disponibilità dello Stato56.

Questo non vuol dire, però, che la giurisprudenza della Corte sul nuovo art. 119 Cost.

abbia in qualche modo voluto riproporre la vecchia e consunta tesi della distinzione tra

norme precettive e norme programmatiche57 – tesi che la dottrina aveva duramente

contestato, e che la stessa Corte ha sconfessato sin dalla sua prima sentenza58 –, anche

51 Cfr., ad esempio, T.A.R. Lazio, sez. II ter, 4 aprile 2013, n. 3424; T.A.R. Liguria, sez. II, 31 ottobre 2012, n. 1348;T.A.R. Liguria, sez. II, 15 giugno 2011, n. 938.52 Cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 19 gennaio 2012, n. 199; Cons. Stato, sez. III, 08 settembre 2011, n. 5063.53 Cfr. nuovamente E. BUGLIONE, Attuazione della l. 42/2009, Atto Primo, cit., p. 705.54 Sul declino del demanio si sofferma M. ESPOSITO, I beni pubblici, in AA.VV., Trattato di diritto privato diretto daMario Bessone, Volume VII: Beni proprietà e diritti reali, Tomo I.2, Torino 2008, pp. 13 ss.; ID., L’uso generaletrasformato in concessione a pagamento: la parabola declinante del demanio e dei suoi presupposti costituzionali, inGiurisprudenza costituzionale 2011, n. 4, pp. 2761 ss.55 Cfr., in questo senso, E. CASTORINA, G. CHIARA, Beni pubblici, cit., pp. 265-266, i quali citano a suffragio dellapropria tesi C. Cost., sent. nn. 250/2003; 26, 179, 286 e 427 del 2004; 177 e 209 del 2005. Si veda anche R. BIN, G.FALCON, Diritto regionale, cit., p. 295.56 C. Cost., sent. n. 427/2004, n. 2.1 del Considerato in diritto.57 Su questa distinzione, si veda S. BARTOLE, La Costituzione è di tutti, Bologna 2012, pp. 41 ss.; ID., Interpretazioni etrasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004, pp. 41 ss.; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano,Bologna 1996, pp. 134 ss.58 Si veda S. BARTOLE, La Costituzione è di tutti, cit., pp. 50 ss.; ID., Interpretazioni e trasformazioni della Costituzionerepubblicana, cit., pp. 121 ss.; G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, Bologna 2008, pp. 211-212; L. PALADIN,Le fonti del diritto italiano, cit., pp. 135-136. Fortemente critico nei confronti della distinzione tra norme precettive enorme programmatiche era V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952, spec. pp. 10ss., 18 ss., 30 ss., 51 ss., 89 ss., 99 ss., 146 ss., 165 ss.

se un ritorno in auge di essa è forse riscontrabile nell’ambito della giurisprudenza a

proposito dei contenuti eventuali degli Statuti regionali59. Molto più semplicemente, per

quanto riguarda la giurisprudenza anteriore al d.lgs. n. 85/2010, la Corte, in

considerazione del fatto che i testi costituzionali sono caratterizzati essenzialmente da

principi60, e non da regole61 (le quali trovano, invece, espressione perlopiù nella

legislazione)62, ha ritenuto che la concretizzazione dei principi contenuti nel nuovo testo

dell’art. 119 Cost. dovesse avvenire ad opera del legislatore, e non ad opera del giudice63.

Vi sono, infatti, dei limiti all’uso giudiziario dei principi costituzionali, nel senso che spetta

59 Cfr. C. Cost., sent. nn. 2, 372, 378 e 379 del 2004. Una considerazione non negativa di questa giurisprudenza è in G.D’ALESSANDRO, I nuovi statuti delle Regioni ordinarie, Padova 2008, pp. 249 ss., secondo il quale essa non si discostaun granché da quella precedente alla revisione costituzionale del 1999. Critico nei confronti di questa giurisprudenza è,invece, G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., p. 224. Ugualmente critico, seppur da un diverso punto divista, è anche M. BENVENUTI, Brevi note in tema di (in)efficacia normativa dei c.d. contenuti eventuali degli statutiregionali, in Giurisprudenza costituzionale 2004, n. 6, pp. 4145 ss., secondo il quale (p. 4155) appare controverso econtrovertibile che l’organo di giustizia costituzionale possa interloquire sull’efficacia di un enunciato contenuto in unatto espressione di un diverso potere costituzionale (nel caso di specie, il Consiglio regionale). Una attenuazione dellavis polemica sembra esservi in ID., Le enunciazioni statutarie di principio nella prospettiva attuale, in R. BIFULCO (acura di), Gli statuti di seconda generazione. Le Regioni alla prova della nuova autonomia, Torino 2006, pp. 21 ss.,spec. pp. 55 ss., ove rileva che le indicazioni della Corte paiono puntuali, nel loro impianto schiettamene monitorio, arimettere in discussione la equiparazione tra Statuto regionale e Costituzione. Si vedano, inoltre, A. D’ATENA, Dirittoregionale, cit., pp. 104 ss.; R. CALVANO, I nuovi Statuti e le norme programmatiche nel nostro ordinamento: ci sonotroppi principi fondamentali?, in F. MODUGNO, P. CARNEVALE, Trasformazioni della funzione legislativa, IV, cit., pp.47 ss.; S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale, cit., pp. 68-69.60 Sull’importanza assunta dai principi nell’ambito delle Costituzioni del secondo dopoguerra si veda E. FORSTHOFF, LoStato della società industriale, tr. it. a cura di A. Mangia, Milano 2011, pag. 150-151, che sottolinea proprio su questopunto la profonda diversità con le Costituzioni ottocentesche. Sulle peculiarità dei principi, inoltre, si vedano V.CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., pp. 14 ss., 27 ss., 127 ss., 151 ss.; ID., Lezioni didiritto costituzionale, II, cit., pp. 35-36; E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale edogmatica), II ed., Milano 1971, pp. 310 ss.; ID., Diritto, Metodo, Ermeneutica. Scritti scelti, a cura di G. Crifò, Milano1991, pp. 545 ss.; R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale,Milano 1992, spec. pp. 9 ss.; L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano 1996, pp. 115 ss., spec.pp. 126 ss.; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., pp. 109 ss., 143 ss.; R. ALEXY, Concetto e validità del diritto,tr. it. a cura di F. Fiore, Torino 1997, pp. 71 ss.; ID., Teoria dell’argomentazione giuridica, tr. it. a cura di M. La Torre,Milano 1998, pp. 192-193, 205-206, 339; ID., Teoria dei diritti fondamentali, tr. it. a cura di L. Di Carlo, Bologna 2012,pp. 101 ss.; A. GIULIANI, Le disposizioni sulla legge in generale: gli articoli da 1 a 15, in AA.VV., Trattato di dirittoprivato diretto da P. Rescigno, 1. Premesse e Disposizioni Preliminari, II ed., Torino 1999, pp. 377 ss., spec. pp. 432ss.; F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Ristampa, Roma-Bari 2001, pp. 366 ss.; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, II ed., Torino 2002, pp. 13 ss., 147 ss.;ID., La legge e la sua giustizia, cit., pp. 210 ss.; ID., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune,Torino 2009, pp. 85 ss., 102 ss.; G. BONGIOVANNI, Costituzionalismo e teoria del diritto. Sistemi normativicontemporanei e modelli della razionalità giuridica, Roma-Bari 2005, pp. 27 ss.; M. BARBERIS, Filosofia del diritto.Un’introduzione teorica, II ed., Torino 2005, pp. 144 ss.; A. LONGO, I valori costituzionali come categoria dogmatica.Problemi e ipotesi, Napoli 2007, spec. pag. 136 ss., 361 ss.; F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale,Napoli 2008, spec. pp. 31 ss., 207 ss., 227 ss., 276; A.A. CERVATI, Per uno studio comparativo del dirittocostituzionale, Torino 2009, pp. 36 ss., 81 ss., 92 ss., 99 ss., 121 ss., 183 ss., 218 ss.; R. DWORKIN, I diritti presi sulserio, tr. it. a cura di N. Muffato, II ed., Bologna 2010, spec. pp. 48 ss., 116 ss.; G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ,Giustizia costituzionale, cit., pp. 222 ss.61 Tende a ridimensionare la distinzione tra principi e regole A. PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, inQuaderni costituzionali 2001, n. 1, pp. 35 ss., spec. pp. 42-43, secondo il quale le Costituzioni rigide, soprattutto se«unidocumentali», sono composte, per la maggior parte, da «regole», e non da «disposizioni di principio».62 Così nuovamente G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., p. 227. 63 Sui diversi modi di concretizzazione dei principi, si vedano G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, cit., pp. 218ss.; G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, cit., pp. 227 ss.

solo al legislatore, e non alla Corte, la scelta tra regole diverse, pur tutte conformi al

principio stesso64.

Per quanto riguarda, invece, la giurisprudenza sul d.lgs. n. 85/2010, la Corte non si è

limitata a rinviare alla legislazione, ma ha esercitato anche una funzione «correttiva» di

essa65, in virtù di quella che è stata chiamata la sua funzione di «supplenza»66. Questo

potere – del quale costituisce una manifestazione la grande varietà di tipi di sentenze e di

motivazioni elaborate nel corso degli anni67 – emerge quando la Corte si trova a integrare

discipline costituzionali e legislative di per sé incompiute e gravemente lacunose o

suscettibili di presentare contrarietà o contraddizioni non facilmente superabili o sanabili68,

e sembra difficile sostenere che il d.lgs. n. 85/2010 non rientri in uno di questi casi:

trovandosi di fronte ad un testo legislativo che, in virtù dello stretto legame esistente tra

Costituzione e legislazione69, avrebbe avuto profonde implicazioni sull’intero sistema

costituzionale della proprietà pubblica70, la Corte ha preferito impedirne gli effetti

irragionevoli attraverso una sorta di «mascheramento formalistico» (la mancanza dei

decreti attuativi)71.

D’altra parte, l’inattuazione non riguarda soltanto la materia del patrimonio delle Regioni,

ma quasi ogni aspetto dell’art. 119 Cost., nonostante l’approvazione della l. n. 42/2009 e

64 Sui limiti all’uso giudiziario dei principi costituzionali, si vedano G. ZAGREBELSKY, V. MARCENÒ, Giustiziacostituzionale, cit., pp. 230-231. Si veda anche M. LUCIANI, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicendaitaliana (e non solo), in Rivista AIC 2012, n. 3 (3-7-2012), pp. 10-11, ove distingue tra attuazione (attività spettante allegislatore) e applicazione della Costituzione (attività spettante alla giurisdizione). In senso simile, si veda anche G.SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in AA.VV., Scritti sulla giustizia costituzionale in onoredi Vezio Crisafulli, I, Padova 1985, pp. 755 ss., spec. pp. 786 ss., ove critica l’intervento della Corte «nel processoattuativo della Costituzione mediante la produzione di norme giuridiche con atti aventi la stessa efficacia delle leggiordinarie, ma che non rientrano né tra le leggi formali né tra gli atti aventi forza di legge previsti alla Costituzione», inquanto «l’anomalia non sta nell’incidenza sull’indirizzo politico generale delle sentenze della Corte, quanto nel fattoche si attribuisce ad un organo politicamente irresponsabile un potere di dettare norme con efficacia erga omnesaventi la stessa forza degli atti legislativi».65 Sulla funzione «correttiva» della legislazione ad opera della giurisprudenza, si vedano A. GIULIANI, Presentazione, inC. PERELMAN, Logica giuridica, nuova retorica, tr. it. a cura di G. Crifò, Milano 1979, pp. V ss.; ID., Le disposizionisulla legge in generale, cit., pp. 423 ss.; F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., pp. 115 ss.66 Sulla funzione di supplenza della Corte costituzionale, si veda soprattutto F. MODUGNO, La funzione legislativacomplementare della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale 1981, parte I, pag. 1646 ss.; ID., La Cortecostituzionale italiana oggi, in AA.VV., Scritti in onore di Vezio Crisafulli, I, Padova 1985, pag. 527 ss., spec. pp. 566ss.; ID., Ancora sui controversi rapporti tra Corte costituzionale e potere legislativo, in Giurisprudenza costituzionale1988, parte II, pp. 16 ss.; ID., Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., pp. 107 ss.67 Sulla grande varietà di strumenti elaborati dalla Corte italiana si soffermano A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti digiustizia costituzionale, cit., pp. 188-189; E. LAMARQUE, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, cit.,pp. 59 ss., 66 ss.; L. PEGORARO, Giustizia costituzionale comparata, Torino 2007, pp. 145-146; G. BONGIOVANNI,Costituzionalismo e teoria del diritto, cit., pp. 40 ss.; A.A. CERVATI, Tipi di sentenze e tipi di motivazioni nel giudizioincidentale di costituzionalità delle leggi, in AA.VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, cit.,pp. 125 ss.68 Così nuovamente F. MODUGNO, Scritti sull’interpretazione costituzionale, cit., p. 194.69 Sul legame tra Costituzione e legislazione insiste L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., pp. 140 ss.70 Sul rapporto tra Costituzione e demanio insiste in particolare M. ESPOSITO, I beni pubblici, cit., pp. 67 ss.71 Sui mascheramenti formalistici della Corte in materia di ragionevolezza delle leggi, si sofferma G. ZAGREBELSKY, Lalegge e la sua giustizia, cit., pp. 228 ss.

dei relativi decreti delegati. Nella sentenza n. 273/2013 in materia di trasporto pubblico, la

Corte ha esplicitamente affermato che, nella perdurante inattuazione della l. n. 42/2009,

l’intervento statale sia ammissibile nei casi in cui risponda all’esigenza assicurare un livello

uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa72: siffatti interventi si

configurerebbero, secondo la Corte, come portato temporaneo della perdurante

inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali, indotte anche dalla attuale

grave crisi economica nazionale e internazionale73.

Certamente, quella della Corte è una interpretazione centralista, ma la centralizzazione

non è altro che la logica conseguenza della crisi economica, le cui ripercussioni sulla

architettura istituzionale sono così evidenti da fare parlare addirittura di una vera e propria

crisi del regionalismo74, se non, addirittura, della stessa idea di federalismo75. La crisi

economica legittima, infatti, una lettura della ripartizione verticale del potere in chiave

centripeta, talvolta anche in deroga esplicita al riparto di competenze tra i diversi livelli

territoriali previsto dalla stessa Costituzione76, e, in questo contesto, i custodi dei nuovi

equilibri tra centro e periferia sono proprio le giurisdizioni costituzionali77. Le analisi72 Su questa sentenza, si vedano M. BENVENUTI, Brevi annotazioni critiche intorno a una recente pronuncia della Cortecostituzionale in tema di fondi a destinazione vincolata, stabiliti con legge statale in materia di trasporto pubblicolocale, anche ferroviario, e di F. SAITTO, La Corte conferma la “regola dell’eccezione” in materia di fondi vincolatitra inattuazione dell’art. 119 e “imperiose necessità sociali”, in Giurisprudenza costituzionale 2013, n. 6, pp. 4391 ss.73 C. Cost., sent. n. 273/2013, n. 4.3 del Considerato in diritto, ove, a loro volta, vengono citate C. Cost., sent. nn.121/2010 e 232/2011.74 Cfr., in proposito, F. COVINO, Le autonomie territoriali, in F. ANGELINI, M. BENVENUTI, Il diritto costituzionale allaprova della crisi economica, cit., pp. 333 ss.75 Sull’eliminazione del federalismo fiscale dall’agenda politica nazionale come logica conseguenza del rilancio di unapolitica di risanamento dei conti pubblici insistono S. MISIANI, Federalismo, ultimo atto? Una nota per riaprire ildibattito, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 2012, n. 1-2, pp. 281 ss.; A. ZANARDI, E. LONGOBARDI, Sul federalismofiscale, ne Il Mulino 2012, n. 4. pp. 712 ss.76 Di diverso avviso sembra, invece, M. BENVENUTI, La Corte costituzionale, cit., p. 399, secondo il quale nelle primesentenze della Corte Costituzionale sulla crisi (C. Cost., sent. nn. 10, 16, 128, 182 del 2010) tale argomento sarebbe unmero argomento di fatto, volto non già a derogare alla lettera della Costituzione, quanto piuttosto a sfumare il passaggioda una operazione interpretativa a un’altra, ma tutte costituzionalmente lecite. Sulla forte centralizzazione operata dallalegislazione anticrisi, si soffermano S. MANGIAMELI, Crisi economica e distribuzione territoriale del potere politico,cit., pp. 26 ss.; ID., La nuova parabola del regionalismo italiano, cit., pp. 729 ss.; F. MINNI, Cosa resterà di questofederalismo fiscale, cit., pp. 75-76, 80 ss.77 Basti pensare che in pochi casi la Corte ha optato per una dichiarazione di incostituzionalità di discipline legislativestatali profondamente invasive di competenze regionali (l’art. 43 d.l. n. 78/2010, con la sentenza n. 232/2011; l’art. 11,comma 6-bis, del d.l. n. 78/2010, con la sentenza n. 330/2011; l’art. 20, commi 4 e 5, del d.l. n. 98/2011, con la sentenzan. 193/2012; l’art. 69, comma 3-bis, del d.l. n. 134/2012, con la sentenza n. 263/2013; l’art. 1, commi 7, 10, 11, 12 e 16d.l. n. 174/2012, con la sentenza n. 39/2014; l’art. 16, commi 5, 7, e 10, d.l. n. 138/2011, con la sentenza n. 44/2014;l’art. 16, comma 2, d.l. n. 95/2012, con la sentenza n. 79/2014; ecc.), preferendo nella maggioranza dei casi ladichiarazione di infondatezza (cfr., ex multis, C. Cost., sent. nn. 62 e 273 del 2013). Né si potrebbe invocare a contrariola sent. n. 199/2012, poiché la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 d.l. n. 138/2011 non è stata fondatasulla violazione dell’art. 117 Cost., ma dell’art. 75 Cost.! Questa impressione di un sostanziale favor nei riguardi delleistanze del centro a scapito di quelle locali mi sembra rafforzata anche dalla sentenza n. 2/2014, ove la Corte ha negatoesplicitamente che la Regione possa invocare la crisi economica come argomento per derogare al riparto di competenze.Sulla sentenza n. 199/2012, si vedano i commenti di G. FERRI, Abrogazione popolare e vincolo per il legislatore: ildivieto di ripristino vale finché non intervenga un cambiamento del “quadro politico” o delle “circostanze di fatto” , inGiurisprudenza italiana 2013, n. 2, pp. 275 ss. (e in www.giurcost.org); V. CERULLI IRELLI, Servizi pubblici locali: unsettore a disciplina generale di fonte europea, in Giurisprudenza costituzionale 2012, n. 4, pp. 2900 ss.; A. MURATORI,Ordinamento dei Servizi pubblici locali: la Consulta «cassa» le norme elusive delle scelte referendarie, in Ambiente e

empiriche di Wheare hanno mostrato come la crisi economica del 1929 abbia comportato

processi di centralizzazione persino nell’ambito degli Stati federali78: basti pensare, in

particolare, a quel che ha significato negli Stati Uniti la «svolta giurisprudenziale» del 1937

ed il passaggio da un federalismo di tipo competitivo ad uno di tipo cooperativo, attraverso

un’interpretazione estensiva della c.d. «commerce clause»79.

D’altra parte, che la crisi economica possa consentire interventi statali astrattamente

derogatori delle competenze regionali emerge, a maggior ragione, dall’analisi della

sentenza n. 62/2013, dove la Corte non ha esitato a parlare esplicitamente di una

situazione eccezionale di crisi economico-sociale che legittima un ampliamento dei confini

entro i quali lo Stato deve esercitare la propria competenza legislativa 80, con la

precisazione che, una volta cessata la situazione congiunturale, non si possa prescindere

dagli strumenti ordinari di coinvolgimento delle autonomie territoriali81. Tutta la

giurisprudenza più recente sull’art. 119 Cost., anche quando non faccia espresso

riferimento alla crisi economica, può essere letta, quindi, alla luce di questo generale

processo di centralizzazione. Ci si può interrogare se il nostro modello di regionalismo non

sia più in linea con le nuove esigenze finanziarie provenienti dall’Europa82, ma questa è

un’altra questione.

**Dottore di Ricerca in Teoria dello Stato ed Istituzioni Politiche Comparate nell’Università

degli Studi di Roma “La Sapienza” (XV Ciclo) e Assegnista di Ricerca in Diritto Pubblico

sviluppo 2012, n. 11, pp. 935 ss.; G. COCIMANO, L’illegittimità costituzionale dei limiti all’in house nei servizi pubblicilocali, in Urbanistica e appalti 2012, n. 11, pp. 1141 ss.; S. LA PORTA, Il “ripristino” della normativa abrogata conreferendum. Brevi note a margine della travagliata vicenda dei servizi pubblici locali, in Rivista AIC 2012, n. 4 (20-11-2012); A. Lucarelli, La sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 e la questione dell’inapplicabilità del patto distabilità interno alle S.P.A. in house ed alle aziende speciali, in Federalismi.it 2012, n. 18 (26-9-2012); R. DICKMANN,La Corte conferma il divieto di ripristino della legislazione abrogata con referendum (nota a Corte Cost. , 20 luglio2012, n. 199), in Federalismi.it 2012, n. 23 (5-12-2012); M. DELLA MORTE, Abrogazione referendaria e vincoli allegislatore (26-9-2012), in www.forumcostituzionale.it; A. MANGIA, Abrogazione referendaria e leggi di ripristino (3-1-2013), ivi; F. MERLONI, Una sentenza chiara sull’aggiramento del referendum, poco utile per il definitivo assettodella disciplina dei servizi pubblici locali, ivi. Sulla sentenza n. 2/2014, si veda A. CANDIDO, L’emergenza non estendele competenze regionali. Sulla proroga dei contratti di trasporto pubblico locale, in Rivista AIC 2014, n. 3 (11-7-2014).78 Si vedano A. RIDOLFI, La proprietà, cit., p. 175; K.C. WHEARE, Del Governo federale, cit., pp. 193 ss., 375 ss. 79 Si vedano, in proposito, G. BOGNETTI, Federalismo, Torino 2001, pp. 30 ss.; ID., La divisione dei poteri, II ed.,Milano 2001, pp. 55 ss.; ID., Lo spirito del costituzionalismo americano, II. La Costituzione democratica, Torino 2000,pp. 32 ss. e 203 ss.; E. ZOLLER, Droit constitutionnel, II ed., Paris 1999, pp. 381 ss.; K.C. WHEARE, Del governofederale, cit., pp. 250-251.80 C. Cost., sent. n. 62/2013, n. 6.2 del Considerato in diritto. Per una considerazione positiva di questa giurisprudenza,si rinvia al commento di M. BENVENUTI, Brevi considerazioni intorno al ricorso all’argomento della crisi economicanella più recente giurisprudenza costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale 2013, n. 2, pp. 969 ss.81 C. Cost., sent. n. 62/2013, n. 6.2. del Considerato in diritto, la quale, a sua volta, cita C. Cost., sent. n. 10/2010, n. 6.4del Considerato in diritto.82 Così F. MINNI, Cosa resterà di questo federalismo fiscale, cit., p. 82. Sulla necessità di non lasciare il sistema a metàinsistono, tuttavia, A. ZANARDI, E. LONGOBARDI, Sul federalismo fiscale, cit., pp. 715-716.

presso il Dipartimento di Economia e Diritto (Facoltà di Economia) dell’Università degli

Studi di Roma “La Sapienza”.

I diritti delle persone con disabilità ed il ruolo dell’associazionismo*

(nota a TAR Lazio sent. n. 3851/2014)

di Sara Carnovali**

(25 agosto 2014)

1. La sentenza n. 3851/2014 del Tribunale Amministrativo per il Lazio,

Sezione Terza Quater, costituisce un’importante pronuncia in materia di

diritti delle persone con disabilità, nella misura in cui, soffermandosi sulle

c.d. visite di revisione straordinaria e sulle associazioni di categoria,

consente di svolgere alcune riflessioni circa la funzione di queste ultime

nella tutela dei diritti, la cui garanzia rischia talvolta di essere posta in

discussione dai provvedimenti adottati dalle autorità pubbliche. In

particolare, pur non affermandolo espressamente, tale sentenza ha il

pregio di valorizzare il ruolo dell’associazionismo, in conformità con lo

spirito che negli ultimi decenni l’ha visto emergere sempre più come

indispensabile punto di riferimento per le persone con disabilità.

Prima di svolgere qualche osservazione proprio su questo aspetto, è

opportuno sintetizzare il contenuto della sentenza in oggetto.

2. Attraverso la pronuncia in commento, il TAR Lazio si è pronunciato sul

ricorso proposto dall’Associazione Nazionale Famiglie di Persone con

Disabilità Intellettiva e/o Relazionale (A.N.F.F.A.S.) contro l’INPS ed i

Ministeri della Salute e dell’Economia e delle Finanze. La citata

associazione agiva dinanzi al giudice amministrativo per l’annullamento

del messaggio INPS n. 6763/2011 nella parte in cui – relativamente alle

c.d. visite di revisione ordinaria, da effettuarsi in seguito alla scadenza del

primo verbale di invalidità civile – non era prevista la presenza di medici

rappresentanti né dell’associazione A.N.F.F.A.S., né di altre associazioni

*Scritto sottoposto a referee.

1

rappresentative all’interno delle commissioni di verifica della persistenza

dell’invalidità civile; in secondo luogo, si censurava il suddetto messaggio

nella parte in cui tali visite di revisione ordinaria venivano comprese nelle

250.000 visite di revisione straordinaria1, che si sarebbero dovute

effettuare nel corso dell’anno 20112.

La ricorrente impugnava inoltre il successivo messaggio INPS n.

8146/2011, relativo alla sola revisione straordinaria, il quale stabiliva che le

commissioni di verifica straordinaria venissero integrate da un medico

1 Per revisione ordinaria si intende l’accertamento medico che, in seguito al rilascio dellacertificazione che attesta lo stato di invalidità civile, sia diretto ad appurare «la permanenza nelbeneficiario del possesso dei requisiti prescritti per usufruire della pensione, assegno od indennitàprevisti […] e per disporne la revoca in caso di insussistenza di tali requisiti» (così decreto-legge30 maggio 1988, n. 173, articolo 3). Si tratta dunque di un accertamento relativo alla perdurantepersistenza dei requisiti di carattere sanitario e reddituale. Di recente, a tali revisioni ordinarie sisono affiancate quelle straordinarie, la cui ratio consisterebbe nel far fronte al c.d. fenomeno dei“falsi invalidi”. La revisione straordinaria presuppone anch’essa un procedimento di verificafinalizzato ad «accertare, nei confronti di titolari di trattamenti economici di invalidità civile, lapermanenza dei requisiti sanitari necessari per continuare a fruire dei benefici stessi» (così legge 6agosto 2008, n. 133, di conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, articolo 80, comma3) e si aggiunge all’ordinaria attività di accertamento. A tale proposito, acquista particolare rilievol’articolo 20, comma 2 del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78, come modificato da ultimodall’articolo 10, comma 4, del decreto legge n. 78/2010, convertito in legge n. 30 luglio 2010, n.122, laddove prevede che «per il triennio 2010-2012 l’INPS effettua, con le risorse umane efinanziarie previste a legislazione vigente, in via aggiuntiva all’ordinaria attività di accertamentodella permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, un programma di 100.000 verifiche per l’anno2010 e di 250.000 verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012 nei confronti dei titolari dibenefici economici di invalidità civile». Si rinvia inoltre al recentissimo decreto-legge 24 giugno2014, n. 90, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e perl’efficienza degli uffici giudiziari, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114; il comma 8dell’articolo 25 (Semplificazioni per i soggetti con invalidità) modifica la disciplina relativa allarevisione delle visite per i soggetti che siano affetti da patologie o menomazioni stabilizzate oingravescenti. In precedenza, l’articolo 97, comma 2 della legge 23 dicembre 2000, n. 388differenziava i soggetti affetti da tali patologie, escludendo dalle visite di revisione «i soggettiportatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, che abbiano dato luogo alriconoscimento dell’indennità di accompagnamento o di comunicazione». Abrogando il primoperiodo della norma originaria, il d.l. 90 del 2014 elimina tale disparità di trattamento: l’esonerodagli accertamenti di controllo e di revisione riguarderà ora tutte le patologie stabilizzate oingravescenti, individuate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto conil Ministro della salute.

2 «Tutti i titolari di prestazioni economiche di invalidità civile, sordità civile, cecità civile,soggette a scadenza saranno chiamati dall’Istituto a visita diretta, prima della scadenza stessa, peressere sottoposti a verifica straordinaria […]. Nell’anno 2011, saranno coinvolti nelle operazioni diverifica straordinaria i soggetti la cui revisione sanitaria è prevista per l’anno in corso, a partire dalmese di luglio […] Ove possibile, dovranno essere avviati contatti con le Associazioni di categoriadei disabili», così Messaggio INPS n. 6763/2011, Invalidità civile – accertamento sanitario delleprestazioni a scadenza. Nuove modalità gestionali ed operative.

2

rappresentante delle associazioni A.N.M.I.C., U.I.C. ed E.N.S., ma non

dell’associazione A.N.F.F.A.S.3

La ricorrente riteneva che i predetti messaggi INPS, a causa della

mancata consultazione di alcune associazioni di categoria, si ponessero in

contrasto con il c.d. principio di sussidiarietà orizzontale, sancito

dall’ultimo comma dell’articolo 118 della Costituzione. L’associazione

ricorrente lamentava inoltre l’eccesso di potere degli atti impugnati per

difetto di istruttoria, la carenza di motivazione, l’illogicità manifesta e la

contraddittorietà dell’azione posta in essere dalla pubblica

amministrazione.

Infine, veniva impugnato il messaggio INPS n. 6796/2012, anch’esso

relativo alle sole revisioni straordinarie, nuovamente per mancanza della

rappresentanza di A.N.F.F.A.S.4 Oltre all’eccesso di potere per carenza di

motivazione e difetto di istruttoria, si denunciava altresì, a causa della

predetta esclusione, la violazione dell’articolo 2 della Costituzione e

l’esistenza di una disparità di trattamento posta in essere nei confronti

delle persone affette da patologie intellettive e/o relazionali rispetto a

3 «Le Commissioni mediche INPS deputate ad accertare la permanenza dei requisiti sanitari diinvalidità civile, di cecità civile e di sordità civile sono di volta in volta integrate con un medico inrappresentanza, rispettivamente, dell’Associazione nazionale dei mutilati e invalidi civili(A.N.M.I.C.), dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti (U.I.C.) e dell’Ente nazionale perla protezione e l’assistenza dei sordi (E.N.S.)», così il Messaggio INPS n. 8146/2011, Programmidi verifiche della permanenza dei requisiti nei confronti dei titolari di benefici economici diinvalidità civile, di cui all’articolo 20, comma 2, secondo periodo, del decreto legge 1° luglio2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e successivemodifiche. Integrazione delle Commissioni mediche INPS.

4 «L’art. 20, comma 2, del decreto legge n. 78/2009, come modificato da ultimo dall’articolo 10,comma 4, del decreto legge n. 78/2010, convertito in Legge n. 30 luglio 2010, n. 122, disponeche “per il triennio 2010-2012 l’INPS effettua, con le risorse umane e finanziarie previste alegislazione vigente, in via aggiuntiva all’ordinaria attività di accertamento della permanenza deirequisiti sanitari e reddituali, un programma di 100.000 verifiche per l’anno 2010 e di 250.000verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012 nei confronti dei titolari di beneficieconomici di invalidità civile”. L’articolo 20 comma 2, della legge 102/2009 dispone inoltreche: “L’INPS accerta altresì la permanenza dei requisiti sanitari nei confronti dei titolari diinvalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità”. In conformità al dettatonormativo, l’Istituto sta procedendo anche nell’anno in corso all’attuazione di un piano diverifiche», così il Messaggio INPS n. 6796/2012, Programma di verifiche straordinarie daeffettuare nell’anno 2012 nei confronti dei titolari di benefici di invalidità civile, sordità, cecitàcivile ed handicap.

3

coloro che presentano tipologie di tipo differente, con conseguente

violazione anche dell’articolo 3 del testo costituzionale.

L’INPS giustificava tale esclusione richiamandosi all’articolo 10 del

decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni

nella legge 2 dicembre 2005, n. 248, che prevedeva, all’interno delle

commissioni mediche di verifica, la sola presenza di medici rappresentanti

di A.N.M.I.C., U.I.C. ed E.N.S.5

Il giudice amministrativo, tuttavia, ha evidenziato come tale disposizione

non avesse in precedenza impedito all’INPS di prevedere la presenza,

all’interno delle commissioni medico-legali competenti per le visite di

revisione ordinaria, anche di medici designati dall’associazione ricorrente6.

Partendo da tale considerazione, il TAR Lazio si è così pronunciato per

l’illegittimità dell’esclusione dalle commissioni straordinarie dei medici

rappresentanti dell’A.N.F.F.A.S., ravvisando la contraddittorietà

dell’operato dell’INPS e la violazione del principio di ragionevolezza, in

ragione della mancanza di elementi che potessero giustificare la differente

composizione delle commissioni straordinarie rispetto a quelle ordinarie.

Il giudice amministrativo, inoltre, ha dichiarato fondata anche l’altra

censura, relativa alla decisione dell’INPS di estendere alle visite di

revisione ordinaria le modalità previste per quelle di revisione

straordinaria. In considerazione della differente composizione delle

commissioni ordinarie e straordinarie, da tale assimilazione ne sarebbe

5 «Resta ferma la partecipazione nelle commissioni mediche di verifica dei medici nominati inrappresentanza dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili, dell’Unione italiana dei ciechi e

dell’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordomuti», così il Decreto-legge 30 settembre2005, n. 203, Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria efinanziaria, articolo 10, comma 1.

6 La Circolare INPS n. 131/2009, Art. 20 del D.L. n. 78/2009 convertito con modificazioni nellaLegge 102 del 3 agosto 2009 – Nuovo processo dell’Invalidità Civile – Aspetti organizzativi eprime istruzioni operative. Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei conti, al punto 7, lettera Bprevede che «la visita sarà effettuata da una Commissione medica costituita da: un medico INPS,indicato dal Responsabile del CML e diverso dal componente della Commissione medicaintegrata, con funzione di Presidente al quale compete il giudizio definitivo, da un medicorappresentante delle associazioni di categoria (ANMIC, ENS, UIC, ANFASS) e dall’operatoresociale nei casi previsti dalla legge».

4

infatti scaturita l’esclusione dei medici designati dall’A.N.F.F.A.S. da

qualsiasi visita di revisione. Come affermato dalla ricorrente, tale

provvedimento dell’INPS integrava una violazione del principio di non

discriminazione, vista la conseguente minor tutela nei confronti delle

persone affette da disabilità intellettive e/o relazionali.

3. Prima di entrare nel vivo delle questioni affrontate dal giudice

amministrativo, è opportuno spendere qualche parola sulle c.d. procedure

di revisione straordinaria.

Come già accennato, l’introduzione delle visite di revisione straordinaria e

l’assimilazione ad esse di quelle di revisione ordinaria troverebbero la

propria ratio nel fenomeno dei c.d. “falsi invalidi”, tema che – almeno in

una certa prospettiva – si lega a quello della limitatezza delle risorse

economiche e dell’onerosità dei diritti sociali.

In un momento, come quello presente, in cui ci si domanda come sia

possibile garantire l’efficace attuazione dei diritti sociali sanciti dalla

Costituzione, considerate le gravi difficoltà economico-finanziarie a cui lo

Stato deve far fronte7, il rischio da più parti evidenziato è che la cd. crisi del Welfare State

trascini con sé anche la garanzia dei diritti sociali8. Invocando il “principio del

pareggio di bilancio”, infatti, negli ultimi anni il legislatore ha posto

7 Così G. FONTANA, Crisi economica ed effettività dei diritti sociali in Europa, inForumcostituzionale.it, Forum di Quaderni Costituzionali, pp. 1, 6-7, G. RAZZANO, Lo “statuto”costituzionale dei diritti sociali, in Convegno annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa I dirittisociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, Trapani 8-9 giugno 2012,Gruppodipisa.it, pp. 1-4, A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo“modello sociale europeo”: più sobrio, più solidale, più sostenibile), inAssociazionedeicostituzionalisti.it, Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2011,pp. 1, 9-10, C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, Relazione al XVIII Convegnoannuale dell’AIC, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti cit., p. 1.

8 Cfr. ad esempio L. VIOLINI – B. VIMERCATI, Lavoro e disabilità: un binomio possibile anche inun momento di crisi, in Università e persone con disabilità, in M. D’AMICO – G. ARCONZO (acura di), Università e persone con disabilità. Percorsi di ricerca applicati a vent’anni dalla leggen. 104 del 1992, Franco Angeli, Milano, 2013, pp. 122-123, G. MERLO, Il tempo della crisieconomica e le conseguenze sulla vita della disabilità, in M. D’AMICO – G. ARCONZO (a cura di),Università e persone con disabilità cit., p. 142 e A. ROVAGNATI, Sulla natura dei diritti sociali, ,Torino, 2009, pp. 101-103.

5

in essere una serie di interventi di ridimensionamento

nell’erogazione delle prestazioni concernenti i diritti sociali, a

fronte di una corrispondente riduzione degli investimenti pubblici.

È in tale contesto che si inserisce la normativa concernente le

visite di revisione straordinaria, volte a “scoprire” i c.d. “falsi

invalidi”.Al fine di combattere le spese ingiustificate, dal 2009 al 2013 sono state

effettuate dall’INPS 854.192 verifiche straordinarie e sono state sottoposte

a revoca 67.225 provvidenze, per mancata conferma dei requisiti sanitari

o per assenza alla visita di accertamento. In altre parole, la revoca delle

provvidenze ha interessato il 7,9% delle verifiche effettuate. In tale

percentuale, peraltro, sono comprese – a partire dal 2011, anno in cui

l’INPS ha previsto l’inclusione delle visite di revisione ordinaria nel Piano

straordinario di verifica – anche le visite effettuate su persone per le quali

era già stata prevista una revisione (in via ordinaria) dell’invalidità. Come

hanno sottolineato molte associazioni per i diritti delle persone con

disabilità, la percentuale del 7,9 è dunque al lordo di quanto si sarebbe in

ogni caso realizzato in via ordinaria.Attraverso l’effettuazione delle visite di revisione straordinaria, l’INPS

stima di aver ricavato in totale 352,7 milioni di euro. Anche tale cifra è al

lordo, in quanto l’INPS si è avvalso dell’ausilio di medici anche esterni, per

una la spesa dichiarata di 101,2 milioni di euro dal 2009 al 2012. Il

risparmio effettivo, pertanto, rappresenterebbe solo l’1,51% della spesa

annua per le provvidenze agli invalidi civili, ovverosia poco più di 15

miliardi, secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti. Da tale cifra,

oltretutto, andrebbero detratte le spese per il personale interno e per il

contenzioso, generato da coloro che ricorrono in giudizio a seguito della

revoca delle provvigioni in precedenza accordate.A fronte di tali considerazioni, è presumibile che l’effettivo risparmio

ammonti appena a 111,4 milioni. Questa cifra corrisponde allo 0,67% della

spesa annuale per pensioni e indennità, la quale nel nostro Paese è pari

6

solamente all’1,1% del PIL, percentuale che ci colloca al ventiquattresimo

posto in Europa.9

A parte il modesto risparmio di risorse che determinano, tali norme

rischiano però di discriminare chi persona con disabilità lo è

davvero. Il pericolo è infatti quello di sottoporre a forti disagi

persone affette da disabilità dalle quali è conclamato non si possa

guarire. A differenza delle visite di revisione ordinaria, infatti, nel

caso di revisioni straordinarie non troverebbe applicazione

l’articolo 97, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, che

esonera da successivi accertamenti i soggetti portatori di

menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti10.In considerazione di ciò, le associazioni rappresentative lamentano da

tempo la situazione di grave stress psicologico al quale sono spesso

sottoposti i propri associati, convocati a visita senza tenere in considerazione

le specifiche condizioni di salute, talvolta anche molto gravi, nonché la pesante

dilatazione dei tempi necessari per ottenere il riconoscimento delle prestazioni

dovute.

4. Ciò premesso, dalla lettura della sentenza emerge chiaramente

l’importanza delle organizzazioni associative per la tutela e il godimento

9 Dati ricavati da CORTE DEI CONTI, Relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestionefinanziaria dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) per l’esercizio 2011, approvatacon Determinazione n. 91/2012, GUARDIA DI FINANZA, Rapporto Annuale 2012 GDF, ISTAT,Istituto Nazionale di Statistica, Rapporto Annuale 2014, Istat.it, CITTADINANZATTIVA, I Rapportonazionale sulla invalidità civile e la burocrazia, Cittadinanzattiva.it e FISH ONLUS, FederazioneItaliana per il Superamento dell’Handicap, Fishonlus.it.

10 «I soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, inclusi i soggettiaffetti da sindrome da talidomide, che abbiano dato luogo al riconoscimento dell’indennità diaccompagnamento o di comunicazione sono esonerati da ogni visita medica finalizzataall’accertamento della permanenza della minorazione civile o dell’handicap. Con decreto delMinistro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute, sono individuate,senza ulteriori oneri per lo Stato, le patologie e le menomazioni rispetto alle quali sono esclusi gliaccertamenti di controllo e di revisione ed è indicata la documentazione sanitaria, da richiedereagli interessati o alle commissioni mediche delle aziende sanitarie locali qualora non acquisita agliatti, idonea a comprovare la minorazione», così la Legge 23 dicembre 2000, n. 388, Disposizioniper la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001), articolo97, comma 2. Come già visto, il primo periodo della norma è stato abrogato dall’articolo 25 deldecreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114.

7

dei diritti da parte delle persone con disabilità. In particolare, il ruolo delle

associazioni si manifesta in tutta la sua portata nella misura in cui esse si

fanno portavoce degli interessi di specifiche categorie di persone, le quali,

a causa di determinate circostanze, sono poste in una condizione di

maggiore “debolezza” rispetto ad altre per quanto concerne i rapporti con i

pubblici poteri.

L’importanza delle associazioni consiste soprattutto nel fatto di essere in

grado di arrivare laddove il singolo da solo non riesce, in quanto – per le

più disparate ragioni, economiche, sociali, culturali – privo degli strumenti

capaci di far valere efficacemente i propri diritti. Ecco la ragione,

chiaramente affermata dal TAR nella sentenza in commento,

dell’importanza di non escludere i medici rappresentanti di certe

associazioni di categoria dalle commissioni medico-legali di verifica. In

effetti, analogo principio si rinviene nell’articolo 4 della legge 1 marzo

2006, n. 67, che attribuisce alle associazioni rappresentative la

legittimazione ad agire in giudizio, da una parte, in nome e per conto del

soggetto passivo della discriminazione, dall’altra, qualora gli atti

discriminatori fondati sulla presenza di una disabilità assumano carattere

collettivo11.

Le associazioni legate al mondo della disabilità si collocano al di fuori dei

tradizionali schieramenti partitici e associativi, ma tuttavia formano oggi un

vero e proprio soggetto socio-politico, capace di dialogare col mondo delle

istituzioni, rivendicando i diritti di partecipazione e di integrazione sociale

sanciti dalla Costituzione e dalle diverse leggi in materia di disabilità.

11 «Sono altresì legittimati ad agire […] in nome e per conto del soggetto passivo delladiscriminazione, le associazioni e gli enti individuati con decreto del Ministro per le pariopportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalitàstatutaria e della stabilità dell'organizzazione […]. Le associazioni e gli enti di cui al comma 1sono altresì legittimati ad agire, in relazione ai comportamenti discriminatori di cui ai commi 2 e 3

dell’articolo 2, quando questi assumano carattere collettivo», così Legge 1 marzo 2006,n. 67, Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilitàvittime di discriminazioni, articolo 4.

8

L’associazionismo in Italia è elaborato e composito, esistendo gruppi di

ispirazione sia laica che religiosa, gruppi appartenenti al mondo della

sinistra e associazioni legate ai diritti di specifici individui.

Il movimento associativo si è sviluppato notevolmente nel corso degli

ultimi decenni, ma presenta in realtà una lunga storia, che nasce spesso

dalla presa di coscienza della propria condizione da parte delle persone

con disabilità e dalla necessità di rivendicare i propri diritti ad opera di

queste ultime e dei loro familiari. La nascita del movimento

associazionistico è datata infatti agli inizi del Novecento, in relazione alle

conseguenze del primo conflitto mondiale, e si caratterizza per una cultura

“di categoria”, cioè per la creazione di associazioni che rivendicano i diritti

spettanti solo a specifiche categorie di persone con disabilità12. Tuttavia è

nel secondo dopoguerra che il movimento associativo per i diritti delle

persone con disabilità si sviluppa molto più diffusamente13.

Si presenta la forte esigenza di riconoscere e tutelare disabilità nuove,

tipiche dell’età moderna e causate né da guerre né da infortuni sul lavoro.

Le associazioni legate al mondo della disabilità rivendicano servizi e cure

ad hoc e cominciano ad organizzare le c.d. “marce del dolore”, capaci di

dare visibilità alle proprie esigenze e di influenzare talvolta le decisioni

istituzionali.

Negli anni Cinquanta e Sessanta si sviluppano in Inghilterra e negli Stati

Uniti, all’interno di gruppi tradizionalmente soggetti a discriminazioni

(donne, minoranze etniche, omosessuali), movimenti che rivendicano i

diritti delle persone con disabilità. Vengono fondati centri di assistenza e

12 Nel primo Novecento nascono l’Associazione mutilati di guerra (1917), l’Unione italiana ciechi(UIC, 1920), la Federazione italiana delle associazioni fra i sordomuti (FIAS, 1922), l’Unionesordomuti italiani (1932) e l’Associazione nazionale fra i lavoratori mutilati e invalidi del lavoro(ANMIL, 1933).

13 Dopo la seconda guerra mondiale nascono l’Unione nazionale mutilati per servizio (1945),l’Associazione italiana assistenza spastici (AIAS, 1954), l’Associazione nazionale mutilati einvalidi civili (ANMIC, 1956), l’Associazione nazionale invalidi per esiti di poliomelite (ANIEP,1957) e l’Associazione nazionale famiglie di fanciulli minorati psichici (1958, dal 1960 ANFAS).Nei primi anni Sessanta sono fondate l’Associazione nazionale invalidi civili (ANICI, 1960) el’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (UILDM, 1961), che rivendicano e riescono adottenere nel 1962 la prima legge sul collocamento obbligatorio delle persone con disabilità.

9

consulenza14 e nascono i c.d “disability studies” e il “modello sociale della

disabilità”15.

I sostenitori del modello sociale affermano che l’ostacolo maggiore

all’emancipazione delle persone con disabilità sia costituito da un

approccio sbagliato al tema da parte di molti studiosi, politici e in generale

della collettività. Viene criticato in particolare il “modello medico della

disabilità”, teorizzato nel 1965 dal sociologo Talcott Parsons, il quale

identifica la disabilità con la malattia e sostiene che essa sia una devianza

che perturba l’ordine sociale, ponendo dunque l’accento esclusivamente

sulla menomazione.16 I sostenitori del modello sociale affermano invece

che la disabilità non sia tanto un dato biologico, quanto invece una

condizione sociale: è la società, negando il riconoscimento dei diritti e

ponendo la persona in un contesto di esclusione ed emarginazione, a

creare disabilità.17 Da questo momento le rivendicazioni delle associazioni

14 Nel 1972 Ed Roberts fonda in California il primo “Centro per la vita indipendente”, modelloper quello che verrà fondato nel 1984 in Svezia e per la nascita, nel 1989, della “Rete europea perla vita indipendente”.

15 Il “modello sociale della disabilità” viene concettualizzato nel 1960 da Paul Hunt e sviluppatoulteriormente nel 1976, anno in cui la Union of the Physically Impaired Against Segregation(UPIAS) elabora i “Principi fondamentali in materia di disabilità”.

16 Secondo T. Parsons il malato può essere accettato dalla società solo se si conforma al suo ruolodi persona malata: lui per primo deve accettare la sua condizione ed effettuare tutte le cureriabilitative se si tratta di un malato guaribile, altrimenti andrà esonerato dai suoi obblighi sociali.M. SCHIANCHI in Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Caroccieditore, Roma, 2012, p. 15. Cfr. anche A. MARRA, Diritto e disability studies. Materiali per unanuova ricerca multidisciplinare, Falzea, Reggio Calabria, 2009.

17 «It is necessary to grasp the distinction between the physical impairment and the socialsituation, called “disability”, of people with such impairment. Thus we define impairment aslacking part of or all of a limb, or having a defective limb, organ or mechanism of the body; anddisability as the disadvantage or restriction of activity caused by a contemporary socialorganisation which takes no or little account of people who have physical impairments and thusexcludes them from participation in the mainstream of social activities. Physical disability istherefore a particular form of social oppression. […] It is the same society which disables peoplewhatever their type, or degree of physical impairment, and therefore there is a single cause withinthe organisation of society that is responsible for the creation of the disability of physicallyimpaired people. Understanding the cause of disability will enable us to understand the situation ofthose less affected, as well as helping us to prevent getting lost in the details of the degrees ofoppression at the expense of focusing on the essence of the problem», così UPIAS, FundamentalPrinciples of Disability, 1976, pp. 14-15.

10

per i diritti delle persone con disabilità non parleranno più tanto di deficit,

ma insisteranno sui concetti di integrazione e partecipazione sociale.

I movimenti angloamericani legati al mondo della disabilità influenzano,

nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, anche

l’associazionismo italiano18.

Negli anni Ottanta si fa acceso il dibattito sulla natura dello Stato sociale in

Italia, secondo molti basato ancora su un sistema di tipo risarcitorio ed

assistenzialistico, anziché volto all’integrazione effettiva della persona con

disabilità all’interno del tessuto sociale. Si sviluppa sempre di più il

fenomeno del volontariato e cresce l’esigenza di una minore

frammentazione tra le associazioni, che cominciano ad aggregarsi e a fare

fronte comune su alcune questioni di interesse generale19.

Nel corso degli anni Novanta, l’associazionismo italiano si è per lo più

confrontato con il permanere di carenze all’interno del sistema di welfare,

in cui si assiste ad una mancata o insufficiente erogazione di servizi per

molte tipologie di disabilità e all’emergere della più volte citata questione

dei “falsi invalidi”, connessa probabilmente al permanere di meccanismi

basati sull’erogazione di denaro. In questi anni nascono associazioni che

dialogano con l’Europa e le istituzioni20 e numerosi gruppi a livello locale,

in connessione allo sviluppo del volontariato e alla necessità di un

maggiore radicamento sul territorio21.

18 Nascono in questo periodo l’Associazione italiana sclerosi multipla (AISM, 1968), Famiglieitaliane associate per la difesa dei diritti degli audiolesi (FIADDA, 1973), il Fronte radicaleinvalidi (1976, poi Lega arcobaleno), la Lega nazionale per il diritto al lavoro degli handicappati(1979), l’Associazione italiana paraplegici (1979), la Lega per i diritti degli handicappati(LEDHA, 1979) e l’Associazione italiana per le persone down (AIPD, 1979).

19 Nascono negli anni Ottanta Federhand per le associazioni campane, il Coordinamento sanità eassistenza per le associazioni piemontesi (poi Consulta delle persone in difficoltà), il Comitatounitario invalidi per le associazioni toscane e il Coordinamento H per le associazioni siciliane.Negli anni Novanta nascono inoltre due grandi federazioni, la Federazione italiana per ilsuperamento dell’handicap (FISH, 1993) e la Federazione tra le associazioni nazionali dei disabili(1997).

20 Nascono il Consiglio nazionale sulla disabilità (CND), all’interno dell’European DisabilityForum, e il Consiglio italiano dei disabili per i rapporti con l’Unione europea (CIDUE).

11

5. L’importanza rivestita dall’associazionismo per la tutela dei diritti delle

persone con disabilità emerge in modo evidente anche dalla Convenzione

delle Nazioni Unite del 2009. La Convenzione rappresenta il punto di

arrivo di decenni di lavoro da parte delle Nazioni Unite volti a cambiare

l’approccio generale in tema di disabilità: anziché come “oggetto” di carità,

trattamenti medico-sanitari e protezione sociale, bisogna guardare alle

persone con disabilità come “soggetti” attivi titolari di specifici diritti, in

grado di reclamarne il riconoscimento e la garanzia, di assumere decisioni

in base ad un consenso libero e informato e di partecipare in prima

persona alla vita della propria società22. Il negoziato viene effettuato da un

Comitato ad hoc dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ad esso

partecipano le più importanti associazioni rappresentative internazionali,

singole persone con disabilità e loro familiari. Si assiste dunque alla

collaborazione tra governi e associazioni, elemento nuovissimo e di

grande significato, la cui importanza viene sottolineata dalla stessa

Convenzione23. Fondamentale a tale proposito è l’articolo 4, comma 3, il

quale sancisce in capo agli Stati Parti l’obbligo di coinvolgere attivamente

le persone con disabilità, anche e soprattutto attraverso le proprie

21 Così M. SCHIANCHI, Storia della disabilità cit., pp. 14-15, 220-229. Cfr. anche V. PANUCCIO,Volontariato, in Enciclopedia del diritto, XLVI, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 1083-1084 e A.MARRA, Diritto e disability studies cit.

22 Così UNITED NATIONS ENABLE, Convention on the Rights of Persons with Disabilities, un.org.,N. FOGGETTI, Diritti umani e tutela delle persone con disabilità: la Convenzione delle NazioniUnite del 13 dicembre 2006, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, 2009, fasc.33, p. 105, G. GRIFFO, Le ragioni della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delleNazioni Unite, in O. OSIO, P. BRAIBANTI (a cura di), Il diritto ai diritti. Riflessioni eapprofondimenti a partire dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Milano,2012, pp. 39, 41-42, F. SEATZU, La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle personedisabili: diritti garantiti, cooperazione, procedure di controllo, in Diritti umani e dirittointernazionale, 2009, fasc. 2, p. 277 e G. GRIFFO, Conclusioni. Le prospettive di cambiamentointrodotte dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, in O. OSIO, P. BRAIBANTI (acura di), Il diritto ai diritti cit., p. 241.

23 «Considerando che le persone con disabilità dovrebbero avere l’opportunità di essere coinvolteattivamente nei processi decisionali relativi alle politiche e ai programmi, inclusi quelli che liriguardano direttamente», così Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone condisabilità, Preambolo, lettera o).

12

organizzazioni rappresentative24. Si afferma il ruolo fondamentale della

società civile per la garanzia dei diritti: i cittadini degli Stati Parti, tra cui in

particolare le persone con disabilità e le loro associazioni, devono essere

coinvolti nel processo di monitoraggio relativo all’attuazione della

Convenzione, a livello sia nazionale che internazionale25.

L’Italia ha sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite il 30 marzo

2007, data nella quale essa è stata aperta alla firma, e il Parlamento

italiano l’ha ratificata all’unanimità il 3 marzo 2009, data a partire dalla

quale essa ha acquisito pertanto forza vincolante26. La ratifica consente

per la prima volta un’applicazione organica dell’articolo 3 della

Costituzione in tutti gli ambiti in cui si esplica l’esistenza della persona con

disabilità, tanto che la Corte costituzionale ha affermato che tutta la

legislazione nazionale in materia debba essere riletta alla luce della

Convenzione27.

La legge di ratifica n. 18 del 2009 prevede, all’articolo 3 e in attuazione

dell’articolo 33 della Convenzione28, l’istituzione dell’Osservatorio

nazionale sulla condizione delle persone con disabilità29, presieduto dal

ministro del Lavoro e delle Politiche sociali e composto per circa metà da

24 «Nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche da adottare per attuarela presente Convenzione, così come negli altri processi decisionali relativi a questioni concernentile persone con disabilità, gli Stati Parti operano in stretta consultazione e coinvolgono attivamentele persone con disabilità, compresi i minori con disabilità, attraverso le loro organizzazionirappresentative», Ibid., articolo 4, comma 3.

25 «La società civile, in particolare le persone con disabilità e le loro organizzazionirappresentative, è associata e pienamente partecipe al processo di monitoraggio», Ibid., articolo33, comma 3. G. GRIFFO, Le ragioni della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, inO. OSIO, P. BRAIBANTI (a cura di), Il diritto ai diritti cit., p. 44, M. BUCCIARELLI, C. CELLAI,Diritti delle persone con disabilità: La Convenzione Onu e il suo recepimento, in Quaderni ditecnostruttura, , Milano, 2009, fasc. 34, p. 148 e G. GRIFFO, Conclusioni cit., pp. 242, 246.

26 Così Così I. MENICHINI in La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità eL’Osservatorio nazionale sulla disabilità e la Convenzione in Italia, Voxdiritti.it, Osservatorioitaliano sui diritti, M. SCHIANCHI, Storia della disabilità cit., p. 237, A. MARRA, La protezione deiminori con disabilità in Italia dopo la Convenzione delle Nazioni Unite del 2006, inMinorigiustizia, 2010, fasc. 3, p. 25 e M. BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti delle persone condisabilità cit., pp. 145-146.

27 Corte cost., sent. 26 febbraio 2010, n. 80. Cfr. G. GRIFFO, Conclusioni cit., pp. 241-242 e M.BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti delle persone con disabilità cit., p. 149.

13

rappresentanti di amministrazioni centrali, regionali e locali e da esperti in

materia, e per l’altra metà da rappresentanti delle associazioni

rappresentative e dalle parti sociali.

Si tratta di un organismo consultivo e di supporto tecnico-scientifico per

l’elaborazione delle politiche nazionali in materia di disabilità30.

L’Osservatorio ha il compito di promuovere l’attuazione della Convenzione

delle Nazioni Unite; di predisporre un programma di azione biennale per la

garanzia dei diritti e l’integrazione sociale delle persone con disabilità; di

effettuare indagini statistiche, studi e ricerche; infine, di redigere una

relazione sullo stato di attuazione delle politiche in materia di disabilità31.

All’interno dell’Osservatorio viene costituito un Comitato tecnico-

scientifico, con il compito di analizzare e indirizzare l’attività svolta

dall’Osservatorio stesso32.

28 «Gli Stati Parti designano, in conformità al proprio sistema di governo, uno o più punti dicontatto per le questioni relative all’attuazione della presente Convenzione, e si propongono dicreare o individuare in seno alla propria amministrazione una struttura di coordinamento incaricatadi facilitare le azioni legate all’attuazione della presente Convenzione nei differenti settori ed adifferenti livelli. Gli Stati Parti, conformemente ai propri sistemi giuridici e amministrativi,mantengono, rafforzano, designano o istituiscono al proprio interno una struttura, includendo unoo più meccanismi indipendenti, ove opportuno, per promuovere, proteggere e monitorarel’attuazione della presente Convenzione», così Convenzione delle Nazioni Unite cit., articolo 33,comma 1 e 2.

29 «Allo scopo di promuovere la piena integrazione delle persone con disabilità, in attuazione deiprincipi sanciti dalla Convenzione di cui all’articolo 1, nonché dei principi indicati nella legge 5febbraio 1992, n. 104, è istituito, presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politichesociali, l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità», così Legge 3marzo 2009, n. 18, articolo 3, comma 1.

30 Così Decreto Interministeriale 6 luglio 2010, n. 167, articolo 1.

31 «L'Osservatorio ha i seguenti compiti: a) promuovere l’attuazione della Convenzione di cuiall’articolo 1 ed elaborare il rapporto dettagliato sulle misure adottate di cui all’articolo 35 dellastessa Convenzione, in raccordo con il Comitato interministeriale dei diritti umani; b) predisporreun programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone condisabilità, in attuazione della legislazione nazionale e internazionale; c) promuovere la raccolta didati statistici che illustrino la condizione delle persone con disabilità, anche con riferimento allediverse situazioni territoriali; d) predisporre la relazione sullo stato di attuazione delle politichesulla disabilità, di cui all'articolo 41, comma 8, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, comemodificato dal comma 8 del presente articolo; e) promuovere la realizzazione di studi e ricercheche possano contribuire ad individuare aree prioritarie verso cui indirizzare azioni e interventi perla promozione dei diritti delle persone con disabilità», Legge 3 marzo 2009, n. 18 cit., articolo 3,comma 5.

14

All’attività svolta dalle associazioni in seno all’Osservatorio va poi aggiunta

quella svolta in seno alla Conferenza nazionale sulle politiche per la

disabilità, che ha visto svolgersi, nel luglio 2013 il IV incontro. Tale

conferenza è stata istituita dalla legge n. 162 del 1998, che inserendo l’art.

41 bis all’interno la legge n. 104 del 1992, stabilisce che ogni tre anni

venga convocata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali una

Conferenza nazionale, alla quale partecipano soggetti pubblici, privati e

del privato sociale che operano nel campo dell’assistenza e

dell’integrazione delle persone con disabilità. Le conclusioni di tale

Conferenza sono trasmesse al Parlamento, il quale potrà poi operare

eventuali correzioni della legislazione vigente33. La Conferenza

rappresenta il momento di incontro delle istituzioni con le associazioni, gli

operatori e gli esperti in tema di disabilità, i quali si confrontano sullo stato

di attuazione delle politiche in materia e definiscono gli interventi da porre

in essere per il futuro.

La Conferenza nazionale svoltasi a Bologna nel luglio del 2013 ha di fatto

consacrato il ruolo sinergico dei due organi: in quella sede si è infatti

presentato il Programma d’azione per la promozione dei diritti e

l’integrazione delle persone con disabilità, elaborato dall’Osservatorio

nazionale e avente come punto di riferimento il Primo rapporto delle

Nazioni Unite. Partendo dall’analisi delle persistenti criticità nella

normativa in materia di disabilità, il Programma individua gli obiettivi

prioritari del prossimo biennio e gli strumenti volti a conseguirli34.

32 «Nell’ambito dei componenti di cui all'articolo 2 del presente decreto, è costituito un Comitatotecnico-scientifico con finalità di analisi ed indirizzo scientifico in relazione alle attività ed aicompiti dell'Osservatorio», Ibid., articolo 3, comma 1. Relativamente all’Osservatorio nazionaleM. SCHIANCHI, Storia della disabilità cit., p. 237, I. MENICHINI, L’Osservatorio nazionale cit., V.VADALÀ in La tutela delle disabilità, , Milano, 2009, p. 55, N. FOGGETTI, Diritti umani cit., pp.116-117, G. GRIFFO, Conclusioni cit., pp. 242-243 e M. BUCCIARELLI, C. CELLAI, Diritti dellepersone con disabilità cit., p. 146.

33 Così Legge 5 febbraio 1992, n.104, articolo 41-bis.

15

6. Ancora una volta, dunque, è possibile percepire il ruolo fondamentale

rivestito dalle associazioni rappresentative per la tutela e il godimento

effettivi dei diritti da parte delle persone con disabilità.

Da più parti si è spesso evidenziata l’importanza del ruolo che i privati cittadini e le

organizzazioni del Terzo settore possono svolgere ai fini della realizzazione degli obiettivi di cui agli

articoli 2 e 3, comma 2 della Costituzione35, soprattutto alla luce della riforma intervenuta nel 2001,

che ha introdotto in Costituzione, attraverso il comma 4 dell’articolo 118, il c.d. “principio di

sussidiarietà orizzontale”. La Corte costituzionale, già nella sentenza n. 75/1992, ha affermato che

il volontariato costituisce «la più diretta realizzazione del principio di solidarietà

sociale […] Si tratta di un principio che […] è posto dalla Costituzione tra i

valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente

riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2

della Carta costituzionale come base della convivenza sociale

normativamente prefigurata dal Costituente»36.

All’interno di tale contesto, pertanto, è possibile affermare che nel nostro

Paese sia da sempre particolarmente forte la connessione che intercorre

tra le organizzazioni del Terzo settore37, tra cui le associazioni

rappresentative38, e la tutela degli interessi dei soggetti “più deboli”39,

tutela che costituisce proprio la principale ragione dell’esistenza stessa di

tali organizzazioni.40 Alcuni autori hanno parlato, a tale proposito, del passaggio dal binomio

pubblico – privato al trinomio pubblico – privato – civile, ad indicare lo sviluppo della c.d. “economia

34 Come evidenziato da I. MENICHINI, Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità,Voxdiritti.it, Osservatorio italiano sui diritti, il programma afferma la necessità di riformare ilsistema di certificazione della disabilità, così come il sistema socio-sanitario nel suo complesso, edil bisogno di interventi più incisivi in tema di lavoro, autonomia ed inclusione sociale, accessibilitàe mobilità, istruzione scolastica, salute e riabilitazione, cooperazione internazionale. Numerosiinterventi individuati dal Programma non necessitano di ulteriori investimenti, bensì di unarevisione delle politiche, delle normative e dei procedimenti in tema di disabilità.

35 E. VIVALDI, Introduzione, in E. VIVALDI (a cura di), Disabilità e sussidiarietà. Il “dopo di noi”tra regole e buone prassi, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 15-26, R. A. CERVELLIONE, La tutela deidiritti dei disabili durante i momenti di crisi economica, in M. D’AMICO – G. ARCONZO,Università e persone con disabilità cit., pp. 133-134, G. RAZZANO, Lo “statuto” costituzionale deidiritti sociali cit., pp. 41-42, E. ROSSI, I diritti sociali nella prospettiva della sussidiarietàverticale e circolare, in E. VIVALDI (a cura di), Disabilità e sussidiarietà cit., p. 46, A. SIMONCINI,Le “caratteristiche costituzionali” del terzo settore ed il nuovo Titolo V della Costituzione cit., pp.705-710, 726-730 e V. PANUCCIO, Volontariato cit., pp. 1084-1085.

36 Così Corte cost., sent. 28/02/1992, n. 75, considerato in diritto, n. 2.

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civile di mercato”, la quale, pur agendo all’interno del mercato, tuttavia non è guidata dallo scopo

capitalistico del profitto41.

L’importanza del Terzo settore, peraltro, è stata di recente sottolineata anche da parte delle

istituzioni europee. Nella Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia

sociale si afferma che «l’economia sociale, unendo redditività e solidarietà, svolge un ruolo

essenziale nell’economia europea, permettendo la creazione di posti di lavoro di qualità e il

rafforzamento della coesione sociale, economica e territoriale, generando capitale sociale,

promuovendo la cittadinanza attiva, la solidarietà e una visione dell’economia fatta di valori

democratici e che ponga in primo piano le persone, nonché appoggiando lo sviluppo sostenibile e

l’innovazione sociale, ambientale e tecnologica»42.

In conclusione, la sentenza del TAR Lazio deve essere salutata

positivamente perché essa valorizza molto bene il ruolo indispensabile

delle associazioni rappresentative, riconosciuto peraltro dalla stessa

Costituzione all’articolo 2. Inoltre, tale decisione si pone in linea con la recente

37 «Sintetizzando [...] la definizione di “lavoro” del termine “terzo settore”, con esso indicheremoquegli organismi collettivi, dalla diversificata forma giuridica, operanti per finalità nonspeculative, in cui, cioè, il profitto individuale non è lo scopo diretto e principale dell’azionesociale», così A. SIMONCINI, Le “caratteristiche costituzionali” del terzo settore ed il nuovo TitoloV della Costituzione, in Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni sociali. Scritti in memoria diPaolo Barile, , Padova, 2003, p. 701. Ed anche: «Il dato comune del Terzo settore è costituito dalcarattere privatistico delle entità che lo compongono, dal loro operare per finalità socialmenterilevanti e per la valutazione positiva dell’ordinamento nei loro confronti, che si traduce in varieagevolazioni», così L. MENGHINI, Volontariato e gratuità del lavoro, in Enciclopedia del diritto,Annali VI, Milano, 2013, p. 1038.

38 Tali associazioni si caratterizzano per lo “scopo di solidarietà”, il quale viene definito «sia comeparticolare destinazione dei risultati dell’attività posta in essere, sia, più in generale, comeparadigma di azione di alcune formazioni sociali all’interno di ogni settore della vita collettiva»,così A. SIMONCINI, Le “caratteristiche costituzionali” del terzo settore ed il nuovo Titolo V dellaCostituzione cit., p. 703. Cfr. anche L. MENGHINI, Volontariato e gratuità del lavoro cit., pp. 1038-1039 e V. PANUCCIO, Volontariato cit., pp. 1086-1087.

39 Il Terzo settore conta oltre 235 mila organizzazioni non profit, ovverosia il 5,4% di tutte leunità istituzionali, circa 488 mila lavoratori, ovverosia il 2,5% del totale degli addetti, infine, 4milioni di persone coinvolte in veste di volontari. Dal punto di vista del valore economico, ilvolume di entrate è stimato attorno ai 67 miliardi di euro, pari al 4,3% del Pil. Dati ricavati daISTAT, Istituto Nazionale di Statistica, Istat.it.

40 Così E. ROSSI, I diritti sociali nella prospettiva della sussidiarietà verticale e circolare cit., pp.47-48.

41 Tra gli altri, B. CARAVITA, Oltre l’eguaglianza formale. Un’analisi dell’art. 3, comma 2 dellaCostituzione, Padova, 1984, p. 90 e S. ZAMAGNI, Introduzione: slegare il Terzo settore, in S.ZAMAGNI (a cura di), Libro bianco sul Terzo settore, , Bologna, 2011, p. 22. Cfr. anche G.RAZZANO, Lo “statuto” costituzionale dei diritti sociali cit., pp. 38-39 e E. ROSSI, I diritti socialinella prospettiva della sussidiarietà verticale e circolare cit., pp. 46-47.

42 Così Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia sociale, Considerazionigenerali, n. 1.

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giurisprudenza della Corte costituzionale da un duplice punto di vista: nell’affermare che la

pubblica amministrazione non possa escludere determinate associazioni

rappresentative dalle commissioni di verifica della presenza della

invalidità, il giudice amministrativo sembra avere ben presente il principio

fatto proprio dalla Corte costituzionale secondo cui le disabilità sono

diverse e necessitano di trattamenti diversi43.

Di qui la necessità, pena la discriminazione nei confronti delle persone

affette da alcune tipologie di disabilità e ai fini della realizzazione della

parità di trattamento e del rispetto del principio di eguaglianza di cui

all’articolo 3 della Costituzione44, di medici specializzati nella diagnosi e

nella cura di determinate patologie all’interno delle commissioni di verifica.

**Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Milano

43 «I disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità:alcune hanno carattere lieve ed altre gravi. Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuaremeccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risultiessere affetta in concreto una persona», così Corte cost., sent. 80/2010 cit., considerato in diritto, n.3.

44 Va ricordato anche che la Corte costituzionale ha altresì affermato che la grave congiunturaeconomica non può giustificare provvedimenti che intacchino i diritti delle persone con disabilità nel loro“nucleo essenziale” (cfr. ancora sent. 80 del 2010) o che pongano in essere deroghe al principio dieguaglianza (cfr. Corte cost., sent. 11 ottobre 2012, n. 223, secondo cui «l’eccezionalità della situazioneeconomica che lo Stato deve affrontare è […] suscettibile senza dubbio di consentire al legislatoreanche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimentodegli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano.Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principifondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtàeconomica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio diuguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale».

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Non desiderare i figli d’altri?*

(nota a Tribunale Civile di Roma, ordinanza 8 agosto 2014, Giud. S. Albano).

di Luigi D’Angelo**

Sommario: 1) Premessa: 2) Spunti di riflessione: principio di autodeterminazione econflitto tra maternità gestazionale e maternità genetica.

1. Premessa

Il provvedimento in commento ha statuito riguardo ad una vicenda del tutto peculiarenell’attuale panorama giuridico ma che non può escludersi possa nuovamente riproporsinelle aule giudiziarie alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale 9 aprile-10giugno 2014 n. 162 che, come noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei precettilegislativi contemplanti il divieto della c.d. fecondazione eterologa e contenuti nella legge19 febbraio 2004 n. 40 recante “Norme in materia di procreazione medicalmenteassistita”1.

Nel caso di specie, infatti, per un errore della struttura sanitaria, si è posta in essere unatecnica di fecondazione eterologa conseguente ad uno scambio di embrioni in vitrogenerati con gli ovociti ed il seme di due coppie che, invero, si erano rivolte all’enteospedaliero in ragione di problematiche riproduttive ed al fine specifico di realizzare un“progetto di maternità” mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita (PRA) ditipo omologo.

Per un fatale errore umano, tuttavia, i due embrioni formati con il patrimonio genetico dellecoppie sono stati impiantanti nell’utero “sbagliato” con la conseguenza che si è prodottauna gravidanza - non essendo andato a buon fine l’altro erroneo impianto - giunta atermine con la nascita di due gemelli geneticamente appartenenti, appunto, all’altracoppia.

Di qui, semplificando, la necessità per il giudicante di bilanciare due interessi in conflittonell’ottica altresì della tutela dei minori: quello manifestato della madre partoriente e dalrispettivo coniuge di essere considerati genitori dei nati ad ogni effetto di legge e quellomanifestato dall’altra coppia di vedersi riconsegnati i bambini - o comunque di instaurarecon i medesimi un rapporto affettivo anche mediante il riconoscimento di un “diritto divisita” - in quanto, appunto, genitori genetici.

Il Tribunale di Roma, all’esito di un dotto ma non condivisibile percorso argomentativotracciato sulla scorta delle norme del codice civile in materia di filiazione per come ancherecentemente modificate nonché esaltando la centralità dell’interesse del minore, hastatuito circa il carattere recessivo della verità genetica rispetto alla verità “naturale” (lagestazione) affermando che “Il legislatore ha accolto il principio in base al quale la tutela

*La nota è pubblicata anche in Persona e danno.1 Per una ricostruzione delle vicende e delle ragioni che hanno portato a sollevare la questione di costituzionalità,RAPISARDA, Il divieto di fecondazione eterologa: la parola definitiva alla Consulta , in Nuova Giur. Civ., 2013, 10, 912;D’AMICO, La fecondazione eterologa ritorna davanti la Corte Costituzionale, in Corr. Giur., 2013, 6, 745.

del diritto allo status ed alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza dellaverità genetica”.

Soggiunge l’ordinanza che “Il diritto della personalità costituito dal diritto all’identità apparesempre più sganciato dalla verità genetica della procreazione e sempre più legato almondo degli affetti ed al vissuto della persona cresciuta ed accolta all’interno di unafamiglia”.

Per l’effetto, pertanto, è stato rigettato il ricorso d’urgenza dei genitori genetici come anchele loro istanze circa la necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionaledelle vigenti norme del codice civile in materia di filiazione nella parte in cui nonconsentono un’azione diretta a “invalidare” lo status acquisito dai due gemelli con lanascita.

Sul punto si legge nell’ordinanza che “…riconoscendo la prevalenza della madre geneticae quindi ritenendo rilevante la questione di costituzionalità sollevata, si attribuirebbelegittimità giuridica ad una coattiva maternità di sostituzione, con la rinuncia imposta ad unfiglio che pure la madre biologica ha condotto alla vita. Soluzione che è totalmenteinconciliabile con il diritto della donna che ospita il feto all’intangibilità del suo corpo e,pertanto, ad assumere ogni decisione in ordine alla sua gravidanza, nonché gravementelesiva della dignità umana della gestante”.

I precetti ordinamentali che hanno portato il Tribunale a ritenere prevalenti, nellaprospettiva della instaurazione del rapporto di filiazione, gli interessi della donnapartoriente e del rispettivo coniuge rispetto all’interesse vantato dalla coppia ricorrentecirca il ripristino della filiazione/verità genetica, sono stati individuati, tra l’altro, negli artt.269, comma 3, c.c. e 231 c.c..

Osserva il giudicante, infatti, che “Il nostro sistema normativo prevede che “la maternità èdimostrata provando la identità di colui che pretende di essere figlio e di colui che fupartorito dalla donna, la quale si assume essere madre” (art 269, comma 3, c.c.).Tale norma è stata introdotta con la riforma del 1975 quando ancora le tecniche diprocreazione assistita erano agli albori, ma è pur vero che la sua formulazione è statamantenuta dal legislatore della riforma della filiazione di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013 …Non può negarsi, quindi, la volontà del legislatore, molto recente, di mantenerequale principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale legata al fatto storicodel parto”.

Parimenti, evidenzia il Tribunale “Nel caso in cui la donna gestante, unita in matrimonio,dichiari nell’atto di nascita il figlio come nato durante il matrimonio, il marito ne diviene ilpadre legale (art. 231 c.c., come modificato dal D.Lgs n. 154/2013 che ha soppressol’inciso “concepito” durante il matrimonio). Peraltro, in presenza dello status di figlio di altrapersona (il marito della donna gestante), il padre genetico non può promuovere l’azione didisconoscimento…”

Da tali dati positivi che assegnano prevalenza alla maternità gestazionale - rispetto aquella genetica - il Tribunale sviluppa ulteriormente le proprie argomentazioni facendo

discendere dai precetti codicistici citati un favor ordinamentale, non esclusivamente difonte interna, riguardo la stabilità dei rapporti familiari affettivi: si evidenzia in fatti che“Tutte le più recenti pronunce dei giudici interni o europei che si sono trovate a doverdirimere interessi in conflitto relativi al rapporto di filiazione, sono fondate sulla valutazionedel dato concreto del legame affettivo familiare ed hanno come punto di riferimentol’interesse del minore (secondo quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti dell’Infanziaapprovata dalle Nazioni Unite il 20.11.1989 e ratificata in Italia dalla L. n. 176/91) ed ilprincipio di “autoresponsabilità” che deve sottendere al rapporto genitoriale, che trova ilproprio fondamento nell’obbligo di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione,mettendo, quindi, seriamente in discussione il principio del carattere necessariamentebiologico o genetico del rapporto di filiazione”.

Sembra tuttavia - e qui si appuntano gli elementi di criticità della decisione in commento -che il vigente dato positivo per come anche interpretato dalle pronunzie pretorie richiamatedal giudice romano, intanto può portare a privilegiare, nell’ottica del consolidamento delrapporto di filiazione, la verità biologica (ovvero la maternità gestazionale) rispetto allaverità genetica in quanto, a monte, siano comunque rispettati poziori interessicostituzionalmente garantiti e, segnatamente, il diritto ex art. 2 Cost. allaautodeterminazione della persona (nella specie, quello dei genitori genetici) circa le sortidel rispettivo e personalissimo patrimonio genetico.

2. Spunti di riflessione: principio di autodeterminazione e conflitto tra maternità gestazionale e maternità genetica.

Procedendo con ordine occorre menzionare talune fondamentali disposizioni di cui allalegge 19 febbraio 2004 n. 40 da leggere, peraltro, anche alla luce della sentenza dellaConsulta n. 162/2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di ricorrere atecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

Si tratta dell’art. 8, rubricato “Stato giuridico del nato” e dell’art. 9, rubricato “Divieto deldisconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre”.

Ai sensi della prima disposizione “I nati a seguito dell’applicazione di tecniche diprocreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figliriconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecnichemedesime…”; ovviamente per effetto della menzionata sentenza della Consulta n.162/2014 il riferimento testuale alle “tecniche di procreazione medicalmente assistita” deveessere oggi inteso come riferito anche alle tecniche di PRA di tipo eterologo2.

2 In tal senso si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza 9 aprile-10 giugno 2014 n. 162 laddove alpunto 11.1. afferma che “La constatazione che l’art. 8, comma 1, di detta legge contiene un ampioriferimento ai «nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita», inconsiderazione della genericità di quest’ultima locuzione e dell’essere la PMA di tipo eterologo una speciesdel genus, come sopra precisato, rende, infatti, chiaro che, in virtù di tale norma, anche i nati da quest’ultimatecnica «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso lavolontà di ricorrere alle tecniche medesime»”.

Il secondo citato precetto (art. 9) recita al comma 3 che “In caso di applicazione ditecniche di tipo eterologo … il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazionegiuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto…”.

Orbene, il caso specifico portato alla cognizione del Tribunale di Roma vedeva in concretorealizzata una procreazione medicalmente assistita sicuramente non di tipo “omologo”bensì di tipo “eterologo” seppure giustamente definita dalla decisione in nota come unafecondazione “eterologa da errore” essendo invero la finalità delle due coppie, rivoltesi allastruttura sanitaria, quella di effettuare una fecondazione “omologa”.

Ecco allora che nella specie viene in rilievo una fondamentale distinzione tra unafecondazione eterologa “consensuale” - quella oggetto di considerazione da parte dellalegge 19 febbraio 2004 n. 40 - ed una fecondazione eterologa “da errore”, propria del casoaffrontato dal provvedimento in commento, laddove comunque si è posta in essere unatecnica di procreazione medicalmente assistita che della fecondazione eterologa, sulpiano oggettivo, ha tutti i requisiti: provenire il materiale genetico impiantato nell’utero delladonna da soggetti “esterni” alla coppia.

Se detta premessa appare corretta ne deve discendere, per l’effetto, l’inapplicabilità alcaso di specie dei due precetti della legge n. 40 sopra richiamati che, sulla falsa riga diquanto previsto dalle norme del codice civile, assegnano prevalenza, quantoall’instaurazione del rapporto di filiazione, all’interesse della madre gestazionale (erispettivo coniuge) rispetto all’interesse del genitore genetico (involontario “donatore”).

Quello che si intende sottolineare è che la legge n. 40, anche per come ad oggi vigente aseguito degli interventi della Consulta, ha in effetti ab initio preso posizione sui possibiliconflitti tra genitori naturali e genitori genetici, risolvendo gli stessi nell’ottica di unnecessario bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti3.

Sicuramente tale è la disposizione di cui all’art. 9, comma 3, ai sensi della quale “ In casodi applicazione di tecniche di tipo eterologo il donatore di gameti non acquisisce alcunarelazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcundiritto…”: qui il conflitto in argomento è risolto dal legislatore “a monte” disconoscendosi, inlinea peraltro con le norme del codice civile in materia di filiazione, ogni diritto sul nato incapo al genitore genetico/donatore.

Allo stesso modo il conflitto viene risolto dall’altra disposizione sopra richiamata ovverodall’art. 8 ai sensi della quale “I nati a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazionemedicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dallacoppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime…”; poiché dettadisposizione trova applicazione anche per i casi di PRA eterologa, ciò per effetto dellacitata sentenza della Consulta n. 162/2014, la norma de qua anch’essa assume unavalenza risolutiva di eventuali conflitti tra genitori naturali e genitori genetici, assegnandosi

3 Recita l’art. 1 della legge 19 febbraio 2004 n. 40: “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttividerivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmenteassistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti isoggetti coinvolti, compreso il concepito”.

prevalenza, quanto alla instaurazione del rapporto di filiazione, ai primi (sempre in lineacon le disposizioni del codice civile).

Ciò che però non deve sfuggire all’interprete è che dette norme di bilanciamento per leipotesi di un eventuale conflitto di interessi tra i genitori naturali e i genitorigenetici/donatori, subordinano il prevalere delle istanze dei primi sui secondi e dunque laradicazione del rapporto di filiazione, al sussistere, sempre e comunque, del consensopreventivo di quest’ultimi.

Nella misura in cui l’art. 9, comma 34, pone il principio per cui “In caso di applicazione ditecniche di tipo eterologo il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridicaparentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto…” il legislatore haappunto presupposto l’esistenza di un “donatore” ovvero di un soggetto che presta unespresso consenso alla preventiva rinunzia, in favore di terzi, del rispettivo patrimoniogenetico.

Lo stesso art. 8, per come innovato quanto ad ambito di applicazione ovvero comeriferibile anche alla fecondazione eterologa, fonda sul consenso di tutte le parti coinvoltel’operare della regola di prevalenza della maternità gestazionale (a scapito di quellagenetica): non basta cioè soltanto il consenso della coppia che decide di ricorrere allafecondazione eterologa ma occorre anche quello del soggetto o dei soggetti “donatori”.

In altri termini i precetti della legge n. 40 parrebbero aver inverato sul piano del dirittopositivo uno dei postulati del principio di autodeterminazione della persona nel campo deldiritto ad abdicare al proprio patrimonio genetico: soltanto a fronte di un consensovalidamente prestato potranno operare le regole, di rango legislativo, circa la prevalenzadella verità naturale su quella genetica5, ciò con i conseguenti effetti circa il radicamentodel rapporto di filiazione.

Non si intende ragionare in un’ottica “proprietaria” ma deve pur tenersi a mente che allaluce delle indicate disposizioni della legge n. 40 parrebbe essere sempre e soltanto ilconsenso di tutte le parti coinvolte - anche in tema di fecondazione eterologa chepresuppone appunto un “donatore” - a costituire il presupposto dell’operare le regolepositive disciplinanti il conflitto tra genitore naturale e genitore genetico in punto diinstaurazione del rapporto di filiazione.

In sintesi, da una lettura a contrario della norma fondamentale di cui all’art. 9, comma 3,legge n. 40, discende che in assenza di un consenso validamente prestato ovvero inassenza di un soggetto “donatore” rectius in assenza di un suo preventivo atto abdicativodel rispettivo patrimonio genetico, è quest’ultimo che appare legittimato ad acquisire con il

4 Disposizione in parte dichiarata incostituzionale dalla sentenza della Consulta n. 162/2014 limitatamentealle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3».5 Anche la Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 162/2014 opera un diretto riferimento al principio diautodeterminazione nella materia de qua: si legge al punto 6) che “Deve anzitutto essere ribadito che lascelta di tale coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisceespressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte haaffermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poichéconcerne la sfera privata e familiare”

nato una relazione giuridica parentale e far valere nei suoi confronti i relativi diritti che,appunto, non possono che essere quelli previsti dalla norme in materia di filiazione.

In via interpretativa parrebbe dunque potersi enucleare il seguente principio discendentedalle richiamate disposizioni della legge n. 40: il titolare del patrimonio genetico che nonabbia preventivamente e irrevocabilmente assentito atti dispositivi dello stesso “in favore”di terzi non può essere escluso dal rapporto di filiazione.

Il coordinamento sistematico delle norme della legge n. 40 con quelle codicistiche inmateria di filiazione potrebbe allora condurre a soluzione esegetiche del tutto antipodicherispetto a quella di cui alla decisione in nota.

Fermo restando, peraltro, il prevalere delle disposizioni della legge n. 40, quale leggespeciale, rispetto alle norme codicistiche in parte qua.

Si badi, infine, che lo stesso Tribunale di Roma non disconosce la primazia dellemanifestazioni di volontà dei soggetti coinvolti nelle ipotesi di avvenuto trasferimento aterzi del proprio materiale genetico.

Al riguardo il giudicante afferma che “… nelle ipotesi nelle quali si è data rilevanza allamaternità genetica in luogo di quella biologica (v. C.A. Bari e sentenze CEDU citate), sitrattava di un contratto che, sebbene vietato dall’ordinamento interno, prevedeva lasussistenza del pieno consenso di tutti i soggetti coinvolti, la madre genetica si eraassunta in pieno la responsabilità genitoriale al contrario della madre uterina che avevaconsegnato i figli alla nascita e che tale responsabilità non intendeva proprio assumersi”.

Vero è che il passaggio de quo risulta funzionale ad affermare “l’eccezionalità” delprevalere della maternità genetica rispetto a quella naturale; è vero anche, però, che lepronunzie nazionali e sovranazionali richiamate hanno invero fondato detta prevalenzaproprio sul mancato consenso dei genitori genetici a “spogliarsi” del rispettivo materialegenetico (come avvenuto nella specie).

Ecco allora che il solo consenso manifestato della madre gestazionale (e rispettivoconiuge) a tenere con sé i nati non pare sufficiente per radicare il rapporto di filiazionetanto più nell’ipotesi di espresso dissenso manifestato dai genitori genetici e ciò inossequio alla opzione ermeneutica più sopra divisata e fondata sulle disposizioni dellalegge n. 40.

Insomma e volendo concludere senza alcuna pretesa di neppure approssimativaesaustività pare potersi affermare che il vigente tessuto ordinamentale in materia diinstaurazione del rapporto di filiazione non può giammai obliterare la verità genetica salvoun preventivo e irrevocabile atto di “disposizione” del titolare del patrimonio genetico,attestante una volontà abdicativa della persona nel rispetto del principio personalissimoall’autodeterminazione ex art. 2 Cost. come inverato dalla legge n. 40.

Da ultimo la decisione in commento appare criticabile anche nella misura in cui ha esclusoqualsivoglia “contatto” tra i genitori genetici e i nati e nonostante fosse stata richiestagiudizialmente quantomeno una regolamentazione del “diritto di visita” tale da permettere il

sorgere di un pur minimo legame affettivo: forse proprio la novità della questione ed il suoessere potenzialmente oggetto di contrastanti statuizioni nel prosieguo del percorsogiudiziario intrapreso avrebbe resa opportuna una pronunzia non limitata al solo statuire di“non desiderare i figli d’altri”.

**Magistrato della Corte dei conti.

Elezioni europee 2014: questa volta è diverso

di Marta Cartabia*(25 luglio 2014)

«Questa volta è diverso» è il motto scelto dal Parlamento europeo per leelezioni 2014. E diverse, queste elezioni europee, in qualche misura, sonostate.

Due le principali ragioni per cui l’appuntamento dello scorso maggio èstato atteso e percepito come un passaggio di peculiare rilievo nella storiadell’integrazione europea. In primo luogo, perché si è trattato delle primeelezioni europee dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e le novitàda esso introdotte. In secondo luogo, perché il tema dominante dellaverifica elettorale è stato la crisi economica e finanziaria che da anni hainvestito il continente europeo, producendo effetti gravi e persistenti sullavita di milioni di cittadini.

In questo contesto, l’aspettativa che il rinnovo dell’assembleaparlamentare europea potesse determinare un passo importante - «unapiccola finestra di opportunità storica», come l’ha definita Habermas - nelfaticoso cammino di democratizzazione delle istituzioni europee si trovavaesposta al rischio di risultare frustrata dal prevalere dell’euroscetticismo,vuoi nella forma della mancata partecipazione al voto, vuoi in quelladell’affermarsi dei partiti antieuropei.

Nell’insieme, le elezioni 2014 segnano un progresso nel percorso diconsolidamento della polis europea, anche se non si possono sottacere glielementi di complessità che emergono dalla lettura dei risultati elettorali.

Tra le principali novità istituzionali introdotte con il Trattato di Lisbona,significative sono quelle che riguardano il rafforzamento del ruolo delParlamento europeo nella nomina del presidente della Commissione.Secondo l’art. 17, comma 7 TUE, «Tenuto conto delle elezioni delParlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, ilConsiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone alParlamento europeo un candidato alla carica di presidente della

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Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo amaggioranza dei membri che lo compongono». Questa procedurapotenzia il ruolo del Parlamento europeo nella nomina del Presidente dellaCommissione, in linea di continuità con la progressiva, benché graduale,“parlamentarizzazione” della forma di governo dell’Unione già avviata con itrattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza. Se fino al trattato di Maastrichtla nomina del Presidente della Commissione era rimessa integralmentealla decisione, adottata all’unanimità, dei governi degli Stati membri, oggi ilConsiglio europeo ha mantenuto un potere di proposta, da sottoporre alladecisione del Parlamento, che delibera a maggioranza dei membri che locompongono. Se dunque permane una duplice forma di legittimazionedella figura presidenziale – intergovernativa e parlamentare – il peso dellavoce parlamentare risulta significativamente incrementato in base allanuova procedura di nomina. Da un lato, la candidatura del presidente dellaCommissione necessita di una indicazione dei governi degli Stati membri,anche se il potere di ciascuno di essi è stato significativamenteridimensionato sia dal fatto che la proposta è decisa dal Consiglio amaggioranza qualificata (sin dal trattato di Nizza), sia dal vincolo che oragrava sul Consiglio europeo di tenere «conto delle elezioni del parlamentoeuropeo» e «dopo aver effettuato le consultazioni appropriate», checomprendono anche i gruppi parlamentari; d’altro lato, il Presidenteassume la sua carica in virtù di una vera e propria elezione da parte delParlamento europeo, risultando così rafforzato il suo legame con lavolontà dei cittadini europei, tanto che - sempre secondo l’art. 17, par 7TUE - in caso di mancata elezione del candidato proposto dal Consiglio, laprocedura si ripete a distanza di un mese.

Decisiva per assicurare una effettiva prevalenza del momentoparlamentare in questo procedimento bi-polare, e più in generale perconnotare in senso genuinamente europeo la consultazione elettorale2014, è stata la scelta dei maggiori partiti europei di indicare i rispettivicandidati per la Presidenza della Commissione già durante la campagnaelettorale. Tale scelta si collega indirettamente alla disposizione dell’art.17, par. 7 TUE, che dispone che il Consiglio europeo, nel proporre uncandidato alla Presidenza dell’Unione, deve «tenere conto delle elezionieuropee». Allo scopo di dare effettività a tale previsione la Commissione,in una Comunicazione del 13 marzo 2013, aveva auspicato che i partitirendessero noti tanto i candidati alla carica di presidente della

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Commissione, quanto i rispettivi programmi, in modo da creare un legametra l’elezione dei rappresentati dei cittadini e l’elezione del capodell’esecutivo europeo. Similmente, il Parlamento europeo, in unarisoluzione del 4 luglio 2013, invitava i partiti a collegare la campagnaelettorale a esplicite candidature per la presidenza della Commissione ealla presentazione di programmi politici, specificando che il candidato delpartito europeo che «otterrà la maggioranza dei seggi dovrebbe avere laprima chance» di essere eletto. Ad eccezione dei Conservatori e deiRiformisti europei, tutti i maggiori partiti politici europei hanno indicato ilproprio candidato, rispettivamente nelle persone di Jean- Claude Junckerper il Partito popolare europeo, Martin Schulz per il S&D – ProgressiveAlliance of Socialists and Democrats, Guy Verhofstadt per l’Alleanza deidemocratici e dei liberali per l’Europa, e Alexis Tsipras per la Sinistraunitaria europea/Sinistra verde nordica.

Il confronto mediatico tra i vari candidati svoltosi a più riprese a Bruxellese in varie città europee – significativa in Italia è stata la serata ospitatadall’Istituto universitario europeo nell’ambito della Conference on the Stateof the Union, il 9 maggio 2014 a Palazzo vecchio a Firenze, al cospettodel Capo dello Stato Giorgio Napolitano – ha permesso poi di attirarel’attenzione degli elettori su temi tipicamente europei: dalle strategie peraffrontare la crisi economico-finanziaria, in termini di austerità o di politicheper la crescita e di contrasto della disoccupazione, all’immigrazione, allosviluppo di una politica estera unitaria. Così, grazie alla spontaneadesignazione dei candidati alla presidenza dell’esecutivo europeo da partedei maggiori partiti e grazie al dibattito europeo che intorno ad esse si èanimato, le ultime elezioni hanno segnato effettivamente un momento dinovità, nella misura in cui sono riuscite ad affrancarsi, almeno in parte,dall’orizzonte puramente nazionale entro il quale si sono normalmenteconsumati i precedenti appuntamenti. Per la prima volta le elezioni delmaggio 2014 non si sono ridotte a una pura verifica di mid-term, vòlta aconfermare o a mettere in crisi i governi nazionali in carica. In qualchemisura i cittadini si sono espressi sull’Europa, e non solo sul gradimentodei rispettivi governi nazionali offrendo, tramite il voto, il loro contributo percolmare il deficit politico dell’Unione europea (R. Dehousse e JHH. Weiler)e, indirettamente, per individuare il futuro Presidente della Commissioneeuropea. Da questo punto di vista, dunque, si può ritenere che l’ambizionedel Parlamento europeo di marcare un passaggio storico (anche se non

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epocale) non è andata delusa.

Più complessa e articolata è la valutazione degli esiti elettorali.Il primo dato significativo da registrare è che, a dispetto di molti timori, lapartecipazione dei cittadini al voto non è diminuita, ed è anzi lievementeaumentata, passando dal 43% del 2009 al 43,09 % nel 2014. Si èscongiurato così il rischio più grave, e cioè che i cittadini, astenendosi inmassa dalla consultazione elettorale, esprimessero risentimento edisaffezione alle istituzioni europee in quanto tali, riversando su di esse, atorto o a ragione, le responsabilità del grave disagio sociale generato dalprotrarsi della crisi e permettendo che la crisi travolgesse con sé ilprogetto europeo. Molti commentatori hanno ritenuto significativo il fattoche il tasso di partecipazione elettorale si sia mantenuto costante, con unlieve incremento, proprio nell’occasione in cui la consultazione ha assuntoun significato più marcatamente sovranazionale, nonostante il climaeuroscettico che si respirava in molti ambienti.

Ciò detto, come era largamente prevedibile, nessuno dei partiti haottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, necessaria per assicural’elezione del proprio candidato alla Presidenza della Commissione. Il PPEè stato riconfermato primo partito con 221 seggi, nonostante la perdita disette punti percentuali; il PSE, in crescita anche grazie all’acquisto delPartito democratico (che ha confermato l’alleanza con i socialisti giàsperimentata nel corso della precedente legislatura) che ha assicurato unsignificativo apporto di deputati, ha ottenuto 190 seggi, mentre le altreformazioni sono assai meno numerose (ALDE 59; V-ALE 52; ECR 46;GUE-NGL 45; EFD 38). La frammentazione della composizione politicadell’assemblea rappresentativa europea, unitamente alla risolutaopposizione del governo britannico, ha rallentato la procedura di nominadel Presidente della Commissione. La candidatura di Juncker - designatodal partito di maggioranza relativa - non è stata affatto scontata e ha, anzi,richiesto lunghe trattative tra i governi nazionali prima di essereformalizzata, nonché la previa definizione di un programma di azione chedelineasse una piattaforma di contenuti condivisi, specie in materiaeconomico-finanziaria. A riprova della laboriosità della trattativa, bastiosservare il tempo intercorso tra la celebrazione delle elezioni europee(22-25 maggio), la proposta ad opera del Consiglio europeo (27 giugno) el’elezione (15 luglio) da parte del Parlamento europeo che ha visto, infine,

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il successo del leader di maggioranza relativa, eletto con 422 votifavorevoli, 250 contrari e 47 astenuti.

La faticosa composizione dell’esecutivo europeo, tuttavia, non è ancoragiunta a termine, essendo a tutt’oggi in corso l’individuazione degli altricommissari europei.Pesa, certamente, il successo dei partiti dichiaratamente antieuropei: nonsi può sottovalutare la vittoria del Front National di le Pen in Francia edello UKIP di Farage nel Regno unito, nonché il risultato – ridimensionatorispetto alle aspettative – del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo in Italia.Pesa, certamente, e interroga l’affermazione di queste formazionipolitiche, data la loro complessiva consistenza numerica. Si tratta, tuttavia,di soggetti che esaltano sentimenti nazionalisti ed anti-europei soprattuttoa livello nazionale, e che finora hanno invece mostrato una scarsacapacità di aggregazione reciproca, risultando distribuiti sul territorioeuropeo in modo disomogeneo e presentando scarsi elementi di affinità.

D’altra parte, nel determinare la composizione della Commissione,neppure si può sorvolare sul grande consenso ottenuto a livello nazionaledai partiti di governo tedesco e italiano, il cui peso politico sullo scenarioeuropeo pare in ascesa, tanto che, forte di un esito assai significativo inpatria (40, 81 % dei voti), il Governo italiano (nel momento in cui si scrive)rivendica la prestigiosa e importante carica dell’alto rappresentantedell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, destinatoa guidare la politica estera dell’Unione, che costituisce un terreno su cuil’integrazione necessita di irrobustire la sua azione, anche alla luce delloscenario internazionale, tormentato da numerosi fronti di crisi.

Ancora sospesa, dunque, è la definitiva composizione della Commissioneeuropea, che richiederà che si compongano i desiderata dei governinazionali (e tra questi, in particolare, quelli degli Stati membri che hannoottenuto un più marcato consenso elettorale) con la manifestazione divolontà del Parlamento europeo. Anche per la nomina dei singoliCommissari, infatti, il TUE prevede una complessa procedura che assicurala compartecipazione dei Consiglio e del Parlamento. Ai sensi dell’art. 17,par. 7, infatti, il Consiglio, di comune accordo con il presidente dellaCommissione eletto «adotta l'elenco delle altre personalità che propone dinominare membri della Commissione. Dette personalità sono selezionatein base alle proposte presentate dagli Stati membri». Deve poi seguireuna votazione da parte del Parlamento europeo, al quale spetta approvare

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collettivamente il presidente, l'alto rappresentante dell'Unione per gli affariesteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione. Inogni caso, la nomina effettiva della compagine di governo dell’Unione èrimessa al voto definitivo del Consiglio, il quale nomina infine laCommissione con deliberazione a maggioranza qualificata.

Pertanto, gli snodi principali della formazione del governo dell’Unionepreservano un ruolo significativo tanto all’organo che esprime la volontàdei Governi degli Stati membri, quanto a quello che rappresenta la volontàdei cittadini europei; di conseguenza anche i risultati elettorali da tenerepresenti nelle scelte da operare saranno tanto quelli di livello nazionale,quanto quelli europei, complessivamente considerati.

«Questa volta è diverso» è, dunque, una promessa mantenuta, se lettaalla luce del metodo che ha segnato l’integrazione europea sin dalleorigini, che procede da sempre non per svolte epocali – tanto che itentativi di palingenesi costituzionale non hanno portato buoni frutti –, maper instancabile graduale progresso verso una unione sempre più strettafra i popoli europei.

* giudice della Corte costituzionale

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Salvatore Prisco, Costituzione, diritti umani, forma di governo.Frammenti di un itinerario di studio tra Storia e prospettive -Torino,Giappichelli, 2014, pagg. XVI - 281, Euro 25

Nel libro sicuramente le cose migliori non sono dell’autore, bensì la poesiainiziale e quella finale. Nel merito, ci si è accorti - raccogliendo assiemescritti più antichi e altri recenti e avendo dunque dovuto l’estensore alloscopo rileggerli, per verificarne la “tenuta” a distanza di tempo; i testi dellaseconda e terza parte sono pubblicati in sequenza cronologica, ma nonsono stati cambiati, salvo correggere gli errori di stampa - che c’èun’ipotesi di base a collegarli: il “centrismo” come DNA del sistemapolitico italiano, elemento indispensabile per comprendere ilfunzionamento effettivo della forma di governo. L’espressione va intesanel senso che si registra un’attitudine persistente e di lungo periodo (comeviene documentato nei saggi della prima parte, recenti, benché esplorinocontesti antichi: si veda la parte sul “governo misto” o la riflessione sullacontinuità del trasformismo tra età liberale e fase repubblicana) al formarsicostante di un’area trasversale comunque filo-“governista” e“ministerialista”, il che porta ad attrarre, come una calamita, pezzi dipersonale politico da destra e da sinistra, staccandolo dalle rispettiveestreme ed evitando così la diversa strada del confronto elettoralebipolare, che certo viene affrontato, ma in genere sempre dopo alleanze“miste” e non prima, per legittimare al più solo successivamente un taletipo di competizione. Il bipolarismo italiano dei governi Berlusconi e Prodi e - agli inizidell’esperienza repubblicana - con De Gasperi è schema funzionalerecessivo, perché iper-conflittuale. Per restare all’oggi, per avere ragionedel movimento di Grillo e della Lega (e in minima parte di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale) è occorso il sostanziale accordo degli altri, con unosguardo “benevolo” di opposizioni divenute pro-sistema quand’anchepartite diversamente - Forza Italia e SEL - coinvolte infatti anch’essenell’ennesimo processo di riforme costituzionali e istituzionali attualmenteaperto. Se le condizioni del sistema politico sono allora queste (e la sequenzadell’esperienza Monti - Letta - Renzi sembra confermarlo), è inutile negareche la forma di governo parlamentare a dinamica sostanzialmenteconsociativa ne è lo schema istituzionale che lo contiene più coerente,caratterizzata però da un ruolo particolarmente elastico del Capo delloStato, che “doppia” e stabilizza dall’esterno del continuum Governo-Parlamento la fiducia parlamentare verso governi altrimenti resi comunquetroppo deboli e poco coesi dalla loro necessaria eterogeneità, il che oggiavviene soprattutto per fornire garanzia di stabilità ai nostri alleati stranieri,in Europa e fuori, nonché ai mercati.L’Italia è insomma un Paese sostanzialmente moderato, in cuiun’aggregazione centrale, di volta in volta diversamente caratterizzata ecomunque non omogenea prevale, spiazzando le opposizioni che (diverse

fra loro come sono) non possono “congiungersi” per sorreggere in positivouna proposta alternativa. Di opportuno c’è che è difficile che attecchiscanocon rilievo decisivo fenomeni partitici di segno estremo, come altroveAlba Dorata o il Front National. Quella che precede non è beninteso un’opzione di valore dell’autore,essendo la diagnosi solo il risultato di un’analisi a suo parere realistica

Fabio Dell’Aversana, Le libertà economiche in Internet: competition, net neutrality e

copyright, Roma, Aracne editrice, giugno 2014, pp. 296, ISBN: 978-88-548-7479-4.

Il volume è pubblicato nell’ambito della collana Diritto e Policy dei Nuovi Media diretta dai

proff. Oreste Pollicino e Giovanni Maria Riccio.

Può l’impiego delle nuove tecnologie – in particolare, di Internet – alterare il regime

giuridico previsto in Costituzione per la tutela delle libertà economiche? Esistono degli

obblighi aggiuntivi rispetto a quelli tradizionalmente catalogati nell’ambito del c.d. statuto

generale dell’imprenditore quando l’iniziativa economica è esercitata in Internet? E,

dunque, è utile introdurre una lex specialis che sia applicabile alle sole società operanti sul

world wide web? L’Autore analizza le questioni appena poste ripercorrendo il dibattito sulla

competition online, sul principio della network neutrality e sulla tutela del copyright in

Internet. In particolare, il primo capitolo è incentrato sulla ricostruzione della disciplina

antitrust applicabile alle imprese operanti nella web economy. La soluzione proposta

esclude la configurazione di una zona franca per gli operatori economici, nella misura in

cui suggerisce di regolare Internet tenendo ben presente la ratio giustificatrice del diritto

della concorrenza; inoltre, essa consente all’Autore di sviluppare – in una prospettiva de

jure condendo – una più ampia riflessione sulle categorie generali del diritto antitrust. I

capitoli centrali del lavoro sono dedicati al delicato tema della neutralità della rete. Tutta la

ricostruzione ruota attorno ai seguenti interrogativi: cui prodest una rete a più velocità, che

consenta ai grandi operatori economici di discriminare gli utenti e i content provider in

ragione di valutazioni economiche? Negare la neutralità della rete conduce, forse, a una

sorta di contradictio in adjecto rispetto alle finalità perseguite con lo sviluppo di Internet?

Infine, nell’ultimo capitolo, si affrontano i problemi posti dalla tutela del diritto d’autore sulle

reti di comunicazione elettronica. Dopo aver ricostruito i principali problemi tecnici

connessi alla diffusione telematica delle opere di ingegno, l’Autore conclude sostenendo

l’inopportunità e illegittimità di un sistema normativo che, in virtù di sanzioni meramente

repressive, sia fonte di (irragionevoli) compressioni delle libertà fondamentali interessate

dal tema.

Fabio Dell’Aversana ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in diritto pubblico e

costituzionale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Nel 2010, presso la

medesima Università, ha conseguito con la votazione di 110 e lode la laurea magistrale in

giurisprudenza, discutendo la tesi in istituzioni di diritto privato. Contemporaneamente agli

studi giuridici, ha completato la propria formazione presso il Conservatorio di Musica di

Napoli “San Pietro a Majella” conseguendo, cum laude, i diplomi accademici di primo e

secondo livello in pianoforte. È autore di una monografia e di vari saggi: Le libertà

economiche in Internet: competition, net neutrality e copyright, Roma, 2014 (il volume è

pubblicato nella collana Diritto e Policy dei Nuovi Media diretta dai proff. Oreste Pollicino e

Giovanni Maria Riccio); Il minore: autore dei contratti telematici, in A. Ciancio – G. De

Minico – G. Demuro – F. Donati – M. Villone (a cura di), Nuovi mezzi di comunicazione e

identità: omologazione o diversità?, Roma, 2012 (pubblicato anche in G. De Minico (a cura

di), Nuovi media e minori, Roma, 2012); Nota alla Segnalazione dell’Autorità Garante della

Concorrenza e del Mercato sulle recenti proposte di legge in materia di concorrenza e

liberalizzazioni, in Osservatorio sulle fonti, 2012, 1; L’actio finium regundorum tra le

Autorità Amministrative Indipendenti nella repressione delle pratiche commerciali

scorrette: la posizione del Consiglio di Stato, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2012; Il

“regime patrimoniale” della famiglia di fatto, in Vita notarile, 2012, 2; Segregazione

patrimoniale e famiglia di fatto, in Gazzetta forense, 2012, 3. Dal giugno 2011 collabora

con la rivista Osservatorio sulle fonti, diretta dal prof. Paolo Caretti: in particolare, segue le

attività normative dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dell’Autorità di

Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture. È docente di diritto e

legislazione dello spettacolo presso vari Conservatori di Musica e cultore della materia

presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Contatto dell’Autore: [email protected].


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